dossier
ABUSI EDILIZI
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dicembre 2024 |
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EDILIZIA PRIVATA:
N. Durante,
Lo stato legittimo dell’immobile
(dicembre 2024 - tratto da
tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Il presupposto fondamentale di ogni intervento edilizio è la coincidenza
dello stato di fatto dell’immobile o dell’unità immobiliare, con lo stato
legittimo.
Lo stato legittimo non è un titolo, ma una condizione permanente
dell’immobile (Cons. Stato n. 8339/2023), disciplinata dall’art. 9-bis,
d.P.R. n. 380/2001, recentemente modificato col decreto legge n. 69 del
2024, c.d. “Salva Casa”, convertito dalla legge n. 105 del 2024.
Ciascun immobile e ciascuna unità immobiliare hanno un proprio stato di
fatto, corrispondente al fabbricato com’esso è in natura, ed un proprio
stato legittimo (o stato di diritto), corrispondente a come il fabbricato
dev’essere in base ai titoli presupposti. (...continua). |
settembre 2024 |
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EDILIZIA PRIVATA: L’edificio
abusivo va distrutto. La sua demolizione è un atto di ripristino. Non è una
pena. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo chiude
definitivamente la querelle.
L’ordine di demolizione di una costruzione illegale, previsto dalla legge
italiana, ha natura di ripristino e non punitiva. In sostanza, non è una
pena, ma il restauro della situazione ambientale precedente l’abuso.
Lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, con la
decisione
12.09.2024 n.
35780/18, pubblicata il 16.09.2024.
La vicenda.
Si tratta di un caso di un magazzino costruito senza permesso, come
confermato dai tribunali italiani. Per questo, il proprietario era stato
condannato e non poteva ragionevolmente fare affidamento sulla legalità
della costruzione.
La Corte, esaminando il quadro normativo nazionale sui permessi di
costruzione, la regolarizzazione e i condoni, e valutando il rapporto tra
regolamenti edilizi e procedimenti penali, osserva che l'ordine di
demolizione era stato emesso ai sensi dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47
del 1985 (incorporato nell'art. 31, comma 9, del Testo Unico dell'Edilizia).
La sentenza
Testualmente, si legge: «(…) La Corte rileva che, secondo la pertinente
giurisprudenza interna (…), nell'ambito della risposta complessiva del
sistema interno alle violazioni edilizie, l'ordine di demolizione emesso con
una condanna è identico nell'oggetto e nella natura all'ordine di
demolizione emesso dall'autorità amministrativa, che ha il diritto di
ordinare la demolizione di costruzioni non autorizzate, indipendentemente
dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale».
Infatti, lo scopo di un ordine di demolizione è proprio quello di
ripristinare il sito al suo stato precedente, e tali ordini, secondo la
Corte, non possono essere soggetti a prescrizione. Ciò é necessario per
garantire l'efficacia delle norme edilizie e dissuadere altri potenziali
trasgressori. E il tempo trascorso non può modificare questa conclusione.
La forza della pronuncia
La Corte sottolinea, inoltre, che un ordine di demolizione é mantenuto anche
se l'edificio non appartiene più all'autore del reato (ad esempio a enti
giuridici, successori o terzi). Evidenzia, ancora la Corte, che l'ordine di
demolizione viene mantenuto in caso di morte dell'autore del reato o di
estinzione del reato dopo la condanna, per ragioni diverse dalla concessione
di un permesso retroattivo o dall'amnistia.
Più precisamente: «A parere della Corte tali circostanze sono
sintomatiche della natura riparativa degli ordini di demolizione, che
sembrano volti a rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla
punizione dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto
dell'interesse pubblico all'ordinato utilizzo di terreno violato da
costruzioni abusive o illegali allo scopo di riportare il terreno alla sua
condizione originaria».
Nessuna scappatoia
E non rileva quanto il ricorrente lamenta e cioè che la demolizione del
magazzino costituirebbe un’ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di
proprietà ai sensi dell’articolo 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione sui
Diritti dell’Uomo, che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno potrà essere privato dei suoi
beni se non nell'interesse pubblico e alle condizioni previste dalla legge e
dai principi generali del diritto internazionale».
Infatti tali disposizioni: «(…) Non pregiudicano tuttavia in alcun modo
il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per
controllare l'uso dei beni in conformità con l'interesse generale o per
garantire il pagamento di tasse o altri contributi o sanzioni»
(articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).
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DECISIONE
I
FATTI
1. Il
ricorrente, il signor Ce.Lo., è un cittadino italiano nato nel 1946 e
residente a Balestrate, Palermo. È stato rappresentato dinanzi alla Corte
dalla signora S. Sp., avvocato esercente a Palermo.
2. I
fatti del caso, come esposti dal ricorrente, possono essere riassunti come
segue.
-
La condanna del ricorrente per il reato di abuso edilizio e l'amnistia
edilizia concessa dal comune
3. Nel marzo 1995 gli ufficiali della polizia municipale di Partinico effettuarono un'ispezione
su un terreno di proprietà del ricorrente e constatarono che su di esso era
stato costruito un magazzino di 200 metri quadrati.
4. Successivamente
gli ufficiali hanno accertato che l'edificio era stato costruito senza
permesso di costruire.
5. Il
30.03.1995 il ricorrente ha presentato istanza di condono
edilizio ai
sensi dell'articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (vedi paragrafo 33
infra), dichiarando, tra l'altro, che la costruzione abusiva era stata
ultimata dopo il 15.03.1985, vale a dire tra novembre e dicembre 1993. Ha
presentato la documentazione pertinente e ha pagato l'oblazione come richiesto
dalla normativa pertinente (vedi paragrafi 30 e seguenti infra).
6. Il
03.10.1997 il pretore di Palermo, sezione distaccata
di Partinico,
ha dichiarato il ricorrente colpevole, tra
l'altro,
del reato di abuso edilizio di cui all'articolo 20, lettera b), della legge
28.02.1985, n. 47 (vedi
paragrafo 21 infra). Il pretore ha accertato che egli aveva edificato
il magazzino senza permesso di costruire e che, contrariamente a quanto
dichiarato ai fini dell'ottenimento del condono edilizio, la costruzione era
stata effettivamente ultimata dopo il 1993. Per tale motivo, egli non poteva
beneficiare del condono edilizio poiché, ai sensi della normativa pertinente
(vedi paragrafo 33 infra), tale misura poteva essere concessa solo se
l'abuso edilizio era stato ultimato prima del 31.12.1993 (vedi paragrafo 31
infra).
7. Il
giudice ha condannato il ricorrente a una pena complessiva sospesa di due
mesi di detenzione (arresto)
e a una multa (ammenda) di
8.000.000 di lire italiane (circa 4.130 euro). Inoltre, il giudice ha
ordinato la demolizione della costruzione abusiva ai sensi dell'articolo
7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 di seguito).
8. Il
19.10.1998 il Comune di Partinico accolse il condono edilizio richiesto
dal ricorrente. In data imprecisata la costruzione venne trascritta nel
catasto.
9. Il
ricorrente ha proposto ricorso contro la sentenza di condanna pronunciata
dal giudice di Palermo, chiedendo l'estinzione del reato di abuso edilizio,
in quanto era stata concessa una sanatoria edilizia (cfr. paragrafi 29-33
infra).
10. L'08.03.1999
la Corte d'appello di Palermo ridusse l'importo della multa, ma confermò la
condanna del ricorrente e l'ordine di demolizione. La corte ritenne "irrilevante"
l'amnistia concessa dal comune, in quanto non sussistevano le condizioni
rilevanti richieste dalla legge (vedi paragrafo 33 infra).
Di conseguenza, il magazzino non poteva essere regolarizzato. La corte
stabilì inoltre che, in caso di condanna per il reato di edilizia abusiva ai
sensi dell'articolo 20(b) della legge n. 47 del 1985, il giudice era tenuto
a ordinare la demolizione della costruzione ai sensi dell'articolo 7(9) di
tale legge.
11. Il
30.01.2001, su richiesta del ricorrente, il comune di Partinico ha
rilasciato un certificato di agibilità (cfr. paragrafo 34 infra)
per il magazzino. Il ricorrente utilizzava il magazzino nell'ambito di
attività agricole.
12. In
una data non specificata, la condanna del ricorrente divenne definitiva.
-
Esecuzione dell'ordine di demolizione e procedimento di revisione (incidente
di esecuzione )
13. Il
25.11.2015 il sostituto procuratore
generale presso
la Corte d'appello di Palermo ha notificato al ricorrente un'ingiunzione a demolire emessa
dalla Corte d'appello di Palermo l'08.03.1999. In particolare, gli è stato
intimato di demolire il magazzino abusivo entro novanta giorni. Il pubblico
ministero lo ha inoltre avvisato che, se non si fosse conformato
volontariamente, le autorità avrebbero eseguito l'ingiunzione a sue spese.
14. Il
24.02.2016 gli ufficiali della polizia municipale effettuarono
un'ulteriore ispezione del terreno del ricorrente e constatarono che la
costruzione non era stata demolita.
15. Il
22.06.2016 il ricorrente ha depositato presso la Corte d'appello di
Palermo una richiesta di
revisione dell'ordinanza esecutiva.
Basandosi su una sentenza del Tribunale
di Asti del 03.11.2014 che affermava la natura "penale" degli ordini di
demolizione (vedi paragrafo 53 infra), ha chiesto al tribunale di
sospendere l'esecuzione dell'ordinanza di demolizione. Ha sostenuto che
erano trascorsi più di dieci anni dalla sua condanna e che l'ordinanza di
demolizione, che poteva essere considerata una pena, era pertanto prescritta
ai sensi dell'articolo 173 del codice penale (vedi paragrafo 38 infra).
Sottolineando che l'ordinanza di demolizione era stata eseguita sedici anni
dopo la sua emissione e che nel frattempo il comune aveva concesso un
condono edilizio, il ricorrente ha sostenuto che non vi era più un interesse
pubblico nella demolizione e che le azioni del comune erano state incoerenti
con la sentenza (in particolare il rilascio di un certificato di agibilità,
vedi paragrafo 11 sopra).
16. Il
30.08.2016 la Corte d'appello di Palermo, in qualità di
giudice dell'esecuzione, ha rigettato la domanda del ricorrente.
La Corte ha
innanzitutto ribadito che il condono edilizio non avrebbe potuto essere
concesso in assenza dei presupposti richiesti dalla legge. In secondo luogo,
richiamando una sentenza della Corte di cassazione (n. 49331 del 2015, v. infra,
paragrafi 44 e ss.), ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione, più che una
sanzione, costituisse una misura riparatoria volta a riportare il sito o la
costruzione alle condizioni precedenti. In quanto tale, essa usciva
dall'ambito di applicazione dell'articolo 7 della Convenzione e, di
conseguenza, dal termine di prescrizione di cui all'articolo 173 del codice
penale.
Infine, la Corte d'appello ha osservato che il certificato di
agibilità, in considerazione della sua diversa funzione (v. infra,
paragrafo 34), era irrilevante rispetto alla normativa edilizia o
urbanistica.
17. Il
ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, ribadendo le sue
argomentazioni e aggiungendo che la Corte d'appello non aveva ritenuto che
il lungo lasso di tempo trascorso dalla sua condanna, unitamente alla
condotta del comune, avesse fatto sorgere un legittimo affidamento sulla
legittimità del magazzino, che doveva essere soppesato con l'assenza di un
attuale interesse pubblico alla sua demolizione.
18. Con
ordinanza n. 2781 del 20.01.2017, depositata in cancelleria il 23.01.2018,
la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso del ricorrente,
accogliendo la motivazione del giudice di merito e affermando che la
sentenza di abuso edilizio era divenuta definitiva, nonostante l'amnistia
concessa dal Comune.
19. Al
momento in cui il ricorso è stato depositato presso la Corte, il magazzino
non era ancora stato demolito. Il ricorrente sembra aver continuato a utilizzarlo
in relazione ad attività agricole. Ad oggi, non ha informato la Corte di
eventuali cambiamenti nella situazione.
QUADRO GIURIDICO E PRASSI RILEVANTI
-
Quadro giuridico rilevante
-
Considerazioni preliminari
20. All'epoca
dei fatti, il quadro legislativo italiano rilevante era costituito
principalmente dalle disposizioni della legge n. 47 del 28.02.1985 (Norme
in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni,
recupero e sanatoria delle opere edilizie ).
Il decreto presidenziale n. 380 del 06.06.2001 (Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia –
“Testo unico delle leggi edilizie”) ha codificato le disposizioni
esistenti in materia di urbanistica e regolamentazione edilizia, tra cui la
maggior parte delle disposizioni della legge n.
47 del 1985 (vedi GIEMSrl
e altri contro Italia (merito)
[GC], nn. 1828/06 e
altri 2, § 105, 28.06.2018).
Per la maggior parte, le
disposizioni rilevanti della legge n. 47 del 1985 sono state incorporate nel
Testo unico delle leggi edilizie senza modifiche; qualora siano state
apportate modifiche, queste sono indicate nelle note a piè di pagina dei
relativi articoli.
-
Legge 28.02.1985, n. 47 e Testo Unico delle Leggi sull'Edilizia (D.P.R.
06.06.2001, n. 380)
21. L'articolo
4 della legge n. 47 del 1985, nelle parti pertinenti recepito con lieve
modifica nell'articolo 27
del Testo Unico delle Costruzioni [1],
ha designato il sindaco quale autorità incaricata di vigilare sulle attività
urbanistiche ed edilizie nel territorio comunale per garantirne la
conformità alle leggi e ai regolamenti, alle disposizioni degli strumenti
urbanistici e alle modalità di costruzione stabilite nei permessi di
costruire.
22. Le
parti rilevanti dell'articolo 7 della legge n. 47 del 1985, recepite senza
modifiche nell'articolo 31 del Testo Unico delle Costruzioni [2],
disponendo quanto segue:
“1. Sono
considerati interventi edilizi eseguiti in violazione del permesso di
costruire quelli che comportano la realizzazione di un fabbricato totalmente
diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di destinazione
d'uso da quello oggetto del permesso stesso, ovvero la realizzazione di
volumi edificabili eccedenti i limiti indicati nel progetto e che
costituiscano un fabbricato o parte di esso separatamente individuabile ed
utilizzabile.
2. Il
sindaco, accertato l'esecuzione di lavori edilizi senza permesso di
costruire, in violazione dell'autorizzazione o con variazioni
essenziali da quanto previsto
dal permesso, ne ordina la demolizione.
3. Se
il responsabile della costruzione abusiva non procede alla demolizione o al
ripristino del sito entro novanta giorni dal provvedimento di demolizione,
la costruzione e l'area di
sedime ...
sono acquisite senza indennizzo dal comune ...
4. La
mancata ottemperanza all'ordine di demolizione entro il termine stabilito
nel comma precedente costituisce motivo di presa di possesso [dell'immobile]
e di trascrizione nel registro
immobiliare, che deve essere effettuata gratuitamente.
5. Il
sindaco ordina la demolizione dell'opera edilizia incorporata a spese del
responsabile, a meno che una deliberazione del consiglio comunale non
dichiari l'esistenza di un prevalente interesse pubblico e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
...
8. Se
[il sindaco] non provvede ... il capo della Giunta
regionale ...
adotta i provvedimenti richiesti, dandone contestuale comunicazione
all'autorità giudiziaria competente per l'esercizio dell'azione penale.
...”
23. La
parte rilevante dell'articolo
7(9) della legge n. 47 del 1985, che è stata incorporata senza modifiche
nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico sull'edilizia, prevedeva quanto segue:
“In
caso di condanna per il reato di cui all'articolo 20 della presente legge
relativamente all'opera abusiva di cui al presente articolo, il giudice
ordina la demolizione dell'opera se non è stata ancora eseguita
diversamente.”
24. L'articolo
17 della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche nell'articolo 46
del Testo Unico dell'edilizia, nelle parti rilevanti prevedeva che i
contratti di compravendita aventi ad oggetto edifici o parti di edifici
realizzati dopo il 17.03.1985
erano nulli se non menzionavano gli estremi del relativo permesso di
costruire o del condono.
25. L'articolo
20, lettera b), della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche
nell'articolo 44, lettera b), del Testo unico dell'edilizia, prevedeva la
punizione per chi eseguiva lavori edilizi senza o in violazione del permesso
di costruire con l'arresto fino a due mesi e con
la multa da lire 10.000.000 (5.164 euro) a lire 100.000.000 (51.645 euro).
-
Regolarizzazione abusivismo edilizio
26. In
base al diritto interno, l'abusivismo edilizio può essere regolarizzato
mediante il rilascio di un permesso /concessione
in sanatoria o
di un condono edilizio .
27. Il
rilascio dell'autorizzazione retroattiva è disciplinato dall'articolo 36 del
Testo Unico delle Costruzioni, che recepisce, con modificazioni [3],
articolo 13 della legge n. 47 del 1985, vigente all'epoca dei fatti.
28. L'autorizzazione
retroattiva è concessa per sanare le violazioni “formali”, vale a
dire i lavori edili che, pur essendo realizzati in assenza o in violazione
del permesso di costruire, sono conformi alle norme edilizie vigenti al
momento della costruzione e al momento della presentazione della domanda di doppia
conformità.
29. Ai
sensi dell'articolo 22(1) della legge n. 47 del 1985, recepito con
modificazioni nell'articolo 45 del Testo Unico sull'edilizia, la
prosecuzione dei reati edilizi è sospesa fino al completamento delle
procedure di regolarizzazione. Ai sensi dell'articolo 22(3) della legge n.
47 del 1985, il rilascio dell'autorizzazione retroattiva estingue le contravvenzioni previste
dalle norme urbanistiche applicabili.
30. I
condoni edilizi sono
misure di natura eccezionale introdotte da specifiche leggi nazionali. A
differenza dell'autorizzazione retroattiva, la concessione del condono non è
subordinata alla conformità dell'opera edilizia alle norme in materia e può
pertanto essere concessa per regolarizzare violazioni "sostanziali",
purché siano rispettate le condizioni stabilite dalla legge di condono
pertinente e venga versata una tassa di condono (oblazione ).
Inoltre, i condoni edilizi sono misure temporanee in quanto si applicano
solo alle opere edili completate prima di una certa data.
31. La
prima sanatoria edilizia fu introdotta dall'articolo 31 della legge n. 47
del 1985, che prevedeva che i proprietari di opere edilizie realizzate senza
o in violazione di un permesso di costruire potessero presentare domanda di
sanatoria a condizione, tra l'altro, che i lavori fossero stati ultimati
prima di una certa data (01.10.1983).
32. L'articolo
38(2) della legge n. 47 del 1985 prevedeva che il reato di costruzione abusiva
punibile ai sensi dell'articolo 20 della legge e qualsiasi altro reato
connesso fosse estinto (vedere paragrafo 21 sopra) a condizione che la
richiesta di amnistia ai sensi dell'articolo 31 della legge fosse
presentata entro il termine perentorio e che fosse pagata la relativa tassa.
33. La
seconda amnistia edilizia [4] è
stato introdotto dall'art. 39 della legge 23.12.1994,
n. 724, che ha stabilito le condizioni alle quali le costruzioni abusive
completate prima del 31.12.1993 potevano beneficiare di una sanatoria. Se
tali condizioni fossero state soddisfatte, si sarebbero potute applicare le
disposizioni degli artt. 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, e la
sanatoria avrebbe avuto i medesimi effetti (tra cui l'estinzione dei reati
edilizi).
-
Certificate of fitness for use (certificato
di agibilità)
34. Ai
sensi dell'articolo 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 [5] e
l'articolo 107 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico degli
enti locali), i governatori dei comuni possono rilasciare certificati di
agibilità per gli edifici ad uso non residenziale, a condizione che siano
rispettate le relative condizioni di sicurezza degli edifici.
-
Revisione di un ordine di esecuzione
35. L'articolo
665 del codice di procedura penale contiene disposizioni relative alle
funzioni del giudice
dell'esecuzione .
36 . Ai
sensi dell'articolo 666 § 1 del codice di procedura penale, che disciplina
il procedimento in questione (incidente
di esecuzione ),
il giudice dell'esecuzione agisce su richiesta del pubblico ministero,
dell'interessato o del suo rappresentante.
37. La
validità o l'esecutività di una condanna possono essere contestate mediante
opposizione all'esecuzione ai sensi dell'articolo 670 § 1 del codice di
procedura penale (“Questioni sul
titolo esecutivo” ).
Se l'opposizione è accolta, il giudice dell'esecuzione sospende l'esecuzione
della sentenza e ordina i successivi provvedimenti necessari.
-
Altre disposizioni nazionali rilevanti
38 . Le
parti rilevanti dell'articolo 173 del codice penale (“Estinzione delle
pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo”) recitano
come segue:
“1. Le
pene dell’arresto e dell’ammenda si estinguono
dopo un periodo di cinque anni .
2. Se
alla sanzione pecuniaria si aggiunge la detenzione, ai fini dell'estinzione
di entrambe le pene si terrà conto solo della scadenza del termine stabilito
per la detenzione.
3. Il
punto di partenza è determinato ai sensi dell'[articolo 172 § 3].”
39. Ai
sensi dell'articolo 172 § 3 del codice penale, il termine di prescrizione
inizia a decorrere dalla data in cui la condanna è divenuta definitiva o
dalla data in cui il condannato è evaso dalla pena dopo la sua esecuzione.
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Pratica nazionale rilevante
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Giurisprudenza della Corte Costituzionale
40. Con
ordinanza n. 33 del 18.01.1990, la Corte costituzionale si è pronunciata
sulla legittimità costituzionale dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del
1985 nella parte in cui richiedeva l'emissione di un ordine
di demolizione nell'ambito di un procedimento penale quando l'ordine di
demolizione non era ancora stato eseguito con ordine del comune (vedi
paragrafo 23 sopra). Sebbene la Corte abbia ritenuto la questione
manifestamente infondata, ha ritenuto che l'ordine di demolizione fosse un
provvedimento amministrativo emesso dal giudice in sostituzione
dell'amministrazione locale quando quest'ultima non vi aveva provveduto.
41. Con
ordinanza n. 56 del 09.03.1998, la Corte costituzionale ha ribadito che
l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice penale con condanna per il
reato di
abusivismo edilizio ha una «funzione integrativa» nell'assicurare
l'efficacia delle sanzioni amministrative non ancora eseguite dall'autorità
amministrativa, e che si tratta di una sanzione amministrativa e non di una
pena accessoria o di una sanzione penale atipica, secondo la consolidata
giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di cassazione.
A tale
riguardo, la Corte costituzionale ha inoltre ritenuto che l'ordinanza di
demolizione dovesse essere revocata qualora risultasse incompatibile con una
diversa decisione adottata dall'amministrazione; a tal fine, essa poteva
essere riesaminata in sede esecutiva (cfr. infra, paragrafo 48).
-
Giurisprudenza della Corte di Cassazione
(a) Giurisprudenza
delle sezioni penali della Corte di Cassazione
42. La
Corte plenaria di Cassazione, nella sentenza n. 15 del 24.07.1996,
ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice ai sensi
dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47 del 1985 (cfr . supra,
paragrafo 23) avesse una finalità risarcitoria direttamente collegata
all'esigenza di estirpare le conseguenze del reato di abuso edilizio. Ha poi
precisato che l'ordinanza di demolizione, pur essendo un provvedimento
amministrativo, faceva anche parte della pena. Pertanto, quando faceva parte
di una pena penale, l'esecuzione era affidata al pubblico ministero, che
poteva presentare richiesta al giudice dell'esecuzione.
43 . In
proposito, la Corte di Cassazione (anche nelle sentenze n. 8409 del
28.02.2007; n. 37836 del 28.07.2017 e
10.10.2022 n. 38104) ha ritenuto
che l'ordinanza di demolizione può essere pronunciata dal giudice solo in
caso di condanna, mentre
non può essere emessa in caso di archiviazione del procedimento per
prescrizione del reato. In ogni caso, l'amministrazione comunale resta
libera di adottare i provvedimenti opportuni nell'ambito del suo compito di
garantire la conformità degli interventi edilizi alle norme edilizie (ai
sensi degli articoli 4 e 7 della legge n. 47 del 1985, recepiti negli
articoli 27 e 31 del Testo Unico delle Costruzioni, v. paragrafi 21 e 22
sopra).
44. Con
sentenza n. 49332 del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier,
la Corte di cassazione ha annullato la sentenza del
tribunale di Asti del 03.11.2014 (cfr. paragrafi 15 supra e 53
infra), con cui tale tribunale aveva ritenuto che gli ordini di
demolizione costituivano una sanzione penale ai sensi dell'articolo 6 § 1 e
dell'articolo 7 della Convenzione e, in quanto tali, rientravano nell'ambito
di applicazione dell'articolo 173 del codice penale, che prevedeva la
prescrizione delle pene qualificate come penali nel diritto interno (cfr.
paragrafo 38 supra).
45. La
Corte di cassazione ha esaminato in dettaglio le disposizioni di legge che
disciplinano gli ordini
di demolizione, anche alla luce della giurisprudenza pertinente della
Corte (in particolare Engel
e altri c. Paesi Bassi,
08.06.1976, serie A n. 22, e Öztürk
c. Germania,
21.02.1984, serie A n. 73).
Ha osservato che la demolizione era una risposta obbligatoria alle
violazioni più gravi delle norme edilizie; una volta accertato che era stata
realizzata una costruzione abusiva, la demolizione doveva essere eseguita
nei confronti di qualsiasi soggetto connesso alla costruzione (in
rem),
indipendentemente dalla responsabilità personale del suo proprietario e
dall'avvio di un procedimento penale nei suoi confronti; di conseguenza,
poteva essere eseguita anche nei confronti di persone giuridiche e aventi
causa del responsabile della costruzione.
Inoltre, un ordine di demolizione aveva la stessa natura, indipendentemente
dall'autorità che lo emetteva, il comune o il giudice a seguito di una
condanna; entrambi potevano emettere tali ordini in modo indipendente,
poiché il coordinamento era garantito nella fase di esecuzione (vedere
paragrafi 22-23 sopra).
46. Per
tali motivi, la Corte di cassazione ha concluso che i provvedimenti di
demolizione costituiscono una misura di natura reale e
di carattere ripristinatorio,
volta a riportare un sito alle sue condizioni originarie; essi non
costituiscono pertanto una sanzione e non sono soggetti a prescrizione.
47. Nella
sentenza n. 41475 del 04.10.2016, la Corte di cassazione ha ribadito le
proprie conclusioni sulla qualificazione degli ordini di demolizione come
misura riparatoria, sottolineando che la normativa rilevante (vale a dire
l'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985, recepito nell'art. 31 § 9 del Testo
unico sull'edilizia, vedi paragrafo 23 che precede) imponeva al giudice di
emettere un ordine di demolizione se non era già stato eseguito altrimenti,
vale a dire dal comune.
A parere della Corte di cassazione, ciò ha confermato l'identità di tali
ordini, che conservavano la loro natura riparatoria anche quando erano
disposti a seguito di una condanna per il reato di abuso edilizio (vedi
paragrafo 21 che precede).
48 . La
Corte di Cassazione ha costantemente osservato che, mentre il giudice ha il
diritto di accertare autonomamente gli elementi costitutivi del reato di
abusivismo edilizio (che può comportare una valutazione di legittimità del
permesso di costruire, del nulla osta retroattivo o dell'amnistia concessi
dall'amministrazione), la demolizione non può essere ordinata o mantenuta
quando è incompatibile con i provvedimenti adottati dall'amministrazione.
In tal caso, anche dopo che la condanna sia passata in giudicato,
l'ordinanza può essere revocata mediante richiesta di revisione del
provvedimento esecutivo (cfr., tra
le altre,
le sentenze della Corte di Cassazione n. 47402 del 18.11.2014; n. 42699 del
07.07.2015; e
10.12.2018 n. 55028, v. paragrafo 36 sopra).
Inoltre, l'esecuzione di un ordine di demolizione può essere sospesa, a
determinate condizioni, se è stata presentata all'amministrazione una
richiesta di autorizzazione retroattiva o di amnistia dopo la condanna
(vedere, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 16686 del
20.04.2009 e n. 35201 del 22.08.2016).
Pertanto, il coordinamento tra giurisdizione penale e autorità
amministrativa è sempre assicurato nella fase esecutiva e il giudice
dell'esecuzione è chiamato a valutare la compatibilità dell'ordine di
demolizione con le decisioni dell'amministrazione, al fine di stabilire se e
con quali mezzi l'ordine possa essere eseguito (vedere, tra
le altre,
la sentenza della Corte di Cassazione n. 702 del 14.02.2000).
49 . Inoltre,
la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che l'ordinanza di
demolizione prevista dall'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985 (cfr.
paragrafo 23 che precede), essendo misura riparativa reale identica
per oggetto e natura ad un ordine di demolizione emesso da un'autorità
amministrativa, sopravvive all'estinzione del reato (per cause diverse dal
rilascio del nulla osta retroattivo o dall'amnistia, cfr. paragrafi 29 e 32
che precede) di abusivismo edilizio, nonché alla morte del condannato,
poiché riguarda esclusivamente l'esistenza di abusivismo edilizio ed è
diretta contro il bene e non contro la persona (in
rem )
(cfr., tra
le altre,
sentenze della Corte di Cassazione n. 2674 del 18.09.2000; n. 7228 del
25.02.2011; n. 18533 dell'11.05.2011; e n. 41475 del 04.10.2016).
50. In
altri termini, secondo la Corte di Cassazione, l'ordinanza di demolizione,
sia essa emanata
dai giudici di giurisdizione penale o dall'autorità amministrativa, ha come
finalità la rimozione di edifici abusivi e abusivi (vale a dire, di edifici
realizzati senza autorizzazione o avvalendosi di un'autorizzazione
che gli stessi giudici di giurisdizione penale, nella loro autonoma
valutazione, ritengono invalida; v. par. 48 che precede), autonoma rispetto
alla punizione dell'autore del reato, in quanto risponde all'interesse
pubblico all'uso ordinato del suolo (v. sentenza della Corte di Cassazione
n. 51044 del 03.10.2019).
51. A
seguito della citata sentenza Delorier,
la giurisprudenza della Corte di cassazione è stata costante e ormai
consolidata nel respingere l'applicazione della prescrizione delle pene
all'ordinanza di demolizione, data la sua natura riparatoria (cfr., tra
le altre,
sentenze della Corte di cassazione n. 9949 del 20.01.2016; n. 35052 del
10.03.2016; n. 51044 del 09.11.2018; n. 11916 del 21.11.2018; n. 3979 del
28.01.2019; e n. 21198 del 18.05.2023).
(b) Giurisprudenza
delle Sezioni civili della Corte di Cassazione
52. Con
sentenza
22.03.2019 n. 8230, la Corte plenaria di Cassazione è
intervenuta sulla questione, ampiamente dibattuta nella giurisprudenza
interna, della validità dei contratti di compravendita relativi a
costruzioni abusive.
La Corte ha affermato che, ai sensi della normativa interna in materia (v.
supra, paragrafo 24), tale validità non è subordinata alla conformità
della costruzione al permesso di costruire, ma solo all’esplicita menzione
del permesso di costruire o della sanatoria nell’atto notarile di
trasferimento inter vivos del titolo.
Secondo la
Corte di Cassazione, tale requisito costituisce solo uno degli strumenti
scelti dal legislatore per contrastare la proliferazione di costruzioni
abusive, atteso che l’interesse pubblico all’uso ordinato e sicuro del suolo
nel rispetto delle norme edilizie è soddisfatto dalle altre misure previste
in ambito amministrativo e penale e, nei casi più gravi, dalla misura
riparatoria della demolizione.
-
Altre pratiche nazionali rilevanti
53. Con
sentenza del 03.11.2014, il Tribunale di Asti, in qualità di giudice
dell'esecuzione, ha accolto un'opposizione avverso l'esecuzione di un ordine
di demolizione emesso a seguito di una condanna per il reato di edilizia
abusiva.
Il tribunale ha confermato che gli ordini di demolizione, nonostante la loro
qualificazione nel diritto interno come misura riparatoria sulla base dei
criteri stabiliti nella sentenza Engel e
altri (citata
sopra), costituivano una pena ai sensi della Convenzione a causa del loro
scopo repressivo, della loro severità e della loro connessione con un reato
penale.
Pertanto, secondo il tribunale, gli ordini di demolizione
rientravano nell'ambito di applicazione della normativa sull'estinzione
delle pene, incluso l'articolo 173 del codice penale sulla prescrizione
(vedere paragrafo 38 sopra).
54. Tale
decisione è stata poi annullata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 49332
del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier,
v. paragrafi 44 e ss. sopra).
RECLAMI
55. Invocando
l'articolo 7 della Convenzione, il ricorrente lamentava la violazione del
principio di legalità, poiché l'ordine di demolizione del suo magazzino, che
a suo avviso equivaleva a una sanzione, non poteva essere eseguito dopo la
scadenza del termine di prescrizione rilevante.
56. Ai
sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, egli si è lamentato del fatto
che il tribunale interno abbia qualificato l'ordinanza di demolizione come
misura riparatrice anziché come sanzione.
57. Infine,
ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, egli ha
sostenuto che l'esecuzione dell'ordine di demolizione avrebbe costituito
un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà.
LA
LEGGE
-
Presunta violazione dell'articolo 7 della Convenzione
58. Il
ricorrente ha sostenuto che,
alla luce dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, i giudici
nazionali avrebbero dovuto concludere che l'ordine di demolizione previsto
dall'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 sopra)
equivaleva a una sanzione. A suo avviso, la loro omissione aveva comportato
una violazione del principio di legalità –in quanto impediva l'applicazione
dell'articolo 173 del Codice penale relativo all'estinzione delle pene per
decorso del tempo (vedere paragrafo 38 sopra)– e del principio di
proporzionalità delle pene. Egli si è basato sull'articolo 7 della
Convenzione, che recita come segue:
“1.
Nessuno può essere ritenuto colpevole di alcun reato penale per un atto o
un’omissione che non costituisse reato ai sensi del diritto nazionale o
internazionale al momento in cui è stato commesso. Né può essere imposta una
pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato
commesso.”
59. Il
ricorrente ha sottolineato che l'ordinanza di demolizione in questione è
stata emessa a seguito di
una condanna per il reato penale di costruzione abusiva, che non poteva
essere mantenuta se tale reato fosse stato dichiarato prescritto (vedere
paragrafo 43 sopra) e, per quanto riguarda la sua gravità, che comportava
una radicale privazione di proprietà. Egli si è basato, in particolare,
sulle conclusioni della Corte nella causa Hamer
c. Belgio,
n. 21861/03,
§ 60, CEDU 2007 ‑ V (estratti).
60. La
Corte ribadisce che il concetto di “punizione” o “pena” come
stabilito dall’articolo 7 § 1 della Convenzione ha una portata autonoma.
Per rendere effettiva la protezione offerta da questa disposizione, la Corte
deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare autonomamente
se una particolare misura costituisca in sostanza una “pena” ai sensi
di questa disposizione (vedi Welch
c. Regno Unito,
09.02.1995, § 27, serie A n. 307 ‑ A; Del
Río Prada c. Spagna [GC],
n. 42750/09,
§ 81, CEDU 2013; e GIEMSrl
e altri c. Italia (merito)
[GC], nn. 1828/06 e
altri 2, § 210, 28.06.2018).
La formulazione della seconda frase dell'articolo 7 § 1 indica che il punto
di partenza in qualsiasi valutazione dell'esistenza di una sanzione è se la
misura in questione sia imposta a seguito di una condanna per un "reato
penale". Altri fattori che possono essere presi in considerazione come
rilevanti a questo proposito sono la natura e lo scopo della misura in
questione; la sua caratterizzazione ai sensi del diritto nazionale; le
procedure coinvolte nell'elaborazione e nell'attuazione della misura; e la
sua severità (vedi Welch,
§ 28; Del
Río Prada,
§ 82; e GIEMSrl
e altri (meriti),
§ 211, tutti citati sopra).
Tuttavia, la severità della misura non è di per sé decisiva, poiché molte
misure non penali di natura preventiva possono avere un impatto sostanziale
sulla persona interessata (vedi Del
Río Prada,
cit., § 82, e i riferimenti ivi contenuti, e Rola
c. Slovenia, nn. 12096/14 e 39335/16,
§ 66, 04.06.2019).
61. La
Corte osserva di aver generalmente ritenuto che l'esistenza di una condanna
per un reato penale fosse solo uno dei criteri da prendere in considerazione
(vedi Saliba
c. Malta (dec.),
n. 4251/02,
23.11.2004, e Berland
c. Francia,
n. 42875/10,
§ 42, 03.09.2015), e che non potesse essere ritenuta decisiva
per stabilire la natura della misura (vedi Valico
Srl c. Italia (dec.),
n. 70074/01,
CEDU 2006 ‑ III, e Balsamo
c. San Marino,
nn. 20319/17 e 21414/17,
§ 60, 08.10.2019).
La Corte ha raramente considerato questo fattore come decisivo per
dichiarare l'inapplicabilità dell'articolo 7 (vedi Yildirim
c. Italia (dec.),
n. 38602/02,
CEDU 2003 ‑ IV, e Bowler
International Unit c. Francia,
n. 1946/06,
§ 67, 23.07.2009).
62. Passando
al caso di specie, la Corte rileva anzitutto che al ricorrente è stato
ordinato di demolire il suo magazzino ai sensi dell'articolo 7 (9)
della legge n. 47 del 1985 (recepito nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico
sull'edilizia), che autorizza il giudice penale ad emettere tale ordine in
caso di condanna per il
reato di edilizia abusiva (vedere paragrafo 23 sopra).
Poiché la demolizione non può essere ordinata quando il reato è prescritto,
poiché richiede una “condanna” (vedere paragrafo 43 sopra), la Corte
ritiene che vi sia, in effetti, un nesso tra la misura in questione e la
commissione di un reato (vedere, nel contesto dell’articolo 6 § 1 della
Convenzione, Hamer,
sopra citato, § 54; vedere anche, mutatis
mutandis, Ulemek
c. Serbia (dec.),
n. 41680/13,
§ 48, 02.02.2021).
Allo stesso tempo, la Corte rileva che, secondo la pertinente giurisprudenza
interna (vedere paragrafo 43 sopra), nell'ambito della risposta complessiva
del sistema interno alle violazioni edilizie (vedere paragrafo 41
sopra), l'ordine di demolizione emesso a seguito di una condanna è identico
per oggetto e natura all'ordine di demolizione emesso dall'autorità
amministrativa, che ha il diritto di ordinare la demolizione di costruzioni
abusive, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un
procedimento penale (vedere paragrafi 22 e 43 sopra).
63. Poiché
l'irrogazione della misura impugnata a seguito di condanna per un reato non
è di per sé decisiva per stabilire la natura della misura (vedi GIEMSrl
e altri (merito),
§ 215, e Balsamo,
§ 60, entrambe citate sopra), la Corte esaminerà gli altri criteri rilevanti
(vedi paragrafo 61 sopra).
64. Per
quanto riguarda la qualificazione degli ordini di demolizione ai sensi del
diritto nazionale, la Corte riconosce che, diversamente dalla causa Hamer (citata
sopra) invocata dal ricorrente, la classificazione di tali ordini come
misura riparatoria è unanime tra i giudici nazionali, che sono giunti a tale
conclusione alla luce dei criteri elaborati nella giurisprudenza della Corte
(vedere paragrafi 46-50 sopra e confrontare il paragrafo 53 sopra;
confrontare e contrapporre Hamer,
§ 57, e GIEMSrl
e altri (merito),
§§ 121 e 223, entrambi citati sopra).
65 . Quanto
alla natura e allo scopo degli ordini di demolizione, la Corte ritiene che
la misura sia chiaramente volta a ripristinare un sito alle sue condizioni
originali, rendendo i lavori di costruzione conformi alle norme
edilizie, indipendentemente dal fatto che venga imposta una sanzione anche
nei confronti di coloro che sono accusati del reato di costruzione abusiva.
A questo proposito, essa attribuisce innanzitutto importanza al fatto che la
demolizione, essendo una misura in
rem,
è ordinata anche se l'edificio non appartiene all'autore del reato (ad
esempio a persone giuridiche, successori in proprietà o terzi, vedere
paragrafo 45 sopra).
In secondo luogo, essa rileva che, secondo la prassi nazionale, un ordine di
demolizione è mantenuto in caso di morte dell'autore o di estinzione del
reato dopo la condanna, per motivi diversi dalla concessione di un permesso
retroattivo o di un'amnistia (vedere paragrafo 49 sopra).
La Corte ritiene che tali circostanze siano sintomatiche della natura
riparatoria degli ordini di demolizione, che sembrano concepiti per
rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla punizione
dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto dell'interesse
pubblico all'uso ordinato del suolo violato da edifici abusivi o illegali
mediante il ripristino del suolo alle sue condizioni originarie (vedere Saliba e, mutatis
mutandis, Ulemek,
§ 53, entrambi citati sopra; confrontare The
J. Paul Getty Trust e altri contro Italia,
n. 35271/19,
§ 314, 02.05.2024; confrontare e contrapporre Valico
Srl e GIEMSrl
e altri (merito),
§ 224, entrambi citati sopra).
66. Quanto
alle procedure di adozione e di esecuzione degli ordini di demolizione, la
Corte ha già rilevato che l'ordine di demolizione contestato è stato emesso
dai giudici di giurisdizione penale. Tuttavia, ha ripetutamente affermato
che ciò non può essere di per sé decisivo, poiché è una caratteristica
comune di diversi ordinamenti giuridici nazionali che i giudici penali
adottino decisioni di natura non punitiva, come, ad esempio, misure di
riparazione civile per la vittima del fatto criminoso (vedi Balsamo,
cit., § 63).
A questo proposito, la Corte rileva ancora una volta il fatto che
l'amministrazione ha il diritto di emettere un ordine di demolizione di
identico contenuto, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o
concluso un procedimento penale (vedi paragrafi 22 e 43 sopra), cosicché il
giudice penale ordinerà la demolizione finché non sarà già stata eseguita
dall'amministrazione (vedi ordinanza della Corte costituzionale n. 33 del
18.01.1990, paragrafo 40 sopra; vedi anche paragrafo 45 sopra).
La
Corte osserva inoltre che, mentre i tribunali penali e il comune hanno in
abstracto il
diritto di agire indipendentemente l'uno dall'altro, la concessione di
un'amnistia o di un'autorizzazione retroattiva da parte dell'autorità
amministrativa è presa in considerazione dai tribunali penali, che agiscono
in qualità di tribunali esecutivi, i quali possono in tal caso, a condizione
che tali misure siano state adottate legalmente, revocare l'ordine di
demolizione o sospenderne l'esecuzione dopo che la condanna è divenuta
definitiva (vedere paragrafo 48 sopra).
67 . Quanto,
infine, alla severità degli ordini di demolizione, la Corte ribadisce che
tale fattore non è di per sé decisivo, poiché numerose misure non penali
possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (cfr. Welch, §
32; Del Río
Prada,
§ 82;
e Balsamo,
§ 64, tutti citati sopra). La Corte ritiene che, sebbene un ordine di
demolizione sia una misura che può avere un impatto sulla persona
interessata (a seconda delle caratteristiche e della natura della
costruzione non autorizzata), la sua severità non è tale da suggerire che
debba essere caratterizzata come una sanzione.
L'oggetto di tale ordine è, infatti, limitato a lavori (o parte di essi) che
sono stati eretti senza o in violazione di un permesso di costruire
(vedere, mutatis
mutandis, Ulemek,
§ 56; confrontare e contrapporre GIEMSrl
e altri (meriti),
§ 227, entrambi citati sopra) e, come misura volta a garantire il rispetto
delle normative edilizie in modo da ristabilire lo stato di diritto e
consentire l'uso ordinato e sicuro del suolo (interessi a cui la Corte ha
ripetutamente attribuito un'importanza significativa; confrontare, inter
alia, Saliba
c. Malta,
n. 4251/02, § 44, 08.11.2005, e Ivanova
e Cherkezov c. Bulgaria,
n. 46577/15,
§ 51, 21.04.2016), la Corte ritiene che la rimozione degli edifici illegali
e abusivi rappresenti una risposta necessaria e appropriata (vedere, mutatis
mutandis, Balsamo,
citato sopra, § 64).
68. Alla
luce di quanto
precede, avendo preso atto e soppesato ciascuna delle
caratteristiche della misura contestata, la Corte ritiene che esse siano
sintomatiche della sua natura prevalentemente riparatoria; a questo
proposito, il presente caso differisce da Hamer (citato
sopra, §§ 54-60).
La Corte conclude pertanto che l'ordine di demolizione in questione non
costituiva una "sanzione" ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione
(vedere, mutatis
mutandis, Saliba (dec.),
citato sopra; confrontare e contrapporre Hamer,
citato sopra, § 60). Tale disposizione non è pertanto applicabile nel
presente caso.
69. Ne
consegue che il presente ricorso è incompatibile ratione materiae con
le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve
essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4.
-
Presunta violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione
70. Il
ricorrente lamentava che, alla luce della giurisprudenza della Corte che
stabilisce i criteri per valutare l'esistenza di un'accusa penale (in
particolare, Engel
e altri, citati
sopra), la qualificazione da parte del tribunale nazionale dell'ordine di
demolizione nel suo caso come misura riparatrice aveva comportato una
violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. La parte rilevante di tale
disposizione recita come segue:
“Nella
determinazione di ... qualsiasi accusa penale rivolta contro di lui, ognuno
ha diritto a un'equa ... udienza ... da parte di [un] ... tribunale ...”.
71 . Occorre
osservare in via preliminare che il ricorrente ha contestato
l'interpretazione data dal tribunale nazionale dell'ordinanza di demolizione
come misura riparatoria in quanto tale, sostenendo che essa era
incompatibile con la giurisprudenza della Corte.
72. A
questo proposito, la Corte, riferendosi alle sue conclusioni di cui sopra ai
sensi dell'articolo 7 della Convenzione (vedere paragrafo 68 sopra),
ribadisce che non è suo compito occuparsi di presunti errori di diritto o di
fatto commessi dai giudici nazionali, a meno che e nella misura in cui
possano aver violato i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione
(vedere, tra molte altre autorità, Moreira
Ferreira c. Portogallo (n. 2) [GC],
n. 19867/12,
§ 83, 11.07.2017).
73. La
Corte ritiene pertanto che, anche supponendo che l'articolo 6 sia
applicabile al procedimento di cui al capo civile, il ricorrente non ha
dedotto alcuna privazione delle garanzie di un giusto processo sancite
dall'articolo 6 a seguito dell'interpretazione adottata dal tribunale
nazionale.
74. Ne
consegue che il ricorso ai sensi dell'articolo
6 § 1 della Convenzione è manifestamente infondato e deve essere respinto ai
sensi dell'articolo 35 § 4.
-
Presunta violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione
75. Il
ricorrente lamentava che la demolizione del magazzino avrebbe costituito
un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà ai sensi
dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, che recita come segue:
“Ogni
persona fisica o giuridica ha diritto al pacifico godimento dei suoi beni.
Nessuno può essere privato dei suoi beni se non per causa di pubblico
interesse e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali
del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non pregiudicano tuttavia in alcun modo il
diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per
disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per
garantire il pagamento delle imposte o di altri contributi o sanzioni".
76 . Egli
sosteneva che i tribunali nazionali non avevano considerato che l'ordine di
demolizione del suo magazzino era stato eseguito anni dopo la condanna su
cui si basava e che il comune gli aveva concesso l'amnistia (vedere
paragrafo 8 sopra) e un certificato di idoneità all'uso (vedere paragrafo 11
sopra). Questi fattori, a suo avviso, avevano dato origine a un'aspettativa
legittima che avrebbe dovuto essere soppesata rispetto a qualsiasi interesse
pubblico concorrente nell'eseguire la demolizione.
77. La
Corte rileva che il magazzino costruito dal ricorrente è stato dichiarato
costruzione abusiva dai tribunali nazionali (vedere paragrafo 10 sopra). La
Corte riconosce che è stato dibattuto a livello nazionale se gli edifici
abusivi potessero essere oggetto di diritti di proprietà e potessero quindi
essere validamente trasferiti e acquistati (vedere paragrafo 52 sopra).
78. Nel
caso di specie, tuttavia, la Corte ritiene che non sia necessario affrontare
specificamente la questione se il magazzino del ricorrente potesse essere
considerato un “bene” ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
alla Convenzione (vedere, tra le altre, Beyeler c. Italia [GC],
n. 33202/96,
§ 100, CEDU 2000-I; Öneryıldız
c. Turchia [GC],
n. 48939/99,
§ 124, CEDU 2004-XII; e Hamer,
cit., § 75), dato che, anche supponendo che così fosse, il presente ricorso
è in ogni caso inammissibile per le seguenti ragioni.
79. La
Corte rileva innanzitutto che al momento della presentazione del presente
ricorso il magazzino del ricorrente non era ancora stato demolito e che, a
tutt'oggi, la Corte non è stata informata del contrario (vedere paragrafo 19
sopra). La demolizione pianificata, che mira a garantire il rispetto delle
norme edilizie, costituisce un controllo dell'uso dei beni (vedere Ivanova
e Cherkezov,
citata sopra, § 69).
Essa deve pertanto essere esaminata alla luce del
secondo paragrafo dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione
(vedere Saliba,
citata sopra, § 35; Zhidov
e altri contro Russia, nn. 54490/10 e altri
3, § 96, 16.10.2018; confrontare Depalle
contro Francia [GC],
n. 34044/02,
§ 79, CEDU 2010, e Hamer,
citata sopra, § 77).
80. La
Corte osserva che l'ordinanza di demolizione contestata è stata emessa ai
sensi dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23
sopra) e che, di conseguenza, il pubblico ministero ha agito in vista della
sua esecuzione, che non era soggetta a prescrizione (vedere paragrafi 13 e
46 sopra). L'ingerenza era quindi conforme alla legge.
81. La
Corte ribadisce che lo scopo di un ordine di demolizione è quello di
ripristinare il sito alle sue condizioni originali, garantendo così l'uso
ordinato e sicuro del terreno nel rispetto delle norme edilizie (vedere
paragrafo 65 sopra). Essa non ha quindi dubbi sulla legittimità dello scopo
perseguito dal provvedimento contestato, che è chiaramente "conforme
all'interesse generale" (vedere Saliba,
§ 44, e Ivanova
e Cherkezov,
§ 71, entrambi citati sopra).
82. Quanto
alla questione se
l'obiettivo perseguito possa essere considerato proporzionato all'ingerenza
causata dalla demolizione forzata pianificata del magazzino (vedere, tra
molte altre autorità, Depalle,
§ 83, e Beyeler,
§ 114, entrambe citate sopra), la Corte ribadisce che nel campo delle
normative edilizie e urbanistiche, lo Stato gode di un ampio margine di
apprezzamento, in particolare nella scelta dei mezzi di esecuzione e
nell'accertamento se le conseguenze dell'esecuzione sarebbero giustificate
(vedere Saliba,
§ 45; Hamer,
§ 78; e Ivanova e
Cherkezov,
§ 73; tutte citate sopra).
Ribadisce inoltre che l'articolo 1 del Protocollo n. 1 non presuppone in
tali casi la disponibilità di una procedura che richieda una valutazione
individualizzata della necessità di ciascuna misura di attuazione delle
norme di pianificazione pertinenti. Non è contrario a quest'ultimo che il
legislatore stabilisca categorie ampie e generali piuttosto che prevedere
uno schema in base al quale la proporzionalità di una misura di attuazione
debba essere esaminata caso per caso (vedi Ivanova
e Cherkezov,
cit., § 74).
83. La
Corte rileva anzitutto che il ricorrente non ha contestato che la
costruzione del magazzino, da lui consapevolmente realizzata senza permesso
di costruire, fosse abusiva.
84. A
questo proposito, la Corte rileva che subito dopo l'ispezione del terreno
del ricorrente che ha portato la polizia municipale a scoprire il magazzino,
è stato avviato un procedimento penale nei suoi confronti per il reato di
costruzione abusiva (vedere paragrafi 3 e 6 sopra; in contrasto con Hamer,
citato sopra, § 83).
Rileva inoltre che i tribunali di giurisdizione penale
hanno preso in considerazione le sue argomentazioni in merito al fatto che
il comune gli aveva concesso un'amnistia; tuttavia, hanno ordinato che il
magazzino fosse demolito dopo aver constatato che egli non poteva
beneficiarne (vedere paragrafo 6 sopra).
Quanto al rilascio di un
certificato di idoneità all'uso, che si riferisce alla questione separata
della sicurezza dell'edificio (vedere paragrafo 34 sopra), i tribunali
nazionali hanno ritenuto tale certificato irrilevante rispetto alle
normative edilizie (vedere paragrafo 16 sopra).
La
Corte ritiene pertanto che, a seguito della sua condanna, il ricorrente non
potesse ragionevolmente fare affidamento sulla legalità del magazzino
(vedere, mutatis
mutandis, Depalle,
§ 86; Hamer,
§ 85; e Zhidov
e altri,
§ 106, tutti citati sopra).
85. Infatti,
nonostante l'ordinanza di demolizione, il ricorrente stesso non ha adottato
alcuna iniziativa per ottemperarvi, continuando invece a trarre beneficio
per molti anni da una costruzione che avrebbe dovuto essere demolita (cfr. Vagnola
spa & Madat Srl c. Italia (dec.),
n. 7653/04,
12.01.2010).
86. In
tale contesto, la Corte ritiene quindi che l'iniziativa delle autorità di
far rispettare l'ordinanza di demolizione in questione fosse necessaria per
ripristinare la situazione a quella che sarebbe stata se non fossero stati
ignorati i requisiti di legge. In questo modo, le autorità garantiscono
l'efficacia delle normative edilizie e scoraggiano altri potenziali
trasgressori (vedi Saliba, cit.,
§ 46, e Tiryakioglu
c. Turchia (dec.),
n. 24404/02,
13.05.2008).
87. Secondo
la Corte, il fatto che sia trascorso un certo periodo di tempo prima
dell'esecuzione dell'ordine di demolizione da parte del pubblico ministero
non può portare a una conclusione diversa. Infatti, secondo il diritto
interno, gli ordini di demolizione non sono soggetti a prescrizione (vedere
paragrafo 46 sopra) e non vi è nulla nella condotta delle autorità
successiva alla condanna che suggerisca che l'ordine di demolizione emesso
dal giudice abbia perso la sua validità e che il magazzino del ricorrente
non sarebbe stato demolito (confronta Hamer,
citato sopra, § 85).
88. In
tali circostanze, la Corte conclude che il ricorrente non sopporterebbe un
onere eccessivo a seguito dell'esecuzione dell'ordine di demolizione del suo
magazzino (vedi Tiryakioglu, citato
sopra, e Galena
Vraniskoska c. "Ex Repubblica jugoslava di Macedonia "
(dec.), n. 30844/06,
12.04.2011).
89. Ne
consegue che il presente ricorso è manifestamente infondato e deve essere
respinto ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
Per
queste ragioni la Corte, all’unanimità,
Dichiara la
domanda inammissibile.
---------------
L'unica
modifica introdotta dal Testo Unico sull'edilizia è che l'autorità
preposta alla vigilanza sull'urbanistica e sull'edilizia non è più il
sindaco, ma il dirigente o il responsabile dell'ufficio comunale
competente.
L'articolo
31 del Testo Unico delle Costruzioni è stato poi modificato dal
decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (convertito dalla legge
11.11.2014, n. 164 ed entrato in vigore il 13.09.2014), che ha introdotto
i commi 4- bis,
4-ter e
4-quater,
prevedendo che in caso di inosservanza dell'ordine di demolizione è
irrogata anche una sanzione pecuniaria.
Ai
sensi dell'articolo 36 del Testo Unico sull'edilizia, l'autorizzazione
retroattiva può essere rilasciata se l'opera edilizia abusiva è conforme
non solo alle norme edilizie, ma anche a quelle urbanistiche.
La
terza sanatoria edilizia è stata introdotta dall'articolo 35 del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito con
modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326.
Abrogato
dall'art. 136 del Testo Unico delle Costruzioni con efficacia dal
30.06.2003. La disciplina legislativa del certificato di agibilità
(relativo agli edifici residenziali e non residenziali) è ora
integralmente prevista dall'art. 24 del Testo Unico delle Costruzioni (Agibilità ).
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maggio 2024 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L. Marzano,
RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA - ABUSI EDILIZI: TIPOLOGIE,
CONSEGUENZE E RIMEDI (10.05.2024 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Premessa.
§1. Inquadramento normativo.
§1.1. Lo stato legittimo dell’immobile. §1.1.1. Ricostruzione dell’istituto.
§1.2. Nozione di variazione essenziale. §1.3. L’abuso edilizio.
§2. L’ordine di sospensione dei lavori.
§2.1. Natura ed efficacia dell’ordinanza di sospensione. §2.1.1. La
giurisprudenza amministrativa. §2.2.2. La giurisprudenza penale. §2.1.3.
Punti di convergenza e profili di contrasto.
§3. L’ordine di demolizione.
§3.1. Il fattore tempo: affidamento e onere motivazionale. §3.2. L’incidenza
del fattore tempo nel diverso caso di annullamento d’ufficio del titolo.
§3.3. Natura vincolata dell’ordine di demolizione. §3.4. Ordine di
demolizione delle opere realizzate in forza di permesso di costruire
decaduto.
§4. Inottemperanza all’ordine di demolizione.
§4.1. Il quadro normativo. §4.2. I principi espressi dall’Adunanza plenaria.
§4.2.1. Prima fase: attività possibili nei 90 giorni dall’intimazione.
§4.2.2. Seconda fase: conseguenze dell’inutile decorso dei 90 giorni.
§4.2.3. Terza fase: immissione in possesso. §4.2.4. Quarta fase: le sorti
dell’immobile acquisito. §4.3. La sanzione pecuniaria ex art 31, comma 4-bis
t.u. edilizia. §4.4. Destinatari dell’ordine di demolizione. §4.5. Notifica
del verbale di inottemperanza.
§5. Acquisizione al patrimonio pubblico.
§5.1. Immobile sottoposto a sequestro. §5.2. Soggetti passivi del
provvedimento di acquisizione. §5.2.1. Omessa notifica agli eredi. §5.3.
Individuazione dell’area di sedime. §5.4. Ordine di sgombero di bene
acquisito al patrimonio pubblico.
§6. Fiscalizzazione dell’abuso.
§6.1. Inquadramento normativo. § 6.2. La giurisprudenza amministrativa.
§6.2.1. Ipotesi di permesso di costruire annullato. §6.2.2. Ipotesi di opere
eseguite in parziale difformità. §6.2.3. Ipotesi di opere eseguite in
parziale difformità. §6.2.4. Tipologia dell’immobile. §6.2.5. Rapporto tra
le diverse fattispecie di fiscalizzazione. §6.3. Gli approdi dell’Adunanza
plenaria. §6.4. La giurisprudenza penale.
§7. Accertamento di conformità.
§7.1. La doppia conformità. §7.2. I principi espressi dalla Corte
costituzionale. §7.3. Termine entro il quale si può proporre istanza. §7.4.
Soggetti legittimati a presentare l’istanza. §7.5. L’onere della prova.
§7.6. Immobili situati in area vincolata. §7.7. Le sorti del bene abusivo
oggetto di procedura esecutiva. §7.8. Interventi ulteriori su immobili
abusivi.
§8. Il rilascio del titolo in sanatoria.
§8.1. Il silenzio sulla domanda di accertamento di conformità. §8.2. Il
silenzio nel procedimento per il rilascio del permesso di costruire. §8.3.
Il silenzio nei procedimenti di condono edilizio. § 8.4. Effetti della
presentazione della domanda di sanatoria: differenze fra accertamento di
conformità e condono. §8.5. Il regime della sospensione legale.
§9. Aspetti processuali.
§9.1. La tutela del terzo. §9.2. Controinteressati e legittimazione. §9.3.
Rapporti fra vicende del giudizio penale e provvedimento amministrativo.
§9.4. Contestazione in giudizio dell’abusività delle opere.
§10. Conclusioni.
§10.1. Aspetti sostanziali. § 10.2. Aspetti processuali. |
marzo 2024 |
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COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce dato affatto ricevuto quello in virtù
del quale “L’adozione dell'ordinanza di demolizione di opere
sine titulo rientra nella competenza del dirigente comunale
ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei
responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi
implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia
riferimento alla competenza del Sindaco in materia”, a nulla
potendo per certo rilevare la assenza di disposizioni
attuative in tal senso dello statuto comunale ovvero di
matrice regolamentare, discendendo tale attribuzione
direttamente dalla legge, e ciò già con l’art. 2, comma 12,
l. 16.06.1998 n. 191.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del
Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad
oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in
Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune
di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive
ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020,
consistenti nella realizzazione di una piscina con i
conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente
avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente
deducendo:
...
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Va in primo luogo scrutinato il primo mezzo che,
in ossequio all’indefettibile ordo quaestionum (CdS,
a.p. 5/15) che connota il processo amministrativo ed a
prescindere da una eventuale volontà di graduazione della
parte ricorrente (volontà peraltro, nella fattispecie, non
mai disvelatasi), assume carattere preliminare, ponendo
questioni di incompetenza e di mancato esercizio del potere
da parte dell’organo competente a rendere un parere, che nel
caso che ne occupa dovrebbe individuarsi nella commissione
edilizia.
2.1.1. Il mezzo non è fondato.
2.1.2. E, invero, costituisce dato affatto ricevuto quello
in virtù del quale “L’adozione dell'ordinanza di
demolizione di opere sine titulo rientra nella competenza
del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della
qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e
servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni
disposizione che faccia riferimento alla competenza del
Sindaco in materia”, a nulla potendo per certo rilevare
la assenza di disposizioni attuative in tal senso dello
statuto comunale ovvero di matrice regolamentare,
discendendo tale attribuzione direttamente dalla legge, e
ciò già con l’art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191 (TAR
Campania, IV, 04.07.2019, n. 3700; Id. VI, 01.02.2019, n.
537; Id., id., 06.03.2018, n. 1416) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza
25.03.2024 n. 1995 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che
verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non
costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di
demolizione, giusta l’inveterato insegnamento per cui
l’omessa, puntuale, indicazione dell'area suscettibile di
essere acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in
caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai
vale a minare la validità ed efficacia dell’ordine di
demolizione.
La ingiunzione a demolire -indirizzata al trasgressore,
ovvero al proprietario dell’area- è direttamente finalizzata
al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90
giorni.
La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere,
della relativa area di sedime e dell'area di pertinenza
urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza
discendente ex lege ed ex post dalla inottemperanza
all’ordine impartito; la puntuale individuazione e
delimitazione della effettiva latitudine di tale effetto
legale di ablazione, indi, ben può essere oggetto di
successive certazioni ad opra della Autorità.
---------------
Costituisce dato pacifico quello in forza del quale ai fini
dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi
edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è
necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
Nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu intesa
può affliggere il gravato provvedimento di ingiunzione a
demolire trattandosi di atto che -certando la esistenza di
un illecito edilizio, ed irrogando la relativa sanzione-
necessita di giustificazione, più che di motivazione,
consistente:
- nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione delle
opere e degli interventi edilizi;
- nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli
necessitanti di un titolo abilitativo;
- nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza
del prescritto provvedimento abilitante.
Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale i
provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto
espressione di actio vincolata nel contenuto, non
abbisognano di specifica motivazione -intesa come
estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse
pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto,
all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in
giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est della
certazione della esistenza di attività edilizia realizzata
in dispregio delle regole.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del
Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad
oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in
Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune
di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive
ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020,
consistenti nella realizzazione di una piscina con i
conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente
avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente
deducendo:
...
2.3. Anche il quarto mezzo non è fondato.
2.3.1. L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà
acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce
motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione,
giusta l’inveterato insegnamento per cui l’omessa, puntuale,
indicazione dell'area suscettibile di essere acquisita
gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di
inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai vale a
minare la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione (ex
pluribus, Tar Campania, VI, 02.02.2021, n. 697; TAR
Lombardia, II, 03.01.2023, n. 54).
2.3.2. La ingiunzione a demolire -indirizzata al
trasgressore, ovvero al proprietario dell’area- è
direttamente finalizzata al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di 90 giorni.
2.3.3. La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle
opere, della relativa area di sedime e dell'area di
pertinenza urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza
discendente ex lege ed ex post dalla
inottemperanza all’ordine impartito; la puntuale
individuazione e delimitazione della effettiva latitudine di
tale effetto legale di ablazione, indi, ben può essere
oggetto di successive certazioni ad opra della Autorità (TAR
Campania, VI, 18.07.2023, n. 4380).
2.3.4. Tutt’affatto irrilevanti, di poi, si appalesano gli
adombrati dubbi di costituzionalità della norma che ne
occupa, di poi, giusta la pluriennale giurisprudenza
formatasi in subiecta materia.
2.4. Anche il quinto mezzo, con cui si veicolano
censure afferenti alla asserita violazione delle prerogative
di partecipazione procedimentale spettanti alla ricorrenti,
non è fondato, atteso che, siccome si è avuto modo di
illustrare supra in sede di negativo scrutinio dei
motivi “afferenti al merito”, il contenuto
dispositivo dell’impugnato provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso.
2.4.1. La certazione giudiziale della legittimità della
azione provvedimentale quivi censurata rende irrilevante la
(asserita) pretermissione procedimentale, attesa la
inidoneità di un qualsiasi apporto collaborativo a
determinare una differente conclusione della vicenda (TAR
Campania, VI, 20.07.2020, n. 3210; TAR Lombardia, I,
26.09.2018, n. 2145).
2.4.2. La ricaduta patologica di tale lamentata violazione “formale
e/o procedimentale” è quindi sterilizzata
dall’applicazione dell’art. 21-octies della legge 241/1990,
norma che ben si attaglia anche alla omessa comunicazione di
avvio del procedimento finalizzato alla adozione della
ingiunzione a demolire.
2.4.3. D’altra parte, costituisce dato pacifico quello in
forza del quale ai fini dell’adozione di provvedimenti
sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata
degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione
dell’avvio del procedimento (TAR Campania, VI, 10.08.2020,
n. 3560; CdS, VI, 12.05.2020, n. 2980; CdS, VI, 11.03.2019,
n. 1621).
2.5. Quanto alla ultima censura di carenza
motivazionale, è sufficiente il rilevare, sul punto, che
nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu
intesa può affliggere il gravato provvedimento di
ingiunzione a demolire trattandosi di atto che -certando la
esistenza di un illecito edilizio, ed irrogando la relativa
sanzione- necessita di giustificazione, più che di
motivazione (TAR Campania, VI, 31.05.2023, n. 3329),
consistente:
- nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione
delle opere e degli interventi edilizi;
- nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli
necessitanti di un titolo abilitativo;
- nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza
del prescritto provvedimento abilitante (TAR Campania, VI,
18.07.2023, n. 4380).
2.5.1. Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale
i provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto
espressione di actio vincolata nel contenuto, non
abbisognano di specifica motivazione -intesa come
estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse
pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto,
all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in
giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est
della certazione della esistenza di attività edilizia
realizzata in dispregio delle regole (TAR Campania, VI,
10.08.2020, n, 3560, cit.; Id., id., 22.05.2020, n. 1939) (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza
25.03.2024 n. 1995 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Su alcune questioni in tema di parere paesaggistico e poteri
della Soprintendenza in materia di condono edilizio nella
Regione Siciliana.
---------------
Edilizia e urbanistica – Condono – Sicilia - Parere
paesaggistico – Atto endoprocedimentale – Provvedimento
finale - Competenza – Comune – Soprintendenza – Poteri
repressivi – Insussistenza.
A differenza dell’ordinario regime
previsto dagli artt. 146 e 167 del d.lgs. n. 42/2004, il
parere reso dall’ente di tutela del vincolo paesaggistico
nei procedimenti di rilascio del titolo edilizio in
sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge 28.02.1985,
n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla l.
23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n.
269, conv., con mod, dalla l. 24.11.2003, n. 326), seppure
obbligatorio e vincolante, costituisce un atto
endoprocedimentale della procedura ex art. 35 della l. n.
47/1985 destinato a concludersi con il provvedimento del
Comune, unica autorità procedente e competente a definire il
procedimento. (1).
Confermata integralmente da C.g.a., sez. giur., 20.09.2024,
n. 715
---------------
Edilizia e urbanistica - condono edilizio - Sicilia - comune
- rilascio - beni culturali, paesaggistici e ambientali -
soprintendenza - poteri repressivi - annullamento -
concessione in sanatoria - necessità.
Nei procedimenti di rilascio del titolo
edilizio in sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge
28.02.1985, n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla
l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n.
269, conv., con mod., dalla l. 24.11.2003, n. 326), l’ente
di tutela del vincolo paesaggistico è privo dei poteri
ripristinatori e repressivi ex art. 167, commi 1-3, del
d.lgs. n. 42/2004. (2).
Sentenza
integralmente confermata da C.g.a., sez. giur., 20.09.2024,
n. 715
---------------
(1) Conformi: C.g.a., sez. giur., 17.07.2023, n. 443, Cons. Stato,
sez. VI, 01.03.2023, n. 2195.
Difformi: Non risultano specifici
precedenti difformi
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.03.2024 n. 978 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il ricorso è fondato e va accolto.
Al fine di chiarire il percorso logico-giuridico della
presente decisione, occorre necessariamente ripercorrere
brevemente la disciplina del regime di sanatoria delle opere
abusive delineato dall’art. 31 e ss. della l. n. 47/1985 e
della pertinente normativa regionale siciliana, onde
comprendere le differenze con il fisiologico procedimento di
rilascio del titolo edilizio in presenza di vincoli
paesaggistici e di accertamento di conformità postumo
previsto dall’art. 13 della l. n. 47/1985 e oggi dall’art.
36 del d.P.R. n. 380/2001.
Nel sistema delineato dal d.lgs. n. 42/2004, secondo quanto
previsto dall’art. 146, commi 1 e 4, l’autorizzazione
paesaggistica è individuata espressamente quale atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio.
Invero, nel predetto d.lgs. n. 42/2004 si prevede che ogni
intervento edilizio suscettibile di recare pregiudizio ai
valori paesaggistici oggetto di protezione (nozione
afferente alla previa valutazione della rilevanza
paesaggistica dell’intervento così come delineata dall’art.
149) su immobili e aree di interesse paesaggistico, tutelati
dalla legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla
legge, ai sensi degli articoli 136, 143, comma 1, lettera
d), e 157, nell’ambito di aree sottoposte a vincolo ai sensi
dell’art. 146, comma 4, debba essere previamente autorizzato
dalla regione su parere vincolante della Soprintendenza per
i beni culturali e ambientali, quale organo periferico del
competente Ministero.
In tali casi, pertanto, l’omessa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica –che l’art. 146, comma 4,
delinea come atto autonomo– rende puramente inefficace il
titolo edilizio eventualmente rilasciato, con la conseguenza
che ex art. 167, comma 1 (ai sensi del quale “in caso di
violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo
I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto
previsto al comma 4”), l’ente di tutela non è privato del
potere repressivo (anzi è espressamente previsto in suo
favore), paralizzabile solo con l’eventuale accertamento
postumo di compatibilità paesaggistica ex artt. art. 167,
commi 4 e 5 del medesimo d.lgs. n. 42/2004 e 17 del d.P.R.
n. 31/2017, al cui effettivo rilascio –su istanza
dell’interessato– consegue il riacquisto dell’efficacia del
titolo edilizio, potendosi così predicare la legittimità ex tunc dell’intervento edilizio eseguito (Cons. Stato, sez.
VI, n. 7701/2022).
Giova evidenziare che il procedimento delineato dall’art.
146 del d.lgs. n. 42/2004 per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica da parte della regione
concretizza una forma di cogestione (Cons. Stato, sez. VI,
23.07.2018, n. 4466) del vincolo da parte delle autorità
nazionali e regionali e in cui la valenza vincolante del
parere reso dalla Soprintendenza rispetto all’autorizzazione
regionale cessa nel caso del mancato rispetto del termine endoprocedimentale di cui al comma 9 del predetto art. 146.
La stessa forma di cogestione –anche se con tempistiche
procedurali differenti e con i limiti ivi stabiliti– è
prevista per il rilascio dell’autorizzazione in sanatoria ex
art. 167, comma 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004.
Quanto fin qui brevemente esposto in relazione al
procedimento per il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica preventiva e in sanatoria e al delineato
sistema di cogestione del vincolo non è replicabile
nell’ordinamento siciliano, giacché
«la Regione Siciliana
gode di potestà legislativa primaria in materia di «tutela
del paesaggio» e che, nel suo esercizio, essa ha stabilito
che tutte le attribuzioni degli organi centrali e periferici
dello Stato nella materia –attribuzioni trasferite alla
Regione dall’art. 1 del d.P.R. 30.08.1975, n. 637 (Norme
di attuazione dello statuto della regione siciliana in
materia di tutela del paesaggio e di antichità e belle arti)– sono esercitate dall’Assessorato regionale dei beni
culturali ed ambientali e della pubblica istruzione (art. 3
della legge della Regione Siciliana 01.08.1977, n. 80,
recante «Norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso
sociale dei beni culturali ed ambientali nel territorio
della Regione siciliana»), ora denominato Assessorato
regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, di
cui sono organi periferici le «Soprintendenze per i beni
culturali ed ambientali» istituite su base provinciale (a
loro volta passate alle dipendenze della Regione in base a
quanto previsto dall’art. 3 del citato d.P.R. n. 637 del
1975).
La stessa legislazione siciliana affida poi alle
soprintendenze il rilascio o il diniego dell’autorizzazione
paesaggistica (art. 46, comma 1, della legge della Regione
Siciliana 28.12.2004, n. 17, recante «Disposizioni
programmatiche e finanziarie per l’anno 2005»). […]
L’attribuzione del potere decisorio alla soprintendenza è
evidentemente incompatibile con la previa acquisizione del
suo parere, il quale resta assorbito nella decisione
finale.» (Corte cost., 22.07.2021, n. 160).
Nella Regione Siciliana, pertanto, a prescindere dalla
terminologia utilizzata negli atti (parere, nulla-osta,
ecc.), in ragione del sistema di competenze ut supra
delineato, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ex
art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, nonché del
provvedimento di accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n.
42/2004 sono procedimentalmente semplificati, giacché
rientranti nell’esclusiva competenza della Soprintendenza.
Ciò posto, nel diverso ambito dei procedimenti di sanatoria
ex art. 32 della l. n. 47/1985, il parere delle
amministrazioni preposte alla tutela dal vincolo (tra cui è
ricompreso anche il vincolo paesaggistico ex d.lgs. n.
42/2004) non costituisce un provvedimento autonomo rispetto
al titolo edilizio così come previsto per l’art. 146, del
d.lgs. n. 42/2004, ma integra la fase endoprocedimentale di
gestione del vincolo paesaggistico costituente un mero
segmento (seppure obbligatorio con effetti vincolanti) del
procedimento ex art. 35 della l. n. 47/1985, la cui
definizione è riservata esclusivamente all’autorità
comunale, la quale però non può statuire sull’istanza di
sanatoria avendo riguardo alla sola destinazione urbanistica
dell'area, come ricavabile dalle pertinenti previsioni del
P.R.G., essendo obbligata a tenere conto anche delle
esigenze afferenti al vincolo ivi esistente così come
enucleate dall'Amministrazione preposta alla sua tutela nel
relativo parere (Cons. Stato, Sez. VI, 10.04.2020, n.
2369).
La valenza obbligatoria e vincolante di tale parere emerge
dal tenore delle pertinenti disposizioni di legge che,
utilizzando il verbo “subordinare”, enuncia l’inscindibile
correlazione tra il rilascio del titolo abilitativo edilizio
in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a
vincolo e il parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla tutela del vincolo stesso (art. 32, comma 1,
della l. n. 47/1985 e art. 23 della l.r. n. 37/1985).
È sul punto chiaro l’insegnamento di Cons. Stato, sez. IV, 07.12.2016, n. 5162 secondo cui «Il rilascio del titolo
abitativo edilizio in sanatoria, per le opere eseguite su
immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, è subordinato
al parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla
tutela del vincolo stesso, ex art. 32 l. 28.02.1985 n.
47, con un rinvio mobile alla disciplina del “procedimento
di gestione del vincolo paesaggistico”, costituente una
“fase indispensabile” per la positiva conclusione del
“procedimento di condono”, inteso quale strumento riservato
allo Stato, ad estrema difesa del paesaggio, valore
costituzionale primario da tutelare».
Alla natura di atto endoprocedimentale (seppur vincolante)
del parere paesaggistico reso in sede di condono edilizio –a differenza che nel fisiologico procedimento ex art. 146
del d.lgs. n. 42/2004– consegue la facoltà (ma non l’onere)
per il privato di impugnarlo stante la sua idoneità a
costituire un arresto procedimentale altrimenti non
superabile dell’iter del condono che deve, però,
necessariamente concludersi con il provvedimento
dell’autorità comunale, quale atto “finale”, senza
diversamente potersi prospettare l’ipotesi di conseguimento
del titolo seppur ancora non efficace in assenza del parere
dell’ente preposto alla tutela paesaggistica.
Ne deriva «che ogni eventuale procedimento sanzionatorio può
essere avviato solo successivamente all’adozione del
provvedimento terminale del procedimento di sanatoria
edilizia: nell’un caso (accoglimento dell’istanza) non vi è
luogo ad alcun provvedimento sanzionatorio in quanto la
accordata sanatoria crea “ora per allora” un titolo
abilitante che rende l’opera conforme ai parametri edilizi
ed urbanistici; nell’opposto caso, invece, l’eventuale
provvedimento di diniego della concessione del titolo
abilitante in sanatoria determina –ipso facto– l’obbligo
[…] di attivare il procedimento sanzionatorio finalizzato
alla eliminazione dell’abuso.» (C.G.A.R.S., Adunanza delle
sezioni riunite, 04.09.2012, n. 1540).
Tale sistema volto a garantire nelle more del procedimento
l’integrità del manufatto condonabile non è derogabile
neppure richiamando i poteri sanzionatori previsti dall’art.
167, commi 1-3, del d.lgs. 42/2004 (Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n. 2195).
Le suddette coordinate interpretative –che il Collegio
condivide e che intende interamente richiamare– consentono
di ritenere il parere dell’ente di tutela quale mero atto endoprocedimentale la cui omissione si riflette
esclusivamente sulla legittimità del provvedimento finale di
condono, che dispiega pienamente la propria efficacia.
In tale contesto, invero, le eventuali violazioni sulle
modalità di acquisizione di tale parere più volte
modificate, sia in ambito nazionale (prevedendosi
originariamente, nel caso di inerzia dell’ente di tutela il
silenzio-diniego e, successivamente, con la modifica
dell’art. 32, comma 1, della l. n. 47/1985 da parte
dell’art. 2, comma 39, della l. 23.12.1996, n. 662 –a
decorrere dal 01.11.1997– il silenzio-assenso,
meccanismo di favor per il privato nuovamente modificato
dall’art. 32, comma 43, del d.l. 30.09.2003, n. 269, conv. in L. 24.11.2003, n. 326, che ha previsto il
meccanismo meno favorevole del silenzio-rifiuto) sia in
ambito regionale (con la previsione del silenzio-assenso
introdotto dall’art. 17, comma 6, della l.r. n. 4/2003 la
cui vigenza –per un orientamento giurisprudenziale che
assimila tale fattispecie con quella prevista dall’art. 46
della l.r. n. 17/2004 [oggetto della sentenza della Corte
cost., 15.07.2021, n. 155]– è cessata a seguito
dell’entrata in vigore dell’art. 7, comma 1, della l.r. n.
5/2011 e, pertanto a far data dal 16.04.2011 [C.G.A.R.S.,
sez. giur., 05.05.2023, n. 322) si riflettono unicamente
sulla legittimità della concessione edilizia in sanatoria
rilasciata dal Comune.
Ne deriva, pertanto, che, ove sussistenti tutti i
presupposti, l’esercizio del potere di autotutela ex art.
21-nonies della l. n. 241/1990, nel caso in cui il parere
sia stato omesso o travisato, può essere solo sollecitato
dall’ente di tutela al Comune.
In altre parole, a fronte del potere altamente condizionante
rispetto all’esito del procedimento di condono attribuito
agli enti di tutela ex art. 32 della l. n. 47/1985,
l’ordinamento ha precluso l’esercizio dei poteri repressivi
che sono, di norma, ad essi attribuiti negli ordinari
procedimenti di rilascio dei titoli edilizi o di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del
2001.
Svolta tale ampia premessa, nell’esaminare la fattispecie
all’esame del Collegio deve rilevarsi come il provvedimento
impugnato emesso dalla Soprintendenza di -OMISSIS- sia
sostanzialmente motivato per relationem alla circolare prot.
-OMISSIS- dell’Assessorato dei beni culturali e dell’identità
siciliana che, invero, si è limitata a sintetizzare gli
effetti della sentenza della Corte costituzionale n.
252/2022, così come già ricostruiti della giurisprudenza
amministrativa secondo cui:
- il c.d. terzo condono, in Sicilia, è regolato dall’art. 24
della l.r. 05.11.2004, n. 15, il cui comma 1 stabilisce
che dalla «data di entrata in vigore della presente legge è
consentita la presentazione dell'istanza per il rilascio
della concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art.
32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, convertito
con legge 24.11.2003, n. 326 e successive
modificazioni e integrazioni».
- l’art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, in
legge 24.11.2003, n. 326, stabilisce che, fermo quanto
previsto dagli artt. 32 e 33 della legge 28.02.1985,
n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di
sanatoria qualora “siano state realizzate su immobili
soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e
regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle
falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché
dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e
provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di
dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche
e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
- secondo consolidata e condivisa giurisprudenza (cfr.,
Cons. Stato, sez. I, 18.01.2023, n. 90; Cons. Stato,
sez. VI, 14.10.2022, n. 8781), sono insanabili, ai
sensi della suddetta disposizione, le opere abusive
realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui
quello idrogeologico, ambientale e paesistico), a meno che
non ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: che si
tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del
vincolo (e non necessariamente che comporti l’inedificabilità
assoluta); che, pur realizzate in assenza o in difformità
del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni
urbanistiche; che siano opere di minore rilevanza,
corrispondenti alle tipologie di illeciti di cui ai nn. 4,
5, e 6 dell’allegato 1 al decreto legge 30.09.2003,
n. 269 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione
straordinaria); che ci sia il parere favorevole
dell’autorità preposta al vincolo.
- la sentenza della Corte costituzionale, 19.12.2022,
n. 252 –nel dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Sic. 29.07.2021,
n. 19 (“1. L’articolo 24 della legge regionale 05.11.2004, n. 15 si interpreta nel senso che sono recepiti i
termini e le forme di presentazione delle istanze presentate
ai sensi dell'articolo 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, e pertanto resta ferma
l'ammissibilità delle istanze presentate per la
regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette
a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel
rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge
vigente”), nonché, in via conseguenziale, degli artt. 1,
comma 2, e 2 della medesima legge reg. Sic. 29.07.2021,
n. 19– ha chiarito che:
i) il citato art. 24 della legge
reg. Sic. 05.11.2004, n. 15 richiama espressamente
l’art. 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, come
convertito, nella sua integralità; di conseguenza, tale
rinvio riguarda non solo i termini e le forme della
richiesta di concessione in sanatoria, ma anche i limiti
entro i quali questa deve essere rilasciata, tra cui quello
previsto dal citato comma 27, lettera d), dell’art. 32, che
attribuisce «carattere ostativo alla sanatoria anche in
presenza di vincoli che non comportino l’inedificabilità
assoluta»;
ii) in tal senso, si è espressa ripetutamente,
tra l’altro, la Corte di cassazione penale, chiarendo che la
legge reg. Sicilia 10.08.1985, n. 37, nel recepire il
primo condono edilizio, che ammetteva la sanatoria in
presenza di vincoli relativi, non può prevalere sulla
normativa statale sopravvenuta che disciplina, in ogni suo
aspetto, il terzo condono edilizio e che è anch’essa
recepita dalla citata legge reg. Sic. 05.11.2004, n.
15, mentre non pare condivisibile il diverso avviso del C.G.A.R.S., Adunanza del 31.01.2012, parere n. 291 del
2010, secondo cui, nell’ambito della Regione Siciliana,
dovrebbe continuare ad applicarsi la disciplina attuativa
del primo condono edilizio, prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, preclusiva della sanatoria solo a fronte di
vincoli di inedificabilità assoluta;
iii) deve dunque
escludersi che l’applicabilità del condono edilizio in
presenza di vincoli relativi possa rientrare «tra le
possibili varianti di senso del testo originario» dell’art.
24 della legge reg. Sic. 05.11.2004, n. 15;
iv)
assurgono a norme di grande riforma economico-sociale le
previsioni statali relative alla determinazione massima dei
fenomeni condonabili, cui devono senz’altro ricondursi
quelle che individuano le tipologie di opere insuscettibili
di sanatoria ai sensi dell’art. 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, come convertito, incluso il limite
di cui alla lettera d).
La possibilità di condonare le opere realizzate in area
sottoposta a vincolo paesaggistico solo nelle ipotesi
contemplate all’art. 32, commi 26 e 27, lett. d), del d.l.
n. 269/2003 (così come interpretato dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 252/2022) non implica la deroga alle
predette regole in ordine alla valenza endoprocedimentale
del parere paesaggistico (giacché l’art. 32, comma 25, del
d.l. n. 269/2003 conv. in l. n. 326/2003, richiama “Le
disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come
ulteriormente modificate dall'articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724, e successive modificazioni e
integrazioni nonché dal presente articolo” e pertanto anche
l’art. 44 già citato) e alla preclusione del potere
repressivo attribuito all’ente di tutela, non potendosi
ritenere la nullità (e non già la mera annullabilità) della
concessione edilizia rilasciata.
Non è infatti invocabile ex art. 21-septies della l. n.
241/1990 un difetto assoluto di attribuzione in capo
all’ente comunale di rilasciare il titolo in sanatoria con
riferimento ad un fabbricato insistente in zona
paesaggistica.
E invero, l’art. 32 del d.l. n. 269/2003, conv. in l. n.
326/2003 –seppure con limiti e presupposti dettati dalla
Corte cost. n. 252/2022 più stringenti di quelli dettati dal C.G.A.R.S., Adunanza del 31.01.2012, parere n. 291 del
2010– consente la definizione di procedimenti di sanatoria
ex d.l. n. 269/2003, anche in presenza di un vincolo
paesaggistico, sicché, anche per tale tipologia di condono,
deve affermarsi l’impossibilità e la preclusione per gli
enti di tutela di adottare provvedimenti costituenti esplicitazione di forme di autotutela esecutiva non mediate
dal previo annullamento del titolo in sanatoria (peraltro
nel caso di specie, sollecitato dalla Soprintendenza
intimata con la nota n. 428 del 10.01.2024).
D’altronde, la circolare assessoriale in esame non impone
alle Soprintendenze di esercitare i poteri ex art. 167,
commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004, limitandosi a indicare gli
effetti della sentenza della Corte cost. n. 252/2022 sulle
statuizioni di propria competenza con riferimento al
segmento endoprocedimentale di cui all’art. 32 del d.l. n.
269/2003.
Ciò posto, pertanto, i primi quattro motivi di ricorso,
afferendo a profili di violazione di garanzie procedimentali
non rilevanti nel procedimento in esame, devono essere
rigettati.
Allo stesso modo, anche il quinto motivo di ricorso in
ordine all’intervenuta formazione del silenzio-assenso sulla
richiesta di nulla-osta paesaggistico non assume rilevanza
nel presente giudizio, che, per quanto fin qui esposto, ha
ad oggetto la legittimità dell’esercizio dei poteri di autotutela esecutiva da parte dell’ente di tutela.
Il ricorso è meritevole di accoglimento con riferimento al
sesto motivo di ricorso nella parte in cui si denuncia la
contraddittorietà tra il disposto del provvedimento
impugnato e l’intervenuto rilascio della concessione
edilizia in sanatoria, giacché il sistema ut supra delineato
assegna al Comune, quale ente preposto al rilascio del
permesso di costruire e alla vigilanza sul corretto uso del
territorio comunale, il potere di ricevere le domande di
condono, istruire i procedimenti e sanzionare gli abusi
edilizi non sanabili (Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n.
2195).
In conclusione può affermarsi che:
1) “a differenza dell’ordinario regime previsto dagli artt. 146
e 167 del d.lgs. n. 42/2004, il parere reso dall’ente di
tutela del vincolo paesaggistico nei procedimenti di
rilascio del titolo edilizio in sanatoria ai sensi dei capi
IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 (così come riproposti
dall’art. 39 dalla l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del
d.l. 30.09.2003, n. 269, conv., con mod., dalla l.
24.11.2003, n. 326), seppure obbligatorio e vincolante,
costituisce un atto endoprocedimentale della procedura ex
art. 35 della l. n. 47/1985 destinato a concludersi con il
provvedimento del Comune, unica autorità procedente e
competente a definire il procedimento”;
2) “nei procedimenti di rilascio del titolo edilizio in
sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge 28.02.1985,
n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla l.
23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n.
269, conv., con mod., dalla l. 24.11.2003, n. 326),
l’ente di tutela del vincolo paesaggistico è privo dei
poteri ripristinatori e repressivi ex art. 167, commi 1-3,
del d.lgs. n. 42/2004”.
Alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso deve
essere accolto, e, per l’effetto il provvedimento impugnato
va annullato (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.03.2024 n. 978 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2024 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: direttive di intervento in materia edilizio-urbanistica (D.P.R.
380/2001), vincoli paesaggistici e storico-architettonici (D.Lgs 42/2004 e
L. 22/2022) e aree protette (L. 394/1991) (PROCURA della Repubblica di
Bergamo,
nota 24.01.2024 n. 218 di prot.).
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Sommario
1. Premessa - 2. Contenuti, tempistica e modalità di
deposito della comunicazione di notizia di reato - 3. Attività d’indagine
d’iniziativa - 4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero - 5.
Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine - 6. Reati
di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico - 7. Gli “elenchi
mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 - 8. La comunicazione di avvio
del procedimento - 9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma
1-quater, D.Lgs. 42/2004 - 10. Gli interventi di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi - 11. La segretezza delle indagini di polizia
giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute
nelle CNR - 12. Conclusioni
1. Premessa
La gestione delle comunicazioni di notizia di reato
attinenti agli ambiti richiamati all’oggetto crea, a volte, disguidi.
Vengono, infatti, periodicamente riscontrate problematiche inerenti allo
svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria e agli accertamenti
tecnici, nonché relative alle modalità di inoltro delle comunicazioni di
notizia di reato.
In particolare, continuano a pervenire, a volte da parte della
Polizia Locale a volte da parte dell’Ufficio Tecnico, isolate ordinanze di
sospensione lavori o di demolizione o isolati permessi a costruire in
sanatoria, comunicazioni prive addirittura delle complete generalità dei
soggetti denunciati, senza l’indicazione del numero di procedimento a cui
fanno riferimento, in assenza di qualsivoglia atto di indagine o, comunque,
in mancanza di una comunicazione di notizia di reato completa, ossia redatta
con i contenuti espressamente indicati all’art. 347 c.p.p..
Ciò comporta la moltiplicazione dei fascicoli inerenti al medesimo
fatto-reato e, soprattutto, una dispersione di energie e risorse perché, in
mancanza delle necessarie indagini, che il Magistrato sarà costretto a
disporre, non sarà possibile definire celermente il procedimento, con
fondato rischio di prescrizione del reato e, quindi, di vanificazione del
lavoro di tutti.
Lo scopo di questa direttiva è, quindi, quello di regolamentare il
flusso delle c.n.r. ed evitare che pervengano alla Procura della Repubblica
segnalazioni incomplete o improprie, ovvero la duplicazione delle stesse.
Pertanto, la presente direttiva viene trasmessa a tutti gli Enti e
Organi competenti negli ambiti di cui all’oggetto.
La presente direttiva fa, ovviamente, principale riferimento al
Comune e ai suoi Organi e Uffici. Ognuno degli altri Enti in indirizzo
individuerà i propri paralleli Organi e Uffici competenti.
La necessità di ultimare le indagini entro tempi prestabiliti, di
approfondirle attraverso eventuali consulenze tecniche, i brevissimi tempi
di prescrizione del reato e l’aggravio di lavoro per la Segreteria del
Magistrato che la circolazione della corrispondenza comporta,
impongono
l’adozione di precise regole di carattere generale.
Pertanto, ritengo utile inoltrare la presente direttiva anche alle
Autorità territorialmente competenti in ordine ai Comuni attribuiti alla
giurisdizione della Procura della Repubblica di Bergamo.
La presente direttiva viene emessa ai sensi del
D.Lgs. 20.02.2006
n. 106.
2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della
comunicazione di notizia di reato
La comunicazione della notizia di reato (di seguito
denominata CNR) deve pervenire alla Procura della Repubblica esclusivamente
da parte di un organo di polizia giudiziaria, completa anche di ogni atto
investigativo utile: pertanto, in ambito comunale, procederà unicamente la
Polizia Locale e a essa si rivolgerà, quindi, il personale degli Uffici
Tecnici ai sensi dell’art. 331, commi 1 e 2, c.p.p..
Le CNR e i seguiti devono essere caricati sul Portale NdR.
Il personale degli Uffici Tecnici comunali è tenuto a collaborare e
a fornire alla Polizia Locale tutti i dati tecnici, le informazioni e la
documentazione di cui dispone: in particolare, stilerà un’apposita relazione
contenente la descrizione tecnica e la qualificazione urbanistico-edilizia
delle opere abusive, la loro conformità agli strumenti urbanistici e la loro
eventuale sanabilità, l’indicazione circa l’eventuale titolo abilitativo che
avrebbero richiesto per essere regolarmente eseguite, la zonizzazione
dell’area nella quale sono state realizzate e la presenza di eventuali
vincoli ambientali, paesaggistici, storico-architettonici, l’identificazione
catastale delle predette aree e della relativa proprietà, la presenza in
Comune di eventuali precedenti pratiche ecc. Fornirà, altresì, il
certificato di destinazione urbanistica dei mappali sui quali insistono gli
abusi. In caso di rifiuto o ritardo nella collaborazione da parte del
personale degli Uffici Tecnici comunali la Polizia Locale procederà alla
nomina dello stesso quale ausiliario di p.g. ex
art. 348, comma 4, c.p.p.
e
comunicherà tempestivamente dette omissioni al Pubblico Ministero per le
valutazioni di sua competenza in ordine alla eventuale responsabilità
penale.
La CNR deve pervenire completa, in ogni sua parte, dei dati
essenziali successivamente indicati. Qualora non sia possibile inoltrarla da
subito completa di tutti i dati essenziali verrà inviata una prima
comunicazione alla quale dovrà seguire, nel più breve tempo possibile, la
documentazione completa. Nel seguito dovrà, in tal caso, essere sempre
chiaramente indicato, in grassetto e nella parte alta della prima pagina,
che si tratta di “SEGUITO” e il numero del procedimento penale
(ricavabile anche tramite il numero di NDR).
La CNR deve pervenire all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, ai
sensi dell’art. 347 c.p.p.. La locuzione utilizzata dal legislatore consente,
in termini generali, di posticipare il deposito di qualche giorno, a volte
di qualche settimana, rispetto alla data di acquisizione della notitia
criminis, a seconda della complessità degli accertamenti da compiere.
Mai, però, giustifica il deposito con mesi o, addirittura, anni di ritardo.
Richiamo l’attenzione sulla possibile rilevanza penale e disciplinare in
caso di omessa o ritardata denuncia ex artt.
361 c.p. e
16 e ss. disp. att.
c.p.p..
In caso di atti urgenti che richiedono convalida da parte del
Pubblico Ministero i relativi verbali, corredati della relativa CNR, devono
essere trasmessi alla Procura della Repubblica entro 48 ore dal compimento
dell’atto medesimo a mezzo APU.
Il documento che contiene la CNR non potrà ordinariamente essere
utilizzato dal Giudice nel dibattimento, cosicché le notizie rilevanti
dovranno essere trasfuse anche nel verbale di sopralluogo che, quale atto
irripetibile ex artt.
354 c.p.p. e
113 disp. att. c.p.p., ha invece ingresso
nel fascicolo del dibattimento e può essere preso in considerazione dal
Giudice.
È necessario numerare le pagine che compongono il fascicolo ed
evitare di allegare fotografie in bianco e nero che, spesso, non sono in
grado di assolvere al loro compito (ossia di consentire, al Pubblico
Ministero prima e al Giudice poi, di apprezzare la reale consistenza degli
abusi accertati).
Non devono pervenire alla Procura della Repubblica CNR relative ad
abusi edilizi non penalmente rilevanti poiché, per esempio, puniti con mera
sanzione amministrativa.
Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a
più abusi commessi da soggetti diversi, a meno che si tratti di un unico
cantiere.
Elementi essenziali della CNR sono i seguenti:
a) Indicazione delle generalità dei responsabili
Costoro sono, di regola,
individuabili, ai sensi dell’art. 29 D.P.R. 380/2001, nel committente, nel
titolare del titolo abilitativo (qualora rilasciato), nel progettista, nel
costruttore e nel direttore dei lavori (se esistenti). Altri soggetti
possono, ovviamente, concorrere nel reato secondo i principi generali del
diritto penale (ad esempio, il proprietario del terreno, se non dimostra la
propria estraneità ai fatti).
Tali soggetti vanno tutti identificati compiutamente e, se trattasi
di persone giuridiche, va individuato e generalizzato il legale
rappresentante pro-tempore (riferito all’epoca del commissi delicti),
acquisendo la documentazione relativa alla posizione assunta all’interno
dell’ente (visura CCIAA), nonché eventuali deleghe di responsabilità ad
altri soggetti (procure notarili, scritture private ecc.). A carico di tutti
i soggetti indicati si procederà con redazione del verbale di
identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore
di fiducia o designazione del difensore d’ufficio, informazioni sul diritto
alla difesa.
b) Breve descrizione dell’abuso accertato
Va tenuto presente che il Pubblico Ministero deve fornire una
esauriente descrizione dei lavori abusivi nel capo di imputazione.
Ciò non è possibile qualora gli stessi vengano indicati in CNR con
frasi generiche tipo “ampliamento ala ovest di manufatto preesistente come
riportato in colore rosso nell’allegata planimetria”, ovvero “realizzazione
di più manufatti in tempi diversi su area di proprietà”.
È, pertanto, necessario che la descrizione riportata nella CNR sia
sintetica ma esauriente, ad esempio “realizzazione di un manufatto in
muratura con copertura in legno di m. 2,00x 3,00 x 2,50 h massima”, oppure
“demolizione e ricostruzione di preesistente edificio ad uso abitazione di mc complessivi 650”, oppure “modifica della destinazione d’uso di manufatto
da stalla ad abitazione mediante esecuzione di opere consistenti in
variazione del distributivo interno e suddivisione in due piani in contrasto
con lo strumento urbanistico e mediante corresponsione di oneri di
urbanizzazione in misura inferiore al dovuto (€ 3.000 in luogo di €
15.000)”, o altre simili.
Se si tratta di più violazioni esse andranno indicate con
numerazione progressiva, in modo tale da essere facilmente individuate.
c) Altre informazioni sull’abuso
Va specificato, previo accertamento da effettuarsi dal personale
dei competenti Uffici Tecnici comunali, se le opere denunciate come abusive
siano state eseguite in assenza di permesso di costruire (o di altro titolo
abilitativo), ovvero in variazione essenziale o difformità totale dallo
stesso (indicandone gli estremi) nonché, nel caso, quale eventuale titolo
abilitativo avrebbero richiesto per essere regolarmente realizzate.
È importante, inoltre, specificare se le opere realizzate rientrino
tra quelle sottoposte alla normativa in materia di strutture in conglomerato
cementizio armato, indicando in modo specifico eventuali violazioni.
d) Indicazione della presenza di vincoli
Tale informazione è di particolare importanza in quanto rende
possibile l’esatta qualificazione giuridica del fatto denunciato. I vincoli
che assumono rilevanza sono quelli paesaggistici e storico-architettonici la
cui inosservanza costituisce violazione anche del D.Lgs. 42/2004.
È essenziale indicare anche gli estremi del vincolo, tenendo
presente che il semplice riferimento alla legge, senza ulteriore
precisazione, non ha alcuna utilità. Vanno, quindi, indicati gli estremi
esatti dell’atto d’imposizione del vincolo (Decreto Ministeriale,
disposizione di legge con articolo e comma ecc.).
Evidenzio che taluni abusi realizzati in area vincolata configurano
delitto e non contravvenzione secondo quanto disposto dall’articolo 181,
comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004, con evidenti conseguenze ed è, quindi,
indispensabile che le relazioni degli Uffici Tecnici comunali, allegate alla CNR, contengano esplicite indicazioni circa la sussistenza di tali
fattispecie (per esempio quantificazione della cubatura illecita ecc.).
Inoltre, segnalo che sono stati recentemente introdotti nel codice penale,
con L. 09.03.2022 n. 22, gli artt.
518-duodecies e
518-terdecies, aventi
rispettivamente ad oggetto “Distruzione, dispersione, deterioramento,
deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o
paesaggistici” e “Devastazione e saccheggio di beni culturali e
paesaggistici”.
Va, altresì, segnalata la presenza di eventuali ulteriori e diversi
vincoli, quale quello ambientale ai sensi della legge sulle aree naturali
protette (Legge 394/1991). Il vincolo ambientale e quello paesaggistico sono
tra loro diversi e i rispettivi reati previsti in caso di violazione
concorrono tra loro e con quelli edilizi.
e) Classificazione urbanistica dell’area e compatibilità
dell’intervento con la stessa
Anche tale informazione è
essenziale per la qualificazione giuridica del fatto. Occorre indicare la
destinazione urbanistica dell’area ove insiste l’abuso e la conformità di
quanto realizzato con la normativa urbanistica e con gli strumenti
urbanistici locali.
Tale particolare, giova ricordarlo, serve anche per
verificare le eventuali illegittimità e illiceità di titoli abilitativi
(anche in sanatoria) eventualmente rilasciati dalla struttura comunale.
f) Data e luogo del fatto
Il luogo ove insiste l’abuso
va indicato con gli estremi del foglio e del mappale catastale o, in
mancanza, con via e numero civico, ovvero con ogni altra indicazione utile
all’individuazione del luogo del commesso reato.
La data di consumazione del reato coincide con quella di
sospensione effettiva dei lavori, ovvero di ultimazione degli stessi.
A tale proposito giova ricordare che, per costante giurisprudenza,
l’ultimazione dei lavori coincide con il completamento dell’intero manufatto
in ogni sua parte, ivi comprese le finiture, gli infissi, la tinteggiatura
ecc. Non è, pertanto, sufficiente la copertura del fabbricato al grezzo.
Ricordo, inoltre, che la data di ultimazione dei lavori è cosa
diversa dalla data di accertamento del fatto.
L’accertamento della data di ultimazione dei lavori, indispensabile anche ai
fini del calcolo dell’eventuale prescrizione del reato, andrà eseguito
attraverso l’acquisizione di dichiarazioni di eventuali persone informate
sui fatti (vicini, esponenti ecc.) ex
art. 351 c.p.p. (che, in quanto tali,
hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità), l’acquisizione di
pregressi rilievi fotografici o aerofotogrammetrici, l’acquisizione di
contratti di forniture, la pregressa conoscenza diretta dei luoghi da parte
degli operanti o del personale tecnico comunale ecc.
In nessun caso può
considerarsi sufficiente la mera dichiarazione degli indagati (che, in
quanto tali, non hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità).
g) Persone in grado di riferire
Vanno indicati tutti i
possibili soggetti informati sui fatti. Quando si tratta del personale di
polizia giudiziaria che ha proceduto all’accertamento lo stesso non va
indicato genericamente con espressioni tipo “i verbalizzanti”, ma occorre
inserire nome, cognome e qualifica.
Per gli altri soggetti indicare, oltre al nome cognome e indirizzo,
anche l’eventuale qualifica come, ad esempio, “ausiliario di p.g.”, “tecnico
comunale”, “denunciante” ecc.
3. Attività d’indagine d’iniziativa
L’attività d’indagine d’iniziativa non può essere limitata ai soli
interventi espletati a seguito di denuncia di privati ma deve essere il
risultato di un effettivo, costante e capillare controllo del territorio di
competenza.
Infatti, il combinato disposto degli
artt. 27, 31 e 33 D.P.R.
380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio
comunale e alla polizia giudiziaria (quindi anche alla Polizia Locale),
nonché al personale dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, precisi
e penetranti poteri (e doveri) di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, cautelari e di repressione degli abusi.
Analoghi poteri-doveri sono attribuiti a detto personale comunale
in materia di conglomerati cementizi armati dagli
artt. 68, 69 e 70 D.P.R.
380/2001, mentre gli
artt. 27, 29 e 30 L. 394/1991 attribuiscono analoghi
poteri-doveri al personale dell’Ente Gestore dell’area protetta in caso di
violazioni commesse all’interno di parchi regionali.
L’esecuzione, sin da subito, di un’accurata attività di
accertamento e indagine renderà superfluo l’invio di delega da parte del
Pubblico Ministero, accelerando notevolmente i tempi del procedimento.
Per il compimento di singoli atti si rinvia, pertanto, al
successivo capitolo 5.
4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero
Come sopra già indicato, la CNR dovrà possibilmente pervenire, sin
da subito, completa in ogni sua parte (compresi gli allegati) e, qualora ciò
non fosse possibile, dovrà pervenire quanto prima (e, comunque, senza
ritardo) un apposito seguito.
La delega d’indagine dovrà, pertanto e d’ora in poi, costituire un
evento eccezionale e riguardare accertamenti specifici che verranno indicati
direttamente dal Pubblico Ministero.
Evidenzio che gli atti d’indagine delegati devono essere eseguiti
rispettando scrupolosamente le modalità indicate in delega. Non va,
tuttavia, dimenticato che, nell’ambito dell’attività delegata, è sempre
possibile per il personale di polizia giudiziaria procedere al compimento di
atti d’iniziativa che si rendano necessari per l’accertamento dei fatti e la
prosecuzione delle indagini.
Qualora la delega riguardi un fatto già oggetto d’indagine
indirizzata al medesimo Comando nell’ambito di altro procedimento penale, si
sospenderanno gli accertamenti comunicando che, per i fatti per i quali si
procede, è in corso altro procedimento penale (del quale si indicherà il
numero di registro generale e il nome del Magistrato assegnatario). Tale
indicazione è essenziale per una rapida eventuale unione dei procedimenti.
Qualora pervenga un sollecito o una richiesta già evasi, è
opportuno non limitarsi a indicare semplicemente che si è già risposto, ma è
necessario inviare nuovamente quantomeno il frontespizio della precedente
segnalazione.
Va tenuto presente che il numero del procedimento (RGNR) è il mezzo
più rapido ed efficace per l’individuazione del fascicolo, mentre
l’indicazione di altri dati (nome indagato, numero di protocollo della
segnalazione ecc.) rende la ricerca da parte della Segreteria lunga e
complessa.
Se viene indicato in delega un termine per l’espletamento delle
indagini lo stesso deve essere tassativamente rispettato, salvo motivata
richiesta di proroga al Magistrato delegante, che deve essere depositata con
congruo anticipo per evitare che, nel frattempo, scada il termine per le
indagini preliminari. Ricordo che la scadenza del termine massimo per
l’espletamento delle indagini, in mancanza di una motivata e tempestiva
richiesta di proroga al G.I.P. da parte del P.M., impedisce al Pubblico
Ministero medesimo l’utile compimento di altre indagini.
È estremamente importante che in tutta la corrispondenza
intrattenuta con l’ufficio del Pubblico Ministero si indichino in modo bene
visibile:
1) il numero del procedimento (RGNR)
2) il nome del Magistrato assegnatario
3) ogni altro elemento utile per l’individuazione
della precedente corrispondenza.
Gli accertamenti delegati alla Polizia Locale non possono essere
dalla stessa “subdelegati” agli Uffici Tecnici comunali, perché i relativi
addetti non rivestono la qualifica di ufficiale o di agente di polizia
giudiziaria e possono, pertanto, solo essere sentiti a verbale come persone
informate sui fatti ex
art. 351 c.p.p., ovvero nominati ausiliari di p.g. ai
sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
La Polizia Locale non potrà trasmettere la delega d’indagine
all’Ufficio Tecnico perché la stessa potrebbe contenere l’indicazione di
ulteriori indagini coperte da segreto istruttorio che non devono essere
portate a conoscenza di soggetti diversi da quelli appartenenti alla polizia
giudiziaria.
Di conseguenza, la Polizia Locale inoltrerà all’Ufficio Tecnico
comunale una propria richiesta che faccia riferimento all’ordine d’indagine
della Procura della Repubblica e che conterrà in virgolettato unicamente lo
stralcio degli accertamenti che devono essere condotti direttamente
all’Ufficio Tecnico.
5 Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine
Quanto segue rappresenta una sintesi dell’attività di indagine da
eseguire in via ordinaria. E’ ovvio che il personale di polizia giudiziaria
potrà sempre predisporre ogni ulteriore accorgimento e iniziativa idonei
all’accertamento dei fatti.
Le disposizioni di seguito elencate andranno integrate con quanto
già sopra indicato al precedente capitolo:
a) acquisizione documentazione
Tale attività è fondamentale per l’accertamento dei fatti e per
l’individuazione dell’abuso. Essa riguarderà tutta la documentazione
esistente presso il Comune o altri Enti e relativa all’abuso edilizio
(pratica edilizia, sanatoria se richiesta, rilievi, pareri, verbali ecc.).
Se non diversamente ordinato dalla Procura della Repubblica potrà essere
effettuata in copia. L’attività di acquisizione dovrà essere formalizzata
con apposito verbale.
Le copie acquisite saranno accompagnate da un indice e, comunque,
numerate e saranno allegate al verbale di acquisizione.
In caso di rifiuto o ritardo nel fornire la suddetta documentazione da parte
di soggetti pubblici o privati, ne verrà data immediata notizia al Pubblico
Ministero procedente, il quale potrà emettere, secondo i casi, Decreto di
esibizione ex
art. 256 cod. proc. pen.,
o di perquisizione e sequestro ex
art. 252 c.p.p..
b) accertamento sui luoghi
È uno degli accertamenti più importanti
perché irripetibile ex
art. 354 c.p.p..
Il verbale delle operazioni compiute avrà ingresso nel fascicolo
del dibattimento e potrà essere letto e utilizzato dal Giudice. Grazie al
contenuto di questo atto, il Giudice potrà rendersi conto di ciò di cui si
discuterà nel dibattimento. E’ necessario che tale atto contenga tutti gli
elementi essenziali per l’individuazione dei fatti.
L’accertamento non avverrà esclusivamente con la descrizione a
verbale di quanto verificato: saranno, invece, eseguiti rilievi fotografici
e, se necessario, planimetrici dei luoghi, avvalendosi eventualmente di
ausiliari di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
I soggetti nominati ausiliari di p.g. non potranno rifiutarsi di
prestare la propria opera. In caso di rifiuto andranno denunciati ex
art.
366 cod. pen. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).
Nell’ambito dell’attività edilizia gravitano spesso altre
fattispecie di reato quali evasione fiscale (in alcune circostanze),
inquinamenti ambientali, lavoro in nero (in alcune circostanze), violazioni
alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Raccomando, pertanto,
interventi di controllo sinergici con le forze specialistiche [ad esempio,
Guardia di Finanza (per le violazioni fiscali e tributarie),
Nucleo
Ispettorato Lavoro dei CC, Ispettorato Nazionale del Lavoro e PSAL della ATS
(per la sicurezza e la regolarità del lavoro), ARPA e servizi ispettivi
degli Enti Parco (per le violazioni ambientali ecc.)].
c) documentazione fotografica
Continuano a pervenire fotografie in bianco e nero, o
singole immagini, che non consentono, per dimensioni e caratteristiche, di
avere una cognizione completa dell’abuso.
Le fotografie dovranno, al contrario, essere a colori e in numero
adeguato per consentire al Pubblico Ministero e al Giudice di valutare la
consistenza dell’abuso. Andranno munite di didascalia.
I rilievi fotografici e tecnici andranno allegati al verbale di
sopralluogo del quale dovranno costituire parte integrante. Ne consegue che,
qualora per comodità di lettura e per facilitare la comprensione si ritenga
opportuno alternare parti di testo della CNR a fotografie, queste ultime
dovranno necessariamente essere allegate in ulteriore copia a colori munite
di didascalia anche al verbale di sopralluogo.
Per la predisposizione del fascicolo fotografico si tengano
presenti i criteri utilizzati normalmente per la documentazione degli
incidenti stradali.
d) Accesso ai luoghi
I sopralluoghi dovranno necessariamente essere espletati
congiuntamente da personale della Polizia Locale e da quello dell’Ufficio
Tecnico comunale: solo così sarà possibile, infatti, giungere a una CNR
completa sia degli atti investigativi (verbale di identificazione, verbale
di sequestro, verbale di sopralluogo, verbale di sommarie informazioni
testimoniali, verbale di spontanee dichiarazioni da indagato ecc.),
sia di
quelli tecnici (rilievi tecnici, relazione inerente la qualificazione edilizio-urbanistica delle opere abusive, identificazione catastale,
ordinanza di sospensione dei lavori, ordinanza di demolizione, permesso a
costruire in sanatoria ecc.).
Capita che venga impedito al personale ispettivo di accedere ai
luoghi per accertare compiutamente l’abuso. In tal caso dovrà essere
interpellato il Magistrato assegnatario del procedimento o, in mancanza,
assenza o impedimento, quello di turno, che valuterà se emettere Decreto di
ispezione di cose e luoghi ex artt.
244 e
246 c.p.p.
al fine di consentire
l’accesso ai luoghi, anche con autorizzazione alla rimozione degli ostacoli
fissi.
Va, in ogni caso, evidenziato che tali comportamenti, potendo
astrattamente concretizzare, in talune circostanze, ipotesi delittuose di
violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale ex artt.
336 e
337
cod. pen., ovvero di impedimento del controllo ex
art. 452-septies c.p.,
dovranno essere tempestivamente denunciati alla Procura della Repubblica.
e) Accertamento della proprietà dell’area ove insiste l’abuso
Si tratta di un dato essenziale che dovrà
essere sempre acquisito, allegando anche l’atto di proprietà o altra idonea
documentazione (visura presso la Conservatoria dei registri immobiliari
ecc.). Non sono ammissibili le semplici dichiarazioni dei soggetti presenti
sul posto.
d) Qualificazione dei luoghi, vincoli ecc.
Andrà accertata la destinazione urbanistica dei luoghi oggetto di
abuso allegando il relativo certificato di destinazione urbanistica che
attesti la destinazione d’uso, sia alla data di realizzazione dell’abuso,
sia con riguardo alla data del relativo accertamento. Verrà verificato anche
se le opere eseguite siano o meno conformi alla normativa urbanistica e agli
strumenti urbanistici locali. Ciò dovrà avvenire attraverso idonea
dichiarazione scritta da parte del responsabile dell’Ufficio Tecnico
comunale.
Gli eventuali vincoli (paesaggistici, ambientali,
storico-architettonici, idrogeologici ecc.) se non indicati nel dettaglio
nel certificato di destinazione urbanistica andranno indicati in modo
completo con gli estremi (articolo, comma e dati completi della legge di
riferimento) nella relazione del personale dell’Ufficio Tecnico comunale. In
caso di vincolo imposto con provvedimento ministeriale o con altro
provvedimento amministrativo andrà allegata copia dello stesso.
e) Identificazione soggetti responsabili
Oltre a quanto ho già detto al precedente
punto 2.21 a), aggiungo che sarà necessario allegare il certificato
anagrafico degli indagati (la cui reperibilità, da parte della Polizia
Locale, appare agevole anche attraverso subdelega ad altri comandi
territorialmente competenti per la residenza degli indagati), perché ciò
rende meno frequenti gli errori di trascrizione e accelera i tempi di
registrazione del fascicolo.
L’assuntore dei lavori potrà essere inizialmente identificato anche
attraverso la targa dei mezzi utilizzati per l’esecuzione dei lavori, ovvero
tramite la documentazione contabile o di altro tipo in possesso del
committente.
Non è accettabile che, in molte CNR, venga omessa l’individuazione
di tutti i responsabili degli abusi e ciò anche in piccoli comuni ove
l’acquisizione di tali informazioni è estremamente facile.
Nelle more di redazione del verbale di identificazione,
dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni
sul diritto alla difesa ricordo che, nel caso di mancata nomina del
difensore di fiducia da parte dell’indagato, è consigliabile per la p.g.
procedere alla nomina del difensore d’ufficio, che dovrà essere
necessariamente individuato in quello indicato dall’Ordine degli Avvocati
del Foro di Bergamo (anche se nominato da un organo di p.g. avente sede
altrove).
Al verbale di identificazione dovrà essere allegata fotocopia di un
valido documento di riconoscimento dell’indagato.
Si richiama l’attenzione degli operanti circa la corretta e
completa compilazione di detti verbali evitando, per esempio, parziali
indicazioni dell’esatto domicilio eletto o dell’esatto nominativo del
difensore nominato (per esempio, eleggo domicilio in via Rossi n. 5 senza
indicare la località, ovvero nomino difensore di fiducia lo studio legale
Rossi senza indicare l’esatto nominativo del difensore), che comporterebbero
la nullità dell’atto medesimo.
f) Accertamento provvedimenti adottati dall’Autorità comunale
La vigente legislazione urbanistica contempla alcuni provvedimenti,
di regola di competenza dell’Autorità comunale (ad esempio, ordinanze di
sospensione lavori o di demolizione), la cui emissione da parte della stessa
Autorità costituisce, in presenza dei prescritti presupposti, un obbligo e
non una facoltà.
Basti pensare, a tale proposito, che l’eventuale mancata
ottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta l’acquisizione
dell’immobile abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
Occorrerà, pertanto, verificare quali provvedimenti siano stati
adottati dalle competenti Autorità, allegandone copia munita della relativa
relata di notifica.
Qualora l’abuso non sia ancora noto alle predette Autorità ne verrà
data alla stessa specifica informativa da parte della Polizia Locale e prova
dell’avvenuta consegna verrà allegata agli atti della CNR.
L’ordinanza di sospensione dei lavori prevista dagli artt. 27,
comma 3, D.P.R. 380/2001,
167 D.Lgs. 42/2004 e
29 L. 394/1991 non va emessa,
come spesso accade, esclusivamente allorquando le opere abusive sono in
corso di realizzazione all’atto del sopralluogo; al contrario, andrà sempre
emessa (e tempestivamente notificata) in tutti i casi in cui le opere
abusive non siano già integralmente completate.
Ricordo che, di regola, la sequenza dei provvedimenti che devono
essere emessi dall’Autorità comunale, a norma dell’articolo 27 D.P.R.
380/2001, è la seguente:
a) ordinanza di sospensione lavori e relativa
notifica;
b) verifica circa l’ottemperanza di detta
ordinanza con apposito verbale;
c) comunicazione alla Procura della Repubblica
circa l’eventuale inottemperanza in ordine al reato ex
art. 44, lett. b),
D.P.R. 380/2001 e valutazione sulla opportunità di procedere con sequestro
preventivo ex
art. 321 c.p.p..
d) ordinanza di demolizione e ripristino e
relativa notifica;
e) verifica circa l’ottemperanza all’ordinanza
con apposito verbale;
f) notifica dell’eventuale verbale di
inottemperanza;
g) applicazione, in caso di inottemperanza, della
sanzione amministrativa ex
art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001
(nei casi
di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale
del permesso di costruire);
h) acquisizione al patrimonio del Comune del
fabbricato e dell’area di sedime e successiva demolizione d’ufficio a cura
del Comune e spese del responsabile dell’abuso (nei casi di interventi
eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso
di costruire);
i) esecuzione d’ufficio della demolizione a cura
del Comune e a spese del responsabile dell’abuso medesimo nei casi di
interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire
o in totale difformità da esso nei casi di cui agli artt.
33, comma 1, e
34,
comma 1, D.P.R. 380/2001.
Occorrerà, pertanto, verificare che l’Autorità comunale abbia
effettivamente adempiuto ai doveri impostigli dalla vigente normativa
urbanistica.
Non è, in nessun caso, consentito inserire nella segnalazione che “il
provvedimento è in corso di redazione” o altre diciture simili. Il
provvedimento deve essere acquisito completo delle relate di notifica.
g) Verifica dell’agibilità
Sebbene l’articolo 221 R.D. 1265/1934 comprenda violazioni
depenalizzate, la presenza o meno dell’agibilità andrà verificata e
segnalata alla competente Autorità comunale per l’irrogazione delle sanzioni
amministrative e per gli altri adempimenti di competenza.
h) Accertamento della data di ultimazione lavori
La data da accertare è quella effettiva di ultimazione lavori.
Detto accertamento potrà essere effettuato acquisendo ogni documento
(fatture, scontrini etc.) relativo all’acquisto dei materiali e recante data
certa.
Dovranno, inoltre, essere sentiti a verbale ex
art. 351 c.p.p.,
quali persone informate sui fatti, i vicini, gli esponenti ecc. (non i
soggetti da sottoporre a indagine le cui dichiarazioni non sono
utilizzabili) sulla data di ultimazione delle opere.
Si potrà anche verificare se vi siano contratti di fornitura
(acqua, luce, gas ecc.) recanti data certa e, nel caso, acquisirne copia.
Si dovrà sempre procedere, quando disponibili, alla verifica e
all’acquisizione di copia a colori dei rilievi aerofotogrammetrici presso il
Comune o la Regione.
i) Illecita attivazione di utenze
L’art. 48 D.P.R. 380/2001 vieta la fornitura di acqua, energia
elettrica e gas per gli immobili abusivi. Nel caso in cui ciò avvenga, il
responsabile del servizio è passibile di sanzione amministrativa.
In caso d’immobile abusivamente realizzato sarà, quindi, opportuno
verificare se e a quale titolo siano stati stipulati eventuali contratti di
utenza per acqua, energia elettrica, gas, al fine di accertare eventuali
responsabilità di altri soggetti che hanno agevolato l’utilizzazione del
manufatto abusivo.
Frequentemente i responsabili degli abusi stipulano contratti per
l’erogazione di energia elettrica dichiarando falsamente (in violazione
dell’art. 483 cod. pen. – falsità ideologica commessa dal privato in atto
pubblico) che la fornitura erogata viene utilizzata per “irrigazione”,
“sollevamento acqua”, “apertura cancello elettrico”, “cantiere”
ecc.
Sarà, pertanto, essenziale accertare se l’immobile abusivo sia
fornito di acqua, luce, gas acquisendo, in caso positivo, copia del
contratto, al fine di consentire la successiva valutazione in sede penale
della condotta dei soggetti fornitori, nonché quella relativa alle false
dichiarazioni rese al fine di ottenere le forniture.
l) Esecuzione dei sequestri
Qualora l’organo di vigilanza accerti l’esecuzione di opere abusive
ovvero, a maggior ragione, la prosecuzione dei lavori illeciti nonostante
l’ordine di sospensione degli stessi, lo stesso organo di vigilanza:
1. non potrà limitarsi a depositare una mera
comunicazione alla Procura della Repubblica;
2. dovrà invece valutare, secondo un prudente
apprezzamento circa la sussistenza di concreti pericoli per il bene
giuridico tutelato (ambiente, assetto urbanistico ecc.) l’eventuale adozione
del provvedimento di sequestro preventivo in via d’urgenza ex art. 321,
3-bis c.p.p.; in tal caso, è consigliabile contattare il P.M. di turno per le
sue determinazioni.
Il sequestro effettuato dalla P.G. rappresenta un atto
particolarmente delicato e importante nella complessiva attività d’indagine.
Con esso si impedisce la prosecuzione dell’intervento abusivo (sequestro
preventivo ex
art. 321 c.p.p.) e si assicurano al processo elementi di
rilievo sotto il profilo probatorio (sequestro probatorio ex
art. 354 c.p.p.).
Il sequestro può riguardare non solo il singolo manufatto abusivo,
ma anche l’area dove esso insiste, il cantiere e le relative attrezzature.
Il sequestro preventivo, inoltre, può essere effettuato, secondo un
orientamento ormai costante della giurisprudenza della Suprema Corte di
Cassazione, anche sulle opere già ultimate (poiché le conseguenze che tale
misura tende ad evitare sono ulteriori rispetto alla fattispecie tipica già
realizzata e, in materia urbanistica, l'esistenza di una costruzione abusiva
può aggravare il cd. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze
del reato).
Qualora si proceda a sequestro (d’iniziativa, ovvero su ordine
dell’A.G.) delle opere abusive e del cantiere, lo stesso andrà effettuato
rendendo effettivamente inaccessibili i luoghi, apponendo sigilli e cartelli
visibili recanti gli estremi del provvedimento. Ove possibile ci si dovrà,
dunque, assicurare che ogni via di accesso all’area e al fabbricato in
sequestro sia fisicamente impedita apponendo, se necessario, ostacoli fissi
(reti, travi ecc.).
Si è notato come talvolta si faccia, ancora, ricorso all’anomala
figura del “sequestro senza sigilli”, inteso come apposizione solo
virtuale del vincolo sul bene sequestrato che viene, in realtà, lasciato
nella disponibilità dell’indagato o del detentore, specie nel caso in cui
l’immobile abusivo sia utilizzato.
Tale figura è del tutto sconosciuta al codice di procedura penale
(la Suprema Corte di Cassazione ha, da tempo, espressamente escluso, con
riferimento al sequestro preventivo, la possibilità che lo stesso sia
sottoposto a termini o condizioni quali, ad esempio, la “facoltà d’uso”
finalizzata alla eliminazione della situazione che ha determinato
l’apposizione del vincolo) e si risolve in un atto del tutto privo di
efficacia, in quanto consente comunque la piena utilizzazione del manufatto
abusivo.
Dovrà quindi curarsi che, all’atto del sequestro, il manufatto non
sia in nessun caso accessibile o altrimenti utilizzabile e sia, pertanto,
libero da persone.
Dovrà, inoltre, assicurarsi una successiva vigilanza al fine di
verificare l’integrità dei sigilli e che permangano le condizioni di
conservazione del bene assicurate al momento del sequestro.
Ricordo, inoltre, che la violazione di sigilli, se commessa dal
custode (che va sempre nominato sin dall’esecuzione del sequestro) consente,
ai sensi dell’art. 349, comma 2, cod. pen. e in presenza dei presupposti di
legge, l’arresto in flagranza.
Il sequestro (d’iniziativa o disposto dall’ A.G.) dovrà essere
tempestivamente eseguito, così come ogni verifica in merito ad abusi in
corso di esecuzione. L’eventuale omissione o il ritardo nell’esecuzione può
configurare gravi ipotesi di reato.
m) Esecuzione di dissequestri
Anche i provvedimenti di restituzione delle cose sequestrate
andranno immediatamente eseguiti.
Evidenzio, però, che il relativo provvedimento dovrà pervenire
direttamente dall’Autorità che l’ha emesso (P.M. o Giudice) nelle forme
previste.
Non è in nessun caso ammissibile procedere all’esecuzione di
dissequestri sulla base di provvedimenti esibiti in copia dall’indagato o
dal suo difensore né, tanto meno, su richiesta verbale.
Detti provvedimenti dovranno pervenire dalla Segreteria del P.M. o
dalla Cancelleria del Giudice nelle forme di legge.
Se la restituzione è disposta nei confronti dell’ ”avente
diritto” e lo stesso non sia compiutamente indicato, dovrà accertarsi
chi sia tale soggetto, potendosi lo stesso individuare in persona diversa
dall’indagato, come nel caso in cui si sia perfezionata l’acquisizione
automatica dell’immobile al patrimonio del Comune a seguito d’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione.
In caso di dubbio andrà interpellato per iscritto l’Ufficio che ha
emesso il provvedimento.
n) Procedura di acquisizione
La procedura di acquisizione degli immobili e delle relative aree
di sedime è obbligatoria e dovrà essere portata a termine nel rispetto di
quanto stabilito dal legislatore.
Tale procedura dovrà essere avviata dal competente funzionario
comunale con le cadenze che vengono qui di seguito sinteticamente ricordate:
− emissione ordinanza di demolizione ai sensi
dell’art. 27 D.P.R. 380/2001
e relativa tempestiva notifica. L’ordinanza
dovrà contenere tutti gli estremi per l’identificazione dell’abuso (compresi
foglio e mappale), nonché l’area di sedime acquisibile in caso di
inottemperanza,
− verifica (attraverso sopralluogo della Polizia
Locale) dell’ottemperanza all’ordinanza con redazione del relativo verbale,
− in caso d’inottemperanza, il relativo verbale
(che dovrà contenere gli estremi catastali dell’immobile) dovrà essere
notificato ai soggetti interessati,
− l’accertata inottemperanza determina ope
legis l’automatico passaggio della proprietà dell’abuso e dell’area di
sedime all’Amministrazione comunale nei termini indicati dall’articolo 31
D.P.R. 380/2001,
− il trasferimento di proprietà dovrà essere
rapidamente trascritto.
Ciò posto, si è rilevata spesso una resistenza da parte dei
competenti Uffici comunali a effettuare la trascrizione o a porre in essere
regolarmente e tempestivamente la procedura di cui sopra.
È, pertanto, opportuno che il personale di Polizia Locale sia reso
edotto del fatto che:
− l’eventuale omissione o rifiuto da parte del
personale competente a procedere potrà configurare, a seconda dei casi, i
reati di favoreggiamento, abuso d’ufficio e/o di omissione o rifiuto di atti
d’ufficio, in ordine ai quali vi è l’obbligo di tempestiva comunicazione a
questa A.G.,
− il ricorso innanzi al Giudice amministrativo
non sospende la procedura di acquisizione, se non nel caso in cui venga
emessa Ordinanza cautelare di sospensiva.
Questa Procura della Repubblica provvederà a segnalare alla
competente Procura Regionale della Corte dei Conti omissioni o ritardi che
possano comportare danno erariale.
6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e
paesaggistico
L’art. 20, comma 13, D.P.R. 380/2001
punisce penalmente chiunque
dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti
previsti al comma 1 del medesimo articolo nell’ambito del procedimento per
il rilascio del permesso di costruire.
L’art. 29, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere
realizzate nell’ambito di segnalazione certificata di inizio attività, il
progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ai sensi degli articoli
359 e
481 del cod. pen. Ne consegue che,
in caso di false dichiarazioni, viene integrato il reato ex
art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un
servizio di pubblica necessità).
L’art. 19, comma 6, L. 241/1990
punisce penalmente chiunque, nelle
dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione
di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti
o presupposti indicati al comma 1° della medesima legge.
È sempre previsto l’obbligo d’informativa, da parte del
responsabile del procedimento, al competente Ordine Professionale per
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. All’informativa può provvedere
ovviamente anche la Polizia Locale, quale organo di polizia giudiziaria.
Restano fermi i restanti reati di falso previsti nel Libro II
Titolo VII Capo III (della falsità in atti) del cod. pen.
È necessario, quindi, che si proceda al controllo sulla veridicità
delle dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni (e relativi allegati)
inserite dalle parti nelle pratiche e si provveda a segnalare
tempestivamente a questa Procura della Repubblica gli eventuali reati,
nonché a darne immediata informativa al competente Ordine Professionale
qualora l’autore del reato sia un professionista.
7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
L’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 prevede che: … “Il
Segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione
nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati
abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati
anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta
regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti”.
Tale norma ha la finalità di consentire il complessivo monitoraggio
sul territorio della giurisdizione del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
Gli elenchi di cui all’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
non
sostituiscono, pertanto, l’obbligo di CNR previsto dall’art. 347 c.p.p.. Né,
al contrario, il deposito della CNR da parte degli operanti fa venir meno
l’obbligo di trasmissione dei suddetti elenchi mensili da parte del
Segretario comunale.
Tali elenchi dovranno essere mensilmente trasmessi, solo se
positivi (ossia solo se vi sono abusi da segnalare), unicamente a mezzo
posta elettronica certificata all’indirizzo: (da indicare).
Tali elenchi non verranno iscritti in alcun registro del S.I.C.P.
(Sistema Informativo della Cognizione Penale) e verranno direttamente
trasmessi al Procuratore.
L’elenco mensile deve contenere unicamente i dati relativi
all’abuso (identificazione del luogo, sintetica descrizione della tipologia
dell’abuso ecc.) e ai soggetti responsabili dello stesso (complete
generalità). Al contrario, non deve contenere allegati (ordinanze, rapporti
ecc.).
È necessario che nell’elenco mensile venga inserita, per ogni
abuso, un’apposita voce “CNR della Polizia Locale n…. inoltrata in
Procura il …”, ovvero “CNR in fase di redazione da parte della Polizia
Locale e di prossimo inoltro in Procura”. In tale ultimo caso sarà onere
del Comune (attraverso il Segretario comunale, ovvero la Polizia Locale)
trasmettere tempestivamente alla Procura apposita integrazione all’elenco
mensile con la quale si darà atto dell’avvenuto deposito della relativa CNR
mancante.
Gli elenchi mensili conterranno sia gli abusi che assumono
rilevanza penale, sia quelli che costituiscono meri illeciti amministrativi,
poiché la norma di riferimento non prevede distinzioni.
È necessario, però, che nell’elenco mensile venga inserita
un’ulteriore apposita voce che indichi esplicitamente se si tratta di abuso
avente carattere penale o solo amministrativo.
8. La comunicazione di avvio del procedimento
L’art. 7 Legge 241/1990 inerente alla comunicazione di avvio del
procedimento dispone che … “Ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del
procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8,
ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove
parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un
provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o
facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia
dell’inizio del procedimento. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la
facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione
delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari”.
Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 23.01.2012,
n. 282; VI Sez., 24.09.2010, n. 7129; VI Sez., 30.05.2011, n. 3223; VI Sez.,
24.05.2013, n. 2873; V Sez., 09.09.2013, n. 4470, VI Sez., 08.05.2014)
l’adozione di misure repressive edilizie non è assoggettata all’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento, attesa la natura vincolata del
provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione dell’interessato
non può arrecare alcuna utilità.
Particolare rigore deve essere posto con riguardo ad accertamenti
connessi alle opere in corso di esecuzione, sia nel caso di ordinaria
attività di vigilanza, che nel caso di attivazione a seguito di segnalazione
di parte.
In tali casi, al fine di evitare il concretizzarsi di ipotesi
penalmente rilevanti a carico del funzionario comunale firmatario del
provvedimento di avvio del procedimento (per esempio, di favoreggiamento del
potenziale destinatario del provvedimento sanzionatorio che ben potrebbe, se
preventivamente informato, eliminare l’abuso prima dell’accertamento, ovvero
aggravare il reato con il completamento funzionale delle opere e la
potenziale fruibilità delle stesse, con conseguente vantaggio patrimoniale),
l’avvio del procedimento è tassativamente vietato.
Al contrario, non si ravvisano particolari criticità connesse
all’eventuale emanazione della comunicazione di avvio del procedimento per
ciò che concerne le opere illecite pacificamente già ultimate anche nelle
loro rifiniture. Detta prassi è, infatti, utilizzata da molti comuni,
soprattutto per la difficoltà a risalire a documentazione giacente presso
l’archivio storico e, conseguentemente, per evitare di procedere con la
notifica di provvedimenti demolitori riguardanti manufatti regolarmente
assentiti, con conseguente necessità di un successivo provvedimento in
autotutela. Quanto sopra, ovviamente, fermo restando il rispetto del termine
perentorio di cui all’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
Nel caso di emissione della comunicazione di avvio del procedimento
occorrerà, pertanto, indicare un termine perentorio alla controparte per
presentare memorie o scritti difensivi utili al procedimento instaurato.
L’utilizzo di detta procedura non può, in nessun caso, portare a una
dilazione dei 30 giorni previsti dall’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
In generale corre l’obbligo per il Comune di intervenire senza
indugio con i controlli e i successivi provvedimenti ripristinatori degli
interventi realizzati in assenza di titolo abilitativo.
La facoltà di
presentare istanza di sanatoria, nei casi previsti dalla legge, è in capo
infatti all’avente titolo. Non sono, pertanto,
giustificati ritardi
nell’azione repressiva al fine di agevolare i privati nella presentazione di
eventuali istanze di sanatoria.
9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e
l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater,
D.Lgs. 42/2004
L’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che … “il rilascio
in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
Parallelamente, l’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. 42/2004 prevede
che, nelle ipotesi di abuso paesaggistico ivi tassativamente elencate e
qualora la competente Autorità amministrativa ne accerti la relativa
compatibilità paesaggistica, non trovano applicazione le sanzioni penali di
cui al comma 1° del medesimo articolo.
Nel corso degli anni si è registrata, da parte dei singoli comuni,
una disomogenea applicazione delle norme e delle procedure in tema di
segnalazione dei reati oggetto di richieste di conformità e di compatibilità
paesaggistica: alcuni comuni non trasmettono mai la CNR in caso di rilascio
delle sanatorie (ovvero delle compatibilità paesaggistiche), altri le
trasmettono solo all’esito delle relative pratiche e indistintamente dal
loro accoglimento o meno, altri le trasmettono solo all’esito della relativa
istruttoria e solo in caso di diniego, altri ancora le trasmettono non
appena pervenute al Comune e ancor prima della relativa istruttoria.
È, pertanto, opportuno chiarire che, solo allorquando la
sussistenza di un abuso edilizio o paesaggistico venga portata a conoscenza
delle strutture comunali (ovvero del parallelo Ente pubblico competente in
materia paesaggistica) unicamente dalla parte tramite richiesta di
accertamento di conformità edilizia (ovvero richiesta di accertamento di
compatibilità paesaggistica), quindi in assenza di qualsivoglia esposto,
segnalazione, ovvero in assenza di accertamenti, sopralluoghi del personale
comunale o di altri Organi pubblici, il deposito della CNR sarà posticipato
all’esito dei relativi procedimenti amministrativi.
Tale obbligo di denuncia all’A.G. sussiste, all’esito
dell’istruttoria, sia qualora l’abuso venga sanato, o ne venga certificata
la compatibilità paesaggistica, sia qualora le relative istanze vengano
rigettate. Ciò perché è stato, comunque, commesso un reato, la cui eventuale
dichiarazione di estinzione compete unicamente al Giudice.
È evidente che, in caso di accoglimento delle istanze di conformità
e/o compatibilità paesaggistica, l’Organo procedente (Polizia Locale, ovvero
il parallelo servizio ispettivo dell’Ente competente in materia
paesaggistica) si limiterà a depositare la CNR contenente i dati essenziali:
la relazione sarà molto sintetica, con esplicito riferimento all’inutilità
di effettuare ulteriori indagini e conterrà proposta di archiviazione del
procedimento.
Andranno, comunque, anche in questo caso, allegati il verbale di
identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore
e informazioni sul diritto alla difesa in capo a tutti i soggetti
responsabili, copia integrale del provvedimento amministrativo di sanatoria
e/o compatibilità, nonché apposita dichiarazione del responsabile dell’
Ufficio Tecnico attraverso la quale si attesta che, con il provvedimento
amministrativo rilasciato e trasmesso, è stato sanato (ovvero ne è stata
certificata la compatibilità paesaggistica), l’intero abuso e che non
residuano ulteriori abusi non sanati.
Tale procedura appare in assoluto la più logica e, al contempo,
ossequiosa del dettato normativo posto che, l’eventuale rilascio dei citati
permessi a costruire in sanatoria (ovvero delle certificazioni di
compatibilità paesaggistica), comporterebbe il mantenimento nell’area della
mera rilevanza sanzionatoria amministrativa dei lavori illeciti eseguiti,
senza alcun obbligo d’immediata informativa all’A.G. (che ben può essere
posticipata, quindi, all’esito delle procedure amministrative).
Al contrario, è appena il caso di ricordare che,
quando sono già
pervenuti esposti, segnalazioni, denunce, ovvero quando il personale
comunale ha già espletato accertamenti, sopralluoghi ecc. prima del deposito
in Comune di un’eventuale istanza di conformità o di compatibilità, la CNR
dovrà necessariamente essere depositata in Procura senza ritardo
(indistintamente dal fatto che pervengano, dopo l’esposto o l’accertamento,
eventuali istanze di conformità o di compatibilità).
A norma dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 380/2001, ... “l’azione
penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano
stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36”.
Di conseguenza, anche il corso della prescrizione del reato rimane
sospeso, a norma dell’art. 159 cod. pen., per tale lasso di tempo. La
prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa
della sospensione.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede, inoltre, che: … “sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia, con adeguata motivazione, entro
sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
È opportuno evidenziare, quindi, che la lettura del combinato
disposto degli artt.
45, comma 1, e
36, comma 3, D.P.R. 380/2001 consente di
affermare che, entro il termine massimo di 60 giorni dalla presentazione
dell’istanza di conformità, il responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale
dovrà provvedere su tale istanza e trasmettere tempestivamente tutta la
documentazione (compreso il provvedimento finale) alla Polizia Locale,
affinché quest’ultima possa celermente notiziare la Procura della Repubblica
(salvo le ipotesi relative ad aree o immobili vincolati, in ordine alle
quali si deve considerare anche il termine di 180 giorni a disposizione
della Soprintendenza per il parere obbligatorio e vincolante di sua
competenza).
In caso di insufficienza della documentazione o delle dichiarazioni
allegate dalla parte nell’istanza, il responsabile del procedimento avrà
cura di inoltrare, con mezzi che ne garantiscano la prova di ricezione,
specifica richiesta di integrazione: la stessa dovrà necessariamente
indicare il termine tassativo entro cui produrre al Comune tale
documentazione e/o dichiarazioni mancanti (che deve essere il più possibile
contenuto), in mancanza delle quali, allo scadere del termine concesso,
l’istanza dovrà essere rigettata.
Non è mai tollerabile la prassi, sin qui tenuta da alcuni comuni, di
inoltrare alla parte richieste di integrazione prive di un termine entro cui
provvedere. Così facendo, infatti, dette pratiche rischiano di rimanere, nel
caso di inerzia della parte, in “istruttoria” spesso ben oltre il
termine massimo concesso dalla legge per la definizione dei procedimenti,
con conseguente elevato rischio di prescrizione del reato.
Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a
più abusi commessi da soggetti diversi, sanati od oggetto di compatibilità
paesaggistica.
È obbligo del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare
tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’avvenuto rilascio del
permesso a costruire in sanatoria, ovvero della certificazione di
compatibilità paesaggistica. Ciò senza attendere una specifica delega
d’indagine dell’A.G.. A tal fine sarà onere del responsabile dell’Ufficio
Tecnico comunale trasmettere tempestivamente apposita comunicazione alla
Polizia Locale, contenente copia integrale del provvedimento emesso e
dichiarazione che attesti che non residuano abusi non sanati.
10 Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei
luoghi
Gli
artt. 27, 31, 33 e 35 D.P.R. 380/2001 prevedono che il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina la
demolizione delle opere abusive.
L’art. 31, comma 9, D.P.R. 380/2001 prevede che il Giudice, con la
Sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere se ancora non sia
stata altrimenti eseguita.
Analoghi poteri-doveri sono previsti in ambito paesaggistico dagli
artt.
167 e
181, comma 2, D.Lgs. 42/2004, nonché dall’art. 29 L. 394/1991,
in caso di attività abusive in aree protette.
L’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 prevede, poi, una specifica
sanzione amministrativa in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
E’ indicato, altresì, che … “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali,
costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile, del dirigente e del
funzionario inadempiente”.
Ho verificato che, spesso, non viene emessa la citata sanzione
amministrativa e che ci si limita a emettere le ordinanze di demolizione e/o
ripristino senza, però, procedere agli interventi d’ufficio previsti dalle
citate norme in caso di inottemperanza del responsabile dell’abuso.
Ricordo che, in presenza dei presupposti di legge,
l’esecuzione
d’ufficio delle demolizioni e dei ripristini, così come l’acquisizione al
patrimonio pubblico dell’immobile abusivo e della relativa area di sedime e
l’emanazione delle prescritte sanzioni amministrative, costituiscono un
obbligo per l’Autorità amministrativa e non una mera facoltà discrezionale.
Sono evidenti, in astratto, le possibili responsabilità omissive, sia sul
piano penale sia su quello erariale.
La mancata ottemperanza alle ordinanze di demolizione non integra
il reato ex
art. 650 cod. pen.
perché tale fattispecie penale (c.d. “norma
penale in bianco”), così come da consolidato orientamento
giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, punisce l’inosservanza
di provvedimenti legalmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia,
ordine pubblico, sicurezza pubblica o igiene, esclusivamente allorquando
tali inosservanze non siano già punite dall’ordinamento con specifiche
sanzioni.
Nel caso di specie la sanzione prevista dalla norma in caso
d’inottemperanza è la demolizione, ovvero il ripristino dei luoghi, eseguiti
d’ufficio e a spese del relativo responsabile.
L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 42/2004 prevede che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli
paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio
dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga condanna,
estingue il reato paesaggistico di cui al comma 1 del medesimo articolo.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede, poi, l’esclusione della punibilità in
taluni casi di particolare tenuità del fatto.
È obbligo pertanto del Comune, attraverso la Polizia Locale,
aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’eventuale
avvenuta demolizione, ovvero ripristino dello stato dei luoghi, sia al fine
di valutare l’eventuale estinzione del reato, sia perché tale ottemperanza
costituisce comunque comportamento favorevolmente valutabile nei confronti
dell’indagato.
11 La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché
delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR
L’art. 329 c.p.p. prevede che … “gli atti di indagine compiuti
dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto
fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non
oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
L’art. 326 cod. pen. punisce penalmente il pubblico ufficiale o la
persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti
alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela
notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in
qualsiasi modo la conoscenza.
Ne consegue che ogni richiesta di accesso agli atti trasmessi all’A.G.,
da chiunque proveniente (indagati, difensori, esponenti, soggetti terzi
ecc.), deve essere trasmessa al P.M. titolare per il preventivo vincolante
nulla osta ex
art. 116 c.p.p..
Talune norme vigenti in materia edilizia (per esempio, gli artt.
27, comma 4, e
31, comma 7, D.P.R. 380/2001) prevedono, peraltro, l’obbligo
di informativa alle Autorità amministrative preposte (Regione, Comune,
Ordine Professionale ecc.) circa i reati accertati per i provvedimenti di
rispettiva competenza. In tali casi, ossia quando l’informativa non riveste
carattere di discrezionalità ma deriva da un obbligo ope legis, il
nulla osta del P.M. alla trasmissione degli atti alle suddette Autorità e
per le finalità indicate nella legge s’intende sin d’ora concesso.
Evidenzio che gli atti diretti e provenienti dalla Procura della
Repubblica, ovvero da altri organi di polizia giudiziaria, possono essere
portati a conoscenza del solo personale avente qualifica di agente o
ufficiale di polizia giudiziaria.
Qualsivoglia eventuale comportamento di amministratori locali volto
a interferire, limitare o intralciare le attività di polizia giudiziaria e
di controllo degli abusi deve essere immediatamente segnalato al Procuratore
della Repubblica.
12 Conclusioni
Prego le Autorità in indirizzo di inoltrare la presente direttiva
ai Comandi, Settori, Servizi, Uffici territorialmente e funzionalmente
competenti, onde garantirne la più ampia diffusione.
Le SS.VV. si atterranno alle sopraelencate disposizioni anche in
considerazione della rilevanza che assumono i beni giuridici tutelati dalle
norme in oggetto.
La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla presente
direttiva costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e,
come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine
ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari. |
dicembre 2023 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione
(09.12.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 11.10.2023 n. 16
Una premessa
Non è semplicissimo condensare in poche righe il portato della sentenza n.
16/2023 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Volendoci provare potremmo dire questo: originata da un contenzioso nel
quale si discuteva della applicazione della sanzione pecuniaria conseguente
all'inottemperanza all'ordine di demolizione, la decisione fissa in modo
definitivo il principio per il quale la perdita ab origine della proprietà
è, per scelta del legislatore, l'unica conseguenza dell'inottemperanza,
tant'è che, decorso il termine ingiunto, il responsabile non può più
demolire il manufatto abusivo, poiché non è più suo. (...continua). |
agosto 2023 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo granitica giurisprudenza:
- l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della
natura abusiva delle opere edilizie costituisce un atto
dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento (“trattandosi
di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge
in virtù di un presupposto di fatto, ossia l’abuso, di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo”);
- il potere repressivo può essere esercitato
anche a notevole distanza temporale dall’abuso, atteso che
l’illecito ha natura permanente e che il suo autore conserva
inalterato l’obbligo di rimuovere l’opera.
---------------
Per condiviso indirizzo giurisprudenziale, “il permesso di
costruire conosce diverse tipologie di varianti:
- quelle "minori" o "leggere" che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie;
- le varianti in senso
proprio, consistenti in modificazioni qualitative o
quantitative di consistenza contenuta rispetto al progetto
approvato;
- le varianti "essenziali", caratterizzate
dall'incompatibilità del progetto in variante con quello
originario.
Mentre la variante in senso proprio ammette modifiche
progettuali che non investono le caratteristiche
identificative della costruzione, “la variante essenziale
investe gli elementi qualificanti dell'opera, incidendo
direttamente e in modo rilevante sulla sua conformazione,
struttura ed ubicazione, e integrando come tale un nuovo
permesso di costruire”.
---------------
20. Ad ogni buon conto il ricorso sarebbe anche infondato, atteso
che:
- la censura relativa alla violazione degli obblighi di
partecipazione procedimentale non risulta meritevole di
accoglimento, alla luce di granitica giurisprudenza secondo
cui l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento
della natura abusiva delle opere edilizie costituisce un
atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto
dalla comunicazione di avvio del procedimento (“trattandosi
di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge
in virtù di un presupposto di fatto, ossia l’abuso, di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo” - v. Cons.
Stato, sez. VI, 27.11.2021 n. 6490; Id. n. 4389/2019;
n. 2681/2017);
- parimenti sorretta da consolidata giurisprudenza è
l’assunto che il potere repressivo possa essere esercitato
anche a notevole distanza temporale dall’abuso, atteso che
l’illecito ha natura permanente e che il suo autore conserva
inalterato l’obbligo di rimuovere l’opera (cfr. Cons. Stato,
sez.VI, 12.01.2022 n. 204; Id, n. 6323/2020);
- in piena adesione alle osservazioni svolte dalla difesa
comunale, il Collegio ritiene che dai verbali di
accertamento della Polizia Locale di Palmi (doc. n. 4 di
parte resistente) si possa evincere che quelle realizzate
dalla ricorrente siano opere in parte poste in essere in
variazione essenziale al permesso di costruire del 1998 e a
quello approvato in sanatoria nel 2007, in parte totalmente
abusive, come tali legittimamente assoggettate alla sanzione
demolitoria prevista dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e non
alla sanzione pecuniaria dell’art. 34, difettandone i
presupposti.
Per condiviso indirizzo giurisprudenziale, infatti, “il
permesso di costruire conosce diverse tipologie di
varianti: quelle "minori" o "leggere" che
non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie; le
varianti in senso
proprio, consistenti in modificazioni qualitative o
quantitative di consistenza contenuta rispetto al progetto
approvato; le varianti "essenziali", caratterizzate
dall'incompatibilità del progetto in variante con quello
originario.
Mentre la variante in senso proprio ammette modifiche
progettuali che non investono le caratteristiche
identificative della costruzione, “la variante essenziale
investe gli elementi qualificanti dell'opera, incidendo
direttamente e in modo rilevante sulla sua conformazione,
struttura ed ubicazione, e integrando come tale un nuovo
permesso di costruire” (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez.
VI, 15.02.2021, n. 1388; Id, sez. IV, 28.12.2020
n. 8415).
Nel caso di specie, gli interventi edilizi di che trattasi
differiscono da quelli contemplati nel progetto assentito
con il permesso di costruire del 1998 e in quello approvato
in sanatoria del 2007 in relazione tutti i parametri
urbanistico-edilizi (volume, superficie coperta, sagoma ed
altezza) ed anche per il numero delle unità immobiliari che
nel sottotetto passano da una a tre.
Si è dunque in presenza di una modifica del progetto che
investe gli elementi funzionali e strutturali dell'edificio
e che va senz'altro qualificata come variante essenziale.
In particolare, come si evince dalla relazione dell’U.T.C.
del 25.08.2020 (v. doc. n. 5 di parte resistente):
a. l’ampliamento ricavato al piano terra, lungi ad essere
assimilato ad una mera ripartizione di volumi interni,
presenta un significativo aumento di superficie (m.
5,55x4,20), analogamente al vano chiuso esistente al 1° piano
(m. 5,65x4,65 adibito a cucina);
b. le verande e la tettoia sono prive di titolo edilizio,
non essendo mai state previste in nessun progetto con
conseguente modifica della sagoma e dei tratti
plano-volumetrici dell’edificio;
c. come già accennato, in disparte la copertura a tetto che
non rispetta quella da progetto (da m. 1,00 si passa a m.
1,75), il sottotetto, originariamente non abitabile, è
diventato tale con la realizzazione di tre vani ed un bagno,
rifiniti ed arredati e l’aggiunta di quattro finestre con
conseguente mutamento di destinazione d’uso, aumento di
cubatura e innovazione delle parti portanti (pavimentazioni)
tipiche delle variazioni essenziali (art. 32 d.P.R. n.
380/2001);
d. erra la ricorrente quando afferma che l’utilizzo ai fini
abitativi del sottotetto sarebbe consentito dall’art. 49
della L.R. n. 19/2002: la norma, funzionale al recupero del
patrimonio edilizio esistente, si applica ai soli edifici
costruiti nel centro storico o in centri abitati e non in
zona agricola dove si trova quello di proprietà della
ricorrente.
Occorre precisare, tra l’altro, che la ricorrente non ha
affatto fornito la prova che gli incrementi di superficie e
di volume furono eseguiti in corso d’opera, sicché delle due
l’una: o erano già esistenti all’epoca del rilascio del
permesso in sanatoria (anno 2007) e quindi sarebbe stato
lecito attendersene già allora la regolarizzazione oppure
furono realizzati in tempi successivi, dando luogo ad una
nuova costruzione abusiva da sottoporre a sanzione
repressivo-demolitoria.
In ogni caso, i lavori eseguiti assumono natura abusiva,
come ammesso da controparte che ne ha chiesto l’accertamento
di conformità in sanatoria.
Il ricorso deve essere, dunque, respinto (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 07.08.2023 n. 675 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto attiene alla sanzione amministrativa pecuniaria,
di cui all'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001, il
presupposto per l'applicazione della sanzione è
rappresentato dalla constatata inottemperanza all'ordine di
demolizione, essendo una misura coercitiva indiretta volta
ad indurre la rimozione dei manufatti abusivi.
---------------
La sanzione pecuniaria
amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001,
può essere legittimamente irrogata per quegli abusi edilizi
ove l'inottemperanza a demolire si sia manifestata in epoca
successiva all'entrata in vigore della norma.
È evidente che
l'illecito sanzionato è costituito dall'inottemperanza
all'ingiunzione di demolizione.
Tale inottemperanza inizia
con l'emanazione dell'ordinanza di demolizione e continua
nel tempo fino a quando l'interessato, ovvero l'autorità
amministrativa in danno, non provveda ad eseguire il
ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, in definitiva,
l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione ha carattere
di illecito permanente che persiste fino alla demolizione
dei manufatti abusivi.
---------------
21. Il ricorso n. 90/2023 RG. è infondato.
Per quanto attiene alla sanzione amministrativa pecuniaria,
di cui all'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001, il
presupposto per l'applicazione della sanzione è
rappresentato dalla constatata inottemperanza all'ordine di
demolizione, essendo una misura coercitiva indiretta volta
ad indurre la rimozione dei manufatti abusivi.
Con il verbale del 22.11.2021 (v. doc. n. 10 di parte
resistente) la Polizia Municipale di Palmi ha accertato
l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 117 del
01.12.2020, impugnata con il ricorso n. 120/2021 sopra
esaminato e respinto.
In sede di gravame avverso l'ingiunzione di pagamento della
sanzione ex art. 31, co 4-bis cit. non può discutersi né
della natura né dell’entità dell'abuso, essendo ormai
definitivamente "scolpite" nell'ordine di demolizione.
I motivi di ricorso pertanto sono inammissibili nella parte
in cui sono rivolti a sollevare vizi dell’atto concernenti
esclusivamente la legittimità dell’ordinanza di demolizione;
sono infondati nella parte in cui non contestano minimamente
né l’an né il quantum della sanzione amministrativa nella
misura in cui è stata irrogata alla stregua dei criteri
applicativi previsti dal Regolamento del Comune di Palmi non
impugnato in parte qua.
Le censure articolate nella memoria di replica, non
notificata, depositata il 03.03.2023, sono all’evidenza
tardive e quindi inammissibili, come fondatamente eccepito
dalla difesa civica che espressamente non ha accettato il
contraddittorio sul punto (v. memoria del 19.05.2023 di
parte resistente).
Circa la presunta illegittimità dell’applicazione
retroattiva della sanzione pecuniaria in asserita in
violazione dell’art. 1, L. n. 689/1981, si è
condivisibilmente stabilito che “La sanzione pecuniaria
amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001,
può essere legittimamente irrogata per quegli abusi edilizi
ove l'inottemperanza a demolire si sia manifestata in epoca
successiva all'entrata in vigore della norma. È evidente che
l'illecito sanzionato è costituito dall'inottemperanza
all'ingiunzione di demolizione. Tale inottemperanza inizia
con l'emanazione dell'ordinanza di demolizione e continua
nel tempo fino a quando l'interessato, ovvero l'autorità
amministrativa in danno, non provveda ad eseguire il
ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, in definitiva,
l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione ha carattere
di illecito permanente che persiste fino alla demolizione
dei manufatti abusivi” (v. TAR Napoli, sez. VII, 04.04.2022 n. 2297).
Anche sotto il profilo poc’anzi enunciato, pertanto, il
gravame non coglie nel segno.
22. In conclusione, il ricorso n. 120/2021 deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso n. 90/2023 va respinto siccome
infondato (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 07.08.2023 n. 675 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2023 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La valutazione dell’abuso edilizio presupponendo una
visione complessiva, e non atomistica, delle opere realizzate,
dovendosi valutare l’insieme delle opere realizzate nel loro
contestuale impatto edilizio e non il singolo intervento.
Non è dato, infatti, scomporne una parte, per negare l’assoggettabilità
ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il
pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio
deriva non da ciascun intervento a sé stante, bensì
dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto
edilizio e nelle reciproche interazioni.
L’opera edilizia abusiva va, dunque, identificata con
riferimento all’immobile o al complesso immobiliare, essendo
irrilevante il frazionamento dei singoli interventi, avulsi
dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente
considerato. Ed inoltre, la trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio comprende non le sole attività di
edificazione, ma anche quelle consistenti nella
modificazione rilevante e duratura dello stato del
territorio e nell'alterazione della conformazione del suolo.
---------------
Non è, ancora, rilevante la predicata natura tecnica o
pertinenziale di alcuni abusi, trattandosi di interventi
sicuramente idonei ad incidere sul bene paesaggistico, in
quanto comportanti una trasformazione del territorio.
Invero, la realizzazione di un muro di contenimento necessita del previo rilascio del permesso di costruire,
delineandosi tra gli interventi di “nuova costruzione” (non
ha natura pertinenziale) che non può considerarsi come un
intervento di restauro e risanamento conservativo.
“Il muro
di cinta o di contenimento è struttura che -differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale ha
caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della
mera delimitazione della proprietà- non ha natura pertinenziale, in quanto opera dotata di specificità ed
autonomia soprattutto in relazione alla funzione assolta,
consistente nel sostenere il terreno al fine di evitarne
movimenti franosi in caso di dislivello, originario o
incrementato”.
---------------
... per l'annullamento:
A) Dell’ordinanza Reg. Gen. 196 del 09.12.2019, prot. n
86552/USCITA registrata il 10.12.2019, notificata il
16.12.2019, avente ad oggetto “Ingiunzione di Demolizione Art. 31 del DPR 380/2001 per opere abusive realizzate alla Via
... Civ. 55” con la quale s’ingiunge di provvedere
alla demolizione a propria cura e spese e nel rispetto delle
leggi vigenti, delle opere abusive e di qualsiasi altra
opera abusivamente realizzata in Via ... n. 50, nel
termine di 90 giorni dalla notifica della presente
ingiunzione;
B) Dell’avviso che, in caso di accertata inottemperanza, si
procederà alla acquisizione delle opere realizzate e
dell’area di sedime, al patrimonio del Comune e si procederà
all’adozione degli ulteriori provvedimenti previsti dal DPR
380/2001, art. 31 ed alla irrogazione della sanzione
pecuniaria pari a euro 20.000,00 prevista dal comma 4-bis
dell’art. 27 DPR 380/2001 essendo opere abusive su aree di
cui al comma 2 dell’art. 27 DPR 380/2001 e di una sanzione
pecuniaria pari a euro 20.000,00 prevista dal comma 4-bis
dell’art. 27 DPR 380/2001 essendo opere abusive su aree di
cui al comma 2 dell’art. 27 DPR 380/2001;
C) Di ogni altro atto connesso, preordinato, conseguente e in ogni
modo collegato, comprese le relazioni tecniche redatte dal
personale del Comando VV.UU. del Comune di Pozzuoli, poste a
fondamento della stessa ordinanza impugnata.
...
Il ricorso è infondato per le considerazioni che seguono.
In data 24/08/2019 il Corpo di Polizia Locale del Comune di
Pozzuoli effettuava sopralluogo in via ... n. 55 presso
la proprietà del sig. Ra.Lu., ove costatava la
realizzazione delle opere innanzi descritte; il manufatto
rurale, in particolare, risultava completo di ogni opera ed
arredato, come si evince dalle foto allegate al verbale e,
come dichiarato dal sig. Ra.Lu. agli
accertatori, abitato unitamente al suo nucleo familiare (cfr.
all. n. 2 alla memoria difensiva del Comune).
Il Comune di
Pozzuoli ordinava, quindi, la demolizione delle suindicate
opere edilizie, siccome realizzate in assenza di titolo
abilitativo.
...
Col secondo motivo di ricorso, parte ricorrente
lamenta la violazione del d.p.r. 380/2001, dell’art. 6, comma
1, lett. c), del d.p.r. 380/2001, del d.lgs. 42/2004.
«Eccesso
di potere, violazione dell’art. 1, comma 275, della l. n.
244/200», perché gli interventi eseguiti rientrerebbero in
quelli per i quali non è richiesto titolo abilitativo e
comunque non lederebbero l’oggetto della tutela ambientale
del sito ove sono stati realizzati.
In tale prospettiva, il Comune avrebbe omesso di verificare
la compatibilità degli interventi, difettando il
provvedimento demolitorio, sotto tale profilo, di adeguata
istruttoria e motivazione.
Con il terzo motivo di ricorso,
invece, il ricorrente sostiene che il muro di contenimento
di 14 mt. ed il muretto di tufo di 7 mt. sarebbero sempre
esistiti e sarebbero stati solo migliorati.
Il motivo è del tutto infondato.
Come già rilevato, il ricorrente ha ampliato l’originario
manufatto rurale, destinandolo a civile abitazione; ha, poi,
realizzato un muro di contenimento di 14 mt., un terrazzino
di 60 mq. e un muretto in tufo di 7 m. Occorre, altresì,
precisare che l’intero territorio del Comune di Pozzuoli è
stato dichiarato di notevole interesse pubblico ex d.m. del
12/09/1957.
L’area ove insiste l’abuso ricade, pertanto, in
base al P.R.G.:
a) in zona B5_3 «residenziale satura recente
interna o contigua ad emergenze naturalistiche e paesistiche
o a zone di elevato pregio ambientale.
Manutenzione e restauro ambientale», la cui regolamentazione
è dettata dall’art. 24 delle norme di attuazione del piano e
non consente il tipo di intervento realizzato dal
ricorrente;
b) in base al P.T.P. in zona P.I. «Protezione
integrale», il cui art. 11 delle norme di attuazione prevede
il divieto di «qualsiasi intervento che comporti incremento
dei volumi esistenti».
Correttamente, quindi, si legge nell’ordinanza impugnata
«che gli interventi che comportano ampliamenti di volume
degli immobili non sono assentibili quindi ai sensi
dell’art. 36 e 37 del Testo Unico e non per niente
configurabili in alcune delle ipotesi di condono,
considerato che le opere realizzate non appaiono neanche
astrattamente condonabili, poiché opere non conformi alle
norme urbanistiche vigenti», avendo il Comune motivato la
gravata sanzione demolitoria non soltanto con riferimento
alla mancanza di titoli abilitativi ma vista anche
l’incompatibilità dei manufatti con i vincoli ambientali di
riferimento.
Del resto, nel caso che ci occupa, né il muro di
contenimento di 14 mt., né il terrazzino di 60 mq. ed il
muretto di 7 mt. potevano qualificarsi, per natura e
dimensioni, quali manufatti meramente pertinenziali.
La valutazione dell’abuso edilizio presuppone, inoltre, una
visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate,
dovendosi valutare l’insieme delle opere realizzate nel loro
contestuale impatto edilizio e non il singolo intervento.
Non è dato, infatti, scomporne una parte, per negare l’assoggettabilità
ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il
pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio
deriva non da ciascun intervento a sé stante, bensì
dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto
edilizio e nelle reciproche interazioni.
L’opera edilizia
abusiva va, dunque, identificata con riferimento
all’immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante
il frazionamento dei singoli interventi, avulsi dalla loro
incidenza sul contesto immobiliare unitariamente
considerato. Ed inoltre, la trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio comprende non le sole attività di
edificazione, ma anche quelle consistenti nella
modificazione rilevante e duratura dello stato del
territorio e nell'alterazione della conformazione del suolo
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01/04/2019, n. 221).
Non è, ancora, rilevante la predicata natura tecnica o
pertinenziale di alcuni abusi, trattandosi di interventi
sicuramente idonei ad incidere sul bene paesaggistico, in
quanto comportanti una trasformazione del territorio (Cons.
Stato, Sez. VI, 15/11/2021, n. 7584).
La realizzazione di un muro di contenimento necessita,
quindi, del previo rilascio del permesso di costruire,
delineandosi tra gli interventi di “nuova costruzione” (non
ha natura pertinenziale) che non può considerarsi come un
intervento di restauro e risanamento conservativo. “Il muro
di cinta o di contenimento è struttura che -differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale ha
caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della
mera delimitazione della proprietà- non ha natura pertinenziale, in quanto opera dotata di specificità ed
autonomia soprattutto in relazione alla funzione assolta,
consistente nel sostenere il terreno al fine di evitarne
movimenti franosi in caso di dislivello, originario o
incrementato” (Cons Stato, sez. VI, 08/10/2019 n. 212)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.06.2023 n. 3801 - link a
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dicembre 2022 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
gli abusi edilizi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza
di ripristino non può essere rivolta all’amministratore pro tempore
del condominio ma deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei
singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto
alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza
la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera
in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei
diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica.
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del
2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti
e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i
servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il
condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini”.
---------------
L’avversata ordinanza di demolizione si rivela illegittima in quanto:
- ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà
esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente
modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del
condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile
dell’abuso”;
- anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti
comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta
all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli
condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato
sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei
singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011,
registrata al n. -OMISSIS- del 13.12.2011, notificata il 20.01.2012, con la
quale il dirigente del Dipartimento Attività Edilizie e Repressione
Abusivismo del Comune di Messina ha ordinato al ricorrente nella qualità di
provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza
medesima, al ripristino quo-ante dello stato dei luoghi abusivamente
modificati, con l’avvertimento che, decorso infruttuosamente il predetto
termine, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le
vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a
quelle abusive, verranno acquisite di diritto al patrimonio comunale;
...
Il deducente avvocato -OMISSIS-, nella qualità di amministratore del
condominio dell’isolato 248 in via -OMISSIS-, Messina, ha sottoscritto per
la presentazione al Comune intimato una d.i.a., prot. n. -OMISSIS-
dell’01.12.2009, relativa al progetto per il restauro dell’organismo
architettonico dell’isolato che amministra.
Nel prescritto termine di legge -giorni trenta dalla presentazione- non è
pervenuto alcun provvedimento inibitorio dell’attività edilizia oggetto
della d.i.a. e, quindi, sono stati regolarmente intrapresi i lavori.
Successivamente, tra fine settembre ed inizio ottobre del 2011, sono stati
effettuati due accertamenti da parte dell’Ufficio tecnico comunale,
all’esito dei quali il Dipartimento Attività Edilizie e Repressione
Abusivismo, senza alcuna preliminare contestazione o comunicazione di avvio
del procedimento, ha adottato due distinte ordinanze repressive, aventi
entrambe per destinatario il predetto amministratore pro tempore, con
le quali, rispettivamente, gli si ordinava
- il pagamento di una sanzione pecuniaria di € 516,00 (ordinanza
prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011) per la realizzazione di opere abusive in
assenza di autorizzazione o d.i.a. nonché
- (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, in questa sede
impugnata) di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, secondo il
Comune abusivamente modificati, per alcune “altre” opere, di
proprietà esclusiva di alcuni condomini, avvertendo che in caso di
inottemperanza il bene e l’area di sedime (non specificamente indicati)
nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sarebbero stati acquisiti al patrimonio comunale.
Il ricorrente ha contestato, con memoria trasmessa al Comune di Messina
l’01.03.2012, entrambi i provvedimenti, evidenziando che l’eventuale
pagamento della sanzione pecuniaria irrogata con la prima ordinanza
non avrebbe costituito, comunque, acquiescenza alle contestazioni mosse e
che, per la seconda ordinanza, non sussistevano le condizioni
l’applicazione della sanzione della rimessione in pristino e l’acquisizione
al patrimonio comunale e che, comunque, egli non poteva essere destinatario
di una tale ordinanza (riguardante pretesi abusi su immobili di proprietà
privati), chiedendone l’annullamento in autotutela ed avvertendo che, in
mancanza, si sarebbe visto costretto a proporre azione giurisdizionale.
Nel silenzio dell’Amministrazione comunale il deducente ha proposto l’azione
di annullamento.
...
2. Il ricorso merita di essere accolto, nei sensi e nei termini in appresso
specificati.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata
dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio
negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della
qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in
rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei
diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica (cfr.
Cass. civ., sez. II, 03.04.2003, n. 5147; Cass. civ., sez. II, 09.06.2000,
n. 7891; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304).
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del
2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di
diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli
impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”
(cfr. Cass. civ., Sez. Un., 08.04.2008, n. 9148).
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il
condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini” (cfr., ex plurimis,
Cass. civ. sez. III, 16.05.2011, n. 10717; Cass. civ. sez. II, 26.03.2010,
n. 7300; Cass. civ. sez. III, 18.02.2010, n. 3900; Cass. civ. sez. II,
21.01.2010, n. 1011; Cass. civ., sez. trib., 07.12.2004, n. 22942;
l’orientamento giurisprudenziale in questione, peraltro, è stato più di
recente ribadito da, ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 06.10.2021, n.
27080; Cass. civ., sez. II, 26.09.2018, n. 22911; Cass. civ., sez. III,
31.10.2017, n. 25855).
Orbene, l’avversata ordinanza di demolizione ex art. 7 della legge
28.02.1985, n. 47 si rivela illegittima in quanto:
- ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà
esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente
modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore
del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile
dell’abuso”;
- anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti
comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta
all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le
parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire
l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente
nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle
stesse” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 18.05.2022, n. 6276; cfr.
anche TAR Basilicata, sez. I, 14.01.2022, n. 14; TAR Campania, Napoli, sez.
VIII, 10.07.2020, n. 3005).
3. In conclusione, previo assorbimento delle restanti censure, il ricorso
merita di essere accolto per le ragioni sopra evidenziate con conseguente
annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.12.2022 n. 3130 - link a
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ottobre 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: Va
ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato secondo
cui grava sul proprietario, e non sulla P.A.,
l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva:
“In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di
realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non
deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito,
non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione”
---------------
Va ribadita la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni
regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle
costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto
al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n.
1150/1942, atteso che,
- come è già stato condivisibilmente osservato “queste ben possono
assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere edili o di
attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di provocare
mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri interventi
edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie meramente
estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte di quello
stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine di
sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e
rigorosa tutela”;
- così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale
dell’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di
sanatoria le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era
richiesto il rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi
dell’art. 31, primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi
«dei regolamenti edilizi comunali».
---------------
L’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento della
responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia.
L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato esclusivamente
alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione
circa la sussistenza del concreto interesse pubblico alla rimozione neppure
quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non
potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione a situazioni
contra legem, essendo stata la relativa ponderazione tra l’interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
---------------
8. Va in primo luogo ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente
consolidato che stabilisce che grava sul proprietario, e non sulla P.A.,
l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva:
“In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di
realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non
deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito,
non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 16/02/2022, n. 1152).
Nel caso in esame, la ricorrente non ha provato, contrariamente a quanto
genericamente asserito nel ricorso, la data di realizzazione delle opere
contestate.
9. Piuttosto, la prospettazione della parte, secondo cui tutte le opere
contestate risulterebbero esistenti dagli inizi degli anni sessanta o
quantomeno dal 1994, allorché fu svolta la perizia del C.T.U. del Tribunale
di Nocera Inferiore (cfr. all. 2 ricorso), risulta smentita per tabulas,
dal momento che le tavole aerofotogrammetriche relative al volo del 2003,
allegate al verbale di accertamento tecnico prot. n. 176974 del 25/11/2015
dimostrano l’assenza, a tale data, della superfetazione in lamiera
metallica, indicata al punto 2, e della tettoia a struttura metallica,
indicata al punto 3 dell’ordinanza impugnata.
A conferma di ciò, dalla stessa perizia del 1994, risulta che sull’immobile
in questione, «interamente compreso in area di rispetto ferroviario, non
edificabile» (cfr. p. 7 perizia), erano all’epoca presenti solo una
baracca in blocchi di cemento con copertura in lamiera ondulata e luci di
accesso chiuse da due saracinesche in ferro, di dimensioni circa m 6,5 x 5,
altezza m. 3, e un piccolo locale w.c. in blocchi di cemento, opere che,
oltre a essere evidentemente differenti rispetto alle strutture rilevate nel
2015 dai tecnici della P.A., comprovano piuttosto l’inesistenza all’epoca
delle opere abusive indicate al secondo, terzo e quarto punto dell’impugnata
ordinanza n. 16/2016.
Ne è risultato, come accertato nel verbale 176974/2015, un complessivo
intervento abusivo realizzato in più epoche, caratterizzato da “un’unica
organicità dell’opera”.
10. È evidente quindi come la ricorrente non abbia compiutamente provato il
carattere risalente -ante cd. Legge Ponte del 1967- dei manufatti, né
conseguentemente la legittimità delle opere contestate attraverso idonei
titoli edilizi, opere che ricadono, tra l’altro, in area di rispetto
ferroviario e soggiacciono certamente al disposto dell’art. 49 del DPR n.
753/1980, secondo cui: “Lungo i tracciati delle linee ferroviarie è
vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi
specie ad una distanza, da misurarsi in proiezione orizzontale, minore di
metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia”.
11. Sul punto, non può poi condividersi quanto osservato in replica dalla
ricorrente circa la non obbligatorietà dell’allora vigente Regolamento
Edilizio Comunale, approvato con deliberazione del Commissario Prefettizio
n. 800 del 12/04/1954, che prevedeva l’obbligo di munirsi di licenza
edilizia per gli interventi di costruzione o modifica da effettuarsi
nell’ambito dell’intero territorio comunale, in quanto -ad avviso della
parte- previsione in contrasto con la legge urbanistica n. 1150/1942 che
limitava invece la necessità del titolo edilizio ai soli centri abitati.
Vale infatti ribadire la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni
regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle
costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto
al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n.
1150/1942, atteso che,
- come è già stato condivisibilmente osservato “queste
ben possono assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere
edili o di attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di
provocare mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri
interventi edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie
meramente estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte
di quello stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine
di sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e
rigorosa tutela” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.10.1995, n. 1425);
- così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale dell’art.
31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di sanatoria le
opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto il
rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi dell’art. 31,
primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi «dei
regolamenti edilizi comunali» (Tar Campania, Salerno, sentenza n.
1678/2018).
12. Quanto al profilo della responsabilità del proprietario, vale osservare
che l’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento
della responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 215/2022).
12. L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato
esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una
specifica motivazione circa la sussistenza del concreto interesse pubblico
alla rimozione neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla
sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in
relazione a situazioni contra legem, essendo stata la relativa ponderazione
tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore (TAR
Campania-Salerno, Sez. III,
sentenza 13.10.2022 n. 2661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2022 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Ramacci,
IL RISTRETTO AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA SANATORIA PER
“DOPPIA CONFORMITÀ” DI CUI ALL’ART. 36 D.P.R. 380/2001
(Lexambiente fasc. n. 3/2022).
---------------
Abstract. Il presente lavoro prende in esame la
procedura di sanatoria degli abusi edilizi “formali”
considerandone le caratteristiche e l’ambito di operatività
così come delineato dalla giurisprudenza amministrativa e di
legittimità, i cui interventi si sono spesso resi necessari
a causa di distorte prassi finalizzate la recupero di
interventi abusivi che secondo una corretta lettura
dell’art. 36 d.P.R. 380/2001 sarebbero, invece non sanabili.
Viene posto in evidenza come, in realtà, la disposizione in
esame abbia un’applicazione molto limitata e come siano
conseguentemente limitati gli effetti estintivi delle
contravvenzioni urbanistiche previsti dall’art. 45 del
d.P.R. 380/2001.
...
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Presupposti della
sanatoria. - 3. La “doppia conformità” in genere. - 4. La
sanatoria “condizionata”. - 5. La sanatoria “parziale”. - 6.
La sanatoria “giurisprudenziale”. - 7. Sanatoria degli abusi
edilizi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. - 8.
Sanatoria degli interventi in zona sismica. - 9. Effetti
penali della sanatoria. |
agosto 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, si rileva che, secondo le linee interpretative della
costante giurisprudenza amministrativa, l’istanza di sanatoria edilizia ha un
preciso valore confessorio dell’abuso.
---------------
In base ai principi elaborati
dalla giurisprudenza, ciò che rileva ai fini del calcolo del contributo di
costruzione è l’oggetto sostanziale dell’intervento, questo essendo
determinante per stabilire l’effettiva incidenza sul carico urbanistico.
Invero:
a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso
all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella
misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella
zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si
caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui
l’Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente
utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova
destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli
stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;
b) è stata ritenuta sufficiente, al fine della configurazione
di un maggior carico urbanistico, la circostanza che, quale effetto
dell’intervento edilizio, sia mutata la realtà strutturale e la fruibilità
urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e
funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività
edilizia comporta;
c) considerato che il fondamento del contributo di
urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di
ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli
gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle
medesime secondo modalità eque per la comunità, nel caso di ristrutturazione
edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel
momento in cui l’intervento va a determinare un aumento del carico
urbanistico (il che può verificarsi anche nel caso in cui la
ristrutturazione non interessi globalmente l’edificio, ma, a causa di lavori
anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la
fruibilità urbanistica.
---------------
1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dai seguenti provvedimenti:
a) nota prot. n. 9867 del 28.05.2012 recante la determinazione del
contributo di cessione delle aree a standards ai sensi del d.m. n. 1444 del
1968 (impugnato con il ricorso introduttivo);
b) nota prot. n. 2844 del 14.02.2013, recante la determinazione del
pagamento delle somme dovute a titolo di contributo di costruzione per il
rilascio del permesso di costruire di cui all’istanza del 18.12.2021
(impugnato con motivi aggiunti).
2. La ditta appellante –proprietaria di un immobile sito nel comune di
Bellizzi, in via ... ricompreso in zona D del vigente P.R.G.- ha presentato
istanza di permesso di costruire in sanatoria per talune opere abusive ed in
particolare per un ampliamento (di circa 40 mq.) del piano terra/rialzato a
destinazione terziaria, nonché per il cambio di destinazione d’uso da
artigianale a commerciale/terziario di parte del piano terra e parte del
piano ammezzato (per circa mq. 890).
Con il primo provvedimento il comune di Bellizzi ha rilasciato il permesso
di costruire in sanatoria e ha determinato l’oblazione dovuta per
l’ampliamento e il cambio di destinazione d’uso dell’immobile da artigianale
a terziario, stabilendo inoltre la cessione delle aree da destinare a spazio
pubblico (standards).
A seguito della interlocuzione tra le parti e della proposizione del ricorso
introduttivo il comune ha ripetuto l’istruttoria e ha confermato il
precedente, già impugnato, provvedimento.
3. La ditta PCA ha impugnato davanti al Tar per la Campania, sede di
Salerno, i su indicati provvedimenti, con ricorso principale (affidato a sei
motivi estesi da pagina 3 a pagina 11) e ricorso per aggiunzione (affidato a
tre motivi da pag. 2 a pag. 5).
4. L’impugnata sentenza emessa dal Tar per la Campania, sede di Salerno, n.
295 del 2015:
a) ha in parte respinto e in parte dichiarato inammissibile il
ricorso principale e i motivi aggiunti;
b) ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese di lite
nella misura di euro 1.500,00.
...
12. Con il primo, il secondo e il terzo motivo di
ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, è dedotta la violazione
degli artt. 16 e 19 del d.P.R. n. 380 del 2001 poiché l’amministrazione
avrebbe calcolato in modo erroneo il costo di costruzione e gli oneri di
urbanizzazione.
12.1 In particolare, l’amministrazione avrebbe calcolato, in violazione del
su indicato art. 16, gli oneri di urbanizzazione sulla base di una
volumetria già esistente e, pertanto, si tratterebbe di costi che il privato
ha già interamente pagato al momento del rilascio del titolo originario.
Inoltre, i costi non sarebbero dovuti in caso di solo cambio di destinazione
d’uso.
L’amministrazione, in violazione degli artt. 1 e 5 del d.m. n. 1444 del 1968
e in eccesso di potere, avrebbe disposto la cessione di aree standard sulla
base di presupposti che nella fattispecie non ricorrerebbero.
12.2 I motivi sono infondati.
In linea generale, si rileva che, secondo le linee interpretative della
costante giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez.
IV, n. 676 del 2022; n. 463 del 2017), l’istanza di sanatoria edilizia ha un
preciso valore confessorio dell’abuso.
Nel caso in esame l’appellante ha presentato un’istanza di permesso in
sanatoria in relazione ad un aumento volumetrico abusivo con cambio di
destinazione funzionale dell’immobile (da artigianale a terziario) con
evidente aggravio del carico urbanistico e conseguente doverosità del
pagamento del costo di costruzione, che l’amministrazione, in esatta
applicazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha correttamente
calcolato in maniera doppia.
12.3. Peraltro, il Collegio osserva, in linea generale, che, in base ai
principi elaborati dalla giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez.
IV, n. 148 del 2022), ciò che rileva ai fini del calcolo del contributo di
costruzione è l’oggetto sostanziale dell’intervento, questo essendo
determinante per stabilire l’effettiva incidenza sul carico urbanistico.
Invero:
a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso
all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella
misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella
zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si
caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui
l’Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente
utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova
destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli
stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico (Cons.
Stato, sez. IV, 23.02.2021, n. 1586);
b) è stata ritenuta sufficiente, al fine della configurazione di un
maggior carico urbanistico, la circostanza che, quale effetto
dell’intervento edilizio, sia mutata la realtà strutturale e la fruibilità
urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e
funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività
edilizia comporta (Cons. Stato, sez. II, 21.07. 2021, n. 5494);
c) considerato che il fondamento del contributo di urbanizzazione
non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire
i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti
beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo
modalità eque per la comunità, nel caso di ristrutturazione edilizia, il
pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui
l’intervento va a determinare un aumento del carico urbanistico (il che può
verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi
globalmente l’edificio, ma, a causa di lavori anche marginali, ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica (Cons.
Stato, sez. IV, 31.07.2020, n. 4877).
Pertanto, nel caso in esame, il costo di costruzione è stato correttamente
quantificato dall’amministrazione ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 380
del 2001 (di cui ha fatto applicazione la deliberazione del Consiglio
comunale n. 44 del 2012, non impugnata) giacché l’istanza di sanatoria ha ad
oggetto un abuso che implica un mutamento di destinazione funzionale
dell’immobile con oggettive ricadute sul carico urbanistico (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 17.08.2022 n. 7191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L’adozione di un solo
provvedimento di riscontro a due domande di
sanatoria –una edilizia l’altra
paesaggistica– non appare di per sé
illegittimo, se si considera che le domande
in questione sono strettamente connesse,
visto che soltanto in caso di positivo
riscontro della compatibilità paesaggistica
è possibile il rilascio di un accertamento
di conformità secondo l’art. 36 del TU.
---------------
1. Il ricorso principale è diretto contro il
provvedimento comunale del 24.10.2012 di
rigetto delle due domande di sanatoria, la
prima di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del TU e la seconda di
compatibilità paesaggistica ai sensi
dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
Con particolare riguardo alla compatibilità
paesaggistica, il Comune ha rilevato che
l’intervento edilizio realizzato in
difformità dai titoli abilitativi ha
determinato un incremento volumetrico del
fabbricato, il che appare di per sé ostativo
al rilascio della compatibilità
paesaggistica, stante la previsione
dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs.
n. 42/2004 (cfr. per il provvedimento
impugnato il doc. 1 dei ricorrenti).
1.1 Ciò premesso, nel primo mezzo di gravame
gli esponenti sostengono che
l’Amministrazione avrebbe erroneamente
deciso le due istanze con un solo
provvedimento, senza contare che nella
valutazione della domanda ex art. 36 del TU
non sarebbe stata tenuta in considerazione
la disciplina regionale sul recupero dei
sottotetti ma soltanto la disciplina del
Piano Regolatore Generale (PRG) del 1986.
La doglianza appare infondata.
L’adozione di un solo provvedimento di
riscontro alle due domande di sanatoria
succitate –una edilizia l’altra
paesaggistica– non appare di per sé
illegittimo, se si considera che le domande
in questione sono strettamente connesse,
visto che soltanto in caso di positivo
riscontro della compatibilità paesaggistica
è possibile il rilascio di un accertamento
di conformità secondo l’art. 36 del TU.
Il provvedimento appare poi chiaramente
motivato quanto alle ragioni ostative
all’accoglimento di entrambe le istanze.
Per il diniego della compatibilità
paesaggistica il Comune ha accertato la
realizzazione di un incremento volumetrico e
sulla legittimità di tale determinazione si
tornerà in seguito, allorché sarà esaminato
il secondo motivo del gravame principale.
Quanto all’applicazione dell’art. 36 del TU,
è noto che la sanatoria prevista da tale
articolo presuppone la c.d. doppia
conformità dell’intervento edilizio, cioè la
conformità alla disciplina urbanistica ed
edilizia in vigore sia al momento di
realizzazione dell’abuso sia al tempo di
presentazione della domanda.
Nel corso del sopralluogo eseguito presso
l’unità dei ricorrenti il 28.07.2011 i
tecnici comunali rilevavano l’aumento delle
altezze di colmo e di imposta, con
conseguente innalzamento della struttura del
tetto, la modifica e l’innalzamento dei
corpi scala, la mancata realizzazione dei
tamponamenti di chiusura, la formazione di
nuovi divisori interni e l’utilizzo quale “camera
e bagno” del “sottotetto non
abitabile/ripostiglio” (cfr. per la
copia del verbale di ispezione del
28.07.2011 il doc. 5 del resistente).
La disciplina urbanistica vigente al momento
dell’abuso, cui il Comune ha necessariamente
fatto riferimento per la valutazione della
domanda ex art. 36, è quella dell’art. 5,
comma 9.5, delle norme di attuazione (NTA)
del PRG del 1986, norma per la quale nei
sottotetti non costituiscono superficie
lorda di pavimento (slp) e sono quindi
escluse dal calcolo volumetrico, le
superfici di altezza interna media netta non
superiore a 2,4 metri con il punto più basso
non inferiore a 1,8 metri e con il punto più
alto di intradosso di colmo non superiore a
3 metri (cfr. per il testo della citata NTA
il doc. 14 del resistente).
L’accertamento dell’avvenuta violazione
della su indicata disciplina di PRG (posto
che il sottotetto di cui è causa ha
un’altezza superiore a tre metri) ha
impedito al Comune l’accertamento della
doppia conformità richiesta invece dalla
legge.
Gli esponenti invocano a proprio favore
l’applicazione della legislazione lombarda
sul recupero dei sottotetti, ultima quella
degli articoli 63 e seguenti della legge
regionale (LR) n. 12/2005.
Il richiamo alla citata legislazione è però
inconferente, giacché la stessa presuppone
la realizzazione di un intervento di
recupero regolarmente assentito, ma nel caso
di specie si è in presenza di un abuso
edilizio, considerato che il sottotetto è
stato realizzato in difformità dai titoli
edilizi rilasciati, determinando così un
incremento di volume rilevante sotto il
profilo edilizio e paesaggistico.
Ne deriva il rigetto del primo mezzo di
gravame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.07.2022 n. 1565 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
parola “condono”, seppure entrata nell’uso comune, a stretto
rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia
linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata
sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una
sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie
penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono:
- la prima è contenuta nei capi IV e V della l. n. 47/1985, e
dunque si collocava almeno in un contesto di nuova regolamentazione della
materia con l’introduzione di una serie di strumenti dissuasivi per gli
abusi futuri;
- le successive, invece, si inseriscono in testi del tutto
eterogenei e per lo più finalizzati ad esigenze di pubblico erario, e si
risolvono nella sostanziale estensione del lasso di tempo entro il quale
l’abuso doveva essere stato ultimato per poter fruire del beneficio.
Trattasi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 (c.d. “secondo
condono”), la cui disciplina procedimentale è stata completata con la l. n.
662 del 1996; nonché dell’art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326, di
conversione del d.l. 30.09.2003, n. 269, che ha applicato la
disciplina del condono, quale risultante da ridetti capi IV e V della l. n.
47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere
abusive ultimate entro il 31.03.2003, seppure ponendo l’ulteriore limite
che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al
30% della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri
cubi.
---------------
Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al
condono si siano chiuse rispettivamente il 30.11.1985, il 31.03.1995 e il 10.12.2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto:
sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze,
infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono
ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza,
al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi
delle sanatorie edilizie.
---------------
Presupposto per la fruizione di ciascuno dei condoni sopra ricordati è
l’avvenuta ultimazione dell’opera realizzata senza titolo entro una certa
data.
Il Collegio ricorda come la nozione di opera ultimata ai fini della
fruibilità del condono presupponga lo stato di “rustico” della stessa,
termine con il quale si intende che essa è completa di tutte le strutture
essenziali, necessariamente comprensiva della copertura e delle tamponature
esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e
esattamente calcolabili, ancorché mancante delle finiture (infissi,
pavimentazione, tramezzature interne).
Si tratta del c.d. criterio “strutturale”, applicabile nei casi di nuova
costruzione, cui vanno ricondotti anche quelli di modifica sostanziale della
costruzione preesistente, in contrapposizione a quello “funzionale”, che
opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di
manufatti con destinazione diversa da quella residenziale.
---------------
19. La parola “condono”, seppure entrata nell’uso comune, a stretto
rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia
linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata
sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una
sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie
penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono:
- la prima è contenuta nei capi IV e V della l. n. 47/1985, e
dunque si collocava almeno in un contesto di nuova regolamentazione della
materia con l’introduzione di una serie di strumenti dissuasivi per gli
abusi futuri;
- le successive, invece, si inseriscono in testi del tutto
eterogenei e per lo più finalizzati ad esigenze di pubblico erario, e si
risolvono nella sostanziale estensione del lasso di tempo entro il quale
l’abuso doveva essere stato ultimato per poter fruire del beneficio.
Trattasi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 (c.d. “secondo
condono”), la cui disciplina procedimentale è stata completata con la l. n.
662 del 1996; nonché dell’art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326, di
conversione del d.l. 30.09.2003, n. 269, che ha applicato la
disciplina del condono, quale risultante da ridetti capi IV e V della l. n.
47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere
abusive ultimate entro il 31.03.2003, seppure ponendo l’ulteriore limite
che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al
30% della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri
cubi.
19.1. Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al
condono si siano chiuse rispettivamente il 30.11.1985, il 31.03.1995 e il 10.12.2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto:
sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze,
infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono
ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza,
al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi
delle sanatorie edilizie.
19.2. Presupposto per la fruizione di ciascuno dei condoni sopra ricordati è
l’avvenuta ultimazione dell’opera realizzata senza titolo entro una certa
data.
Il Collegio ricorda come la nozione di opera ultimata ai fini della
fruibilità del condono presupponga, per costante giurisprudenza dai cui
principi non è ragione di discostarsi, lo stato di “rustico” della stessa,
termine con il quale si intende che essa è completa di tutte le strutture
essenziali, necessariamente comprensiva della copertura e delle tamponature
esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e
esattamente calcolabili, ancorché mancante delle finiture (infissi,
pavimentazione, tramezzature interne).
Si tratta del c.d. criterio “strutturale”, applicabile nei casi di nuova
costruzione, cui vanno ricondotti anche quelli di modifica sostanziale della
costruzione preesistente, in contrapposizione a quello “funzionale”, che
opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di
manufatti con destinazione diversa da quella residenziale (sul punto, v. Cons. Stato, sez. II, 15.02.2021, n. 1403) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 27.06.2022 n. 5265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione conseguente
all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie realizzate come
tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi è un atto dovuto, l’ordinanza va
emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni
urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente
tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato che si ricollega ad un
preciso presupposto di fatto cioè l’abuso di cui peraltro l’interessato non
può non essere a conoscenza rientrando direttamente nella sua sfera di
controllo.
Il provvedimento acquisitivo ha
natura dichiarativa ed è un atto dovuto che risulta adeguatamente motivato
mediante il richiamo del verbale da cui risulti l'accertamento
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione. L'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime
costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza
ingiuntiva della demolizione ed opera di diritto ed automaticamente allo
scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per
l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, con
l'ulteriore corollario che la sua notifica all'interessato ha una sua
esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di
proprietà.
La mancata esatta individuazione dell'area di sedime da acquisire di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del
Comune, non costituisce ragione di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire. Ciò in quanto l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione
di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi
alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. L'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate
è, infatti, una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione; ne consegue
che, data la natura dichiarativa dell'accertamento dell'inottemperanza, la
mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque
essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di
acquisizione.
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Osserva il Collegio che “l’ordine di demolizione conseguente
all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie realizzate come
tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi è un atto dovuto, l’ordinanza va
emanata senza indugio e in quanto tale non deve essere preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento trattandosi di una misura
sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni
urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente
tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato che si ricollega ad un
preciso presupposto di fatto cioè l’abuso di cui peraltro l’interessato non
può non essere a conoscenza rientrando direttamente nella sua sfera di
controllo” (TAR Palermo, sez. II, 17/01/2022, -OMISSIS-; TAR Sicilia,
Palermo, Sez. II, 07.09.2020-OMISSIS-; TAR Sicilia, Palermo, Sez.
II, 26.02.2020, -OMISSIS-).
La giurisprudenza ha altresì evidenziato che il provvedimento acquisitivo ha
natura dichiarativa ed è un atto dovuto che risulta adeguatamente motivato
mediante il richiamo del verbale da cui risulti l'accertamento
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione. L'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime
costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza
ingiuntiva della demolizione ed opera di diritto ed automaticamente allo
scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per
l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, con
l'ulteriore corollario che la sua notifica all'interessato ha una sua
esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di
proprietà (ex multis: C. di St. n. 2122/2022).
E’ stato altresì precisato che la mancata esatta individuazione dell'area di
sedime da acquisire di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del
Comune, non costituisce ragione di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire. Ciò in quanto l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione
di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto
(acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi
alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. L'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate
è, infatti, una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione; ne consegue
che, data la natura dichiarativa dell'accertamento dell'inottemperanza, la
mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque
essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di
acquisizione (in tal senso, ex multis: TAR Brescia n. 724/2021; TAR Napoli
5028/2021).
Orbene, nella fattispecie in esame, il verbale da cui risulta
l’inottemperanza è stato espressamente richiamato dalla nota gravata, dunque
deve ritenersi soddisfatto l’onere di motivazione. Inoltre, detta nota, come
visto, non costituisce il provvedimento conclusivo di un autonomo
procedimento amministrativo, ma riveste mera natura dichiarativa pertanto
nessuna comunicazione di avvio del procedimento doveva essere effettuata
all’autore dell’abuso (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 27.06.2022 n. 2108 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In relazione alla prova dell’epoca in cui è stato realizzato
l’abuso, la giurisprudenza ha affermato che: “L’onere della prova in ordine
alla risalenza e alle consistenze edilizie contestate dall'amministrazione
(…) per essere ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto (…)
che ha richiesto la sanatoria”.
“Lo stesso (onere) può essere invertito e spostato in capo
all'amministrazione solo in presenza di produzione da parte del privato di
"concreti elementi" idonei a far luogo all'inversione”.
E’ stato ulteriormente precisato che “Non concorre a tale prova la
dichiarazione resa dal dante causa in seno all’atto pubblico in ordine alla
regolarità del fabbricato giacché, com’è noto, la valenza fidefaciente ex
art. 2700 c.c. non si estende al contenuto intrinseco di tale affermazione
che possono anche non essere veritiere”.
---------------
3. Con il primo motivo, la sig.ra -OMISSIS- ha sostenuto che il
Dirigente avrebbe erroneamente valutato l’epoca di costruzione del
manufatto.
La censura non coglie nel segno.
Invero, in relazione alla prova dell’epoca in cui è stato realizzato
l’abuso, la giurisprudenza ha affermato che: “L’onere della prova in ordine
alla risalenza e alle consistenze edilizie contestate dall'amministrazione
(…) per essere ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto (…)
che ha richiesto la sanatoria” (cfr. Cons. Stato, IV, 08.01.2013, n. 39,
17.09.2012, n. 4924; Tar Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n.
1122).
“Lo stesso (onere) può essere invertito e spostato in capo
all'amministrazione solo in presenza di produzione da parte del privato di
"concreti elementi" idonei a far luogo all'inversione (sempre ex plurimus,
Cons. Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; V, 09.11.2009, n. 6984; Tar
Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n. 1122; 06.11.2013, n. 4904; II, 30.04.2013, n. 2242;
04.12.2013, n. 5487, VII, 08.02.2013,
n. 828; Tar Liguria, Genova, I, 04.12.2012, n. 1565)” (TAR Sicilia,
Palermo, Sez. II, 24.01.2019, -OMISSIS-).
E’ stato ulteriormente precisato che “Non concorre a tale prova la
dichiarazione resa dal dante causa in seno all’atto pubblico in ordine alla
regolarità del fabbricato giacché, com’è noto, la valenza fidefaciente ex
art. 2700 c.c. non si estende al contenuto intrinseco di tale affermazione
che possono anche non essere veritiere (Cass. Civ., n. 20214/2019)” (TAR
Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.06.2021, -OMISSIS-).
Orbene, nella fattispecie in esame, l’istante si è limitato ad asserire che
l’immobile in esame è stato costruito “in epoca antecedente al 1967”,
ma non ha versato in atti nessun documento utile a suffragare detta
asserzione. non ha allegato tutta la documentazione necessaria (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 27.06.2022 n. 2107 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In considerazione della natura vincolata degli atti repressivi
degli abusi edilizi, non sussiste in capo all'Amministrazione un dovere di
valutazione dell'interesse pubblico alla demolizione, valutazione da
intendersi già compiuta a monte dal legislatore.
---------------
4. Neppure è condivisibile la censura con cui la -OMISSIS- ha dedotto
l’omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla
demolizione.
Secondo orientamento giurisprudenziale pacifico, dal quale non sussistono
ragioni per discostarsi: “In considerazione della natura vincolata degli
atti repressivi degli abusi edilizi, non sussiste in capo
all'Amministrazione un dovere di valutazione dell'interesse pubblico alla
demolizione, valutazione da intendersi già compiuta a monte dal legislatore”
(ex plurimis, da ultimo C. di St. n. 311/2022) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 27.06.2022 n. 2107 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L'omessa
notifica degli atti sanzionatori in materia edilizia a
tutti i comproprietari, lungi dal costituirne un vizio di legittimità,
determina solo l'inefficacia del provvedimento limitatamente ai soggetti, in
ipotesi, comproprietari per i quali è mancata la notifica, i quali potranno
impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni
entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione.
In applicazione di detto principio, il Giudice di seconde cure ha ritenuto che "per pacifica
giurisprudenza, affinché un bene immobile abusivo possa formare
legittimamente oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato
notificato a tutti i proprietari, al pari anche del provvedimento
acquisitivo,
- ciò perché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di
difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità
fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio
comunale all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione da parte dei
proprietari che di quest'ultima non abbiano ricevuto regolare notifica,
- e
perché, con la sanzione dell'acquisizione, si viene a pregiudicare
definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni
confiscati (cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata
dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a
contenuto sanzionatorio, deve essere notificato al proprietario inciso e, se
i proprietari siano più di uno, esso deve essere notificato a tutti, atteso
che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota".
---------------
Il primo motivo è fondato e va accolto poiché questo
Tribunale «ha avuto modo di chiarire (cfr. TAR Catania, I, 08.04.2021, n.
1083) che “l'omessa notifica degli atti sanzionatori in materia edilizia a
tutti i comproprietari, lungi dal costituirne un vizio di legittimità,
determina solo l'inefficacia del provvedimento limitatamente ai soggetti, in
ipotesi, comproprietari per i quali è mancata la notifica, i quali potranno
impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni
entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione" (Cons.
St., sez. VI, 04.05.2020 n. 2813; TAR Campania, Napoli, sez. II, 08.06.2011 n. 2992)".
In applicazione di detto principio, il Giudice di seconde cure (cfr. Cons.
Stato, II, 13.11.2020, n. 7008) ha ritenuto che "per pacifica
giurisprudenza, affinché un bene immobile abusivo possa formare
legittimamente oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato
notificato a tutti i proprietari, al pari anche del provvedimento
acquisitivo, ciò perché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di
difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità
fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio
comunale all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione da parte dei
proprietari che di quest'ultima non abbiano ricevuto regolare notifica, e
perché, con la sanzione dell'acquisizione, si viene a pregiudicare
definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni
confiscati (cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata
dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a
contenuto sanzionatorio, deve essere notificato al proprietario inciso e, se
i proprietari siano più di uno, esso deve essere notificato a tutti, atteso
che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota (cfr., ex multis,
Cons. giust. amm. sic., 27.06.2016, n. 642, e diffusissima
giurisprudenza di primo grado)"» (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 16.09.2021, n. 2762. In termini cfr. TAR Campania, Napoli,
03.01.2022, n. 6; TAR Lazio, Roma, sez. II, 01.09.2018, n. 9116; TAR
Sicilia, Palermo, sez. II, 06.06.2018, n. 1284; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
08.11.2017, n. 5245) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 27.06.2022 n. 1718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
l'oblazione non è stata interamente versata nei termini perentori, le
costruzioni abusivamente realizzate sono assoggettate alla sanzione della
demolizione e ciò in coerenza con la natura del condono.
Infatti, è possibile ottenere una deroga al rispetto delle norme di
disciplina dell'assetto del territorio esclusivamente nel caso in cui, entro
un arco temporale definito, si realizzano tutte le condizioni rigorosamente
prescritte dal legislatore.
Se si consentisse, in assenza di una norma specifica di autorizzazione, la
dilazione del pagamento si violerebbero i valori sottesi alla programmazione
del territorio senza ottenere nell'immediato quelle risorse finanziarie che
legittimano temporaneamente la deroga al rispetto di norme imperative
---------------
4. Con una prima doglianza il ricorrente ritiene illegittimo il
provvedimento gravato nella parte in cui viene contestata la mancata
trasmissione delle ricevute di pagamento delle quattro rate dell’oblazione
relativa all’istanza di condono presentata ex art. 39 della legge 724/94.
4.1. La censura è infondata avendo lo stesso ricorrente ammesso di non aver
versato il saldo, pur ritenendo, erroneamente, che tale mancanza non sarebbe
idonea a pregiudicare il rilascio della concessione edilizia in sanatoria.
In proposito, la giurisprudenza è granitica nell’affermare che: “Se
l'oblazione non è stata interamente versata nei termini perentori, le
costruzioni abusivamente realizzate sono assoggettate alla sanzione della
demolizione e ciò in coerenza con la natura del condono; infatti, è
possibile ottenere una deroga al rispetto delle norme di disciplina
dell'assetto del territorio esclusivamente nel caso in cui, entro un arco
temporale definito, si realizzano tutte le condizioni rigorosamente
prescritte dal legislatore. Se si consentisse, in assenza di una norma
specifica di autorizzazione, la dilazione del pagamento si violerebbero i
valori sottesi alla programmazione del territorio senza ottenere
nell'immediato quelle risorse finanziarie che legittimano temporaneamente la
deroga al rispetto di norme imperative” (cfr. TAR Palermo, sez. II,
24.04.2014, n. 1083 e Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2013, n. 894)
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 22.06.2022 n. 1654 - link a
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maggio 2022 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
un bene immobile abusivo possa legittimamente essere
oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che
il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i
comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di
partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi
dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza
di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione
dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già
titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato
e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui
necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio,
deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una
spoliazione solo pro quota.
...
Nel caso di specie, di tale
notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto
prova. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad
essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata
giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di
personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche
introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo
attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria
personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono
di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto
consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
---------------
Con ricorso notificato il 19.07.2021 e tempestivamente depositato, i
ricorrenti, comproprietari del fondo sito presso il Comune di Ariccia, via
... n. 2/F, (fg 19, part. 343), hanno impugnato la determina comunale n. 472
del 2021, con la quale è stata disposta l’acquisizione al patrimonio
comunale del bene, a causa della inottemperanza all’ordine di demolizione n.
150 del 10.07.2015.
Quest’ultimo, a sua volta, era stato emesso a seguito di annullamento, da
parte del Comune, del permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2013, e
notificato al condominio di via ... n. 2F.
In seguito, con verbale del 03.05.2021, il Comune ha accertato
l’inottemperanza, e adottato, a causa di ciò, l’atto oggetto di ricorso.
Con un unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art.
31 del T.U. dell’edilizia e dell’art. 15 della legge regionale n. 15 del
2008, perché l’acquisizione al patrimonio pubblico del bene non è stata
preceduta da notifica ai comproprietari dell’ordine di demolizione.
In via preliminare, e superando l’eccezione di inammissibilità avanzata
dalla difesa comunale, va rimarcato che l’atto impugnato non si limita a dar
conto della inottemperanza all’ordine di demolizione, ma dispone
l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Esso è perciò senza
dubbio lesivo, con riferimento ad eventuali vizi suoi propri.
Inoltre, lo stesso Comune ammette di avere notificato l’ordine di
demolizione al solo amministratore del condominio.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito, in linea generale, che perché un
bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore
sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai
sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di
demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del
provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di
partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi
dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza
di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione
dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già
titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato
e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui
necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio,
deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una
spoliazione solo pro quota (da ultimo, Tar Napoli, n. 4616 del 2021).
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari,
il Comune non ha offerto prova, come si è visto. Si tratta, perciò, di
valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al
condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata
giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di
personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II,
05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche
introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo
attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria
personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono
di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto
consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse (Tar Napoli, n. 3005 del 2020;
Tar Milano, n. 1764 del 2019).
Né rileva in senso contrario la sentenza n. 4303 del 2011 di questo
Tribunale, che si limita a riconoscere all’amministratore la legittimazione
ad impugnare atti repressivi in ordine ad abusi commessi sulle parti comuni
dell’edificio, e non vale, perciò, a superare la necessità della notifica ad
ogni condomino dell’ordine di demolizione, nel caso in cui si intenda
dichiarare l’effetto ablativo della proprietà.
Infine, non è conferente l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990
richiamato dalla difesa comunale, atteso che non si è in presenza di un
vizio formale del procedimento, ma della carenza del presupposto stesso
perché possa operare la sanzione della acquisizione gratuita.
Di conseguenza, l’atto impugnato va annullato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 18.05.2022 n. 6276 - link a
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marzo 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi – Mancanza di una casa – Scriminante dello stato di necessità
– Inconfigurabilità – Ragioni.
In materia di abusi edilizi e ambientali la
configurabilità della scriminante dello stato di necessità, nella specie
consistente nella mancanza di una casa, appare in concreto esclusa dal fatto
che il pericolo del danno grave alla persona è evitabile chiedendo, in caso
di terreno edificabile, la relativa autorizzazione mentre, in caso di
terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di
un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla
tutela del paesaggio e dell'ambiente.
In materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello
stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla
persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in
ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo.
---------------
Si impugna l’ingiunzione di demolizione con ripristino dello stato dei
luoghi n. 2/2020, assunta al prot. n. 14569 del 09.03.2020, notificata in
data 08.07.2020, emessa dal Comune di Nocera Inferiore in relazione ad opere
edilizie realizzate in assenza del titolo abilitativo consistenti “nella
realizzazione di un manufatto edilizio a piano terra, su base di
calcestruzzo già accertata precedentemente, esso è realizzato con muratura
perimetrale e copertura con pannelli coibentati su struttura inteialata in
acciaio scatolare e pilastrini ancorati su piastra in ferro e bullonata alla
piastra in calcestruzzo.
Lo spazio interno è stato suddiviso con tramezzature ricavando due wc; due
camere da letto e soggiorno cucina.
La struttura edilizia era adibita, con le seguenti dimensioni di ml. 11.09 +
0x8.10= mq. 96.39 con altezza alla gronda di ml. 3.10 e al colmo di ml. 3.38
con una volumetria di mc. 312.30.
Le opere insistono sulle particelle di terreno nn. 920, 021, 1733 del foglio
n. 12”.
Si deduce in fatto che:
- nel 2012 alla ricorrente fu intimato sfratto per finita locazione
dal proprietario dell’abitazione sita in Via ... n. ... di Nocera Inferiore,
ove viveva con la madre invalida e con lo zio, fratello della madre,
anch’egli invalido;
- ella ritenne allora di sistemare un’abitazione a carattere
precario su parte di un terreno di sua proprietà e provvide a porre la base
di calcestruzzo;
- a seguito di denuncia per la realizzazione abusiva della
piattaforma, venne instaurato a suo carico un processo penale, attualmente
pendente presso la Corte di Appello di Salerno;
- subito dopo la realizzazione della suddetta piattaforma, dovendo
rilasciare l’immobile locato, ella realizzò anche le opere di cui
all’ingiunzione in questa sede gravata.
A fondamento del ricorso vengono formulati i seguenti motivi:
- si deduce come la costruzione risalga a subito dopo
l’accertamento della piattaforma (ottobre–dicembre 2012) e consista in “una
struttura inteialata in acciaio scatolare e pilastri ancorati su piastre in
ferro e bullonata alla piattaforma di calcestruzzo”, priva quindi delle
caratteristiche necessarie per qualificarla come “costruzione” in
senso urbanistico e dunque non bisognosa di alcuna autorizzazione
amministrativa;
- si invoca l’esimente dello stato di necessità, consistente nella
mancanza di un idoneo alloggio;
- si contesta la genericità del riferimento al vincolo
idrogeologico contenuto nell’atto impugnato, mancante di qualsiasi
indicazione della fonte legislativa.
...
Il ricorso non può trovare accoglimento.
...
Quanto all’invocata esimente dello stato di necessità, possono agevolmente
richiamarsi i principi da tempo affermati in merito dalla giurisprudenza
della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui: “in materia di abusi
edilizi e ambientali la configurabilità della scriminante dello stato di
necessità, nella specie consistente nella mancanza di una casa, appare in
concreto esclusa dal fatto che il pericolo del danno grave alla persona è
evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, la relativa
autorizzazione mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del
cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della
collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Sez. 3, n. 41577 del
20/09/2007, Ferraioli, Rv. 238258); in materia di abusivismo edilizio, non è
configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo
ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al
diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità
del pericolo (Sez. 3, n. 35919 del 26/06/2008, Savoni, Rv. 241094)”
(Cass. Pen., Sez. III, Sent. 26.09.2016 n. 39790).
La domanda di annullamento è pertanto respinta (TAR Campania-Salerno, Sez.
II,
sentenza 14.03.2022 n. 711 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e dell’area sulla
quale essi insistono costituisce un effetto automatico della mancata
ottemperanza all'ordinanza che ingiunge la demolizione; tale effetto non
opera soltanto nei casi in cui il destinatario dell’ordine di demolizione si
sia diligentemente e seriamente adoperato per la demolizione delle opere
abusive e ciò non sia stato possibile per cause oggettive, non dipendenti
dalla sua volontà.
D’altra parte, i procedimenti repressivi in materia edilizia, che culminano
con l'atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale,
devono seguire un preciso iter procedimentale, scandito dalla legge, in modo
che il privato possa adempiere spontaneamente e correttamente al
provvedimento demolitorio ed evitare l'estrema conseguenza della perdita
della proprietà.
Tale scansione procedimentale prevede:
- l’adozione del provvedimento di
demolizione, con il quale viene assegnato il termine di novanta giorni per
adempiere spontaneamente al ripristino dei luoghi ed evitare le ulteriori
conseguenze pregiudizievoli;
- l'accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione, tramite la redazione di apposito verbale;
- l’adozione di un
ulteriore provvedimento amministrativo che -fatto proprio l'esito del
verbale di constatazione dell’inadempienza- accerti in via definitiva
l’acquisizione al patrimonio comunale, venendo così a costituire titolo per
l'immissione in possesso e per la trascrizione dell'acquisto della proprietà
in capo al Comune.
Quest’ultimo atto, infine, deve individuare in modo puntuale il bene oggetto
di acquisizione e la relativa area di sedime, nonché l'eventuale area
ulteriore necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, purché contenuta entro i
limiti del decuplo della superficie abusiva.
---------------
E' illegittima la
determinazione dell'area acquisita al patrimonio comunale, giusta
l'accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione, laddove non ha
indicato in base a quali parametri urbanistici (secondo i criteri dettati
dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001) sia stata calcolata l’area di
360 mq da acquisire gratuitamente al patrimonio dell’Ente, ma si è limitata
a rappresentarla nella planimetria allegata all’ordinanza stessa.
---------------
... per l'annullamento
dell'ordinanza del 25.03.2021, n. 26, ricevuta il 02.04.2021, recante
l'accertamento dell'inottemperanza dell'ordinanza del 12.08.2020, n. 67,
l'ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria e la determinazione
dell'area acquisita al patrimonio comunale, oltre che, per quanto occorrer
possa, della deliberazione (ignota) G.M. n. 134/2016.
Come già accennato nel paragrafo che precede, l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e dell’area sulla
quale essi insistono costituisce un effetto automatico della mancata
ottemperanza all'ordinanza che ingiunge la demolizione; tale effetto non
opera soltanto nei casi in cui il destinatario dell’ordine di demolizione si
sia diligentemente e seriamente adoperato per la demolizione delle opere
abusive e ciò non sia stato possibile per cause oggettive, non dipendenti
dalla sua volontà (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 13.10.2021, n. 6888; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 18.01.2021, n. 381;
TAR Toscana, sez. III, 29.06.2020, n. 827).
D’altra parte, i procedimenti repressivi in materia edilizia, che culminano
con l'atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale,
devono seguire un preciso iter procedimentale, scandito dalla legge, in modo
che il privato possa adempiere spontaneamente e correttamente al
provvedimento demolitorio ed evitare l'estrema conseguenza della perdita
della proprietà.
Tale scansione procedimentale prevede l’adozione del provvedimento di
demolizione, con il quale viene assegnato il termine di novanta giorni per
adempiere spontaneamente al ripristino dei luoghi ed evitare le ulteriori
conseguenze pregiudizievoli; l'accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione, tramite la redazione di apposito verbale; l’adozione di un
ulteriore provvedimento amministrativo che -fatto proprio l'esito del
verbale di constatazione dell’inadempienza- accerti in via definitiva
l’acquisizione al patrimonio comunale, venendo così a costituire titolo per
l'immissione in possesso e per la trascrizione dell'acquisto della proprietà
in capo al Comune.
Quest’ultimo atto, infine, deve individuare in modo puntuale il bene oggetto
di acquisizione e la relativa area di sedime, nonché l'eventuale area
ulteriore necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, purché contenuta entro i
limiti del decuplo della superficie abusiva (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 01.09.2021, n. 6190).
Ebbene, nel caso di specie i descritti passaggi procedurali sono stati
rispettati, posto che il Comune ha adottato l’ordinanza di demolizione, ha
atteso il decorso del termine ivi previsto per darvi esecuzione, ha
accertato con apposito verbale l’inottemperanza all’ordine impartito e ha,
infine, dato atto dell’intervenuta acquisizione dell’area al proprio
patrimonio, irrogando anche la sanzione pecuniaria prevista dalla legge.
Il provvedimento impugnato, tuttavia, non ha indicato in base a quali
parametri urbanistici sia stata calcolata l’area di 360 mq da acquisire
gratuitamente al patrimonio dell’Ente, ma si è limitato a rappresentarla
nella planimetria allegata all’ordinanza stessa, rivelandosi perciò
illegittimo in parte qua.
6. In conclusione, il ricorso può dirsi fondato con esclusivo riguardo al
profilo di censura da ultimo evidenziato, ed entro tali limiti lo stesso
deve essere accolto; per l’effetto, il provvedimento va annullato nella sola
parte in cui ha identificato l’area oggetto di acquisizione, senza indicare
il modo in cui si è pervenuti al calcolo della sua estensione, secondo i
criteri dettati dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 e dall’art.
196, comma 3, della L.R.T. n. 65/2014 (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.03.2022 n. 304 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: -
secondo la consolidata giurisprudenza, a fronte di immobili sforniti di
titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e vincolato e non
necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti
di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi;
---------------
- va ricordato che i procedimenti
repressivi in materia edilizia, culminanti con l’atto di acquisizione della
proprietà privata al patrimonio comunale, devono seguire una corretta
scansione procedimentale, che consenta al privato di adempiere al
provvedimento demolitorio al fine di evitare l’estrema conseguenza della
perdita della proprietà;
- tale scansione procedimentale è costituita:
i) dal provvedimento di demolizione, con cui
viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente
alla demolizione ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli;
ii) dall’accertamento della inottemperanza alla
demolizione tramite un verbale che accerti la mancata demolizione;
iii) dall’atto di acquisizione al patrimonio
comunale che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la
trascrizione dell’acquisto della proprietà in capo al Comune;
- la mancata esatta identificazione dell’area che viene acquisita
ai sensi dell’art. art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 non
costituisce ragione di illegittimità dell’ingiunzione a demolire, in quanto
tale individuazione ben potrà essere compiuta con atti successivi, “a
valle”, aventi natura meramente dichiarativa e ricognitiva;
- in sede di accertamento dell’inottemperanza, mentre per l’area di
sedime, stante l’automatismo dell’effetto acquisitivo che si verifica ope
legis per effetto della mera inottemperanza all’ordine di demolizione, è
superflua ogni motivazione ulteriore rispetto alla semplice identificazione
dell’abuso, per l’individuazione dell’ulteriore area «necessaria» occorre
uno specifico supplemento motivazionale;
---------------
Considerato in diritto che:
- la richiesta di ulteriore differimento formulata dagli appellanti
non può accolta, in quanto «il rinvio della trattazione della causa è
disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di
udienza» (art. 73, comma 1-bis, del c.p.a.), ed il Collegio dopo avere
sollecitato le opportune verifiche dell’Amministrazione comunale ‒cui solo
spetta di definire le misure di accoglienza dei destinatari di un
provvedimento demolitorio versanti in condizione di disagio sociale‒ è
tenuto a definire il giudizio;
- nel merito, la sentenza di primo grado deve essere interamente
confermata;
- non sussiste il censurato vizio di difetto di motivazione;
- secondo la consolidata giurisprudenza, a fronte di immobili
sforniti di titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e
vincolato e non necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione
dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi
edilizi;
- nella specie, l’atto impugnato:
i) identifica l’immobile tramite i riferimenti
catastali (via ... n. 12, foglio 9, particelle 339-729);
ii) contiene una dettagliata descrizione delle
opere abusivamente realizzate, e segnatamente: un fabbricato su due livelli
per una volumetria totale di mc 816,00, composta da un piano seminterrato di
mq 136 pari a mc 408, e da un piano rialzato mq 136 pari a mc 408 (cui si
aggiungono le ulteriori opere abusive di ampliamento, pavimentazione,
sistema di raccolta delle acque e recinzione);
iii) precisa il fondamento normativo: misura
ripristinatoria prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2011 per le
opere eseguite «in assenza di permesso di costruire»;
- il difetto di motivazione non può essere invocato neppure con
riferimento all’individuazione del bene e dell’area di sedime da acquisire
al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione,
per le seguenti ulteriori ragioni;
- va ricordato che i procedimenti repressivi in materia edilizia,
culminanti con l’atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio
comunale, devono seguire una corretta scansione procedimentale, che consenta
al privato di adempiere al provvedimento demolitorio al fine di evitare
l’estrema conseguenza della perdita della proprietà;
- tale scansione procedimentale è costituita:
i) dal provvedimento di demolizione, con cui
viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente
alla demolizione ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli;
ii) dall’accertamento della inottemperanza alla
demolizione tramite un verbale che accerti la mancata demolizione;
iii) dall’atto di acquisizione al patrimonio
comunale che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la
trascrizione dell’acquisto della proprietà in capo al Comune;
- la mancata esatta identificazione dell’area che viene acquisita
ai sensi dell’art. art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 non
costituisce ragione di illegittimità dell’ingiunzione a demolire, in quanto
tale individuazione ben potrà essere compiuta con atti successivi, “a
valle”, aventi natura meramente dichiarativa e ricognitiva;
- in sede di accertamento dell’inottemperanza, mentre per l’area di
sedime, stante l’automatismo dell’effetto acquisitivo che si verifica ope
legis per effetto della mera inottemperanza all’ordine di demolizione, è
superflua ogni motivazione ulteriore rispetto alla semplice identificazione
dell’abuso, per l’individuazione dell’ulteriore area «necessaria»
occorre uno specifico supplemento motivazionale (cfr., ex plurimis,
Consiglio di Stato, sez. VI, 01.09.2021, n. 6190);
- sotto altro profilo, il provvedimento impugnato indica l’Autorità
(il «Tribunale Amministrativo Regionale») cui poter proporre il
ricorso entro sessanta giorni della notificazione, anche se va ricordato che
l’eventuale omessa indicazione non avrebbe costituito un motivo di
illegittimità, bensì soltanto una irregolarità comportante un differimento
del termine per impugnare (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.03.2022 n. 1512 - link a
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febbraio 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione di un
immobile abusivamente costruito – Diritto all’abitazione e
rispetto della vita privata e familiare – Principio di
proporzionalità – Criteri di interpretazione –
Giurisprudenza costituzionale, di legittimità e CEDU –
Elementi di valutazione – Fattispecie.
Secondo la giurisprudenza delle Sezioni
Unite, i principi contenuti nella Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, come definiti nella giurisprudenza consolidata
della Corte EDU, pur non traducendosi in norme direttamente
applicabili nell’ordinamento nazionale, costituiscono
criteri di interpretazione –convenzionalmente orientata– ai
quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi
nell’applicazione delle norme interne.
Va poi rilevato che, in forza del convergente insegnamento
della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, i
principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte EDU
debbono essere ritenuti vincolanti solo quando questa
risulta consolidata, nei sensi precisati dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 49 del 2015.
Gli elementi rilevanti ai fini della valutazione del
rispetto del principio di proporzionalità sono,
principalmente: la legalità o l’illegalità
dell’edificazione; la consapevolezza della illegalità da
parte degli interessati al momento dell’edificazione; la
natura ed il grado dell’illegalità; la specifica natura
degli interessi protetti dall’ordine di demolizione; la
possibilità di accettabili sistemazioni alternative per i
destinatari dell’ordine di demolizione; la possibilità di
soluzioni meno gravose.
Nella specie, l’esecuzione dell’ordine di demolizione
dell’appartamento adibito a proprio domicilio non ha
determinato la violazione del diritto di cui all’art. 8
della CEDU.
In particolare, la Corte EDU valorizza la consapevolezza
dell’illegalità della edificazione al momento del compimento
di tale attività, e, quindi, l’atteggiamento di cosciente
sfida ai divieti normativi, nonché la concessione di
adeguati periodi di tempo per consentire all’interessato di
“legalizzare”, se possibile, la situazione, e di trovare una
soluzione alle proprie esigenze abitative, e indica
espressamente tali circostanze come prevalenti sulle
condizioni di età avanzata, povertà e basso reddito del
ricorrente.
...
Ordine di demolizione –
Applicabilità e limiti del principio di proporzionalità –
Giurisprudenza della Corte EDU – Art. 8 CEDU.
Secondo la giurisprudenza della Corte
EDU, il principio di proporzionalità nell’applicazione
dell’ordine di demolizione di un immobile illegalmente
edificato, adottato da una pubblica autorità al fine di
contrastare la realizzazione di opere senza permesso di
costruire, opera esclusivamente in relazione all’immobile
destinato ad abituale abitazione di una persona, ed implica,
principalmente, garanzie di tipo “procedurale”.
Ai fini della valutazione del rispetto del principio di
proporzionalità, la Corte EDU ha infatti valorizzato
essenzialmente: la possibilità di far valere le proprie
ragioni davanti ad un tribunale indipendente; la
disponibilità di un tempo sufficiente per “legalizzare” la
situazione, se giuridicamente possibile, o per trovare
un’altra soluzione alle proprie esigenze abitative agendo
con diligenza; l’esigenza di evitare l’esecuzione in momenti
in cui verrebbero compromessi altri diritti fondamentali,
come quello dei minori a frequentare la scuola.
Inoltre, ai medesimi fini, un ruolo estremamente rilevante è
stato attribuito alla consapevolezza della illegalità della
costruzione da parte degli interessati al momento
dell’edificazione ed alla natura ed al grado della
illegalità realizzata (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.02.2022 n. 5822 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di accertamento e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale è di carattere rigidamente vincolato, ossia è un atto dovuto senza
alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all’accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la
demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
Essendo il provvedimento di acquisizione un provvedimento a carattere
strettamente vincolato ciò neutralizza in radice il pericolo di parzialità
del funzionario: ed invero, l'acquisizione al patrimonio, conseguente
all'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere abusive impartito
al contravventore dallo stesso ente comunale si verifica ope legis
all'inutile scadenza del termine fissato per detta ottemperanza e
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale è un atto dovuto senza alcun
contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la
demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
---------------
6. Va quindi esaminato il terzo ricorso per motivi aggiunti, con il
quale l’esponente ha impugnato la determinazione -OMISSIS- del responsabile
dell’Ufficio Tecnico-Servizio Urbanistica del Comune resistente e la nota
-OMISSIS-.
7. Con il primo motivo l’esponente ha dedotto il vizio di
Illegittimità derivata, argomentando che i provvedimenti impugnati risultano
inficiati dai medesimi vizi già dedotti nei confronti del provvedimento di
demolizione n. -OMISSIS-
7.1. Il motivo è infondato posto che in difetto di illegittimità dell’atto
presupposto non è dato dichiarare l’illegittimità (non per vizi propri, ma
derivata) dell’atto conseguenziale.
8. Con il secondo motivo l’esponente ha dedotto il vizio di
Violazione e falsa applicazione dell’art. 6-bis L. 07.08.1990, n. 241 e
dell’art. 8 D.P.R. 16.04.2013, n. 62.
Dopo aver richiamato l’art. 6-bis L. n. 241/1990 e l’art. 8 D.P.R. n.
62/2013 l’esponente ha osservato che sia il responsabile del procedimento
(-OMISSIS-) che il responsabile dell’Area tecnica che ha emesso il
provvedimento di acquisizione impugnato (-OMISSIS-) si trovano in palese
conflitto di interessi, posto che:
- il primo è imputato per abuso d’ufficio ed omissione di atti
d’ufficio nel procedimento penale n. -OMISSIS-R.G.N.R., nel quale il
ricorrente è parte civile costituita, pendente innanzi al Tribunale di Patti
e conosce lo stato di fatto e di diritto dei luoghi, in palese contrasto con
quanto indicato nei provvedimenti impugnati (l’esponente richiama la
relazione -OMISSIS-);
- il secondo è in conflitto di interessi perché come tecnico ha
curato la pratica di sanatoria edilizia n. -OMISSIS-R.G.N.R. (l’esponente
richiama altresì il contenuto del verbale recante affermazioni, per il
deducente, contrarie a quanto indicato nei provvedimenti impugnati).
Dette situazioni, secondo il ricorrente, sono tali da materializzare
l’esistenza di indici sintomatici tipici della situazione di “conflitto
d’interessi”, o almeno da alimentarne il mero sospetto, anch’esso
comunque rilevante ai fini della tenuta del principio di imparzialità
dell’amministrazione.
8.1. Il motivo è infondato.
Il provvedimento di accertamento e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale è di carattere rigidamente vincolato, ossia è un atto dovuto senza
alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all’accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la
demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Puglia, Lecce,
sez. III, 18.06.2020, n. 643).
Essendo il provvedimento di acquisizione un provvedimento a carattere
strettamente vincolato ciò neutralizza in radice il pericolo di parzialità
del funzionario: ed invero, l'acquisizione al patrimonio, conseguente
all'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere abusive impartito
al contravventore dallo stesso ente comunale si verifica ope legis
all'inutile scadenza del termine fissato per detta ottemperanza e
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale è un atto dovuto senza alcun
contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la
demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. I, 09.01.2020, n. 110)
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 31, comma 3, del
dpr 06.06.2001, n. 380, stabilisce che “Se il responsabile
dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di
sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area
acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita”.
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale,
l’Amministrazione comunale non gode di alcuna discrezionalità nell’an
del potere acquisitivo ex art. 31 del dpr 06.06.2001, n. 380, ma nemmeno per quanto concerne il quantum.
Invero, il citato art. 31 del dpr 380/2001 si limita solo a stabilire il tetto massimo dell’area
acquisibile (che non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita), ma ciò non implica che
l’Amministrazione goda di alcun potere discrezionale per “modulare”
la sanzione ed adattarla “secondo canoni di ragionevolezza e
proporzionalità” alle circostanze del caso di specie; si tratta invece
di un’attività vincolata, di natura tecnica, che consiste nella mera
ricognizione della disciplina urbanistica dettata per l’area in questione e
di applicazione dei criteri di calcolo da questa desumibili.
In altri termini, la misura della superficie da acquisire, è già predefinita
dal legislatore per relationem, mediante il riferimento alla
disciplina dell’attività costruttiva dettata dalla normativa e dagli
strumenti urbanistici, per cui all’autorità procedente non resta che fare
applicazione di tali criteri nel caso concreto, indicando nelle “premesse
motivazionali” del “provvedimento” di acquisizione gli elementi
di fatto, le basi di calcolo ed i criteri di computo utilizzati.
In tale prospettiva la giurisprudenza in materia ha costantemente ribadito
che l’Amministrazione procedente è tenuta ad indicare puntualmente,
nell’atto di acquisizione, la classificazione urbanistica ed il relativo
regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base
agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente
applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione
-laddove dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del
decuplo dell’area di sedime.
È stato così chiarito che la circostanza che il legislatore non abbia
predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere
che tale area “non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita”, si giustifica per
il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto
all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime: in altri
termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area
acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la
circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale
area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita)
può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al
fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio
comunale.
Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che
l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione
le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad
indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta
l'acquisizione.
---------------
9.
Con il terzo motivo l’esponente ha dedotto i vizi di Violazione e
falsa applicazione dell’art. 31, comma 3, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e degli
artt. 3 e 6 L.R. 30.04.1991, n. 10. Eccesso di potere per difetto di
adeguata istruttoria e di motivazione.
L'attività istruttoria eseguita dall’Amministrazione resistente, osserva
l’esponente, appare sommaria, approssimativa e comunque non idonea alla
corretta individuazione dei beni, tale da inficiare l'intero procedimento
repressivo.
Secondo il ricorrente, l’area interessata da un provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dev’essere esattamente
individuata, specificando la precisa ubicazione e l’esatta estensione.
Nella specie, lamenta il deducente, non è stato correttamente determinato
l’oggetto dell’acquisizione, essendosi il Comune limitato ad indicare
esclusivamente i dati catastali delle aree individuate ed acquisite
gratuitamente al patrimonio; in considerazione della natura dell’opera
(quale descritta nel provvedimento con riferimento all’ordinanza di
demolizione), non è sufficiente la mera indicazione dei dati catastali che
si riferiscono all’intera particella, cosicché detta generale indicazione
finirebbe con il comprendere nell’acquisizione l’intero cespite (in
particolare, il capannone artigianale con carroponte e tettoia esterna per
la lavorazione del marmo occupa solo una parte della -OMISSIS-, mentre con
la determinazione impugnata si provvede ad acquisire l’intero cespite, anche
la parte di capannone costruita giusta licenza edilizia -OMISSIS-).
Inoltre, la previsione normativa circa l’acquisizione dell’area “necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive” (nel limite massimo del decuplo della
complessiva superficie utile abusivamente costruita) postula per
l’Amministrazione comunale l’obbligo di esplicitare le modalità del calcolo
(in relazione ai richiamati parametri urbanistici in astratto applicabili
per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con
cui perviene alla individuazione di tale area ulteriore; in altre parole,
l’amministrazione procedente deve indicare la classificazione urbanistica ed
il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi
sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria,
conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque
l’acquisizione –laddove dovesse risultare una superficie superiore– nel
limite massimo del decuplo dell’area di sedime.
Nella specie, lamenta l’esponente, il Comune resistente ha disposto
l’acquisizione di un’area ulteriore senza fornire alcuna specificazione
delle modalità di calcolo in base al parametro urbanistico indicato dalla
legge; l’esigenza di procedere all’esatta individuazione dell’area privata
da acquisire gratuitamente al patrimonio pubblico è dettata dal fatto che,
trattandosi di una misura sanzionatoria che incide sul diritto di proprietà
ovvero su un diritto costituzionalmente garantito, è necessario il rispetto
delle garanzie anche formali dettate da norme di relazione che regolano i
rapporti tra il potere pubblico ed i diritti di cui sono titolari i soggetti
privati.
La parte ricorrente ha altresì lamentato che non essendo stato svolto alcun
sopralluogo, non si è potuto rilevare che anche per l’altra parte di opera
insistente sulla -OMISSIS- (quella oggetto dell’istanza di condono
-OMISSIS-) nulla osta alla concessione della sanatoria, atteso che essa
insiste su terreno privato acquistato giusto decreto prefettizio
-OMISSIS-OMISSIS-, su cui non vi è alcuna contestazione di presunta
appartenenza demaniale, non trovandosi esso a distanza inferiore a 10 ml.
dal torrente; l’opera, inoltre, non è in contrasto con alcun rilevante
interesse ambientale e, essendo stata costruita nel -OMISSIS-, non
necessitava del parere della soprintendenza (v. nota -OMISSIS-).
La determinazione impugnata è illegittima, argomenta l’esponente, poiché è
stata disposta l’acquisizione, oltre che dell'opera abusiva e della relativa
area di sedime, anche della restante parte della -OMISSIS-, senza alcuna
indicazione della sua necessità, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, al fine della realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive.
Lamenta inoltre il deducente che non potrebbe operarsi la trascrizione nei
registri immobiliari del trasferimento di proprietà di un bene in virtù di
un titolo privo dell’esatta individuazione del bene stesso.
Per il ricorrente non sussistono ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza di condono relativamente alle opere presenti sulle parti
-OMISSIS-, di proprietà incontestata del ricorrente, le quali si trovano
oltre il limite dei 10 ml. dal torrente; inoltre, la determinazione
impugnata muove dall’erroneo presupposto che le -OMISSIS- siano di proprietà
demaniale, mentre agli atti sono presenti i titoli di acquisto con i quali
l’esponente ha provato di essere proprietario di tutta l’area (l’esponente
richiama anche la deposizione del responsabile della ditta incaricata dal
Genio civile all’udienza del -OMISSIS-9 R.G.N.R.); inoltre l’U.T.C. non ha
mai fatto alcun accertamento sull’area di che trattasi (lo stesso Ing.
-OMISSIS- ha dichiarato che, per verificare l’appartenenza demaniale delle
-OMISSIS-, si è limitato a visionare le sole risultanze catastali: cfr.
verbale udienza -OMISSIS- R.G.N.R.).
Per quanto concerne le opere che materialmente insistono nei 10 ml. dal
torrente, il ricorrente rileva che neppure questo dato avrebbe potuto ostare
all’accoglimento del condono; lo stesso U.T.C. (che ha poi adottato
l’ordinanza di diniego del condono e di demolizione) aveva rilasciato
specifico certificato di nulla osta ai vincoli dell’art. 23 L.R. n. 37/1985,
mai contestato né revocato.
Aggiunge il ricorrente che quello che nelle ordinanze viene definito “capannone”
e che insiste sulla -OMISSIS- è, in realtà, solo una tettoia, per cui non
rientra nelle opere di cui al citato vincolo (trattandosi di opera aperta,
la demolizione dovrebbe, pertanto, ridursi alla mera eliminazione della
tettoia).
Inoltre, i termini del procedimento repressivo erano stati espressamente
sospesi dal Comune resistente (nota -OMISSIS-) in attesa della consegna al
ricorrente dei documenti necessari allo svolgimento di adeguate difese; con
il provvedimento impugnato, invece, l’acquisizione è stata poi disposta “a
sorpresa”, ossia a termini sospesi, quindi in pendenza dell’assegnato
termine di venti giorni per il deposito di memorie scritte e documenti.
Infine, lamenta il ricorrente, il provvedimento di acquisizione non è mai
stato preceduto dal necessario sopralluogo; stante la particolare
situazione, un sopralluogo finalizzato all’accertamento delle opere
effettivamente abusive, in contraddittorio, era, invece, indispensabile e
sarebbe servito anche (e soprattutto) ad appurare l’avvio delle attività di
demolizione.
9.1. Il motivo è parzialmente fondato nei termini in appresso specificati.
9.1.1. Sono inammissibili tutte le censure articolate dalla parte ricorrente
rivolte nei confronti del provvedimento avversato con il terzo ricorso per
motivi aggiunti ma tendenti ad infirmare, nella sostanza, i provvedimenti di
diniego di sanatoria e di demolizione (ed in particolare le doglianze che
riguardano la proprietà dell’area, il rispetto del vincolo fluviale, la
natura degli abusi).
9.1.2. La questione della sospensione dei termini del procedimento (nota
-OMISSIS-) è infondatamente richiamata dalla parte ricorrente, in quanto
concernente un diverso procedimento (cfr. nota prot. n. -OMISSIS-).
9.1.3. L’art. 31, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, oggetto di recepimento dinamico ex art. 1 della legge
reg. Sic. 10.08.2016, n. 16, stabilisce che “Se il responsabile
dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di
sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area
acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita”.
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR Lazio, Roma, sez.
II-quater, 02.03.2020, n. 2666 ed ivi precedenti giurisprudenziali),
l’Amministrazione comunale non gode di alcuna discrezionalità nell’an
del potere acquisitivo ex art. 31 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, ma nemmeno per quanto concerne il quantum.
Invero, il citato art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 si limita solo a stabilire il tetto massimo dell’area
acquisibile (che non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita), ma ciò non implica che
l’Amministrazione goda di alcun potere discrezionale per “modulare”
la sanzione ed adattarla “secondo canoni di ragionevolezza e
proporzionalità” alle circostanze del caso di specie; si tratta invece
di un’attività vincolata, di natura tecnica, che consiste nella mera
ricognizione della disciplina urbanistica dettata per l’area in questione e
di applicazione dei criteri di calcolo da questa desumibili.
In altri termini, la misura della superficie da acquisire, è già predefinita
dal legislatore per relationem, mediante il riferimento alla
disciplina dell’attività costruttiva dettata dalla normativa e dagli
strumenti urbanistici, per cui all’autorità procedente non resta che fare
applicazione di tali criteri nel caso concreto, indicando nelle “premesse
motivazionali” del “provvedimento” di acquisizione gli elementi
di fatto, le basi di calcolo ed i criteri di computo utilizzati.
In tale prospettiva la giurisprudenza in materia ha costantemente ribadito
che l’Amministrazione procedente è tenuta ad indicare puntualmente,
nell’atto di acquisizione, la classificazione urbanistica ed il relativo
regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base
agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente
applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione
-laddove dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del
decuplo dell’area di sedime.
È stato così chiarito che la circostanza che il legislatore non abbia
predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere
che tale area “non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita”, si giustifica per
il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto
all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime: in altri
termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area
acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la
circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale
area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita)
può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al
fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio
comunale.
Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che
l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione
le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad
indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta
l'acquisizione (cfr. anche TAR Calabria, Reggio Calabria, 24.03.2020, n.
265; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 23.12.2019, n. 2735; TAR Campania,
Napoli, sez. II, 05.07.2019, n. 3760).
Orbene, nel caso in esame era necessario specificare in modo dettagliato e
con maggior precisione la misura dell’acquisizione, anche in considerazione
della natura delle opere in questione e della complessiva situazione
edilizia.
Inoltre, non risultano dal corredo motivazionale dell’avversata
determinazione le ragioni -alla luce di quanto sopra precisato- che rendono
necessario disporre l'ulteriore acquisto.
Sono fatti salvi, ovviamente, gli ulteriori atti di competenza
dell’Amministrazione, da porre in essere nel riesercizio del potere de
quo
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 31, comma 4, del dpr 380/2001, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la
trascrizione nei registri immobiliari è sì costituito dall'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo, ma come
tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza ma
solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della
relativa potestà provvedimentale.
---------------
10.
Con l’ultimo motivo di ricorso l’esponente ha dedotto il vizio di
Violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 4, D.P.R. 06.06.2001, n.
380.
Dopo aver richiamato l’art. 31, comma 4, D.P.R. n. 380/2001 l’esponente ha
evidenziato che la notifica all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza si configura come adempimento successivo, necessario ai
diversi fini dell'immissione in possesso e della trascrizione nei registri
immobiliari.
Evidenzia l’esponente che se è vero che il passaggio della proprietà in
favore dell'amministrazione opera di diritto, la notifica dell'atto di
accertamento dell'inottemperanza alla demolizione costituisce comunque
titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, integrando così un passaggio indefettibile ai fini del
perfezionamento dell'acquisto in favore dell'Amministrazione: nella specie,
la nota -OMISSIS- (con cui “si è accertata nuovamente l’inottemperanza
all’ordinanza n. -OMISSIS-”) non è stata mai notificata al ricorrente,
con conseguente illegittimità dell’acquisizione.
10.1. Il motivo è infondato.
Ai sensi dell'art. 31, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la
trascrizione nei registri immobiliari è sì costituito dall'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo, ma come
tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza ma
solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della
relativa potestà provvedimentale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
02.01.2018, n. 1).
Nel caso in esame, si tratta proprio dell’impugnata determinazione -OMISSIS-
del responsabile dell’Ufficio Tecnico-Servizio Urbanistica del Comune
resistente
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Poteri di vigilanza urbanistico-edilizia – Facoltà di accedere coattivamente
nel domicilio al fine di accertare illeciti amministrativi – Insussistenza –
Art. 14 Cost. – Art. 27 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 13, c. 4, L. n. 689/1981.
Il comune, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha
chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del controinteressato, in quanto luogo di
privata dimora, per potervi svolgere i
necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia.
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito
in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che
l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale
l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie
prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle
previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per
motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza
urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione
dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di
accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di
accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via
interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini
dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori
dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti
disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio,
ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi
edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina
fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4,
esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai
luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a
contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione
finalizzato all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere
esercitato affatto”.
---------------
1. Il sig. Ve.Ra. è proprietario di terreni e fabbricati posti in Poggibonsi,
località ..., censiti al foglio di mappa n. 66, particelle nn. 93, 116, 135,
256, 257, 258, 259, 260, 261.
A confine con detti beni si trova l’immobile di proprietà del fratello, sig.
Ve.Ni., censito con la particella n. 119, del medesimo foglio di mappa n.
66.
Con note del 09.04.2021 e del 16.08.2021, il sig. Ve.Ra., per il tramite del
tecnico incaricato, ha denunciato ex art. 27 d.P.R. 380/2001 l’abusiva
trasformazione di locali di sgombero, termo e lavanderia posti al piano
terreno del confinante edificio di proprietà del controinteressato in locali
di abitazione principale (cucina, camera e bagno), lamentando che la stessa
provocherebbe un incremento del carico urbanistico sull’area e, in
particolare, un maggior transito sulla strada che consente l’accesso ai due
edifici, in comproprietà con il fratello.
2. Con l’odierno gravame i ricorrenti lamentano che il Comune sarebbe
rimasto inerte a fronte di tali denunce, nonostante lo stesso possieda già
una serie di elementi dai quali poter desumere la fondatezza delle
segnalazioni formulate, violando così l’obbligo di attivare i poteri di
vigilanza attribuiti dall’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 e di concludere il
relativo procedimento con un provvedimento espresso entro il termine
generale di 30 giorni.
Essi chiedono che, accertata l’illegittimità del silenzio serbato
dall’amministrazione, la stessa sia condannata ad attivare il procedimento
di vigilanza e a concluderlo entro un termine stabilito dal giudice, con
condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo
nell’adempimento e nomina di un commissario ad acta in caso di
perdurante inerzia.
3. Il Comune di Poggibonsi si è costituito, eccependo preliminarmente
l’inammissibilità del ricorso per mancanza di un concreto pregiudizio a
danno dei ricorrenti, riconducibile ai presunti abusi realizzati sul fondo
del sig. Ve.Ni. e chiedendo la reiezione del gravame nel merito, posto che a
carico del Comune non sarebbe comunque configurabile un’inerzia colpevole.
L’amministrazione, invero, si sarebbe diligentemente attivata per ottenere
dalla Procura della Repubblica l’autorizzazione ad accedere presso la dimora
del controinteressato per ispezionare i locali oggetto delle suddette
segnalazioni, senza tuttavia ricevere alcun riscontro; né, d’altra parte,
sarebbe in condizione di adottare un provvedimento senza il preventivo
sopralluogo e l’accertamento in ordine al reale stato dei beni.
4. Il ricorrente ha altresì formulato istanza istruttoria chiedendo al
Tribunale di ordinare all’Agenzia delle Entrate di Siena di trasmettere la
planimetria dell’abitazione del controinteressato censita al Catasto
Fabbricati del Comune di Poggibonsi al foglio di mappa n. 66 con la
particella n. 119 e subalterno n. 3, quale prova della perdurante esistenza
dell’abusiva trasformazione di locali deposito in abitazione; nella pendenza
del giudizio tale documento è stato fornito spontaneamente ai ricorrenti
dalla stessa Agenzia delle Entrate.
...
7. Fermo quanto appena rilevato in ordine all’inammissibilità del gravame,
lo stesso si rivela comunque palesemente infondato, posto che nella
fattispecie non è configurabile l’inerzia colpevole del Comune.
Quest’ultimo, infatti, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha
chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di
Siena l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del
controinteressato, in quanto luogo di privata dimora, per potervi svolgere i
necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia (cfr.
docc. 6 e 7 del Comune).
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito
in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che
l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale
l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie
prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle
previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per
motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza
urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione
dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di
accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di
accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via
interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini
dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori
dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti
disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio,
ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi
edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina
fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4,
esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai
luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a contrario, che
nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato
all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato
affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 24.03.2005, n. 6361)” (cfr.
TAR Toscana, sez. III, 14.05.2021, n. 717).
Né, d’altra parte, il Comune avrebbe potuto provvedere sulla base della
documentazione in suo possesso, che non fornisce la prova dell’esistenza,
della natura e della effettiva consistenza delle eventuali violazioni
urbanistiche e edilizie presenti nell’immobile.
8. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 11.02.2022 n. 167 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA: Opere
realizzate senza il necessario titolo edilizio.
---------------
Edilizia – Abusi – Opere realizzate senza titolo – Conseguenza.
Solo gli interventi c.d. di “edilizia libera”
possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra
tali interventi – individuati dall’art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001 nonché
dall’art. 3, lett. e.5)- non sono riconducibili quelli che si compendiano
nella trasformazione di finestre in porte-finestre.
Simile intervento, invece, comportando una modifica dei prospetti, é
sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art.
3, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, e deve essere segnalato con
Scia (art. 22, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001) (1).
---------------
Ha affermato la Sezione che "la nozione di volume tecnico corrisponde a
un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale,
perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e,
comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal
calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di
vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel
caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter
essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come
volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della
cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle
distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, sez. II, sent. n. 8835
del 27.12.2019)
Ha aggiunto che le opere abusive, in quanto non assistite da titolo
edilizio, anche se astrattamente assentibili fintanto che non siano
regolarizzate mediante sanatoria, devono essere considerate, appunto,
abusive.
Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle barriere
architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi,
servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera –come
specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui
DM 02.03.2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a. recata
dal d.lgs. n. 222 del 2016- è peraltro evidente che tale normativa va
raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica:
ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg., d.P.R.
n. 380 del 2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario,
che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre
preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.01.2022, n. 467 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
13. Venendo, dunque, alla disamina dei motivi d’appello, il Collegio rileva
che il TAR, evidentemente ritenendo di poter prescindere dall’eccezione
sollevata dal Comune, di per sé assorbente, secondo cui il fabbricato di
proprietà della ricorrente è situato in zona soggetta a vincolo
paesaggistico e a vincolo di natura idrogeologica, ragione per cui le opere
non avrebbero potuto in ogni caso essere assentite con SCIA, ha respinto il
ricorso sul duplice rilievo che le opere realizzate dalla ricorrente erano
in parte non comprese nella SCIA, in parte non erano assentibili con SCIA.
13.1. In particolare, il TAR ha ritenuto essere state realizzate fuori dalla
SCIA l’apertura di porte finestre: la signora Co., anche nell’atto
d’appello, non nega di aver modificato le finestre preesistenti, mediante
rimozione della “veletta” posta sotto il parapetto, né contesta di
non averne dato evidenza nella SCIA, ma giustifica il silenzio
sull’intervento deducendo che si tratta di opere sostanzialmente invisibili,
che non hanno determinato alcuna alterazione della sagoma o nel prospetto
del fabbricato, né alcuna delle strutture portanti, concludendo che, in
definitiva, non ci si trova di fronte ad una ristrutturazione edilizia “pesante”.
13.1.1. Tale argomento è assolutamente irrilevante, posto che solo gli
interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in
assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi –individuati
dall’art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5)- non sono
riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in
porte-finestre. Simile intervento, invece, comportando una modifica dei
prospetti, é sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di
cu all’art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001, e deve essere
segnalato con SCIA (art. 22, lett. b), del D.P.R. 380/2001).
13.1.2. Risulta dunque condivisibile l’affermazione del TAR che ha
implicitamente ritenuto la necessità che le opere in questione fossero
denunciate nella SCIA.
13.2. Allo stesso modo il TAR ha ritenuto non comprese nella SCIA del
13.03.2018 la realizzazione, al primo piano, di una struttura sorretta da
pilastrini in ferro e rivestita con cartongesso per esterno (che determina
la creazione di un nuovo vano) e la predisposizione del bagno, stante che la
predetta SCIA indica come interventi da eseguire una struttura in legno per
tenda parasole ed un locale tecnico.
13.2.1. Anche in questo caso la ricorrente non nega la difformità dell’opera
realizzata rispetto a quella indicata nella SCIA, ma oppone che si
tratterebbe di una variante non essenziale, che avrebbe potuto essere
legittimata anche presentando una variante in corso d’opera, anche perché
non sarebbe stata impressa una modificazione alla destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante.
13.2.2.Il Collegio osserva che dagli atti allegati alla SCIA si evidenzia
che al piano superiore, ove in precedenza esisteva un locale tecnico, la
SCIA ha previsto la demolizione di quest’ultimo e la contestuale
realizzazione, dal lato opposto dell’edificio, del vano ascensore, di un
vano tecnico non meglio definito –ma comunque non indicato come bagno–
nonché una struttura in legno di sostegno di una tenda parasole. Nei fatti è
stato accertato che il vano ascensore risulta spostato rispetto alla
posizione indicata negli allegati alla SCIA, che il vano tecnico è stato
equipaggiato di tutti gli attacchi necessari ad equipaggiarlo come sala da
bagno, essendo già stata allocata la cassetta di scarico del WC, e, infine,
che, al posto di quella che avrebbe dovuto essere una struttura lignea di
sostegno ad una tenda, è stata realizzata una parete in pilastrini di ferro
ricoperti di cartongesso, intonacata, a chiusura del vano scala, a distanza
di meno di 10 metri da un fabbricato confinante.
13.2.3. Ciò premesso il Collegio condivide l’assunto del primo giudice,
secondo cui le opere in concreto realizzate al primo piano non possono
ricondursi a quelle indicate nella SCIA del marzo 2018, determinando uno
stato dei luoghi comunque diverso da quello prospettato nello stato di
progetto della SCIA.
Va al proposito rammentato che “La nozione di volume tecnico corrisponde
a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale,
perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e,
comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal
calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di
vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel
caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter
essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come
volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della
cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle
distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, Sez. II, sent. n. 8835
del 27.12.2019), per cui risulta assolutamente rilevante il fatto che quello
che era stato indicato come “locale tecnico” nella SCIA risulti,
invece, essere un locale agibile anche come sala da bagno/servizi.
Allo stesso modo la realizzazione di una parete a chiusura del vano scala
realizza una volumetria rilevante per il rispetto di alcuni parametri
urbanistici, e comunque non può in nessun caso essere equiparata ad una
struttura lignea di sostegno di una tenda.
13.2.4. Le opere realizzate al primo piano, in definitiva, risultano
abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, ed il fatto che siano
–secondo la tesi dell’appellante– astrattamente assentibili non cambia al
fatto che fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria, esse
debbono considerarsi, appunto, abusive.
13.3. Sotto altro profilo il TAR ha ritenuto che la bucatura del solaio di
divisione tra il primo e secondo piano, realizzata per consentire
l’allocazione del vano ascensore, non poteva essere assentita con SCIA, in
difetto di autorizzazione del genio civile, trattandosi di opere in grado di
compromettere la staticità del fabbricato: secondo il primo giudice, proprio
la mancanza della preventiva autorizzazione del genio civile ha, in
concreto, determinato l’improcedibilità della SCIA, ragione per cui tutte le
opere ivi contemplate sono, in definitiva, abusive.
13.3.1. L’appellante oppone che la realizzazione di un ascensore interno,
finalizzato ad abbattere barriere architettoniche, rientrerebbe tra gli
interventi di edilizia libera -come anche specificato nel D.M. 02.03.2018,
emanato in attuazione del D.L.vo n. 222/2016– quando non incidano sulla
struttura portante: l’appellante ne deduce che solo se incida sulla
struttura portante la realizzazione di un vano ascensore richiede la
preveniva autorizzazione del genio civile e, quindi il preventivo titolo
edilizio. L’appellante richiama, poi, la delibera di Giunta Regionale n. 12
del 2013, secondo cui le aperture nelle solette necessarie a realizzare un
vano-ascensore, si presumono non incidere sulla struttura portante se non
vengano intaccate le nervature del solaio, e dunque le travi portanti la
soletta, ciò che nella specie sarebbe stato attestato dal tecnico che ha
presentato la SCIA.
13.3.2. Il Collegio rileva che la D.G.R. n. 12/2013 include tra gli
interventi che, in zona sismica, si considerano “opere minori non
soggette al deposito/autorizzazione da parte del Servizio Tecnico Regionale”:
al punto 7 della lista degli interventi su opere esistenti, la “realizzazione
di apertura nei solai e nella copertura, senza modifica della falda o
alterazione del comportamento strutturale, di superficie inferiore o uguale
a 1.00 mq e senza intaccare le nervature”; al punto 10 della medesima
lista, la “installazione di montacarichi e piattaforme elevatrici aventi
una portata inferiore o uguale a 1.00 Khi dotati di certificato e/o brevetto
ministeriale, interni o esterni all’edificio, che non necessitano di
aperture nei solai, le cui strutture non modificano significativamente la
distribuzione delle azioni orizzontali; sono esclusi gli impianti da
cantiere.”
13.3.3. Il Collegio ritiene che la normativa citata non consente affatto, in
zona sismica, di installare ascensori interni, in edifici già esistenti,
senza il preventivo parere del Servizio Tecnico Regionale in materia
antisismica, quando tale intervento richieda di aprire aperture nei solai: è
vero che è possibile realizzare aperture nei solai se di superficie non
superiore a 1 mq e se non sono intaccate le nervature, tuttavia non se si
tratti di installare, nella apertura del solaio, un vano ascensore. Gli
impianti assimilabili a montacarichi o piattaforme elevatrici sono invece
esonerati, in zona sismica, dal parere del Servizio Tecnico Regionale solo
se non superino una certa portata, non richiedano di “bucare” dei
solai e non comportino una modifica nella distribuzione delle azioni
orizzontali.
13.3.4. Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle
barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni,
montacarichi, servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera
–come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera
di cui DM 02.03.2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a.
recata dal D.lgs. 222/2016- è peraltro evidente che tale normativa va
raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica:
ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg. del
D.P.R. n. 380/2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio
necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre
preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione.
13.3.5. Dal che consegue che è destituito di fondamento anche il motivo
d’appello che contesta il capo della sentenza in esame (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.01.2022 n. 467 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria
di un capannone industriale realizzato in un parco.
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Edilizia – Sanatoria – Capannone industriale realizzato in un parco – Non
è sanabile.
Non è sanabile il capannone industriale realizzato
in un parco (1).
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(1) La Sezione ha ricordato come l’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato n. 17 del 2016, ha evidenziato che il nulla osta dell'art. 13, l.
n. 394 del 1991 ha a oggetto la previa verifica di conformità
dell'intervento con le disposizioni del piano per il parco (che -a norma
dell'art. 12- persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata
all'Ente parco) e del regolamento del parco (che -a norma dell'art. 11-
disciplina l'esercizio delle attività consentite entro il territorio del
parco).
Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili
della cura dell'interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale
è istituito il parco con il suo "speciale regime di tutela e di gestione".
Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli
interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le
loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo
un disegno organico inteso a "la conservazione e la valorizzazione del
patrimonio naturale".
A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di
conformità -che solo accerta la conformità degli interventi concretamente
prospettati alle figure astrattamente consentite- non comporta un giudizio
tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente
fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti
del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
L'interpretazione dell'Adunanza Plenaria è puntuale: "Questi strumenti,
dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi,
inverano l'indispensabile e doverosa cura degli interessi
naturalistico-ambientali. I limiti di cui si tratta sono del resto intesi
essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per
lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l'indicazione di opere
reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti
strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in
precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto
ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza
residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile
dall'assenza, rispetto all'interesse naturalistico, di spazi per valutazioni
di tipo qualitativo circa l'intervento immaginato: si tratta qui infatti,
secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a
proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare
l'"ambiente-quantità", il che tecnicamente consente questo assorbimento,
negli atti generali e pianificatori, della cura dell'interesse generale.
Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di
accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un
congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia."
Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o
autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta
dell'Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell'area
naturale protetta (art. 13, comma 1).
Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.
Si tratta infatti di evitare che l'antropizzazione del Parco segua una
logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella
che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta
introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume
(art. 36 del t.u. edilizia).
Con specifico riguardo alla natura del nulla-osta in argomento si evidenzia
come esso sia, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, "atto
diverso dall'autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e
alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico
rispetto al rilascio dell'autorizzazione stessa" (Corte cost., sentenza
29.12.2004, n. 429) dotato di una sua autonomia essendo l'interesse
naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.
Infatti la valutazione paesaggistica postuma, entro certi limiti, dall'art.
167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio che recita: "L'autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le
procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380."
Nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell'ambito
dei parchi.
Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell'Ente
Parco e la natura preventiva dell'autorizzazione di cui all'art. 13 della
legge quadro sulle aree protette.
Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come
punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze
superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali
e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi
operativo-funzionali. In un'area integralmente protetta, infatti, sono
vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal
piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.
Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia
e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l'ambiente e la natura
oggetto di protezione integrale nell'ambito delimitato dal Parco, ha
costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il
rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo,
specifico intervento da valutarsi preventivamente… La differenza tra
immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree
integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e
le finalità di tutela, in funzione all'antropizzazione del territorio, non
consentono quindi un'applicazione della sanatoria prevista nell'art. 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001 (Cons.
Stato Sez. VI, 06.07.2021, n. 5152).
In sostanza, pertanto, in base all'art. 13 della legge sulle aree protette,
possono essere ammessi solo nulla osta preventivi.
Ne deriva che, in ogni caso, il permesso di costruire in sanatoria non
avrebbe potuto essere rilasciato e il provvedimento di diniego si presentava
con un atto vincolato (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.01.2022 n. 359 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6) L’appello si palesa infondato.
Le motivazioni della sentenza che ha considerato legittimo il rigetto
dell’istanza di sanatoria sono incentrate sul regime urbanistico e
paesaggistico-ambientale della zona in questione, tenendo conto del fatto
che la stessa rientra territorio del parco naturale di Migliarino, il cui
regolamento d’uso prevede, all’art. 5, il divieto di ogni trasformazione
urbanistico-edilizia al di fuori dei piani di gestione e recupero e nella
rientrare la medesima area in zona agricola di sviluppo e, in particolare,
nelle tenute di To. e Co., il cui piano di gestione, prevede all’art. 8.2.2
la sola realizzazione di “annessi agricoli” se indispensabili per le
colture agricole in atto di una certa rilevanza economica mentre nella
specie si tratterebbe di annesso pertinenziale a un capannone adibito a
cantieristica navale.
Il Collegio evidenza, tuttavia, un altro dato rilevante, costituito dalla
natura del titolo abilitativo richiesto costituito da un permesso di
costruire in sanatoria, ex art. 13 della legge n. 47/1985, ovverosia un
titolo che è volto a sanare un abuso già realizzato che per le aree sotto
poste a vincolo in quanto destinate a parco (e più in generale sulle aree
soggette a vicolo paesaggistico) ha una disciplina peculiare, volta a
limitare drasticamente le ipotesi di sanabilità, rispetto al normale regime
delle aree non soggette a vincolo.
Le opere eseguite ineriscono, infatti, a terreni che rientrano in area
soggetta al Piano Territoriale del Parco istituito con la LRT n. 24 del
16.03.1994. L’intervento edilizio è stato eseguito in assenza del prescritto
nulla-osta del Parco, in virtù dell’art. 13 della legge n. 394/1991 e della
legge n. 431/1985 e art. 20 della LRT n. 24/1994 (circostanza non
contestata).
7) Con riguardo ai motivi di appello, il Collegio rileva come la motivazione
della sentenza di primo grado non possa considerarsi come un integrazione
della motivazione del provvedimento gravato, avendo il Collegio fatta
applicazione della normativa inerente alle aree in questione, sulla base
degli elementi emersi nel provvedimento e negli atti del procedimento.
D’altra parte in un’ottica del processo amministrativo sempre più incentrato
in un giudizio sul rapporto, piuttosto che un giudizio sull’atto, anche la
decisione deve ritenersi scevra da un’ottica formale, che non consentirebbe
al giudice di fare applicazione del quadro normativo vigente, scrutinando le
ragioni di legittimità o illegittimità dell’atto impugnato anche oltre lo
schermo formale della motivazione.
In tal senso la motivazione della sentenza si palesa priva di mende in
quanto si è limitata a fare applicazione dell’art. 8.2.2 del piano di
gestione tenute di To. e Co. -al di fuori del quale ogni intervento
è inibito dall’art. 5 del Regolamento generale dell’uso del territorio del
parco naturale di Migliarino- rilevando la natura non agricola del
manufatto realizzato.
Quest’ultimo, infatti, è incontestabilmente destinazione artigianale, se non
industriale, tanto che la parte appellante afferma essere una pertinenza del
capannone industriale esistente.
La parte appellante si è limitata ad affermare che l’art. 8.2.2 in questione
non vieterebbe la realizzazione di manufatti con destinazione diversa da
quella agricola, senza tuttavia scrutinare l’elemento testuale del suddetto
articolo, ma invocando un’asserita esistente giurisprudenza in materia che
consentirebbe la realizzazione in zona agricola anche manufatti ed annessi
aventi destinazione d'uso anche diversa da quella agricola, non avendo
peraltro il Comune valutato in concreto la compatibilità dell'annesso con la
destinazione di zona e soprattutto con le altre opere presenti in loco.
La censura non coglie nel segno in quanto la costruzione deve essere
conforme con la destinazione impressa alla zona dagli strumenti urbanistici
e, nello specifico, con il piano di gestione tenute di To. e Co., né
la circostanza che sull’area sia stato realizzato un capannone industriale
modifica la disciplina di zona, consentendo la realizzazione di annessi con
destinazione diversa da quella agricola e, nello specifico, con una
destinazione asseritamente artigianale.
D’altra parte la rilevanza della natura agricola dei manufatti, al fine di
conseguire il titolo abilitativo edilizio, era ben presente anche al momento
della presentazione dell’istanza di sanatoria, tanto è vero che la stessa è
stata presentata formalmente per la realizzazione di un annesso agricolo,
come peraltro indicato nel gravato provvedimento di rigetto (in tal senso
dando consistenza al rilievo che non l’istante non è imprenditore agricolo)
e solo in sede di giudizio l’odierno appellante ha dedotto la destinazione
artigianale dell’annesso pertinenziale al capannone industriale.
8) Il Collegio, inoltre, osserva la rilevanza dell’altra circostanza emersa,
ovverosia che il manufatto in questione è stato realizzato in un’area
destinata a Parco (soggetta al Piano Territoriale del Parco istituito con la
LRT n. 24 del 16.03.1994) in assenza del prescritto nulla-osta del Parco, in
virtù dell’art. 13 della legge n. 394/1991 e della legge n. 431/1985 e art.
20 della LRT n. 24/1994.
L’intervento non è, pertanto, comunque suscettibile di essere sanato, ai
sensi dell’art. 13 della legge 47/1985.
Come da giurisprudenza di questa Sezione, infatti, l'interpretazione
dell'art. 13 della legge quadro sulle aree protette sull'ammissibilità di
sanatorie urbanistico edilizie in aree perimetrate a parco è nel senso di
non ammettere sanatoria di opere abusive, come quella in esame, realizzate
in assenza del nulla osta dell’Ente di tutela del relativo parco (Cons.
Stato Sez. VI, 06.07.2021, n. 5152).
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 17 del 2016, ha evidenziato
che il nulla osta dell'art. 13 della L. n. 394 del 1991 ha a oggetto la
previa verifica di conformità dell'intervento con le disposizioni del piano
per il parco (che -a norma dell'art. 12- persegue la tutela dei valori
naturali ed ambientali affidata all'Ente parco) e del regolamento del parco
(che -a norma dell'art. 11- disciplina l'esercizio delle attività
consentite entro il territorio del parco).
Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili
della cura dell'interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale
è istituito il parco con il suo "speciale regime di tutela e di gestione".
“Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli
interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le
loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo
un disegno organico inteso a "la conservazione e la valorizzazione del
patrimonio naturale".
A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di
conformità -che solo accerta la conformità degli interventi concretamente
prospettati alle figure astrattamente consentite- non comporta un giudizio
tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente
fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti
del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
L'interpretazione dell'Adunanza Plenaria è puntuale: "Questi strumenti,
dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi,
inverano l'indispensabile e doverosa cura degli interessi
naturalistico-ambientali. I limiti di cui si tratta sono del resto intesi
essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per
lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l'indicazione di opere
reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti
strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in
precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto
ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza
residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile
dall'assenza, rispetto all'interesse naturalistico, di spazi per valutazioni
di tipo qualitativo circa l'intervento immaginato: si tratta qui infatti,
secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a
proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare
l'"ambiente-quantità", il che tecnicamente consente questo assorbimento,
negli atti generali e pianificatori, della cura dell'interesse generale.
Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di
accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un
congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia."
Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o
autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta
dell'Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell'area
naturale protetta (art. 13, comma 1).
Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.
Si tratta infatti di evitare che l'antropizzazione del Parco segua una
logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella
che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta
introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume
(art. 36 del t.u. edilizia).
Con specifico riguardo alla natura del nulla-osta in argomento si evidenzia
come esso sia, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, "atto
diverso dall'autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e
alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico
rispetto al rilascio dell'autorizzazione stessa" (Corte cost., sentenza
29.12.2004, n. 429) dotato di una sua autonomia essendo l'interesse
naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.
Infatti la valutazione paesaggistica postuma, entro certi limiti, dall'art.
167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio che recita: "L'autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le
procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione
paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380."
Nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell'ambito
dei parchi.
Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell'Ente
Parco e la natura preventiva dell'autorizzazione di cui all'art. 13 della
legge quadro sulle aree protette.
Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come
punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze
superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali
e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi
operativo-funzionali. In un'area integralmente protetta, infatti, sono
vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal
piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.
Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia
e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l'ambiente e la natura
oggetto di protezione integrale nell'ambito delimitato dal Parco, ha
costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il
rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo,
specifico intervento da valutarsi preventivamente… La differenza tra
immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree
integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e
le finalità di tutela, in funzione all'antropizzazione del territorio, non
consentono quindi un'applicazione della sanatoria prevista nell'art. 36 del
D.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. Stato Sez. VI, 06.07.2021, n. 5152).
In sostanza, pertanto, in base all'art. 13 della legge sulle aree protette,
possono essere ammessi solo nulla osta preventivi.
Ne deriva che, in ogni caso, il permesso di costruire in sanatoria non
avrebbe potuto essere rilasciato e il provvedimento di diniego si presentava
con un atto vincolato.
8) Per quanto su indicato perdono, quindi, di rilevanza le censure inerenti
alla carenza di motivazione e di idonea istruttoria, volta a verificare
attentamente e in concreto le caratteristiche del manufatto per il quale era
stata chiesta la sanatoria e la sua compatibilità con l'area in questione.
Il diniego, difatti, risulta fondato nella sostanza ed è stato adottato
sulla scorta di atti ed elementi acquisiti nel procedimento.
9) Quanto all’ultimo motivo di appello incentrato sull’incompetenza
dell’organo che ha adottato il diniego adottante (l'Assessore all'Edilizia
Privata, su delega del Sindaco, anziché dal competente Dirigente
responsabile), il Collegio, in base a quanto anzidetto, rileva la
correttezza della motivazione della sentenza gravata che ha osservato come
in ogni caso l’incompetenza non avrebbe avuto effetto invalidante sul
provvedimento stante la natura vincolata dell’atto gravato.
Al riguardo, il Collegio precisa come in ogni caso la segnalata natura
vincolata dell’atto comporta l’applicazione dell'art. 21-octies della L. n.
241 del 1990, che è norma di natura processuale applicabile anche ai
procedimenti in corso o già definiti e trova applicazione anche al vizio
d'incompetenza relativa, il quale va qualificato come vizio
dell'organizzazione e, quindi, ridonda come vizio delle norme che regolano
il procedimento (Cons. Stato Sez. II, 09.01.2020, n. 165).
In particolare, sull’applicabilità dell'art. 21-octies della L. n. 241 del
1990 alla fattispecie in esame, il Collegio precisa come, secondo
giurisprudenza, a tale norma deve essere data dignità giuridica di norma
processuale ritenendola, dunque, applicabile anche ai procedimenti in corso
o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (Cons.
Stato, Sez. III, 22.10.2020, n. 6378; Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2019, n.
4964; Cons. Stato, Sez. IV, 13/08/2018, n. 4918; Sez. VI, 08/08/2014, n.
4218; Sez. II, 12.03.2020, n. 1800; sez. II, 09.01.2020, n. 165; sez. V,
15.07.2019, n. 4964).
Quanto all’applicabilità del medesimo art. 21-octies della L. n. 241 del
1990 al vizio di incompetenza, la giurisprudenza ha indicato che il vizio
d'incompetenza relativa, che colpisca un provvedimento amministrativo perché
sarebbe dovuto esser emanato da organo diverso dello stesso ente, è un mero
vizio procedimentale, come tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura
vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto dispositivo sia palese
(Cons. Stato Sez. IV, 06/08/2019, n. 5588; Cons. Stato, III, 03.08.2015, n.
3791).
Ai fini d'una corretta esegesi della norma, appare se non irrilevante, poco
appagante la circostanza che la formula usata da quest'ultima (al comma 1)
indichi l'incompetenza all'ultimo posto nella tripartizione dei vizi di
legittimità dell'atto amministrativo, quasi a rimarcarne la residualità o la
non autonomia rispetto alla violazione di legge, a differenza di ciò che si
potrebbe evincere dall'art. 29 c.p.a., ove tale vizio è richiamato per
secondo. L'accertamento positivo del vizio d'incompetenza implica tuttora la
rimessione della questione all'ufficio competente, ma sempre nei limiti
dell'art. 21-octies, comma 2.
La ragione è evidente: laddove alla P.A. non residui comunque la possibilità
d'emanare un diverso provvedimento, scatta sempre il meccanismo di
salvaguardia colà contemplato, in base ai generali principi di conservazione
dell'atto e di strumentalità delle forme che inducono a generalizzare la
portata dell'istituto dell'illegittimità 'non invalidante', per evitare che
la prevalenza di considerazioni procedimentali porti la P.A. stessa alla
scelta, antieconomica ed in contrasto con il principio di efficienza, di
dover riavviare un procedimento i cui esiti siano ab initio scontati.
Quel che prevale, dunque e pure a fronte del vizio d'incompetenza, è
l'assenza del potere di scelta in capo alla P.A., in una con l'evidenza
dell'inevitabilità del contenuto dispositivo dell'atto emanato. Donde
l'inutilità ex lege di far constare il vizio dell'incompetenza, che va
qualificato come vizio dell'organizzazione e, quindi, ridonda come vizio
delle norme che regolano il procedimento (Cons. Stato, Sez. VI, 24.10.2018
n. 6048; Cons. Stato, II, parere n. 253/2019).
Questo orientamento ha trovato concorde anche la giurisprudenza della Corte
di Cassazione che, pronunciandosi recentemente in tema di sanzioni
tributarie, ha rilevato che l'emissione di un atto di contestazione delle
sanzioni, da parte di un Ufficio dell'Agenzia delle entrate cui è attribuita
una diversa competenza territoriale, si traduce in un vizio solo formale
quando, a mente dell'art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241/1990, il
contenuto dispositivo dell'atto stesso non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato (Cass. civ. Sez. V, Ord., 11.11.2021, n. 33287).
10) Per le suesposte ragioni l’appello va rigettato (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.01.2022 n. 359 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere
realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o
demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione
può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non
responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito
permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro
irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell'abuso.
...
In specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di
un soggetto (i.e. il condominio):
i) che non rientra in nessuna delle due esposte
categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un
mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la
proprietà dei beni comuni ai singoli condomini;
ii) che, dunque, non può dirsi passivamente
legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già
statuito da condivisibile giurisprudenza, la sua illegittimità per
violazione dell’invocato paradigma normativo.
---------------
1. Con il ricorso in esame, depositato in data 07/12/2021, il Condominio
deducente (in persona del legale rappresentante pro tempore) ha
impugnato il provvedimento del Comune di Potenza, in epigrafe specificato,
recante l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo ad esso afferente.
1.1. L’impugnazione è affidata a plurimi motivi, tra cui in particolare la
deduzione del difetto di legittimazione passiva della parte ricorrente.
...
4. Il ricorso è fondato nei sensi appresso specificati.
Coglie nel segno il primo motivo di impugnazione –con assorbimento di
ogni altra censura– atteso che:
- ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi
e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono
rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in
questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche
se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito
permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro
irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell'abuso;
- in specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei
confronti di un soggetto:
i) che non rientra in nessuna delle due esposte
categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un
mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la
proprietà dei beni comuni ai singoli condomini (cfr. Cassazione civile, sez.
un., 18/09/2014, n. 19663);
ii) che, dunque, non può dirsi passivamente
legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già
statuito da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Campania, sez. VIII,
10/07/2020, n. 3005; TAR Lombardia, sez. II, 29/07/2019 n. 1764; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 29/11/2019, n. 2126), la sua illegittimità per
violazione dell’invocato paradigma normativo.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento per le ragioni esposte e,
per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR
Basilicata,
sentenza 14.01.2022 n. 14 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo ufficio tecnico ha ricevuto una segnalazione di abuso
edilizio su un immobile datato oltre 50 anni ma appena ereditato dai figli
del de cuius.
L’ufficio tecnico comunale può emanare un provvedimento amministrativo che
ordina il ripristino dello stato dei luoghi o il reato è prescritto?
Come da giurisprudenza amministrativa consolidata, la fattispecie dell’abuso
edilizio ha natura permanente e ciò significa che l’intervento repressivo
dell’ufficio tecnico è sempre possibile, anche a distanza di molti anni (ad
esempio TAR Liguria, Sent. n. 907/2017).
Tanto premesso, e ritenuto che, secondo nella situazione proposta nel
quesito, la sanzione astrattamente prevedibile per la tipologia di abuso
sarebbe l’ordinanza di demolizione e la riduzione in pristino, dobbiamo
evidenziare come anche l’autorevole giurisprudenza del Consiglio di Stato
(Adunanza Plenaria, sent. n. 9/2017) ha affermato che “il provvedimento
con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile
abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Nel caso de quo, il Consiglio di Stato ha affrontato il tema di un
abuso assai risalente nel tempo e che aveva comportato la condanna del
responsabile, in sede penale, per il reato di cui all’articolo 17, lettera
b), della L. 27.01.1977, n. 10 ‘Norme in materia di edificabilità dei
suoli').
Detto ciò, riteniamo che se viene constatato un abuso edilizio per il quale
è prevista la sanzione della demolizione, è irrilevante il tempo, anche
lungo o lunghissimo, che intercorre tra la data di realizzazione dell’abuso
e la data di azione del provvedimento, con la conseguenza che il
provvedimento è dovuto anche a distanza di decenni.
Pertanto, a nostro parere, e come sopra ampiamente descritto, l’ufficio
tecnico comunale dovrà provvedere con i susseguenti atti amministrativi.
---------------
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria. Sez. I, Sent.,
05.12.2017, n. 907 - Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., 17.10.2017, n. 9 (10.01.2022
- tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
dicembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il direttore dei lavori, in base
all'art. 29 d.P.R. n. 380/2001, è ritenuto responsabile della conformità
delle opere alle previsioni del permesso di costruire e alle modalità
esecutive stabile nel medesimo, assumendo, quindi, per il ruolo svolto, la
responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere.
Il riferimento contenuto nella norma al titolo abilitativo edilizio, pur
presupponendone l'esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi
dirige materialmente i lavori in assenza del permesso o con permesso di
costruire scaduto di validità secondo i principi generali in materia di
concorso di persone nel reato.
E' stato osservato che l'intervenuto rilascio del titolo abilitativo non
esime da responsabilità penale per l'abuso edilizio il committente,
il titolare del permesso di costruire ed il direttore dei lavori
(art. 29, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), nel caso in cui detto titolo sia stato
rilasciato in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici; e si è
ritenuto, con riferimenti normativi alla previgente disciplina, che il
direttore dei lavori può concorrere (al pari di altri soggetti) nel
reato edilizio in caso di violazione della conformità dell'opera alle
prescrizioni urbanistiche allorché alla realizzazione di questa abbia dato
un contributo causalmente efficiente, il che si verifica inevitabilmente
nell'ipotesi di concessione edilizia macroscopicamente illegittima.
---------------
6.2. Il primo motivo di ricorso di Fe.Lo. è manifestamente infondato.
Il direttore dei lavori, in base all'art. 29 d.P.R. n. 380/2001, è ritenuto
responsabile della conformità delle opere alle previsioni del permesso di
costruire e alle modalità esecutive stabile nel medesimo, assumendo, quindi,
per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve
sovrintendere. Il riferimento contenuto nella norma al titolo abilitativo
edilizio, pur presupponendone l'esistenza, non esclude del tutto la
responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso
o con permesso di costruire scaduto di validità secondo i principi generali
in materia di concorso di persone nel reato.
E' stato osservato che l'intervenuto rilascio del titolo abilitativo non
esime da responsabilità penale per l'abuso edilizio il committente, il
titolare del permesso di costruire ed il direttore dei lavori (art. 29,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380), nel caso in cui detto titolo sia stato
rilasciato in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici (Sez.
3, n. 27261 del 08/06/2010, Rv. 248070 - 01); e si è ritenuto, con
riferimenti normativi alla previgente disciplina, che il direttore dei
lavori può concorrere (al pari di altri soggetti) nel reato edilizio in caso
di violazione della conformità dell'opera alle prescrizioni urbanistiche
allorché alla realizzazione di questa abbia dato un contributo causalmente
efficiente, il che si verifica inevitabilmente nell'ipotesi di concessione
edilizia macroscopicamente illegittima (Sez. 3, n. 7310 del 12/06/1996, Rv.206028
- 01).
La Corte territoriale ha ritenuto, con congrue argomentazioni, la
responsabilità del ricorrente nel reato contestato, facendo buon governo dei
principi di diritto affermati in materia da questa Corte.
Non sussiste, pertanto, il vizio dedotto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 31.12.2021 n. 47426). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'elemento psicologico del reato
contestato può concretarsi indifferentemente nel dolo o nella colpa, e che
quindi versa certamente in colpa, sotto l'aspetto della negligenza, e non
può invocare la buona fede, il direttore dei lavori che non controlli
effettivamente e costantemente lo svolgimento delle opere anche riguardo
alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato.
---------------
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione
all'art. 43 cod. pen. ed all'art. 2 cod. pen. e vizio di motivazione,
lamentando che la Corte territoriale aveva omesso di rilevare che, come
evidenziato dal Tribunale, la complessità della vicenda e la pluralità di
pronunce in contrasto tra di loro, anche in sede amministrativa, escludevano
la sussistenza dell'elemento psicologico della contravvenzione; inoltre, i
Giudici di appello avevano richiamato, in contrasto con il disposto
dell'art. 2 cod. pen., norme successive alla fattispecie contestata.
...
6.3. Il secondo motivo di Fe.Lo. è inammissibile.
Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza
dell'elemento soggettivo del reato contestato, senza considerare la
complessità della vicenda e la pluralità di pronunce in contrasto tra di
loro, anche in sede amministrativa.
La Corte territoriale ha ritenuto integrato l'elemento soggettivo del reato
evidenziando che la qualifica professionale del prevenuto e la sua
competenza tecnica imponevano di verificare la correttezza delle opere (cfr.
17 della sentenza impugnata).
Va ricordato che è giurisprudenza consolidata di questa Corte che l'elemento
psicologico del reato contestato può concretarsi indifferentemente nel dolo
o nella colpa, e che quindi versa certamente in colpa, sotto l'aspetto della
negligenza, e non può invocare la buona fede, il direttore dei lavori che
non controlli effettivamente e costantemente lo svolgimento delle opere
anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto
autorizzato (cfr. Sez. 3, 24.09.2008 n. 36567).
La doglianza proposta è del tutto generica, in quanto priva di confronto
critico con le argomentazioni della Corte territoriale richiamandosi sul
punto le considerazioni già esposte al punto 6.1.
Essa, inoltre, espone censure le quali si risolvono in una mera rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata,
preclusa in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n.
42369, De Vita, Rv. 235507; sez. 6, 03.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv.
235510; Sez. 3, 27.09.2006, n. 37006, Piras, Rv. 235508).
7. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.12.2021 n. 47426). |
URBANISTICA: Dall’art.
30 d.P.R. n. 380/2001 derivano due fattispecie di lottizzazione cioè:
- una
lottizzazione “materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola
fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica
o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici e
- una
lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione
avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo
edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di
c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso
l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica
di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della
disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti
pianificatori.
In particolare, siffatti interventi
devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico
insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della
ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico
tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia
dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e
della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard
apprestabili.
L’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di
qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del
territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e,
pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto),
sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
Con riferimento alla lottizzazione c.d. “cartolare” la
fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo sia
predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti
negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro
oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione
correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti
considerata sulla base degli strumenti urbanistici, al numero,
all’ubicazione o all’eventuale previsione di opere di urbanizzazione-
rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli
atti adottati dalle parti.
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva
“cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento
del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione
di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile
desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione
perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti,
l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento
di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve
trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la
non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la
sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che
l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o
alla trasformazione del suolo a fini edificatori.
La giurisprudenza ha poi delineato altresì anche la cd. lottizzazione mista,
caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali
individuate dalla predetta norma, consistente nell'attività negoziale di
frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello
stesso.
In ogni caso, la fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la
sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole
opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di
una eventuale domanda di sanatoria.
Si deve, poi, richiamare la giurisprudenza di questo Consiglio che ha
puntualizzato come il giudizio amministrativo, anche con riferimento alle
ipotesi di lottizzazione abusiva, ha ad oggetto un provvedimento
amministrativo e mira a verificarne la legittimità, sinteticamente
compendiabile nella verifica della veridicità dei fatti materiali posti a
fondamento della scelta amministrativa e nella logicità e congruenza della
decisione rispetto ai detti presupposti, rapportati alla fattispecie legale
che viene in considerazione.
---------------
Le opere realizzate in difformità dalle denunce di inizio attività
presentate sono opere di recinzione della proprietà, le quali -pur di
consistente entità, essendo stati realizzati muri in calcestruzzo di
notevoli dimensioni almeno per i tre lati in cui l’altezza raggiunge quasi i
tre metri- in assenza di altri manufatti abusivi nonché di un frazionamento
rilevante ai fini lottizzatori non possono di per sé sole assurgere ad
indizio della fattispecie della lottizzazione abusiva “materiale” (cfr.
Consiglio di Stato, Sezione II, 27.07.2020, n. 4772, che ha ritenuto
rilevante anche una recinzione, ma in presenza di una fattispecie di
lottizzazione negoziale).
---------------
Se l’ordinanza prevista
dall'art. 30, comma 7, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento
vincolato, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati incisi, e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale,
non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito avente natura permanente, l’Amministrazione non è
tenuta ad una specifica motivazione solo allorché risultino chiaramente dal
provvedimento i presupposti della fattispecie lottizzatoria.
---------------
Come è noto, l’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del
quale è stata adottata l’ordinanza n. 170 del 2007, impugnata con i motivi
aggiunti in primo grado, riproduce integralmente le disposizioni già
contenute nell’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47; le norme, nello
specifico, hanno previsto che si abbia “lottizzazione abusiva di terreni a
scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o
comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta
autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla
natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Da tale norma derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una
lottizzazione “materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola
fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica
o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una
lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione
avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo
edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di
c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso
l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica
di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della
disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti
pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio, siffatti interventi
devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico
insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della
ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico
tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia
dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e
della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard
apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416; id. 09.01.2018, n. 5805; Sez. II, 30.01.2020, n. 768).
L’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di
qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del
territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e,
pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto),
sia un nuovo e non previsto carico urbanistico (Cons. Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215).
Con riferimento alla lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è
ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo sia predisposta mediante
il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti-
del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive
caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla
natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla
base degli strumenti urbanistici, al numero, all’ubicazione o all’eventuale
previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr.
Cons. Stato, Sez. II, 20.05.2019, n. 3215, Sez. V, 03.08.2012, n.
4429, Sez. IV, 13.05.2011, n. 2937).
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva
“cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento
del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione
di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile
desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione
perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti,
l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento
di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve
trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la
non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la
sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che
l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o
alla trasformazione del suolo a fini edificatori (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
10.11.2015, n. 5108; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
La giurisprudenza ha poi delineato altresì anche la cd. lottizzazione mista,
caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali
individuate dalla predetta norma, consistente nell'attività negoziale di
frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello
stesso (cfr. per tutte, di recente, Cons. Stato Sez. VI, 19.07.2021, n.
5403).
In ogni caso, la fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la
sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole
opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di
una eventuale domanda di sanatoria (Consiglio di Stato, Sezione II, 07.08.2019, n. 5607).
Si deve, poi, richiamare la giurisprudenza di questo Consiglio che ha
puntualizzato come il giudizio amministrativo, anche con riferimento alle
ipotesi di lottizzazione abusiva, ha ad oggetto un provvedimento
amministrativo e mira a verificarne la legittimità, sinteticamente
compendiabile nella verifica della veridicità dei fatti materiali posti a
fondamento della scelta amministrativa e nella logicità e congruenza della
decisione rispetto ai detti presupposti, rapportati alla fattispecie legale
che viene in considerazione (Cons. Stato Sez. VI, 19.07.2021, n. 5403).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie non può che
non ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva.
In primo luogo, si deve precisare che il giudice di primo grado ha
espressamente escluso che si potesse configurare nel caso di specie una
lottizzazione negoziale, essendo accertato che le particelle n. 395, 396,
397, 398 del foglio 1 provenissero da una divisione ereditaria.
La esclusione della lottizzazione negoziale affermata dal giudice di primo
grado non può essere, dunque, più messa in discussione, non essendoci sul
punto appello incidentale del Comune, e, comunque, non essendo neppure
specificamente contestata tale affermazione nella memoria depositata dal
Comune di Afragola, peraltro oltre il termine di 60 giorni dalla notifica
del ricorso, indicato, ai sensi degli art. 101, comma 2 c.p.a. e 46 c.p.a.,
per la riproposizione delle domande e delle eccezioni assorbite o non
esaminate in primo grado.
Peraltro, la circostanza del frazionamento in sede di divisione ereditaria è
stata anche confermata in sede di verificazione, da cui è risultato che
l’originaria particella (facente parte di una più ampia particella n. 126
frazionata nel 1983) è stata frazionata in sede di divisione ereditaria dei
germani Va. del 20.10.2005, a seguito del frazionamento catastale del
21.06.2005; poi i terreni sono stati venduti, con atti distinti
stipulati il 20.10.2005, dalla signora Ch.Va. alle signore
Gi.Ce. e An.La.; dal signor Cl.Va. alla signora An.Ru.; dalla signora Ad.Va. alla signora An.Li., e in data 11.11.2005 dal signor Gi.Va. alla signora Ca.Po..
Pertanto, correttamente il giudice di primo grado, richiamando l’art. 30,
ultimo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per cui “le disposizioni di
cui sopra… non si applicano comunque alle divisioni ereditarie”, ha ritenuto
neutro rispetto alla fattispecie della lottizzazione, il frazionamento
intervenuto nella divisione ereditaria; né si può dare rilevanza al
precedente frazionamento della particella 126, avvenuto quasi 25 anni prima.
Venendo alla ipotesi della lottizzazione materiale, ritenuta sussistente dal
giudice di primo grado, deve in primo luogo rilevarsi che l’ordinanza n. 170
del 2007, impugnata con i motivi aggiunti in primo grado era indirizzata a
18 destinatari proprietari di differenti particelle (oltre alle odierne
appellanti proprietarie delle particelle n. 395, 396, 397, 398 del foglio 1
erano indicati il proprietario della particella n. 399 del foglio 1 e i
proprietari delle particelle n. 2262, 2263, 2264, 2265, 2266, 2267, 2268,
2269 del foglio 4), facendo poi riferimento per tutti alla realizzazione di
opere “in assenza di titolo abilitativo, al frazionamento delle aree, alla
realizzazione di recinzioni, di una strada di servizio e di opere abusive,
tutte opere che denotano una trasformazione urbanistica ed edilizia dei
terreni” ; venivano poi indicate per ogni proprietario interessato le opere
abusive realizzate e per le odierne appellante la recinzione in difformità
dalla DIA presentata.
Sostanzialmente, quindi, il Comune, ha considerato l’unicità delle
trasformazioni urbanistiche realizzate nella area complessivamente
considerata con una strada di accesso, con opere edilizie abusive, con il
frazionamento della originarie particelle.
Una volta esclusa, però, la rilevanza del frazionamento, anche in base a
quanto affermato dal giudice di primo grado e confermato dal verificatore,
deve valutarsi se siano idonee a denotare una lottizzazione materiale le
sole opere abusive realizzate e la strada di collegamento.
Tale accertamento deve essere condotto alla luce delle risultanze della
verificazione, da cui è emerso che la ricostruzione in termini unitari della
lottizzazione abusiva configurata dal Comune per 18 proprietari nella
località Murillo del Comune di Afragola è esclusa dalla mancanza di
collegamento tra le particelle di proprietà degli odierni appellanti
(particelle n. 395, n. 396, n. 397, e n. 398 del foglio 1) con le altre
particelle considerate nell’ordinanza impugnata in primo grado, essendo
stata accertata solo l’esistenza di una strada sterrata di accesso alle
quattro particelle, priva di collegamento con le altre particelle.
Ne deriva che al fine di configurare la lottizzazione materiale non si può
fare riferimento né alle opere edilizie realizzate sulle altre particelle né
ad un disegno unitario di urbanizzazione, in base ad una strada di
collegamento; con la conseguenza che si dovrebbe ritenere integrata la
lottizzazione materiale per la sola realizzazione delle opere di recinzione,
peraltro neppure integralmente abusive, in quanto realizzate in difformità
dalle denunce di inizio di attività presentate dalle odierne appellanti nel
2006, nonché dalla detta strada di accesso ai fondi.
Ritiene il Collegio che tali opere, anche unitariamente considerate per le
quattro particelle, non possano configurare una attività tesa alla
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con aggravio del
relativo carico insediativo e pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione, secondo i criteri indicati dalla
giurisprudenza, in base alla ratio dell’art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001,
non avendo raggiunto le opere uno stadio “materiale” tale da comportare una
trasformazione urbanistica.
Infatti, le opere realizzate in difformità dalle denunce di inizio attività
presentate sono opere di recinzione della proprietà, le quali -pur di
consistente entità, essendo stati realizzati muri in calcestruzzo di
notevoli dimensioni almeno per i tre lati in cui l’altezza raggiunge quasi i
tre metri- in assenza di altri manufatti abusivi nonché di un frazionamento
rilevante ai fini lottizzatori non possono di per sé sole assurgere ad
indizio della fattispecie della lottizzazione abusiva “materiale” (cfr.
Consiglio di Stato, Sezione II, 27.07.2020, n. 4772, che ha ritenuto
rilevante anche una recinzione, ma in presenza di una fattispecie di
lottizzazione negoziale).
La strada è sterrata, anzi attualmente integralmente ricoperta d’erba, e
rappresenta, secondo quanto affermato dal verificatore, un percorso di
accesso ai quattro fondi di proprietà delle appellanti, che rimane
“un’appendice privata” priva di collegamento con altre strade e proprietà.
Pertanto di tale accesso si devono escludere sia la natura di opera di
urbanizzazione sia la funzionalizzazione ad una successiva urbanizzazione.
Diversamente potrebbe dirsi per il marciapiede posto ai lati della strada,
la cui esistenza è stata accertata in sede di verificazione, ma poiché tale
aspetto non risulta preso in considerazione dal Comune nell’ordinanza n. 170
del 2007, ritiene il Collegio di non poterlo valorizzare in questa sede, in
quanto il presente giudizio, come sopra evidenziato, ha ad oggetto la
legittimità del provvedimento impugnato e la sua congruità rispetto ai
presupposti di fatto indicati nel provvedimento, nel caso di specie,
insussistenti rispetto alla fattispecie della lottizzazione abusiva.
Dalle opere indicate nel provvedimento, allo stato, per come concretamente
realizzate è provata nell’area di proprietà delle odierne appellanti, solo
l’avvenuta recinzione dei fondi e la realizzazione di un percorso di accesso
ad essi.
In ogni caso anche il marciapiede, pur realizzato senza titolo edilizio, in
relazione alla collocazione della strada per il solo accesso ai quattro
fondi costituisce solo una modalità del percorso per consentire l’accesso ai
fondi.
Non vi sono, quindi, opere di trasformazione del territorio né è provata la
funzionalizzazione delle opere alla realizzazione di un nuovo insediamento
abitativo e al conseguente aumento del carico urbanistico.
Non è stata quindi raggiunta alcuna prova di una attività anche solo
prodromica ma univoca rispetto alla realizzazione di opere di urbanizzazione
apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, da cui derivi un aggravio del relativo carico urbanistico e il
pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione,
per la cui tutela è prevista la fattispecie della lottizzazione abusiva.
Sotto tale profilo, deve, altresì, rilevarsi la evidente carenza di
motivazione del provvedimento che, considerando l’unicità della situazione
lottizzatoria in capo a 18 proprietari, non ha esaminato la specifica
posizione delle odierne appellanti sia in ordine alla collocazione delle
particelle rispetto alle altre che in relazione allo stato (mancante)
dell’edificazione, circostanze che erano state oggetto di apposita memoria
in fase di partecipazione.
Infatti, se l’ordinanza prevista dall'art. 30, comma 7, del D.P.R. n. 380
del 2001, in quanto provvedimento vincolato, al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati incisi, e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale,
non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito avente natura permanente, l’Amministrazione non è
tenuta ad una specifica motivazione solo allorché risultino chiaramente dal
provvedimento i presupposti della fattispecie lottizzatoria (cfr. Cons.
Stato, Sez. II n. 27.07.2020, n. 4772), i quali risultano carenti,
invece, nel caso di specie.
Si deve poi rilevare, altresì, che nel caso di specie la destinazione
dell’area non era agricola, ma zona C di espansione residenziale, per cui
era sì previsto lo strumento attuativo ma per “nuovi complessi insediativi
per interventi privati e pubblici”. Ne deriva che la recinzione di per sé
anche unitamente alla strada sterrata di accesso ai fondi non comportava
alcuna sottrazione al potere pianificatorio comunale e di programmazione,
non contrastando con la disciplina di piano.
Infatti la recinzione del fondo non era incompatibile con la successiva
attività di pianificazione attuativa, non sostituendosi ad essa
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 20.12.2021 n. 8433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: L'accertata abusività degli interventi realizzati esclude che gravi
sull’Amministrazione l’obbligo di coinvolgere la destinataria della misura
repressiva in fase procedimentale.
E’, infatti, pacifico in giurisprudenza il principio per il quale
“l'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione
dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001
costituisce attività di natura vincolata e che, pertanto, la stessa non è
assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi
necessaria -per l'appunto- la previa comunicazione di avvio del
procedimento di cui all'art. 7 e ss. della l. 241 del 1990 agli interessati" in virtù del quale deve “escludersi che ai destinatari del
provvedimento recante l'ordine di demolizione debbano essere riconosciute le
prerogative connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di
presentare osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di
prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale”.
---------------
Con il primo motivo l’Appellante censura l’impugnata sentenza nella
parte in cui, in ragione della natura vincolata della misura adottata, si
afferma l’irrilevanza della dedotta omessa considerazione degli apporti
procedimentali di parte.
A sostegno della censura, l’appellante allega che il manufatto in questione
presenterebbe delle “modestissime difformità o irregolarità” (pag. 4
dell’appello) che renderebbero “incerta” l’assoggettabilità dell’intervento
sanzionato al regime del permesso di costruire.
Quanto affermato troverebbe indiretta conferma nella rilevata necessità, da
parte dell’Amministrazione, di procedere comunque, preliminarmente
all’adozione del provvedimento repressivo, alla comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 della L. n. 242/1990 finalizzata all’acquisizione
delle controdeduzioni dell’interessata.
Il motivo è infondato.
Riconosce il Collegio che l’Amministrazione adottava la comunicazione di
avvio del procedimento, ancorché la notifica della stessa intervenisse in
data successiva a quella della notifica della misura repressiva.
Tuttavia, tale perplesso agire è inidoneo a viziare il provvedimento oggetto
di contestazione, atteso che, come in parte anticipato, l’accertata, come si
argomenterà, abusività degli interventi realizzati esclude che gravasse
sull’Amministrazione l’obbligo di coinvolgere la destinataria della misura
repressiva in fase procedimentale.
E’, infatti, pacifico in giurisprudenza il principio per il quale
“l'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione
dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001
costituisce attività di natura vincolata e che, pertanto, la stessa non è
assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi
necessaria -per l'appunto- la previa comunicazione di avvio del
procedimento di cui all'art. 7 e ss. della l. 241 del 1990 agli interessati"
(così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 19.03.2018, n. 1717; 29.11.2017 n. 5595; 12.10.2016, n. 4204; Sez. V, 17.06.2015, n.
3051) in virtù del quale deve “escludersi che ai destinatari del
provvedimento recante l'ordine di demolizione debbano essere riconosciute le
prerogative connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di
presentare osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di
prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale (così, tra
le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, n. 1717 del 2018 cit.)” (Cons. Stato,
Sez. II, 13.06.2019, n. 3971)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.10.2021 n. 7197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
fatto che gli elaborati
progettuali allegati alla licenza edilizia degli anni '50 non sono idonei a
rappresentare in modo preciso la consistenza dell’edificio autorizzato e,
pertanto, non costituiscono un parametro attendibile di confronto tra lo
stato di fatto e quello autorizzato da cui possa desumersi la natura
parzialmente abusiva dell’edificio.
Come il c.t.u. ha osservato, gli elaborati grafici allegati all’istanza di licenza edilizia n.
5874/1957 “risultano lacunosi, imprecisi ed incoerenti tra di loro Lacunosi
in quanto non riportano le dimensioni di nessuna misura né in pianta né in
prospetto/sezione, fatta eccezione per la sola quota dell’altezza interna
del piano in sopraelevazione; la sezione non riporta la presenza delle
aperture di areazione nel sottotetto e manca la rappresentazione dello
spessore del solaio inclinato di copertura.
Imprecisi perché nelle sezioni è
evidente una rappresentazione dello spessore dei solai intermedi che non può
corrispondere al vero: i solai risultano infatti dello spessore indicativo,
rapportato in scala, tutti inferiori ai 20 cm, quando le tecniche
costruttive del tempo per la realizzazione di strutture orizzontali in latero-cemento comportavano spessori indicativi di 35 cm (24 cm di
laterizio, 4 cm di cappa in calcestruzzo collaborante, 5 centimetri di
sottofondo ai quali vanno aggiunte le finiture). Del sistema costruttivo dei
solai in materiale latero-cementizio vi è ancora traccia nella documentazione
fotografica delle fasi demolitive del fabbricato allegata alle memorie
difensive di parte controinteressata.
Incoerenti tra di loro perché anche la sovrapposizione delle
rappresentazioni dei prospetti e delle sezioni, eseguita con l’ausilio di
strumenti informatici (autocad) presentano difformità evidenti quali:
altezza al colmo differente, mancata rappresentazione delle aperture di
aerazione del sottotetto.”.
Tenuto conto della risalenza del titolo ad un’epoca in cui non v’era obbligo
di asseverazione da parte dei progettisti, della circostanza che esso non
riguarda l’intero fabbricato ma la sola sopraelevazione, che le tavole
grafiche presentano le lacune ed imprecisioni evidenziate dal verificatore,
pertanto, il Collegio ritiene condivisibile la valutazione di complessiva
inidoneità dei disegni allegati a costituire un preciso parametro di
raffronto con lo stato di fatto asseverato, ai fini della verifica della
conformità dell’edificio preesistente.
---------------
... per l'annullamento:
- per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
del permesso di costruire rep. 06.03/008915/17, prot. 334043 del 02/02/2018
avente ad oggetto “nuova costruzione con demolizione edificio esistente,
costruzione, ricomposi-zione e ampliamento art. 3, comma 2, LRV 14/2009 in
via Altichiero” nonché della convalida del predetto permesso di costruire
datata 07.03.2018 (atti non conosciuti) nonché degli atti presupposti ed
in particolare dei pareri propedeutici e di eventuali varianti;
- per quanto riguarda i motivi aggiunti depositati il 25.07.2018:
del permesso di costruire rep. 06.03/008915/17, prot. 334043 del 02/02/2018
avente ad oggetto “nuova costruzione con demolizione edificio esistente,
costruzione, ricomposizione e ampliamento art. 3, comma 2, LRV 14/2009 in via
Altichiero” nonché della convalida del predetto permesso di costruire datata
07.03.2018, nonché degli atti presupposti ed in particolare dei pareri
propedeutici e di eventuali varianti.
...
1.3 I vizi di violazione dell’art. 9, comma 1, lett. e), L.R. 14 del
2009 e di difetto di istruttoria, articolati nel primo e nel
secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti, sono solo in parte
fondati.
Ad avviso del Collegio la censura non è fondata nella parte in cui ritiene
il permesso impugnato illegittimo poiché rilasciato nonostante l’edificio
esistente sia stato realizzato in totale difformità alla licenza di
sopraelevazione n. 5874 del 09.07.1957.
Ritiene, invece, che la censura, nei limiti del dedotto difetto
d’istruttoria, sia fondata con riguardo alla verifica dei titoli
legittimanti le modifiche di più recente realizzazione.
1.4 Quanto al primo profilo (conformità dello stato di fatto alla licenza di
sopraelevazione), il Collegio condivide le conclusioni cui sono pervenute le
parti resistenti, confermate dal verificatore, secondo cui gli elaborati
progettuali allegati alla licenza edilizia n. 5874 del 1957 non sono idonei
a rappresentare in modo preciso la consistenza dell’edificio autorizzato e,
pertanto, non costituiscono un parametro attendibile di confronto tra lo
stato di fatto e quello autorizzato da cui possa desumersi la natura
parzialmente abusiva dell’edificio.
Come il verificatore ha osservato -con argomentazioni che, sotto taluni
aspetti, trovano immediata evidenza nel confronto con le tavole progettuali– gli elaborati grafici allegati all’istanza di licenza edilizia n.
5874/1957 “risultano lacunosi, imprecisi ed incoerenti tra di loro Lacunosi
in quanto non riportano le dimensioni di nessuna misura né in pianta né in
prospetto/sezione, fatta eccezione per la sola quota dell’altezza interna
del piano in sopraelevazione; la sezione non riporta la presenza delle
aperture di areazione nel sottotetto e manca la rappresentazione dello
spessore del solaio inclinato di copertura. Imprecisi perché nelle sezioni è
evidente una rappresentazione dello spessore dei solai intermedi che non può
corrispondere al vero: i solai risultano infatti dello spessore indicativo,
rapportato in scala, tutti inferiori ai 20 cm, quando le tecniche
costruttive del tempo per la realizzazione di strutture orizzontali in
latero-cemento comportavano spessori indicativi di 35 cm (24 cm di
laterizio, 4 cm di cappa in calcestruzzo collaborante, 5 centimetri di
sottofondo ai quali vanno aggiunte le finiture). Del sistema costruttivo dei
solai in materiale laterocementizio vi è ancora traccia nella documentazione
fotografica delle fasi demolitive del fabbricato allegata alle memorie
difensive di parte controinteressata (doc. 13 memorie difensive avv. Po.).
Incoerenti tra di loro perché anche la sovrapposizione delle
rappresentazioni dei prospetti e delle sezioni, eseguita con l’ausilio di
strumenti informatici (autocad) presentano difformità evidenti quali:
altezza al colmo differente, mancata rappresentazione delle aperture di
areazione del sottotetto.”.
Tenuto conto della risalenza del titolo ad un’epoca in cui non v’era obbligo
di asseverazione da parte dei progettisti, della circostanza che esso non
riguarda l’intero fabbricato ma la sola sopraelevazione, che le tavole
grafiche presentano le lacune ed imprecisioni evidenziate dal verificatore,
pertanto, il Collegio ritiene condivisibile la valutazione di complessiva
inidoneità dei disegni allegati a costituire un preciso parametro di
raffronto con lo stato di fatto asseverato, ai fini della verifica della
conformità dell’edificio preesistente (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 18.10.2021 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanabilità
delle opere realizzate nel Lazio in zone vincolate anche quando il vincolo è
posteriore alla realizzazione dell’opera a fronte di una domanda di c.d.
terzo condono.
---------------
Edilizia – Sanatoria – Lazio – L.reg. n. 12 del 2004 - Opere realizzate
in zone vincolate – Opere sanabili - Individuazione.
Ai sensi della l.reg. Lazio n. 12 del 2004, deve
escludersi la sanabilità delle opere realizzate in zone vincolate anche
quando il vincolo è posteriore alla realizzazione dell’opera (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che l’autonomizzazione “spinta”
ed “assoluta” del requisito della “non conformità alle norme
urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” –secondo
l’interpretazione accolta dal giudice di primo grado- quale presupposto da
accertare con rigore ed in totale autonomia rispetto al contenuto del
vincolo, per escludere la sanabilità dell’opera condurrebbe proprio a
ritenere sanabili, nonostante la violazione dei vincoli paesaggistico
ambientali, interventi abusivi solo perché per essi sussista una conformità
urbanistica sostanziale con interpretatio abrogans della disposizione
regionale e travisamento della sua ratio che a questo punto sarebbe quella
di escludere la sanabilità solo nel caso in cui ci trovi di fronte ad abusi
sostanziali.
Ma la disposizione è volta ad escludere la sanabilità delle opere abusive
oggetto del terzo condono in via generale nelle zone vincolate con la sola
ipotesi che il vincolo sopravvenuto consenta l’accertamento di conformità ed
in tali limiti; ma non vi è prova che la natura del vincolo sopravvenuto
nella specie dia rilevanza a tali evenienze.
In assenza di questo non sussiste la possibilità di ottenere il condono in
forza di un parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ( non
avendo il vincolo tanto consentito e dovendo quindi in conseguenza della sua
mera esistenza –in assenza di previsioni legittimanti il recupero di abusi-
ritenere l’opera non conforme alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.10.2021 n. 6827 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini del condono edilizio il concetto di “ultimazione dei lavori” va riferito all’esecuzione del cd. rustico, che
presuppone, per quanto d’interesse, l’intervenuto completamento delle
tamponature (tompagnature) esterne, che determinano l’isolamento
dell’immobile dalle intemperie e configurano l’opera nella sua fondamentale
volumetria: ciò,
a condizione che non si tratti di opere interne di un edificio già
esistente, per le quali vale, invece, il criterio del cd. completamento
funzionale. Se ne evince che, ai fini del condono, è indispensabile che
entro il termine massimo stabilito dalla legge l’organismo edilizio abbia
assunto una sua forma stabile ed un’adeguata consistenza plano-volumetrica,
come per gli edifici, per i quali viene richiesta la cd. ultimazione al
rustico, cioè l’intelaiatura, la copertura ed i muri di tompagno.
Invero, “ai fini del condono, per edifici “ultimati”, si intendono
quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce principio pacifico che per
edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture
(infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente
comprensiva delle tampognature esterne, che realizzano in concreto i volumi,
rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (....)”, di tal ché un’opera priva anche soltanto in
parte delle tompagnature non è condonabile.
Né si può confondere
l’esecuzione del cd. rustico con lo scheletro della struttura, dovendo il
cd. rustico intendersi come comprensivo della muratura priva di rifiniture e
della copertura e non potendo le pareti esterne considerarsi quali mere
rifiniture.
---------------
3.3. Da quanto appena visto discende l’infondatezza delle doglianze
dell’appellante volte a sostenere l’avvenuta ultimazione delle opere abusive
in esame entro il termine (31.03.2003) stabilito dalla normativa sul
condono edilizio di cui al d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003).
Sul
punto merita di essere integralmente condivisa la sentenza appellata, lì
dove ha evidenziato come i Vigili Urbani abbiano accertato, con verbali
dotati di fede privilegiata, che:
a) all’epoca dei primi sopralluoghi (23-25.08.2004), quindi già ben oltre la scadenza del termine del 31.03.2003, la struttura esistente consisteva soltanto in un’armatura di ferro e
legno e getto in cemento armato per copertura e pilastri;
b) l’aggiunta
delle altre opere, in specie delle tompagnature, risale ad un momento ancora
posteriore, essendo attestata dal verbale del sopralluogo del 04.10.2004.
3.3.1. Sul punto deve richiamarsi il costante orientamento
giurisprudenziale, secondo cui ai fini del condono edilizio il concetto di
“ultimazione dei lavori” va riferito all’esecuzione del cd. rustico, che
presuppone, per quanto d’interesse, l’intervenuto completamento delle
tamponature (tompagnature) esterne, che determinano l’isolamento
dell’immobile dalle intemperie e configurano l’opera nella sua fondamentale
volumetria (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. II, 29.07.2020, n. 4816): ciò,
a condizione che non si tratti di opere interne di un edificio già
esistente, per le quali vale, invece, il criterio del cd. completamento
funzionale. Se ne evince che, ai fini del condono, è indispensabile che
entro il termine massimo stabilito dalla legge l’organismo edilizio abbia
assunto una sua forma stabile ed un’adeguata consistenza plano-volumetrica,
come per gli edifici, per i quali viene richiesta la cd. ultimazione al
rustico, cioè l’intelaiatura, la copertura ed i muri di tompagno (così C.d.S.,
Sez. II, n. 4816/2020, cit.; v. pure Sez. VI, 09.07.2018, n. 4168 e Sez.
IV, 28.06.2016, n. 2911).
3.3.2. Invero, “ai fini del condono, per edifici “ultimati”, si intendono
quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce principio pacifico che per
edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture
(infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente
comprensiva delle tampognature esterne, che realizzano in concreto i volumi,
rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante,
Cons. Stato, sez. IV, 16.10.1998, n. 130) (....)” (così C.d.S., Sez.
VI, 03.12.2018, n. 6841), di tal ché un’opera priva anche soltanto in
parte delle tompagnature non è condonabile (C.d.S., Sez. II, 13.11.2020, n. 7006; id., 14.01.2020, n. 339).
Né si può confondere
l’esecuzione del cd. rustico con lo scheletro della struttura (accertato nel
caso di specie dai VV.UU.), dovendo il cd. rustico intendersi come
comprensivo della muratura priva di rifiniture e della copertura e non
potendo le pareti esterne considerarsi quali mere rifiniture (C.d.S., Sez.
II, 10.06.2019, n. 3869; Sez. IV, 12.03.2009, n. 1474) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
risultanze dei verbali di accertamento dei VV.UU. non possono essere contrastate in altro modo che
tramite la proposizione del rimedio della querela di falso, trattandosi di
atti dotati di certezza legale privilegiata: per la costante giurisprudenza,
infatti, “il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del
Comune a seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti
abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai
sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esso accertate sia
relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante”.
---------------
3.3.3. Mette conto aggiungere, al riguardo, che le risultanze dei verbali di
accertamento dei VV.UU. non possono essere contrastate in altro modo che
tramite la proposizione del rimedio della querela di falso, trattandosi di
atti dotati di certezza legale privilegiata: per la costante giurisprudenza,
infatti, “il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del
Comune a seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti
abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai
sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esso accertate sia
relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante” (così C.d.S., Sez. IV,
01.07.2019, n. 4472; id., 05.10.2018, n. 5738).
Ma nel caso di specie non risultano né la proposizione della querela di
falso, né tanto meno l’esperimento vittorioso, da parte del privato, del
relativo giudizio: pertanto, in difetto di tale rimedio, sono vani i
tentativi dell’appellante di contestare, anche a mezzo della produzione di
una perizia di parte, i contenuti dei citati verbali e di sostenere
l’esistenza, alla data di legge (31.03.2003), delle condizioni affinché
l’immobile potesse considerarsi ultimato e, così, ottenere il condono e, in
particolare, l’esistenza della tompagnatura esterna (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza contenuto
discrezionale ed è subordinato esclusivamente all’accertamento
dell’inottemperanza e al decorso del termine di legge (pari a 90 gg.)
stabilito per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi: l’acquisizione gratuita
costituisce, infatti, una misura di carattere sanzionatorio, che consegue
automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
Non può ritenersi, perciò, che l’acquisizione gratuita integri una
reazione sproporzionata e tale da determinare un indebito arricchimento
della P.A., connotandosi essa “per la duplice funzione di sanzionare
comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi” e
comportando l’acquisto a titolo originario del bene da parte dell’Ente
competente ad esercitare il relativo potere.
Neppure può obiettarsi dal preteso carattere “minore” degli abusi
commessi, sia perché non è ammesso il frazionamento dell’intervento
effettuato (demolizione del sottotetto e sua ricostruzione, da un lato;
copertura del terrazzo, dall’altro), ma l’intervento de quo va considerato
nella sua unitarietà (secondo quanto risulta, del resto, dalla stessa
istanza di condono), sia in quanto la realizzazione di un’entità nuova
costituisce un abuso rilevante, che giustifica come tale l’irrogazione della
sanzione demolitoria o di rimessione in pristino ex art. 31 del d.P.R. n.
380/2001.
---------------
5.2.
Ancora, è infondato il motivo di appello II C), poiché, secondo
l’orientamento della consolidata giurisprudenza, l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza contenuto
discrezionale ed è subordinato esclusivamente all’accertamento
dell’inottemperanza e al decorso del termine di legge (pari a 90 gg.)
stabilito per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr.,
ex multis, C.d.S., Sez., VI, 09.06.2020, n. 3686; Sez. II, 07.02.2020, n. 996; Sez. V, 27.04.2012, n. 2450): l’acquisizione gratuita
costituisce, infatti, una misura di carattere sanzionatorio, che consegue
automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. II, 13.11.2020, n. 7008; id., 24.07.2020, n.
4725; Sez. IV, 26.05.2020, n. 3330; id., 16.01.2019, n. 398).
5.2.1. Non può ritenersi, perciò, che l’acquisizione gratuita integri una
reazione sproporzionata e tale da determinare un indebito arricchimento
della P.A., connotandosi essa “per la duplice funzione di sanzionare
comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi” e
comportando l’acquisto a titolo originario del bene da parte dell’Ente
competente ad esercitare il relativo potere (C.d.S., Sez. VI, n. 3686/2020,
cit.).
Neppure può obiettarsi dal preteso carattere “minore” degli abusi
commessi, sia perché non è ammesso il frazionamento dell’intervento
effettuato (demolizione del sottotetto e sua ricostruzione, da un lato;
copertura del terrazzo, dall’altro), ma l’intervento de quo va considerato
nella sua unitarietà (secondo quanto risulta, del resto, dalla stessa
istanza di condono), sia in quanto la realizzazione di un’entità nuova
costituisce un abuso rilevante, che giustifica come tale l’irrogazione della
sanzione demolitoria o di rimessione in pristino ex art. 31 del d.P.R. n.
380/2001 (C.d.S., Sez. VI, 20.07.2018, n. 4418) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’onere
della prova dell’ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia
abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali
si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era
richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza
titolo, incombe in linea generale sul privato a ciò interessato, unico
soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova,
in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del
manufatto.
Vero è che “Si ammette un temperamento di tale regola nel caso in cui il
privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima di una certa data elementi rilevanti, seppure non
univocamente probanti (ad esempio, aerofotogrammetrie, dichiarazioni
sostitutive di edificazione o altre certificazioni attestanti fatti o
circostanze rilevanti”.
A tal fine è necessaria la produzione di documentazione oggettivamente
comprovante l'epoca di realizzazione del manufatto.
---------------
Premesso che nell’ordinanza di demolizione impugnata il Comune intimato ha
contestato entrambi gli abusi -casotto in legno e piattaforma di
calcestruzzo- quanto alla risalenza nel tempo degli abusi contestati si
richiama al riguardo la condivisibile giurisprudenza anche della Sezione
(TAR Napoli, Sezione III, 03.05.2021, n. 2900), dalla quale il Collegio non
ha motivo di discostarsi, alla luce della quale “L’onere della prova
dell’ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo
scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere
una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo
ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe in
linea generale sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella
disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare
con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (Cons. di St.,
sez. VI, 12/10/2020, n. 6112). Vero è che “Si ammette un temperamento di
tale regola nel caso in cui il privato porti a sostegno della propria tesi
sulla realizzazione dell'intervento prima di una certa data elementi
rilevanti, seppure non univocamente probanti (ad esempio,
aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione o altre
certificazioni attestanti fatti o circostanze rilevanti)” (Cons. di St.,
sez. VI, 16/03/2020, n. 1890)”.
A tal fine è necessaria la produzione di documentazione oggettivamente
comprovante l'epoca di realizzazione del manufatto (TAR Sicilia, Catania,
Sez. I, 11.12.2020, n. 3362, TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2019, n. 8708;
Cons. Stato n. 2960/2014; Cons. Stato n. 3067/2001; TAR Lazio-Roma n.
10882/2014).
...
Non essendo stata provata con
certezza la rilevanza del tempo, quanto alla necessità del permesso di
costruire deve ritenersi che il Comune abbia legittimamente contestato che
si tratti di opere abusive in quanto prive del permesso di costruire (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.10.2021 n. 6391 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'integrata realizzazione di nuovi volumi -per il casotto in legno- e
superfici -per la piattaforma di calcestruzzo- è da ricondurre agli “interventi di nuova costruzione”,
ex art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001, implicanti una
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (peraltro in zona
vincolata), come tale soggetta ai sensi del successivo art. 10 al rilascio
del permesso di costruire, in mancanza del quale va ordinata la
demolizione.
---------------
Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è
necessaria una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate,
non essendo possibile scomporne una parte per negare l'assoggettabilità ad
una determinata sanzione demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato
al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé
stante bensì dall'insieme delle opere.
In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti identificata con
riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il
frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo
immobiliare unitariamente considerato”.
---------------
Per giustificare l’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente
l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni
altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non
occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie
occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di
mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente
afferenti la successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio
comunale.
---------------
Ed invero nella fattispecie, come correttamente valutato nell’istruttoria
esperita dall’amministrazione, si è integrata la realizzazione di nuovi
volumi -per il casotto in legno- e superfici -per la piattaforma di
calcestruzzo- da ricondurre agli “interventi di nuova costruzione”,
ex art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001, implicanti una
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (peraltro in zona
vincolata), come tale soggetta ai sensi del successivo art. 10 al rilascio
del permesso di costruire (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.08.2021, n.
5474 e 07.05.2021, n. 3073), in mancanza del quale va ordinata la
demolizione.
Peraltro, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale di questo
Tribunale, e già fatto proprio dalla Sezione (TAR Campania Napoli Sez. III,
26.04.2021, n. 2729) “Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è
necessaria una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate,
non essendo possibile scomporne una parte per negare l'assoggettabilità ad
una determinata sanzione demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato
al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé
stante bensì dall'insieme delle opere” (TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
25/05/2020, n. 1960).
In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti identificata con
riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il
frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo
immobiliare unitariamente considerato” (TAR Campania, Napoli, sez. VII,
27/04/2020, n. 1496).
Alla luce di tali conclusioni non rilevano la dedotta inesatta indicazione
della descrizione specifica di entrambi gli interventi realizzati, la loro
individuazione catastale, né le date del sopraluogo effettuato.
In particolare quanto alla consistenza degli interventi e alla loro
individuazione catastale occorre specificare che, come chiarito dalla
prevalente giurisprudenza, condivisa dal Collegio, per giustificare
l’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra
indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo
in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e
dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata,
spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti la
successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale (cfr.
TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 28.01.2016, n. 538 e Sez. III,
12.03.2010, n. 1420, TAR Bari, Sez. III, 10.03.2011, n. 429) (TAR Campania Napoli Sez. III, 29.04.2021, n.
2834, 10.12.2020, n. 6025 e 18.05.2020, n. 1824) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.10.2021 n. 6391 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti integrano atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto le
seguenti censure: 3) Violazione artt. 1 e 7 Legge n. 241/1990, in quanto non
gli sarebbe stato notificato alcun avviso di inizio del procedimento.
Il motivo è infondato in quanto, secondo il condivisibile consolidato
orientamento giurisprudenziale, l’esercizio del potere repressivo degli
abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti integrano atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione
di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto (TAR Campania Napoli Sez. III, 29.04.2021, n.
2834, 10.12.2020, n. 6025 e 18.05.2020, n. 1824) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.10.2021 n. 6391 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento repressivo deve essere rivolto nei confronti di chi abbia in
concreto una relazione giuridica o anche materiale con il bene.
In particolare, in tema di
“responsabile dell’abuso”
«questi è ... da individuarsi in colui che ha materialmente eseguito
l'opera, fermo rimanendo che anche il proprietario "non responsabile" è
legittimamente destinatario dell'ordine di demolizione».
«In proposito, valga il richiamo all'Adunanza Plenaria n. 9 del 17.10.2017,
che ha espressamente ribadito che "gli ordini di demolizione di costruzioni
abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del
proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli abusi assumendo
comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi
non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in
un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine
giuridico violato"».
«... La giurisprudenza, in aderenza con il testo delle norme sanzionatorie
(artt. 27, 31, 33, 35 D.P.R. 380/2001), giammai esclude la responsabilità del
materiale esecutore dell'opera che, appunto, si aggiunge a quella di colui
che, trovandosi in una relazione di immediata disponibilità dell'opera, è
nelle migliori condizioni per poter eseguire la demolizione ».
---------------
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “il provvedimento con
cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile
abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell’onere di ripristino".
Inoltre, l’abuso assume il carattere di illecito permanente e tanto è
comunque sufficiente per non dar rilievo al tempo trascorso dalla sua
realizzazione.
---------------
Premette che il contestato mutamento della destinazione d’uso del
capannone non sarebbe alla stessa addebitabile, ma ai locatori, di guisa che
non potrebbe essere destinataria di alcun provvedimento sanzionatorio,
riferibile ai proprietari che non avrebbero potuto concederlo in locazione
con la finalità di consentire al suo interno l’esercizio di un’attività
artigianale.
Il rilievo non è condivisibile, in quanto, in punto di fatto, emerge che il
mutamento di destinazione consegue alla prescrizione contenuta nel contratto
reso inter partes, ove è stato stabilito che i proprietari concedono (in
locazione) l’unità immobiliare in questione, “da adibire ad officina per
l’attività del conduttore”.
Appare evidente che il cambio di destinazione, per altro non rappresentato
come pregresso, è stato realizzato consensualmente tra le parti.
In ogni caso, il provvedimento repressivo deve essere rivolto nei confronti
di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale con il
bene (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 24.05.2016, n. 2638).
In particolare (cfr. TAR Catania, I, 07.05.2021, n. 1499), in tema di
“responsabile dell’abuso” (cfr. TAR Napoli, sez. IV, 07/01/2020, n. 70),
«questi è ... da individuarsi in colui che ha materialmente eseguito
l'opera, fermo rimanendo che anche il proprietario "non responsabile" è
legittimamente destinatario dell'ordine di demolizione».
«In proposito, valga il richiamo all'Adunanza Plenaria n. 9 del 17.10.2017,
che ha espressamente ribadito che "gli ordini di demolizione di costruzioni
abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del
proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli abusi assumendo
comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi
non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in
un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine
giuridico violato (in tal senso -ex multis-: Cons. Stato, VI, 26.07.2017, n. 3694)"».
«... La giurisprudenza, in aderenza con il testo delle norme sanzionatorie
(artt. 27, 31, 33, 35 D.P.R. 380/2001), giammai esclude la responsabilità del
materiale esecutore dell'opera che, appunto, si aggiunge a quella di colui
che, trovandosi in una relazione di immediata disponibilità dell'opera, è
nelle migliori condizioni per poter eseguire la demolizione (v., ex multis,
Consiglio di Stato sez. VI, 31/12/2018, n. 7305; Consiglio di Stato sez. VI,
30/03/2015, n. 1650; TAR Cagliari, Sardegna, sez. II, 25/09/2019, n. 762;
TAR Napoli, Campania, sez. VIII, 26/10/2018, n. 6295; TAR Napoli,
Campania, sez. VI, 15/09/2016, n. 4319)».
Come premesso, essendo il ricorrente coautore dell’abuso, debitamente è
stato individuato come destinatario del provvedimento.
Né rileva, diversamente da quanto sostenuto con la censura in esame, la
circostanza che il cambio abusivo di destinazione sia ormai “consolidato”
nel tempo.
Non è possibile ritenere illegittimo il provvedimento, infatti, in
considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dall’esecuzione
dell’opera, richiedendosi, altresì, una motivazione “rafforzata”.
A tal uopo, la Sezione, sempre con la richiamata decisione n. 1499/2021 ha
stabilito «che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9)».
«Si tratta di orientamento anche più di recente ribadito da condivisa
giurisprudenza d’appello (cfr., ex plurimis, cit. Cons. Stato, sez. II, 03.02.2021, n. 980; Cons. Stato, sez. VI, 30.11.2020, n. 7546) e di
prime cure (cfr., ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 22.02.2021, n. 1140; TAR Campania, Salerno, sez. II,
05.02.2021, n. 335)».
Inoltre, l’abuso assume il carattere di illecito permanente e tanto è
comunque sufficiente per non dar rilievo al tempo trascorso dalla sua
realizzazione (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 11.10.2021 n. 3060 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sentenza del Tar Campania sulle novità introdotte dal dl
semplificazioni.
Prefetto anti-abusi edilizi. Se il comune è inerte 90 giorni per
intervenire.
Novanta giorni. È il termine entro cui il prefetto deve
abbattere le opere abusive, vista l'inerzia del comune dopo la diffida del
proprietario dell'immobile confinante. E se non lo farà in tempo sarà
«commissariato» da un dirigente del Viminale che provvederà. Il tutto grazie
alla norma introdotta dalla legge 120/20 in sede di conversione del decreto
semplificazioni anti Covid che trasferisce la competenza della procedura
all'ufficio territoriale del governo se l'ente locale non dà il via alle
ruspe entro centottanta giorni dall'accertamento dell'abuso.
Lo stabilisce il TAR Campania-Napoli con
sentenza 07.10.2021 n. 6327,
della VI Sez., una delle prime applicazioni in sede giudiziaria della
novella, al punto che il collegio «compensa integralmente le spese di
giudizio per la novità della questione».
Militari in campo.
Accolto il ricorso del vicino che ha già ottenuto una sentenza del Tar: il
comune deve reprimere gli abusi compiuti dal «rivale», che non solo ha
ampliato la volumetria dell'immobile ma ha pure cambiato la destinazione
d'uso del manufatto e realizzato un muro di contenimento di rilevanti
dimensioni.
L'amministrazione ingiunge la demolizione ad horas delle opere
contro-legge, ma non la esegue. A chi tocca provvedere? Fa bene il privato a
rivolgere la diffida al prefetto, oltre che alla soprintendenza Belle arti e
alla regione Campania, competente sui provvedimenti sanzionatori in base
alla legge locale.
Con la modifica all'articolo 41 del testo unico per l'edilizia se il comune
ritarda spetta all'ufficio territoriale del governo intervenire con l'aiuto
dei tecnici del genio militare, se necessario. E sicuramente con il sostegno
dell'ente civico, che trasmettere al prefetto ogni informazione o documento
in suo possesso sull'abuso da rimuovere.
Nel mirino del confinante è finito
un corpo di fabbrica costituito da struttura portante in muratura e
copertura in cemento, che occupa una superficie di circa oltre due metri
quadrati e mezzo per un'altezza di circa tre dal piano di calpestio:
l'ampliamento, completo e rifinito, è adibito a servizi igienici del
fabbricato. Il secondo fabbricato situato poco distante occupa una
superficie lorda di circa 15 metri quadrati. Entrambi, dunque, dovranno
essere demoliti.
Novella oscura. È
vero, la legge non è chiarissima sul dies a quo, vale a dire sulla
decorrenza del termine di sei mesi, perché il riferimento all'accertamento
dell'abuso non è univoco: nel nostro caso, tuttavia, i centottanta giorni
sono abbondantemente passati anche a voler utilizzare come termine iniziale
la data dell'ordine di demolizione adottato dal comune dopo la precedente
sentenza del Tar.
L'obbligo di provvedere del prefetto deve essere affermato in forza del
nuovo testo dell'articolo 41 del testo unico per l'edilizia. La
disposizione, che è il frutto della novella legislativa introdotta in sede
di conversione del decreto legge 76/2020, «trasferisce» la competenza in
materia di procedure di demolizione, in caso di loro mancato avvio entro
centottanta giorni dall'accertamento dell'abuso, ai prefetti che si
avvalgono dell'ausilio degli uffici comunali per ogni esigenza
tecnico-progettuale e con il concorso, previa intesa con l'autorità
militare, del genio militare.
La norma deroga alle ordinarie competenze in
capo a comuni, enti gestori dei vincoli e regioni e concentra in capo al
prefetto il compito di curare le procedure di demolizione in un'ottica di
semplificazione e di effettività delle sanzioni
(articolo ItaliaOggi del 15.10.2021).
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SENTENZA
Nel merito il ricorso è in parte fondato nel senso che va affermato
l’obbligo di provvedere del Prefetto di Napoli in forza del nuovo testo
dell’articolo 41 D.P.R. n. 380 citato.
Tale disposizione, infatti, “trasferisce” la competenza in materia di
procedure di demolizione –in caso di loro mancato avvio entro 180 giorni
dall’accertamento dell’abuso– ai Prefetti che si avvalgono dell’ausilio
degli uffici comunali per ogni esigenza tecnico-progettuale e con il
concorso, previa intesa con l’autorità militare, del Genio militare.
La disposizione dell’articolo 41 –che è il frutto di una novella legislativa
introdotta in sede di conversione del d.l. 16.07.2020, n. 76– innova il
sistema sanzionatorio previsto dal D.P.R. n. 380 concentrando in capo al
Prefetto –in deroga quindi alle ordinarie competenze previste negli articoli
27 e segg. in capo a comuni, enti gestori dei vincoli e regioni– il compito
di curare le procedure di demolizione in un’ottica di semplificazione e di
effettività delle sanzioni; benché la disposizione non sia chiarissima in
punto di decorrenza del termine di sei mesi (il riferimento all’accertamento
dell’abuso non è univoco) nella fattispecie tale termine è chiaramente (e
ampiamente) decorso dato che, anche a voler utilizzare come dies a quo
la data del provvedimento che ha ingiunto la demolizione facendo quindi
coincidere l’accertamento con la data di emanazione di esso, sta di fatto
che tale provvedimento risale al 07.07.2020 per cui alla data della diffida
180 giorni erano decorsi.
Deve quindi ordinarsi al Prefetto di Napoli di provvedere alla esecuzione
dell’ordinanza più volte citata nel termine di novanta giorni dalla
comunicazione della presente sentenza; deve altresì ordinarsi al comune di
-OMISSIS- di trasmettere al Prefetto ogni atto, documento o informazione in
suo possesso in ordine all’abuso (come dispone l’articolo 41, comma 2, nel
testo novellato) e di fornire al Prefetto ogni supporto di cui egli possa
aver necessità per l’esercizio della sua competenza secondo quanto
stabilisce il primo comma dell’articolo 41.
In caso di inerzia del Prefetto è nominato commissario ad acta il
Dirigente responsabile del Dipartimento per gli affari interni e
territoriali del ministero dell’interno o un dirigente o funzionario da lui
delegato che si attiverà a istanza del ricorrente una volta inutilmente
decorso il termine per l’esecuzione sopra fissato.
In questo senso il ricorso è in parte accolto. Data la novità della
questione si dispone la integrale compensazione delle spese di giudizio. |
settembre 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Effetti e limiti del rilascio di concessione o permesso in
sanatoria – Acquisizione al patrimonio comunale – Art. 36,
d.P.R. n. 380/2001.
Il rilascio di concessione o permesso in
sanatoria ex art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non
presuppone, quale atto implicito, la rinuncia da parte del
Comune al diritto di proprietà sull’opera abusiva già
acquisita al suo patrimonio a seguito del decorso del
termine di 90 giorni dalla notifica dell’ordine di
demolizione, non essendovi coincidenza, sul piano della
competenza, tra l’organo adottante l’atto presupponente
(permesso in sanatoria) –ufficio tecnico comunale– e
l’organo competente alla adozione dell’atto presupposto
implicito (rinuncia al diritto di proprietà), da
individuarsi in distinti e superiori organi comunali.
...
EDILIZIA – Permesso di costruire in sanatoria – PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE – Acquisizione ipso iure della
proprietà ex art. 31, c. 3, del T.U.E. n. 380/2001 –
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Presentazione della domanda di
accertamento di conformità e spoliazione di diritto della
proprietà – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Richiesta di
dissequestro – Legittimazione ad agire in difesa del bene –
Esclusione.
L’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del
2001 stabilisce che il permesso di costruire in sanatoria
può essere richiesto fino alla scadenza dei termini di cui
agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, e 34, comma 1, stesso
decreto e, comunque fino all’irrogazione delle sanzioni
amministrative.
La presentazione della domanda di accertamento di conformità
successiva alla emanazione dell’ordinanza di demolizione
comporta che l’Amministrazione non può che constatare che
l’istanza è stata presentata da chi non sia più
proprietario, se essa è stata proposta dopo l’acquisizione
ipso iure della proprietà ai sensi dell’art. 31, comma 3,
del t.u. n. 380 del 2001, per il decorso del termine di
novanta giorni. Una volta acquisita al patrimonio comunale,
solo il Comune può stabilire, con deliberazione consiliare,
l’esistenza di prevalenti interessi pubblici sempre che
l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed
ambientali.
La spoliazione di diritto della proprietà del bene sottrae
sostanza giuridica all’interesse vantato nei suoi confronti
dal precedente proprietario degradandolo a mero interesse di
fatto che, privandolo della legittimazione ad agire in
difesa del bene stesso, impedisce persino la restituzione in
suo favore caso di dissequestro.
...
EDILIZIA – Ordine di demolizione dell’opera abusiva e
rimessione in pristino dello stato dei luoghi –
Ingiustificata inottemperanza – Automatica acquisizione
gratuita al patrimonio comunale.
L’ingiustificata inottemperanza
all’ordine di demolizione dell’opera abusiva ed alla
rimessione in pristino dello stato dei luoghi entro novanta
giorni dalla notifica dell’ingiunzione a demolire emessa
dall’Autorità amministrativa determina l’automatica
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera è
dell’area pertinente.
L’effetto acquisitivo si verifica senza che sia necessaria
né la notifica all’interessato dell’accertamento
dell’inottemperanza né la trascrizione, in quanto il primo
atto ha solo funzione certificativa dell’avvenuto
trasferimento del diritto di proprietà, costituendo titolo
per l’immissione in possesso, mentre la trascrizione serve a
rendere opponibile il trasferimento ai terzi a norma
dell’art. 2644 cod. civ..
...
EDILIZIA – Reati edilizi – Condono edilizio – Potere-dovere
di verifica del giudice penale – Accertamento della
sussistenza dei presupposti e requisiti per conseguire la
speciale causa estintiva – C.d. attestazione di congruità
dell’oblazione.
In tema di reati edilizi, il giudice
penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale
la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la
conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai
regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in
materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti
l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai
sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato
E, atteso che viene operata una identificazione in concreto
della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela,
da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e
sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Più specificamente, è stato affermato, che l’accertamento
della sussistenza di tutti i presupposti ed i requisiti per
conseguire la speciale causa estintiva prevista dalla
normativa sul condono edilizio, non costituisce
disapplicazione di un atto amministrativo preteso
illegittimo (la c.d. attestazione di congruità
dell’oblazione ovvero, nei casi in cui sia contestato un
reato attinente alla tutela di un vincolo, della concessione
in sanatoria subordinata all’autorizzazione dell’autorità
competente per detta protezione ex art. 39, ottavo comma,
legge n. 724 del 1994), ma rientra tra i compiti del giudice
penale, cui è deferita la dichiarazione di improcedibilità
dell’azione penale per l’applicazione della predetta
specifica causa di estinzione dei reati
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.09.2021 n. 35484 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono edilizio – Procedura di sanatoria espressa e
semplificata (provvedimento silenzioso di assenso) –
Verifica dell’esistenza dei requisiti sostanziali e formali
– Necessità – Poteri e doveri del giudice dell’esecuzione –
D.P.R n. 380/2001 e Leggi regionali – Legge Reg. Sicilia n.
16/2016.
La procedura di condono introdotta dalla
Legge 724/94 prevede la possibilità tanto di una sanatoria
espressa quanto di un provvedimento silenzioso di assenso.
In entrambi i casi devono sussistere tutti i requisiti di
condonabilità previsti dalla legge per l’ottenimento della
sanatoria e deve essere prodotta la documentazione
richiesta.
Nel caso del condono per formazione del silenzio assenso, è
richiesta non solo la presentazione dell’istanza di
sanatoria, ma anche il pagamento integrale dell’oblazione
ritenuta congrua secondo i criteri stabiliti dalla legge n.
47 del 1985, ora d.P.R n. 380 del 2001, il versamento degli
oneri di concessione come determinati in via definitiva dal
comune, l’adempimento delle altre condizioni richieste dalla
norma, come la denuncia tempestiva ai fini
dell’accatastamento ed il decorso del termine di uno o due
anni dalla data di scadenza di quello per la presentazione
della domanda senza l’adozione di un provvedimento negativo
da parte del comune.
Il termine per la formazione del silenzio non decorre se non
viene prodotta la documentazione richiesta, mentre
l’omissione protratta dopo tre mesi dalla espressa richiesta
di integrazione notificata dal Comune determina l’improcedibilità
della domanda ed il conseguente diniego della sanatoria per
carenza di documentazione.
Tuttavia, anche con riferimento a tale particolare
procedura, valgono i principi già enunciati circa il potere
dovere del giudice dell’esecuzione di verificare la
sussistenza effettiva di tali requisiti sostanziali e
formali, non potendo il ricorso alla procedura semplificata
e la mera presentazione di una perizia giurata impedire al
giudice di effettuare una verifica del tutto identica a
quella richiesta, riguardo alla disciplina nazionale.
...
Condono edilizio – Iter procedimentale – Rapporti fra
normativa nazionale e regionale – Esclusione
dell’operatività del condono – Limiti sostanziali delle
leggi regionali dettati dalla disciplina nazionale.
Nei rapporti fra la normativa nazionale
e quella regionale (in specie Regione Sicilia), bisogna
tenere presente che, le disposizioni introdotte da leggi
regionali devono rispettare i principi generali fissati
dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono
essere interpretate in modo da non collidere con i detti
principi.
Con specifico riferimento alla legge regionale siciliana n.
16/2016 si è invece affermato, in relazione al condono di
cui alla legge 326/2003, che l’iter procedimentale
introdotto dal legislatore regionale non può consentire di
superare i limiti sostanziali della disciplina dettata dalla
disciplina nazionale (integralmente recepita, nella specie,
da quella regionale), escludendo quindi che l’equipollenza
al titolo abilitativo riconosciuta alla perizia giurata
possa finire con il prevalere sulle limitazioni della
disciplina generale rispetto a una certa tipologia di
interventi, rispetto alla quale è stata espressamente
esclusa l’operatività del condono.
Pertanto, il giudice dell’esecuzione, nel caso in cui vi sia
una istanza di condono o di sanatoria successiva al
passaggio in giudicato della sentenza di condanna, ha
l’onere di esaminare con attenzione i possibili esiti ed i
tempi di definizione della procedura e, segnatamente, di
accertare il possibile risultato dell’istanza e se esistono
cause ostative al suo accoglimento e, nel caso di
insussistenza di tali cause, di valutare i tempi di
definizione del procedimento amministrativo e sospendere
l’esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento
dello stesso, nonché di verificare la legittimità e
l’efficacia del titolo abilitativo eventualmente rilasciato,
ciò deve avvenire anche in caso di ricorso alla procedura
semplificata regionale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2021 n. 33821 - link a www.ambientediritto.it). |
agosto 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In generale: “L'attività di repressione degli abusi edilizi
tramite l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e,
pertanto, non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo
dunque necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui
all' art. 7 e ss. della L. n. 241/1990”.
Si osserva, in particolare, che “L'ordinanza di demolizione di opere abusive
non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ai
sensi dell' art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario né, per lo stesso motivo, si richiede una
specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna
violazione dell'art. 3 della citata l. n. 241 del 1990, tenendo presente che
il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito
esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o
in assenza del titolo abilitativo con la conseguenza che il provvedimento,
ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con
l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione”.
“Invero, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto ad adozione e contenuti
vincolati, non abbisogna di una comparazione dell'interesse pubblico al
rispetto della disciplina urbanistico-edilizia con l'interesse privato
sacrificato, e nemmeno della valutazione di un affidamento alla
conservazione della situazione di fatto, che il decorso del tempo non
potrebbe mai legittimare”, “comunque mai per gli immobili abusivi ricadenti
in aree soggette a vincolo paesaggistico”.
In definitiva, quindi, “Il lungo tempo trascorso dalla realizzazione
dell'opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato
alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione
di fatto illecita”.
“E', pertanto, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che
non sia stata preceduta dall'avviso di inizio del procedimento di cui
all'art. 7, l. n. 241 del 1990, atteso che, da un lato, l'obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e che,
dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 990,
l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta
conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, come nel caso
all’esame.
La stessa ordinanza deve ritenersi, poi, sufficientemente motivata
-richiamata, come nel caso di specie, la normativa di riferimento (artt. 27
e 31 del d.P.R. n. 380/2001)-, con la mera affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
--------------
V.2.1. Le censure, che per connessione logico-giuridica possono essere
trattate congiuntamente, sono prive di pregio.
V.2.2. Quanto al primo profilo, sollevato con il primo e
secondo motivo di gravame, consolidato e condiviso è l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale, in generale: “L'attività di
repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordinanza di
demolizione ha natura vincolata e, pertanto, non è assistita da particolari
garanzie partecipative, non essendo dunque necessaria la previa
comunicazione di avvio del procedimento di cui all' art. 7 e ss. della L. n.
241/1990” (Cons. di St., sez. II, 13/06/2019, n. 3968).
Si osserva, in particolare, che “L'ordinanza di demolizione di opere
abusive non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell' art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario né, per lo stesso motivo,
si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che
sussista alcuna violazione dell'art. 3 della citata l. n. 241 del 1990,
tenendo presente che il presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo con la
conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione”
(TAR Piemonte, Torino, sez. II, 19/10/2020, n. 622).
“Invero, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto ad adozione e
contenuti vincolati, non abbisogna di una comparazione dell'interesse
pubblico al rispetto della disciplina urbanistico-edilizia con l'interesse
privato sacrificato, e nemmeno della valutazione di un affidamento alla
conservazione della situazione di fatto, che il decorso del tempo non
potrebbe mai legittimare” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 04/01/2021,
n. 12; TAR Lombardia, Brescia, I, 1.10.2020 n. 679), “comunque mai per
gli immobili abusivi ricadenti in aree soggette a vincolo paesaggistico”
(Cons. di St., sez. VI, sent. 21/04/2020 n. 2537).
In definitiva, quindi, “Il lungo tempo trascorso dalla realizzazione
dell'opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato
alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione
di fatto illecita” (Cons. di St., sez. V, 26/02/2021, n. 1637).
“E', pertanto, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva
che non sia stata preceduta dall'avviso di inizio del procedimento di cui
all'art. 7, l. n. 241 del 1990, atteso che, da un lato, l'obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e che,
dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 990,
l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta
conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 10/01/2015, n. 107), come nel caso all’esame.
La stessa ordinanza deve ritenersi, poi, sufficientemente motivata
-richiamata, come nel caso di specie, la normativa di riferimento (artt. 27
e 31 del d.P.R. n. 380/2001)-, con la mera affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla
sua rimozione (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori, sia pure riconducibili, come nella fattispecie, nella
loro oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria, del
restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione o della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale cui ineriscono
strutturalmente.
--------------
Ciò posto, non va sottaciuto che “In presenza di manufatti abusivi non
sanati né condonati, gli interventi ulteriori, sia pure riconducibili, come
nella fattispecie, nella loro oggettività alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della
ristrutturazione o della realizzazione di opere costituenti pertinenze
urbanistiche, ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale cui ineriscono strutturalmente” (TAR Campania, Napoli, sez.
IV, 04/07/2018, n. 4415) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo orientamento consolidato, “Ove gli illeciti edilizi
ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione
dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa
acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che,
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi,
assentibili con mera DIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica”.
Ed invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380/2001 non distingue tra opere per cui è
necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la
semplice DIA in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione
per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree
sottoposte a vincolo paesistico”.
“Infatti, per le opere abusive eseguite in assenza di titolo edilizio e di
autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, vige un principio di
indifferenza del titolo necessario all'esecuzione di interventi in dette
zone, essendo legittimo l'esercizio del potere repressivo in ogni caso, a
prescindere, appunto, dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per
realizzare l'intervento edilizio nella zona vincolata (DIA o permesso di
costruire); ciò che rileva, ai fini dell'irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona
vincolata e in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo
paesaggistico che urbanistico”.
--------------
V.2.5. “I suddetti abusi sono stati peraltro effettuati in area
sottoposta a vincolo paesaggistico, ai sensi del d.lgs. 42/2001, (ex art.
1439/1939) e della L. 394/1991, istitutiva dell’Ente parco Nazionale del
Vesuvio, dichiarata di notevole interesse pubblico con D.M. 26.10.1961
nonché in territorio dichiarato sismico” (ordinanza cautelare n. 972 del
05.07.2017).
Orbene, secondo orientamento consolidato, “Ove gli illeciti edilizi
ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione
dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa
acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che,
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi,
assentibili con mera DIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica” (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 03/08/2020, n. 3455).
Ed invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380/2001 non distingue tra opere per cui
è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la
semplice DIA in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione
per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree
sottoposte a vincolo paesistico.” (TAR Campania, Napoli, sez. VI,
07/06/2018, n. 3774; TAR Lazio, Roma, sez. II, 12/06/2018, n. 6567).
“Infatti, per le opere abusive eseguite in assenza di titolo edilizio e
di autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, vige un principio di
indifferenza del titolo necessario all'esecuzione di interventi in dette
zone, essendo legittimo l'esercizio del potere repressivo in ogni caso, a
prescindere, appunto, dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per
realizzare l'intervento edilizio nella zona vincolata (DIA o permesso di
costruire); ciò che rileva, ai fini dell'irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona
vincolata e in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo
paesaggistico che urbanistico” (TAR Campania, Napoli, sez. III,
04/10/2019, n. 4757) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
abusive su area vincolata non è necessario il parere della commissione
edilizia integrata, ciò in quanto l'ordine di ripristino discende
direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di
disposizioni a tutela del paesaggio.
Peraltro, “In tali casi, l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei
luoghi è in re ipsa, poiché la straordinaria importanza della tutela reale
dei beni paesaggistici e ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza
circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa”.
--------------
V.3. Con il terzo motivo di ricorso la parte lamenta la violazione
della legge regionale n. 10/1982 (art. 1) e del d.p.r. 616/1977 (art. 82,
lett. b, d ed e) nonché l’incompetenza dell’organo procedente.
Il provvedimento sanzionatorio sarebbe illegittimo in quanto emanato senza
la preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia integrata
per i Beni Ambientali istituita presso il Comune ex L.reg. n. 10/1982.
L'art. 82 del D.P.R. n. 616/1977 cit. avrebbe, infatti, delegato alle
Regioni "...f) l'adozione dei provvedimenti di demolizione e la
irrogazione delle sanzioni amministrative ..." in materia di beni
ambientali.
In Campania le indicate funzioni sarebbero state trasferite ai Comuni con
leggi reg. 54/1980 e 10/1982. Quest'ultima, in particolare, nell'indicare le
direttive per l'esercizio delle funzioni subdelegate, avrebbe previsto la
formazione di una Commissione Integrata alla quale "è attribuito il
compito di esprimere parere in merito alle materie sub-delegate di cui
all'art. 82, comma 2°, lett. 3), D), e F)".
V.3.1. Il motivo è infondato.
V.3.2. Orbene, secondo condiviso indirizzo giurisprudenziale, “In sede di
emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere abusive su area vincolata
non è necessario il parere della commissione edilizia integrata, ciò in
quanto l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della
disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di
sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio”
(TAR Campania, Napoli, sez. VI, 16/04/2021, n. 2420; Cons. di St., sez. II,
17/02/2021, n. 1452).
Peraltro, “In tali casi, l'interesse pubblico al ripristino dello stato
dei luoghi è in re ipsa, poiché la straordinaria importanza della tutela
reale dei beni paesaggistici e ambientali elide, in radice, qualsivoglia
doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa”
(TAR Lazio, Roma, sez. II, 12/04/2021, n. 4253; TAR Campania, Napoli, sez.
IV, 03/05/2017, n. 2322) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase
esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione. “In quella sede, le parti ben potranno dedurre in ordine alla
situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante
dall'esecuzione della demolizione.
Il dato testuale della legge, a tal proposito, è univoco e insuperabile, in
coerenza con il principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di
demolizione va senz'altro emesso.
Non appare, tuttavia, ultroneo evidenziare che “Soltanto nel caso di opere
realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio, può trovare
applicazione la fiscalizzazione dell'abuso edilizio, consistente nella
sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria può trovare
applicazione; non essendovi, di contro, alcuno spazio per l'applicazione
della norma in caso di totale carenza del titolo edilizio”.
--------------
V.4. Con il quarto motivo di ricorso la parte lamenta la violazione
dell’art. 34, comma 2, D.P.R. 380/2001, laddove dispone che “in
subordine, ovvero nel caso in cui la demolizione arrechi pregiudizio alle
parti conformi al titolo edilizio, è possibile convertire la demolizione in
sanzione pecuniaria, che rimane pertanto assoggettata alla valutazione di
natura tecnico-edilizia-strutturale del dirigente o responsabile
dell'ufficio comunale preposto”.
V.4.1. Nel caso di specie risulterebbe palese il pregiudizio che si
arrecherebbe alla parte ricorrente in caso di demolizioni delle opere
eseguite, dato che gli immobili risulterebbero attualmente abitati dai
rispettivi nuclei familiari, sicché l’abbattimento delle sole parti intimate
nell’ordinanza arrecherebbe non solo un «pregiudizio funzionale», ma
anche di un «pregiudizio strutturale», ancorché incidente sulla
staticità della rimanente porzione, evitabile soltanto a seguito di
interventi costosi e sproporzionati rispetto al valore del bene, divenendo
indispensabile una completa trasformazione dell’assetto distributivo ed
impiantistico della porzione rimanente.
V.4.2. La censura è infondata.
VI.4.3. La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria deve essere, infatti, valutata dall'Amministrazione competente
nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto
all'ordine di demolizione. “In quella sede, le parti ben potranno dedurre
in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato
asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione” (Cons. di St.,
sez. VI, 12/05/2020, n. 2980; TAR Marche, Ancona, sez. I, 26/01/2021, n.
62).
“Il dato testuale della legge, a tal proposito, è univoco e insuperabile,
in coerenza con il principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di
demolizione va senz'altro emesso” (TAR Campania, Napoli, sez. VII,
29/10/2018, n. 6337).
Non appare, tuttavia, ultroneo evidenziare che “Soltanto nel caso di
opere realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio, può trovare
applicazione la fiscalizzazione dell'abuso edilizio, consistente nella
sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria può trovare
applicazione; non essendovi, di contro, alcuno spazio per l'applicazione
della norma in caso di totale carenza del titolo edilizio” (TAR
Campania, Napoli, sez. II, 04/05/2020, n. 1635) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2021 |
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URBANISTICA: Lottizzazione,
sindacati
non sovrapponibili.
In
tema di lottizzazione abusiva ex art. 30, dpr
380/2001, il sindacato del giudice amministrativo non
è completamente sovrapponibile a quello svolto dal
giudice penale relativamente alla fattispecie criminosa di cui all’art. 44
dello stesso dpr, che, seppure in ipotesi avente ad oggetto i medesimi fatti
storici, mira ad
accertare la responsabilità penale dell’imputato con
le relative conseguenze sulla sua libertà personale e,
pertanto, sul piano processuale esige la dimostrazione della responsabilità
oltre ogni ragionevole dubbio.
In tal senso, il Consiglio di Stato, Sez. VI, con
sentenza
19.07.2021 n.
5403.
Nel dirimere una controversia avente ad oggetto l'applicazione
delle sanzioni previste dall'art.
30, dpr 380/2001 per le ipotesi di lottizzazione abusiva,
contestate dal ricorrente per la ritenuta inidoneità
delle condotte a provare l'intento illecito e la destinazione a scopo
edificatorio, il consiglio di stato ha avuto modo di precisare come il
processo amministrativo
abbia ad oggetto un provvedimento amministrativo e
miri a verificarne la legittimità, compendiabile nella
verifica della veridicità dei fatti materiali posti a fondamento e nella
logicità e congruenza della decisione
rispetto ai detti presupposti. Processo amministrati vo e processo penale,
di conseguenza, procedono su bi nari paralleli: il giudizio penale ha
riguardo alla responsabilità dell’imputato (e, per l'effetto, alla confisca
del bene), mentre il giudizio amministrativo attiene alla legittimità del
provvedimento disposto dall’amministrazione, del quale l’acquisizione
dell’area è semplicemente una conseguenza automatica.
Il principio
costituzionale di presunzione di non colpevolezza, invocabile per censurare
un asserito deficit istruttorio
e motivazionale circa l’elemento psicologico dell’illecito contestato,
conclude quindi la sentenza, può al più
essere speso per contestare l’applicazione della sanzione penale accessoria
della confisca urbanistica di
cui all’art. 44, dpr 380/2001, ma non per contestare la
sanzione amministrativa dell’acquisizione coattiva
dell’immobile al patrimonio del comune ex art. 30,
comma 8, dpr 380/2001, in quanto atto vincolato (articolo ItaliaOggi del 15.10.2021). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la prevalente e condivisibile giurisprudenza, “il provvedimento di
repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro
provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della P.A.,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza
dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una
delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione,
essendo sufficiente la mera descrizione e rappresentazione del carattere
illecito dell'opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione
dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con
l'interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se
l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli
interventi legislativi succedutisi nel tempo”.
La giurisprudenza osserva che “l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi,
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non può ammettersi alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può giammai legittimare, né l'interessato può dolersi del fatto
che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti
repressivi”.
Peraltro, la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato espressamente
sancisce che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al
ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata che impongano la rimozione
dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino”.
---------------
11.3. E’, inoltre, infondato il terzo motivo di ricorso atteso che, secondo
la prevalente e condivisibile giurisprudenza, “il provvedimento di
repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro
provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della P.A.,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza
dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una
delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione,
essendo sufficiente la mera descrizione e rappresentazione del carattere
illecito dell'opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione
dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con
l'interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se
l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli
interventi legislativi succedutisi nel tempo (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, sent. 20.07.2011, n. 4254; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 07.09.2009, n. 5229; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14.05.2007,
n. 2441; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29.05.2006, n. 3270)” (TAR
per la Campania – sede di Napoli, sez. II, 21.01.2019, n. 291; nella
giurisprudenza della Sezione, cfr.: TAR per la Lombardia – sede di
Milano, Sez. II, 12.12.2019, n. 2660).
La giurisprudenza osserva che “l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi,
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non può ammettersi alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può giammai legittimare, né l'interessato può dolersi del fatto
che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti
repressivi” (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; Consiglio
di Stato, sez. V, 27.04.2011, n. 2497; Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 79).
Peraltro, la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato espressamente
sancisce che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al
ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata che impongano la rimozione
dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 17.10.2017 n. 9; nella giurisprudenza della Sezione, cfr.,
ex aliis, TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, ordinanza 02.05.2019, n. 510; Id., 05.07.2021, n. 1650)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 19.07.2021 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità
urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto,
con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste
un obbligo di provvedere; ciò comporta altresì il permanere della facoltà di
provvedere espressamente.
---------------
Per quanto poi riguarda il preliminare verificarsi del silenzio-rigetto,
assume rilievo dirimente il principio (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez.
VI, 06.06.2018, n. 3417) per cui il silenzio serbato dal Comune sull'istanza
di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di
silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una
volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere;
ciò comporta altresì il permanere della facoltà di provvedere espressamente,
nella specie esercitata ragionevolmente, anche a fronte del supplemento
istruttorio svolto dall’amministrazione (cfr. istanza di integrazione del
12.02.2013)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.07.2021 n. 5251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Al riguardo si legga anche:
● T. Facciolini,
Sanatoria, il potere della P.A. di provvedere non cessa al decorso dei 60
giorni (14.04.2022 - link a https://rivista.camminodiritto.it).
...
Con sentenza sentenza numero 5251 del 2021, il Consiglio di Stato ha
stabilito il principio secondo cui il silenzio serbato dal Comune
sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di
silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una
volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere;
ciò comporta, altresì, il permanere della facoltà di provvedere
espressamente anche a fronte del supplemento istruttorio svolto
dall’amministrazione.
...
Sommario: 1. La sanatoria ordinaria e la sanatoria straordinaria: i
presupposti e le finalità; 2. La fiscalizzazione degli abusi edilizi; 3. La
sentenza numero 5251 del 2021 del Consiglio di Stato. |
giugno 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Autorizzazione paesaggistica
illegittima – Macroscopica illegittimità – Poteri-doveri del
giudice.
Il reato di cui all’art. 181, comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004, analogamente a quello di cui all’art.
44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, è
configurabile non solo quando i lavori sono eseguiti senza
autorizzazione paesaggistica, ma pure quando sono realizzati
sulla base di un’autorizzazione paesaggistica illegittima.
Tanto premesso bisogna ritenere che sussista la
configurabilità del reato di cui all’art. 181, comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004, allorquando l’autorizzazione
paesaggistica sia stata rilasciata per un intervento
edilizio la cui realizzazione determina –in modo
macroscopico– un volume superiore a quello consentito dalla
disciplina urbanistica.
Sicché, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare
in via incidentale la legittimità della autorizzazione
paesaggistica, senza che ciò comporti l’eventuale
“disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi
dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, in
quanto il suo esame riguarda solo l’integrazione o meno
della fattispecie penale con riferimento all’interesse
sostanziale tutelato, e rispetto a tale fattispecie «gli
elementi di natura extrapenale convergono organicamente,
assumendo una valenza descrittiva».
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – DIRITTO URBANISTICO –
EDILIZIA – Reati edilizi/paesaggistici – Configurabilità di
concorso formale dei reati – DIRITTO PROCESSUALE PENALE –
Inapplicabilità del divieto del bis in idem – Art.
649 cod. proc. pen..
Tra le contravvenzioni previste
dall’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 181, comma
1, d.lgs. n. 42 del 2004 è configurabile un’ipotesi di
concorso formale di reati, con la conseguente
inapplicabilità del divieto del bis in idem stabilito
dall’art. 649 cod. proc. pen., attesa la diversa obiettività
giuridica e la diversa condotta punita.
Questa, infatti, va individuata, nel reato edilizio, nella
esecuzione di un’opera senza permesso di costruire posta a
prevalente tutela dell’assetto urbanistico e, nel secondo,
senza la autorizzazione della competente sovrintendenza
prevista a tutela, prevalentemente, del patrimonio
artistico, storico e archeologico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al
reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione
di
lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la
"macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un
significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo
dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione
essenziale per
l'oggettiva configurabilità del reato.
---------------
E'
configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R.
n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del
procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia
colposamente
espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo,
in tal modo apportando un contributo causale rilevante ai fini della
determinazione dell'evento illecito.
---------------
8. Manifestamente infondate, di seguito, sono anche le censure relative alla
configurabilità dell'art. 44 in esame sotto il profilo soggettivo, esposte
ancora negli
atti da ultimo citati, i quali contestano l'affermazione della colpevolezza
per
l'opinabilità del quadro normativo e la diffusa prassi amministrativa.
8.1. La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di cui
all'art. 44,
comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione
di
lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la
"macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un
significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo
dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione
essenziale per
l'oggettiva configurabilità del reato (così Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice,
Rv. 275565, nonché, in termini sostanzialmente identici, Sez. 3, n. 3979 del
21/09/2018, Cerra s.r.I., Rv. 275850).
8.2. Nella specie, la sentenza impugnata ha ravvisato la sussistenza dei
reati
edilizio (e paesaggistico) a fronte di una macroscopica violazione della
disciplina,
realizzata impiegando l'istituto della cessione di cubatura per eludere
elementari
principi in materia urbanistica e, in particolare, per incrementare la
volumetria
assentibile, in spregio dei vincoli, in zona di sicuro pregio ambientale
(zona
dichiarata di notevole interesse pubblico, proprio per le sue
caratteristiche).
8.3. Ebbene, si tratta di una conclusione immune da vizi, a maggior ragione
se si considera che l'illegittimità del ricorso all'istituto della cessione
di cubatura,
per difetto del requisito della "reciproca prossimità" tra i fondi, già
all'epoca del
rilascio del permesso di costruire (2011) era stata a più riprese affermata
dalla
giurisprudenza amministrativa (si richiamano le decisioni Cons. Stato, Sez.
5, n.
400 del 01/04/1998; Cons. Stato, Sez. 5, n. 1172 del 03/03/2003; Cons.
Stato,
Sez. 5, n. 6734 del 30/10/2003).
9. Con riguardo, poi, alle posizioni dei singoli ricorrenti, queste
conclusioni
valgono per certo nei confronti di Ca., Pe. e Ri., tecnici
esperti
della materia (il primo quale progettista, il secondo come responsabile del
procedimento ed il terzo come tecnico comunale che aveva rilasciato il
permesso
di costruire n. 122/2011).
A questo proposito, peraltro, non possono essere
ammesse le doglianze sollevate da Ri. e Pe. con il primo motivo,
nel
quale sostengono di non aver ricoperto il ruolo di responsabile del
procedimento
edilizio (Ri.) o paesaggistico (R. e Pe.), così come di
non aver
rilasciato il permesso di costruire (Ri.), né l'autorizzazione
paesaggistica
(Ri. e Pe.); queste censure, infatti, si fondano su profili di
puro merito,
propri della sola fase della cognizione e non proponibili innanzi alla Corte
di
legittimità, specie in assenza di adeguata allegazione documentale.
Deve
ritenersi
acquisito, dunque, il dato obiettivo riportato nella sentenza, in forza del
quale il
permesso di costruire illegittimo -documento cardine per la consumazione
delle
contravvenzioni ex capi A) e B)- era stato rilasciato dal Pe.,
all'esito di un
procedimento del quale era stato responsabile il Ri..
Con riguardo a
quest'ultimo, peraltro, non può accogliersi neppure la tesi secondo la
quale,
quand'anche riscontrata la carica formale, l'istruttoria non avrebbe
comunque
dimostrato alcun ruolo sostanziale nell'emissione del provvedimento; deve
qui
ribadirsi, infatti, che è configurabile il concorso nel reato di cui
all'art. 44 del d.P.R.
n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del
procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia
colposamente
espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo,
in tal modo
apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione
dell'evento
illecito (tra le altre, Sez. 3, n. 7765 del 07/11/2013, Benigni, Rv. 258300;
Sez. 3,
n. 8225 del 18/12/2020, Pettina+altri, non massimata).
E che, nel caso di
specie,
il responsabile del procedimento Ri. avesse espresso parere favorevole, il
19/10/2010, lo afferma lo stesso ricorso (pag. 5) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA:
In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza
di legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico
ufficiale che emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato
di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di
un
permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen.
per il
reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R.
06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio
urbanistica del Comune, in quanto titolare di una posizione di garanzia e
dunque dell'obbligo di impedire l'evento.
Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una
responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio
urbanistica del
Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo
del
medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b) e
c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia
apportato,
nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e
consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame.
In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione
della
permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento
dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato
nella giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico
cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese
le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi,
da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci.
Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando
dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto
costituente
l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma
dell'art. 110 cod. pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la
Relazione
al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il
fatto sia
oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di
tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il
legame,
invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una
associazione di
cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei
compartecipi
deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la
giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle
soluzioni
accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo
l'indirizzo più
rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si
individua,
per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento
dell'ultimo
atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione
di atti di
trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione
dei
manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i
concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione,
della
irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione,
e della
rilevanza, invece, di quello di consumazione del reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo.
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore
lottizzatore
permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli
acquirenti nei
singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta
edificatoria dei
concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e
soltanto per i singoli acquirenti che non hanno dato causa alla
lottizzazione la permanenza cessa con la conclusione della attività da
ognuno di essi posta in essere sul proprio lotto.
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale
nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività
edificatoria con il
rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare
che anche
nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data
dell'ultimazione
dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza
definitiva
dagli stessi.
In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in
relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181,
comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004.
Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del
concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi
illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità
paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Anche
in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene extraneus
rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un
contributo
causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa,
sono
applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs.
n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di
legittimità,
ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il
sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado,
quando
la contestazione è di natura "aperta".
Con la conclusione che, anche con riferimento a questa
contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale
secondo
cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla
commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente
l'illecito
penale.
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13. Manifestamente infondate, di seguito, sono peraltro anche le censure
riguardanti il concorso dei pubblici ufficiali nel reato edilizio e nel
reato
paesaggistico, esposte nei ricorsi Ri. e Pe., che contestano sia
la
configurabilità della responsabilità concorsuale per detti reati a carico
dei soggetti
responsabili del rilascio del permesso di costruire, sia l'affermazione
della
persistenza della condotta illecita dei medesimi anche dopo il momento del
rilascio
di tale titolo autorizzatorio.
13.1. In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico ufficiale
che
emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato di cui all'art.
44,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
13.2. In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di
un
permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen.
per il
reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 06.06.2001, n.
380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del
Comune, in
quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di
impedire
l'evento (cfr., per la soluzione affermativa, Sez. 3, n. 4911 del
14/07/2016,
Scarpa, Rv. 269260, e Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D'Ascanio, Rv.
228888,
nonché, per la tesi opposta, Sez. 3, n. 5439 del 25/10/2016, Colasante, Rv.
269247, e Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785).
13.3. Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una
responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio
urbanistica del
Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo
del
medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b) e
c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia
apportato,
nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e
consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame
(così,
testualmente, sia Sez. 3, n. 5439 del 2017, Colasante, cit., sia Sez. 3, n.
9281 del
2011, Bucolo, cit.; cfr. ancora, nel senso della configurabilità del
concorso
commissivo del pubblico ufficiale nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2001, Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D'Alterio, con riferimento ad un
componente della commissione edilizia).
13.4. In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione
della
permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento
dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato
nella
giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico cessa con
l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le
rifiniture,
ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in
base
a dati obiettivi ed univoci (così, tra le tante, Sez. 3, n. 13607 del
08/02/2019,
Martina, Rv. 275900, e Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498).
13.5. Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando
dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto
costituente
l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma
dell'art. 110 cod.
pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la
Relazione
al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il
fatto sia
oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di
tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il
legame,
invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una
associazione di
cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei
compartecipi
deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
13.6. In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la
giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle
soluzioni
accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo
l'indirizzo più
rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si
individua,
per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento
dell'ultimo
atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione
di atti di
trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione
dei
manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i
concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione,
della
irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione,
e della
rilevanza, invece, di quello di consumazione del reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo' (Sez. 3, n. 48346 del
20/09/2017,
Bortone, Rv. 271330, e Sez. 3, n. 35968 del 14/07/2010, Rusani, Rv. 248483).
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore
lottizzatore
permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli
acquirenti nei
singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta
edificatoria dei
concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e
soltanto per i
singoli acquirenti che non hanno dato causa alla lottizzazione la permanenza
cessa
con la conclusione della attività da ognuno di essi posta in essere sul
proprio lotto
(cfr. in questo senso, in particolare, Sez. 3, n. 20671 del 20/03/2012,
D'Alessandro, Rv. 252914, e Sez. 3, n. 1966 del 05/12/2001, Venuti, Rv.
220853).
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale
nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività
edificatoria con il
rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare
che anche
nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data
dell'ultimazione
dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza
definitiva
dagli stessi.
14. In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in
relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181,
comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004.
14.1. Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del
concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi
illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità
paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Anche
in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene
extraneus
rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un
contributo
causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa,
sono
applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
14.2. Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1,
d.lgs.
n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di
legittimità,
ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il
sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado,
quando
la contestazione è di natura "aperta" (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n.
43173 del
05/07/2017, Zanella, Rv. 271336, e Sez. 3, n. 30130 del 30/03/2017, Dinnella,
Rv. 270254).
14.3. Con la conclusione che, anche con riferimento a questa
contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale
secondo
cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla
commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente
l'illecito
penale.
14.4. Facendo applicazione dei canoni indicati, risulta dunque corretta
l'affermazione di responsabilità penale di Ri., Pe. e Ca.
anche
per il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Quanto,
invece, a
Sc., si richiamano le stesse considerazioni già espresse in ordine alla
contravvenzione sub A), non riscontrandosi una diversa o più approfondita
motivazione sulla diversa fattispecie paesaggistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Provvedimento amministrativo
illegittimo – Concorso del pubblico ufficiale nei reati
urbanistici, edilizi e paesaggistici – Presupposti –
Permanenza e cessazione del reato – Giurisprudenza.
Si configura il reato del pubblico
ufficiale nell’ipotesi di concorso commissivo nella
fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c),
d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che l’extraneus
abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un
contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo
del dolo o della colpa)
(si veda, Cass. Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D’Alterio,
sulla configurabilità del concorso commissivo del pubblico
ufficiale nel reato “proprio” di cui all’art. 44 d.P.R. n.
380 del 2001, con riferimento ad un componente della
commissione edilizia).
Di conseguenza, anche la permanenza del
concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all’art.
44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al
compimento dell’attività edificatoria cessa con
l’ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo
comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza
definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati
obiettivi ed univoci.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Reato di falso ideologico –
Responsabile dell’ufficio tecnico competente (dirigente o
responsabile dell’UTC) – Posizione di garanzia – Obbligo di
impedire l’evento – Limiti ai criteri di valutazione ed
attività è assolutamente discrezionale – Rilascio di
autorizzazione paesaggistica.
Il reato di falso si configura con il
rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del
responsabile dell’ufficio tecnico competente, nella
consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti
giuridico-fattuali per l’accoglimento della relativa
domanda, essendo l’organo competente obbligato a svolgere in
qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le
necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza
delle relative condizioni.
Sicché, è configurabile il delitto di falso ideologico nella
valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi.
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il
pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l’atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di
valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti
implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa
Suprema Corte ha ripetutamente affermato che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella
consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza
dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda,
essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in
merito
alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa,
dunque,
si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di
falso
ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente
indiscussi.
In
altri
termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero
nella scelta
dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e,
come
tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la
verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso
di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in
presenza
di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad
una verifica
di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non
sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Come peraltro è stato evidenziato
in una
vicenda del tutto simile,
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità
urbanistica e la
compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un
giudizio
in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri
normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica
quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
---------------
15. Del tutto infondate, infine, sono le censure che attengono alla
configurabilità, sotto il profilo oggettivo, del reato di falsità ideologica
in certificati
commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, di cui
all'art. 481 cod. pen., per come riqualificata l'originaria imputazione di
cui all'art. 479
cod. pen.
15.1. Il reato di falso ideologico è stato ritenuto sussistente dai Giudici
del
merito in relazione al permesso a costruire, rilasciato da Ri. e
Pe. nei
termini richiamati, laddove questi hanno attestato la compatibilità
paesaggistica
dell'intervento edilizio -descritto nella relazione paesaggistica, allegata
all'istanza
redatta dal tecnico Ca. (e recepita nel permesso di costruire)- per
effetto
dell'illegittimo accorpamento di fondi non contigui e, dunque, atti
ideologicamente
falsi perché fondati su falsi presupposti per la sua emanazione.
15.2. Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti
implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo
l'accettazione
di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa
Suprema Corte ha ripetutamente affermato (Sez. 3 n. 46239 del 12/07/2018,
Rv. 274207; Sez. 3, n. 38838 del 09/07/2018, Morciano, non mass.; Sez. 3, n.
28713 del 19/04/2017, Colella ed altri, non massimata, Sez. 3, n. 42064 del
30/06/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016,
Renna,
Rv. 267953), che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella
consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza
dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda,
essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in
merito
alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa,
dunque,
si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di
falso
ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente
indiscussi (Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Morciano e altri, non mass.;
Sez. 3,
n. 52605 del 04/10/2017, Renna, non mass.; Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M
in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua
volta
richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
In
altri
termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero
nella scelta
dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e,
come
tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la
verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso
di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in
presenza
di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad
una verifica
di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non
sia
rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (cfr. anche
Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305;
si vedano anche
Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del
21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Come peraltro è stato evidenziato
in una
vicenda del tutto simile (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non
massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna,
cit. e Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata),
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità
urbanistica e la
compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un
giudizio
in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri
normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica
quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
15.3. Tanto premesso in generale, la Corte territoriale ha condiviso e
seguito
l'indirizzo qui riportato, così ritenendo che il provvedimento edilizio
rilasciato da
Ri. e Pe. fosse fondato su presupposti paesaggistici falsi,
contenuti
nella relazione redatta dal Ca., come tale anch'essa falsa.
15.4. In particolare, il Giudice di appello ha verificato che gli imputati
avevano
attestato la compatibilità ambientale di un intervento avente una volumetria
superiore a quella sviluppabile dal fondo interessato all'edificazione,
senza alcun
riferimento alla sussistenza dei presupposti legittimanti l'accorpamento di
fondi,
sebbene non contigui, anzi avallando esplicitamente la piena legittimità
dell'applicazione dell'istituto al fine di conseguire l'aumento geometrico
della
volumetria assentibile nell'area interessata all'edificazione.
Consegue,
sempre
secondo la sentenza impugnata, che proprio l'omessa considerazione in tutti
gli
atti della pratica edilizia, sia riconducibili al tecnico "privato" sia a
quello comunale,
delle condizioni di legittimità dell'accorpamento ed anzi l'esplicito avallo
della
legittimità di tale istituto era compatibile esclusivamente con la scelta,
preordinata
consapevole e condivisa, di realizzare l'opera in zona agricola con
l'indicazione di
dati ed informazioni apparentemente veridiche ma, in realtà, frutto di
mistificazione degli elementi fattuali al fine di esprimere valutazioni
conclusiva
platealmente false.
15.5. E' dunque evidente che la valutazione di compatibilità ambientale
espressa nell'autorizzazione paesaggistica era fondata su presupposti
contrastanti
con i parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento edilizio
realizzato, previa cessione di cubatura in favore di un fondo agricolo su
fascia
costiera, illegittimo non essendo i fondi contigui, parametro che viene in
rilievo sia
ai fini del rispetto degli strumenti urbanistici che ai fini ambientali e
sul giudizio di
valorizzazione del sito.
15.6. La maggior volumetria del manufatto da realizzare in zona agricola e
di
pregio, per effetto dell'illegittimo accorpamento di fondi non confinanti,
l'assenza di un intervento volto alla realizzazione di aziende agricole e
finalizzato allo
sviluppo e al recupero del patrimonio produttivo, la realizzazione di una
civile
abitazione, costituivano i dati maggiormente significativi sulla scorta dei
quali
doveva essere formulato il giudizio di compatibilità (anche) paesaggistica,
di talché debbono ritenersi falsi i provvedimenti che si esprimono su tali basi in
contrasto con i parametri normativi.
Sia l'attestazione paesaggistica che il
permesso a costruire erano, così, la diretta conseguenza dei falsi parametri
contenuti nella relazione paesaggistica redatta dal Ca., e come tale
anch'essa falsa (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
maggio 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Per verificare eventuali abusi edilizi,
il comune non ha la possibilità di
eseguire coattivamente gli accessi agli edifici interessati in assenza di
autorizzazione dell’A.G..
Circa la necessità del nulla osta
dell’autorità giudiziaria, basti rammentare che l’art. 14
Cost. sancisce l’inviolabilità del domicilio, presso il
quale l’esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto
delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della
libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali
nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità
e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri
di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non
contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che
detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente
nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di
illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di
desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è
prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di
polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo
non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati
dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo
al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per
l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla
legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in
materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4,
esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per
l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata
dimora”, volendo significare, a contrario, che nei luoghi di
privata dimora il potere di ispezione finalizzato
all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere
esercitato affatto.
---------------
1. La signora Su.Ve. agisce in veste di procuratrice
generale dei propri genitori, signori Ra.Ve. e Pi.Mi., i
quali sono proprietari e condomini di alcuni fabbricati
ubicati in Poggibonsi, alla via ....
Ella espone di aver presentato al Comune di Poggibonsi,
nella medesima veste, un’istanza di accesso contenente
altresì la denuncia di una cospicua serie di abusi edilizi
che sarebbero stati commessi in danno dei predetti
fabbricati da altri condomini, ovvero dai proprietari di
immobili confinanti.
L’istanza-denuncia è stata protocollata dal Comune il
19.10.2020. Non avendo ottenuto riscontro, il 10.12.2020 la
signora Ve. si è rivolta al segretario comunale per
sollecitare l’attivazione dei poteri sostitutivi
disciplinati dall’art. 2, co. 9-bis e 9-ter, della legge n.
241/1990.
Con la nota del 21.12.2020, in epigrafe, il segretario
comunale ha tuttavia rifiutato di intervenire, sul
presupposto che la mancata definizione dei procedimenti
sanzionatori degli abusi in questione, avviati sin da epoca
precedente alla presentazione dell’istanza-denuncia, sarebbe
dipesa dalla necessità di fare accesso ai luoghi interessati
dalle opere asseritamente illegittime, attività necessitante
dell’assenso dell’autorità giudiziaria, chiesto dal Comune e
non ancora pervenuto.
Tanto premesso in fatto, la ricorrente affida a un unico
motivo in diritto le proprie doglianze avverso la condotta
serbata nell’occasione dal Comune di Poggibonsi e dai suoi
funzionari, e conclude per l’accertamento dell’illegittimità
della ricordata nota del 21.12.2020, nonché dell’obbligo del
Comune di concludere con provvedimento espresso il
procedimento avviato a seguito dell’istanza-denuncia del
18.10.2020.
La signora Ve. chiede altresì accertarsi se effettivamente
sussistesse la necessità per il Comune di rivolgersi
all’autorità giudiziaria per accedere ai luoghi oggetto
dell’istruttoria e, comunque, condannarsi l’amministrazione
procedente a concludere il procedimento di vigilanza
edilizia entro un preciso termine.
...
2.2. Residua, nondimeno, l’interesse della signora Ve. a
sentire accertata, se non altro ai fini della pronuncia
sulle spese processuali, l’ammissibilità e la fondatezza
della domanda.
Quanto al primo aspetto, le conclusioni spiegate in ricorso
ai punti da 1 a 5 afferiscono tutte all’accertamento della
presunta, ingiustificata, violazione del termine massimo di
durata del procedimento e non eccedono, pertanto, i confini
dell’azione contro il silenzio.
Nondimeno, il ricorso non può essere favorevolmente delibato
nel merito.
L’art. 3 del regolamento comunale sul procedimento
amministrativo del 1997 stabilisce in sessanta giorni il
termine massimo di durata del procedimento. La chiara
espressione utilizzata dalla norma (secondo la quale il
termine stesso, ove non risultante dalla tabella allegata al
regolamento, “deve intendersi non superiore a sessanta
giorni”) non lascia spazio ad alcuna incertezza.
Ne consegue che la sollecitazione ad attivare i poteri
sostitutivi, rivolta dalla ricorrente al segretario comunale
prima che il termine suddetto fosse trascorso, è da
considerarsi prematura.
In disparte gli aspetti formali, nessun ritardo può peraltro
essere imputato al Comune di Poggibonsi nella complessiva
gestione del procedimento.
Come risulta dalla documentazione di causa, è del 17.11.2020
la PEC trasmessa dalla Polizia Municipale di Poggibonsi alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena per
chiedere l’autorizzazione ad effettuare l’accesso agli
edifici interessati dagli abusi edilizi segnalati dalla
ricorrente sin dal luglio del 2020 e, di nuovo, con
l’istanza-denuncia del 19.10.2020 in esame.
La richiesta dell’autorizzazione si era resa necessaria a
fronte dell’opposizione manifestata dai proprietari degli
edifici da ispezionare onde verificarne la regolarità
urbanistico-edilizia, trattandosi di luoghi di privata
dimora.
Il nulla osta all’accesso è stato infine rilasciato dalla
Procura della Repubblica il 07.03.2021, a seguito di
ulteriore istanza del Comune, che, una volta eseguiti gli
accessi e completate le proprie verifiche, ha celermente
definito i procedimenti sanzionatori con le ordinanze del
09.04.2021, di cui si è detto.
Circa la necessità del nulla osta dell’autorità giudiziaria,
basti rammentare che l’art. 14 Cost. sancisce
l’inviolabilità del domicilio, presso il quale l’esecuzione
di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie
prescritte dalla legge per la tutela della libertà
personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali
nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità
e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri
di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non
contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che
detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente
nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di
illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di
desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è
prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di
polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo
non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati
dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo
al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per
l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla
legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in
materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4,
esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per
l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata
dimora”, volendo significare, a contrario, che nei
luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato
all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere
esercitato affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I,
24.03.2005, n. 6361).
Non importa poi stabilire se il nulla osta rilasciato dalla
Procura della Repubblica di Siena nel marzo 2021 integri
l’autorizzazione richiesta dalla legge (la questione
potrebbe, semmai, rilevare nei rapporti tra il Comune e i
proprietari degli immobili oggetto di ispezione, ovvero nel
procedimento penale a carico di costoro). Quel che conta è
che il Comune di Poggibonsi non aveva la possibilità di
eseguire coattivamente gli accessi in assenza di
autorizzazione dell’A.G. e che, una volta ottenuta
l’autorizzazione nelle forme descritte, l’accesso è stato
consentito dai proprietari interessati e il procedimento
sanzionatorio, inevitabilmente rimasto sospeso sino a quel
momento, è stato portato a conclusione (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 14.05.2021 n. 717 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Effetti
della presentazione di una istanza di accertamento di conformità su un
procedimento sanzionatorio già avviato e sul processo.
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●
Edilizia – Abusi - Accertamento di conformità - Ingiunzione a demolire –
Condono - Procedimento sanzionatorio.
●
Edilizia – Sanatoria – Silenzio-rifiuto – Successivo provvedimento –
Possibilità.
●
L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità, quando
sia già stato instaurato un procedimento sanzionatorio, concretizzatosi
nell’adozione di un’ingiunzione a demolire, fa sì che questa perda efficacia
solo temporaneamente, ossia per il tempo strettamente necessario alla
definizione, anche solo tacita, del procedimento di sanatoria ordinaria, con
la conseguenza che, ove questa non venga accolta, il procedimento
sanzionatorio riacquista efficacia senza la necessità, per
l’amministrazione, di riadottare il provvedimento.
Tale mancato accoglimento non impone, peraltro, la successiva riadozione
dell’atto demolitorio, con ciò attribuendo al privato, destinatario dello
stesso, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento,
intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa,
quel medesimo provvedimento (1)
●
Il regime di silenzio-rifiuto previsto in materia di sanatoria
ordinaria di abusi edilizi non preclude un provvedimento tardivo di diniego
espresso, che può essere impugnato anche con atto di motivi aggiunti (2).
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(1) La Sezione ha affrontato il problema degli effetti
dell’avvenuta presentazione di una domanda di sanatoria sul procedimento
sanzionatorio; sul punto rileva l’esistenza di un contrasto
giurisprudenziale in punto di diritto, seppure con differenti sfumature
argomentative: a fronte di un indirizzo per cui la presentazione della
domanda implica ex se l’inefficacia tout court dell’ordine di
demolizione (e degli atti che ne conseguono), con obbligo per
l’amministrazione di pronunciarsi nuovamente sull’illecito edilizio
sottostante (cfr. ex multis Cons. Stato,
sez. VI, 03.03.2020, n. 1540; id.
sez. II, 10.08.2020, n. 4982; id.
20.12.2019, n. 8637; C.g.a.
15.05.2018, n. 271), vi è infatti un’altra corrente
giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della inefficacia solo
temporanea dell’atto, con sua conseguente “riespansione” all’esito
della definizione del procedimento di sanatoria, ovvero di maturazione del
termine legalmente stabilito per la sua definizione (in tal senso, fra le
molte, Cons. Stato,
sez. II, 19.02.2020, n. 1260; id.
13.06.2019, n. 3954; id.,
sez. VI, 01.03.2019, n. 1435; id.
11.10.2018, n. 1171).
Sul piano processuale, la prima opzione si risolve nella necessaria
declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnativa
dell’ordinanza a demolire, a seconda che la richiesta di sanatoria sia
intervenuta prima o dopo la proposizione della stessa, laddove la seconda
implica la possibilità di scrutinare l’atto nel merito.
La Sezione pone a base della propria soluzione conciliativa la ricostruzione
delle differenze, di regime giuridico e sostanziali, tra tipi di sanatoria.
L’accertamento di conformità “determina soltanto un arresto
dell’efficacia dell’ordine di demolizione, che opera in termini di mera
sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell’istanza, che peraltro
sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l’ordine di
demolizione riacquista la sua piena efficacia” (Cons.
Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669).
La soluzione opposta opera invece in caso di condono, sia perché le leggi di
riferimento sono chiare in tal senso, sia perché all’Amministrazione è
richiesto un controllo più penetrante attinente, appunto, la “condonabilità”
di un abuso “sostanziale”, ovvero contrastante con la disciplina
urbanistica.
(2) L’art. 36, comma 3, del T.U.E. fissa in 60 giorni il termine
entro il quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale deve pronunciarsi con adeguata motivazione su un’istanza di
accertamento di conformità, decorsi il quale la richiesta si intende
rifiutata. Secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, cui il
Collegio ritiene di aderire, tale silenzio ha un valore legale tipico di
rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale
vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (Cons.
Stato, sez. IV,
01.02.2017, n. 410; id.
06.06.2008, n. 2691).
La norma, al pari della sua omologa del 1985, non prevede il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria oltre tale termine di 60 giorni, “ma
non dispone espressamente che il decorso del termine ivi indicato
rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento e
specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione
del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle
opere” (Cons.
Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4574).
In mancanza, tuttavia, di un’esplicita prescrizione di decadenza, la
decorrenza del termine di sessanta giorni non consuma il potere
dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza. In subiecta materia
l’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata infatti nell’interesse
precipuo del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita
tutela giurisdizionale. Il successivo, eventuale atto espresso di diniego,
impugnabile con motivi aggiunti, non è inutiliter datum, posto che il
relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della
decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese
dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla
regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì
sine titulo, ma comunque, come più volte ricordato, nel rispetto della
disciplina urbanistica.
Di converso, il terzo (a qualunque titolo) controinteressato non è leso dal
fatto che, dopo un iniziale contegno inerte, l’Amministrazione in seguito
provveda all’accoglimento dell’istanza con atto espresso: a prescindere dal
fatto che, maturato il silenzio-rigetto, il terzo che ne abbia interesse può
compulsare il Comune affinché adotti i conseguenti provvedimenti
sanzionatori, contro l’eventuale accoglimento espresso sopravvenuto il terzo
può insorgere in via giustiziale o giurisdizionale e lamentare non un
inesistente vizio di tardività, ma eventuali illegittimità sostanziali
ostative al positivo riscontro dell’istanza, il cui accoglimento, in
presenza dei presupposti di legge, ha natura vincolata (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 06.05.2021 n. 3545 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Nel merito, l’appello è infondato.
8. Elemento essenziale della controversia è l’inquadramento delle
conseguenze dell’avvenuta presentazione di un’istanza di sanatoria sul
procedimento sanzionatorio per l’originario intervento illecito, vuoi che
esso si sia già concretizzato, come nel caso di specie, nell’adozione
dell’ingiunzione a demolire, vuoi che il Comune non abbia ancora provveduto
al riguardo.
Il Collegio non può disconoscere la presenza al riguardo di un contrasto
giurisprudenziale in punto di diritto, seppure con differenti sfumature
argomentative, di cui è traccia anche all’interno della Sezione.
Segnatamente, a fronte di un indirizzo per cui la presentazione della
domanda implica ex se l’inefficacia tout court dell’ordine di demolizione (e
degli atti che ne conseguono), con obbligo per l’amministrazione di
pronunciarsi nuovamente sull’illecito edilizio sottostante (cfr. ex multis
Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2020, n. 1540; sez. II, 10.08.2020, n.
4982; id., 20.12.2019, n. 8637; C.G.A.R.S., 15.05.2018, n. 271),
vi è un’altra corrente giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della
inefficacia solo temporanea dell’atto, con sua conseguente “riespansione”
all’esito della definizione del procedimento di sanatoria, ovvero di
maturazione del termine legalmente stabilito per la sua definizione (in tal
senso, fra le molte, Cons. Stato, sez. II, 19.02.2020, n. 1260; id.,
13.06.2019, n. 3954; sez. VI, 01.03.2019, n. 1435; id., n. 5854 del
2018 e 11.10.2018, n. 1171).
Sul piano processuale, la prima opzione si
risolve nella necessaria declaratoria di inammissibilità o improcedibilità
dell’impugnativa dell’ordinanza a demolire, a seconda che la richiesta di
sanatoria sia intervenuta prima o dopo la proposizione della stessa, laddove
la seconda implica la possibilità di scrutinare l’atto nel merito, siccome
effettuato dal TAR per la Liguria nella sentenza impugnata.
8.1. Tali divergenze si riscontrano specularmente anche nei Tribunali
territoriali, con la conseguenza, quanto meno inopportuna, di effetti
conformativi differenti da Regione a Regione, spesso stigmatizzati dalla
dottrina di settore.
Sempre allo scopo di correttamente inquadrare la strategicità della tematica nelle politiche di governo del territorio, e
limitando i richiami ai pronunciamenti più recenti, si può dunque ricordare
come si sono espressi reiteratamente nel senso della definitiva inefficacia
dell’ordine di demolizione a seguito di presentazione dell’istanza di
sanatoria il TAR per la Toscana, il TAR per la Lombardia, il TAR
per il Molise e il TAR per la Campania, sede di Salerno; per contro,
propendono per la temporanea sospensione dell’esecuzione del provvedimento,
il medesimo TAR per la Campania, sede di Napoli e il TAR per il Lazio.
Si trova dunque affermato che «la presentazione dell’istanza di accertamento
di conformità, ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e
dell’art. 140 della L.R. n. 1/2005, successivamente all’emanazione
dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere inefficace il
pregresso provvedimento di demolizione, in quanto il necessario riesame
dell’abusività o meno dell’opera obbliga l’Amministrazione ad una nuova
valutazione della situazione di abusività che impatta sulla precedente
ordinanza di demolizione (emanata, appunto, sul presupposto
dell’illegittimità dell’opera), rendendola inefficace; pertanto, anche nel
caso in cui l’accertamento ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 o ex art.
140 della L.R. n. 1/2005 si concludesse negativamente, la P.A. sarà comunque
tenuta ad emanare una nuova ordinanza di demolizione, con l’assegnazione di
un nuovo termine per adempiere; da ciò consegue che l’interesse a ricorrere
del privato proprietario viene traslato, innanzitutto, sugli eventuali
provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria e, successivamente,
sulla nuova ordinanza di demolizione adottata dall’amministrazione in
conseguenza al rigetto dell’istanza di sanatoria edilizia» (TAR per la
Toscana, sez. III, 21.05.2019, n. 749, successivamente ripresa dalla
medesima sezione, 04.02.2021, n. 203).
Può altresì richiamarsi la
sentenza del TAR per la Lombardia (sede di Milano, 23.11.2018, n.
2635), che, dopo aver premesso di pronunciarsi «in linea con la consolidata
giurisprudenza», ha riferito la lettura data delle norme all’istanza di
sanatoria in genere, «sia essa di accertamento di conformità sia essa di
condono», avendo entrambe l’effetto di «rendere inefficace l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione
della stessa per sopravvenuta carenza di interesse».
In senso diametralmente
opposto, può ricordarsi quanto deciso dal TAR per il Lazio (sez. II-quater,
01.02.2021, n. 1245), che egualmente richiamando
«l’orientamento consolidato della giurisprudenza, pienamente condiviso dal
Collegio», ha concluso ricordando come «la presentazione di una istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 non rende
inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendovi dunque
un’automatica necessità per l’amministrazione di adottare, se del caso, un
nuovo provvedimento di demolizione. La domanda di accertamento di conformità
determina infatti “un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ma
tale inefficacia opera in termini di mera sospensione” (così ex multis e da
ultimo: Consiglio di Stato sez. VI, 15.01.2021, n. 488), sicché qualora
si formi il silenzio-rigetto per il decorso infruttuoso dei 60 giorni, ai
sensi dell’art. 36, comma 3, ovvero l’amministrazione adotti un
provvedimento di rigetto espresso, l’ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia».
Infine il TAR per la Campania, sede di Napoli (21.01.2021, n. 469), contraddicendo quanto a suo tempo ritenuto dai giudici della
sede staccata di Salerno (sez. I, 15.11.2013, n. 2266) afferma «che
l’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n.
380/2001 non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l’efficacia, ma ne sospende soltanto gli
effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il
risultato che non dovrà essere riesercitato il potere sanzionatorio e che la
demolizione, come nella specie, potrà (e dovrà) essere portata ad esecuzione
dall’onerato una volta rigettata l’istanza, decorrendo il relativo termine
di adempimento dalla conoscenza del diniego (orientamento consolidato: cfr.
per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.02.2015 n. 466)».
Al di là,
dunque, delle apprezzabili motivazioni e argomentazioni sottese a ciascuna
delle richiamate, non è chi non veda come l’effetto pratico delle stesse si
risolva in una potenziale gestione a geometria territoriale variabile delle
pratiche di sanatoria, con indicazione dell’obbligo di reiterazione del
provvedimento demolitorio e conseguente sostanziale remissione nei termini
per ottemperare in alcune di esse, laddove ciò risulta almeno di regola
sconsigliato in altre.
9. Tanto premesso, il Collegio ritiene necessario chiarire sinteticamente i
contorni giuridici della controversia, anche allo scopo di individuare, per
quanto possibile, la radice normativa di tali letture contrapposte. Non
senza premettere come in realtà le maggiori problematiche, cui il giudice ha
tentato di porre rimedio, conseguono alle distorsioni applicative degli
uffici, la cui prassi è spesso connotata, soprattutto in ambito
urbanistico-edilizio, da eterogeneità gestionali perfino sull’inquadramento
terminologico dei singoli interventi (per rimediare alle quali si pensi, da
ultimo, all’avvenuta approvazione di un vero e proprio “glossario unico” in
attuazione dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 con decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 07.04.2018).
Le lungaggini
istruttorie peraltro costituiscono un fattore di criticità spesso portato ad
esempio delle difficoltà pratiche connesse all’effettivo utilizzo degli
strumenti di semplificazione via via introdotti dal legislatore. La non
semplice ricerca di un punto di equilibrio tra la doverosa
responsabilizzazione del privato, che deve darsi cura di corredare le
proprie istanze con quanto necessario da subito ad attribuire loro
consistenza e renderle “esaminabili” dall’Amministrazione e, quale contraltare, l’approccio collaborativo di quest’ultima, si gioca spesso
proprio sulla auspicata unicità e tempestività delle richieste di
integrazione, evitando la reiterazione dei contatti per il semplice tramite
di una valutazione iniziale esaustiva e trasparente (anche a tale riguardo,
si veda la novella all’art. 20 del T.U.E. attuata con il d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.09.2020, n.
120, che con riferimento al permesso di costruire ha espressamente previsto
che, fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello
unico per l’edilizia dei Comuni rilasci anche in via telematica, entro
quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il
decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di
integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di
diniego).
10. Va ora ricordato come col termine “sanatoria” vengono tradizionalmente
intesi due istituti completamente diversi per presupposti e finalità, il cui
unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella
legittimazione di un intervento successiva alla sua realizzazione.
10.1. L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste dunque
nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì
effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza
violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua
realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia
conformità”).
La genesi dell’istituto risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (art. 13),
che ha ripreso, ampliandone la portata, la limitata previsione già contenuta
nella l. 28.01.1977, n. 10. Prima di allora, già si disquisiva in verità
in ordine alla ammissibilità della sanatoria, anche parziale, degli illeciti
edilizi, e si era comunque fatto strada l’orientamento in base al quale
l’amministrazione poteva rilasciare una licenza postuma per le opere
edificate senza o in contrasto con il titolo edilizio, purché conformi allo
strumento urbanistico in vigore al momento del rilascio. Oggi la relativa
disciplina è stata trasfusa nell’articolo 36 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 (T.U.E.), che prevede un procedimento a domanda di parte, sostituito in
alcune Regioni dalla presentazione di una S.C.I.A.
11. La parola “condono”, invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto
rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia
linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata
sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una
sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie
penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia
si sono succedute tre leggi di condono: la prima è contenuta nei capi IV e V
della l. n. 47/1985, e dunque si collocava almeno in un contesto di nuova
regolamentazione della materia con l’introduzione di una serie di strumenti
dissuasivi per gli abusi futuri; le successive, invece, si inseriscono in
testi del tutto eterogenei e per lo più finalizzati ad esigenze di pubblico
erario, e si risolvono nella sostanziale estensione del lasso di tempo entro
il quale l’abuso doveva essere stato ultimato per poter fruire del
beneficio.
Trattasi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 (c.d.
“secondo condono”), la cui disciplina procedimentale è stata completata con
la l. n. 662 del 1996; nonché dell’art. 32 della l. 24.11.2003, n.
326, di conversione del d.l. 30.09.2003, n. 269, che ha applicato la
disciplina del condono, quale risultante da ridetti capi IV e V della l. n.
47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere
abusive ultimate entro il 31.03.2003, seppure ponendo l’ulteriore limite
che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri cubi.
12. Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al
condono si siano chiuse rispettivamente il 30.11.1985, il 31.03.1995 e il 10.12.2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto:
sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze,
infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono
ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza,
al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi
delle sanatorie edilizie.
12.1. L’art. 35, comma 17, della l. n. 47/1985, prevede che «Fermo il
disposto del primo comma dell’articolo 40 [rappresentazione dolosamente
infedele]e con l’esclusione dei casi di cui all’articolo 33 [contrasto con
vincoli nominativamente indicati ], decorso il termine perentorio di
ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende
accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme
eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico
erariale della documentazione necessaria all’accatastamento».
Il significato di accoglimento attribuito al silenzio serbato sulle istanze
di condono va comunque conciliato con il rilievo che spesso le stesse non
presentano neppure i requisiti minimi ovvero sono prive del corredo
documentale obbligatorio perché il termine possa perfino cominciare a
decorrere. Sul punto, è sufficiente ricordare quanto più volte affermato da
questo Consiglio di Stato, ovvero che la completezza della domanda, «sia nel
senso del corredo documentale obbligatorio, che avuto riguardo alle somme
dovute, incide sia sulla decorrenza del termine per la formazione del
silenzio assenso, sia ai fini della riconosciuta possibilità
all’Amministrazione di verificare la congruità dei versamenti effettuati» (cfr.
ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 12.04.2021, n. 2952).
Quanto detto non giustifica tuttavia le rilevate giacenze, stante che a
maggior ragione a fronte di iniziative inconsistenti sul piano giuridico il
Comune dovrebbe determinarsi nel senso dell’archiviazione o del rigetto,
anziché attendere una qualche iniziativa compulsiva della parte privata, con
ciò riallineando la situazione di diritto a quella di fatto.
13. Ciò a maggior ragione tenuto conto che l’art. 38, comma 1, della legge
n. 47 del 1985, prevede espressamente che «La presentazione entro il termine
perentorio della domanda di cui all’articolo 31, accompagnata dalla
attestazione del versamento della somma di cui al primo comma dell’articolo
35, sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni
amministrative».
Il successivo art. 44 della medesima legge, precisa poi che
dalla sua entrata in vigore e fino alla scadenza dei termini per la
presentazione della domanda di condono, «sono sospesi i procedimenti
amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché
quelli connessi all’applicazione dell'articolo 15 della legge 06.08.1967,
n. 765, attinenti al presente capo».
L’indicazione, comprensibile in ragione
della particolare incisività del vaglio richiesto all’Amministrazione,
finanche con riferimento alla correttezza dell’oblazione sulla base di
indicazioni tipologiche tabellari non sempre di immediata applicabilità, in
combinato disposto con i ritardi nella definizione delle pratiche, che
seppure incomplete non vengono né respinte né compulsate dalle parti,
determina una stigmatizzabile procrastinazione di rimozioni comunque
ineludibili giusta la natura permanente dell’illecito edilizio.
14. La maggiore laconicità delle indicazioni del legislatore in materia di
sanatoria ordinaria, non implica affatto neutralità o disinteresse alla
problematica, sì da rendere la lacuna colmabile liberamente dall’interprete.
Al contrario, essa sottintende una scelta ben precisa e del tutto diversa da
quella -esplicitata- in materia di condono. E’ proprio la natura e
l’incisività delle verifiche richieste in un caso e non nell’altro ad
imporre le divergenti conclusioni.
La più volte richiamata natura
sostanziale dell’illecito, seppure già “colpito” da provvedimento sanzionatorio, ne impone un vaglio di compatibilità con il paradigma
normativo a fini di sanatoria. Al contrario, la necessità di istruire la
pratica come si trattasse di richiesta di un titolo preventivo, seppure
avanzata in maniera postuma, non comporta alcun giudizio di valore, ma solo
di astratta conformità e costituisce atto dovuto a condizioni date.
L’illiceità dell’intervento, dunque, nel caso del diniego di condono viene
“ribadita” perché se ne è in concreto esclusa la sanabilità; nel caso della
sanatoria invece viene semplicemente confermata, perché evidentemente
l’opera non rientrava nei canoni della mera irregolarità formale e dunque
l’abuso, insanabile al di fuori delle cornici temporali speciali ricordate,
aveva natura esso pure sostanziale.
14.1. Vero è che sotto la vigenza dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 la
giurisprudenza si era significativamente attestata nel senso che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità non solo impedisse
l’esecuzione dell’ingiunzione, imponendo al Comune il previo esame della
domanda di sanatoria, ma implicasse anche la necessità, in caso di rigetto,
dell’adozione di una nuova misura demolitoria (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. IV, 12.05.2010, n. 2844).
La conferma,
tuttavia, di una disciplina diversificata delle sanatorie conseguita
all’entrata in vigore del T.U.E., induce il Collegio ad aderire
all’orientamento, anche di recente affermato da altra Sezione del Consiglio
di Stato, che vuole distinte le conseguenze giuridiche della presentazione
delle relative domande in caso di condono e in caso di accertamento di
conformità (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.02.2021, n. 1432).
15. Rileva infine il Collegio come l’istanza di accertamento di conformità
spesso consegua proprio all’avvenuto avvio di un procedimento sanzionatorio,
stante che la sua proposizione è consentita fino alla «scadenza dei termini
di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1», ovvero fino
all’irrogazione delle sanzioni amministrative (art. 36, comma 1, del T.U.E.).
E’ pertanto fisiologico che il relativo procedimento intersechi quello
sanzionatorio, che anzi ne costituisce spesso il fattore determinante della
decisione, proprio allo scopo di non incorrere nella effettiva demolizione.
In tale ottica, evidenti ragioni di economicità e coerenza dell’azione
amministrativa portano a ritenere inevitabile una sospensione temporanea
dell’esecuzione del provvedimento demolitorio, ma per il tempo strettamente
necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento. Non vi è
ragione di ritenere che il mancato accoglimento dell’istanza ne imponga poi
la successiva riadozione, con ciò consentendo al privato, destinatario di un
provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una
domanda, finanche pretestuosa, quel medesimo provvedimento.
Quanto detto pone astrattamente l’esigenza, pure prospettata da taluni
interpreti, di “azzerare” quanto meno il termine per la demolizione
spontanea in caso di diniego, evitando che il privato che si sia attivato
allo spirare dei 90 giorni o del diverso termine accordatogli nel
provvedimento, si veda soggetto alla grave conseguenza dell’acquisizione del
bene al patrimonio pubblico senza un minimo di tempo per mettersi
spontaneamente in regola demolendo l’abuso.
L’automatico autonomo
dispiegarsi degli effetti dell’ordinanza già emanata, infatti, incide
necessariamente anche sulle modalità applicative dell’acquisizione gratuita
dell’abuso edilizio, stante che il termine -di 90 giorni o diversamente
indicato nel provvedimento- per l’esecuzione spontanea rimane “congelato”
soltanto durante la pendenza della pratica di sanatoria, ma nel momento in
cui quest’ultima viene rigettata esso riprende automaticamente a decorrere.
Va tuttavia ricordato che l’effetto acquisitivo non consegue all’ordinanza
ingiunzione a demolire, bensì all’accertamento dell’inottemperanza alla
stessa, che per quanto consta nella prassi non avviene mai in maniera
meccanicistica alla scadenza del termine, risolvendosi di fatto in una
diluizione ulteriore dello stesso.
Di tali anomalie della singola
fattispecie, inoltre, potrà -recte, dovrà- farsi carico l’Amministrazione,
valutando l’opportunità di una rimessione in termini o dilazione degli
stessi, ove ad esempio il diniego, sopravvenuto a distanza di molto tempo,
consegua ad interlocuzioni istruttorie ostative alla formazione del silenzio
rigetto, e che anche per tale ragione abbiano ingenerato nel privato una
legittima aspettativa nel buon esito della pratica. Ciò risponde al dovere
delle amministrazioni pubbliche di comportarsi secondo correttezza e buona
fede nei rapporti con i cittadini, che come la Sezione ha già avuto modo di
rilevare (Cons. Stato, sez. II, 20.11.2020, n. 7237) anche la
legislazione ha assecondato progressivamente, inserendone la previsione
nella legge fondamentale sul procedimento amministrativo, n. 241 del 1990, a
sottolinearne la strategicità (v. comma 2-bis dell’art. 1, rubricato
“Principi generali dell’attività amministrativa”, inserito in sede di
conversione del già richiamato decreto legge “semplificazioni”).
16. La regola generale per la definizione del procedimento di sanatoria, è,
dunque, la sua conclusione in 60 giorni. L’art. 36, comma 3, del T.U.E.,
infatti, fissa in tale termine quello entro il quale il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi con adeguata
motivazione, decorsi il quale la richiesta si intende rifiutata. Soprattutto
in passato si è ampiamente disquisito sulla portata della decorrenza
infruttuosa di tale termine sia avuto riguardo ai possibili rimedi accordati
alla parte, sia in relazione alla pronuncia negativa tardiva del Comune (v.
TAR per il Lazio, sez. II, 08.01.1994, n. 2; TAR per la Lombardia,
30.07.1996, n. 1257; TAR per il Molise, 09.12.1994, n. 327, nel
senso che il giudice può statuire solo l’obbligo di provvedere; contra,
TAR per le Marche, 18.12.1992, n. 777; TAR per la Sicilia, 14.06.1991, n. 490, che riconoscono un sindacato sul provvedimento tacito).
La questione appare ormai superata da un diffuso orientamento
giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di aderire, in forza del quale il
silenzio dell’Amministrazione sulla istanza di accertamento di conformità di
cui all’art. 36 del testo unico sull’edilizia ha un valore legale tipico di
rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale
vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego ( cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 01.02.2017, n. 410; id., 06.06.2008, n. 2691).
16.1. Di fatto, la norma, al pari della sua omologa del 1985, non prevede il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria oltre il termine di 60
giorni, «ma non dispone espressamente che il decorso del termine ivi
indicato rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento
e specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione
del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle
opere» (Cons. di Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4574). In mancanza,
cioè, di un’esplicita prescrizione di decadenza, la decorrenza del termine
di sessanta giorni non consuma il potere dell’Amministrazione di provvedere
sull’istanza.
Per vero, infatti, la previsione in subiecta materia di
un’ipotesi di silenzio significativo è stata dettata nell’interesse precipuo
del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita tutela
giurisdizionale. Il successivo, eventuale atto espresso di diniego,
impugnabile con motivi aggiunti, non è inutiliter datum, posto che il
relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della
decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese
dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla
regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo, ma
comunque, come più volte ricordato, nel rispetto della disciplina
urbanistica.
Di converso, il terzo (a qualunque titolo) controinteressato
non è leso dal fatto che, dopo un iniziale contegno inerte,
l’Amministrazione in seguito provveda all’accoglimento dell’istanza con atto
espresso: a prescindere dal fatto che, maturato il silenzio-rigetto, il
terzo che ne abbia interesse può compulsare il Comune affinché adotti i
conseguenti provvedimenti sanzionatori, contro l’eventuale accoglimento
espresso sopravvenuto il terzo può insorgere in via giustiziale o
giurisdizionale e lamentare non un inesistente vizio di tardività, ma
eventuali illegittimità sostanziali ostative al positivo riscontro
dell’istanza, il cui accoglimento, in presenza dei presupposti di legge, ha,
per vero, natura vincolata.
Ciò non senza ricordare come le norme sui
termini, se non incidono sulla validità del provvedimento amministrativo,
rappresentano comunque il parametro alla cui stregua vagliare l’esercizio
dell’attività amministrativa sotto il profilo della liceità.
17. In sintesi, la domanda di condono sospende per esplicita previsione del
legislatore il procedimento sanzionatorio e, laddove sia accolta, determina
la definitiva inapplicabilità delle sanzioni. Di conseguenza le eventuali
ordinanze demolitorie già emanate, pur non essendo illegittime, perdono la
propria efficacia e non possono essere portate in esecuzione. Il tempo
necessario alla definizione della pratica, che implica una effettiva
valutazione dell’abuso sotto il profilo della rispondenza ai parametri,
anche temporali, imposti dalla legge, rende necessario reiterare
l’ingiunzione a demolire, che trova il proprio fondamento non più nella
abusività originaria dell’opera, quanto piuttosto nella sua non
condonabilità.
Questa soluzione è pacifica per la sanatoria straordinaria,
anche perché le leggi di condono sono chiare in tal senso. Ciò si riverbera
sull’eventuale provvedimento acquisitivo, il quale, se assunto prima della
definizione dell’istanza di condono, è illegittimo è suscettibile di
annullamento. Si riverbera altresì sul regime processuale, determinando la
inammissibilità ovvero improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza
demolitoria eventualmente già adottata, in quanto di fatto caducata
(inefficace) dall’avvenuta presentazione della istanza di condono.
Diversamente accade per la sanatoria ordinaria.
La presentazione di una
istanza di accertamento di conformità, infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del
2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi
è pertanto alcuna automatica necessità per l’amministrazione di adottare, se
del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. Essa determina soltanto un
arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, che opera in termini di
mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell’istanza, che peraltro
sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l’ordine di
demolizione riacquista la sua piena efficacia (cfr. ancora, Consiglio di
Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669).
18. Volendo ora ricondurre al paradigma sopra delineato la fattispecie in
controversia, si ha che l’istanza di sanatoria, presentata l’08.07.2011,
ovvero nell’imminenza della scadenza del termine assegnato per demolire
l’abuso con ordinanza n. 2 del 09.04.2011, è rimasta sospesa fino
all’avvenuta maturazione del silenzio rigetto previsto dall’art. 36, comma
3, del T.U.E.
L’accertamento di inottemperanza, peraltro, lungi dall’essere
intervenuto alla scadenza esatta del termine assegnato, consegue ad un
sopralluogo in data 04.01.2012, il cui esito, oggetto dell’odierno
gravame, è stato notificato alla Società il 17.01.2012. La mancata
impugnativa dell’ordinanza ingiunzione a demolire, diversamente da quanto
affermato dal primo giudice, si palesa neutra ai fini dell’odierna
discussione, comunque incentrata sugli effetti della stessa, ovvero
sull’accertamento della sua inottemperanza.
19. Quanto ai contenuti del richiamato accertamento di inottemperanza,
asseritamente generici con riferimento alla esatta individuazione dell’area
da acquisire al patrimonio comunale, il Collegio ritiene che tale atto, in
quanto normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia
meramente dichiarativa, si è limitato a formalizzare l’effetto (acquisizione
gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del
termine assegnato con l’ingiunzione stessa.
L’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è infatti
una misura di carattere sanzionatorio che consegue all’inottemperanza
dell’ordine di demolizione. L’obbligatorietà del provvedimento non esclude
tuttavia l’applicazione del principio amministrativo di proporzionalità: il
bene da acquisire pertanto non solo deve essere individuato con sufficiente
precisione, ma nell’applicazione della sanzione l’amministrazione comunale
può acquisire l’area in misura graduata e strettamente necessaria
all’obiettivo dell’interesse pubblico perseguito.
Alla luce di tale
principio, il Comune di Ameglia valuterà se visto il tempo trascorso
dall’ingiunzione a demolire e dall’accertata inottemperanza sia sufficiente
riferirsi alla stessa al fine di perfezionare l’iter acquisitivo,
inspiegabilmente ancora non concluso, senza che neppure risulti, stante
l’assenza dal processo dell’Amministrazione, lo stato attuale della
situazione in fatto e in diritto, con quanto potrebbe conseguirne in termini
di responsabilità dei funzionari interessati.
20. Per quanto sopra detto, l’appello deve essere respinto e per l’effetto
deve essere confermata la sentenza del TAR per la Liguria n. 699 del
2013, con le precisazioni di cui in motivazione
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 06.05.2021 n. 3545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA: Il presupposto
per l’adozione di un’ordinanza di demolizione non è l’accertamento di
responsabilità nella commissione dell’illecito, bensì l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: il soggetto passivo dell’ordine di demolizione viene,
quindi, individuato nel soggetto che ha il potere/dovere di rimuovere
concretamente l’abuso, potere/dovere (di natura reale) che compete
indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere
destinatario dell’ordine di demolizione, non occorre stabilire se egli sia
responsabile dell’abuso, poiché la stessa disposizione -art. 31, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001- si limita a prevedere la legittimazione passiva
del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione,
senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità.”
In altri termini, nel caso di realizzazione di opere edilizie abusive, è
considerato responsabile anche il proprietario, sebbene non in ragione di
una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell’illecito
edilizio, ma solo in virtù del suo rapporto materiale con la res, gravando
su di lui l’obbligo di collaborazione attiva, tra cui rientra senz’altro la
rimozione di un abuso edilizio, indipendentemente dal fatto che egli fosse o
meno responsabile di tale illecito, atteso che la legge “si limita a
prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile
all’esecuzione dell’ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo
accertamento di una qualche sua responsabilità".
---------------
Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
---------------
Il motivo è infondato.
Nell’atto di provenienza del bene non viene menzionata la presenza di un
gazebo, con la conseguenza che la sua realizzazione si deve presumere ad
opera dell’acquirente, salvo prova contraria a carico della Sig.ra Ad.Ma., essendo suo onere dimostrare la sua estraneità a qualsiasi titolo
-anche solo per averne tacitamente ammesso o tollerato la posa in opera-
al compimento dell’abuso.
La Sezione si è già espressa, proprio con riferimento ad un gazebo,
(Consiglio di Stato, sez. I, n. 608/2020), nel senso che “il presupposto
per l’adozione di un’ordinanza di demolizione non è l’accertamento di
responsabilità nella commissione dell’illecito, bensì l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia: il soggetto passivo dell’ordine di demolizione viene,
quindi, individuato nel soggetto che ha il potere/dovere di rimuovere
concretamente l’abuso, potere/dovere (di natura reale) che compete
indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere
destinatario dell’ordine di demolizione, non occorre stabilire se egli sia
responsabile dell’abuso, poiché la stessa disposizione -art. 31, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001- si limita a prevedere la legittimazione passiva
del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione,
senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità.”
In altri termini, nel caso di realizzazione di opere edilizie abusive, è
considerato responsabile anche il proprietario, sebbene non in ragione di
una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell’illecito
edilizio, ma solo in virtù del suo rapporto materiale con la res, gravando
su di lui l’obbligo di collaborazione attiva, tra cui rientra senz’altro la
rimozione di un abuso edilizio, indipendentemente dal fatto che egli fosse o
meno responsabile di tale illecito (Consiglio di Stato, Sez. II, n.
7535/2019), atteso che la legge “si limita a prevedere la legittimazione
passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di
demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua
responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. II, 12.09.2019, n. 6147)".
...
D’altra parte, il Collegio osserva che in materia non grava
sull’amministrazione un particolare onere motivazionale sulle ragioni che
impediscono di ammettere il manufatto senza titolo edilizio, in disparte
ogni aspetto legato all’aumento di consistenza urbanistica, giacché, come
stabilito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 9/2017, “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino”.
In ogni caso, il provvedimento impugnato viene motivato altresì con
riferimento al vincolo paesaggistico sull’area oggetto dell’intervento e di
cui all’art. 136, D.Lgs. 42/2004, rispetto al quale l’amministrazione non
aveva un particolare onere motivazionale, se non quello di citare la
sussistenza del vincolo.
Per tutte le considerazioni che precedono, il gravame non può trovare
accoglimento
(Consiglio di Stato, sez.VI, n. 300/2020)
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 28.04.2021 n. 791 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Convenzione
di lottizzazione – Assunzione dell’impegno di realizzare opere di
urbanizzazione – Obbligazione propter rem – Ambulatorietà passiva
dell’obbligazione.
La controversia, riguardante la domanda di accertamento
dell’inadempimento di obbligazioni contenute in una convenzione accessiva ad un Programma integrato di intervento con le
correlate conseguenze, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f),
letto in combinazione con l’art. 30, comma 6, cod. proc. amm., poiché
afferisce ad obbligazioni derivanti da strumenti convenzionali che vanno
ricompresi tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi, ai
sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, in materia urbanistica ed
edilizia.
---------------
A fronte dell’inadempimento dei lottizzanti, il
Comune ha avviato il procedimento di escussione della polizza fideiussoria che, in ragione
dell’avvenuto fallimento della società garante, non ha avuto esito positivo.
Dopo alcuni solleciti, il Comune ha avviato il procedimento per la
dichiarazione di decadenza della convenzione per mancato rispetto delle
tempistiche previste dall’art. 3 in ordine ai lavori di sistemazione della
Piazza Europa.
Quindi, avuto riguardo
all’avvenuta scadenza del termine per la realizzazione delle opere, si è
concretizzato un grave inadempimento in capo ai lottizzanti che devono
essere condannati a corrispondere al Comune la somma che il predetto Ente
dovrà impiegare per l’esecuzione in via sostitutiva dei lavori di
adeguamento della Piazza Europa.
Trattandosi di responsabilità di natura contrattuale, si deve applicare il
principio discendente dall’art. 1218 cod. civ., che, in tema di prova
dell’inadempimento di un’obbligazione, onera il creditore che agisce per
l’adempimento o per il risarcimento di provare soltanto la fonte del suo
diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza
dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore è gravato
dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa.
---------------
Nell’art. 3 della convenzione è stato espressamente previsto che «i
soggetti attuatori privati assumono, altresì, nei confronti del Comune, per sé e per i propri aventi causa, tutti gli obblighi
autorizzativi e di carattere economico meglio dettagliati negli articoli
successivi». Quindi anche gli acquirenti successivi sono
subentrati nella posizione negoziale degli originari proponenti e sono
tenuti all’adempimento delle obbligazioni assunte da questi ultimi
attraverso la convenzione attuativa, debitamente trascritta e quindi
certamente opponibile anche ai citati soggetti subentranti.
Del resto, la giurisprudenza è consolidata nel riconoscere alle obbligazioni
assunte in una convenzione urbanistica la natura di obbligazioni propter rem.
Difatti, «in ordine alla questione principale dell’individuazione dei
soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste
da una convenzione di lottizzazione, [si è osservato] che:
a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di
inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica
delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l’ente locale;
b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di
garantire che all’edificazione del territorio corrisponda non solo
l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma
anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che,
nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato
urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’autorità
preposta alla gestione del territorio;
c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi
dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di
cassazione ha sempre affermato che l’obbligazione assunta di provvedere alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una
convenzione edilizia è di natura propter rem;
d) la natura reale dell’obbligazione comporta dunque che
all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che
stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione,
quelli che realizzano l’edificazione ed i loro aventi causa;
e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale
l’assunzione, all’atto della stipulazione di una convenzione di
lottizzazione, dell’impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri
aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del
territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso
pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul
proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di
lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della
concessione edilizia nell’ambito della lottizzazione, sia infine sui
successivi proprietari della medesima res, per cui l’avente causa del
lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di
convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora
dovuti,
risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione
contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica
riguardanti i beni in questione;
f) invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell'obbligazione,
proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei
lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li
rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi».
---------------
Con riguardo alla quantificazione della somma da riconoscere al Comune per
effettuare in via sostitutiva gli interventi previsti dalla convenzione, la
stessa può essere mutuata dal contenuto della Relazione tecnica prodotta in
giudizio e predisposta dal Responsabile del Servizio Tecnico comunale sulla
base del computo metrico allegato alla convenzione del Piano integrato di
intervento oggetto del presente contenzioso, previa decurtazione del costo
delle opere già eseguite in attuazione del previgente Piano di lottizzazione.
In tale documentazione l’importo per effettuare i lavori di sistemazione
della Piazza Europa è indicato in complessivi € 387.700,69
che, pertanto, è la somma da liquidare in favore del Comune a titolo di
risarcimento per l’inadempimento delle obbligazioni infrastrutturative
previste dalla convenzione.
Essendosi in
presenza di un debito di valore, in quanto obbligazione pecuniaria risarcitoria derivante da un fatto illecito di natura contrattuale, la somma
liquidata deve essere rivalutata secondo gli indici Istat e maggiorata degli
interessi legali dalla data di proposizione del giudizio e fino alla
pubblicazione della presente sentenza; a far data dalla liquidazione
giudiziale, il debito di valore si converte in debito di valuta e quindi
sulla somma vantata dal Comune sono dovuti gli interessi corrispettivi,
mentre è preclusa l’ulteriore rivalutazione monetaria.
Sicché, il ricorso deve essere accolto, con la conseguente
condanna delle parti intimate, in solido, al risarcimento del danno
patrimoniale in favore del Comune per l’importo complessivo di € 387.700,69, oltre rivalutazione e interessi
dalla data di proposizione del giudizio e fino al saldo.
---------------
... per l’accertamento:
- dell’inadempimento da parte degli originari proponenti il
Programma integrato di intervento, denominato P.I.I. 1/Via Europa-Via
Vittoria, delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione
sottoscritta con il Comune di Marnate in data 10.12.2008;
- e per la condanna di tutte le parti private, in solido tra loro,
a corrispondere al Comune di Marnate la somma, da determinarsi anche previa
C.T.U., corrispondente ai costi –per spese tecniche, di direzione lavori e
collaudo, e per opere, forniture, noli, pubblicazione bandi e ricerca
contraente e per ogni altra ragione prodromica, conseguente e connessa– che
il predetto Comune dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori
di adeguamento della Piazza Europa, in conseguenza dell’inadempimento
dell’obbligazione infrastrutturativa gravante sugli originari sottoscrittori
della convenzione accessoria al P.I.I. 1/Via Europa-Via Vittoria, con
interessi dalla data della domanda;
- nonché per la condanna delle parti private, in solido tra loro,
alle spese del presente giudizio, con riserva di agire per il risarcimento
dei danni subiti e subendi.
...
1. In via preliminare, va premesso che la controversia, riguardante la
domanda di accertamento dell’inadempimento di obbligazioni contenute in una
convenzione accessiva ad un Programma integrato di intervento con le
correlate conseguenze, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f),
letto in combinazione con l’art. 30, comma 6, cod. proc. amm., poiché
afferisce ad obbligazioni derivanti da strumenti convenzionali che vanno
ricompresi tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi, ai
sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, in materia urbanistica ed
edilizia (cfr., Corte costituzionale, sentenza 15.07.2016, n. 179; Cass.,
SS.UU., 05.10.2016, n. 19914; Cass., SS. UU., 09.03.2015, n. 4683, che
ha confermato Consiglio di Stato, Ad. plen., 20.07.2012, n. 28;
Consiglio di Stato, II, 20.04.2020, n. 2532; TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2021, n. 839; 16.07.2020, n. 1327; 16.03.2020, n. 492;
08.01.2019, n. 36; 31.01.2018, n. 269).
2. Sempre in via preliminare, va dato atto della ritualità
dell’instaurazione del contraddittorio processuale, stante l’avvenuto
deposito delle cartoline da cui si ricava il completamento del procedimento
di notificazione del ricorso con riguardo a tutte le parti intimate (cfr.
allegati in giudizio), sebbene poi le stesse non si siano costituite in
giudizio.
3. Passando all’esame del merito della domanda risarcitoria, la stessa è
meritevole di accoglimento.
4. Il Comune fonda la propria pretesa risarcitoria sul mancato adempimento,
da parte degli originari proponenti il Programma integrato di intervento
denominato P.I.I. 1/Via Europa-Via Vittoria, ossia la società Si.Co. S.r.l., Gi.Zi., Sa.Zi. ed En.De.,
dell’obbligazione inerente alla sistemazione della Piazza Europa, il cui
inizio dei lavori era previsto entro 30 giorni dalla data di stipula della
Convenzione, con ultimazione entro i successivi 180 giorni. In particolare,
i lottizzanti si erano impegnati (i) a pavimentare la piazza con manto in
porfido, (ii) a realizzare l’illuminazione della suddetta piazza, (iii) a
rifare il manto d’usura della Via Ticino e (iv) a realizzare un tratto
viario e dei sottoservizi negli ambiti sopradescritti (art. 4 della
Convenzione: all. 1 al ricorso).
Tuttavia, a fronte dell’inadempimento dei lottizzanti, il Comune ha avviato
il procedimento di escussione della polizza fideiussoria che, in ragione
dell’avvenuto fallimento della società garante, non ha avuto esito positivo
(all. 6 e 7 al ricorso), come nessuna utilità ha ricavato il Comune dalla
ricostituzione della fideiussione presso un altro garante, visto che anche
la richiesta di pagamento inoltrata a tale soggetto è rimasta senza seguito.
Dopo alcuni solleciti, il Comune ha avviato il procedimento per la
dichiarazione di decadenza della convenzione per mancato rispetto delle
tempistiche previste dall’art. 3 in ordine ai lavori di sistemazione della
Piazza Europa, in precedenza indicati (e specificati nel successivo art. 4
della predetta convenzione: all. 8 al ricorso). Quindi, avuto riguardo
all’avvenuta scadenza del termine per la realizzazione delle opere, si è
concretizzato un grave inadempimento in capo ai lottizzanti che devono
essere condannati a corrispondere al Comune la somma che il predetto Ente
dovrà impiegare per l’esecuzione in via sostitutiva dei lavori di
adeguamento della Piazza Europa.
Trattandosi di responsabilità di natura contrattuale, si deve applicare il
principio discendente dall’art. 1218 cod. civ., che, in tema di prova
dell’inadempimento di un’obbligazione, onera il creditore che agisce per
l’adempimento o per il risarcimento di provare soltanto la fonte del suo
diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza
dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore è gravato
dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa (cfr.
Consiglio di Stato, VI, 17.11.2015, n. 5252; TAR Lombardia, Milano, II, 16.07.2020, n. 1327; 10.02.2020, n. 283).
Nella specie è stata dimostrata la sussistenza dei presupposti per ottenere
la condanna delle parti intimate al risarcimento del danno legato
all’inadempimento contrattuale. Non è oggetto del presente giudizio il
risarcimento degli ulteriori danni che il Comune potrebbe aver subito in
seguito all’inadempimento delle controparti, stante l’esplicita riserva sul
punto formulata nel ricorso, né si controverte sulla sorte dei titoli
edilizi scaturiti dal Programma di intervento e sulla perdurante efficacia
della correlata convenzione per la quale il Comune ha avviato il
procedimento di decadenza (all. 8 al ricorso).
5. Nell’art. 3 della convenzione è stato espressamente previsto che «i
soggetti attuatori privati assumono, altresì, nei confronti del Comune di
Marnate, per sé e per i propri aventi causa, tutti gli obblighi
autorizzativi e di carattere economico meglio dettagliati negli articoli
successivi» (cfr. comunicazioni del Comune agli aventi causa degli originari
lottizzanti: all. 2 al ricorso). Quindi anche gli acquirenti successivi sono
subentrati nella posizione negoziale degli originari proponenti e sono
tenuti all’adempimento delle obbligazioni assunte da questi ultimi
attraverso la convenzione attuativa, debitamente trascritta e quindi
certamente opponibile anche ai citati soggetti subentranti.
Del resto, la giurisprudenza è consolidata nel riconoscere alle obbligazioni
assunte in una convenzione urbanistica la natura di obbligazioni propter rem
(ex multis, Consiglio di Stato, IV, 13.11.2020, n. 7024; 09.11.2020, n. 6894; II, 23.09.2019, n. 6282; IV, 14.05.2019, n. 3127;
09.01.2019, n. 199).
Difatti, «in ordine alla questione principale dell’individuazione dei
soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste
da una convenzione di lottizzazione, [si è osservato] che:
a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di
inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica
delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l’ente locale;
b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che
all’edificazione del territorio corrisponda non solo l’approvvigionamento
delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo
equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme,
garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano
discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’autorità preposta alla
gestione del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2009, n.
6947);
c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi
dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di
cassazione ha sempre affermato che l’obbligazione assunta di provvedere alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una
convenzione edilizia è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n.
6382);
d) la natura reale dell’obbligazione comporta dunque che all’adempimento
della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la
convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che
realizzano l’edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571);
e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale
l’assunzione, all’atto della stipulazione di una convenzione di
lottizzazione, dell’impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri
aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del
territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso
pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul
proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di
lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della
concessione edilizia nell’ambito della lottizzazione, sia infine sui
successivi proprietari della medesima res (Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in senso conforme, Tar Campania, Napoli , sez. II,
09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 16.04.2014, n.
2170; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar Sicilia,
Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per cui l’avente causa del
lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di
convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora
dovuti (Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747),
risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione
contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica
riguardanti i beni in questione;
f) invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell'obbligazione,
proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei
lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li
rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi (Tar
Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843)» (Consiglio di Stato, IV, 09.01.2019, n. 199).
6. Con riguardo alla quantificazione della somma da riconoscere al Comune
per effettuare in via sostitutiva gli interventi previsti nell’art. 4 della
convenzione, la stessa può essere mutuata dal contenuto della Relazione
tecnica prodotta in giudizio e predisposta dal Responsabile del Servizio
Tecnico comunale sulla base del computo metrico allegato alla convenzione
del Piano integrato di intervento oggetto del presente contenzioso (all. 3 e
5 al ricorso), previa decurtazione del costo delle opere già eseguite in
attuazione del previgente Piano di lottizzazione AC.5 (all. 9 al ricorso);
in tale documentazione l’importo per effettuare i lavori di sistemazione
della Piazza Europa è indicato in complessivi € 387.700,69 (trecentoottantasettemilasettecento/69),
che pertanto è la somma da liquidare in favore del Comune a titolo di
risarcimento per l’inadempimento delle obbligazioni infrastrutturative
previste dalla convenzione (in particolare nell’art. 4).
Essendosi in
presenza di un debito di valore, in quanto obbligazione pecuniaria risarcitoria derivante da un fatto illecito di natura contrattuale, la somma
liquidata deve essere rivalutata secondo gli indici Istat e maggiorata degli
interessi legali dalla data di proposizione del giudizio e fino alla
pubblicazione della presente sentenza (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.04.2021, n. 2865); a far data dalla liquidazione giudiziale, il debito di
valore si converte in debito di valuta e quindi sulla somma vantata dal
Comune sono dovuti gli interessi corrispettivi, mentre è preclusa
l’ulteriore rivalutazione monetaria (Consiglio di Stato, II, 05.02.2021, n. 1067).
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con la conseguente
condanna delle parti intimate, in solido, al risarcimento del danno
patrimoniale in favore del Comune per l’importo complessivo di € 387.700,69
(trecentoottantasettemilasettecento/69), oltre rivalutazione e interessi
dalla data di proposizione del giudizio e fino al saldo.
8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso indicato in epigrafe, con
gli effetti specificati in motivazione.
Condanna la parti intimate, in solido, al pagamento delle spese di giudizio
in favore del Comune ricorrente nella misura di € 5.000,00 (cinquemila/00),
oltre oneri e spese generali; dispone altresì la rifusione del contributo
unificato in favore del Comune ricorrente e a carico delle parti intimate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.04.2021 n. 1056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abuso
edilizio: cosa fare se il Comune rimane inerte.
- come rilevato dalla giurisprudenza, sussiste l’obbligo
dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di
abusi edilizi realizzati su area confinante, formulata dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto
di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla
collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della
commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area
limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di
interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può
proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 cod. proc.
amm.;
- pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella
cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri
ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo
preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che
il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento
dell’obbligo di provvedere in modo espresso;
- del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il
procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte
mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
- inoltre, è principio consolidato che l’obbligo di provvedere
sussiste, oltre che nei casi espressamente previsti da una norma, anche in
ipotesi ulteriori nelle quali si evidenzino specifiche ragioni di giustizia
ed equità che impongano l’adozione di un provvedimento espresso, ovvero
tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni
amministrative, quali che esse siano;
- pertanto, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e
documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un
procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve
restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori,
che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei
poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente;
---------------
- quanto alla previsione normativa di cui all’art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la Sezione ha già avuto modo di
evidenziare che tale disposizione implica che, in caso di presentazione di
una SCIA reputata illegittima, i soggetti che si considerano lesi
dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire
l’azione avverso il silenzio ex art. 31 cod. proc. amm., posto che, ai sensi
dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in
generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo
obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento
espresso, e che, se anche la richiesta di attivazione dell’autotutela non
comporta di norma un obbligo di provvedere in capo alla pubblica
Amministrazione, lo speciale strumento di tutela giudiziale di cui
all’ultimo comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 ed all’art. 31
cod. proc. amm. ha carattere di esclusività, con la conseguenza che la
mancata conclusione del procedimento avviato con la diffida del privato
finirebbe di fatto per privare lo stesso di ogni tutela davanti al giudice,
in palese violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24,
111 e 113 Cost.;
- come è stato osservato, a fronte della denuncia del terzo
circa l’irregolarità dell’intervento edilizio oggetto di una SCIA,
l’Amministrazione ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti
che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo –e ciò diversamente
da quanto accade in presenza di un ‘normale’ potere di autotutela che
si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al
contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere–, con una opzione
interpretativa che così coniuga in modo equilibrato le esigenze di
liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo, giacché
–lungi dal legittimarlo a sollecitare i poteri inibitori senza limiti
temporali– gli dà titolo ad attivare il solo potere di autotutela
dell’Amministrazione, la quale deve naturalmente tenere conto dei
presupposti che danno titolo all’esercizio di tale funzione e, in
particolare, dell’affidamento medio tempore ingenerato nel destinatario
dell’azione amministrativa, senza tuttavia vanificare le esigenze di tutela
giurisdizionale del terzo che può comunque fare valere, pur con queste
diverse modalità, le proprie pretese;
- un simile orientamento non viene meno all’indomani
della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 13.03.2019, avendo essa
statuito che “… Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi
del comma 6-ter sono … quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da
esercitarsi entro i 60 o 30 giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e
6-bis), e poi entro i successivi 18 mesi (comma 4, che rinvia all’art.
21-nonies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante
si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva
di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un
interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e
quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere,
anche l’interesse si estingue …”;
- pertanto, lo spirare del previsto termine di trenta giorni
non preclude all’Amministrazione l’adozione delle misure inibitorie della
SCIA, nelle forme e nel più lungo termine –diciotto mesi– sanciti per i
provvedimenti in autotutela dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990,
essendo essa comunque tenuta a riscontrare l’istanza del privato e, in
presenza di quei presupposti, ad esercitare i poteri di vigilanza edilizia
di sua spettanza;
---------------
... per l’accertamento:
- dell’illegittimità del silenzio serbato dall’ente sulle istanze
presentate dalla ricorrente;
- dell’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sulle
istanze della ricorrente;
- della fondatezza di tali istanze, volte a che si rilevi
l’insussistenza dei presupposti per l’attività edilizia oggetto della SCIA e
della CILA presentate dalla Na. S.r.l., con la conseguente adozione dei
provvedimenti di autotutela e dei provvedimenti sanzionatori;
... per la condanna del Comune di Milano a pronunciarsi sulle istanze della
ricorrente e ad adottare le su indicate determinazioni.
...
Considerato:
- che, in quanto proprietaria di una unità immobiliare posta al
piano terra dello stabile sito in Milano alla via ... n. 4, la ricorrente
presentava un esposto al Comune di Milano, in data 06.02.2020, per
denunciare possibili interventi edilizi abusivi nel complesso condominiale
di appartenenza, ovvero l’esecuzione da parte della condomina Na. S.r.l. di
più opere meritevoli di verifica;
- che all’esposto facevano seguito in data 9 e 10.02.2020 ulteriori
documentate denunce, anche alla Polizia municipale;
- che, in ragione di ciò, con nota del 26.02.2020 (pratica n.
41388/2019 della Direzione Urbanistica, Area Sportello Unico per l’Edilizia,
Unità Territoriale Municipi 5-9, Ufficio Municipio 9) il Comune di Milano
dava comunicazione dell’avvio del procedimento “finalizzato
all’espletamento di ulteriori verifiche istruttorie inerenti l’intervento
edilizio sito in via ... 4”, fissando un termine non superiore a 90
giorni per la relativa conclusione;
- che, non avendo più ricevuto comunicazioni, in data 14.07.2020 la
ricorrente presentava un ulteriore reclamo, con cui sollecitava l’intervento
“già segnalato in data 10.02.2020 –su lavori edilizi effettuati sul muro
di confine tra il Condominio di via ... n. 7 e via ... n. 4– abbattimento
muro perimetrale via ... 4 apertura numerose finestre abusive via ... 7
rialzo del tetto via ... 7”;
- che, infine, in data 25.10.2020 veniva depositata un’istanza di
accesso agli atti, con richiesta di “… essere informata delle verifiche
svolte dall’ente e dell’eventuale avvenuta adozione di provvedimenti
sanzionatori a carico del responsabile degli abusi indicati …” e con
richiesta di ostensione “… degli atti concernenti le verifiche svolte e
dei provvedimenti eventualmente adottati …”;
- che, in difetto di riscontro da parte dell’Amministrazione
comunale, la ricorrente ha infine adito il giudice amministrativo, ai sensi
degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., per l’accertamento dell’illegittimità
del silenzio serbato dall’ente sulle sue istanze e del conseguente obbligo
di provvedere sulle stesse, oltre che per l’accertamento della stessa
fondatezza di tali istanze e quindi della necessità che vengano adottati i
dovuti provvedimenti di autotutela rispetto alle SCIA e CILA presentate
dalla Na. S.r.l. e vengano irrogate le relative sanzioni, con condanna del
Comune di Milano a pronunciarsi sulle istanze della ricorrente e ad adottare
le su indicate determinazioni;
- che ella imputa all’ente locale l’ingiustificato omesso
espletamento delle verifiche che avrebbero poi dovuto condurre all’adozione
dei provvedimenti di autotutela e sanzionatori conseguenti, stante
l’avvenuta effettuazione –da parte della Na. S.r.l.– di interventi in
violazione della normativa urbanistica, edilizia ed antisismica,
insuscettibili di legittimazione con CILA o SCIA;
- che, pur avendo avviato il procedimento amministrativo volto a
verificare la legittimità dei titoli edilizi presentati dalla Na. S.r.l.,
l’Amministrazione comunale non lo avrebbe concluso, e ciò malgrado la
documentata denuncia di chi ha titolo a far valere le irregolarità edilizie
altrui, così come chiarito anche dalla Corte costituzionale (sent. n.
45/2019) a proposito dei rimedi di cui dispone il terzo che si trovi ad
essere danneggiato dall’attività svolta a seguito di SCIA;
- che, richiamando gli accertamenti compiuti dal tecnico di
fiducia, la ricorrente assume che la Na. s.r.l.:
“1) ha illegittimamente demolito in violazione dell’art. 1102 c.c. un
muro perimetrale, posto all’interno di un cortile, che divideva l’area di
pertinenza dello stabile di Via ..., n. 4, dall’area di pertinenza dello
stabile di via ..., n. 7;
2) ha illegittimamente costituito una servitù a favore del Condominio di Via
..., n. 7, poiché, demolendo l’anzidetto muro perimetrale, ha messo in
comunicazione l’immobile di sua proprietà ricadente nello stabile di via
..., n. 4, con altro immobile di sua proprietà facente parte dello stabile
confinante di via ..., n. 7;
3) ha illegittimamente aperto vedute e/o finestre nelle pareti perimetrali
antistanti il cortile di proprietà del condominio di Via ..., n. 4;
4) ha eseguito i lavori edilizi comportanti modifiche di superficie, di
volume e di destinazione d’uso in assenza del giusto titolo edilizio;
5) ha realizzato interventi edilizi in violazione delle prescrizioni di cui
al D.M. 1444/1968;
6) ha realizzato interventi di ristrutturazione edilizia in violazione del
D.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 5.3 delle NTA del PGT all’epoca vigente
secondo cui “Preventivamente all’esecuzione di cambi di destinazione d’uso
significativi ai fini degli obiettivi di qualità dei suoli su immobili o
parti di essi ricompresi in aree anche già oggetto di indagine o già
bonificate, dovrà essere condotta, in conformità con quanto previsto dalla
normativa, una nuova indagine ed eventualmente un nuovo intervento di
bonifica a cura e spese dei soggetti responsabili della contaminazione dei
suoli dei siti o dai relativi proprietari qualora i responsabili non fossero
individuati, in armonia con i principi e le norme comunitarie, nonché ai
sensi del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. Le destinazioni d’uso oggetto di cambi di
destinazione d’uso in contrasto con gli obiettivi di qualità dei suoli sono
escluse dall’ambito delle destinazioni ammesse dal PGT” (cfr. pag. 12 della
relazione);
7) ha realizzato il cambio di destinazione d’uso degli immobili in assenza
del permesso di costruire” (così a pagg. 9/10 del ricorso);
- che si è costituito in giudizio il Comune di Milano, resistendo
al gravame;
- che in data 25.01.2021 l’Amministrazione ha depositato copia
della sopraggiunta nota di riscontro alla ricorrente degli accertamenti
compiuti a seguito delle sue richieste (atto del 22.12.2020, ad oggetto “Comunicazione
esito delle verifiche in ordine alla conformità urbanistico-edilizia
dell’intervento inerente l’immobile sito in via ..., 4 - Via ..., 7.
Chiusura del procedimento, avviato con comunicazione in data 26.02.2020, in
atti PG 108712/2020 ai sensi della L. 241/1990”) e ha depositato anche
copia del provvedimento del 21.12.2020 con cui è stata data comunicazione
alla controinteressata dell’“… avvio del procedimento amministrativo
finalizzato all’annullamento della Segnalazione Certificata di Inizio
Attività, ai sensi dell’art. 23, DPR 38072001, in atti PG 359239/2020,
pratica n. 13859/2020 del 23.09.2020, nonché all’applicazione delle
corrispondenti sanzioni previste dal Titolo IV della Parte I del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 …” ed è stata inoltre ordinata la sospensione dei
lavori;
- che, in ragione di ciò, la difesa comunale ha addotto essere “…
venuto meno l’interesse della ricorrente alla decisione nel merito del
ricorso …” (così la memoria difensiva del 25.01.2021);
- che la sig.ra Ar., invece, obietta che “… l’Amministrazione
resistente è tuttora inadempiente poiché non ha ancora definito il
procedimento …” (così la memoria difensiva del 05.02.2021) ed insiste
per l’accoglimento del ricorso;
...
Ritenuto:
- che, come rilevato dalla giurisprudenza, sussiste l’obbligo
dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di
abusi edilizi realizzati su area confinante, formulata dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto
di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla
collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della
commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area
limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di
interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può
proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 cod. proc.
amm. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 09.11.2015 n. 5087; da ultimo, Cons. Giust.
amm. Reg. Sic. 03.07.2020 n. 538 e TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
10.02.2021 n. 859; v., in generale, anche Cons. Stato, Sez. II, 30.09.2019
n. 6519 circa il fatto che il danno è ritenuto sussistente in re ipsa
per gli abusi edilizi, in quanto ogni edificazione abusiva incide quanto
meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e sull’armonico e ordinato
sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di
diritti su immobili adiacenti o situati comunque in prossimità a quelli
interessati dagli abusi);
- che, pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato,
nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei
poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte
dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure
richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il
risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del
silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso (v., da ultimo,
Cons. Stato, Sez. VI, 28.03.2019 n. 2063);
- che, del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il
procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte
mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
- che, inoltre, è principio consolidato che l’obbligo di provvedere
sussiste, oltre che nei casi espressamente previsti da una norma, anche in
ipotesi ulteriori nelle quali si evidenzino specifiche ragioni di giustizia
ed equità che impongano l’adozione di un provvedimento espresso, ovvero
tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni
amministrative, quali che esse siano (v., ex multis, Cons. Stato,
Sez. VI, 09.01.2020 n. 183);
- che, pertanto, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e
documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un
procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve
restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori,
che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei
poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente
(v. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
- che, quanto –poi– alla previsione normativa di cui all’art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la Sezione ha già avuto modo di
evidenziare che tale disposizione implica che, in caso di presentazione di
una SCIA reputata illegittima, i soggetti che si considerano lesi
dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire
l’azione avverso il silenzio ex art. 31 cod. proc. amm., posto che, ai sensi
dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in
generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo
obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento
espresso, e che, se anche la richiesta di attivazione dell’autotutela non
comporta di norma un obbligo di provvedere in capo alla pubblica
Amministrazione, lo speciale strumento di tutela giudiziale di cui
all’ultimo comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 ed all’art. 31
cod. proc. amm. ha carattere di esclusività, con la conseguenza che la
mancata conclusione del procedimento avviato con la diffida del privato
finirebbe di fatto per privare lo stesso di ogni tutela davanti al giudice,
in palese violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24,
111 e 113 Cost.;
- che, come è stato osservato, a fronte della denuncia del terzo
circa l’irregolarità dell’intervento edilizio oggetto di una SCIA,
l’Amministrazione ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti
che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo –e ciò diversamente
da quanto accade in presenza di un ‘normale’ potere di autotutela che
si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al
contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere–, con una opzione
interpretativa che così coniuga in modo equilibrato le esigenze di
liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo, giacché
–lungi dal legittimarlo a sollecitare i poteri inibitori senza limiti
temporali– gli dà titolo ad attivare il solo potere di autotutela
dell’Amministrazione, la quale deve naturalmente tenere conto dei
presupposti che danno titolo all’esercizio di tale funzione e, in
particolare, dell’affidamento medio tempore ingenerato nel
destinatario dell’azione amministrativa, senza tuttavia vanificare le
esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può comunque fare valere,
pur con queste diverse modalità, le proprie pretese (v. Cons. Stato, Sez.
VI, 03.11.2016 n. 4610);
- che un simile orientamento, come è stato evidenziato (v. TAR
Campania, Salerno, Sez. II, 08.01.2020 n. 18), non viene meno all’indomani
della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 13.03.2019, avendo essa
statuito che “… Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi
del comma 6-ter sono … quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da
esercitarsi entro i 60 o 30 giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e
6-bis), e poi entro i successivi 18 mesi (comma 4, che rinvia all’art.
21-nonies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante
si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva
di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un
interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e
quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere,
anche l’interesse si estingue …”;
- che, pertanto, lo spirare del previsto termine di trenta giorni
non preclude all’Amministrazione l’adozione delle misure inibitorie della
SCIA, nelle forme e nel più lungo termine –diciotto mesi– sanciti per i
provvedimenti in autotutela dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990
(v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 18/2020 cit.), essendo essa comunque
tenuta a riscontrare l’istanza del privato e, in presenza di quei
presupposti, ad esercitare i poteri di vigilanza edilizia di sua spettanza
(v., da ultimo, anche TAR Lazio, Sez. II, 25.01.2021 n. 911);
- che nella fattispecie la ricorrente, proprietaria di unità
immobiliare facente parte di un complesso condominiale interessato da
interventi edilizi di altro condomino, ne denunciava più volte
l’irregolarità al Comune di Milano, ricevendone solo risposte interlocutorie
circa le verifiche da effettuare, e in ragione di ciò adiva infine il
giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm.,
perché rimediasse all’inerzia dell’Amministrazione;
- che, nelle more del giudizio, quest’ultima ha dato riscontro alla
ricorrente circa gli accertamenti compiuti a seguito delle sue richieste
(atto del 22.12.2020, ad oggetto “Comunicazione esito delle verifiche in
ordine alla conformità urbanistico-edilizia dell’intervento inerente
l’immobile sito in via ..., 4 - Via ..., 7. Chiusura del procedimento,
avviato con comunicazione in data 26.02.2020, in atti PG 108712/2020 ai
sensi della L. 241/1990”) e ha emesso provvedimento (in data 21.12.2020)
con cui è stata data comunicazione alla controinteressata dell’“… avvio
del procedimento amministrativo finalizzato all’annullamento della
Segnalazione Certificata di Inizio Attività, ai sensi dell’art. 23, DPR
38072001, in atti PG 359239/2020, pratica n. 13859/2020 del 23.09.2020,
nonché all’applicazione delle corrispondenti sanzioni previste dal Titolo IV
della Parte I del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 …” ed al contempo è stata
ordinata la sospensione dei relativi lavori;
- che, come è noto, quando l’ente locale accerta la sussistenza
dell’abuso edilizio, la pretesa del proprietario confinante si estende anche
all’adozione dei provvedimenti repressivi prescritti dalla normativa in
materia, a tale concreto risultato evidentemente riconducendosi il bene
della vita tutelato in simili casi con il rito del “silenzio”, ovvero
l’utilità finale al cui conseguimento legittimamente aspira chi patisce le
conseguenze dannose dell’illecito edilizio (v., tra le altre, Cons. Stato,
Sez. VI, n. 2063/2019 cit.);
- che, pertanto, le sopraggiunte determinazioni comunali non
possono dirsi integralmente satisfattive dell’interesse azionato dalla
ricorrente, la quale –come si è detto– ha titolo a che il procedimento si
concluda con l’adozione di determinazioni di tipo ripristinatorio/sanzionatorio
oppure di motivata archiviazione della pratica, non certo con un atto di
portata meramente interlocutoria;
- che, in ragione di ciò, malgrado l’Amministrazione resistente
abbia addotto il venir meno dell’interesse alla decisione del ricorso e
quindi l’improcedibilità dello stesso, è da dichiarare fondata la domanda
giudiziale della ricorrente, avendo il Comune di Milano dato un riscontro
insufficiente alla “diffida” pervenutagli;
- che, in conclusione, va assegnato all’Amministrazione comunale un
termine di novanta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente
sentenza affinché la stessa provveda nei termini indicati, essendo evidente
che, per l’esigenza di accertamenti istruttori di competenza dell’ente
locale, il presente dictum giudiziale è circoscritto alla statuizione
della sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione e
non può essere anche esteso all’accertamento degli abusi edilizi e/o
irregolarità dei titoli abilitativi e delle misure in concreto da assumere;
- che, in caso di inerzia e su documentata richiesta della
ricorrente, provvederà in via sostitutiva, nei successivi novanta giorni, un
Commissario ad acta che viene sin d’ora nominato nella persona del
Prefetto di Milano, con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo
ufficio e con l’ausilio, nelle modalità valutate utili, del personale e
degli uffici del Comune di Milano;
Considerato, pertanto,
- che il ricorso va accolto, con conseguente obbligo
dell’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, del Commissario ad
acta) di provvedere nei termini su indicati;
- che le spese di lite seguono la soccombenza del Comune di Milano,
mentre non v’è luogo a provvedere nei confronti della controinteressata non
costituitasi in giudizio
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
- lo accoglie quanto alla pretesa formazione del silenzio-rifiuto
sulle istanze presentate dalla ricorrente e, per l’effetto, dichiarata
l’illegittimità del silenzio, ordina al Comune di Milano (e, in via
sostitutiva, al Commissario ad acta) di provvedere nei termini
indicati in motivazione;
- nomina, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Milano
–con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio–, che
interverrà su richiesta della ricorrente solo dopo l’inutile decorso del
termine assegnato all’Amministrazione comunale.
Condanna il Comune di Milano al pagamento delle spese del presente giudizio,
che liquida in complessivi € 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre agli
accessori di legge e alla rifusione del contributo unificato (nella misura
effettivamente versata). Nulla per le spese nei confronti della
controinteressata.
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente
pronuncia –una volta passata in giudicato– alla Corte dei conti, Procura
Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, ai
sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.04.2021 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo Tribunale ha già avuto
modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo
amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura
vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile
- non solo
dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge
n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”),
- ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc.
amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o
quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano
essere compiuti dall’amministrazione”).
Da tali disposizioni si desume che,
nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un
sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia
non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso
..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del
giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già
predeterminata a livello normativo.
Di converso nei casi di attività
discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato
di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione,
non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato
dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente
esercitato o meno».
---------------
La giurisprudenza ha da tempo
chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione
temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il
responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in
sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o
autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di
attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento
della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della
domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in
sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di
sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
---------------
Da tempo la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una
concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in
caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito
positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i
diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali
possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non
risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e
comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi
eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta
abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel
qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la
funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle
condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la
giurisprudenza, anche di recente, ha affermato che -mentre una condizione in senso
proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto
contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria,
che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in
cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini
di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non
ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce
gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della
prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo
questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria,
se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di
quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire
limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente,
ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in
termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale, qualora si tratti di
integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da
agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale
proprio del singolo territorio di riferimento».
---------------
Secondo una consolidata giurisprudenza, in base al
principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve
essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente
al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche
normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione
procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit
actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve
essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e
non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento
“al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della
possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria
intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
Dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha
inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che
eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche
possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha
imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni
urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in
vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora
approvate.
---------------
4. Passando alla controversia oggetto del presente giudizio, il Collegio
ritiene che si possa prescindere dall’esame delle eccezioni processuali
sollevate dalla controinteressata perché nessuna delle suesposte censure può
essere accolta, alla luce delle seguenti considerazioni.
5. Come già evidenziato, la società Al.Ho. -a seguito della nota prot. n. 6855 del 28.11.2018, con cui il Comune di Molveno ha
comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza per la
regolarizzazione, ai sensi dell’art. 129, comma 11, della legge provinciale
n. 1 del 2008, delle opere oggetto del permesso di costruire in deroga n.
3033 del 2017, annullato da questo Tribunale con la sentenza n. 126 del 2018- in data 15.04.2019 ha presentato un’ulteriore istanza, volta al
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 135,
comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008, sulla quale il Comune di Molveno si è espresso positivamente rilasciando l’impugnato permesso di
costruire in sanatoria n. 3076, in data 04.06.2020.
Ciò posto, il Collegio -nel rammentare che, secondo una consolidata
giurisprudenza, anche di questo Tribunale (da ultimo, T.R.G.A Trentino Alto
Adige, Trento, 18.03.2021, n. 39), la qualificazione giuridica del
provvedimento impugnato è un’operazione che compete al Giudice
amministrativo in ossequio al principio iura novit curia, analogamente a
quanto avviene nel processo civile con riferimento alla qualificazione del
tipo negoziale entro il quale vanno sussunti gli atti di autonomia privata
di cui si controverte- concorda senz’altro con il Comune di Molveno quando
nelle proprie difese osserva che l’erroneo riferimento all’art. 38 del
d.P.R. 380 del 2001, contenuto nella motivazione del provvedimento
impugnato, non può comunque inficiare la legittimità di tale provvedimento.
Tale riferimento è invero senz’altro erroneo perché, come già detto,
l’impugnato permesso di costruire è stato adottato ai sensi dell’art. 135,
comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; ma il riferimento stesso è
totalmente ininfluente ai fini del presente giudizio, stante la c.d.
dequotazione della motivazione del provvedimento amministrativo nei giudizi
aventi ad oggetto l’esercizio di poteri vincolati (come quello previsto
dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008).
Difatti
questo stesso Tribunale in altre occasioni (T.R.G.A. Trentino Alto Adige,
Trento, 19.10.2020, n. 177; id. 13.04.2017, n. 136) ha già avuto
modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo
amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura
vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile non solo
dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge
n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora,
per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”), ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc.
amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o
quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano
essere compiuti dall’amministrazione”). Da tali disposizioni si desume che,
nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un
sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia
non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso
..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del
giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già
predeterminata a livello normativo. Di converso nei casi di attività
discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato
di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione,
non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato
dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente
esercitato o meno».
Dunque -posto che la parte ricorrente non contesta affatto che «le opere
realizzate ed in parte minima ripristinate dall’interessato a seguito della
comunicazione del preavviso di diniego risultano rispettose della disciplina
urbanistica vigente e non vi è neppure la necessità di accordare la deroga»
(così la motivazione del provvedimento impugnato)- ai fini della decisione
sulla presente controversia assume decisivo rilievo stabilire come vada
interpretato l’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008
laddove dispone che, ai fini della sanatoria, l’Amministrazione deve
accertare se l’opera abusiva sia, o meno, “conforme, al momento della
presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in
contrasto con quelle adottate”.
Emergono infatti dagli atti di causa due
tesi contrapposte.
6. Secondo la parte ricorrente l’espresso riferimento al momento della
“presentazione” della domanda di sanatoria, contenuto nell’art. 135, comma
7, starebbe a significare che la presentazione della domanda determina una
sorta di cristallizzazione del rapporto, nel senso che l’Amministrazione non
potrebbe tener conto di alcun tipo di sopravvenienza intervenuta durante il
procedimento, ossia né di modifiche alla disciplina urbanistica, né di
modifiche dell’opera da sanare sopravvenute rispetto al momento della
presentazione della domanda.
Pertanto nel caso in esame il Comune avrebbe
dovuto senz’altro rigettare la domanda di sanatoria in quanto -come
evidenziato nel preavviso di rigetto di cui alla nota prot. n. 5044 del 07.08.2019- le opere realizzate in forza del permesso di costruire
annullato risultavano, al momento della presentazione della domanda stessa,
incompatibili con le previsioni dello strumento urbanistico relative al
parametro della superficie coperta, previsioni il cui superamento aveva in
precedenza imposto l’attivazione del procedimento per il rilascio di un
permesso di costruire in deroga.
In altri termini, secondo la tesi della parte ricorrente, la demolizione di
parte del solaio, eseguita dopo l’attivazione del procedimento in sanatoria,
era «totalmente neutra ai fini del riscontro della sussistenza dei
presupposti di compatibilità urbanistica dell’opera abusiva», dovendo tale
riscontro essere effettuato con riferimento all’intero abuso, come accertato
ed esistente al momento della presentazione della domanda di sanatoria e
decritto nella domanda stessa. Del resto, diversamente opinando, si
finirebbe per ammettere il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria
parziale, limitato cioè ad una sola parte delle opere abusive.
A questa tesi si contrappone quella del Comune e della controinteressata,
secondo la quale -a dispetto della lettera dell’anzidetto art. 135, comma 7- i presupposti per il rilascio del permesso di costruire in di sanatoria
devono sussistere alla data di adozione del provvedimento, e non alla data
della presentazione della domanda; dunque nel caso in esame
l’Amministrazione avrebbe correttamente tenuto conto del fatto che la controinteressata -avuta notizia del preavviso di rigetto- aveva
provveduto a ridurre spontaneamente l’estensione del solaio (sul punto non
vi è contestazione), sì da rendere la superficie del manufatto compatibile
con il relativo parametro urbanistico.
A corredo di tale tesi, e in replica all’argomento della parte ricorrente
secondo il quale non sarebbe ammissibile il rilascio di un titolo edilizio
che riguardi solo una parte dell’abuso oggetto della domanda di sanatoria,
la controinteressata osserva che -sebbene nel caso in esame non si tratti
di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato con prescrizioni, ovvero
condizionato a modifiche dell’oggetto della sanatoria- tuttavia la
giurisprudenza ammette che il permesso in sanatoria possa eccezionalmente
introdurre prescrizioni, purché si tratti di integrazioni minime o,
comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non concedibile; dunque
a maggior ragione deve ammettersi che l’interessato, in pendenza del
procedimento avviato a seguito della presentazione di un’istanza ai sensi
dell’art. 135, comma 7, possa comunque apportare al manufatto abusivo le
modifiche necessarie per renderlo sanabile.
7. La tesi della parte ricorrente è ancorata essenzialmente ad
un’interpretazione letterale dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale
n. 1 del 2008; difatti tale disposizione -secondo la quale ai fini della
sanatoria l’amministrazione è tenuta ad accertare che l’opera abusiva sia
“conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme
urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”-
effettivamente può prestarsi ad essere letta nel senso che la presentazione
della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, sia per
quanto riguarda l’opera da sanare, sia per quanto riguarda i parametri
urbanistici in base ai quali deve essere verificata la sanabilità
dell’opera.
Tuttavia il Collegio ritiene che tale tesi non possa essere accolta non solo
perché non tiene conto del consolidato orientamento giurisprudenziale
formatosi sull’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47, di seguito
esaminata, ma soprattutto perché si pone in radicale contrasto con i
principi generali del procedimento amministrativo e, in particolare, con il
principio della partecipazione al procedimento, del quale sono espressione
l’istituto del preavviso di rigetto, disciplinato (a livello statuale)
dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale)
dall’art. 27-bis della legge provinciale 30.11.1992, n. 23, e con il
principio di economicità dell’azione amministrativa, sancito (a livello
statuale) dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e (a livello
provinciale) dall’art. 2, comma 1, della legge provinciale n. 23 del 1992.
8. Come ricordato dal Comune e dalla controinteressata, la giurisprudenza
(ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3236) ha da tempo
chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione
temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il
responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in
sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o
autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di
attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento
della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della
domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in
sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di
sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
Per le ragioni di seguito indicate non vi è ragione per discostarsi da tale
opzione ermeneutica, essendo il riferimento “al momento della presentazione
della domanda” presente tanto nella disposizione dell’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e nella corrispondente disposizione dell’art. 135,
comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto nella disposizione
dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale medesima.
Si rende però
necessario precisare il fondamento di tale opzione ermeneutica e,
soprattutto, cosa essa comporti.
9. Innanzi tutto tale opzione ermeneutica è coerente con il principio di
partecipazione al procedimento amministrativo.
La dottrina ha da tempo posto in rilievo che la legittimità del
provvedimento è il risultato non solo del corretto uso del potere da parte
dell’amministrazione procedente, ma anche del contributo degli interessati
all’esercizio della funzione amministrativa. Dunque la partecipazione al
procedimento non ha solo lo scopo di garantire gli interessati nei riguardi
dell’azione del pubblico potere, bensì quello di consentire a costoro di
contribuire alla formazione della decisione amministrativa, come
plasticamente dimostra, ad esempio, la tipizzazione degli accordi
integrativi o sostitutivi del provvedimento. In tal senso il procedimento è
stato efficacemente definito dalla dottrina come la forma della funzione
amministrativa.
Ritiene allora il Collegio che il principio della partecipazione al
procedimento e gli istituti che ad esso si ispirano, come la comunicazione
dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza -da ritenersi applicabile
anche nei procedimenti attraverso i quali vengono esercitati poteri
vincolati (come nel caso in esame)- debbano essere intesi nell’accezione
più ampia possibile.
In particolare deve ritenersi che nei procedimenti ad
istanza di parte (come quello per cui è causa) l’interessato attraverso il
preavviso di rigetto viene posto in condizione di incidere sul concreto
esercizio del potere non solo esercitando il diritto di presentare
osservazioni scritte, che l’Amministrazione è tenuta a prendere in
considerazione, con conseguente obbligo di specificare, nella motivazione
del provvedimento finale, le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento
delle osservazioni stesse (come espressamente previsto dall’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990 e dall’art. 27-bis della legge provinciale n. 23
del 1992), ma anche esercitando il diritto di superare i motivi ostativi
comunicati con il preavviso di rigetto attraverso la conformazione della
situazione di fatto ai parametri normativi in base ai quali l’istanza deve
essere esaminata.
Ciò è quanto è avvenuto nel caso in esame, nel quale la controinteressata, a
fronte dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria,
comunicati dal Comune con la con nota prot. n. 5044 del 07.08.2019, ha
posto in essere un intervento di demolizione parziale volto a ridurre
l’estensione del solaio realizzato in forza del permesso annullato, sì da
rendere il manufatto divenuto abusivo suscettibile di sanatoria.
10. Inoltre la tesi della società ricorrente si pone in palese contrasto con
il principio di economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce
espressione l’orientamento giurisprudenziale -invocato dalla controinteressata- in base al quale il permesso di costruire in sanatoria
può eccezionalmente essere rilasciato con prescrizioni.
Da tempo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.1993, n.
1031) ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una
concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in
caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito
positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i
diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali
possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non
risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e
comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi
eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta
abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel
qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la
funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle
condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la
giurisprudenza, anche di recente (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683), ha affermato che -mentre una condizione in senso
proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto
contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria,
che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in
cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini
di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non
ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce
gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della
prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo
questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria,
se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di
quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire
limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente,
ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in
termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale (cfr. in
termini Cons. St., VI, 28.06.2016, n. 2860), qualora si tratti di
integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da
agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento (cfr.
ad es. Cons. St., IV, 08.09.2015 n. 4176)» (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683, cit.).
Coglie allora nel segno la controinteressata quando afferma che, se può
ammettersi la possibilità che il permesso di costruire in sanatoria contenga
«limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi
sull’esistente» -e tale sarebbe stata l’eventuale prescrizione con la quale
il Comune avrebbe potuto imporre alla controinteressata di ridurre la
superficie del solaio, che non era sanabile in quanto eccedeva il parametro
urbanistico, seppure in misura inferiore al 2% (sul punto non vi è
contestazione)- a maggior ragione deve ammettersi che la controinteressata
medesima ben potesse (come in effetti è avvenuto), in pendenza del
procedimento avviato a seguito della presentazione della domanda di
sanatoria, apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per
renderlo sanabile.
Del resto, anche a voler seguire la tesi della ricorrente, non può certo
escludersi che -se il Comune, nonostante la riduzione della superficie del
solaio, avesse respinto la domanda di sanatoria, confermando i motivi
ostativi all’accoglimento della stessa già rappresentati con il preavviso di
rigetto- la controinteressata avrebbe potuto presentare una nuova domanda
di sanatoria, con il conseguente avvio di un nuovo procedimento
amministrativo destinato a concludersi con il rilascio del provvedimento
richiesto, ma con un evidente, inutile aggravio dell’azione amministrativa.
11. Resta a questo punto soltanto da spiegare perché il legislatore nel
testo delle disposizioni che prevedono e disciplinano l’accertamento di
conformità -ivi compresa quella dell’art. 135, comma 7, della legge
provinciale n. 1 del 2008- abbia fatto espresso riferimento “al momento
della presentazione della domanda”.
A tal fine giova rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III,
04.02.2021, n. 1045), in base al
principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve
essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente
al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche
normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione
procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
Invece il legislatore
provinciale, prevedendo nell’art. 135, comma 7, che è possibile “rilasciare
la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al
momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e
non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è
richiesta è già stata realizzata abusivamente”, ha inteso derogare
parzialmente al principio tempus regit actum, nel senso che la disciplina
urbanistica da prendere in considerazione per verificare la sanabilità
dell’abuso è costituita solo dalle previsioni in vigore al momento della
presentazione della domanda di sanatoria e dalle previsioni contenute
all’interno di un nuovo strumento urbanistico (o di uno strumento in
variante) solo adottato, le quali, come noto, determinano l’operatività
delle c.d. misure di salvaguardia (cfr. l’art. 47 della legge provinciale n.
15 del 2015).
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit
actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve
essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e
non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento
“al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della
possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria
intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha
inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che
eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche
possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha
imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni
urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono
già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non
ancora approvate
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contrasto giurisprudenziale sorto in
merito alla possibilità di configurare un affidamento tutelabile in capo al
responsabile dell’abuso o ai suoi aventi causa per effetto del tempo
trascorso dalla realizzazione dell’opera è stato risolto nel senso di non
potersi ammettere che il decorso di un lasso di tempo, anche consistente,
incida sul potere dell’amministrazione di perseguire e sanzionare l’illecito
edilizio.
Deve escludersi, correlativamente, la configurabilità di un affidamento alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare, ma, al contrario, aggrava.
---------------
4. Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano che le
amministrazioni procedenti avrebbero omesso di raffrontare l’interesse
pubblico a diniego di sanatoria con l’affidamento consolidatosi per effetto
del lungo tempo trascorso.
Sul punto, sia sufficiente ricordare che il contrasto giurisprudenziale
sorto in merito alla possibilità di configurare un affidamento tutelabile in
capo al responsabile dell’abuso o ai suoi aventi causa per effetto del tempo
trascorso dalla realizzazione dell’opera, ancora vivace all’epoca di
introduzione della controversia, è stato risolto nel senso di non potersi
ammettere che il decorso di un lasso di tempo, anche consistente, incida sul
potere dell’amministrazione di perseguire e sanzionare l’illecito edilizio.
Deve escludersi, correlativamente, la configurabilità di un affidamento alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
legittimare, ma, al contrario, aggrava (cfr. Cons. Stato, A.P., 17.10.2017, n. 9)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.04.2021 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori
in tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del
condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo
l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La
giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere
rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di
atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca,
sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e
ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di
realizzazione dell’abuso». In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare
la sanatoria ...”.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi
concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe
catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale”.
Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati
oggettivi;
b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti
catastali, ovvero alla prova testimoniale;
c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione
fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, "superando”
quella fornita dalla parte pubblica”.
Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui parte
ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma e dichiarazioni testimoniali rese in
sede civile), è sufficiente richiamarsi
alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
“E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare
l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un
mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione.
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali
giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto
dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in
determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto
attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame
obiettivo delle risultanze documentali.
Inoltre, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal c.p.c.,
non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di prova, sulla
base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della doglianza, ma
regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a legittimare
l’esercizio dei poteri istruttori del giudice.
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza
dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere
ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono
cui aspira parte appellante”.
---------------
1 - Po.Fr. ha impugnato la determina n. 306 del 14/11/2017 a firma del
Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Durazzano con cui sono state
respinte le istanze di condono edilizio n. 722 (protocollata in data
01/04/1986) e n. 1993 (protocollata il 30/09/1986).
...
6.1.1 - Nel caso in esame, il manufatto oggetto della prima istanza di
condono –per come “rilevato” e fotografato dai tecnici comunali
all’atto del sopralluogo del 26/09/2017 (all. 9 e 10 alla memoria di
costituzione del Comune)- risulta significativamente trasformato rispetto a
quello oggetto della domanda, essendo stato ampliato mediante annessione di
altro manufatto, unitamente al quale costituisce un unicum dal punto
di vista funzionale.
Il manufatto oggetto dell’istanza di condono ha, così, perso la sua
originaria consistenza per effetto della trasformazione avvenuta
successivamente alla presentazione della domanda di condono. Il
provvedimento di diniego –per tale parte- è quindi legittimo, in quanto il
condono non avrebbe potuto essere più rilasciato per l’opera indicata nella
domanda, ormai materialmente non più esistente.
6.1.2 - Né può convenirsi con parte ricorrente laddove afferma che la
sostituzione di una finestra con una porta non determini una radicale
trasformazione del bene e ciò perché –nello specifico- l’operata
trasformazione si è resa funzionale all’unificazione di due manufatti
adiacenti, creando, così, un aliquid novi.
6.2 - La tesi attorea si scontra, poi, con l’ulteriore “criticità”
della fattispecie in esame, rappresentata dalla non sicura datazione del
manufatto oggetto dell’istanza di condono prot. n. 1993.
6.2.1 - Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in
tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del
condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo
l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La
giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere
rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di
atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca,
sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e
ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di
realizzazione dell’abuso» (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 01.10.2019,
n. 6578). In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare
la sanatoria ...”, Consiglio di Stato sez. II, sent. 15/02/2021 n. 1403.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi
concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe
catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale” (TAR
Torino sez. II 27/03/2013 n. 390, TAR Perugia, sez. I, 02/11/2011 n. 354).
1.2. Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati
oggettivi;
b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti
catastali, ovvero alla prova testimoniale;
c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione
fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, “superando”
quella fornita dalla parte pubblica” – Consiglio di Stato, sez. IV, sent.
511/2016.
6.2.1.1 - Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui
parte ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma,
già allegata all’istanza prot. n. 1993 e dichiarazioni testimoniali rese in
sede civile, depositate unitamente al ricorso), è sufficiente richiamarsi
alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
“E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare
l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un
mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV,
07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV,
03.08.2011, n. 4641; id., sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV,
29.04.2002, n. 2270).
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali
giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto
dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in
determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto
attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame
obiettivo delle risultanze documentali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
sez. V, 20.05.2008, n. 2352).
Inoltre, come ha chiarito di recente l’Adunanza Plenaria di questo
Consiglio, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal
c.p.c., non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di
prova, sulla base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della
doglianza, ma regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a
legittimare l’esercizio dei poteri istruttori del giudice (cfr. Adunanza
Plenaria 20.11.2014, n. 32).
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza
dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere
ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono
cui aspira parte appellante. [omissis]” (Cons. St., Sez. VI,
17.12.2019, nr. 211, da ultimo richiamato da TAR Veneto, sez. II, sent.
1252/2020).
6.2.1.2 – Quanto alle dichiarazioni rese nel giudizio civile conclusosi, in
secondo grado, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 493/15
(dichiarazioni la cui utilizzabilità come fonte di convincimento anche nel
processo amministrativo è stata già affermata –in punto di diritto- dalla
Sezione con sent. 03/06/2019 n. 2986), si osserva che le stesse non giovano
alla tesi di parte ricorrente: i riferimenti ivi contenuti risultano
estremamente generici, datando la realizzazione dei fabbricati agli anni
1982/1983 ovvero 1983/1984 (secondo altro teste); il teste Bu. (per quanto
si ricava dalla lettura della sentenza) ha dichiarato, invece, che i lavori
alla falegnameria iniziarono nel 1982 e che lui stesso si occupò della
realizzazione del capannone nel 1984.
6.2.1.3 - Il solo dato documentale offerto dal Po. a sostegno della sua tesi
è un rilievo aerofotogrammetrico scaturito da un volo effettuato il
18/05/1984, che evidentemente, nulla dice circa l’esistenza di entrambi i
manufatti alla data dell’01/10/1983.
6.2.2 - Giova, infine, rimarcare (quanto alla conseguenza che il Comune trae
dall’esistenza della finestra sul manufatto abusivamente edificato sulla
part. 491) che se è vero che il ricorrente non era tenuto a rappresentare
eventuali manufatti collocati su particella diversa da quella su cui insiste
l’immobile da condonare, non è men vero che la presenza della finestra sul
prospetto sud (prospiciente la particella n. 490), evincibile dallo stralcio
planimetrico allegato alla relazione tecnica integrativa della pratica di
condono n. 722 (datata 28/07/1986), induce logicamente ad escludere che –a
tale data– potesse esservi alcuna costruzione “in appoggio” sul muro
perimetrale lato sud su cui si apre la finestra.
6.2.3 - Alla luce delle suesposte coordinate ermeneutiche e risultanze
istruttorie, può affermarsi che non a ragione si duole parte ricorrente
delle conclusioni cui è addivenuto il Comune con riguardo all’epoca di
ultimazione del manufatto insistente sulla particella n. 490.
6.2.3.1 – Tutto quanto innanzi esposto è sufficiente a fondare la
legittimità del provvedimento di diniego impugnato, risultando le scrutinate
ragioni sufficienti a sorreggerlo.
6.2.4 – In applicazione dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990 secondo cui
«non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato», possono assorbirsi le restanti censure di
carattere procedimentale articolate in ricorso
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 29.03.2021 n. 2085 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare che “in materia
edilizia la circostanza che sia stata accertata l'abusività
di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, un
presupposto sufficiente per l'applicazione della sanzione
demolitoria, non essendo prevista la necessità di alcuna
specifica motivazione sull'esistenza di un interesse
pubblico che giustifichi l'ingiunzione, né essendo in alcun
modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva”.
“Poiché l'adozione dell'ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell'autotutela decisoria, si deve
escludere che l'ordinanza di demolizione di opere abusive
debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. Infatti, il decorso del tempo non può
incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a
perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa
sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può
radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere
"legittimo" in capo ai proprietari dell'abuso”.
---------------
6. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta
l’insussistenza di interesse pubblico alla demolizione del
fabbricato nonché la illogicità ed irragionevolezza della
pretesa demolizione foriera di danno economico per la
ricorrente e per l’amministrazione comunale.
La ricorrente sostiene che vi sia stata violazione del
principio di proporzionalità poiché la scelta della misura
ingiunta, a fronte di interessi pubblici poco chiari e non
esplicitati, è foriera di pregiudizi particolarmente gravosi
sia per l’amministrazione che per il privato. Lo stesso
Comune, infatti, da un lato ingiunge la demolizione
dell’edificio ma dall’altro, in una richiesta di parere al
MIBAC del 21.02.2017 (prot. 613, doc. 7 allegato al
ricorso), affermava che “l’ordine di demolire i
manufatti, quale condizione necessaria, per poi ottenere
l’Autorizzazione Paesaggistica, realizzando probabilmente
gli stessi fabbricati, appare una logica irragionevole ed
impone un sacrificio ed un danno inimmaginabile per i
privati cittadini e per il comune stesso”.
Anche tale censura non persuade.
Quanto alla necessità di una motivazione in ordine
all’interesse pubblico nel caso di specie si è già detto
scrutinando il primo motivo, cui si rinvia.
Quanto alla proporzionalità delle misure adottate rispetto
agli interessi in gioco si osserva che il particolare
contesto normativo che tutela gli interessi paesaggistici
risulta particolarmente stringente e non lascia spazio,
soprattutto dopo la novella introdotta dal D.Lgs. n.
157/2006, a misure alternative che si sostanzierebbero, di
fatto, in ipotesi di sanatoria. Tali aspetti sono già stati
scrutinati nel secondo motivo, cui si rinvia.
La giurisprudenza, del resto, ha avuto modo di evidenziare
che “in materia edilizia, la circostanza che sia stata
accertata l'abusività di un'opera edilizia costituisce, già
di per sé, un presupposto sufficiente per l'applicazione
della sanzione demolitoria, non essendo prevista la
necessità di alcuna specifica motivazione sull'esistenza di
un interesse pubblico che giustifichi l'ingiunzione, né
essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva” (TAR Toscana Firenze Sez. III,
11/03/2019, n. 343).
“Poiché l'adozione dell'ingiunzione di demolizione non
può ascriversi al genus dell'autotutela decisoria, si deve
escludere che l'ordinanza di demolizione di opere abusive
debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. Infatti, il decorso del tempo non può
incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a
perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa
sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può
radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere
"legittimo" in capo ai proprietari dell'abuso” (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis, 10/09/2018, n. 9218).
Anche l’affermazione di parte ricorrente circa l’illogicità
del percorso demolitorio (ripresa dal citato passaggio
contenuto nella richiesta di parere che il Comune ha inviato
al MIBAC il 21.02.2017) non è supportata da alcun argomento
probatorio.
Sia la ricorrente che, a maggior ragione la resistente (che
in sede processuale ha assunto posizioni incompatibili con
le precedenti perplessità), non hanno fornito alcun elemento
che possa indurre, anche solo in via presuntiva, a ritenere
che in sede di una nuova ipotetica richiesta la relativa
autorizzazione paesaggistica verrebbe rilasciata ed il
vincolo di inedificabilità (dovuto alla presenza della
fascia di rispetto del torrente Sizzone) cesserebbe di
operare. Così come non risulta presentata alcuna richiesta
di compatibilità paesaggistica dell’intervento ai sensi
dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2009, non potendo valere a
tali scopi la citata autorizzazione paesaggistica n.
40/2011. Quest’ultima, pur contenendo nei vari allegati di
cui si compone, planimetrie ed illustrazioni dell’intero
intervento, è stata rilasciata palesemente con riferimento
ad una istanza di PDC in variante (con particolare
riferimento ad alcune modifiche interne ed alla recinzione)
non essendovi alcuna prova che il giudizio in essa
esplicitato si riferisca all’intero complesso.
Per tali ordini di ragioni anche il quarto motivo non è
fondato (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 26.03.2021 n. 342 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusi edilizi, la P.A. ha l'obbligo di adottare l'ordine di
demolizione per il sol fatto d’aver riscontrato l'esistenza di opere abusive
che soggiacciono a tal regime sanzionatorio.
Sicché non è prospettabile in generale alcun affidamento (né legittimo, né
di mero fatto) in capo al proprietario a scampare dalla sanzione relativa al
tipo d’abuso edilizio commesso, né che questi possa dolersi dell'eventuale
ritardo con cui la P.A. abbia emanato il provvedimento repressivo.
Il provvedimento sanzionatorio non richiede neppure una particolare
motivazione (essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere
illecito dell'opera realizzata), né si impone una comparazione previa
dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso (che è in re ipsa) con
l'interesse del privato proprietario del manufatto illecito, neppure quando
l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso.
---------------
La questione dell’“eccezione” sul preteso legittimo affidamento
dell’appellante, indotto dal ritardo comunale nell’esercizio del potere
repressivo, è inammissibile tanto in rito, quanto in merito.
In realtà, a parte che non si riscontra alcunché a tal riguardo nei verbali
del giudizio di primo grado, si tratta d’un nuovo motivo di primo grado
fatto valere tardivamente in appello.
Ma pur a seguire tal tesi nel merito, ancora da ultimo la Sezione (cfr.
Cons. St., VI, 29.12.2020 n. 8501, ma cfr. pure id., 23.10.2020 n. 6443), ha
ribadito il proprio fermo orientamento secondo cui, in materia di abusi
edilizi, la P.A. ha l'obbligo di adottare l'ordine di demolizione per il sol
fatto d’aver riscontrato l'esistenza di opere abusive che soggiacciono a tal
regime sanzionatorio. Sicché non è prospettabile in generale alcun
affidamento (né legittimo, né di mero fatto) in capo al proprietario a
scampare dalla sanzione relativa al tipo d’abuso edilizio commesso, né che
questi possa dolersi dell'eventuale ritardo con cui la P.A. abbia emanato il
provvedimento repressivo. Il provvedimento sanzionatorio non richiede
neppure una particolare motivazione (essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata), né si impone
una comparazione previa dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso
(che è in re ipsa) con l'interesse del privato proprietario del
manufatto illecito, neppure quando l'intervento repressivo avvenga a
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso (cfr., per tutti, la
ricapitolazione di tutti i principi sulle sanzioni urbanistiche contenuta in
Cons. St., 10.01.2020 n. 254)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.03.2021 n. 2365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Lottizzazione abusiva –
Prescrizione del reato – Causa di non punibilità ex art. 129
cod. proc. pen. – Valutazione degli elementi oggettivi e
soggettivi – Confisca del terreno e delle opere abusivamente
realizzate – Diritto alla difesa – Artt. 30, 44 d.P.R. n.
380/2001.
In tema di lottizzazione abusiva, anche
in presenza di una causa estintiva del reato, può essere
necessario proseguire il processo per accertare il reato,
nei suoi estremi oggettivi e soggettivi, al fine di adottare
il provvedimento di confisca urbanistica, in quanto il
principio generale della immediata declaratoria della causa
di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen. è
implicitamente derogato da disposizioni speciali che
prevedono l’applicazione di misure che il giudice penale è
tenuto ad applicare.
Sicché, qualora il giudice abbia rilevato una diversa data
di consumazione del reato rispetto a quanto indicato nel
capo di imputazione, anche a seguito della audizione di
testimoni, dovrà prendere atto dell’eventuale prescrizione
decorrente dalla nuova data.
In sintesi, dall’accertamento del reato nei suoi elementi
oggettivi e soggettivi, il giudice, nel dichiarare la
prescrizione può disporre anche la confisca del terreno e
delle opere abusivamente realizzate, assicurando il pieno
contraddittorio e la più ampia partecipazione degli
interessati, e che verifichi, sotto il secondo aspetto,
l’esistenza di profili quantomeno di imprudenza, negligenza
e difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali
la misura viene ad incidere.
...
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Lottizzazione abusiva c.d.
mista – Frazionamento di singoli lotti – Natura di reato
progressivo – Decorrenza del termine di prescrizione.
Nel caso di lottizzazione abusiva c.d.
mista, trattandosi di reato progressivo al quale si applica
la disciplina del reato permanente, il termine di
prescrizione inizia a decorrere solo dopo la ultimazione sia
dell’attività negoziale, sia dell’attività di edificazione,
e cioè, in quest’ultima ipotesi, dopo il completamento dei
manufatti realizzati sui singoli lotti oggetto del
frazionamento (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.03.2021 n. 10123 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Quando va osservata la distanza di dieci metri? La distanza di dieci metri dalle pareti finestrate di preesistenti edifici,
prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata anche quando la nuova
costruzione sia fronteggiata da un balcone che aggetta da una parete in sé
non frontistante.
L’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla
posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di
edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne
abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla
norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto
che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non
certo le “illiceità edilizie” dei terzi.
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui
nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d.
interesse illegittimo o emulativo.
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata
nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il
proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria
dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non
appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella
relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento
del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al
momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un
sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e
realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui
l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto
condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di
edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a
paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena
il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio
discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con
riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un
immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul
diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non
può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio
rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
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L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per
i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri
tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica
sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865,
che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi
confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico
assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva.
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In ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma
non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le
pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite
di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia
aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
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Dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei
signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della
signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla
parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone
che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De
Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed
indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15
dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una
sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una
parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo:
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
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11. Le questioni oggetto del presente, articolato, giudizio sono
sostanzialmente tre:
a) la legittimazione dei signori De Fa. ad agire in giudizio per
contestare il titolo edilizio rilasciato alla signora Na.Pa.;
b) la realizzazione della costruzione della signora Pa.in assenza o
in difformità ai titoli abilitativi in precedenza rilasciati, il che, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 19 del 2009,
escluderebbe la possibilità della realizzazione, con i benefici del c.d.
piano casa, dell’intervento edilizio oggetto del presente giudizio;
c) il rispetto delle distanze minime legali tra i fabbricati.
11.1. L’appellante principale ha dedotto l’insussistenza della
legittimazione all’impugnazione da parte dei signori De Fa., in ragione
dell’abusività dei loto titoli edilizi.
L’insussistenza delle condizioni soggettive dell’azione, peraltro, potrebbe
e dovrebbe anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.1.1. La questione assume evidente rilievo in quanto l’abuso edilizio di
per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi
intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di
edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne
abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla
norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto
che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non
certo le “illiceità edilizie” dei terzi (cfr. Cons. Stato, IV, n.
1874 del 2009, richiamata da Cons. Stato, IV, n. 3968 del 2015).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui
nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d.
interesse illegittimo o emulativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del
2015; n. 9 del 2014).
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata
nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il
proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria
dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non
appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella
relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento
del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al
momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un
sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e
realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui
l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto
condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di
edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a
paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena
il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio
discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con
riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un
immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul
diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non
può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio
rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella
fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in
cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti
l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal
titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo
piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Salvatore De Fa.;
l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci.
De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di
proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà,
rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti
con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai
inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa.,
invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato
in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed
al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso
risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di
piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei
balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe
calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla
documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che
siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono
in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso
le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento
edilizio assentito alla signora Pa. atteso che, al momento del rilascio dei
titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano
comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché
potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da
parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel
momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la
complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno
sostenuto che la signora Palma non avrebbe potuto beneficiare del permesso a
costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta
nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n.
19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
11.2.2. L’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 9 del 2009
prevede che gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7, non
possono essere realizzati su edifici che, al momento della presentazione
della denuncia di inizio di attività edilizia o della richiesta di permesso
di costruire, risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo
abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 32 del d.P.R. n.
380 del 2001, al primo comma, determina le variazioni essenziali, disponendo
che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli
standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio
da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del
progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di
pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, indica che non possono
ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità
delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Il provvedimento di convalida, come prima indicato, è stato adottato in
quanto l’Amministrazione ha qualificato non essenziali, ai sensi dell’art.
32 del d.P.R. n. 380 del 2001, le difformità tra lo stato di progetto
dell’originario PdC n. 55 del 2008 e successiva variante e lo stato di fatto
di cui al PdC n. 76 del 2016 e, a tal fine, la convalida ha fatto
riferimento alle relazioni del 23.03.2018 e del 03.04.2018, riguardanti i
sopralluoghi effettuati dal responsabile del procedimento.
In particolare, dal sopralluogo del 30.03.2018, di cui alla relazione del
03.04.2018, è emerso che:
“Per quanto riguarda la verifica del piano seminterrato, riportato nei
grafici progettuali come ‘area non rilevata’, è stato verificato lo stato
dei luoghi rispetto a quanto assentito con il permesso di Costruire n. 55
del 23.10.2008.
In data 30.3.2018 lo stato di fatto presenta una diminuzione della
superficie calpestabile e delle difformità di distribuzione interna e
aperture esterne rispetto al permesso di costruire n. 55/2008, in
particolare è stata ampliata la zona garage ed è stata realizzata a 9,57 m
circa dall’ingresso del garage la parete divisoria con il locale deposito
con annesso wc.
Il primo piano ed il piano secondo sono realizzati in conformità ai grafici
stato di fatto allegati al permesso di costruire n. 76 del 27.12.2016.
Dalla verifica della documentazione agli atti d’ufficio si fa rilevare che
lo stato di fatto del piano primo e del piano secondo riportato nei grafici
allegato al permesso di costruire n. 76/2016 presentano delle difformità in
termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni rispetto a
quanto assentito con il permesso di costruire n. 55/2008”.
Pertanto, il Comune di Volla, ritenuto che il piano seminterrato non ha
cambiato destinazione d’uso e che sono state rilevate difformità in termini
di distribuzione interna e apertura dei vani esterni, ha qualificato come
non essenziali le variazioni.
Tale qualificazione, sulla base della indicata relazione, non appare
irragionevole.
Né, i signori De Fa. hanno specificamente contestato l’esito dei
sopralluoghi svolti dall’Amministrazione comunale, deducendone il
travisamento dei fatti, nemmeno attraverso l’eventuale proposizione di una
querela di falso o con gli altri strumenti di tutela previsti, per cui deve
ritenersi che non abbiano fornito un adeguato supporto probatorio alla loro prospettazione relativa all’avvenuto cambio di destinazione d’uso del piano
seminterrato in abitazione ed alla presenza di altre modifiche in ipotesi
essenziali, in misura tale da sovvertire l’istruttoria e la valutazione
operata dall’Amministrazione.
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello
incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con
cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla
violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
“Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai
grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di
chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il
progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione
di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine
con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta
posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete
frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un
prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n.
23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento
di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha
convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva
SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli
stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti,
sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della
precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo
presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444
del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il
balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la
misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non
radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione
del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini
dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per
i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri
tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica
sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865,
che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi
confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico
assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass.
II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie
in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se
non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come
sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968
sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie
astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II,
ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ.,
19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n.
12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n.
5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV,
21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n.
4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma
non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come
finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le
pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite
di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia
aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla
parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della
parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla
parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone
che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De
Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed
indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15
dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una
sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una
parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471):
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993,
n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti
dalla signora Palma e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione
dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure
presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique
sul fondo vicino (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 04.03.2021 n. 1841 -
link a www-giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2021 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: In conformità a un indirizzo giurisprudenziale
consolidatissimo, grava sulla
parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per
conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua
realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate.
Gli
elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano
infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la
distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza
alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi
espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia
riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza
originaria di quest’ultimo.
La prova, peraltro, non può essere data
attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso
autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono
sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti
dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla
formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili
riscontri oggettivi.
...
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni,
potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di
“mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a
dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio
identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali.
L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per
atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile
nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire.
---------------
2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 2, co. 1, della legge regionale toscana n. 53/2004 ammette a sanatoria
straordinaria le opere e gli interventi sottoposti a concessione edilizia,
ovvero a denuncia di inizio di attività, che siano stati realizzati con
variazioni essenziali dal titolo abilitativo o, comunque, in difformità
rispetto ad esso, anche se non conformi agli strumenti urbanistici; nonché
le opere e gli interventi sottoposti a denuncia di inizio attività
realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, anche se non
conformi agli strumenti urbanistici.
Il legislatore toscano nell’esercizio delle sue prerogative (cfr. Corte Cost.,
28.06.2004, n. 196) ha dunque escluso dal “terzo condono”, per quanto
qui interessa, gli interventi soggetti al regime della concessione
edilizia/permesso di costruire realizzati in assenza del titolo. E, come
riferito inizialmente, il diniego qui impugnato si fonda proprio sulla
ritenuta inammissibilità a sanatoria dell’intervento realizzato dalla
ricorrente, qualificato dal Comune in termini di “costruzione ex novo”, in
quanto tale bisognosa di concessione/permesso di costruire, nella specie mai
richiesto e rilasciato.
La qualificazione dell’intervento riveste pertanto, ai fini della decisione,
un ruolo dirimente e preliminare rispetto agli ulteriori temi controversi.
Il Comune desume che si sarebbe in presenza di una nuova costruzione dalla
stessa istanza di sanatoria e dalla relazione tecnica alla stessa allegata,
che si limitano a riportare la descrizione del manufatto abusivo nel suo
stato attuale e finale, senza alcun riferimento a un’attività di restauro di
un fabbricato preesistente. E già nel contraddittorio procedimentale,
originato dalle osservazioni al preavviso di diniego, aveva appunto rilevato
come l’istanza di condono non facesse alcuna menzione di preesistenze
edilizie.
Di contro, la ricorrente sostiene che nell’istanza di sanatoria non si
parlerebbe mai di nuova costruzione, e che la prova della preesistenza
sarebbe stata fornita con la relazione tecnico-amministrativa del 19.04.2012, trasmessa al Comune a integrazione della pratica e successivamente
unita alle osservazioni formulate a norma dell’art. 10-bis l. n. 241/1990,
ove si attesta l’ubicazione del manufatto “nel medesimo luogo ove
risultavano mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici",
come attestato peraltro da atto pubblico di compravendita del 14.12.1999
(trascritto a Grosseto il 28.12.1999 RGN 18757, registrato ad Orbetello il
30.12.1999 al n. 597) intercorso tra la società ‘Is.Ro. di Ma.
E.C. s.a.s.” e la sig.ra An.An. (...)”.
Nella medesima relazione tecnico-amministrativa si legge altresì che la
costruzione “risulta essere stata riedificata su fondazioni comunque
preesistenti (restituzione in pristino)”.
Ricostruiti nel dettaglio gli argomenti delle parti, il collegio in primo
luogo ricorda che –in conformità a un indirizzo giurisprudenziale
consolidatissimo, dal quale non vi è ragione di discostarsi– grava sulla
parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per
conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua
realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate. Gli
elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano
infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la
distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza
alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi
espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia
riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza
originaria di quest’ultimo. La prova, peraltro, non può essere data
attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso
autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono
sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti
dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla
formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili
riscontri oggettivi (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2020, n. 2660; id., sez. II, 18.03.2020, n. 1929; id., sez. IV,
01.04.2019, n. 2115).
Nel caso in esame, le sole dichiarazioni asseverate riferibili alla
ricorrente o ai suoi tecnici sono quelle originariamente contenute nella
pratica di sanatoria (l’istanza di condono e la relazione tecnica allegata),
che, come si è visto, si limitano a descrivere lo stato attuale del
fabbricato e non fanno riferimento a preesistenze, né qualificano
l’intervento nei termini pretesi dalla signora An. (restauro e
risanamento conservativo).
La relazione tecnico-amministrativa dell’aprile 2012 e le osservazioni al
preavviso di diniego riferiscono, dal canto loro, che la preesistenza del
fabbricato sarebbe attestata dal contratto di acquisto della proprietà,
risalente al 14.12.1999, ma l’affermazione non può essere verificata,
stante la mancata produzione in giudizio del contratto, che pure deve
presumersi nella disponibilità della ricorrente.
Del pari, non è stata prodotta la relazione di accompagnamento a un’istanza
a suo tempo presentata da certo arch. Te. ai sensi dell’art. 13 della legge
n. 47/1985, anch’essa citata nelle osservazioni ex art. 10-bis e nella
relazione tecnico-amministrativa, e che confermerebbe l’avvenuta
riedificazione del fabbricato su fondazioni preesistenti.
Facendo applicazione dell’indirizzo interpretativo richiamato da principio,
gli elementi probatori a disposizione –che si riducono a dichiarazioni
provenienti dalla stessa parte interessata o dai suoi professionisti di
fiducia– sono del tutto inadeguati a dimostrare la preesistenza del
fabbricato.
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni,
potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di
“mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a
dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio
identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali. L’intervento,
come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a
ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della
nuova opera soggetta a permesso di costruire (cfr. TAR Toscana, sez. III,
22.02.2019, n. 286).
Né vale sostenere, da parte della ricorrente, che attraverso la nozione di
rudere il Comune abbia inteso integrare a posteriori la motivazione
dell’atto impugnato. Ribadito che la preesistenza del fabbricato non è stata
dimostrata, gli argomenti difensivi spesi dal Comune sono volti (non a
integrare il provvedimento impugnato, ma) a evidenziare come gli unici
elementi ricavabili dalla relazione tecnico-amministrativa della ricorrente
non permettano di risalire a una preesistenza definita nei suoi elementi
costitutivi, di modo che, a tutto voler concedere, non ne risentirebbe la
qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione.
2.1.2. In forza di tutto quanto precede, il ricorso non può trovare
accoglimento (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.01.2021 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2020 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio XV prot.
CU 97347 del 25.11.2020 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. QI 138499 del
25.11.2020), inerente la richiesta di chiarimenti in merito alle “Tolleranze
costruttive” di cui all’art. 34-bis del D.P.R. 380/2001 (Comune di
Roma,
nota 11.12.2020 n. 148518 di prot.).
---------------
Si leggano, al riguardo, altri precedenti pareri collegati:
●
Oggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del
Municipio VII prot. Cl 146146 del 26.06.2018 (pervenuta al D.P.A.U. con prot.
Ql 113427 del 03.07.2018), inerente l'applicabilità dell'art. 34, comma
2-ter, dpr 380/2001 per la chiusura di una loggia
(Comune di Roma,
nota 08.08.2018 n. 135807 di prot.).
●
Oggetto: Riscontro richiesta parere U.O.T. Municipio III (ex IV) prot.
125685 del 14.12.2015 (acquisita al D.P.A.U. con prot. 207401 del
18.12.2015), inerente le intervenute modifiche al dpr 380/2001 con la Legge
106/2011 - art. 34, comma 2-ter
(Comune di Roma,
nota 15.02.2016 n. 26496 di prot.). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Confisca dei terreni abusivamente
lottizzati e delle opere abusivamente costruite –
Accertamento del reato – Buona fede del terzo acquirente –
Valutazione della condotta – Artt. 30, 44 d.P.R. 380/2001.
In tema di lottizzazione abusiva, la
confisca possa essere applicata anche al di fuori dei casi
di condanna, a condizione che nella condotta del terzo
acquirente, sul cui patrimonio la misura viene ad incidere,
siano riscontrabili quantomeno profili di colpa.
Pertanto, anche il compratore che omette di acquisire ogni
prudente informazione circa la legittimità dell’acquisto si
pone colposamente in una situazione di inconsapevolezza che
fornisce, comunque, un determinante contributo causale
all’attività illecita del venditore.
Sicché, la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e
delle opere abusivamente costruite nei confronti del terzo
acquirente di tali beni, presuppone non solo che questi
abbia partecipato inconsapevolmente all’operazione illecita
e che, quindi, non sia concorrente nel reato, ma anche che
abbia gestito la propria attività contrattuale e
precontrattuale assumendo le necessarie informazioni sulla
sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità
dell’intervento agli strumenti urbanistici, dovendosi anche
tenere conto, sotto questo profilo, del comportamento della
pubblica amministrazione.
...
Lottizzazione abusiva negoziale – Plurisoggettività del
reato – Malafede dei venditori – Terzo estraneo al reato di
lottizzazione abusiva – Condotta – Nesso causale – Buona
fede – Normale diligenza.
La lottizzazione abusiva negoziale ha
carattere generalmente plurisoggettivo, poiché in essa
normalmente confluiscono condotte convergenti verso
un’operazione unitaria caratterizzata dal nesso causale che
lega i comportamenti dei vari partecipi diretti a
condizionare la riserva pubblica di programmazione
territoriale.
La condotta dell’acquirente, in particolare, non configura
un evento imprevisto ed imprevedibile per il venditore,
perché anzi inserisce un determinante contributo causale
alla concreta attuazione del disegno criminoso di quegli e,
per la cooperazione dell’acquirente nel reato, non sono
necessari un previo concerto o un’azione concordata con il
venditore, essendo sufficiente, al contrario, una semplice
adesione al disegno criminoso da quegli concepito, posta in
essere anche attraverso la violazione (deliberatamene o per
trascuratezza) di specifici doveri di informazione e
conoscenza che costituiscono diretta esplicazione dei doveri
di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione.
L’acquirente, dunque, non può sicuramente considerarsi, solo
per tale sua qualità, “terzo estraneo” al reato di
lottizzazione abusiva, ben potendo egli tuttavia, benché
compartecipe al medesimo accadimento materiale, dimostrare
di avere agito in buona fede, senza rendersi conto cioè —pur
avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento
degli anzidetti doveri di informazione e conoscenza— di
partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione.
Quando, invece, l’acquirente sia consapevole dell’abusività
dell’intervento —o avrebbe potuto esserlo spiegando la
normale diligenza— la sua condotta si lega con intimo nesso
causale a quella del venditore ed in tal modo le rispettive
azioni, apparentemente distinte, si collegano tra loro e
determinano la formazione di una fattispecie unitaria ed
indivisibile, diretta in modo convergente al conseguimento
del risultato lottizzatorio.
Le posizioni, pertanto, sono separabili se risulti provata
la malafede dei venditori, che, traendo in inganno gli
acquirenti, li convincono della legittimità delle
operazioni.
...
Lottizzazione abusiva – Confisca – Opposizione del terzo
rimasto estraneo al procedimento – Poteri del giudice
dell’esecuzione – Valutazione della condotta del terzo.
In tema di confisca conseguente a
lottizzazione abusiva disposta al di fuori dei casi di
condanna, il giudice dell’esecuzione, investito come nel
caso che ci occupa della opposizione del terzo rimasto
estraneo al procedimento, è tenuto ad accertare, dal punto
di vista oggettivo, l’effettiva esistenza della
lottizzazione e, dal punto di vista soggettivo,
l’insussistenza della buona fede nella condotta del terzo
acquirente dell’immobile, sulla base di quanto provato dalla
pubblica accusa.
...
Lottizzazione abusiva – Causa estintiva del reato per
intervenuta prescrizione e confisca – Presupposti.
In tema di lottizzazione abusiva, la
confisca di cui all’art. 44, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, può essere disposta anche in presenza di una causa
estintiva del reato determinata dalla prescrizione, purché
la sussistenza del fatto sia stata già accertata, sotto il
profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio
che abbia assicurato il pieno contraddittorio e la più ampia
partecipazione degli interessati, fermo restando che, una
volta intervenuta detta causa, il giudizio, in applicazione
dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., non può proseguire
al solo fine di compiere il predetto accertamento.
In sintesi, l’estinzione del reato per intervenuta
prescrizione non è ostativa alla confisca, qualora sia stato
assicurato il contraddittorio e il diritto alla prova.
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Lottizzazione abusiva – Poteri
del giudice – Accertamento del reato nei suoi elementi
oggettivi e soggettivi.
In tema di lottizzazione abusiva, il
giudice del dibattimento non è tenuto all’immediata
declaratoria della causa di estinzione del reato per
intervenuta prescrizione nel corso del giudizio ai sensi
dell’art. 129 cod. proc. pen., dovendo proseguire
l’istruttoria per accertare il reato nei suoi elementi
oggettivi e soggettivi al fine di disporre la confisca
urbanistica del bene sottoposto a sequestro.
Sicché, la confisca può essere disposta anche dal giudice
dell’esecuzione che provvede de plano, a norma degli
articoli 676 e 667, comma 4, cod. proc. pen., ovvero
all’esito di procedura in contraddittorio a norma dell’art.
666 dello stesso codice, salvo che sulla questione non abbia
già provveduto il giudice della cognizione, con conseguente
preclusione processuale.
Dunque, presupposto essenziale ed indefettibile, per
l’applicazione della confisca in oggetto, è che sia stata
accertata l’effettiva esistenza di una lottizzazione
abusiva; ulteriore condizione, però, che si riconnette alle
recenti decisioni della Corte di Strasburgo, investe
l’elemento soggettivo del reato ed è quella del necessario
riscontro quanto meno di profili di colpa (anche sotto gli
aspetti dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di
vigilanza) nella condotta dei soggetti sul cui patrimonio la
misura viene ad incidere
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 03.12.2020 n. 34365 - link a www.ambientediritto.it). |
novembre 2020 |
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URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Proscioglimento per prescrizione del
reato – Confisca – Verifica delle componenti oggettive e
soggettive – Fattispecie – Artt. 30, 44, d.P.R. 380/2001.
Il principio di adozione in via
immediata del proscioglimento (in esso compreso quello
dovuto ad estinzione del reato) va riaffermato, sicché il
giudice di primo grado potrà disporre la confisca solo ove,
anteriormente al momento di maturazione della prescrizione,
sia stato comunque già accertato, nel contraddittorio delle
parti, il fatto di lottizzazione nelle sue componenti
oggettive e soggettive”.
Nella specie, sia il giudice di appello quanto quello di
primo grado non hanno motivato adeguatamente sulla
sussistenza dell’elemento psicologico, pertanto, è stato
ritenuto dal giudice di legittimità che di disporre
l’annullamento con rinvio, al fine di consentire al giudice
di appello di pronunciarsi sulla confisca in base all’art.
578-bis, cpp, non potendo disporre la revoca della
statuizione ablatoria.
...
Reato di lottizzazione abusiva attraverso la modifica della
destinazione d’uso di immobili – Reato di lottizzazione
abusiva – Configurabilità.
In materia urbanistica, può senz’altro
configurarsi il reato di lottizzazione abusiva attraverso la
modifica di destinazione d’uso di immobili oggetto di un
piano di lottizzazione mediante il frazionamento di un
complesso immobiliare in modo che le singole unità perdano
la originaria destinazione d’uso per assumere quella
residenziale: modificazione che si pone in contrasto con lo
strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione.
...
Confisca di un immobile abusivamente lottizzato disposta
anche nei confronti dei terzi acquirenti – Elementi
oggettivi e soggettivi – Profili di colpa nell’attività
precontrattuale e contrattuale – Terzo acquirente in buona
fede.
In tema di reati edilizi, la confisca di
un immobile abusivamente lottizzato può essere disposta
anche nei confronti dei terzi acquirenti, qualora nei
confronti degli stessi siano riscontrabili quantomeno
profili di colpa nell’attività precontrattuale e
contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie
informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e
sulla compatibilità dell’intervento con gli strumenti
urbanistici.
Tali passaggi chiariscono che il terzo acquirente di buona
fede, che ha a buon titolo confidato nella conformità del
bene alla normativa urbanistica, non può subire la confisca
e che l’onere di dimostrare l’assenza di buona fede grava
sull’accusa.
Del resto, in tema di reati edilizi, la condizione di buona
fede, che nel caso di accertamento del reato di
lottizzazione abusiva preclude la confisca dei terreni
abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite
nei confronti del terzo acquirente di tali beni, presuppone
non solo che questi abbia partecipato inconsapevolmente
all’operazione illecita e che, quindi, non sia concorrente
nel reato, ma anche che abbia gestito la propria attività
contrattuale e precontrattuale assumendo le necessarie
informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e
sulla compatibilità dell’intervento agli strumenti
urbanistici, dovendosi anche tenere conto, sotto questo
profilo, del comportamento della pubblica amministrazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2020 n. 31182 - link a www.ambientediritto.it). |
ottobre 2020 |
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URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Atti di frazionamento o suddivisione
delle opere – Illecito lottizzatorio – Natura di reato
permanente a forma libera e progressiva nell’evento –
Rilevanza della condotta.
L’illecito lottizzatorio è sicuramente
reato permanente, ma è anche e soprattutto reato a forma
libera e progressivo nell’evento, che sussiste anche quando
l’attività posta in essere sia successiva agli atti di
frazionamento o all’esecuzione delle opere, posto che tali
iniziali attività non esauriscono l’iter criminoso, che si
protrae attraverso gli ulteriori interventi che incidono
sull’assetto urbanistico, con ulteriore compromissione delle
scelte di destinazione ed uso del territorio riservate
all’autorità amministrativa competente.
Infatti, l’oggetto materiale del reato di lottizzazione
abusiva non è la singola costruzione, bensì la
trasformazione edilizia realizzata incompatibilmente con gli
strumenti di pianificazione urbanistica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2020 n. 28495 - link a
www.ambientediritto.it). |
settembre 2020 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Stante
il disposto di cui all’art.
13 della legge n. 689 del 1981, gli organi preposti all’accertamento di
illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi
dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di
violazione di domicilio di cui all’art.
614 cod. pen., la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e
degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma
dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della
vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il
consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi
comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano
luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta
categoria di persone, e non soltanto ai condomini.
---------------
1. La ricorrente impugna l’ordinanza con cui il Comune di Gignod le ha
ordinato di rimuovere -OMISSIS- collocata nel terreno di sua proprietà, sul
presupposto che si tratti di un rifiuto abbandonato.
...
6. Con il primo motivo, si denuncia: violazione dell’art. 13 della
legge n. 689 del 1981; violazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006;
sviamento di potere; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990;
difetto d’istruttoria e motivazione; contraddittorietà.
In particolare, la ricorrente lamenta che l’ispezione, sulla quale
l’ordinanza si fonda, sia stata svolta sul suo terreno senza il suo consenso
e in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, come invece
richiesto per gli accessi a una proprietà privata; a tal fine, contesta che
il fondo sia gravato da una servitù di uso pubblico e sostiene che
l’eventuale circostanza che sia gravato da una servitù a vantaggio di altri
privati non lo renderebbe comunque aperto a un ingresso da parte di una
collettività indeterminata.
La difesa dell’Ente sostiene invece che la strada che attraversa il terreno,
ancorché di proprietà privata, sia asservita all’uso pubblico (e sia dunque
una “strada vicinale”), come dimostrerebbero il fatto che vi passano
una serie di condutture pubbliche, che sia stata asfaltata a cura e spese
del Comune e che a essa accedano indiscriminatamente tutti gli abitanti
della frazione.
Sebbene le parti abbiano dibattuto soprattutto sulla natura privata o
pubblica della strada che attraversa il terreno e sul novero dei soggetti
che possano legittimamente percorrerla, tale questione non appare dirimente,
con la conseguenza che questo Tribunale può esimersi dall’affrontarla (anche
perché si tratta di un problema di natura squisitamente civilistica che, di
per sé, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario).
A ben vedere, infatti, la ricorrente la solleva solo al fine d’invocare
l’applicabilità dell’art.
13 della legge n. 689 del 1981, secondo cui gli organi preposti
all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni
solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di
violazione di domicilio di cui all’art.
614 cod. pen. (in questi termini, si v. Cass. civ., sez, I, sent. n.
6361 del 2005), la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli
eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal
fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e
che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del
titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un
condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti
al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di
persone, e non soltanto ai condomini (si v., tra le tante, Cass. pen., sez.
V, sentt. n. 24755 del 01.06.2018 e n. 53438 del 24.11.2017).
Pertanto, nel caso di specie non è necessario verificare se, sul piano del
diritto privato, la strada che attraversa il terreno della ricorrente sia
gravata da una servitù privata o asservita all’uso pubblico, quanto
piuttosto se, in punto di fatto, risulti o meno accessibile ai terzi.
La risposta non può che essere positiva, perché si tratta di un’area aperta
e potenzialmente accessibile da un’indistinta categoria di persone, ovvero
dagli abitanti delle case vicine e da coloro che vi si dirigono (occorre
infatti rammentare che la stessa servitù di passaggio “civilistica”
può essere esercitata dal proprietario del fondo dominante anche in via
indiretta, attraverso le visite di terzi riferibili alle normali esigenze
della vita di relazione: sul punto si v., tra le più recenti, Cass. civ.,
sez. II, sent. n. 4821 del 2019).
Pertanto, per quanto è d’interesse in questo giudizio, il terreno della
ricorrente non può essere considerato una «privata dimora», ai sensi
dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che, sotto
questo profilo, l’accertamento è legittimo e il primo motivo di ricorso è
meritevole di rigetto (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 16.09.2020 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Reato di lottizzazione – Sanatoria produttiva di effetti
estintivi non previsti dalla legge – Esclusione –
Provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa Prima
del passaggio in giudicato della sentenza – Impossibilità
per il giudice di disporre la confisca – Presupposti –
Giurisprudenza.
In materia urbanistica, deve essere e
esclusa la possibilità di una sanatoria produttiva di
effetti estintivi del reato di lottizzazione, che non è
prevista dalla legge, riconoscendo tuttavia la possibilità
che alcuni provvedimenti adottati dall’autorità
amministrativa, prima del passaggio in giudicato della
sentenza, comportino quale conseguenza, se legittimamente
emanati, l’impossibilità per il giudice di disporre la
confisca.
E ciò avviene, senz’altro, allorquando l’autorità
amministrativa competente, riconoscendo ex post la
conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici
generali vigenti sul territorio, rinunci ad acquisire i beni
al patrimonio indisponibile dello Stato.
Nell’ipotesi successiva al passaggio in giudicato della
sentenza di condanna, la Corte di cassazione non ha espresso
un orientamento univoco.
In alcuni casi, ha ritenuto che, ferma la piena ed
incondizionata potestà di programmazione e gestione del
territorio dell’autorità amministrativa, il successivo
adeguamento degli immobili acquisiti agli standard
urbanistici già vigenti o l’adozione di nuovi strumenti
urbanistici non consentono la revoca della confisca di
lottizzazione (Cass.,
Sez. 3, n. 34881 del 22/04/2010, Franzese, che ha precisato
che l’amministrazione può legittimamente scegliere di non
esercitare in proprio le iniziative edificatorie e di non
conservare la proprietà sui terreni e manufatti che
eventualmente vi insistano, facendo ricorso a trasferimenti
volontari a titolo oneroso anche ai precedenti proprietari,
e n. 21125 del 12/04/2007, Licciardello).
In precedenza, aveva affermato invece che,
a seguito della sopravvenuta legittimità della
lottizzazione, la confisca doveva essere revocata, fermo
restando il reato penale
(Cass., Sez. 3, n. 35219 del 11/04/2017, Arcieri e n. 47272
del 30/11/2005, Iacopino).
Tale secondo orientamento è stato più di recente ribadito
dalle sentenze Sez. 3, n. 4373 del 13/12/2013, dep. 2014,
Franco, e n. 43591 del 18/02/2015, Di Stefano (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.09.2020 n. 25925 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi edilizi eseguiti in base a permesso di costruire
annullato: la Plenaria traccia i presupposti e le condizioni
della “fiscalizzazione” degli abusi.
La previsione
dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui l’autorità
comunale può irrogare una sanzione pecuniaria in caso di
permesso di costruire annullato, deve ritenersi fare
riferimento esclusivamente alla sussistenza di vizi che
riguardano forma e procedura che, alla luce di una
valutazione in concreto operata dall’amministrazione,
risultino di impossibile rimozione.
E’ questo il principio di diritto affermato dalla Plenaria,
la quale, nell’ambito delle diverse opzioni interpretative
solcate dalla giurisprudenza, ha preferito quella più
aderente al dato testuale e sistematico della disciplina di
riferimento, con la conseguenza che qualora i vizi del
titolo a suo tempo rilasciato, che ne hanno provocato
l’annullamento in sede giurisdizionale, siano relativi
all’insanabile contrasto del titolo edilizio con le norme di
programmazione e regolamentazione urbanistica, va esclusa
l’applicabilità del regime di fiscalizzazione dell’abuso in
ragione delle non rimovibilità del vizio.
---------------
Edilizia – Annullamento del permesso di costruire –
Applicazione sanzione pecuniaria – Condizioni
I vizi delle procedure amministrative
cui fa riferimento l’art. 38 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia”) ai fini dell’applicazione della
sanzione pecuniaria in caso di annullamento del titolo
edilizio, sono esclusivamente quelli che riguardano forma e
procedura che, alla luce di una valutazione in concreto
operata dall’amministrazione, risultino di impossibile
rimozione (1).
---------------
(1) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, a margine di una vicenda relativa
all’interpretazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001
(“Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia”) e, segnatamente,
all’identificazione dei vizi che consentono la sanatoria,
mediante irrogazione di una sanzione pecuniaria, di
interventi edilizi realizzati sulla base di un permesso di
costruire successivamente annullato, ha affermato –sulla
base di considerazioni di ordine testuale e sistematico– che
“i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente
quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di
una valutazione in concreto operata dall’amministrazione,
risultino di impossibile rimozione”.
La questione era stata rimessa da
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 11.03.2020, n. 1735
(oggetto della
News US in data 21.03.2020) la quale dopo aver
evidenziato la presenza, in giurisprudenza, di tre diverse
opzioni interpretative (c.d. “ampia”, “restrittiva”
e “intermedia”) aveva ritenuto preferibile quella
c.d. “intermedia” (che ammette la “fiscalizzazione”,
oltre che nei casi di vizi formali, anche nei casi di vizi
sostanziali, però emendabili), in tesi meglio rispondente
alla necessità di garantire l’affidamento di chi ha ottenuto
il rilascio del titolo poi annullato, sino al limite massimo
consentito dalla contrapposta tutela del terzo.
II. – L’iter procedimentale e contenzioso che ha condotto alla
controversia dinanzi al Giudice d’appello si è così
articolato:
a) il Comune ha rilasciato un permesso di
costruire per la ristrutturazione con ricostruzione di
presunte parti in precedenza crollate di un fabbricato
rurale (costituito da una tradizionale “tea”
composta, nell’assetto originario, da una costruzione di
legno con tetto a doppia falda, a due piani, di cui l’uno
adibito a stalla e l’altro superiore a fienile delle
dimensioni di mt. 6,10 x 5,7 in pianta), con
rilocalizzazione del manufatto e suo ampliamento;
b) l’intervento oggetto del titolo abilitativo è
stato eseguito dal soggetto al quale è stato rilasciato il
titolo abilitativo;
c) avverso tale provvedimento è insorta, con
ricorso al Tar per la Lombardia, la c.d. “controinteressata
procedimentale” (una vicina); d) tale ricorso è stato
accolto in primo grado con sentenza Tar per la Lombardia,
sez. II, 27.04.2016, n. 813, la quale è stata confermata con
sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2018, n.
1725; da qui la caducazione del titolo abilitativo
impugnato;
e) a seguito dell’annullamento giurisdizionale il
Comune ha dato seguito alle seguenti ulteriori fasi
procedimentali:
e1) ha comunicato alle parti
interessate (ossia ai titolari del permesso annullato e alla
vicina che ne aveva ottenuto l’annullamento), di avere
avviato un procedimento amministrativo volto
all’applicazione delle misure di cui all’art. 38 del d.P.R.
n. 380 del 2001;
e2) ha emesso un provvedimento
conclusivo del procedimento con il quale:
I) ha premesso di voler considerare come eccezionale, in
base ad un’interpretazione meno rigorosa dell’art. 38 d.P.R.
n. 380, la demolizione delle opere, e di voler privilegiare
la riedizione del titolo emendato da vizi, con irrogazione
della sanzione pecuniaria; II) ha ritenuto impossibile,
sulla base delle locali previsioni urbanistiche, eliminare i
vizi della procedura con il rilascio di un nuovo titolo, non
potendosi riallocare per ragioni tecniche la “tea”
nel sedime originario, avendo essa mantenuto la sua identità
di edificio storico tipico, con interesse
dell’amministrazione a conservarla nella posizione attuale;
III) ha evidenziato che il manufatto preesistente e
l’interrato realizzato al di sotto, non potrebbero demolirsi
senza pregiudizio della “tea” soprastante;
IV) ha evidenziato che sarebbe suscettibile di demolizione
solo l’ampliamento, dato che la pronuncia di annullamento ha
escluso che lo si potesse ritenere ricostruzione di una
preesistenza;
V) ha applicato ai proprietari titolari del permesso di
costruire annullato la sanzione pecuniaria di cui al
predetto, rinviando per liquidarla ad un successivo atto
della competente Agenzia delle entrate, quanto al manufatto
preesistente, ossia la tea originaria così come spostata di
sede, e all’interrato sottostante di nuova realizzazione;
VI) ha ordinato la demolizione della porzione oggetto di
ampliamento e del volume interrato ad essa sottostante,
ossia del corpo di fabbrica a monte, di mt. 6,90 x 5,60 in
pianta, realizzato in muratura quale presunto recupero delle
parti crollate;
f) tale ultimo provvedimento e l’atto
determinativo della sanzione sono stati –anch’essi–
impugnati dall’originaria ricorrente (ovvero dalla vicina) e
dai proprietari intestatari del permesso di costruire
annullato, l’una invocando l’integrale demolizione di tutto
quanto realizzato, gli altri invocando l’integrale
conservazione del bene contro il pagamento di una sanzione
ulteriore;
g) con la sentenza Tar per la Lombardia, sez. II,
17.01.2019, n. 98, previa riunione dei ricorsi, la domanda
volta alla caducazione dell’ordine di demolizione è stata
dichiarata improcedibile mentre quella intesa ad ottenere
l’ottemperanza della precedente sentenza è stata accolta con
conseguente declaratoria di nullità del provvedimento emesso
dal Comune e demolizione dell’intero manufatto;
h) la predetta sentenza ha inequivocabilmente
ritenuto che la sanatoria ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n.
380 del 2001 non sia possibile nel caso di vizi della
procedura non emendabili, e quindi ha aderito
all’orientamento più restrittivo tra quelli tratteggiati
dalla giurisprudenza;
i) avverso tale ultima sentenza è stato
interposto appello da parte dei proprietari del bene:
nell’ambito del relativo giudizio di secondo grado è
intervenuto il deferimento all’Adunanza plenaria definito
con la pronuncia in rassegna.
III. – Il percorso argomentativo seguito dall’Adunanza plenaria,
che ha ricostruito l’assetto della giurisprudenza sul tema,
è così articolato:
j) sul versante della disciplina e della ratio
che la connota:
j1) l’art. 38 d.P.R. n. 380 del
2001 prevede che “In caso di annullamento del permesso,
qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione,
la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria
pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest'ultima e
l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è
notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile
dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di
impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della
sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del
permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36
(comma 2)”, disposizione, quest’ultima, che disciplina
l’accertamento di conformità;
j2) effetto della disciplina di
cui trattasi è quello di tutelare, al ricorrere di
determinati presupposti e condizioni, l’affidamento
ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire
circa la legittimità della progettata e compiuta
edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando
il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del
permesso in sanatoria;
j3) detta equiparazione è solo
quoad effectum, costituendo un eccezionale
temperamento al generale principio secondo il quale la
costruzione abusiva deve essere sempre demolita;
temperamento in ragione, non già della sostanziale
conformità urbanistica (passata e presente) della stessa
(oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.),
ma della presenza di un permesso di costruire che ab
origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo
all’affidamento del privato alla luce della generale
presunzione di legittimità degli atti amministrativi;
j4) la composizione degli
opposti interessi in rilievo –tutela del legittimo
affidamento da una parte, tutela del corretto assetto
urbanistico ed edilizio dall’altra– è realizzato dal
legislatore per il tramite di una “compensazione”
monetaria di valore pari “al valore venale delle opere o
loro parti abusivamente eseguite” (c.d. fiscalizzazione
dell’abuso);
k) il predetto art. 38 contiene un’eccezionale
deroga al principio di necessaria repressione a mezzo
demolizione degli abusi edilizi, connotata da due
condizioni:
k1) la prima consistente nella
motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione
dei vizi delle procedure amministrative;
k2) la seconda identificata
nella motivata valutazione circa l’impossibilità di
restituzione in pristino;
l) dette condizioni –oltre che declinate in modo
generico dal legislatore, non avendo quest’ultimo chiarito
cosa debba intendersi per “vizi delle procedure
amministrative” e per “impossibilità” di
riduzione in pristino– si rivelano eterogenee poiché:
l1) la prima attiene alla sfera
dell’amministrazione e presuppone che l’attività di
convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del
permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2 l. n. 241
del 1990, mediante rimozione del vizio della relativa
procedura, non sia oggettivamente possibile;
l2) la seconda attiene alla
sfera del privato e concerne la concreta possibilità di
procedere al ripristino dello stato dei luoghi;
m) sul versante degli approdi cui è giunta la
giurisprudenza, essa ha, in alcuni casi, sostenuto che nei “vizi
della procedura” possano sussumersi tutti quelli
potenzialmente in grado di invalidare il provvedimento nella
duplice posizione di:
m1) vizi relativi alla forma e
al procedimento;
m2) vizi, invece, relativi alla
conformità del provvedimento finale rispetto alle previsioni
edilizie e urbanistiche disciplinati l’edificazione;
n) conseguentemente, secondo tale impostazione,
la c.d. fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla
tipologia del vizio (procedurale o sostanziale) avendo il
legislatore affidato l’eccezionale percorribilità della
sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale
dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda
le sue radici e la sua legittimazione nell’esigenza di
tutelare l’affidamento del privato, rinvenendosi in questa
chiave di lettura la “motivata valutazione” fornita
dall’amministrazione quale unico elemento sul quale il
sindacato del giudice amministrativo dovrebbe concentrarsi;
o) diverse, sono, ad avviso della Plenaria, le
coordinate interpretative dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del
2001, e ciò sulla base di argomenti di ordine “testuale”
e “sistematico”;
p) sul versante testuale:
p1) la disposizione fa
specifico riferimento ai vizi “delle procedure”,
avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che
possano giustificare l’operatività del temperamento più
volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi
del provvedimento che, non attenendo al procedimento,
involvono profili di compatibilità della costruzione
rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che
disciplina l’an e il quomodo dell’attività
edificatoria;
p2) non a caso il tenore della
norma impone, sia pur per implicito, all’amministrazione
l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio,
rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado
pacificamente sussumibile nell’esercizio del potere di
convalida contemplato in via generale dall’art. 21-nonies,
comma 2, della legge generale sul procedimento;
p3) d’altronde, la convalida
per il tramite della rimozione del vizio implica
necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”:
I) ogni diverso vizio inerente alla sostanza regolatoria del
rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente
risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di
quest’ultimo;
II) lo ius superveniens poiché riguardante il
contesto normativo generale, esula certamente dal concetto
di “rimozione del vizio”, riguardante la singola e
concreta fattispecie provvedimentale;
p4) il riferimento ad un vizio
procedurale astrattamente convalidabile delimita
operativamente il campo semantico della successiva e
connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità
di rimozione, dovendo per questa intendersi una
impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul
piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per
le motivate valutazioni espressamente fatte
dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto;
p5) diversamente da quanto
sostenuto dall’orientamento giurisprudenziale “estensivo”,
in casi siffatti il sindacato del giudice chiamato a
vagliare la legittimità della operata fiscalizzazione
dell’abuso deve avere ad oggetto proprio la natura del
vizio: la “motivata valutazione” dell’amministrazione
infatti attiene al preliminare vaglio amministrativo circa
la rimovibilità (anche) in concreto del vizio, ex art.
21-nonies comma 2, e rileva non già rispetto al binomio
fiscalizzazione/demolizione, quanto in relazione al diverso
binomio convalida/applicazione dell’art. 38, costituente
soglia di accesso per applicazione dell’intero impianto
dell’art. 38 (e non solo dell’opzione della
fiscalizzazione);
p6) la descritta esegesi è
confermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale
la quale nella sentenza 11.06.2010, n. 209 (in Giur. cost.,
2010, 2417, con nota di ESPOSITO) ha avuto modo di chiarire,
giudicando della legittimità di una norma di interpretazione
autentica di una disposizione provinciale di tenore identico
a quella nazionale in argomento (interpretazione autentica
tesa ad estendere la fiscalizzazione ai vizi sostanziali),
che “l'espressione «vizi delle procedure amministrative»
non si presta ad una molteplicità di significati, tale da
abbracciare i «vizi sostanziali», che esprimono invece un
concetto ben distinto da quello di vizi procedurali e non in
quest'ultimo potenzialmente contenuto”;
q) sul versante sistematico:
q1) la tutela dell’affidamento
attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato
dall’art. 38 non può giungere sino a consentire una sorta di
condono amministrativo affidato alla valutazione
dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione
urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena
l’inammissibile elusione del principio di programmazione e
l’irreversibile compromissione del territorio, ma è
piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono
esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non
possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha
confidato sulla presunzione di legittimità di quanto
assentito;
q2) a ciò si aggiunge, nei casi
in cui l’annullamento del titolo sia intervenuto in sede
giurisdizionale su istanza di proprietario limitrofo o
associazioni rappresentative di interessi diffusi (giova
sottolineare che l’art. 38 non si sofferma sulla natura
giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento), che la
tutela dell’affidamento del costruttore, attraverso la
fiscalizzazione dell’abuso anche in relazione a vizi
sostanziali, di fatto vanificherebbe la tutela del terzo
ricorrente, il quale, all’esito di un costoso e defatigante
giudizio, si troverebbe privato di qualsivoglia utilità,
essendo la sanzione pecuniaria incamerata dall’erario;
q3) il punto di equilibrio sin
qui individuato nel delicato bilanciamento fra tutela
dell’affidamento, tutela del territorio e tutela del terzo
non è depotenziato dalla giurisprudenza della Corte EDU sul
carattere fondamentale del diritto di abitazione e sul
necessario rispetto del principio di proporzionalità
nell’irrogazione della sanzione demolitoria (si veda, da
ultimo, Corte EDU, 21.04.2016 Ivanova vs. Bulgaria, in
Urbanistica e appalti, 2016, 1317, con nota di SCARCELLA),
sul rilievo che:
I) nell’ordinamento interno, caduto il dogma dell’irrisarcibilità
degli interessi legittimi, si è affermato, anche per via
legislativa, che il “bene della vita” cui il privato
aspira è meritevole di protezione piena a prescindere dalla
qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo
della posizione giuridica al quale esso si correla;
II) è quindi ben possibile che, a prescindere dalla
qualificazione giuridica della posizione soggettiva del
costruttore che dinanzi all’annullamento in sede
amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire
reclami il ristoro dei danni conseguenti al legittimo
affidamento dal medesimo riposto circa la legittimità
dell’edificazione realizzata, l’illecito commesso
dall’amministrazione comporti il sorgere di un’obbligazione
all’integrale risarcimento, per equivalente, del danno
provocato;
III) l’obbligazione interviene a ridare coerenza,
ragionevolezza ed effettività al sistema delle tutele, ove
la conservazione dell’immobile nella sua integrità si ponga
in irrimediabile conflitto con i valori urbanistici e
ambientali sopra ricordati;
r) conclusivamente, il principio di diritto da
affermarsi è nel senso che “i vizi cui fa riferimento
l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e
procedura che, alla luce di una valutazione in concreto
operata dall’amministrazione, risultino di impossibile
rimozione”: ne discende che qualora i vizi del titolo a
suo tempo rilasciato, che ne hanno provocato l’annullamento
in sede giurisdizionale, siano relativi all’insanabile
contrasto del titolo edilizio con le norme di programmazione
e regolamentazione urbanistica, va esclusa l’applicabilità
del regime di fiscalizzazione dell’abuso in ragione delle
non rimovibilità del vizio.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
s) sulla ratio dell’art. 38 del d. P.R.
06.06.2001, n. 380:
s1) l’art. 38 del d. P.R. n.
380 del 2001, riproduttivo del previgente art. 11 della l.
n. 47 del 1985, prevede, in caso di costruzione realizzata
in base ad atti annullati in sede giurisdizionale, due
alternative possibili, e cioè la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative o l'applicazione di una sanzione
pecuniaria quando non sia tecnicamente possibile la
rimozione indicata;
s2) detta disposizione “[…]
rappresenta una speciale norma di favore, che differenzia
sensibilmente la posizione di colui che ha realizzato
l’opera abusiva sulla base di titolo annullato (c.d.
“abusività sopravvenuta”) da quella di chi ha realizzato
un’opera abusiva sin dall’inizio senza alcun titolo
abilitativo (c.d. “abusività originaria”), per il quale
ultimo l’art. 31 del t.u. edilizia prevede sempre, senza
eccezione alcuna, la sanzione della demolizione. L’art. 38 è
una speciale norma di favore che non si pone in
contraddizione con quanto stabilito dall’art. 31 dello
stesso t.u., andando a prendere in esame una fattispecie
astratta di abuso edilizio (derivante dall’annullamento del
titolo edilizio) ben diversa da quella presa in esame
dall’ultima disposizione menzionata (derivante dall’assenza
originaria del titolo o dalla totale difformità dallo stesso
delle opere edificate). […] Se fosse mancata un’espressa
previsione legislativa, la posizione del privato che
realizza un’opera sulla base di un titolo edilizio
annullato, non si sarebbe differenziata da quella del
privato che ha realizzato un’opera priva di titolo edilizio
sin dall’origine” (A. SENATORE, L’esecuzione delle
sanzioni amministrative da illecito urbanistico-edilizio, in
F. CARINGELLA, U. DE LUCA, Manuale dell’edilizia e
dell’urbanistica, a cura di, Roma, 2017, 1275 ss.);
s3) l’Adunanza plenaria, con
sentenza 23.04.2009, n. 4 (in Guida al dir., 2009, 21, 97,
con nota di PONTE; Riv. giur. edilizia, 2009, I, 751, con
nota di GRAZIOSI; Giornale dir. amm., 2010, 47, con nota di
LAVITOLA), ha evidenziato che:
I) […] “Il legislatore, sulla base della considerazione
che, normalmente, l'annullamento interviene quando l'opera è
stata già realizzata, ha ritenuto opportuno conferire
all'amministrazione la possibilità di non procedere
automaticamente all’applicazione delle normali sanzioni
susseguenti all'accertamento dell'abuso, quali la
demolizione dell'opera, potendo essere conveniente mantenere
ferma l'opera realizzata ed introitare una sanzione
pecuniaria cospicua, quale appunto quella costituita dal
valore venale delle opere abusive realizzate”;
II) “Questo non esclude la rilevanza del fatto che nel
caso di specie l'abuso edilizio emerge solo a seguito
dell'annullamento di un atto rilasciato dalla stessa
amministrazione. Tuttavia l'ambito della rilevanza è rimessa
al legislatore, che è l'unico in grado di derogare ai
normali effetti del giudicato di annullamento, ossia al
fatto che la demolizione dell’atto rende illecite quelle
condotte che per non essere tali avrebbero avuto bisogno
della sua vigente efficacia”;
III) “Quindi, proprio la presenza del giudicato in senso
tecnico, la cui intangibilità vale anche nei confronti del
legislatore, impone la previsione espressa non di un’ipotesi
che direttamente lo contrasti, bensì la volontà di fondare
un potere nuovo rispetto a quello esercitato nell’atto
annullato, che abbia lo scopo di amministrare gli effetti
dell’avvenuta esecuzione dell’atto medesimo orientato cioè a
realizzare un assetto della fattispecie diversificato da
quello tipico scaturente dal giudicato”;
IV) “In altri termini, il venir meno del titolo sulla cui
base l'opera è stata realizzata -e quindi la circostanza che
il «fatto» realizzativo dell'opera non sia più sorretto
dalla legittimità- apre la «possibilità» di estendere anche
a tali opere il beneficio del condono";
V) “il legislatore ha solamente la possibilità, e non
l’obbligo, di includere nel condono le opere realizzate nel
periodo «coperto» dalla legge”; tale “inclusione deve
avvenire attraverso una previsione espressa e chiara,
proprio in quanto viene in rilievo il giudicato e la
possibile disparità di trattamento rispetto alle ipotesi di
illecito mai sottoposte al vaglio giurisdizionale e che il
giudicato di annullamento riporta all’iniziale stato di
illiceità";
VI) “il sistema non consente la possibilità di dare
rilievo alla situazione soggettiva di affidamento, in cui si
troverebbe colui che ha realizzato l'opera in base ad un
titolo originariamente legittimo e poi annullato, in quanto
tale situazione soggettiva si configura nei confronti
dell'amministrazione quando apre un procedimento di secondo
grado il cui possibile esito sia il provvedimento di
annullamento, ma non invece nei confronti del giudice
dell'annullamento che, chiamato a giudicare della
legittimità del titolo abilitativo da parte di quei terzi,
le cui posizioni erano rimaste impregiudicate dal rilascio
del titolo medesimo, deve solamente statuire sulla domanda
proposta da quei soggetti, legittimati ad impugnare, che
fanno fondatamente valere le proprie ragioni”;
s4) la giurisprudenza ha anche
fugato i dubbi di incostituzionalità dell’omologa previsione
già contenuta nell’art. 11 della l. n. 47 del 1985 (poi
riprodotta nell’art. 38 di cui trattasi) nella parte in cui
prevede l'irrogazione di una sanzione pecuniaria ove non sia
possibile la rimozione dell'abuso edilizio e la riduzione in
pristino, in considerazione che “la tutela che
l'ordinamento appresta al soggetto, che abbia ottenuto in
sede giurisdizionale, l'annullamento di una concessione di
costruzione illegittimamente assentita, non si identifica
necessariamente nella demolizione di quanto illegittimamente
edificato” (Tar per la Puglia, sez. II, 05.05.1995, n.
329, in Trib. amm. reg., 1995, I, 3254);
s5) in relazione
all’annullamento d’ufficio del titolo edilizio:
I) secondo l’Adunanza plenaria, come è noto, “Ai fini
dell'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in
sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale
considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso
del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione
dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine
«ragionevole» per la sua adozione decorre soltanto dal
momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei
fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di
ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza
degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera
prospettazione da parte del privato delle circostanze in
fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo
a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui
una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza
per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo
alla non veritiera prospettazione di parte” (così
Cons. Stato, ad. plen., sentenza 17.10.2017, n. 8,
in Foro it., 2018, III, 6, con nota di A. TRAVI, ed in Giorn.
dir. amm., 2018, 67, con nota di TRIMARCHI, oggetto della
News US in data 23.10.2017, cui si rimanda per
ogni opportuno approfondimento);
II) ancora in tema di annullamento in autotutela in materia
edilizia, cfr., Cons. Stato, sez. IV, sentenza 18.07.2018,
n. 4374 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota di
SPUNTARELLI), secondo cui “In ossequio al principio
generale di ordinaria irretroattività della legge, il
termine di diciotto mesi per l'esercizio del potere di
annullamento d'ufficio, introdotto, nell'art. 21-nonies l.
241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, non si applica
ai provvedimenti di annullamento d'ufficio adottati prima
dell'entrata in vigore di tale legge (28.08.2015)”
(fattispecie riguardante l’annullamento, in autotutela, di
un titolo edilizio, per riscontrata violazione della
distanza minima dal confine);
s6) in argomento, da ultimo,
cfr. anche Cons. Stato, sezione IV, sentenza 07.09.2018, n.
5277 (in Foro it., 2019, III, 57, con nota di CORDOVA),
secondo cui “L'annullamento d'ufficio di un titolo
edilizio, successivamente valutato come illegittimo, è
possibile anche ad una distanza temporale considerevole dal
rilascio del titolo medesimo, ma deve essere adeguatamente
motivato in relazione alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale, tenuto anche conto degli
interessi dei privati coinvolti” (fattispecie relativa
all’annullamento d’ufficio di due permessi di costruire,
sopraggiunto sette anni dopo il rilascio dei titoli, in cui
il Giudice d’appello è pervenuto alla conclusione
dell’illegittimità di tale intervento in autotutela, anche
perché, nella specie, “il Comune non ha dedicato alcun
passaggio motivazionale alla possibilità, non implausibile,
di annullare soltanto parzialmente i titoli edilizi
rilasciati al fine di contemperare le contrapposte esigenze
recando il minore sacrificio possibile alla posizione
giuridica del privato”);
t) sul rapporto tra d.P.R. n. 380 del 2001 e la
legislazione edilizia previgente (anche con specifico
riferimento all’art. 38): è stato affermato che “a
seguito dell’abrogazione dell’art. 11 della l. n. 47 del
1985, da parte dell’art. 136 del t.u. edilizio, la
disciplina di riferimento è quella contenuta nell’art. 38
del t.u. edilizio. […] Gli aspetti di natura sostanziale che
differenziano l’istituto dalla sua versione preesistente
consistono anzitutto nella richiesta di una «motivata
valutazione» con riguardo all’impossibilità della rimozione
dei vizi procedimentali che hanno determinato l’annullamento
del titolo edilizio e/o con riguardo all’impossibilità di
eseguire la demolizione. In altri termini, la norma impone
un onere motivazionale rafforzato in capo alla p.a.
comunale, evidentemente in ragione della natura derogatoria
del regime sanzionatorio in questione. Un secondo aspetto di
novità risiede nell’assegnazione della competenza al
dirigente del competente ufficio comunale, in luogo del
sindaco […]. L’ultima novità dell’istituto, rispetto alla
versione precedente, risiede nella sua applicazione […]
anche all’ipotesi dei lavori eseguiti tramite S.C.I.A.
presentata in alternativa al permesso di costruire ex art.
23 del t.u.” (A. SENATORE, L’esecuzione delle sanzioni
amministrative da illecito urbanistico-edilizio, cit.,
1278):
t1) Tar per l’Emilia Romagna,
sez. II, 29.11.2017, n. 783, secondo cui il d.P.R. n. 380
del 2001 “costituisce un testo unico compilativo della
disciplina previgente: è indubbio che, con particolare
riferimento all’art. 31, detto testo unico ha dato luogo
-almeno nel testo originario- ad una mera trasposizione
dell’art. 7 della l. n. 47 del 1985”;
t2) Tar per la Sicilia, sez.
III, 13.02.2015, n. 444, secondo cui “sol se si legge
l’art. 7 della l. n. 50 del 1999, si comprende come la
natura e qualificazione dei testi unici misti -qual è il
d.P.R. n. 380 del 2001- abbiano voluto soddisfare, tra gli
altri criteri e princìpi direttivi:
a) la puntuale individuazione del testo vigente delle norme;
b) l’esplicita indicazione delle norme abrogate, anche
implicitamente, da successive disposizioni;
c) il coordinamento formale del testo delle disposizioni
vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le
modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e
sistematica della normativa anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio normativo” (cfr. in tal
senso, Cons. Stato, Ad. gen., parere 29.03.2001, n. 3/01, in
Cons. Stato, 2001, I, 2554);
u) sull’obbligo di intervento
dell’amministrazione in caso di annullamento del titolo
edilizio:
u1) Cons. Stato, sez. IV,
15.06.2016, n. 2631, secondo cui ”L'annullamento
giurisdizionale del permesso di costruire rende abusive le
opere edilizie realizzate in base a quest'ultimo, di talché
il Comune, stante l'efficacia conformativa di tal giudicato,
ne deve dare esecuzione, adottando i provvedimenti
consequenziali”;
u2) Tar per il Piemonte, sez.
II, 08.07.2014, n. 1171, secondo cui “In sede di
ottemperanza al giudicato l'Amministrazione è tenuta,
pertanto, non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal
giudice, e a determinarsi secondo i limiti imposti dalla
rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e
consolidata in sentenza, ma anche a prendere in esame la
situazione controversa nella sua complessiva estensione,
valutando non soltanto i profili oggetto della decisione del
giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere
definitivamente sull'oggetto della pretesa, all'evidente
scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato”;
u3) Cons. Stato, sez. IV,
12.05.2014, n. 2398 (in Foro amm., 2014, 1410), secondo cui
“L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire
provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie
realizzate in base ad esso, per cui il comune, stante
l'efficacia conformativa, oltre che costitutiva e
ripristinatoria, della sentenza del giudice amministrativo,
è obbligato a dare esecuzione al giudicato, adottando i
provvedimenti consequenziali; questi, peraltro, non devono
necessariamente avere ad oggetto la demolizione delle opere
realizzate: l'art. 38 d.p.r. 06.06.2001 n. 380 prevede
invece una gamma articolata di possibili soluzioni, della
valutazione delle quali l'atto conclusivo del nuovo
procedimento dovrà ovviamente dare conto”;
u4) Cons. Stato, sez. VI,
13.06.2011, n. 3571 (in Foro amm. Cons. Stato, 2011, 2051),
secondo cui “L'annullamento giurisdizionale del permesso
di costruire provoca la qualificazione di abusività delle
opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il
comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del
giudice amministrativo, oltre che costitutiva e
ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato,
adottando i provvedimenti consequenziali; tali provvedimenti
non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la
demolizione delle opere realizzate, prescindendo l'art. 38
d.p.r. 06.06.2001 n. 380, in caso di annullamento del
permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del
dirigente del competente ufficio comunale riguardo la
possibilità di restituzione in pristino; qualora la
demolizione non risulti possibile, il comune dovrà irrogare
una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso
art. 38; consegue l'inammissibilità del ricorso per
ottemperanza proposto dopo e nonostante l'adozione
dell'atto, ferma la giustiziabilità dello steso
nell'ordinaria sede del giudizio di cognizione”;
u5) Cons. Stato, sez. V,
14.10.1998, n. 1475 (in Appalti urbanistica edilizia, 1999,
694), secondo cui “Prima di procedere alla demolizione di
un edificio abusivo -ancorché disposta in esecuzione del
giudicato d'annullamento della concessione edilizia-,
occorre prima attendere l'esito del procedimento di
sanatoria dell'immobile stesso, tenuto conto del carattere
irreversibile di tale sanzione demolitoria”;
u6) Cons., Stato, sez. V,
24.10.1983, n. 493 (in Cons. Stato, 1983, I, 774), secondo
cui “ove una licenza edilizia sia stata annullata in sede
giurisdizionale, l’ottemperanza al giudicato da parte
dell’autorità comunale –che deve aver luogo
indipendentemente da qualsiasi istanza di parte– non
comporta necessariamente l’irrogazione della sanzione
demolitoria, ben potendo il sindaco scegliere tra questa e
l’applicazione della sanzione pecuniaria”;
v) sugli abusi connotati da disvalore diverso:
Corte cost., 09.01.2019, n. 2 (in Foro it., 2019,
I, 755 oggetto della
News US in data 18.01.2019, cui si rimanda per
ogni opportuno approfondimento), secondo cui “È
dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione
del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. -l'art.
22, comma 2, della legge reg. Lazio n. 15 del 2008. La
disposizione censurata dal TAR Lazio -ragguagliando al
valore venale dell'abuso la misura della somma da pagare, a
titolo di oblazione, nella procedura di accertamento di
conformità degli interventi edilizi eseguiti in assenza di
titolo abilitativo o in difformità da esso- assoggetta chi
intenda sanare tale forma di abuso al medesimo onere
pecuniario previsto, dall'art. 20 della citata legge
regionale, per la sanatoria degli interventi edilizi
eseguiti in base a titolo abilitativo successivamente
annullato, con l'irragionevole conseguenza di parificare,
sul piano dei costi, abusi connotati da disvalore diverso,
atteso che nell'ipotesi prevista dalla norma censurata
trattasi di interventi conformi alla normativa
urbanistico-edilizia vigente e pregressa, regolarizzabili
sotto l'aspetto formale mediante il relativo accertamento di
conformità, mentre in quella prevista dall'art. 20 trattasi
di interventi edilizi sostanzialmente illegittimi, per i
quali sarebbe necessario il ricorso all'ordinario iter
repressivo con la demolizione del manufatto, cui
l'amministrazione decide invece di soprassedere per ragioni
di materiale impossibilità”;
w) sulla stima dell’Agenzia del territorio (oggi
Agenzia delle entrate) prevista dall’art. 38 d. P.R. n. 380
del 2001: Tar per la Liguria, sez. I, 02.11.2011, n. 1506,
secondo cui:
w1) “nel procedimento disegnato dall’art. 38
del D.P.R. n. 380/2001, la stima dell’Agenzia costituisce
una fase infraprocedimentale, in relazione alla quale non è
richiesta una ulteriore (ed ultronea) comunicazione di avvio
del procedimento”;
w2) l’Agenzia del territorio
effettua la stima “nell’esercizio di discrezionalità
tecnica” e le relative valutazioni sono sindacabili dal
giudice amministrativo soltanto “sotto il profilo della
loro logicità e ragionevolezza, nonché della congruità
dell'istruttoria”;
x) sulla nozione di “impossibilità di
ripristino”: Cons. Stato, sez. II, 23.09.2019, n. 6284,
secondo cui esso è inteso “in senso più ampio non solo
riferito alla oggettiva impossibilità materiale «tecnica»,
ma riferito alla comparazione dell’interesse pubblico al
recupero della situazione di legalità violata e accertata
giudizialmente con il rispetto delle posizioni giuridiche
soggettive del privato incolpevole, che aveva confidato
nell'esercizio legittimo del potere amministrativo” (cfr.
in tal senso, altresì, Cons. Stato, sez. VI, 28.11.2018, n.
6753, in Merito, 2019, 2, 87; sez. VI, 09.04.2018 n. 2155,
in Foro amm., 2018, 639, che fa riferimento anche alla
posizione di eventuali terzi acquirenti di buona fede);
y) sul rapporto tra la “sanatoria” ex art.
38 d.P.R. n. 380 del 2001 e l’accertamento di conformità ex
art. 36 del medesimo d.P.R.:
y1) Cons. Stato, sez. VI,
10.05.2017, n. 2160 (in Foro it., 2017, 1067), secondo cui,
una volta identificato nella tutela del legittimo
affidamento l'elemento normativo che differenzia
sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato in
buona fede l'opera abusiva sulla base di titolo annullato
rispetto a quanti abbiano realizzato opere parimenti abusive
senza alcun titolo, ne consegue che l'art. 38 d.p.r. 380 del
2001 può trovare applicazione solo in presenza di manufatti
realizzati conformemente al titolo edilizio assentito e che
diventino abusivi solo a seguito del sopravvenuto
annullamento di quest’ultimo; per le ipotesi di abusi
formali realizzati in assenza ab initio di valido
titolo abilitativo, trova infatti applicazione il diverso
istituto dell'accertamento di conformità, subordinato al
riscontro delle stringenti condizioni di cui all'art. 36
stesso d.p.r.;
y2) Tar per la Puglia, sez. st.
Lecce, sez. III, 02.07.2010, n. 1645, secondo cui “l’art.
38 disciplina una forma di sanatoria nella quale la
conformità delle opere che, per effetto dell’annullamento
del titolo edilizio, sono divenute abusive viene a
sussistere nei confronti della strumentazione urbanistica
esistente nel momento del rilascio del titolo abilitativo;
questo a differenza di quanto avviene per la sanatoria di
cui all’art. 36,che presuppone la conformità delle opere
alla strumentazione urbanistica esistente alla data di
realizzazione delle opere stesse e alla data di richiesta
della sanatoria”;
z) sulla nozione e limiti della regola della c.d.
“doppia conformità”:
z1) tra le tante, Corte cost.,
08.11.2017, n. 232 (in Giur. cost., 2017, 2340, connota di
SAITTA), secondo cui “In materia di abusi edilizi, va
affermata l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, 1° e
3° comma, l.reg. Sicilia n. 16 del 2016, nella parte in cui,
rispettivamente, prevedono che «il responsabile dell'abuso,
o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
presentazione della domanda» (1° comma), e non anche a
quella vigente al momento della realizzazione
dell'intervento; e nella parte in cui si pone «un meccanismo
di silenzio-assenso che discende dal mero decorso del
termine di novanta giorni» (3° comma) dalla presentazione
della istanza al fine del rilascio del permesso in sanatoria”;
z2) Cons. giust. amm. sic.,
sez. riun., parere 28.09.2017, n. 808, secondo cui “Il
principio della doppia conformità urbanistico- edilizia non
può essere esteso alle violazioni paesaggistiche”;
z3) Tar per la Campania, sez.
VIII, 28.10.2016, n. 5010 (in Riv. giur. edilizia, 2016, I,
1080), secondo cui secondo cui, ai fini del rilascio del
permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380
del 2001, è necessaria la sussistenza della c.d. doppia
conformità, non rilevandosi sufficiente la sola conformità
delle opere alla strumentazione urbanistica vigente
all'epoca di proposizione dell'istanza di accertamento;
z4) Cons. giust. amm. sic.,
sez. riun., parere 03.09.2014, n. 899, secondo cui “il
requisito della doppia conformità costituisce principio
consolidato in giurisprudenza e pertanto dall’art. 13 della
L. 28.02.1985, n. 47, non è ricavabile alcun diritto ad
ottenere la concessione in sanatoria di opere che,
realizzate senza concessione o in difformità dalla
concessione, siano conformi alla normativa urbanistica
vigente al momento in cui l’Autorità Comunale provvede sulla
domanda di sanatoria” (cfr., in tal senso, Cons. Stato,
sez. V, 11.06.2013, n. 3220, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013,
1652).
“Tale orientamento ha, dunque superato quello definito
«sanatoria giurisprudenziale» che ha ammesso la sanatoria
edilizia a seguito di conformità sopraggiunta
dell’intervento al momento della proposizione della nuova
istanza […]. Ciò nella considerazione che il nostro
ordinamento è caratterizzato dal principio di legalità
dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri
esercitati dall’Amministrazione, che non possono essere
surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di
separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di
attribuzioni riservate all’Amministrazione”;
aa) sui limiti alla demolizione e corrispondente
irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 34 d.P.R. n.
380 del 2001:
aa1) Tar per la Calabria, sez.
II, 26.06.2019, n. 1305 (in Foro it., 2019, III, 619, con
nota di ALBE’) secondo cui “la possibilità di sostituire
la sanzione demolitoria con quella pecuniaria dev’essere
valutata nella fase esecutiva del procedimento, successiva
ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione”;
aa2) Cons. stato, sez. IV,
31.08.2018, n. 5128, secondo cui “La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria
deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella
fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma
rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della
legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio
per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va
senz'altro emesso […]. Inoltre l’art. 34 […] disciplina gli
interventi alle opere realizzate in parziale difformità dal
permesso di costruire, prevedendo al secondo comma che
«quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione"; la norma presuppone che
vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere
a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità
da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate
senza titolo per ampliare un manufatto preesistente;
aa3) Cons. giust. amm. sic.,
sez. riun., parere 14.12.2017, n. 1007, secondo cui “Il
giudizio, di natura discrezionale, circa la rilevanza
dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con
la sanzione pecuniaria (disciplinato dagli artt. 33, comma 2
e 34, comma 2 del d.P.R. n. 380/2001) può, invero, essere
effettuato soltanto in un secondo momento, cioè allorquando
il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente
all’ordine di demolizione e l’organo competente abbia
emanato l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore
dell’abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti
dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di
sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle opere
realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire ovvero delle opere edili costruite in parziale
difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta
seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a
demolire che sia sprovvista di qualsiasi valutazione in
ordine all’entità degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria”;
aa4) Cons. Stato, sez. V,
20.03.2007, n. 1325 (in Foro it., 2008, III, 185) secondo
cui “l’autorità comunale ha giustificato la sanzione
pecuniaria con la costosità della demolizione; ma
l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della
demolizione è consentita dalla legge solo quando la
demolizione sia impossibile, s’intende tecnicamente, e non
quando sia costosa. Inoltre la motivazione è illogica, sia
perché essa vanifica la sanzione della demolizione prevista
dalla legge (tutte le demolizioni essendo costose), sia
perché la demolizione è a spese del contravventore e non già
del comune. Infine quella motivazione pone sullo stesso
piano i due interessi, tra loro incomparabili, di evitare al
comune l’anticipazione delle spese di demolizione e di
proteggere il territorio comunale dall’abusivismo e da
scempi come quello documentato dalle fotografie prodotte
dalla resistente; le quali fanno anche ritenere che la
costosità dell’intervento, non quantificata nella
motivazione del provvedimento, sia stata alquanto
sopravvalutata”;
bb) sulla natura del potere
repressivo-ripristinatorio edilizio esercitato dall’autorità
comunale: Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 20.03.2020, n.
194 (in Azienditalia, 2020, 7, 1234 ss., con nota di LA
GRECA anche in tema di connessa responsabilità per danno
erariale);
cc) sui presupposti della convalida e sulla
individuazione della autorità competente ad annullare e
quindi convalidare un provvedimento illegittimo:
cc1) Cons. Stato, sez. VI,
24.06.2020, n. 4038, secondo cui “Nell'ambito di un
processo amministrativo la motivazione di un provvedimento è
ammissibile soltanto laddove sia effettuata mediante gli
atti del procedimento nella misura in cui i documenti
dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai
quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della
determinazione assunta oppure attraverso l'emanazione di un
autonomo provvedimento di convalida”;
cc2) Tarper la Lombardia, sez.
st. Brescia, sez. II, 12.05.2020, n. 352, secondo cui “L'istituto
della convalida di un provvedimento amministrativo
annullabile, di cui alla normativa dell'art. 21-nonies della
Legge n. 241/1990, presuppone l'esistenza di un atto viziato
ed è finalizzato a consentire all'amministrazione,
nell'esercizio dei propri poteri di autotutela, di
intervenire su un proprio provvedimento emendandolo dai vizi
che ne determinano l'illegittimità, esercitando tale potere
entro un termine ragionevole e motivando in merito alla
sussistenza di ragioni di pubblico interesse diverse dalla
mera esigenza di ripristinare la legittimità formale
dell'azione amministrativa, come tali prevalenti sul
contrapposto interesse del privato alla conservazione
dell'atto illegittimo”;
cc3) Cons. Stato, sez. IV,
18.05.2017, n. 2351, secondo cui “La convalida è il
provvedimento con il quale la P.A., in esercizio del proprio
potere di autotutela decisionale ed all'esito di un
procedimento di secondo grado, interviene su un
provvedimento amministrativo viziato, e come tale
annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano
l'illegittimità e, dunque, l'annullabilità. Essa presuppone,
ai sensi dell'art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di
pubblico interesse e che non sia decorso un "termine
ragionevole" dall'adozione dell'atto illegittimo”;
cc4) Cons. Stato, sez. III,
01.12.2016, n. 5047 (in Foro it., 2017, III, 11 con note di
CASABURI e TRAVI);
cc5) Cons. Stato, sez. III,
26.10.2015, n. 4899 (in Foro it., 2016,6);
cc6) T. Verona, 12.11.2013 (in
Foro it., 2014, I, 270), secondo cui “Posto che non è
meritevole di tutela l’affidamento del conducente di un
veicolo entrato senza autorizzazione in una zona a traffico
limitato regolata dal sindaco, anziché dal dirigente
competente, la successiva convalida del provvedimento
sindacale preclude l’annullamento dei verbali di
contravvenzioni elevati nei confronti dell’autore
dell’infrazione”;
cc7) Cons. giust. amm. sic.,
sez. cons., 05.05.1999, n. 206 (in Cons. Stato, 1999, I,
1017), secondo cui “Deve escludersi l'efficacia sanante
«ex tunc» dell'atto di convalida di un provvedimento posto
in essere da autorità incompetente in tutti quei casi in cui
l'amministrazione non ha la piena disponibilità dell'effetto
che l'atto da convalidare verrebbe a produrre e non ha
manifestato la volontà di far propri gli effetti di tale
atto”;
cc8) Cons. giust. amm. sic.,
sez. giur., 21.12.1998, n. 682 (in Cons. Stato, 1998, I,
2022), secondo cui “A differenza di quanto accade con la
convalida e con la ratifica, nel caso di rinnovazione di un
atto amministrativo gli effetti giuridici vanno imputati
interamente all'atto sostitutivo, con la conseguenza che in
questa seconda ipotesi non si può ritenere vietato
all'amministrazione correggere o sostituire gli atti viziati
o carenti di qualche elemento, anche in pendenza di
giudizio, purché con effetto «ex tunc»; pertanto, quando
sopravvenga l'atto sostitutivo, si determina la carenza
sopravvenuta di interesse, con conseguente improcedibilità
del ricorso proprio nei confronti dell'atto originario”;
dd) sulla convalida quale esempio paradigmatico
di provvedimento retroattivo:
dd1) Tar per la Lombardia, sez.
IV, 10.05.2013, n. 1217;
dd2) Tar per il Lazio, sez. II,
31.07.2012, n. 7063;
ee) sul diritto al risarcimento del danno da
provvedimento favorevole poi annullato e da inerzia, come
fattispecie lesive affidamento privato:
ee1) Cass. civ., sez. un.,
28.04.2020, n. 8236, secondo cui “La responsabilità che
grava sulla pubblica amministrazione per il danno prodotto
al privato a causa delle violazione dell'affidamento dal
medesimo riposto nella correttezza dell'azione
amministrativa non sorge in assenza di rapporto, come la
responsabilità aquiliana, ma sorge da un rapporto tra
soggetti -la pubblica amministrazione e il privato che con
questa sia entrato in relazione- che nasce prima e a
prescindere dal danno e nel cui ambito il privato non può
non fare affidamento nella correttezza della pubblica
amministrazione. Si tratta, allora, di una responsabilità
che prende la forma dalla violazione degli obblighi
derivanti da detto rapporto e che, pertanto, va ricondotta
allo schema della responsabilità relazionale, o da contatto
sociale qualificato, da inquadrare nell'ambito della
responsabilità contrattuale; con l'avvertenza che tale
inquadramento, come segnalato da autorevole dottrina, non si
riferisce al contratto come atto ma al rapporto
obbligatorio, pur quando esso non abbia fonte in un
contratto”.
Le Sezioni unite, dando continuità ai principi già affermati
in precedenza (cfr. ordinanza 23.03.2011, n. 6594, in Foro
it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Giust. civ., 2011, I,
1209, con nota di LAMORGESE; Resp. civ. e prev., 2011, 1743,
con nota di SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2316 (m),
con nota di D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192, con nota di
COMPORTI; Giust. civ., 2012, I, 2769 (m), con nota di
SALVAGO) hanno, quindi, evidenziato che può sussistere
lesione dell’affidamento “non soltanto nel caso di
domande di risarcimento del danno da lesione
dell'affidamento derivante dalla emanazione e dal successivo
annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in
cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato,
cosicché, in definitiva, il privato abbia riposto il proprio
affidamento in un comportamento mero dell'amministrazione”.
In questo caso, infatti, i principi ivi affermati “valgono
con maggior forza, perché, l'amministrazione non ha posto in
essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo; il
rapporto tra la stessa ed il privato si gioca, allora,
interamente sul piano del comportamento (quella «dimensione
relazionale complessiva tra l'amministrazione ed il
privato»), nemmeno esistendo un provvedimento a cui
astrattamente imputare la lesione di un interesse legittimo”;
ee2) Cass. civ., sez. un.,
ordinanza 19.02.2019, n. 4889 (in Foro it., 2019, I, 4066,
con nota di BORGIANI), secondo cui “È devoluta al giudice
ordinario la controversia che il privato promuova per il
risarcimento dei danni nei confronti del comune che abbia
omesso la dovuta sorveglianza ed i controlli prescritti
dall'art. 27 d.p.r. 06.06.2001 n. 380, nei confronti del
costruttore ed abbia emesso i relativi provvedimenti
abilitativi” (nella specie, il privato aveva acquistato
una porzione dell'edificio, confidando incolpevolmente sulla
relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi
insussistente);
ee3)
Cass. civ., sez. un., ordinanza, 24.09.2018, n. 22435
(oggetto della
News US in data 08.10.2018, cui si rimanda per
ogni opportuno approfondimento), secondo cui “Rientra
nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda di
risarcimento dei danni derivanti da una fattispecie
complessa in cui l’emanazione di un provvedimento
favorevole, che venga successivamente annullato in quanto
illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti
dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità
del provvedimento di determinare l’affidamento
dell’interessato e la lesione del suo patrimonio che
consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione
del provvedimento favorevole”;
ee4) Cass. civ., sez. un.,
ordinanza 23.03.2011, n. 6594 (in Foro it., 2011, I, 2387,
con nota di TRAVI; Giust. civ., 2011, I, 1209, con nota di
LAMORGESE; Resp. civ. e prev., 2011, 1743, con nota di
SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2316 (m), con nota di
D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192, con nota di COMPORTI; Giust.
civ., 2012, I, 2769 (m), con nota di SALVAGO), secondo cui “Nel
caso di annullamento di una concessione edilizia
illegittimamente rilasciata, non si configura alcuna lesione
dell'interesse legittimo del titolare della concessione, ma
può configurarsi una lesione dell'affidamento ingenerato dal
provvedimento favorevole: la relativa tutela risarcitoria è
perciò devoluta al giudice ordinario”;
ff) in dottrina:
ff1) sugli effetti
dell’annullamento del provvedimento amministrativo: B.
MAMELI, L’istituto dell’annullamento tra procedimento e
processo alla luce delle recenti novità normative, Torino,
2017, 109 ss.;
ff2) sul potere di annullamento
dei titoli edilizi da parte della Regione: P. GOLINELLI,
Riflessioni sul potere di annullamento degli atti comunali
in materia urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 1994, II,
105; P. MARZARO GAMBA, Il potere regionale di annullamento
dei provvedimenti comunali in materia urbanistico-edilizia:
profili sistematici ed esegetici, in Riv. giur. urbanistica,
1999, 513; dopo il d.P.R. n. 380 del 2001: C. SILVESTRO, Il
potere regionale di annullamento del permesso di costruire
nel testo unico edilizia, in Urbanistica e appalti, 2003,
873; G. PAGLIARI, Corso di diritto urbanistico, Milano,
2010, 533 ss.; R. MICALIZZI, Le sanzioni conseguenti
all'annullamento del titolo edilizio, tra interpretazione
letterale e principi generali, in Urbanistica e appalti,
2013, 6, 719; P.L. PORTALURI, Commento all'art. 39, in M.A.
SANDULLI (a cura di), Testo unico dell'edilizia, Milano,
2015, 925 ss.;
ff3) sui caratteri e finalità
delle sanzioni amministrative edilizie e sulla natura del
potere esercitato dall’autorità comunale: F. DE SANTIS, A.
MANDARANO, V. POLI, Commento agli artt. 31-35 del d.P.R. n.
380 del 2001, in F. CARINGELLA, G. DE MARZO (a cura di),
L’attività edilizia nel testo unico, Milano, 2006, 425 ss. (Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 07.09.2020 n. 17 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2020 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 25.08.2020 n. 211 "Fondo per la demolizione di opere abusive"
(Ministero delle Infrastrutture e Trasporti,
avviso). |
EDILIZIA PRIVATA: Soggetti
destinatari delle misure repressive degli
abusi edilizi.
Con riferimento
all’individuazione dei soggetti destinatari
dell’ordine di demolizione e delle misure
sanzionatorie previste dall’art. 31, comma
4-bis, del d.P.R. n. 380/2001, il TAR Milano
richiama l’orientamento secondo il quale «la
norma, nell'individuare i soggetti colpiti
dalle misure repressive nel proprietario e
nel responsabile dell'abuso, considera
evidentemente quale soggetto passivo della
demolizione il soggetto che ha il potere di
rimuovere concretamente l'abuso, potere che
compete indubbiamente al proprietario, anche
se non responsabile in via diretta, in
quanto il presupposto per l'adozione di
un'ordinanza di ripristino non coincide con
l'accertamento di responsabilità storiche
nella commissione dell'illecito, ma è
correlato all'esistenza di una situazione
dei luoghi contrastante con quella
codificata nella normativa
urbanistico-edilizia, e all'individuazione
di un soggetto il quale abbia la titolarità
a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia
il proprietario, in virtù del suo diritto
dominicale»
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.08.2020 n. 1562 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
1. Con il ricorso, articolato in quattro
motivi, si deduce l’illegittimità
dell’ordinanza di ingiunzione alla
demolizione
(i) “in ordine al soggetto destinatario dell'atto (art. 29 TUE)”,
(ii) “nella parte in cui prevede che la superficie verrà
acquistata di diritto gratuitamente dal
Comune”,
(iii) “nella parte in cui, in caso di inottemperanza
dell'ingiunzione, prevede le sanzioni di cui
all'art. 31, comma 4-bis, DPR 380/2001”
e
(iv) “nella parte in cui ingiunge la demolizione dell’immobile
compromettendo così il diritto del
ricorrente ad ottenere la nullità e/o
l’annullabilità del decreto di trasferimento”.
2. Premesso che Pi. non contesta la natura
abusiva delle opere né di avere la materiale
disponibilità del bene, il ricorso è
infondato.
3. Con riferimento alla prima e alla
terza censura, relative
all’individuazione dei soggetti destinatari
dell’ordine di demolizione e delle misure
sanzionatorie previste dall’art. 31, co.
4-bis, del d.P.R. n. 380/2001, deve essere
richiamato quanto affermato costantemente
dalla giurisprudenza amministrativa, anche
della Sezione (cfr. ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. VI, 28.07.2017, n. 3789;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.02.2020,
n. 264), ovverosia che la norma, “nell'individuare
i soggetti colpiti dalle misure repressive
nel proprietario e nel responsabile
dell'abuso, considera evidentemente quale
soggetto passivo della demolizione il
soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l'abuso, potere che compete
indubbiamente al proprietario, anche se non
responsabile in via diretta, in quanto il
presupposto per l'adozione di un'ordinanza
di ripristino non coincide con
l'accertamento di responsabilità storiche
nella commissione dell'illecito, ma è
correlato all'esistenza di una situazione
dei luoghi contrastante con quella
codificata nella normativa
urbanistico-edilizia, e all'individuazione
di un soggetto il quale abbia la titolarità
a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia
il proprietario, in virtù del suo diritto
dominicale”.
Facendosi applicazione del sopraesposto
principio al caso di specie, si deve
ritenere che legittimamente il Comune abbia
rivolto l’ordine di demolizione –e
minacciato l’irrogazione delle sanzioni
previste dall’art. 31, co. 4-bis, d.P.R. n.
380/2001– al proprietario Pi., il quale ha
la materiale disponibilità del bene e dunque
il potere di rimuovere le opere abusive,
fatto –come si è detto– pacifico e non
contestato.
L’irrogazione di sanzioni penali, invece,
diversamente da quanto dedotto dal
ricorrente, non è oggetto dell’ordinanza
impugnata, dovendo la stessa conseguire
necessariamente a un accertamento eseguito
dal giudice penale. |
EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive, prevista dall’art. 31, comma 3,
d.P.R. n. 380 del 200, è un atto dovuto
senza alcun contenuto discrezionale, ed è
subordinato unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine
di legge (novanta giorni) fissato per la
demolizione e il ripristino dello stato dei
luoghi.
In ordine agli abusi edilizi commessi da
persona diversa dal proprietario, va poi
evidenziato che “la posizione di quest'ultimo
può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni
previste dalla legge n. 47 del 1985 ed ora
dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con
riferimento all'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime
sulla quale insiste il bene, a condizione
che risulti, in modo inequivocabile, la sua
estraneità rispetto al compimento dell'opera
abusiva ovvero risulti che, essendone venuto
a conoscenza, si sia poi adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento".
---------------
4. Anche il secondo motivo di
ricorso, con il quale si deduce
l’illegittimità della previsione di
acquisizione gratuita dell’area di sedime al
patrimonio del Comune in ragione
dell’estraneità di Pi. al compimento
dell’abuso, è infondato. Per la precisione,
l’ordinanza di demolizione si limita invero
a individuare l’area che sarà oggetto di
futura acquisizione, per l’ipotesi di
inottemperanza.
In ogni caso, la censura non può essere
condivisa.
Infatti, l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere abusive,
prevista dall’art. 31, comma 3, d.P.R. n.
380 del 200, è un atto dovuto senza alcun
contenuto discrezionale, ed è subordinato
unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine
di legge (novanta giorni) fissato per la
demolizione e il ripristino dello stato dei
luoghi (cfr., ex multis, Cons. Stato,
Sez. IV, 29.09.2017, n. 4547; id., Sez. V,
18.12.2002, n. 7030).
In ordine agli abusi edilizi commessi da
persona diversa dal proprietario, va poi
evidenziato che “la posizione di quest'ultimo
può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni
previste dalla legge n. 47 del 1985 ed ora
dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con
riferimento all'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime
sulla quale insiste il bene, a condizione
che risulti, in modo inequivocabile, la sua
estraneità rispetto al compimento dell'opera
abusiva ovvero risulti che, essendone venuto
a conoscenza, si sia poi adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento" (cfr., ex plurimis,
Cons. Stato n. 4547/2017 cit.; Cons. Stato,
sez. VI, 29.01.2016, n. 358).
Nel caso di specie, il ricorrente non ha
fornito la prova di essersi attivato per la
rimozione delle opere abusive, pur avendo la
materiale disponibilità del bene, dal che
discende la legittimità della previsione
dell’acquisizione gratuita dell’area al
patrimonio comunale, per il caso di
ulteriore inottemperanza (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.08.2020 n. 1562 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
viola la CEDU l’ordine di demolizione in area protetta anche se è l’unica
abitazione ed il proprietario è anziano, malato e di basso reddito.
Pronunciandosi su un caso “lituano” in cui si discuteva della legittimità
dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, adibito ad uso abitativo
da parte del ricorrente, che era stato edificato senza alcun titolo abilitativo in zona paesaggisticamente vincolata, la Corte europea dei
diritti dell'uomo, all’unanimità, ha escluso la violazione dell'articolo 8
(diritto al rispetto della casa familiare) della Convenzione europea dei
diritti umani, ritenendo che le autorità nazionali avessero effettuato
un'adeguata valutazione della necessità e proporzionalità della demolizione.
Il caso era stato originato dalla denuncia di un uomo il quale si era
lamentato per aver ricevuto l'ordine di demolire un'abitazione che aveva
costruito illegalmente su un’area forestale. Il ricorrente lamentava che
l'ordine di demolizione aveva violato il suo diritto al rispetto della
propria casa ed era quindi contrario all'articolo 8 della Convenzione.
Egli
aveva sostenuto che quella era la sua unica casa e che, a causa della
vecchiaia, delle cattive condizioni di salute e del basso reddito, non era
in grado di reperire una diversa abitazione. Aveva anche sostenuto che né
lui né la moglie avevano altre abitazioni di proprietà che fossero adatte a
viverci o che potevano essere vendute ricavando un prezzo idoneo a
consentire loro di acquistare una nuova casa nella zona in cui avevano
vissuto.
La Corte EDU, pur dimostrandosi consapevole della difficile
situazione del ricorrente in considerazione della sua età avanzata, delle
cattive condizioni di salute e del basso reddito, ha tuttavia evidenziato
come i giudici lituani avevano comparato soppesato gli interessi del
ricorrente rispetto all’interesse generale per la conservazione delle
foreste e dell'ambiente, e considerato che né l'età del ricorrente né le
altre circostanze personali potevano avere un peso determinante, in
considerazione del fatto che egli aveva consapevolmente costruito
l’abitazione in un'area protetta senza alcuna autorizzazione.
Di
conseguenza, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le autorità nazionali
avessero correttamente valutato tutte le circostanze pertinenti e affrontato
adeguatamente gli argomenti del ricorrente riguardanti la sua situazione
individuale, che si era appellato –come sovente avviene anche nelle
impugnazioni proposte davanti ai giudici italiani- al noto caso Ivanova e
Cherkezov c. Bulgaria. La Corte EDU ha quindi escluso che lo Stato avesse
oltrepassato il margine di discrezionalità accordatogli dall'articolo 8
della Convenzione (commento tratto da www.quotidianogiuridico.it - Corte europea diritti dell’uomo, Sez. II,
sentenza 04.08.2020 n. 44817
- link a www.lexambiente.it). |
luglio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha osservato che l'art. 1117 cod. civ.
stabilisce che le parti comuni dell'edificio sono oggetto di
proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il
Condominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il
Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità
giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220
del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un
attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta
a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere
indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli
condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
---------------
Ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione
delle opere abusivamente realizzate è ingiunta dal Comune al
“proprietario e al responsabile dell’abuso”.
Nella fattispecie, la sanzione ripristinatoria è stata
rivolta nei confronti del Condominio ... il quale
sicuramente non può essere individuato come proprietario
nemmeno delle parti comuni del complesso immobiliare (al
netto del fatto che l’ordinanza non chiarisce affatto se gli
abusi riguardano parti di proprietà esclusiva dei singoli
condomini ovvero parti comuni).
La giurisprudenza citata dal ricorrente (TAR Lombardia,
Milano n. 1774/2019) che il Collegio condivide ha osservato
che l'art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni
dell'edificio sono oggetto di proprietà comune dei
condomini, con la conseguenza che il Condominio non vanta
alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il
Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità
giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR
Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220
del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un
attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU.,
18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta
a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere
indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli
condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse
(TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.07.2020 n. 3005 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di riduzione in pristino, quale atto di carattere del tutto vincolato,
ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica
dell’abusività degli interventi, non richiede una puntuale indicazione delle
norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e
la consistenza dell’abuso.
E quanto all’eccepito mancato puntuale riscontro delle osservazioni
presentate per conto dei ricorrenti in seguito all’emanazione dell’avviso di
avvio del procedimento, va evidenziato che l’obbligo di esame delle predette
osservazioni non impone un’analitica confutazione in merito ad ogni
argomento utilizzato dalla parte istante, essendo sufficiente un iter
motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato
adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato.
---------------
5. Con la prima doglianza, di pressoché identico tenore in tutti i
ricorsi, da trattare unitamente alla seconda doglianza del ricorso
R.G. n. 1859/2019, si assume l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in
quanto, oltre a non essere motivati e ad essere stati adottati senza
riscontrare le osservazioni delle parti private, non avrebbero considerato
che presso gli Uffici comunali risulterebbe prodotta (e protocollata) tutta
la pratica edilizia riguardante la realizzazione del complesso edilizio dove
sono situate le unità immobiliari dei ricorrenti, non apparendo rilevante, a
giudizio dei ricorrenti, la circostanza che la Tavola 8, riferita al
sottotetto della Palazzina C, risulti priva del timbro del Comune, tenuto
conto che le corrispondenti Tavole n. 6 e n. 7, relative ai sottotetti delle
Palazzine A e B sarebbero state regolarmente protocollate, come ben visibile
già ad un loro esame sommario; inoltre non sarebbero stati considerati la
buona fede in cui versano gli attuali proprietari e il loro legittimo
affidamento, né sarebbe stata effettuata una comparazione degli interessi
privati sacrificati con quello pubblico, avuto riguardo al lungo lasso di
tempo intercorso tra la realizzazione dell’intervento edilizio e l’adozione
degli atti sanzionatori.
5.1. I motivi sono infondati.
In primo luogo, va sottolineato come l’ordinanza di riduzione in pristino,
quale atto di carattere del tutto vincolato, ponendosi quale conseguenza
immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli
interventi, non richiede una puntuale indicazione delle norme violate,
allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza
dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2020, n. 572; 21.01.2019,
n. 112).
Quanto all’eccepito mancato puntuale riscontro delle osservazioni presentate
per conto dei ricorrenti in seguito all’emanazione dell’avviso di avvio del
procedimento, va evidenziato che l’obbligo di esame delle predette
osservazioni non impone un’analitica confutazione in merito ad ogni
argomento utilizzato dalla parte istante, essendo sufficiente un iter
motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato
adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato
(cfr. Consiglio di Stato, V, 30.10.2018, n. 6173; VI, 13.05.2016, n. 1933;
TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2020, n. 841; 10.12.2019, n. 2633; III,
17.07.2019, n. 1656; II, 18.06.2019, n. 1410).
Nella fattispecie de qua, gli Uffici comunali hanno certamente preso
in considerazione l’apporto fornito dai ricorrenti, visto che nei
provvedimenti impugnati si dà espressamente conto delle osservazioni,
veicolate per il tramite di legali, presentate in data 8 agosto 2018,
ritenendole tuttavia non condivisibili sulla base di una valutazione
complessiva certamente ricavabile dai provvedimenti conclusivi adottati dal
Comune
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi il carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del
richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e all’ipotetico interesse
del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, dato che «la
selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così
dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via
indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R.
380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di
svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di
interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti».
-------------
Con riguardo invece al legittimo affidamento dei ricorrenti in ordine alla
conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo
(non eccessivo, trattandosi di circa un decennio), va evidenziato che
«l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede
né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto».
---------------
5.3. In conseguenza dell’abusività del mutamento di destinazione d’uso,
risulta perciò infondata anche la parte della censura che assume la mancata
comparazione degli interessi in conflitto, atteso che nelle ipotesi di
interventi edilizi abusivi il carattere sanzionatorio e doveroso del
provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione
dell’interesse pubblico e all’ipotetico interesse del privato alla
permanenza in loco dell’opera edilizia, dato che «la selezione e
ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a
monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile
l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001),
in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo
esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti» (Consiglio di Stato, Ad. plen.,
17.10.2017, n. 9).
Con riguardo invece al legittimo affidamento dei ricorrenti in ordine alla
conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo
(non eccessivo, trattandosi di circa un decennio), va evidenziato che «l’ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto» (Consiglio
di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185; altresì, Consiglio di Stato, Ad. plen.,
17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2020, n. 572; 18.09.2018,
n. 2098; 03.05.2018, n. 1198).
5.4. A ciò consegue il rigetto delle doglianze
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore
carico urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia
avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie.
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001,
qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente
art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento
di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che
implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n.
1444; “il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato che determini,
dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra diverse categorie in
rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta inevitabilmente un
differente carico ed un maggiore impatto urbanistico, anche se nell’ambito
di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione ai servizi e agli
standard ivi esistenti”.
---------------
6. A questo punto, per ragioni di economia processuale, appare opportuno
procedere allo scrutinio della terza censura di tutti i ricorsi,
attraverso la quale si contesta l’applicabilità dell’art. 31 del D.P.R. n.
380 del 2001, considerata l’assenza dei suoi presupposti applicativi –(i)
interventi in assenza del permesso di costruire, (ii) opere in difformità
rispetto al permesso e (iii) opere eseguite con variazioni essenziali al
titolo edilizio– e avuto riguardo, in ogni caso, all’inapplicabilità
dell’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale non essendo i
ricorrenti responsabili dell’abuso.
6.1. La doglianza è infondata.
Come è stato evidenziato in precedenza, i ricorrenti (o il loro dante causa)
hanno destinato abusivamente a locali abitabili i sottotetti della Palazzina
C che erano destinati a locali sgombero, senza permanenza di persone. Un
tale mutamento di destinazione d’uso, a prescindere dalla circostanza che
sia stato accompagnato da opere edilizie, ha certamente modificato i
parametri edilizi della costruzione (aumento di altezze e della volumetria),
comportando un non indifferente aggravio del carico urbanistico, e quindi
avrebbe dovuto essere assistito da idoneo titolo abilitativo. Difatti,
laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico
urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta
con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania, Salerno, II,
08.03.2013, n. 580).
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001,
qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del
precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il
mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere
edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M.
02.04.1968, n. 1444 (TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1529;
27.07.2012, n. 2146; TAR Valle d’Aosta, 16.11.2016, n. 55; TAR Veneto, II,
21.08.2013, n. 1078); “il mutamento di destinazione d’uso di un
fabbricato che determini, dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra
diverse categorie in rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta
inevitabilmente un differente carico ed un maggiore impatto urbanistico,
anche se nell’ambito di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione
ai servizi e agli standard ivi esistenti” (Consiglio di Stato, VI,
20.11.2018, n. 6562).
Va specificato che contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso R.G. n.
1859/2019, la predetta abusiva trasformazione non può nemmeno essere
ricondotta nello spettro applicativo della ristrutturazione edilizia –con le
connesse sanzioni ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001– di cui
all’art. 64 della legge regionale n. 12 del 2005, relativo al recupero dei
sottotetti, in quanto non è stata verificata la sussistenza dei suoi
presupposti applicativi, compreso l’avvenuto decorso del periodo minimo
–oggi triennale– che deve intercorrere dalla data di conseguimento
dell’agibilità del fabbricato al recupero del sottotetto (cfr. art. 63,
commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005).
Ne consegue la legittima applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del
2001, che tuttavia non esclude la possibilità per i ricorrenti di richiedere
l’accertamento di conformità, ove dovessero sussistere i presupposti di cui
al successivo art. 36
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva può legittimamente
essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce
illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio.
---------------
In relazione alla prospettata acquisizione dei beni al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, a prescindere dalla sua
non attualità, va evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non
autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una volta venuto a
conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, deve attivarsi contro il
responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e se ha la
disponibilità del manufatto deve provvedere in proprio all’eliminazione
dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subisce certamente
l’acquisizione del bene.
---------------
6.2. Come sostenuto da condivisibile giurisprudenza, l’ordinanza di
demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso,
considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio (TAR Lombardia, Milano, II,
04.07.2019, n. 1528).
In relazione alla prospettata acquisizione dei beni al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, a prescindere dalla sua
non attualità, va evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non
autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una volta venuto a
conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, deve attivarsi contro il
responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e se ha la
disponibilità del manufatto deve provvedere in proprio all’eliminazione
dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subisce
certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia, Milano, II,
04.07.2019, n. 1528; 21.01.2019, n. 112; 03.11.2016, n. 2014; 16.03.2015, n.
728)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: Acquisizione
gratuita del bene al patrimonio comunale in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione.
---------------
●
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento in autotutela – Annullamento
in sede giudiziaria – Per difetto di motivazione – Nuovo annullamento in
autotutela – Possibilità.
●
Edilizia – Demolizione – Inottemperanza - Acquisizione gratuita del bene al
patrimonio comunale – Omessa espressa previsione – Irrilevanza ex se
●
Qualora l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio sia stato annullato
in sede giudiziale per difetto di motivazione l’Amministrazione conserva il
potere di intervenire nuovamente sulla base di una adeguata motivazione che
desse conto dell’interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento del
permesso di costruire (1).
●
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione
è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente
dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita
del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine
assegnato con l'ingiunzione stessa; l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è infatti una misura
di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza
dell'ordine di demolizione; ne consegue, data la natura dichiarativa
dell’accertamento dell’inottemperanza, che la mancata indicazione dell’area
nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con
l’indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione (2).
---------------
(1) Ha ricordato la Sezione che trattandosi di provvedimenti in
materia di pianificazione urbanistica del territorio, il relativo onere
motivazionale risulta anche caratterizzato dalla “rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati, al punto che nelle ipotesi
di maggiore rilievo potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle
pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che
risultano in concreto violate, che normalmente possono integrare, ove
necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso
dell’esercizio dello ius poenitendi” (cfr.
Cons. Stato, Ad. plen., n. 8 del 2017).
E tra gli interessi pubblici “autoevidenti” vi è sicuramente quello
all’ordinato assetto urbanistico assicurato dalla stabilità della
pianificazione attuativa (nel caso di specie il piano di lottizzazione),
rispetto al quale l’eventuale affidamento dell’interessato deve essere
considerato recessivo.
(2)
Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2017, n. 3728.
L'individuazione dell'area da acquisirsi non deve infatti essere
necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a
pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento
in cui si procede all'acquisizione del bene. L'omessa indicazione
nell'ordinanza di demolizione dell'area che viene acquisita di diritto e
gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, comma 3, del
TU edilizia per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non
costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa giacché la
posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di
un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al
quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento
dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire
al patrimonio comunale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 755 del 2018)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.05.2020 n. 3330 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
15.1. Come ha avuto modo di rilevare
la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Ad. plen. n. 9 del 2017),
l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla
sussistenza di opere abusive e non richiede una motivazione del concreto
interesse pubblico. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa
ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal
legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione,
non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5595 del 2017
e n. 2799 del 2018), né una particolare motivazione dello stesso.
15.2. Relativamente alla mancata indicazione dell’area oggetto di un
eventuale provvedimento di acquisizione in caso di inottemperanza all’ordine
demolitorio (motivo 8°), va poi sottolineato che “l'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente
configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che
si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al
patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato
con l'ingiunzione stessa. La giurisprudenza ha pacificamente confermato tale
lettura, affermando che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle
opere edilizie abusivamente realizzate è una misura di carattere
sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di
demolizione” (cfr. ex multis, Cons. di Stato, Sez. IV,
27.07.2017, n. 3728).
Ne consegue, data la natura dichiarativa dell’accertamento
dell’inottemperanza, che la mancata indicazione dell’area nel provvedimento
di demolizione può comunque essere colmata con l’indicazione della stessa
nel successivo procedimento di acquisizione.
15.3. L'individuazione dell'area da acquisirsi non deve infatti essere
necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a
pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento
in cui si procede all'acquisizione del bene. L'omessa indicazione
nell'ordinanza di demolizione dell'area che viene acquisita di diritto e
gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, comma 3, del
TU edilizia per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non
costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa giacché la
posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di
un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al
quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento
dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire
al patrimonio comunale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 755/2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
parere in merito alla normativa da applicare alla domanda di condono
edilizio in caso di vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto
all’abuso – G.d.F., Tenenza di Ponza (Regione Lazio,
nota 06.05.2020 n. 401878 di prot.). |
aprile 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione del manufatto abusivo – Intervenuta acquisizione
del bene al patrimonio comunale – PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Contrasto con il
potere amministrativo – Esistenza di prevalenti interessi
pubblici – Effetti – Poteri del giudice – Art. 31 dPR n.
380/2001.
L’intervenuta acquisizione del bene al
patrimonio comunale non è ostativa all’emissione dell’ordine
giudiziale di demolizione, in quanto anche lo scopo
dell’acquisizione è quello di provvedere all’eliminazione
del manufatto abusivo, a meno che il consiglio comunale
abbia manifestato la volontà di non procedere alla
demolizione per l’esistenza di prevalenti interessi
pubblici.
Pertanto, anche nel caso di acquisizione del bene al
patrimonio comunale, il giudice penale ha il potere di
eseguire la demolizione del manufatto abusivo, disposto
dalla sentenza di condanna ex art. 31 del dPR 06.06.2001 n.
380, fatto salvo dall’eventuale contrasto con il potere
amministrativo di prevalenti interessi pubblici.
...
Esecuzione dell’ordine di demolizione disposto con sentenza
di condanna – Terzo in buona fede – Alienazione anteriore
all’ordine di demolizione del manufatto abusivo a terzi –
Ininfluenza – Ratio.
L’esecuzione dell’ordine di demolizione,
impartito dal giudice a seguito dell’accertata edificazione
in violazione di norme urbanistiche, non è escluso
dall’alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all’ordine medesimo, ciò in quanto
tale ordine, avendo carattere reale, ricade direttamente sul
soggetto che è in rapporto con il bene a prescindere dagli
atti traslativi intercorsi, con la sola conseguenza che
l’acquirente, se estraneo all’abuso, potrà rivalersi nei
confronti del venditore a seguito dell’avvenuta demolizione.
Per la sua natura, dunque, l’ordine di demolizione
dell’immobile abusivo è legittimamente adottato nei
confronti del proprietario dell’immobile indipendentemente
dall’essere egli stato anche autore dell’abuso e, come pure
è stato affermato, esso spiega i suoi effetti anche nei
confronti degli eredi del condannato.
...
Demolizione del manufatto abusivo disposta dal giudice
penale – Natura di sanzione amministrativa – Autonoma
funzione ripristinatoria del bene giuridico leso –
Applicabilità della prescrizione ex art. 173 cod. pen. –
Esclusione – art. 117 Cost. – Giurisprudenza della Corte EDU.
La demolizione del manufatto abusivo,
anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31,
comma 9, del T.U.E. qualora non sia stata altrimenti
eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve
ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico
leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha
carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in
rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o
meno quest’ultimo l’autore dell’abuso.
In conclusione, le caratteristiche della sanzione
amministrativa di demolizione del manufatto abusivo, non
avendo finalità punitive ed avendo carattere reale, produce
effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene,
anche se non è l’autore dell’abuso – non consentendo di
ritenerla “pena” nel senso individuato dalla giurisprudenza
della Corte EDU.
Per cui, è da escludere sia la irragionevolezza della
disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni
penali soggette a prescrizione, sia una violazione del
parametro interposto di cui all’art. 117 Cost. (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.04.2020 n. 13147 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Condono
edilizio e oneri concessori: devono essere determinati secondo le
tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria.
La tesi secondo cui gli oneri concessori vanno determinati
secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria, e
non della presentazione della domanda, trova fondamento, in primo luogo, nell’applicazione del
canone tempus regit actum, perché è soltanto con l’adozione del
provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi,
concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il
presupposto sostanziale del pagamento del contributo e, in secondo luogo, su
considerazioni di ordine teleologico, in quanto consente di meglio tutelare
l’interesse pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi
reali da sostenere.
Sicché, per “misura stabilita dalla disciplina vigente”, ai sensi dell’art.
6, comma 3, della legge regionale n. 10/2004, doveva, quindi, intendersi
quella stabilita dalle tabelle che erano in vigore al momento della
definizione del procedimento di sanatoria.
---------------
Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la
Campania il sig. Se.So. impugnava l’atto con cui il Comune di Mariglianella aveva determinato la misura degli oneri concessori e
dell’oblazione ancora dovuti in relazione alla sua domanda di condono
presentata ai sensi della legge n. 326/2003 per un ampliamento della cubatura
e per il cambio di destinazione d’uso di un fabbricato rurale sito in Mariglianella alla via
... e, con successivi motivi aggiunti, gli atti di
ulteriore rideterminazione di quanto dovuto (effettuata con nota n. 8661 del
06.08.2008, in relazione alla nuova misura degli oneri concessori di cui
alle delibere di Giunta comunale n. 6 del 18.01.2006 e n. 146 del 28.12.2006, e con nota n. 4215 del
07.04.2009 di rideterminazione
degli importi dovuti a titolo di oblazione, a seguito di riclassificazione
per intero delle opere oggetto del condono nella tipologia 1, anziché nella
tipologia 3, di abuso edilizio).
...
L’appello è fondato.
La tesi dell’appellante, per cui gli oneri concessori vanno determinati
secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria e
non della presentazione della domanda, è stata successivamente seguita dallo
stesso Giudice di primo grado (TAR Campania, Napoli, sez. II, 07.11.2013 n. 4944) e trova avallo nella giurisprudenza di questo Consiglio
secondo cui essa trova fondamento, in primo luogo, nell’applicazione del
canone tempus regit actum, perché è soltanto con l’adozione del
provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi,
concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il
presupposto sostanziale del pagamento del contributo e, in secondo luogo, su
considerazioni di ordine teleologico, in quanto consente di meglio tutelare
l’interesse pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi
reali da sostenere (da ultimo, C.d.S., sez. VI, 02.07.2019, n. 4514).
Per “misura stabilita dalla disciplina vigente”, ai sensi dell’art. 6, comma
3, della legge regionale n. 10/2004, doveva, quindi, intendersi quella
stabilita dalle tabelle che erano in vigore al momento della definizione del
procedimento di sanatoria, vale a dire, nel caso di specie, quelle stabilite
con la delibera di Giunta comunale n. 146 del 2006
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 27.04.2020 n. 2680 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinamento
opera una netta distinzione tra la situazione:
- di chi abbia realizzato
un’opera edilizia divenuta abusiva per effetto dell’annullamento del
relativo permesso di costruire e quella
- di chi abbia viceversa realizzato
un’opera abusiva in quanto priva ab origine del prescritto permesso di
costruire o realizzata in difformità da esso.
La prima fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 38,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di
annullamento (giurisdizionale o in autotutela) del permesso di costruire,
“qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei
vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale.
...”. Precisa il susseguente comma 2 che l’integrale corresponsione della
sanzione pecuniaria irrogata ai sensi del comma precedente “produce i
medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo
36”.
Come da ultimo autorevolmente ribadito dalla giurisprudenza, «il pacifico effetto della
disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati
presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del
permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta
edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento
della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria», fermo
restando che tale equiparazione «è solo quoad effectum, costituendo un
eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la
costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione,
non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della
stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma
della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato
l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della
generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»; dunque,
posto che trattasi di un’eccezionale deroga al principio della necessaria
repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, «la disposizione è
presidiata da due condizioni:
a) la prima è la motivata valutazione circa
l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative;
b)
la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione
in pristino»,
condizioni che risultano però eterogenee tra loro, «poiché la
prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di
convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di
costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della
relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene
alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla
restituzione dei luoghi in pristino stato».
Quanto all’ambito applicativo dell’istituto,
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato -nel presupposto che la tutela dell’affidamento, attraverso
l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere
«sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla
valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione
urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del
principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio,
ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente
al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del
privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di
quanto assentito»- ha affermato il principio di diritto secondo il quale «i
vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano
forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata
dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
La seconda fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 36,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di interventi
realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, nei
termini previsti dallo stesso articolo “il responsabile dell’abuso, o
l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda”.
Precisa il comma 2 del medesimo
art. 36 che il rilascio del permesso in sanatoria “è subordinato al
pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura
doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a
quella prevista dall’articolo 16”, fermo restando che, nell’ipotesi di
intervento realizzato in parziale difformità, “l’oblazione è calcolata con
riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.
Tanto premesso, giova evidenziare che
- nella fattispecie disciplinata
dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 è previsto l’esercizio, da parte
dell’Amministrazione, di un potere discrezionale (perché la fiscalizzazione
dell’abuso presuppone, come già evidenziato, che l’attività di convalida del
permesso di costruire, mediante la rimozione del vizio della relativa
procedura amministrativa, non sia oggettivamente possibile) e
tecnico-discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone
altresì l’accertamento che è impossibile la rimessione in pristino);
viceversa,
- nella fattispecie disciplinata dall’art. 36, comma 1, del d.P.R.
380 del 2001 non è previsto l’esercizio di alcun potere discrezionale
da parte dell’Amministrazione, la quale è in tal senso tenuta soltanto a
verificare la conformità dell’opera abusiva con le previsioni urbanistiche,
ragion per cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è un atto
dovuto, laddove sussistano i presupposti richiesti dalle predette
disposizioni.
---------------
1. Ai fini dell’inquadramento della fattispecie per cui è causa
giova preliminarmente rammentare che l’ordinamento, statuale e provinciale,
opera una netta distinzione tra la situazione di chi abbia realizzato
un’opera edilizia divenuta abusiva per effetto dell’annullamento del
relativo permesso di costruire e quella di chi abbia viceversa realizzato
un’opera abusiva in quanto priva ab origine del prescritto permesso di
costruire o realizzata in difformità da esso.
2. La prima fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 38,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di
annullamento (giurisdizionale o in autotutela) del permesso di costruire,
“qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei
vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale.
...”. Precisa il susseguente comma 2 che l’integrale corresponsione della
sanzione pecuniaria irrogata ai sensi del comma precedente “produce i
medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo
36”.
Come da ultimo autorevolmente ribadito dalla giurisprudenza (Consiglio di
Stato, Ad. plen., 07.09.2020, n. 17), «il pacifico effetto della
disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati
presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del
permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta
edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento
della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria», fermo
restando che tale equiparazione «è solo quoad effectum, costituendo un
eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la
costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione,
non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della
stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma
della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato
l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della
generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»; dunque,
posto che trattasi di un’eccezionale deroga al principio della necessaria
repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, «la disposizione è
presidiata da due condizioni: a) la prima è la motivata valutazione circa
l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative; b)
la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione
in pristino», condizioni che risultano però eterogenee tra loro, «poiché la
prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di
convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di
costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della
relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene
alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla
restituzione dei luoghi in pristino stato».
Come già evidenziato da questo Tribunale (T.R.G.A Trentino Alto Adige,
Trento, 11.08.2020, n. 136), l’istituto disciplinato dal menzionato art.
38 -correntemente denominato “fiscalizzazione dell’abuso”- nella Provincia
autonoma di Trento è disciplinato dall’art. 129, comma 11, della legge
provinciale n. 1 del 2008, secondo il quale, “Se il comune, in seguito
all’accertamento che è impossibile rimuovere i vizi delle procedure
amministrative e rimettere in pristino, annulla la concessione, applica una
sanzione pecuniaria pari al valore delle opere o delle parti abusivamente
eseguite e comunque non inferiore a 1.500 euro”, e trova applicazione non
solo in caso di annullamento in autotutela del permesso di costruire, ma
anche in caso di annullamento giurisdizionale. Anche in questo caso, ai
sensi del comma 12 dell’art. 129, “L’integrale corresponsione della sanzione
pecuniaria e il pagamento del contributo di concessione producono gli
effetti della concessione”.
Quanto all’ambito applicativo dell’istituto, nel recente passato questo
Tribunale (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 18.02.2020 n. 27; id.,
11.08.2020, n. 136, cit.) ha invero aderito all’orientamento
giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.07.2019, n. 5089)
secondo il quale una disposizione come l’art. 129, comma 11, della legge
provinciale 1/2008 può trovare applicazione per ogni tipologia dell’abuso
stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi
che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo.
Tuttavia
l’Adunanza plenaria (Consiglio di Stato, Ad. plen., 07.09.2020, n. 17, cit.) -nel presupposto che la tutela dell’affidamento, attraverso
l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere
«sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla
valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione
urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del
principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio,
ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente
al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del
privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di
quanto assentito»- ha affermato il principio di diritto secondo il quale «i
vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano
forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata
dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
3. La seconda fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 36,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di interventi
realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, nei
termini previsti dallo stesso articolo “il responsabile dell’abuso, o
l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda”.
Precisa il comma 2 del medesimo
art. 36 che il rilascio del permesso in sanatoria “è subordinato al
pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura
doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a
quella prevista dall’articolo 16”, fermo restando che, nell’ipotesi di
intervento realizzato in parziale difformità, “l’oblazione è calcolata con
riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.
Anche l’istituto disciplinato dall’art. 36 -denominato accertamento della
conformità urbanistica- si rinviene nell’ordinamento della Provincia
autonoma di Trento, che però si caratterizza in quanto, accanto al caso in
cui la sanatoria è subordinata all’accertamento della c.d. doppia
conformità, è stata tipizzata e disciplinata anche la c.d. sanatoria
giurisprudenziale degli abusi edilizi.
In particolare l’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1/2008
dispone -in conformità a quanto previsto dall’art. 36, comma 1, del d.P.R.
n. 380 del 2001- che, fino alla scadenza dei termini per l’esecuzione
dell’ingiunzione prevista dall’articolo 129, comma 1, della stessa legge
provinciale n. 1 del 2008, “il responsabile dell’abuso o altro soggetto
avente titolo possono chiedere la concessione in sanatoria se l’opera è
conforme agli strumenti urbanistici in vigore e non in contrasto con quelli
adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Parimenti il comma 4 dell’art. 135 dispone che
il rilascio della concessione in sanatoria “è subordinato al pagamento del
contributo di concessione e di una sanzione pecuniaria pari al valore del
contributo”, precisando che nei casi di esenzione o di riduzione del
contributo “la sanzione pecuniaria è pari al contributo dovuto negli altri
casi” e nei casi di difformità “il contributo e la relativa sanzione sono
calcolati con riferimento alla parte di opera difforme dalla concessione”,
fermo altresì restando che “la sanzione non può essere inferiore a 1.500
euro”.
Peraltro la sopradescritta disciplina di fonte provinciale si discosta
sensibilmente da quella statuale perché il comma 7 dell’art. 135 dispone che
-fermo restando quanto previsto dal comma 1- “resta salvo il potere, ai
soli fini amministrativi, di rilasciare la concessione edilizia quando è
regolarmente richiesta e conforme, al momento della presentazione della
domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle
adottate, anche se l’opera per la quale è richiesta è già stata realizzata
abusivamente. In tal caso le sanzioni pecuniarie previste dai commi 4 e 5
sono aumentate del 20 per cento”.
Come già evidenziato da questo Tribunale
in altra occasione (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 11.08.2020, n.
136), con tale disposizione il Legislatore provinciale, nell’esercizio della
competenza legislativa primaria in materia di urbanistica, prevista
dell’art. 8, comma 1, n. 5, dello Statuto speciale di autonomia della
Regione Trentino Alto Adige/Südtirol approvato con d.P.R. 31.08.1972,
n. 670, ha codificato la c.d. sanatoria giurisprudenziale, così ampliando
(seppure “ai soli fini amministrativi”, ossia fatte salve eventuali
responsabilità di natura penale) la possibilità di richiedere l’accertamento
della conformità urbanistica dell’opera realizzata in assenza di permesso di
costruire o in difformità da esso, purché l’opera stessa sia “conforme, al
momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e
non in contrasto con quelle adottate”.
Tanto premesso, giova evidenziare che nella fattispecie disciplinata
dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 129, comma 11,
della legge provinciale n. 1 del 2008 è previsto l’esercizio, da parte
dell’Amministrazione, di un potere discrezionale (perché la fiscalizzazione
dell’abuso presuppone, come già evidenziato, che l’attività di convalida del
permesso di costruire, mediante la rimozione del vizio della relativa
procedura amministrativa, non sia oggettivamente possibile) e
tecnico-discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone
altresì l’accertamento che è impossibile la rimessione in pristino);
viceversa, nella fattispecie disciplinata dall’art. 36, comma 1, del d.P.R.
380 del 2001 e dall’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1 del
2008, quanto in quella disciplinata dall’art. 135, comma 7, della medesima
legge provinciale non è previsto l’esercizio di alcun potere discrezionale
da parte dell’Amministrazione, la quale è in tal senso tenuta soltanto a
verificare la conformità dell’opera abusiva con le previsioni urbanistiche,
ragion per cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è un atto
dovuto, laddove sussistano i presupposti richiesti dalle predette
disposizioni
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Uno dei presupposti affinché sia
rilasciato un titolo edilizio finalizzato
all'esecuzione di un intervento su un
edificio esistente è che tale edificio non
sia abusivo e, quindi, sia stato realizzato
in conformità al titolo che lo ha assentito.
Secondo l’orientamento prioritario, in
presenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, qualsiasi ulteriore intervento,
(anche riconducibile alle categorie della
manutenzione straordinaria del restauro e/o
del risanamento conservativo, della
ristrutturazione), ripete le caratteristiche
di illegittimità dell'opera principale alla
quale inerisce strutturalmente.
Sarebbe infatti contraddittorio per
l'Amministrazione autorizzare la
manutenzione straordinaria, il restauro o la
ristrutturazione di un edificio che essa
stessa ritenga essere abusivo nella sua
attuale configurazione, salvo ovviamente che
si tratti di opere di messa in sicurezza.
---------------
1) Il presente ricorso è proposto avverso il
diniego al permesso di costruire per opere
di manutenzione straordinaria da realizzare
su un immobile composto da un piano terra,
destinato ad autorimessa, e un primo piano,
costituito da un appartamento ad uso
residenziale.
Al piano terra le opere di manutenzione
consistevano nella chiusura della finestra e
nella rimozione del camino, mentre al primo
piano nella diversa distribuzione interna,
per mezzo di demolizione dei tavolati e
creazione di nuovi, spostamento del servizio
e creazione di uno nuovo con modifica delle
aperture.
I proprietari hanno presentato istanza di
permesso di costruire in data 13.12.2016,
cui sono seguiti il preavviso di rigetto del
14.02.2017 e la presentazione delle loro
osservazioni in data 28.02.2017 (con
raccomandata ricevuta dall’Amministrazione
il 03.03.2017), e il procedimento si è poi
concluso con il diniego del 20.04.2017,
oggetto del presente ricorso.
Il permesso è stato negato, in quanto “le
opere da assentirsi intervengono su due
porzioni immobiliari di cui non è dimostrata
la legittimità, finendo anch’esse per
assumere connotazioni di abusività rispetto
all’opera principale”.
La questione centrale attiene alla abusività
o meno della porzione di immobile
interessata dalle opere che i ricorrenti
vorrebbero realizzare.
Infatti uno dei presupposti affinché sia
rilasciato un titolo edilizio finalizzato
all'esecuzione di un intervento su un
edificio esistente è che tale edificio non
sia abusivo e, quindi, sia stato realizzato
in conformità al titolo che lo ha assentito.
Secondo l’orientamento prioritario, in
presenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, qualsiasi ulteriore intervento,
(anche riconducibile alle categorie della
manutenzione straordinaria del restauro e/o
del risanamento conservativo, della
ristrutturazione), ripete le caratteristiche
di illegittimità dell'opera principale alla
quale inerisce strutturalmente. Sarebbe
infatti contraddittorio per
l'Amministrazione autorizzare la
manutenzione straordinaria, il restauro o la
ristrutturazione di un edificio che essa
stessa ritenga essere abusivo nella sua
attuale configurazione, salvo ovviamente che
si tratti di opere di messa in sicurezza (in
tal senso, questa Sez. n. 355 del
18/02/2016, che segue giurisprudenza
costante: ex multis TAR Napoli, sez.
VI, n. 3108 del 07/06/2019) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.04.2020 n. 634 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi – Notifica dell’ingiunzione a demolire al
condannato – Effetti e funzione – Condizione di
procedibilità – Esclusione – Esecuzione dell’ordine di
demolizione – Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, la notifica
dell’ingiunzione a demolire al condannato non costituisce
condizione di procedibilità dell’esecuzione dell’ordine di
demolizione.
Pertanto, la notifica al condannato dell’ordine di
esecuzione, pur se doverosa, non costituisce, salvo diverse
e specifiche disposizioni, presupposto per procedere
all’attuazione di un provvedimento penale.
Dall’altro, non solo non vi è alcuna previsione di legge la
quale preveda la notifica dell’ingiunzione a demolire al
condannato come condizione di procedibilità per eseguire
l’ordine di demolizione contenuto nella sentenza divenuta
irrevocabile, ma, anzi, la precisata attività di
notificazione ha la funzione, ben diversa, di evitare
aggravi di spese a carico del condannato e non spetta
nemmeno al difensore di quest’ultimo.
...
Ingiunzione a demolire – Mancata notifica al condannato –
Spontaneo adempimento dell’obbligo – Terzo comproprietario
dell’immobile abusivo – Incidente di esecuzione.
L’ingiunzione a demolire deve essere
notificata al condannato, in quanto atto preordinato a
consentire al medesimo lo spontaneo adempimento dell’obbligo
senza ulteriori aggravi di spese a suo carico. La mancata
notifica al condannato dell’ingiunzione a demolire non può
essere invocata da un terzo, pur se interessato
dall’esecuzione del provvedimento penale, ad esempio perché
acquirente o comproprietario del bene.
Se, infatti, la notifica dell’ingiunzione a demolire al
condannato non costituisce condizione di procedibilità
dell’esecuzione dell’ordine di demolizione, e mira a
soddisfare un interesse personale, di tipo patrimoniale, del
medesimo, il terzo resta giuridicamente indifferente ad
eventuali illegittimità ed omissioni relative a tale
segmento dell’attività esecutiva.
In linea generale, il terzo, pur se comproprietario
dell’immobile abusivo, non ha diritto a ricevere notifica
dell’ingiunzione a demolire, e non è portatore di un
interesse giuridicamente rilevante a dedurre una nullità che
riguarda un altro soggetto, in quanto egli ha il diritto di
far valere le sue ragioni proponendo incidente di esecuzione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.04.2020 n. 10943 - link a www.ambientediritto.it). |
marzo 2020 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Condivisibile
giurisprudenza ha osservato che “ciò che viene sanzionato, nella misura massima di Euro
20.000,00, dall'art. 31, comma 4-bis, D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato, bensì la mancata
spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito
dalla P.A. per opere abusivamente realizzate: il disvalore (ex se rilevante)
colpito è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino.
Ne consegue che è
irrilevante il fatto che l'abuso fosse stato realizzato prima dell'entrata
in vigore della norma, giacché la mancata esecuzione dell'ordinanza di
demolizione, proseguita dopo l'entrata in vigore del menzionato comma 4-bis,
imponeva l'applicazione della sanzione da quest'ultimo prevista, senza che
ciò implicasse violazione dell'invocato principio di irretroattività delle
norme che introducono misure sanzionatorie”.
---------------
Peraltro, il Tribunale evidenzia che risulta infondato anche il terzo motivo
di impugnazione, con cui i ricorrenti si dolgono sia che l’Amministrazione
comunale resistente abbia comminato la sanzione demolitoria rispetto ad un
abuso al più sanzionabile ex art. 37 D.P.R. 380/2001 -risultando nella
specie realizzata, in assenza di titolo edilizio, unicamente una copertura
di un terrazzo a livello, consistente in una struttura portante in ferro e
copertura a spiovente a pannelli coibentati- sia che sia stata loro
applicata una sanzione pecuniaria quantificata nella misura massima di €
20.000,00, in assenza dei legittimi presupposti.
Al riguardo, il Collegio si limita ad evidenziare che nella fattispecie che
occupa risulta in realtà realizzato in zona E3 (zona omogenea agricola
semplice) assoggettata a vincolo paesistico, un “ampliamento su di un
terrazzo a livello dell'appartamento al primo piano di uno stabile
costituito da due piani fuori terra. L'ampliamento copre una superficie di
circa 70 mq. ed è costituito da una struttura portante in ferro e copertura
a spiovente in pannelli coibentati sostenuti da travi in ferro. Tale
copertura ha un'altezza variabile dai 4 mt. circa sulla zona a ridosso del
vecchio fabbricato, ai 3,50 mt. sulla parte bassa”, che per
caratteristiche e dimensioni risulta correttamente sanzionato con la
demolizione.
Quanto poi alle contestazioni relative alla sanzione ex art 31, comma 4-bis,
del D.P.R. 380/2001 nella specie applicata, il Tribunale evidenzia che le
stesse non sono condivisibili, né quanto alle doglianze relative alla misura
della sanzione applicata e quantificata in € 20.000,00, posto che tale
ammontare trova diretta giustificazione e motivazione nella Delibera n. 18
del 11.07.2016 della Giunta Comunale espressamente richiamata negli atti
impugnati, né quanto alla denunciata inapplicabilità nella fattispecie che
occupa della Delibera citata in quanto intervenuta successivamente alla
realizzazione dell’abuso; a tale ultimo riguardo e per respingere la
spiegata doglianza, giova richiamare condivisibile giurisprudenza che ha
osservato che “ciò che viene sanzionato, nella misura massima di Euro
20.000,00, dall'art. 31, comma 4-bis, D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato, bensì la mancata
spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito
dalla P.A. per opere abusivamente realizzate: il disvalore (ex se rilevante)
colpito è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino. Ne consegue che è
irrilevante il fatto che l'abuso fosse stato realizzato prima dell'entrata
in vigore della norma, giacché la mancata esecuzione dell'ordinanza di
demolizione, proseguita dopo l'entrata in vigore del menzionato comma 4-bis,
imponeva l'applicazione della sanzione da quest'ultimo prevista, senza che
ciò implicasse violazione dell'invocato principio di irretroattività delle
norme che introducono misure sanzionatorie” (cfr. TAR Lombardia Milano,
sez. II, 04/12/2019, n. 2588)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.03.2020 n. 1166 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza
plenaria l’interpretazione dell’art. 38, t.u. n. 380 del 2001 sulla
possibilità di sanatoria nel caso di intervento edilizio eseguito in base a
permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale.
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Edilizia – Sanatoria - Permesso di costruire annullato in sede
giurisdizionale – Quando è possibile la sanatoria – Art. 38, t.u. n. 380 del
2001 – Interpretazione – Remissione all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato.
É rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato la corretta interpretazione dell’art. 38, t.u. 06.06.2001, n. 380, nel
senso di stabilire, nel caso di intervento edilizio eseguito in base a
permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale, quale tipo di vizi
consenta la sanatoria che la norma prevede, ovvero l’applicazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria il cui pagamento produce, ai sensi del
comma 2 dell’articolo in questione, “i medesimi effetti del permesso di
costruire in sanatoria”, istituto che comunemente si chiama “fiscalizzazione
dell’abuso” (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che sulla norma dell’art. 38 in esame si
sono formati, alla luce della giurisprudenza edita, tre distinti
orientamenti.
Un primo orientamento, che si è affermato nella più recente giurisprudenza
della Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato, dell’art. 38 sostiene
un’interpretazione ampia, di favore per il privato autore dell’abuso.
Ritiene infatti, in sintesi estrema, che la fiscalizzazione dell’abuso
sarebbe possibile per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere
dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato
all’annullamento dell’originario titolo, e quindi considera secondo logica
l’istituto come un caso particolare di condono di una costruzione nella
sostanza abusiva.
Più nel dettaglio, anche in presenza di vizi sostanziali non emendabili del
titolo annullato, il Comune prima di ordinare la rimessione in pristino
dovrebbe verificare l'impossibilità a demolire, e ove la ritenesse, dovrebbe
limitarsi ad applicare la sanzione pecuniaria; nel far ciò dovrebbe poi
considerare rilevante non solo il caso di vera e propria impossibilità o
grave difficoltà tecnica, ma anche quello in cui riconoscesse ragioni di
equità o al limite anche di opportunità (Cons.
St., sez. VI, 19.07.2019, n. 5089; id.,
sez. VI, 28.11.2018, n. 6753).
Vi è poi un orientamento più restrittivo, secondo il quale la
fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile soltanto nel caso di vizi
formali o procedurali non emendabili, mentre in ogni altro caso
l’amministrazione dovrebbe senz’altro procedere a ordinare la rimessione in
pristino; in altre parole, secondo tale orientamento, lo strumento in esame
consente di superare i soli vizi non sostanziali della costruzione, e quindi
non può operare con gli effetti di un condono: così in primo luogo la Corte
costituzionale con la sentenza 11.06.2010 n. 209, nonché nella
giurisprudenza di questo Giudice le sentenze
sez. VI, 09.05.2016, n. 1861 e per implicito
sez. IV, 16.03.2010, n. 1535, ove si fa l’esempio pratico di un
vizio formale consistito nella mancata predisposizione dello studio
planivolumetrico previsto dalle norme tecniche di piano.
Si ricorda poi per completezza che seguiva l’orientamento più restrittivo,
se pure senza una motivazione approfondita, la costante giurisprudenza
formatasi sull’art. 11, l. n. 47 del 1985: fra le molte
Cons. St., sez. VI, 11.02.2013, n. 753; id.,
sez. V, 22.05.2006, n. 2960 e
sez. V, 12.10.2001, n. 5407.
Vi è infine un orientamento intermedio, che si discosta da quello
restrittivo per ritenere possibile la fiscalizzazione, oltre che nei casi di
vizio formale, anche nei casi di vizio sostanziale, però emendabile: anche
in tal caso, non vi sarebbe la sanatoria di un abuso, perché esso verrebbe
in concreto eliminato con le opportune modifiche del progetto prima del
rilascio della sanatoria stessa, la quale si distinguerebbe
dall’accertamento di conformità di cui all’art. 36 dello stesso T.U.
380/2001 per il fatto che qui non sarebbe richiesta la “doppia conformità”,
ovvero non si richiederebbe il rispetto delle norme edilizie e urbanistiche
vigenti sia al momento dell’abuso sia a quello successivo della sanatoria.
In tal senso, sempre fra le molte,
Cons. St., sez. VI, 10.09.2015, n. 4221,
sez. VI, 08.05.2014, n. 2355 e
sez. IV, 17.09.2012, n. 4923, ove si fa l’esempio pratico di un
vizio sostanziale emendato, costituito dalla riduzione di altezza del
fabbricato in modo da rispettare le norme tecniche di piano.
Ai fini di causa, condividere l’orientamento restrittivo, ovvero quello
intermedio, comporterebbero senz’altro la reiezione per intero sia
dell’appello 1510/2019, sia dell’appello 1708/2019 e la conferma della
sentenza di I grado. Ne deriverebbe infatti la necessità di affermare che il
Comune, nell’adottare il provvedimento di cui all’art. 38 in esame in un
caso in cui si ravvisano vizi sostanziali che non vengono superati, è andato
al di là dei poteri conferitigli dalla norma.
La Sezione ritiene di evidenziare che tutti e tre gli orientamenti
sinteticamente illustrati muovono da premesse teoriche comuni, e se ne
discostano nelle conseguenze che ritengono di trarne.
Le premesse teoriche comuni sono quelle riassunte, per tutte, da codesta
Adunanza Plenaria nella
sentenza 23.04.2009, n. 4, nonché nella citata sentenza
4355/2014. In primo luogo, la posizione dell’originario controinteressato,
che ha realizzato l'opera sulla base del titolo annullato in sede
giurisdizionale, non si differenzia da quella di chi avesse realizzato
l'opera abusivamente senza titolo alcuno, nel senso che non va ritenuta
assistita da un particolare affidamento da tutelare e questo perché una
situazione di affidamento si potrebbe se mai configurare solo nei confronti
di un eventuale annullamento in sede amministrativa, non rispetto ad un
annullamento in sede giurisdizionale.
In quest'ultimo caso, infatti, da un lato, chi ottiene il titolo edilizio si
assume il rischio e il pericolo di un eventuale annullamento di esso
all’esito del ricorso che un terzo potrebbe proporre; dall’altro lato, si è
di fronte ad un organo giudicante, che deve limitarsi a decidere sulla
domanda propostagli e non può valorizzare, diversamente
dall’amministrazione, eventuali affidamenti dei soggetti coinvolti. In
secondo luogo, l’annullamento giurisdizionale del titolo edilizio determina
un giudicato, che in linea di principio tutti i soggetti dell’ordinamento,
anche il legislatore ordinario, debbono rispettare.
Ciò posto, secondo l’indirizzo teorico comune in esame, l’art. 38 in esame
rappresenta, dal punto di vista del legislatore, la creazione di un “potere
nuovo” rispetto a quello che consente di emettere il titolo edilizio,
che contempera l’esigenza di rispettare il giudicato con quella di
realizzare “un assetto della fattispecie diversificato” rispetto a
quello scaturente dal giudicato stesso, “ma non in contrasto con quest'ultimo”:
così la sentenza 4355 del 2014, da cui le citazioni.
A fronte di ciò, l’orientamento di maggior favore privilegia al massimo le
ragioni del privato titolare del permesso annullato, recuperando in tal modo
la tutela della buona fede che di regola può vantare chi eserciti una
qualsiasi attività sulla base di un titolo rilasciato dall’amministrazione
competente. Le ragioni di questo soggetto quindi, nei risultati, andrebbero
a prevalere nella maggioranza dei casi, portando come esito normale la
sanatoria dell’abuso mediante la sua fiscalizzazione.
In tal senso, deporrebbe anche un argomento letterale, individuato per tutte
dalla sentenza 5089 del 2019: i richiami ai "vizi delle procedure
amministrative" e alla impossibilità della "rimessione in pristino"
contenuti nel comma 1 dell’art. 38 sarebbero due ipotesi di sanatoria messe
su un piano di parità, la prima relativa a vizi formali, la seconda, ovvero
quella in cui non sia possibile la "rimessione in pristino", relativa
ad una problematica tecnico ingegneristica, che quindi prescinderebbe dal
tipo di vizio riscontrato.
Viceversa, l’orientamento restrittivo e quello intermedio privilegiano le
ragioni del terzo il quale ha impugnato nell’originario giudizio il titolo
illegittimo, nonché il rispetto del giudicato. In primo luogo, si sostiene
che consentire la sanatoria senza limiti andrebbe a ledere l'affidamento di
costui nella stabilità della disciplina giuridica delle fattispecie, e si
renderebbe in sostanza inutile e privo di effettività il suo diritto di
cittadino di adire il giudice per ottenere la tutela delle proprie
situazioni giuridiche soggettive.
Si osserva poi che l’interpretazione ampia potrebbe essere anche in
contrasto con l’art. 102 Cost., perché andrebbe in sostanza a travolgere gli
effetti del giudicato di annullamento attribuendo all’amministrazione il
potere di invadere il campo riservato all’Autorità giudiziaria.
In tal senso sono le citate C. cost. 209 del 2010 e
Cons. St., sez. n. 2355 del 2014, con riguardo specifico al caso
concreto di una norma di legge provinciale che aveva introdotto
espressamente la possibilità di fiscalizzazione del vizio sostanziale non
sanabile, ma con argomentazioni di principio che assumono valore generale.
Secondo logica, quindi, va adottata un’interpretazione che consente di
sanare l’abuso solo quando esso è tale formalmente, ma non nella sostanza,
perché si tratta appunto di soli vizi formali, o perché i vizi sostanziali
sono stati eliminati.
In tale ultimo senso è anche orientato il Collegio, sia per le ragioni
esposte sopra, sia perché, in sintesi estrema, la repressione degli abusi
edilizi –considerando come tali le costruzioni che siano effettivamente in
contrasto con l’assetto del territorio disegnato dagli strumenti
urbanistici– è un valore che l’ordinamento persegue con particolare rigore:
in tal senso, se pure su fattispecie diverse, si è espressa anche codesta
Adunanza Plenaria nelle note sentenze 17.10.2017,
n. 8 e
n. 9.
In tali termini, appare preferibile l’orientamento che si è denominato
intermedio, che amplia la sanabilità dell’abuso, e protegge quindi
l’affidamento di chi ha ottenuto il rilascio del titolo poi annullato, sino
al limite massimo consentito dalla contrapposta tutela del terzo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 11.03.2020 n. 1735 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
22. L’appello propone, nel suo complesso, una questione di diritto, per
la cui risoluzione è necessaria, ad avviso del Collegio, la rimessione
all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.
23. Si tratta della corretta interpretazione dell’art. 38 del T.U. 06.06.2001 n. 380, nel senso di stabilire, nel caso di intervento edilizio
eseguito in base a permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale,
quale tipo di vizi consenta la sanatoria che la norma prevede, ovvero
l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria il cui pagamento
produce, ai sensi del comma 2 dell’articolo in questione, “i medesimi
effetti del permesso di costruire in sanatoria”, istituto che comunemente si
chiama “fiscalizzazione dell’abuso”, questione oggetto del primo motivo sia
del ricorso 1510/2019 che del ricorso 1708/2019.
24. Per chiarezza, si riportano le norme pertinenti.
24.1 Il più volte citato art. 38 del T.U. 380/2001 dispone, nella parte che
interessa: “(Interventi eseguiti in base a permesso annullato) In caso di
annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata
valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle
opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del
territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e
l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata
all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene
definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L'integrale
corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti
del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36 (comma 2)”.
Quest’ultimo articolo, com’è noto, disciplina l’accertamento di conformità,
ovvero la sanatoria degli interventi abusivi perché realizzati senza titolo,
ma conformi alle norme urbanistico edilizie.
24.2 Per completezza, si ricorda che le norme dell’art. 38 appena citate
trovano il loro antecedente nel previgente ed analogo art. 11 della l. 28.02.1985 n. 47, per cui
“(Annullamento della concessione) In caso di
annullamento della concessione, qualora non sia possibile la rimozione dei
vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
sindaco applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o
loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'ufficio tecnico erariale. La
valutazione dell'ufficio tecnico è notificata alla parte dal comune e
diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L'integrale
corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti
della concessione di cui all'articolo 13 (comma 2)”.
Come si vede, la norma
è identica, a parte i riferimenti alla concessione edilizia, come è noto
precedente denominazione del titolo edilizio maggiore, ora permesso di
costruire, e all’art. 13 della stessa l. 47/1985, che disciplinava
l’accertamento di conformità in termini identici all’attuale art. 36 del
T.U. 380/2001. Di conseguenza, si farà riferimento anche alla giurisprudenza
formatasi su questa norma.
25. Tanto premesso, sulla norma dell’art. 38 in esame si sono formati, alla
luce della giurisprudenza edita, tre distinti orientamenti, che si indicano
così come segue.
25.1 Un primo orientamento, che si è affermato nella più recente
giurisprudenza della Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato, dell’art.
38 sostiene un’interpretazione ampia, di favore per il privato autore
dell’abuso. Ritiene infatti, in sintesi estrema, che la fiscalizzazione
dell’abuso sarebbe possibile per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a
prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato
all’annullamento dell’originario titolo, e quindi considera secondo logica
l’istituto come un caso particolare di condono di una costruzione nella
sostanza abusiva.
Più nel dettaglio, anche in presenza di vizi sostanziali
non emendabili del titolo annullato, il Comune prima di ordinare la rimessione in pristino dovrebbe verificare l'impossibilità a demolire, e ove
la ritenesse, dovrebbe limitarsi ad applicare la sanzione pecuniaria; nel
far ciò dovrebbe poi considerare rilevante non solo il caso di vera e
propria impossibilità o grave difficoltà tecnica, ma anche quello in cui
riconoscesse ragioni di equità o al limite anche di opportunità: in tal
senso la più recente C.d.S. sez. VI 19.07.2019 n. 5089, e in senso
sostanzialmente conforme, fra le molte, C.d.S. sez. VI 28.11.2018 n. 6753
e sez. VI 12.05.2014 n. 2398.
25.2 Ai fini di causa, condividere questo orientamento comporterebbe che i
motivi di appello indicati, primo sia del ricorso 1510/2019 che del ricorso
1708/2019 andrebbero non puramente e semplicemente respinti, ma valutati in
concreto: posto che l’amministrazione non si è mossa senz’altro al di là dei
poteri che l’art. 38, in ipotesi, le conferisce, occorrerebbe verificare se
in concreto di questi poteri abbia fatto corretta applicazione.
25.3 Vi è poi un orientamento più restrittivo, secondo il quale la
fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile soltanto nel caso di vizi
formali o procedurali non emendabili, mentre in ogni altro caso
l’amministrazione dovrebbe senz’altro procedere a ordinare la rimessione in
pristino; in altre parole, secondo tale orientamento, lo strumento in esame
consente di superare i soli vizi non sostanziali della costruzione, e quindi
non può operare con gli effetti di un condono: così in primo luogo la Corte
costituzionale con la sentenza 11.06.2010 n. 209, nonché nella
giurisprudenza di questo Giudice le sentenze sez. VI 09.05.2016 n. 1861 e
per implicito sez. IV 16.03.2010 n. 1535, ove si fa l’esempio pratico di
un vizio formale consistito nella mancata predisposizione dello studio
planivolumetrico previsto dalle norme tecniche di piano. Si ricorda poi per
completezza che seguiva l’orientamento più restrittivo, se pure senza una
motivazione approfondita, la costante giurisprudenza formatasi sull’art. 11
della l. 47/1985: fra le molte C.d.S. sez. VI 11.02.2013 n. 753, sez. V
22.05.2006 n. 2960 e sez. V 12.10.2001 n. 5407.
25.4 Vi è infine un orientamento intermedio, che si discosta da quello
restrittivo per ritenere possibile la fiscalizzazione, oltre che nei casi di
vizio formale, anche nei casi di vizio sostanziale, però emendabile: anche
in tal caso, non vi sarebbe la sanatoria di un abuso, perché esso verrebbe
in concreto eliminato con le opportune modifiche del progetto prima del
rilascio della sanatoria stessa, la quale si distinguerebbe
dall’accertamento di conformità di cui all’art. 36 dello stesso T.U.
380/2001 per il fatto che qui non sarebbe richiesta la “doppia conformità”,
ovvero non si richiederebbe il rispetto delle norme edilizie e urbanistiche
vigenti sia al momento dell’abuso sia a quello successivo della sanatoria.
In tal senso, sempre fra le molte, C.d.S. sez. VI 10.09.2015 n. 4221,
sez. VI 08.05.2014 n. 2355 e sez. IV 17.09.2012 n. 4923, ove si fa
l’esempio pratico di un vizio sostanziale emendato, costituito dalla
riduzione di altezza del fabbricato in modo da rispettare le norme tecniche
di piano.
25.5 Ai fini di causa, condividere l’orientamento restrittivo, ovvero quello
intermedio, comporterebbero senz’altro la reiezione per intero sia
dell’appello 1510/2019, sia dell’appello 1708/2019 e la conferma della
sentenza di I grado. Ne deriverebbe infatti la necessità di affermare che il
Comune, nell’adottare il provvedimento di cui all’art. 38 in esame in un
caso in cui si ravvisano vizi sostanziali che non vengono superati, è andato
al di là dei poteri conferitigli dalla norma.
26. La Sezione ritiene di evidenziare che tutti e tre gli orientamenti
sinteticamente illustrati muovono da premesse teoriche comuni, e se ne
discostano nelle conseguenze che ritengono di trarne.
26.1 Le premesse teoriche comuni sono quelle riassunte, per tutte, da
codesta Adunanza Plenaria nella sentenza 23.04.2009 n. 4, nonché nella
citata sentenza 4355/2014. In primo luogo, la posizione dell’originario controinteressato, che ha realizzato l'opera sulla base del titolo annullato
in sede giurisdizionale, non si differenzia da quella di chi avesse
realizzato l'opera abusivamente senza titolo alcuno, nel senso che non va
ritenuta assistita da un particolare affidamento da tutelare e questo perché
una situazione di affidamento si potrebbe se mai configurare solo nei
confronti di un eventuale annullamento in sede amministrativa, non rispetto
ad un annullamento in sede giurisdizionale.
In quest'ultimo caso, infatti,
da un lato, chi ottiene il titolo edilizio si assume il rischio e il
pericolo di un eventuale annullamento di esso all’esito del ricorso che un
terzo potrebbe proporre; dall’altro lato, si è di fronte ad un organo
giudicante, che deve limitarsi a decidere sulla domanda propostagli e non
può valorizzare, diversamente dall’amministrazione, eventuali affidamenti
dei soggetti coinvolti. In secondo luogo, l’annullamento giurisdizionale del
titolo edilizio determina un giudicato, che in linea di principio tutti i
soggetti dell’ordinamento, anche il legislatore ordinario, debbono
rispettare.
26.2 Ciò posto, secondo l’indirizzo teorico comune in esame, l’art. 38 in
esame rappresenta, dal punto di vista del legislatore, la creazione di un
“potere nuovo” rispetto a quello che consente di emettere il titolo
edilizio, che contempera l’esigenza di rispettare il giudicato con quella di
realizzare “un assetto della fattispecie diversificato” rispetto a quello
scaturente dal giudicato stesso, “ma non in contrasto con quest'ultimo”:
così la sentenza 4355/2014, da cui le citazioni.
26.3 A fronte di ciò, l’orientamento di maggior favore privilegia al massimo
le ragioni del privato titolare del permesso annullato, recuperando in tal
modo la tutela della buona fede che di regola può vantare chi eserciti una
qualsiasi attività sulla base di un titolo rilasciato dall’amministrazione
competente. Le ragioni di questo soggetto quindi, nei risultati, andrebbero
a prevalere nella maggioranza dei casi, portando come esito normale la
sanatoria dell’abuso mediante la sua fiscalizzazione.
In tal senso,
deporrebbe anche un argomento letterale, individuato per tutte dalla
sentenza 5089/2019: i richiami ai "vizi delle procedure amministrative" e
alla impossibilità della "rimessione in pristino" contenuti nel comma 1
dell’art. 38 sarebbero due ipotesi di sanatoria messe su un piano di parità,
la prima relativa a vizi formali, la seconda, ovvero quella in cui non sia
possibile la "rimessione in pristino", relativa ad una problematica tecnico ingegneristica, che quindi prescinderebbe dal tipo di vizio riscontrato.
26.4 Viceversa, l’orientamento restrittivo e quello intermedio privilegiano
le ragioni del terzo il quale ha impugnato nell’originario giudizio il
titolo illegittimo, nonché il rispetto del giudicato. In primo luogo, si
sostiene che consentire la sanatoria senza limiti andrebbe a ledere
l'affidamento di costui nella stabilità della disciplina giuridica delle
fattispecie, e si renderebbe in sostanza inutile e privo di effettività il
suo diritto di cittadino di adire il giudice per ottenere la tutela delle
proprie situazioni giuridiche soggettive.
Si osserva poi che
l’interpretazione ampia potrebbe essere anche in contrasto con l’art. 102 Cost., perché andrebbe in sostanza a travolgere gli effetti del giudicato di
annullamento attribuendo all’amministrazione il potere di invadere il campo
riservato all’Autorità giudiziaria. In tal senso sono le citate C. cost.
209/2010 e C.d.S. sez. 2355/2104, con riguardo specifico al caso concreto di
una norma di legge provinciale che aveva introdotto espressamente la
possibilità di fiscalizzazione del vizio sostanziale non sanabile, ma con
argomentazioni di principio che assumono valore generale. Secondo logica,
quindi, va adottata un’interpretazione che consente di sanare l’abuso solo
quando esso è tale formalmente, ma non nella sostanza, perché si tratta
appunto di soli vizi formali, o perché i vizi sostanziali sono stati
eliminati.
26.5 In tale ultimo senso è anche orientato il Collegio, sia per le ragioni
esposte sopra, sia perché, in sintesi estrema, la repressione degli abusi
edilizi –considerando come tali le costruzioni che siano effettivamente in
contrasto con l’assetto del territorio disegnato dagli strumenti urbanistici– è un valore che l’ordinamento persegue con particolare rigore: in tal
senso, se pure su fattispecie diverse, si è espressa anche codesta Adunanza
Plenaria nelle note sentenze 17.10.2017 nn. 8 e 9.
In tali termini,
appare preferibile l’orientamento che si è denominato intermedio, che amplia
la sanabilità dell’abuso, e protegge quindi l’affidamento di chi ha ottenuto
il rilascio del titolo poi annullato, sino al limite massimo consentito
dalla contrapposta tutela del terzo.
27. Alla luce di siffatto contrasto giurisprudenziale la questione,
rilevante per quel che si è detto ai fini della decisione dell’appello, in
esame, va deferita all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a., che
deciderà ai sensi del comma 4 dello stesso art. 99.
28. Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non
definitivamente pronunciando sugli appelli come in epigrafe proposti
(ricorsi nn. 1510/2019 e 1708/2019), li rimette all’esame dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.. |
gennaio 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del DPR
n. 380/2001 pari ad € 20.000,00 [introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164] può essere
applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione
spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua
entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività
delle norme sanzionatorie.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento
giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta
dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n.
133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164,
attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di
demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza,
siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile
tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo,
concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione,
sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla
commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la
corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di
demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo
il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare
spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane
nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un
comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra
richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la
spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme
che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito
consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo
l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma
istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla
legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione
spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea
da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista
l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n.
380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a
demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche
motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art.
31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che
viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è
quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31
sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si
definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea
all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta
con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere
applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione
spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua
entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività
delle norme sanzionatorie.
---------------
... per l’annullamento
dell’ordinanza n. 22 del 06/08/2018 emessa dal responsabile dell’Area
Assetto ed Utilizzazione del Territorio del Comune di Santa Flavia (PA) e
notificata in data 27/08/2018 con la quale viene ingiunto ai ricorrenti il
pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma
4-bis, del DPR n. 380/2001, pari ad € 20.000,00, entro il termine massimo di
giorni 30 dalla notifica stessa, per la inottemperanza all’ordinanza di
demolizione n. 8/2012;
...
FATTO
Con ricorso notificato in data 28.10.2018, e depositato il successivo
11 novembre, i ricorrenti hanno impugnato il provvedimento impugnato
articolando le censure di:
A) Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità
dell'ordinanza per violazione di legge, e, in particolare, dell'art. 1,
comma secondo, della l. n. 689 del 1981, e del comma 4-bis dell'art. 31
d.p.r. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164;
B) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione
dell’art. 7 e dell’art. 21-bis della legge 07.08.1990 n. 241 - omessa
comunicazione di avvio del procedimento;
C) Illegittimità e/o nullità
dell'ordinanza per violazione dell’art. 31, comma 4, del D.P.R. 06.06.2001, n.
380, mancata notifica atto presupposto;
D) Illegittimità e/o nullità
dell'ordinanza per violazione di legge, e in particolare, del comma 4-bis
dell'art. 31 D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del
decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla
legge 11.11.2014 n. 164 e del comma 2 dell'articolo 27 D.P.R. n. 380/2001;
E) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione del principio di
proporzionalità delle sanzioni amministrative - Illegittimità costituzionale
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii., in
combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso testo unico;
F)
Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità dell'ordinanza per violazione di
legge, e, in particolare, dell'art. 1, comma secondo, della l. n. 689 del
1981, e del comma 4-bis dell'art. 31 D.P.R.. n. 380/2001, introdotto dall'art.
17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con
modificazioni in legge 11.11.2014 n. 164, sotto altro profilo,
applicabilità dei principi e delle regole procedimentali della legge
n. 689/1981 - Eccesso di potere.
Sostengono i ricorrenti che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo
in quanto:
- applica retroattivamente una sanzione pecuniaria introdotta nel
nostro ordinamento dopo che l’illecito a cui consegue -mancata demolizione
dell’abuso edilizio realizzato nei termini di legge- è stato compiuto ed
accertato;
- sarebbe mancata la doverosa comunicazione di avvio del
procedimento;
- non risulta adottato il verbale di accertamento di
inottemperanza all’ordine di demolizione adottato dall’amministrazione;
- sarebbe privo di adeguata motivazione; la sanzione pecuniaria irrogata –nella misura massima prevista per legge– sarebbe del tutto sproporzionata
rispetto all’entità dell’illecito edilizio commesso; l’amministrazione
avrebbe errato nel non prevedere la possibilità di pagare la sanzione
irrogata in misura ridotta, a norma dell’art. 16 della legge n. 689/1981.
Non si è costituito il Comune intimato e alla pubblica udienza fissata per
la sua discussione, il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato in ragione della fondatezza del primo motivo.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento
giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta
dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n.
133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164,
attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di
demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza,
siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile
tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo,
concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione,
sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla
commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la
corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di
demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo
il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare
spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane
nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un
comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra
richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la
spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme
che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito
consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo
l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma
istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla
legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione
spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea
da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista
l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n.
380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a
demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche
motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art.
31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che
viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è
quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31
sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si
definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea
all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta
con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere
applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione
spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua
entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività
delle norme sanzionatorie.
Il provvedimento impugnato è pertanto illegittimo in quanto ha applicato
retroattivamente la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380/2001
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 22.01.2020 n. 189 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica
cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva,
ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la
successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e
utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro
soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino
dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui
le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure
ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera
alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>>.
---------------
1. I due ricorsi sono fondati con riferimento alla mancata prova
della responsabilità del ricorrente nella realizzazione degli abusi (primo e
terzo motivo del ricorso introduttivo e primo e terzo motivo del ricorso per
motivi aggiunti).
L’art. 31, c. 2, del DPR 380/2001 stabilisce che “Il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3”.
Secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015
n. 4880) <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica
cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva,
ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la
successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e
utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro
soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino
dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui
le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure
ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera
alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 120 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e dell’art. 32,
comma 27, lett. d), del dl n. 269 del 2003, convertito con modificazioni
dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento
giurisprudenziale, comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a
vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può
essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti
condizioni:
a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della
esecuzione delle opere;
b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo
edilizio;
c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia
esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi
formali).
---------------
Sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo
paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del dl n.
269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore
rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto
(restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo
parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non
sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai
precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è
sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti.
---------------
Ritenuto in diritto che:
- la sentenza di primo grado deve essere confermata;
- il combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e
dell’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 269 del 2003,
convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un
consolidato orientamento giurisprudenziale (ex plurimis, Consiglio di
Stato, Sez. VI, 28.10.2019, n. 7341; Sez. VI , 17.09.2019, n. 6182; Sez. IV,
29.03.2017, n. 1434; sez. IV, 21.02.2017, n. 813; Sez. VI, 02.08.2016 n.
3487; Sez. IV, sentenza 17.09.2013, n. 4587), comporta che un abuso commesso
su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura
relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono,
contemporaneamente le seguenti condizioni:
a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle
opere;
b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo
edilizio;
c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso
assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali);
- sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree
sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto
dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente
agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6
dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e
manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità
preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili
di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del
medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità
relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti (in tal senso anche la giurisprudenza penale:
cfr., ex plurimis, Cassazione penale sez. III, 20.05.2016, n. 40676;
peraltro, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 150 del 2009, ha
dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 26, lettera a), del decreto-legge n. 269
del 2003 nella parte in cui prevede la condonabilità limitata ai soli abusi
minori nelle zone sottoposte a vincolo di cui all'art. 32 della legge n. 47
del 1985);
- su queste basi, sono evidenti le ragioni ostative alla
concessione della sanatoria, dal momento che, come risulta dagli atti di
causa:
i) l’abuso realizzato dall’appellante è un
manufatto residenziale di due piani, qualificabile come “nuova
costruzione”;
ii) il terreno su cui insiste il manufatto è sottoposto
a vincolo paesistico in virtù di un provvedimento specifico emanato
dall’Autorità competente (il più volte citato decreto ministeriale del
02.04.1954) e non già ex lege; ne consegue che le norme citate
dall’appellante (art. 142, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 42 del 2004, e
art. 4, della legge della Regione Lazio n. 24 del 1998) sono inconferenti
riferendosi le stesse alle sole aree tutelate per legge (peraltro, secondo
quanto dedotto dal Comune, senza specifica contestazione di controparte,
l’area di proprietà non è delimitata nel PRG del Comune di Frascati come “zona
territoriale omogenea B ai sensi del D.M. 02.04.1968, n. 1444” ma
sarebbe, invece, classificato, ai sensi del D.M. 1444/1968, come zona
territoriale di tipo C, come da delibera C.C. n. 161/1978);
iii) l’opera realizzata non è conforme agli
strumenti urbanistici del Comune di Frascati in quanto in contrasto con
l’art. 35 NTA del PRG
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.01.2020 n. 425 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobile
urbanisticamente irregolare e responsabilità del mediatore.
Il mediatore pur non essendo tenuto, in difetto di un
incarico specifico, a svolgere nell'adempimento della sua prestazione
particolari indagini di natura tecnico-giuridica (come l'accertamento della
libertà da pesi dell'immobile oggetto di trasferimento, mediante le
cosiddette visure catastali e ipotecarie) allo scopo d'individuare fatti
rilevanti ai fini della conclusione dell'affare, è pur tuttavia gravato
- in positivo, dall'obbligo di comunicare le
circostanze a lui note o comunque conoscibili con la comune diligenza che è
richiesta in relazione al tipo di prestazione, nonché
- in negativo, dal divieto di fornire non solo
informazioni non veritiere, ma anche informazioni su fatti dei quali non
abbia consapevolezza e che non abbia controllato, poiché il dovere di
correttezza e quello di diligenza gli imporrebbero in tal caso di astenersi
dal darle.
Cosicché, qualora il mediatore infranga tali regole di condotta, è
legittimamente configurabile una sua responsabilità per i danni sofferti,
per l'effetto, dal cliente.
La mancata informazione del promissario acquirente sull'esistenza di una
irregolarità urbanistica non ancora sanata relativa all'immobile oggetto
della promessa di vendita, della quale il mediatore stesso doveva e poteva
essere edotto, in quanto agevolmente desumibile dal riscontro tra la
descrizione dell'immobile contenuta nell'atto di provenienza e lo stato
effettivo dei luoghi, legittima il rifiuto del medesimo promissario di
corrispondere la provvigione.
---------------
8. A nulla vale -si premette- dedurre che Gi.Me. aveva con il secondo
motivo di gravame addotto che ella principale ricorrente "era a
conoscenza delle irregolarità edilizie e nonostante ciò non aveva informato
la promissaria" (così ricorso principale, pag. 16), sicché la corte di
seconde cure avrebbe dovuto circoscrivere a tale prospettazione la sua
valutazione e non estenderla "alla sussistenza, o meno, (...) di un
obbligo di indagine da parte del mediatore" (così ricorso principale,
pag. 16).
Si tratta evidentemente -e contrariamente all'assunto della principale
ricorrente- di un profilo che il motivo d'appello in ogni caso involgeva.
8.1. Difatti questa Corte insegna -e tale insegnamento appropriatamente la
corte distrettuale ha richiamato nella motivazione dell'impugnato dictum
(cfr. pag. 7)- che il mediatore, pur non essendo tenuto, in difetto di un
incarico specifico, a svolgere nell'adempimento della sua prestazione
particolari indagini di natura tecnico-giuridica (come l'accertamento della
libertà da pesi dell'immobile oggetto del trasferimento, mediante le
cosiddette visure catastali ed ipotecarie) allo scopo di individuare fatti
rilevanti ai fini della conclusione dell'affare, è pur tuttavia gravato,
in positivo, dall'obbligo di comunicare le circostanze a lui note o
comunque conoscibili con la comune diligenza che è richiesta in relazione al
tipo di prestazione, nonché, in negativo, dal divieto di fornire non
solo informazioni non veritiere, ma anche informazioni su fatti dei quali
non abbia consapevolezza e che non abbia controllato, poiché il dovere di
correttezza e quello di diligenza gli imporrebbero in tal caso di astenersi
dal darle; cosicché, qualora il mediatore infranga tali regole di condotta,
è legittimamente configurabile una sua responsabilità per i danni sofferti,
per l'effetto, dal cliente (cfr. Cass. 16.07.2010, n. 16623 (Rv. 614511 -
01)).
In particolare -con lo stesso insegnamento [cfr. Cass. 16.07.2010, n. 16623
(Rv. 614512 - 01)]- questa Corte soggiunge che la mancata informazione del
promissario acquirente sull'esistenza di una irregolarità urbanistica non
ancora sanata relativa all'immobile oggetto della promessa di vendita, della
quale il mediatore stesso doveva e poteva essere edotto, in quanto
agevolmente desumibile dal riscontro tra la descrizione dell'immobile
contenuta nell'atto di provenienza e lo stato effettivo dei luoghi,
legittima il rifiuto del medesimo promissario di corrispondere la
provvigione (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
ordinanza 16.01.2020 n. 784). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela delle aree sottoposte
a vincoli paesaggisti-ambientali – Interventi non
esternamente visibili – Rilevanza delle opere interrate –
Principio di offensività – Fattispecie – Artt. 3, 10, 22,
37, 44, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 131, 181 d.lgs. n.
42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte
a vincolo, ai fini della configurabilità del reato
paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una
possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al
suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del
rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra
elementi ambientali ed antropici che caratterizza il
paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla
disciplina di settore, con la conseguenza che anche
interventi non esternamente visibili, quali quelli
interrati, possono determinare una alterazione
dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di
valutazione in sede penale.
Fattispecie, intervento edilizio consistente nell’esecuzione
di opere, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla
disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza
di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica,
nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio
tecnico regionale.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Aree sottoposte a vincolo
paesaggistico – Interventi “precari”, opere
facilmente rimovibili e immobili interrati – Pericolo per il
bene protetto – Causazione di un danno – Necessità –
Esclusione – Possibile pregiudizio al bene tutelato e
incidenza della condotta.
In tema di abusi paesaggistici, quando
il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata
motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo
l’interesse protetto, il principio di offensività opera in
relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad
arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura
di reato di pericolo della violazione non richiede la
causazione di un danno e la incidenza della condotta
medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure
qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la
compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la
sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi
“precari” o ad opere facilmente rimovibili e, agli immobili
interrati.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi in zone vincolate
– Incidenza del principio di offensività – Natura di reato
di pericolo presunto od astratto – Mancanza di danno
ambientale – Ininfluenza – Valutazione della offensività
della condotta.
L’incidenza del c.d. principio di
offensività, secondo la quale anche per i reati ascritti
alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od
astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale
l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della
singola condotta, dal momento che, ove questa sia
assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene
giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della
fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di
reato impossibile, ex art. 49 cod. pen..
Precisando, che il principio di offensività deve essere
considerato non tanto sulla base di un concreto
apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per
l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene
protetto. Pertanto, ai fini della valutazione della
offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume
di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente
realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, nella specie, che il reato si perfeziona con il
porre in essere interventi in zone vincolate senza il
controllo e la autorizzazione amministrativa
indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si
è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della
fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle
autorità competenti alla tutela del vincolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio
del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi,
aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della
Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione
costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato
unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della
notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di
demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del
26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza
all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo
unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata
dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la
notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto
necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”).
---------------
2. - Il ricorso è infondato.
2.1. Sono destituite di fondamento le censure con cui si intende far valere
che occorreva la comunicazione di avvio del procedimento e dovevano essere
notificati i verbali di accertamento dell’inottemperanza.
Sotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio
del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi,
aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della
Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione
costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato
unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990
(da ultimo, TAR Lazio, sez. II-quater, 08.10.2018, n. 9799)”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della
notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di
demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del
26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza
all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo
unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata
dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la
notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto
necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”; conf., 13/06/2019
n. 3232 e 16/10/2019 n. 4927)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non
costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata
quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione
dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e
l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità
Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p.,
al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione
amministrativa.
È solo a seguito dell’eventuale reiezione
dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile
configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova
del comportamento attivo dell’interessato che può escludere
l’inottemperanza.
---------------
2.3. Relativamente all’addotta sottoposizione a sequestro penale (che, nella
prospettazione del ricorrente, avrebbe impedito la demolizione ed
escluderebbe di poter procedere all'acquisizione), va osservato che tale
circostanza non può essere invocata per sottrarsi alle conseguenze
scaturenti dalla realizzazione dell’abuso, in mancanza di un comportamento
attivo dell’interessato.
Nella specie, il ricorrente lamenta che il Giudice penale non avrebbe
acconsentito al dissequestro per effettuare il rispristino, senza fornire
alcuna dimostrazione di ciò (cfr. la sentenza della Sezione del 27/06/2019 n.
3526: “La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non
costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata
quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione
dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e
l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità
Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p.,
al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione
amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 28/01/2016, n. 335; Cass. pen., sez.
III, 26/09/2013, n. 42637). È solo a seguito dell’eventuale reiezione
dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile
configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova
del comportamento attivo dell’interessato che può escludere
l’inottemperanza”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione del bene abusivamente realizzato configura
l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di
gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione
da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della
Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001,
una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in
difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile
del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al
responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza
deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in
ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto
vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza
non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta
ordinanza di demolizione”).
---------------
2.4. Infine, è priva di fondamento la censura contenuta nell’ultimo motivo,
secondo cui l’emanazione del provvedimento di acquisizione spetterebbe al
Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42 del T.U.E.L. (poiché ricompresa
nella competenza del Consiglio relativa agli acquisti e alle alienazioni
immobiliari).
Contrariamente a tale assunto, l’acquisizione del bene abusivamente
realizzato configura l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di
gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione
da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della
Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001,
una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in
difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile
del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al
responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza
deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in
ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto
vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza
non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta
ordinanza di demolizione”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
consolidata giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente
l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la
trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è
legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino
a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso”.
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è
illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al
responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al
proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera".
---------------
E' noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione
dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale
prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa
trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole
dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, “il proprietario incolpevole
di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della
demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine
di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a
rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a
costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere
l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità
del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in
diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la
cessazione dell’abuso”), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita
e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali”.
---------------
Posto che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione
dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine
di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non
comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato
che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al
patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza
all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato
atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza.
---------------
Condivisibile giurisprudenza ha da tempo osservato che “l’adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto
titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo
nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi
dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto,
una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso
di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità
delle stesse”.
Tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della sanabilità di
un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale, essendo per
legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del privato
interessato.
---------------
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione
degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito
da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio
pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione
realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di
inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime
che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione.
Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla
violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili
in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui
sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento
amministrativo".
---------------
Qualora il Comune disponga ai
sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'opera abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino
l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui
insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui
tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo
rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia
l'opera abusiva.
---------------
Invero, quanto al ricorso principale, il Tribunale evidenzia
come sia in primo luogo infondato il primo motivo, in cui la ricorrente
Cr., proprietaria del suolo ed asseritamente non responsabile
dell’abuso, lamenta che l’ordinanza di demolizione sia stata emessa anche
nei suoi confronti, pur essendo la medesima totalmente estranea alla
costruzione delle opere abusive, e però, destinata a subire le conseguenze
dell’altrui condotta, anche in termini di eventuale successiva acquisizione
gratuita del suolo al patrimonio comunale per il caso di inottemperanza alla
demolizione.
Al riguardo, il Tribunale evidenzia in primo luogo come, secondo consolidata
giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente
l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la
trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è
legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino
a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso” (cfr. C.d.S. Sez.VI
n. 6148 del 15.12.2014).
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è
illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al
responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al
proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera" (cfr.
TAR Lazio, Roma n. 5968 del 03.07.2007).
Tuttavia, nel caso di specie, si osserva che l’ordinanza di demolizione
impugnata risulta notificata non solo alla ricorrente in qualità di
proprietaria dell’opera abusiva, ma altresì all’altro ricorrente Ru.Gi. nella qualità di responsabile dell’abuso.
Sotto tale profilo, pertanto, le doglianze spiegate nel primo motivo di
ricorso risultano infondate, considerato non solo che l’ordinanza di
demolizione risulta notificata anche al responsabile dell’abuso, ma che la
ricorrente Cr. è sicuramente proprietaria, oltre che dell’area di sedime, anche dello stesso fabbricato realizzato in assenza di titolo
edilizio.
Ed invero, è noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione
dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale
prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa
trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole
dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, secondo il Consiglio di Stato “il proprietario incolpevole
di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della
demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine
di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a
rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a
costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere
l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità
del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in
diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la
cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita
e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali” (cfr. Cons. Stato
sent. n. 2211 del 04.05.2015, Cons. Stato sent. n. 3897 del 07.08.2015).
Tuttavia appare evidente come tale giurisprudenza mal si attagli alla
fattispecie oggetto del presente giudizio, non solo perché in tal caso
risulta impugnata la sola ordinanza di demolizione delle opere abusivamente
realizzate che, per le ragioni anzidette, risulta legittimamente notificata
anche all’odierna ricorrente, ma anche perché, in ogni caso, il
comportamento concretamente assunto dalla ricorrente, -che appare piuttosto
preordinato ad evitare l’abbattimento dell’immobile abusivo che a
ripristinare la legalità violata- non è tale da integrare le condizioni
richieste dalla condivisibile giurisprudenza amministrativa per evitare gli
effetti riconnessi all’eventuale inottemperanza all’ordinanza di
demolizione, ed in particolare l’acquisizione del bene al patrimonio
comunale.
Peraltro, non è nemmeno ravvisabile la dedotta violazione dell'art. 31, II
comma, D.P.R. n. 380/2001, a cagione dell’erronea indicazione, nel
provvedimento in oggetto, dell'area che verrebbe acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza all'ordine impartito; ed invero, posto
che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione
dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine
di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non
comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato
che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al
patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza
all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato
atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Napoli
Campania, Sez. VI, 05.06.2012 n. 2635).
Parimenti infondato si palesa il secondo motivo di gravame del ricorso
principale in cui i ricorrenti si dolgono che il Comune non abbia
previamente valutato l’eventuale sanabilità dell’intervento edilizio
realizzato; al riguardo, il Tribunale si limita ad evidenziare come
condivisibile giurisprudenza abbia da tempo osservato che “l’adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto
titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto
dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo
nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di
adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi
dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto,
una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso
di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità
delle stesse” (cfr. ad es. TAR Campania, II Sezione, n. 3645 del
12.07.2013); tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della
sanabilità di un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale,
essendo per legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del
privato interessato (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VI, 03.08.2015 n.
4190; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 24.09.2002 n. 5556)” (cfr. TAR
Campania, Napoli, VI Sez., n. 942 del 16.02.2018).
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione
degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito
da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio
pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione
realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti
repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di
inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime
che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione.
Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla
violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili
in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui
sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento
amministrativo" (TAR Campania, sez. V, 15.01.2015, n. 225).
Per tutte le suesposte ragioni il ricorso principale è infondato.
...
Al contrario, risultano fondati e meritevoli di accoglimento i motivi
aggiunti notificati in data 03.05.2013, nella sola parte in cui i ricorrenti
lamentano che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, disposta con
l’impugnata determinazione del Dirigente dell'Area tecnica – Settore
Urbanistica n. 10/13 del 21.02.2013 notificata il 26.02.2013, riguardi non solo
l’edificio di 100 mq. realizzato in assenza di titolo edilizio ed oggetto
dell’ingiunta demolizione, ma altresì l'intera area di sedime e l'area
circostante, corrispondente a mq. 415 della particella n. 193 del foglio 34,
pur risultando la stessa occupata da immobili regolarmente assentiti, in
assenza di qualsivoglia motivazione in ordine alle ragione sottese alla
disposta acquisizione dell’intera area di sedime (e non solo di quella
occupata dal manufatto abusivo di cui è stato –legittimamente per le
ragioni anzidette– disposto l’abbattimento).
Al riguardo, occorre evidenziare come, secondo la condivisibile
giurisprudenza, qualora il Comune disponga ai sensi dell'art. 31 del D.P.R.
n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera
abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino
l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui
insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui
tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo
rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia
l'opera abusiva (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 4259/2011 e sez.
VI, n. 4336/2005, TAR Sicilia-Catania, Sez. I, n. 2268/2016)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 49 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione
insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il
meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso
di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che
l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di
terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente
pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire:
tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio
della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa
rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri.
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando
l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia,
appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non
interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per
violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
---------------
8. Rimangono da esaminare le ulteriori censure, formulate nei motivi
aggiunti, con cui il ricorrente mira ad infirmare l’ordinanza acquisitiva
nella parte in cui ha disposto l’acquisizione gratuita di quota parte
dell’area del cortile di pertinenza del fabbricato.
Con una prima doglianza, dedotta in via principale, parte ricorrente
denuncia che tale porzione di area è stata indebitamente acquisita pur
appartenendo in comunione ai comproprietari del fabbricato, con conseguente
violazione del principio di tutela della proprietà privata di cui all’art.
42 della Costituzione e dello stesso art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che
impediscono che la misura repressiva in questione possa incidere su beni
appartenenti ad altri soggetti totalmente estranei all’abuso.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione
insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il
meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso
di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che
l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di
terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente
pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire:
tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio
della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa
rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri (cfr.
Cass. Civ. Sez. III, 04.06.2013 n. 14022; TAR Lazio Roma, Sez. II, 08.10.2018 n. 9799).
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando
l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia,
appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non
interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per
violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo
la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un
ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico
richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico,
nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un
permesso di costruire.
---------------
Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti
tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime,
hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza
che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente
preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato
il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi
dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del
soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto
della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve
essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non
richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse
pubblico, che è in re ipsa ... non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre, il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione.
---------------
Per costante giurisprudenza, i provvedimenti di repressione degli abusi
edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di
margini discrezionali.
Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la
mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono
l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della
corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza, l'esercizio del potere
repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio
mediante l'applicazione della misura ripristinatoria può ritenersi
sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso,
accertato con atti facenti fede fino a querela di falso e dalla quale
risulta la descrizione dell’abuso, esplicitante in dettaglio la natura e
consistenza delle opere abusive riscontrate, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
---------------
Il secondo profilo di censura è inammissibile e, comunque, infondato.
Sotto tale profilo si osserva che parte ricorrente articola la censura
sull’implicito presupposto che il permesso di costruire la cui mancanza (o,
secondo l’erronea prospettazione dei ricorrenti la difformità dallo stesso)
viene contestata dal Comune, che, in base a tale presupposto ritiene di
dover irrogare la sanzione demolitoria prevista dall’art. 31 del d.P.R.
380/2001 è non soltanto quello consueto ed ordinario che viene richiesto
prima della realizzazione dell’intervento, ma anche quello che, dopo la
realizzazione di quest’ultimo, viene richiesto a sanatoria avvalendosi, in
ogni caso a certe condizioni ed entro limiti ben precisi, del primo (L.
47/1985) e del secondo (L. 724/1994) condono, al fine di recuperare alla
legalità l’opera abusiva.
Tuttavia, nel caso di specie, non consta che sia stata presentata da parte
ricorrente alcuna istanza del tipo su indicato, per modo che ogni
affermazione, al riguardo, non potrà che risultare generica, ipotetica ed
aleatoria.
D’altronde, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, il Comune,
nell’ordinanza impugnata non oppone l’insuscettibilità di sanatoria delle
opere edilizia ad uso residenziale realizzate nella c.d. zona rossa,
limitandosi unicamente ad individuare e descrivere i vincoli afferenti a
siffatta zona e, secondo la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di
abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione,
bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un
adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e
di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa
l'insussistenza di un permesso di costruire (cfr. TAR Campania, Napoli, sez.
III, 22/10/2015, n. 4968).
...
Con la terza censura si deduce la violazione degli artt. 7 e ss. L.
241/1990, attesa la violazione dei principi del giusto procedimento di
legge, per non essere stati gli atti impugnati preceduti dalla doverosa
comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dello stesso onde
garantire la loro partecipazione allo stesso, in ragione non solo delle
esigenze difensive proprie del giusto procedimento, ma anche per garantire,
in funzione collaborativa, la massima trasparenza ed efficienza nell’azione
dei pubblici poteri.
Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento
culminato con l’impugnata ordinanza del comune di Somma Vesuviana,
l’orientamento giurisprudenziale in argomento è pressoché costante e
consolidato, rilevandosi che: <<Gli atti di repressione degli abusi
edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito
di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del
carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente
vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non
sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non
devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del
procedimento>> (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233;
TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli
atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia
nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di
avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e
non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante
la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania,
Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383)
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737); in
ogni caso, alla stregua di quanto si è andato esponendo, il contenuto
dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato, con la conseguente irrilevanza dei vizi di
procedura rilevato da parte ricorrente, ai sensi dell’art. 21-octies della
L. n. 241 del 1990.
Con la quarta censura si deduce la violazione dell’art. 3, L.
241/1990, nonché l’illogicità manifesta, dovendo i procedimenti
amministrativi, ai sensi del rubricato art 3 essere idonei a perseguire la
miglior realizzazione dell'interesse pubblico nel rispetto dei diritti e
degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell'attività
amministrativa e l'obbligo di motivazione può ritenersi adeguatamente
assolto quando la stessa emerga agevolmente dalla valutazione complessiva
dell'atto.
La censura non è fondata.
Riguardo al lamentato deficit motivazionale da cui l’ordinanza impugnata
sarebbe affetta, per costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, dalla
quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, i provvedimenti di
repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere
essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali. Pertanto, ai fini
dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione
dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della
fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura
sanzionatoria prevista dalla legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III,
22/08/2016, n. 4088).
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza e contrariamente a quanto
dedotto dal ricorrente, l'esercizio del potere repressivo delle opere
edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione
della misura ripristinatoria può ritenersi sufficientemente motivato per
effetto della stessa descrizione dell'abuso (Cfr. TAR Napoli, (Campania),
sez. VI, 03/08/2016, n. 4017), accertato con atti facenti fede fino a
querela di falso e dalla quale risulta la descrizione dell’abuso,
esplicitante in dettaglio la natura e consistenza delle opere abusive
riscontrate, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare
la spedizione della misura sanzionatoria (Cfr. TAR Napoli, (Campania), sez.
VI, 03/08/2016, n. 4017 e C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Infine, del tutto inconferente si presenta il riferimento alla natura di “provvedimento
contingibile”, ravvisato nell’impugnata ordinanza, attesa che questa è
stata emanata nell’esercizio degli ordinari poteri di vigilanza e controllo,
spettanti, anche in funzione della repressione degli eventuali abusi
commessi sul proprio territorio, spettanti all’Ente comunale, quale
ordinaria Autorità urbanistica
In definitiva, il ricorso è infondato e va, quindi, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
rileva con la giurisprudenza dominante che la realizzazione di una piscina
non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in
quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è
solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova
costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum,
costituito dal permesso di costruire.
Inoltre, per la piscina installata
parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un
metro, la giurisprudenza ha statuito quanto segue: <<La
piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura
accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia
libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi
aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti
del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>>.
---------------
E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una
funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza
urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina,
quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest
del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente
un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1,
accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa
insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area
pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è
nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non
potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono
coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma
rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica
di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie
rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di
vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla
stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione
economica>>.
---------------
Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può
operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante,
partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività),
mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed
inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli, (Campania) sez. III,
20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno
considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato
trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di
interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde
apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro
iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini
dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono
assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della
categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere
apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
---------------
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata
(“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa
mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto
in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa
scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul
versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il
richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento
edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza
dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una
scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione
urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione
dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di
nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di
costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>>.
A ciò aggiungasi che l’ulteriore
area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla
fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo,
recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è
necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la
sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>>.
---------------
Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi
contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via
prioritaria dei vincoli paesaggistici che interessano la zona di afferenza
dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs.
22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono,
in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo
paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza
del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate,
affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso:
<<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per
realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di
costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona
vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo
paesaggistico, che urbanistico>>.
---------------
Con la seconda censura, in relazione alle opere esterne realizzata
nell'area di pertinenza dell'immobile residenziale, relativamente alla
piscina, si deduce la violazione degli artt. 3 e 31 del d.P.R. 380/2001,
oltre all’eccesso di potere (per istruttoria erronea ed insufficiente,
difetto dei presupposti, errore di fatto, motivazione illogica ed
insufficiente, illogicità manifesta), al riguardo in particolare:
A - in relazione alla piscina, essa sarebbe di modestissima dimensioni, di
tipo prefabbricato ed è stata installata parzialmente fuori terra,
fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro.
Sostengono, in argomento, i ricorrenti, richiamando la giurisprudenza del
Consiglio di Stato, che, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, lett. a) «opere
costituenti pertinenze od impianti tecnici al servizio di edifici già
esistenti», è rilevante che sussista un rapporto pertinenziale tra un
edificio preesistente e l'opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo
nel senso che la consistenza dell'opera deve essere tale da non alterare in
modo significativo l'assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di
un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un
effettivo uso normale del soggetto che risiede nell'edificio principale.
Nel caso in esame, la piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa
ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha certamente
natura obiettiva di pertinenza, e costituisce un manufatto adeguato all'uso
effettivo e quotidiano del proprietario dell'immobile principale.
Inoltre l’installazione di una piscina prefabbricata di modeste dimensioni
non integra violazione degli indici di copertura che riguardano interventi
edilizi, né degli standard, atteso che non aumentano il carico urbanistico
della zona, rilevando solo in termini ili sistemazione esterna del terreno,
e che i vani per impianti tecnologici sono comunque consentiti.
Infine, secondo la giurisprudenza, la installazione di una piscina, avente
le caratteristiche di quella descritta, non sarebbe soggetta al previo
rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza non sarebbe, dunque,
sanzionabile con la demolizione, ai sensi dell’art. 31, D.P.R. 380/2001,
difettando i presupposti di fatto e di diritto per la sua applicazione.
B - In relazione alle altre opere realizzate nell'area esterna pertinenziale,
ovvero la pavimentazione di alcune parti del giardino (in particolare al
contorno della piscina e in un'altra area destinata al tempo libero,
l'allungamento del viale di accesso, lo spiazzo ad uso parcheggio), trattasi
di interventi insuscettibili di aumentare il carico urbanistico o di
determinare una rilevante trasformazione fisica e funzionale del territorio,
stante la intrinseca pertinenzialità funzionale di tali superfici esterne
rispetto all'edificio principale.
Infatti, rappresentano i ricorrenti che la pavimentazione esterna fu
effettuata al solo fine della messa in sicurezza delle aree scoperte, per
destinarla in parte alla permanenza delle persone per godere del tempo
libero, ed in altra parte, a parcheggio privato di autovetture, per modo che
l'area non ha perduto i suoi connotati di spazio pertinenziale al servizio
esclusivo del fabbricato principale ad uso residenziale.
Inoltre, anche per tale intervento, va dedotta la violazione della normativa
urbanistica di riferimento e segnatamente dell'articolo 6 D.P.R. 380/2001,
come modificato dal D.L. 25.03.2010 n. 40, conv. in Legge n. 73/2010, atteso
che, alla stregua di siffatta normativa, costituiscono attività edilizia
libera la pavimentazione delle aree esterne di pertinenza degli edifici
(peraltro già prevista in progetto), le aree ludiche senza fine di lucro e
gli elementi di arredo de le aree di sosta apposti nelle aree pertinenziali
degli edifici, per modo che, anche in tal caso non può che rilevarsi
l'illegittimità dell'ordinanza comunale per difetto dei presupposti previsti
dal più volte citato articolo 31 T.U. Edilizia.
La censura, sotto entrambi i profili sub A e B) considerati è infondata.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza (“piscina
anch'essa abusiva, di forma ovale dalla lunghezza di circa ml. 8,40 ed una
larghezza media di circa m 1.4, contornata da un area pavimentata di circa
mq. 100”), si rileva con la giurisprudenza dominante che la
realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente
complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo
svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad
una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, (Campania)
sez. II, 18/04/2019, n. 642).
Inoltre, come asserito dai medesimi ricorrenti la piscina è stata installata
parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un
metro, circostanza per la quale, secondo condivisa giurisprudenza: <<La
piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura
accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia
libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi
aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti
del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>> (TAR Napoli,
(Campania) sez. VI, 07/06/2019, n. 3103).
E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una
funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza
urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina,
quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest
del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente
un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1,
accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa
insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area
pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è
nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non
potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono
coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma
rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica
di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie
rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di
vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla
stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione
economica>> (TAR Campania, sez. VII, 27.11.2017, n. 5564).
Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può
operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante,
partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività),
mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed
inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli (Campania) sez. III,
20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno
considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato
trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di
interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde
apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro
iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e
risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini
dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono
assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della
categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere
apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata
(“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa
mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto
in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa
scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul
versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il
richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento
edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza
dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una
scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione
urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione
dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di
nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di
costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>>
(TAR Napoli, (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093).
A ciò aggiungasi che -come asserito dai medesimi ricorrenti- l’ulteriore
area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla
fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo,
recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è
necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la
sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>> (C.
di S., sez. II, 01.07.2019, n. 4475).
Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi
contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via
prioritaria dei vincoli paesaggistico che interessano la zona di afferenza
dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs.
22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono,
in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo
paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza
del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate,
affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso
(cfr. la sentenza della Sez. VI di questo Tribunale del 26/03/2015 n. 1815):
<<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per
realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di
costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione
ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona
vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo
paesaggistico, che urbanistico>>
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’istanza
di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.L.vo 42/2004, quanto alle conseguenze della
mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente
previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato:
in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non
risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di
accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione, con indirizzo ormai consolidatosi, ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per
la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47
del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione.
Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio.
In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego.
Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma
senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la
conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida
riprendendo piena efficacia.
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori.
---------------
Ciò posto con la prima censura si deduce l’illegittimità o
l’inefficacia dell’impugnata ordinanza di demolizione stante l’intervenuta
proposizione nei termini di legge dell’istanza di accertamento ex art. 167,
D.L.vo 42/2004, con sospensione del procedimento amministrativo sanzionatorio fino alla decisione dell’istanza in sanatoria, al riguardo
rilevandosi che, per costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, la proposizione nei termini della richiesta ex art. 36
D.P.R. 380/2001 come anche quella di quella ex art. 167 su citato, hanno come
conseguenza giuridica implicita, di spostare l'interesse del soggetto
colpito da ordinanza di demolizione, dal provvedimento stesso alla decisione
della P.A. sull'istanza avanzata.
Secondo parte ricorrente, corollario di
tale condivisibile assunto è che viene fatto carico alla P.A., dopo
l'eventuale diniego di sanatoria, di procedere nuovamente all'irrogazione
della primigenia sanzione, onde consentire alla parte di ottemperare
all'ingiunzione senza incorrere nell' acquisizione.
Nella specie, essendo
intervenuta nei termini un'istanza di accertamento, l'ordine di demolizione
irrogato con il provvedimento impugnato, dovrebbe essere considerato sospeso
di diritto fino alla decisione del Comune sull'istanza avanzata dalla parte,
e comunque sarebbe divenuto inefficace.
La censura è priva di fondatezza.
Al riguardo, in disparte che non risulta provata da parti ricorrenti la
presentazione e la pendenza dell’istanza di sanatoria ex art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001, l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex
art. 167 D.L.vo 42/2004 allegata al ricorso, quanto alle conseguenze della
mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente
previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato:
in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non
risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di
accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per
la formazione del silenzio - rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali
richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47
del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III,
02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in
proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla
rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun
provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio rifiuto, senza che,
però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di
demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001
per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali
<<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985)
configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio
serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i
richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si
forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a
carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge,
anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione
dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della
domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli
abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune,
preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non
determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero
invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato
di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché
perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato
l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine
e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito,
l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in
nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte
dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma
senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la
conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida
riprendendo piena efficacia.
---------------
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di
condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né
(essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di
quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso
siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del
provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare,
senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza
discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui
esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa
Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi
dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di
compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine
di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001
per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal
ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali
richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per
le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n.
47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale
del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi
inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di
conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con
conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine
processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla
data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la
presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva
all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione
dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del
territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia
sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma
provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non
esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione
previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di
diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di
impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di
demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una
riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>
(TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014,
n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in
proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla
rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun
provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che
-però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di
demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al
superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò
consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d.
sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta
effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di abusi
edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il
quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di
un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di
fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di
recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non
priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto:
<<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1,
lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili
dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il decorso del tempo>>.
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento
giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente
rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso
edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza
di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza
alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata
abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo
affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria
l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908,
evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di
attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche
a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero,
l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva
nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso
è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è
necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza
della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>.
---------------
Con la terza censura si
deduce l’eccesso di potere (per erroneità del presupposto di fatto
determinato da insufficiente istruttoria e difetto di motivazione) in quanto
la circostanza per la quale l'opera in oggetto esiste da circa dieci anni
rende applicabile il cd. principio di affidamento del privato, in base al
quale, il decorso di un lungo periodo di tempo dalla realizzazione
dell'opera, legittima i ricorrenti a ritenere di vantare un diritto assoluto
alla detenzione dello stesso, per modo che il Comune potrebbe disporre la
demolizione di dette opere solo in caso di prevalenza dell'interesse
pubblico sull'interesse privato, tale da rendere necessario un tale
provvedimento.
Con l’ausilio della giurisprudenza richiamata i ricorrenti sostengono che,
nel caso in cui, dato il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso e per il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento del privato,
sussisterebbe a carico della P.A: un onere di congrua e puntuale motivazione
che indichi, avuto riguardo anche alla vetustà, all'entità ed alla tipologia
dell'abuso, il pubblico interesse idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
La censura non coglie nel segno.
Posto che l’abuso in discussione circa l’epoca di sua realizzazione risulta
non databile, nulla al riguardo, i ricorrenti avendo provato, decisivo è il
rilievo che, in materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta
comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può
legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania,
sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480;
TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di
recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non
priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto:
<<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1,
lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili
dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen.,
17/10/2017, n. 9).
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento
giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente
rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso
edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza
di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza
alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata
abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo
affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria
l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908,
evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di
attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche
a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero,
l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva
nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso
è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è
necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza
della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
insegna costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo
trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei
provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli
abusi edilizi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il
permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire;
questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di
tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e giuridicamente
illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del solo
trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo,
non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile
anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto
dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti.
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato,
l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera
q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o
tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le
responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance
individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- il
decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per
l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
---------------
3.- Non fondata è la seconda censura.
Come insegna altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso
di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e
l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di
contrasto degli abusi edilizi né impone un più stringente obbligo
motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse
pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un
affidamento degno di tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e
giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto
del solo trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo,
non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile
anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto
dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato,
sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato
(17.10.2017, n. 9), l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto
dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo
cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio,
fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione
della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”-
il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione,
configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per
l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione
della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune
in caso di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione non deve essere
contenuta necessariamente in quest'ultimo provvedimento, bensì, a pena
d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene,
costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e
per la trascrizione nei registri immobiliari.
---------------
9. Il primo motivo va respinto alla luce dei consolidati principi
giurisprudenziali, più volte affermati anche da questo Tribunale, secondo
cui “l'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire
al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell'ordinanza di
demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest'ultimo
provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto
d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per
l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri
immobiliari” (ex multis: TAR Torino, sez. II, 05.04.2019, n. 405;
TAR Torino, sez. II, 14/11/2018, n. 1246; Consiglio di Stato, sez. VI,
06/02/2018, n. 755)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 27, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 deve sempre
essere disposta la rimozione delle opere abusive che risultino essere state
realizzate in difformità dalle previsioni delle norme e prescrizioni
edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi, soggette a mero regime
autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena pecuniaria alle opere
abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a. ma che non siano
difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non sia stata
tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex art. 36,
cit. d.P.R. n. 380 del 2001.
Altresì, le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura
pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con mera Dia, se
realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi
comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, laddove non sia
stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e,
conseguentemente, deve essere applicata la sanzione demolitoria.
---------------
10. L’affermazione del ricorrente, secondo cui le opere abusivamente
realizzate sarebbero state soggette a d.i.a., e non già a permesso di
costruire, risulta destituita di fondamento: infatti, secondo quanto emerge
dalla descrizione dei manufatti effettuata dai tecnici che hanno eseguito il
sopralluogo il -OMISSIS-, non smentita dal ricorrente, i manufatti
sanzionati hanno comportato una rilevante modificazione del territorio, con
la realizzazione di un terrapieno, prima inesistente, eseguito mediante
riporto di oltre 1000 mc di terreno, e di un nuovo fabbricato chiaramente
destinato ad uso antropico. Si tratta, all’evidenza, di opere edilizie
integranti “nuova costruzione”, come tali soggette a preventivo
rilascio del permesso di costruire.
10.1. Peraltro occorre rammentare che “Ai sensi dell'art. 27, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 deve sempre essere disposta la rimozione delle opere
abusive che risultino essere state realizzate in difformità dalle previsioni
delle norme e prescrizioni edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi,
soggette a mero regime autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena
pecuniaria alle opere abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a.
ma che non siano difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non
sia stata tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex
art. 36, cit. d.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez. II,
09/06/2016, n. 780), e che “Le opere edilizie abusive, anche qualora
abbiano natura pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con
mera Dia, se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono
considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione,
laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione
paesaggistica e, conseguentemente, deve essere applicata la sanzione
demolitoria” (C.d.S. sez. IV, 26/09/2018, n. 5524): nel caso di specie
non risulta che le opere fosse conformi alle norme urbanistiche vigenti per
la zona; anche l’insistenza, sul fondo, di ben due vincoli, uno dei quali
(quello di rispetto stradale) comportante inedificabilità assoluta, imponeva
in ogni caso la demolizione
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura
abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori
edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto
dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente
tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso
sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il
ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella
propria sfera di controllo.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha definitivamente acclarato che
il decorso del tempo non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di
perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
affermando che, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di
demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non consuma il
potere di reprimere l’abuso, non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, realizzando una
forma di sanatoria automatica o praeter legem, e neppure può radicare un
affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso.
---------------
12. Il quarto motivo, volto al lamentare l'omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, va respinto in applicazione della
giurisprudenza secondo cui l'ordine di demolizione conseguente
all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non
deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241,
trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza
di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla
legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio,
esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il
ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella
propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n.
2681; V, 28.04.2014, n. 2194).
13. Per la medesima ragione, ovvero per la natura vincolata della sanzione
demolitoria, conseguente al rilievo della abusività delle opere, va respinto
il quinto motivo, con il quale il ricorrente invoca a proprio favore
il lungo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione delle opere abusive.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 9 del
17.10.2017, ha infatti definitivamente acclarato che il decorso del tempo
non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di perseguire l’illecito
attraverso l’adozione della relativa sanzione, affermando che, nel caso di
tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte
dell’amministrazione non consuma il potere di reprimere l’abuso, non è
idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo)
è sin dall’origine illegittimo, realizzando una forma di sanatoria
automatica o praeter legem, e neppure può radicare un affidamento di
carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
dicembre 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi è un'attività vincolata e doverosa della Pubblica
amministrazione e i relativi provvedimenti, quale
l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati come
atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio
di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
Quanto alla mancata partecipazione dei proprietari al
procedimento che ha condotto all’ordine di ripristino, è
ormai costante la giurisprudenza secondo cui l'esercizio del
potere repressivo degli abusi edilizi è un'attività
vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i
relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione,
debbono essere qualificati come atti vincolati, per la cui
adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio
del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis,
TAR Lazio, sentenza n. 4211/2019, Consiglio di Stato
sentenza n. 4740/2014) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.12.2019 n. 1065 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la
relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza
momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno
stato di quiescenza.
Ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o all’emissione di un
esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali gli effetti
sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una nuova
ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di
ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di
condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
---------------
4. La ricorrente ritiene, inoltre, che la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001, depositata in data
07.08.2007, avrebbe avuto l’effetto di rendere illegittima l’ordinanza de
qua.
La censura è infondata.
Infatti, per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di
sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la
relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza
momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno
stato di quiescenza; ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o
all’emissione di un esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali
gli effetti sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una
nuova ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di
ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di
condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
Nel caso in questione, è maturato il diniego tacito (che peraltro non è
stato gravato), sulla domanda di sanatoria presentata dalla ricorrente, per
cui l’ordinanza di demolizione è efficace e priva dei vizi sollevati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 02.12.2019 n. 13763 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
novembre 2019 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: L'ordinanza
di demolizione adottata nei confronti dell'amministratore del condominio è
illegittima poiché non risulta essere né proprietario del bene su cui gli
abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Invero, “…la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei
confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle
stesse”.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 49/URB data
28.06.2019 emessa dal Comune di Roccapiemonte;
...
1. Con l’ordinanza di demolizione n. 49/URB del 01.07.2019, l’ente locale
indicato in epigrafe, constata la sussistenza di “variazioni del
perimetro dell’edificio, nonché modifica del prospetto e diversa
sistemazione esterna, comportanti una difformità plani-volumetrica rispetto
ai titoli edilizi rilasciati”, con riferimento all’edificio ubicato nel
medesimo Comune, in via ..., n. 104/106, ha ingiunto la demolizione delle
opere abusive.
L’ordinanza in questione è stata rivolta ai proprietari delle singole
porzioni immobiliari dell’edificio, alla società che ha presumibilmente
realizzato l’immobile e, infine, “all’amministratore del Condominio nella
persona di Al.Li. …”.
2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso proprio quest’ultimo
destinatario dell’ordine di demolizione, il quale, con il primo motivo, ha
dedotto il suo difetto di legittimazione passiva.
3. Si è costituito in giudizio il Comune intimato, il quale ha contestato il
ricorso ex adverso proposto, senza però argomentare alcunché circa la
censura appena riassunta.
4. All’udienza del 20.11.2019, constatata la completezza del contraddittorio
e degli altri presupposti di legge, il Collegio, previo avviso alle parti ai
sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
Ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 “Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero
con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3”.
La norma è chiara, nel suo dato testuale, nell’individuazione dei possibili
destinatari dell’ordine di demolizione, individuandoli nel proprietario del
bene sul quale è stata commessa la violazione edilizia e nel responsabile
della stessa, ove le due persone non coincidano.
Rispetto a tale inequivocabile dato normativo risulta alquanto inspiegabile
la ragione per la quale il Comune di Roccapiemonte abbia rivolto la sua
attività provvedimentale nei confronti di un soggetto che non rientra in
nessuna delle due categorie prese in considerazione dalla norma di legge. La
motivazione del provvedimento non chiarisce, infatti, la ragione di una
simile, improvvida iniziativa.
L’assunto appena esposto è confermato anche da alcuni precedenti del G.A.,
citati nel proprio ricorso dall’odierno ricorrente.
In particolare, il TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.07.2019 n. 1764 rileva
che “…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
5. Il provvedimento adottato risulta allora illegittimo in parte qua,
ossia nella misura in cui individua quale destinatario del comando anche
l’odierno ricorrente, che non risulta essere né proprietario del bene su cui
gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo di ricorso, con
assorbimento delle altre ulteriori doglianze, e va disposto l’annullamento
del provvedimento, limitatamente all’interesse dell’odierno ricorrente (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.11.2019 n. 2126 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposizione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere
abusive produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace la misura
ripristinatoria, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di
un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda
di sanatoria, e in questo secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine
di rimozione degli abusi, con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere.
In altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di
demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in
sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di ripristino
dello stato dei luoghi.
Pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità
successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso improcedibile,
non essendovi più alcun interesse alla decisione relativamente ad atto
divenuto medio tempore inefficace e quindi non più idoneo a ledere
l’interesse della parte ricorrente.
In conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato improcedibile, a fronte
della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 quando
già era stato proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi
trasposto in sede giurisdizionale.
---------------
Ritenuto:
- che si presenta assorbente di ogni altra questione la circostanza
che nelle more del giudizio l’interessato abbia presentato istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- che, secondo un orientamento giurisprudenziale già fatto proprio
dalla Sezione (v., tra le altre, sentt. n. 2635 del 23.11.2018 e n. 665 del
27.03.2019), la proposizione di una simile istanza –successivamente
all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive– produce l’effetto di
rendere definitivamente inefficace la misura ripristinatoria, essendo
comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento,
che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo
secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine di rimozione degli abusi,
con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere;
- che, in altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo
edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di
ripristino dello stato dei luoghi (v. TAR Umbria 10.12.2018 n. 672; TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 18.05.2018 n. 827);
- che, pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di
conformità successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso
improcedibile, non essendovi più alcun interesse alla decisione
relativamente ad atto divenuto medio tempore inefficace e quindi non più
idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (v. TAR Veneto, Sez. II,
30.07.2019 n. 901);
- che, in conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato
improcedibile, a fronte della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 quando già era stato proposto ricorso straordinario al Capo
dello Stato, poi trasposto in sede giurisdizionale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.11.2019 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria di
un abuso edilizio non determina alcuna
inefficacia sopravvenuta o invalidità di
sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma
solo la temporanea sospensione della sua
esecuzione.
In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria
l’amministrazione non deve quindi reiterare
l’ordine di demolizione, altrimenti
finendosi per riconoscere in capo al
privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio,
il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale suo annullamento, quel medesimo
provvedimento.
Ne consegue che la presentazione
dell’istanza di sanatoria dell’intervento
edilizio non determina l’improcedibilità del
ricorso principale, poiché l’ordine
demolitorio avversato mantiene la sua
efficacia e lesività, con conseguente
necessità di esaminare le doglianze in
merito sollevate dall’esponente.
---------------
1. L’odierno ricorrente, che ha realizzato
una veranda attrezzata antistante il locale
ove esercita l’attività di somministrazione
di alimenti e bevande, contesta la
legittimità dell’ordinanza di demolizione
del manufatto e del successivo diniego di
rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
2. Deve essere esaminato preliminarmente il
ricorso principale, in adesione
all’orientamento secondo il quale la
presentazione dell'istanza di sanatoria di
un abuso edilizio non determina alcuna
inefficacia sopravvenuta o invalidità di
sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma
solo la temporanea sospensione della sua
esecuzione. In caso di rigetto dell’istanza
di sanatoria l’amministrazione non deve
quindi reiterare l’ordine di demolizione,
altrimenti finendosi per riconoscere in capo
al privato, destinatario del provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale suo annullamento,
quel medesimo provvedimento (in termini
Cons. Stato, sez. II, 24.06.2019, n.
4304, Cons. Stato, Sez. IV, 05.11.2018,
n. 6233).
Ne consegue che la presentazione
dell’istanza di sanatoria dell’intervento
edilizio non determina l’improcedibilità del
ricorso principale, poiché l’ordine
demolitorio avversato mantiene la sua
efficacia e lesività, con conseguente
necessità di esaminare le doglianze in
merito sollevate dall’esponente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.11.2019 n.
990 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
la parte abusiva da demolire risulti senza autorizzazione non può trovare
applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo
le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato.
Invero, «In tema di reati edilizi, la possibilità di non eseguire la
demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di
fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui
all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di
parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato
dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in
cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso
amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto illegittima la
revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del
tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé
conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche)».
---------------
Relativamente alla questione, posta con il ricorso in cassazione -incidenza
della demolizione sulla parte di fabbricato non abusiva-, la decisione della
Corte di appello risulta adeguatamente motivata, rilevando come lo stesso
consulente della parte ricorrente aveva ritenuto solo una difficile e
complessa esecuzione della demolizione, ma non già un'impossibilità della
demolizione; inoltre la Corte di appello logicamente evidenzia come in sede
esecutiva saranno prese le opportune misure per la demolizione in sicurezza.
Anche nel ricorso per cassazione si prospetta un'incidenza negativa e grave
(della demolizione) sulle opere costruite legittimamente, ma solo in modo
teorico, generico, e non concreto, desunto da specifici atti del giudizio di
esecuzione. E' una evidente questione di fatto, non valutabile in questa
sede se adeguatamente motivata, come nel caso in oggetto (Sez. 3, n. 19090
del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101).
Deve inoltre rilevarsi che la parte abusiva da demolire risulta senza
autorizzazione, completamente abusiva e, quindi, non può trovare
applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo
le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato: «In tema di reati edilizi, la
possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne
pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura
di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001,
riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di
tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto
oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo
invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste
del necessario assenso amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha
ritenuto illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto
completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una
preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle
prescrizioni urbanistiche)» (Sez. 3, n. 16548 del 16/06/2016 - dep.
03/04/2017, P.G. in proc. Porcelli, Rv. 26962401; vedi anche Sez. 3, n.
28747 del 11/05/2018 - dep. 21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101 e Sez. 3,
n. 19090 del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101)
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.11.2019 n. 46382). |
EDILIZIA PRIVATA: In
seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria sorge in capo
all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi nuovamente in modo espresso o
tacito sulla predetta istanza e, in caso di reiezione della stessa (come
avvenuto nella specie), dovrà poi adottare un nuovo provvedimento
sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione
dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa
di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione
della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività
dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà
adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un
nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione
dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio,
essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle
sanzioni acquisitive eventualmente già adottate.
---------------
1. Deve essere preliminarmente vagliata l’eccezione di improcedibilità del
ricorso introduttivo –proposto avverso l’ordine di demolizione– a seguito
della proposizione di istanza di sanatoria (nella specie ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001).
L’eccezione è fondata.
Come già affermato dalla Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 03.05.2019, n. 1003), in seguito alla presentazione
dell’istanza di sanatoria sorge in capo all’Amministrazione l’obbligo di
pronunciarsi nuovamente in modo espresso o tacito sulla predetta istanza e,
in caso di reiezione della stessa (come avvenuto nella specie), dovrà poi
adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione
dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa
di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione
della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività
dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa. Infatti nell’ipotesi di rigetto
dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del
pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più
interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato
abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente
già adottate (cfr., TAR Lombardia, Milano, II, 23.11.2018, n. 2635; TAR
Lombardia, Brescia, I, 10.07.2017, n. 904; TAR Molise, I, 26.02.2016, n.
105).
Nel caso di specie, il Comune ha espressamente provveduto, in maniera
negativa, sull’istanza di sanatoria, sicché relativamente alle opere in
parola dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, nei confronti
del quale le parti interessate potranno far valere le loro eventuali
doglianze.
In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.11.2019 n. 2381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pubblicazione
ordinanze di sospensione lavori.
Domanda
Da sempre, nel nostro ente, abbiamo pubblicato all’albo pretorio on-line il
testo integrale delle ordinanze di sospensione lavori, emesse nei confronti
di cittadini che hanno commesso un abuso edilizio. Il collega del comune
vicino dice che non vanno pubblicate.
Sapete darci qualche informazione al riguardo?
Risposta
In materia di ordinanze comunali, va specificato che nel decreto legislativo
14.03.2013, n. 33 e successive modificazioni ed integrazioni, non compare
mai il termine “ordinanze”, per cui, in assenza di una norma
specifica, occorre rifarsi alle disposizioni di carattere generale, quali
–ad esempio– la deliberazione del Garante privacy italiano, emanata il
15.05.2014, recanti “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”.
Per ciò che concerne, quindi, le ordinanze, sia che siano emanate da
dirigenti (P.O. negli enti senza dirigenza) o dal Sindaco, nella versione
capo dell’amministrazione (art. 50, comma 5, TUEL 267/2000) o come ufficiale
di Governo (art. 54, comma 4, TUEL), la regola generale da rispettare, con
specifica indicazione che sarebbe opportuno inserire nella sezione
Trasparenza del PTPCT, è la seguente:
• vanno pubblicate all’albo pretorio on-line solo le ordinanze
aventi carattere di generalità, rivolte ad una pluralità di soggetti,
altrimenti non facilmente raggiungibili (esempio: chiusura scuole per
maltempo; divieto di utilizzo dell’acqua; disciplina della circolazione e
sosta; divieto di innaffiamento orti e giardini; misure a tutela dell’ordine
e sicurezza pubblica, eccetera);
• vanno “notificate” agli interessati e non pubblicate, le
ordinanze, rivolte a singole persone, in cui gli si ordina di fare o non
fare qualcosa (ordinanze/ingiunzione di pagamento; abusi edilizi;
Trattamento Sanitario Obbligatorio – TSO e Assistenza Sanitaria Obbligatoria
– ASO, eccetera).
Per quanto riguarda lo specifico quesito, occorre rifarsi all’art. 31, comma
7, del Decreto Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, il quale
testualmente recita:
7. Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente,
mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle
opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed
agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e
trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al
presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del
governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Come si può notare, la disposizione prevede che vengano pubblicati i dati
relativi agli immobili realizzati abusivamente; l’oggetto dei rapporti della
P.G, e delle relative ordinanze. La norma, dunque, non prevede la
pubblicazione integrale dell’ordinanza, come invece, viene effettuato nel
vostro comune.
Sempre restando al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001) va ricordato che
anche in altri articoli (cfr. art. 30, comma 7) il legislatore ha sempre
utilizzato l’espressione “notificare” e mai quella di “pubblicare”.
Si ritengono corrette, quindi, le modalità di pubblicazione adottate dal
comune vicino al vostro, che pubblica, all’albo pretorio on-line, la
verifica mensile del segretario comunale in materia di abusi edilizi,
riportando solamente, per quanto riguarda le ordinanze, il loro numero
progressivo, la data di emanazione e l’oggetto della medesima, con
l’accortezza di NON inserire nell’oggetto il nominativo del destinatario a
cui il provvedimento di sospensione è stato notificato (12.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La
presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi,
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto
sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere
spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello
assegnato in precedenza).
---------------
9. La difesa del Comune ha dato,
altresì, atto della presentazione di una DIA in sanatoria ai sensi dell’art.
37 del DPR n. 380/2001 con riferimento alla “serranda e vetrata con porta al
locale portico e scala” oggetto di contestazione, puntualizzando, nella
memoria depositata il 07.09.2013, che “tali denunce sono in corso
trattazione”.
Sul tema della sorte processuale del ricorso avverso l’ordinanza di
demolizione seguita da un’istanza di sanatoria ai sensi degli articoli 36 e
37 del DPR 380/2001, è principio acquisito nella giurisprudenza di questa
Sezione quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La
presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi,
l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto
sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere
spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello
assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria, 24.08.2019, n. 511; 17.09.2018, n. 559; 03.07.2018, n. 406).
Il ricorso è, pertanto, anche per questa parte improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in ragione della presentazione,
successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione, di una DIA in
sanatoria per le opere di realizzazione della “serranda e vetrata con porta
al locale portico e scala”
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ufficio
tecnico di questo Comune riceve continue richieste di annullamento della
procedura di contestazione di abusi edilizi e ordine di demolizione, fondate
su mancata comunicazione di avvio del procedimento, insufficiente
motivazione, mancata identificazione degli immobili (es. dati catastali)
ecc...
Quali formalità occorre seguire per evitare ricorsi?
L'abusivismo edilizio è una delle "piaghe" nazionali tanto da
costituire una parte cospicua della giurisprudenza amministrativa (in questo
senso i precedenti a disposizione costituiscono una buona base di
riferimento).
Come noto l'art. 31 del Testo Unico D.P.R. 06.06.2001 n. 380 prevede che "Il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo ... ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la
rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto ... Se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione
di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente
al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore
a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire vari aspetti che si sintetizzano
(rinviando per il dettaglio alle massime relative):
- essendo un'attività vincolata non è indispensabile la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento (art. 7, L. 07.08.1990, n. 241), o
meglio la sua mancanza non determina illegittimità del procedimento e del
relativo provvedimento finale;
- è condizione necessaria e sufficiente l'analitica descrizione
delle opere abusivamente realizzate anche in mancanza di una descrizione
dell'immobile sotto il profilo degli estremi catastali o altri riferimenti
(indirizzo e civico);
- allo stesso modo non rileva sotto il profilo della legittimità
l'omessa od imprecisa indicazione dell'area che verrà acquisita di diritto
al patrimonio pubblico;
- non è necessario l'accertamento della responsabilità del
destinatario dell'ingiunzione in quanto l'abuso edilizio rileva ex se, quale
elemento oggettivo;
- il provvedimento conclusivo non richiede motivazione in ordine
alle ragioni di pubblico che ne impongono la rimozione atteso che lo stesso
ha natura vincolata.
Ovviamente si suggerisce, nei limiti del possibile, di procedere a
comunicazione di avvio e fornire adeguata motivazione in relazione ai vari
punti, ricordando comunque che in base alla citata giurisprudenza la loro
carenza (ed in taluni casi omissione) non ha effetto sulla legittimità degli
atti. In questo senso potrà essere data risposta alle richieste di
autotutela degli interessati.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. II, 21.10.2019, n. 7103 - Cons. Stato Sez. II, 12.09.2019,
n. 6147 - Cons. Stato Sez. IV, 02.09.2019, n. 6055 - Cons. Stato Sez. II,
30.08.2019, n. 6000 - Cons. Stato Sez. VI, 29.08.2019, n. 5938 - Cons. Stato
Sez. VI, 30.07.2019, n. 5388 - Cons. Stato Sez. IV, 15.07.2019, n. 4955 -
Cons. Stato Sez. II, 08.07.2019, n. 4727 - Cons. Stato Sez. II, 05.07.2019,
n. 4662
(06.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
URBANISTICA: Sanzioni penali.
Si è soliti identificare due distinte
fattispecie di lottizzazione:
- la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste
“materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla
trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata
in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e
dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare
globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto,
di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione;
devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R.
n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di
salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di
controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del
corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa
in rapporto agli standards apprestabili;
- l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare”
quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e
la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e
alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in
rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II,
20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una
lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro
del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta
anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti;
- va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per
configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di
buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato
oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del
territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri
danti causa;
- è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie.
---------------
Quanto all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli
immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che
l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale
rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante
può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex
ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia
successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria.
Su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva
tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente,
non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente
lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione
allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo
complesso.
---------------
Ritenuto in diritto che:
- la sentenza di primo grado deve essere confermata;
- § in termini generali, l’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, in
applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, prevedono che
si abbia «lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando
vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale
trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o
atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche
quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la
eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio»;
- a partire da tale disposizione si è soliti identificare due distinte
fattispecie di lottizzazione;
- la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste
“materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla
trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata
in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e
dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare
globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto,
di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione;
devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R.
n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di
salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di
controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del
corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa
in rapporto agli standards apprestabili (Consiglio di Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416);
- l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare”
quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e
la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro
caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e
alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in
rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non
equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II,
20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una
lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro
del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta
anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti. (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108);
- va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per configurare
la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala
fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo
dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio,
fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa
(Consiglio Stato, sez. IV, 08.01.2016 n. 26);
- è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie (Consiglio di Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196);
- § applicando le coordinate ermeneutiche appena passate in rassegna, nel
caso di specie deve ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione
abusiva materiale in relazione alle circostanze di fatto, desumibili da
tutti gli accertamenti effettuati, e segnatamente: il numero dei fabbricati;
il frazionamento della gran parte di essi in separate unità immobiliari;
l’insistenza in loco di due locali a vocazione commerciale;
- tali elementi, letti unitariamente, dimostrano la trasformazione del
terreno a fini residenziali, in contrasto con la normativa urbanistica;
- § l’imputabilità della suddetta lottizzazione materiale realizzata in via
... in capo al Ca. è stata poi correttamente desunta dalla
seguenti evidenze:
i) in primo luogo il signor Ca.Sa. risultava sempre presente nel
terreno oggetto dell’intervento edilizio (quando in data 23.04.2007
operanti di P.G. accertavano l’esecuzione di opere edilizie tali da
determinare la trasformazione urbanistica del terreno a fini residenziali;
quando in data 18.05.2007, alla presenza del Ca., si svolgeva un
sopralluogo, all’esito del quale emergeva la presenza, in totale, di 11
fabbricati, ospitanti 29 alloggi e 2 locali commerciali, analiticamente
descritti);
ii) il sig. Ca.Sa. risultava altresì destinatario di ogni atto per la
sospensione dei lavori emesse dal Comune di Cerveteri già a partire dal
1995;
iii) le richieste del titolo abilitativo in sanatoria del 25.03.2005, 09.09.2004 e del 10.12.2004 risultano sempre presentate dal Sig.
Ca.Sa. e dalla Sig.ra An.Ka.;
- a confermare il diretto coinvolgimento quale autore del Sig. Ca.Sa.
nell’abusiva attività edilizia sanzionata è poi dirimente la circostanza che
il giorno 18 maggio lo stesso –titolare fin dal 2003 di procura
irrevocabile a vendere avente ad oggetto il terreno, rilasciatagli dai
proprietari Ce. e Ma.– lo alienava, in nome e per conto di questi
ultimi, alla s.r.l. con unico socio So.ag.fo. La Ti.
de. Ma., anch’essa costituita quello stesso giorno dall’Anello, che
interveniva nell’atto quale rappresentante legale dell’acquirente;
- § sotto altro profilo, essendo stato il signor Ca. identificato anche
quale responsabile materiale degli abusi in questione (come tale
autonomamente soggetto all’ordine di sospensione dei lavori), non coglie nel
segno il motivo di impugnazione incentrato sulla mancata notificazione
dell’ordinanza ai proprietari Ce. e Ma.;
- l’ulteriore obiezione relativa alla mancata realizzazione delle opere di
urbanizzazione è anch’essa priva di fondamento, giacché la mancata
esecuzione delle opere di urbanizzazione non vale ad elidere l’illecito
contestato;
- § quanto poi all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli
immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che
l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale
rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante
può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex
ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia
successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115);
- su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva
tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente,
non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente
lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione
allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo
complesso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381;
Consiglio di Stato sez. II, 07.08.2019, n. 5607);
- a ciò si aggiunge che, come già affermato dal giudice di prime cure, la
censura è stata dedotta genericamente in quanto non accompagnata
dall’identificazione degli immobili che sarebbero stati “sanati”;
- § per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 04.11.2019 n. 7530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne
l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria
emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque
a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di
positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla
definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della
stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio.
Ne consegue, “da un lato, che è preclusa
all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e,
dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza
di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”,
con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere.
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di
sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione,
successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di
conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 ovvero di
domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali
temporanee laddove si è
ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria
per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive
leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione
dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in
precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro
rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di
sanatoria”.
---------------
Per giurisprudenza costante:
1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo
dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione
degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che
l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un
abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di
demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta
di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima,
è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa
prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale
effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza
dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò
che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in
mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001
vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere
abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi
eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire”;
2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto
inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la
conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non
hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo
provvedimento repressivo”;
3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti,
determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”>>.
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze
pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel
demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a
(successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i
presupposti per il suo rilascio”.
---------------
1. - L’impugnata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 -
Protocollo Generale n. 24219 è divenuta inefficace e ha perso la propria
capacità lesiva della sfera giuridica dei ricorrenti, in quanto gli stessi,
successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione impugnata ed
alla proposizione del presente ricorso, hanno presentato -in data 16.12.2013- istanza di sanatoria, ex art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.1 - Ed invero, il Collegio non ravvisa, allo stato, ragioni per
discostarsi dalla <<giurisprudenza consolidata di questa Sezione, secondo
cui <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne
l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria
emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque
a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di
positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla
definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della
stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione
oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266).
Ne consegue, “da un lato, che è preclusa
all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e,
dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza
di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR
Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce,
Sezione Terza, 12.04.2018, n. 628, idem, 30.09.2016, n. 1512),
con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere>> (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.06.2019, n. 1061).
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di
sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione,
successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di
conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 (<<cfr. TAR
Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137, che espressamente
richiama, “ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez.
VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n.
1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n.
172; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472;
07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n.
4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243;
sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315;
07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n.
1519; Salerno, sez. I, 23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
21.02.2009, n. 258; 04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte, Torino, sez.
I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n. 885; TAR Lazio, Roma, sez.
I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche,
Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691”), ovvero di
domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali
temporanee (v. Consiglio di Stato, V, 19.04.2013, n. 2221, con cui si è
ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria
per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle
successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi
dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di
una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto
dell'istanza di sanatoria”)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 24.10.2017, n. 1649).
Per giurisprudenza costante di questa Sezione (cfr., da ultimo, TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 28.01.2019, n. 154, 18.03.2019, n. 447
e giurisprudenza ivi citata - “ex multis, TAR Puglia-Lecce, n.
1454/2013, n. 1956/2017, n. 1388/2017, n. 69/2018, n. 706/2018”), da cui,
allo stato, non si ravvisa ragioni per discostarsi:
1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo
dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione
degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che
l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un
abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di
demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta
di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima,
è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa
prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale
effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza
dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò
che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in
mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001
vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere
abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi
eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 13.01.2011, n. 11;
TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909);
2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto
inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la
conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non
hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo
provvedimento repressivo” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.09.2013, n. 1938);
3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti,
determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (ex multis,
TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.08.2012 n. 1447...” )>> (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.09.2014, n. 2342).
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze
pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel
demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a
(successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i
presupposti per il suo rilascio” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909).
1.2 - Orbene, nel caso in esame, il Collegio, rilevata la piana
ascrivibilità della vicenda concreta de qua alla terza delle sopra indicate
fattispecie, ribadisce che, nell’ipotesi di presentazione dell’istanza di
sanatoria edilizia successivamente all’ordine di demolizione e
all’impugnazione del medesimo, l’interesse del responsabile dell’abuso si
concentra sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di
sanatoria, prima, e di demolizione, poi (ex plurimis, TAR Campania,
Napoli, Sezione Ottava, 08.03.2012, n. 1202): pertanto, in caso di
reiezione dell’istanza (come avvenuto nella specie, giusta diniego prot. n.
8737/2014, impugnato innanzi a questo TAR con il giudizio avente nr. R.G.
1557/2014), l’Amministrazione dovrà emanare un nuovo provvedimento
sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell’opera edilizia
ritenuta abusiva, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
1.3 - In conclusione, la gravata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 - Protocollo Generale n. 24219 ha perso la propria
efficacia lesiva: non essendovi, quindi, attualmente, pregiudizio per i
ricorrenti e non permanendo, quindi, l’interesse all’impugnazione, il
ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, come da esplicita richiesta in tal senso presentata dai medesimi
ricorrenti in data 18.06.2019
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 29.10.2019 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Com'è noto, per il combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma 3,
T.U.E., quest'ultima previsione dispone che «il rilascio in sanatoria del
permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti».
L'ambito di applicazione della speciale causa
di estinzione del reato dipende, in primo luogo, dalla tipologia di
accertamento di conformità che la disposizione richiama (che si limita alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione
dell'opera ed al momento di presentazione della domanda in sanatoria: cfr.
art. 36, comma 1, T.U.E.), sicché, ad es., lo stesso non spiega ovviamente
alcun effetto con riguardo ai reati paesaggistici previsti dall'art. 181
d.lgs. 42 del 2004.
D'altro canto, per espressa previsione normativa, la sanatoria opera
soltanto per le contravvenzioni urbanistiche e non anche per quelle
edilizie, sicché la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il
conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non comporta l'estinzione dei reati previsti,
dallo stesso testo unico, con riguardo alle inosservanze della normativa
antisismica e di quelle sulle opere di conglomerato cementizio.
---------------
La
sanatoria delle violazioni edilizie che, ai
sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, determina l'estinzione del reato, non è
applicabile alla lottizzazione abusiva in
quanto essa presuppone la conformità delle
opere eseguite alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della realizzazione
del manufatto, sia a quello della
presentazione della domanda di sanatoria,
mentre nel caso di lottizzazione abusiva, le
opere non possono mai considerarsi conformi
alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente, al momento della loro costruzione.
---------------
3. Ciò acclarato, reputa il Collegio che sia infondata l'ulteriore doglianza
proposta in ricorso circa il fatto che il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria abbia estinto anche la contravvenzione in esame.
Com'è noto, per il combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma 3,
T.U.E., quest'ultima previsione dispone che «il rilascio in sanatoria del
permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti». L'ambito di applicazione della speciale causa
di estinzione del reato dipende, in primo luogo, dalla tipologia di
accertamento di conformità che la disposizione richiama (che si limita alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione
dell'opera ed al momento di presentazione della domanda in sanatoria: cfr.
art. 36, comma 1, T.U.E.), sicché, ad es., lo stesso non spiega ovviamente
alcun effetto con riguardo ai reati paesaggistici previsti dall'art. 181
d.lgs. 42 del 2004 (Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, dep. 2018, Franchino e
aa., Rv. 272546; Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, Casalanguida e a., Rv.
264931).
D'altro canto, per espressa previsione normativa, la sanatoria opera
soltanto per le contravvenzioni urbanistiche e non anche per quelle
edilizie, sicché la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il
conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non comporta l'estinzione dei reati previsti,
dallo stesso testo unico, con riguardo alle inosservanze della normativa
antisismica e di quelle sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n.
19196 del 26/02/2019, Greco, Rv. 275757; Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018,
Cardella, Rv. 274212; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792).
Ciò posto, occorre allora chiarire se la contravvenzione in esame sia
configurabile come urbanistica, ovvero edilizia, se, cioè, abbia riguardo
(esclusivamente) a profili concernenti la conformità dei lavori alle
previsioni (normative e, soprattutto, di pianificazione) che disciplinano la
trasformazione del territorio, ovvero (anche) a profili concernenti il
rispetto della normativa tecnica in tema di costruzioni, come quella appunto
prevista nelle zone sismiche ovvero per le opere che, anche in relazione ai
materiali utilizzati, interessano la pubblica incolumità.
In conformità a quanto ritenuto dal giudice di merito, il Collegio reputa
corretta la seconda linea interpretativa, come si ricava dalle informazioni
che -secondo il regolamento comunale nella specie violato- il cartello di
cantiere era deputato a fornire.
Ed invero -si legge nella sentenza
impugnata- la previsione regolamentare prescrive che esso contenga dati che
certamente si riferiscono al profilo edilizio (e non soltanto urbanistico)
della costruzione, come "il nome del calcolatore della struttura" e
il "nome del Direttore dei lavori", ciò che è ad es. funzionale ad
accertare l'eventuale violazione dell'art. 64, commi 2 e 3, T.U.E.,
sanzionata dalla contravvenzione edilizia di cui al successivo art. 71,
comma 1, ovvero la sussistenza della contravvenzione, parimenti edilizia, di
cui all'art. 73 T.U.E., nonché all'attuazione delle disposizioni in materia
di vigilanza sui medesimi reati e su quelli, analoghi, previsti dalla
disciplina delle costruzioni in zone sismiche (si consideri, ad es., i
provvedimenti di sospensione dei lavori di cui agli artt. 70 e 97 T.U.E.).
Ulteriori informazioni da contenersi nel cartello di cantiere riguardano,
poi, la diversa materia del rispetto delle prescrizioni sulla sicurezza del
lavoro nei cantieri edili (si pensi all'indicazione del "Coordinatore
della sicurezza in fase di progettazione e Coordinatore della sicurezza in
fase di escuzione" e agli "estremi della notifica preliminare").
La violazione sull'obbligo di affiggere il cartello di cantiere, dunque,
riguarda beni giuridici diversi (e ulteriori) rispetto a quello, tipico
delle contravvenzioni urbanistiche, della mera conformità dell'opera alle
previsioni di piano e agli standards urbanistici, sicché la contravvenzione
non può dirsi sanata nel caso di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria.
Del resto, la riprova della correttezza di tale conclusione si ha
constatando che la contravvenzione di regola sussiste indipendentemente
dall'esistenza di una delle "classiche" ipotesi di illecito urbanistico che
sono sanate dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Ed invero,
nel caso di abuso c.d. "totale", vale a dire allorquando si è posto
mano alla modifica del territorio assoggettata al rilascio del permesso di
costruire senza richiede alcun titolo abilitativo, l'unico reato
configurabile è quello di costruzione in assenza di permesso, posto che la
contravvenzione di omessa affissione del cartello di cantiere presuppone che
un titolo edilizio sia stato rilasciato e che ci si trovi di fronte ad un
iter amministrativo quantomeno ab origine regolare; se, d'altro
canto, la contravvenzione di cui all'art. 44, comma 1, lett. a), T.U.E.
riguardi -come si è visto essere ben possibile- un intervento non
assoggettato a permesso di costruire, sarebbe irrazionale legare la
possibilità di estinguere il reato al rilascio di un provvedimento che non
sarebbe possibile né richiedere, né ottenere.
In sostanza, l'inosservanza di cui qui si discute si muove su un piano
diverso da quello della mera compatibilità urbanistica tra pianificazione ed
opera eseguita sul quale invece opera l'accertamento di conformità di cui
all'art. 36 T.U.E. che produce effetti estintivi a norma del successivo art.
45, comma 3, del testo unico.
Queste considerazioni hanno peraltro indotto questa Corte, ad es., a negare
l'effetto estintivo con riguardo ad una Contravvenzione che, invece, è
sicuramente definibile come urbanistica, ma rispetto alla quale
l'accertamento di conformità è privo di alcun rilievo: la sanatoria delle
violazioni edilizie che, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, determina l'estinzione del reato, non è applicabile alla lottizzazione
abusiva in quanto essa presuppone la conformità delle opere eseguite alla
disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del
manufatto, sia a quello della presentazione della domanda di sanatoria,
mentre nel caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai
considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, al
momento della loro costruzione (Sez. 3, n. 28784 del 16/05/2018, Amente e aa.,
Rv. 273307; Sez. 3, n. 38064 del 18/06/2004, Semeraro, Rv. 230039)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
28.10.2019 n. 43698). |
EDILIZIA PRIVATA: La cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la
rimozione della
porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza
pregiudizio
per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente
ovvero il
responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla
determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione
delle
parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne
consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita
la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per
le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto
del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'art. 34 dpr
380/2001, la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di
riferimento "le misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato.
Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a
che vedere con la "sanatoria" dell'abuso edilizio, la quale soltanto
estingue, come espressamente previsto dall'art. 45, comma 3, d.P.R.
380/2001, il corrispondente reato, in quanto non integra una
regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere
realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si
trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate
legittimamente.
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da
quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un
titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui
si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo
caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale.
---------------
Il Consiglio di Stato ha ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che
la procedura di cui al citato art. 34 si applica soltanto ai casi di
difformità parziale tra l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece,
concretamente realizzato e non anche per gli interventi realizzati in
assenza di permesso.
---------------
3. Di tali principi la Corte partenopea ha fatto buon governo avendo
ritenuto
che il tempo trascorso dalla presentazione dell'istanza unitamente
all'insussistenza
di elementi concreti che ne lasciassero presagire la rapida definizione non
consentissero la pronuncia di revoca dell'ordine demolitorio e
contestualmente
escluso l'applicabilità al caso di specie dell'art. 34 d.P.R. 380/2001, che
costituisce
oggetto del terzo motivo di ricorso, sul rilievo che non si verte
nell'ipotesi di
parziale difformità dell'opera dal permesso di costruire, alla quale
soltanto è riferita
la suddetta disposizione.
Va infatti considerato, secondo quanto ripetutamente affermato da questa
Corte, che la cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la
rimozione della
porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza
pregiudizio
per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente
ovvero il
responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla
determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione
delle
parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne
consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita
la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per
le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto
del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dello stesso art. 34,
la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di riferimento "le
misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a costruire e
quanto invece realizzato (cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale,
24.05.2010, n. 19538).
Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a che vedere con la "sanatoria"
dell'abuso edilizio, la quale soltanto estingue, come espressamente previsto
dall'art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il corrispondente reato, in quanto
non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il
completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate,
nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle
realizzate legittimamente (Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018 - dep.
21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101).
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da
quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un
titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui
si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo
caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale
(Corte di Cass. n. 55372 del 2018).
Da quanto sopra risulta evidente l'infondatezza della contestazione
difensiva atteso che nel caso in questione le opere edilizie di cui si
discute, non sono state eseguite in parziale difformità dal permesso a
costruire, ma sono del tutto sprovviste del necessario assenso
amministrativo.
Le sentenze del giudice amministrativo, indicate dalla difesa in termini
difformi dall'univoca interpretazione data da questa Corte all'ambito di
operatività della norma in esame, risultano pronunce isolate, ampiamente
contrastate dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato che ha
ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che la procedura di cui al
citato art. 34 si applica soltanto ai casi di difformità parziale tra
l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece, concretamente realizzato e
non anche per gli interventi realizzati in assenza di permesso (Cons.
di Stato, Sez. VI, Sent. n. 1924 del 2018; Cons. Stato, sez. VI, n. 547223
del 23.11.2017, nonché in fattispecie esattamente sovrapponibile a quella in
esame Cons. di Stato Sent. n. 5128 del 2018, secondo cui la procedura di cui
all'art. 34 non è applicabile alle opere realizzate senza titolo per
ampliare un manufatto preesistente)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2019 n. 43433). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e operatività della sanatoria –
Presupposti e limiti – Requisito della “doppia conformità”
delle opere – Confisca dei terreni abusivamente lottizzati –
Artt. 15, 30, 36, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il necessario requisito della “doppia
conformità” delle opere di cui all’art. 36, comma 1, D.P.R.
n. 380/2001 è ostativo già in astratto della applicabilità
della sanatoria al reato di lottizzazione, atteso che, nel
caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai
considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento della loro costruzione.
Pertanto, sia che la sanatoria non operi già in astratto,
sia che la stessa non operi per impossibilità di ravvisare
in concreto i requisiti dell’art. 36 T.U.E., la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati è legittima –in quanto
obbligatoria ai sensi dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001,- anche in presenza della sanatoria delle opere
edilizie.
...
Reati urbanistici – Dolo intenzionale – Elemento psicologico
– Criteri di valutazione della sussistenza – Macroscopiche
violazioni di legge – Rilascio o proroghe del provvedimento
abilitativo – Esperienza professionale – Art. 323 cod. pen.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Limiti del sindacato della
Cassazione – Valutazione delle risultanze processuali.
In materia urbanistica, la sussistenza
dell’elemento psicologico può emergere, essenzialmente,
dalla reiterazione proseguita nell’arco degli anni, nel
rilascio del provvedimento abilitativo e delle susseguenti
proroghe pur nella consapevolezza, derivante dalla
conoscenza dei luoghi e dalla indubbia esperienza
professionale, delle macroscopiche violazioni di legge
derivanti dal contrasto con le n.t.a. e con il vincolo di in
edificabilità e dalle caratteristiche dell’opera assentita.
A ciò si aggiunga che, il sindacato della Cassazione
continua a restare quello di sola legittimità sì che esula
dai poteri della stessa quello di una rilettura degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche
laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più
adeguata valutazione delle risultanze processuali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2019 n. 42106 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Reato di lottizzazione – Concorso nel reato urbanistico –
Componente della commissione edilizia – Responsabilità a
titolo di concorso dell’extraneus nel reato proprio –
Parere favorevole al rilascio della concessione edilizia –
Elementi oggettivi e soggettivi necessari – Artt. 27, 29, 30
e 44 del d.P.R. n. 380/2001.
E’ indubbio che nel reato “proprio” di
cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 –i cui autori sono
individuati, dall’art. 29 d.P.R. n. 380 del 2001, e,
anteriormente, dall’art. 6 della In. 47 del 1985, nel
committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori–
ben possa concorrere anche l’extraneus, ovvero colui che non
rivesta le qualifiche richieste dalla legge.
E’ tuttavia necessario, che vengano accertate le condizioni,
sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere
configurabile il concorso nel reato, dovendosi cioè
verificare che l’extraneus abbia apportato, nella
realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e
consapevole. Pertanto, la partecipazione deve configurarsi,
al pari della condotta degli altri, in forma dolosa, quale
“cosciente e volontaria partecipazione al piano
lottizzatorio”, rimanendo escluso un contributo meramente
colposo ad un’attività certamente dolosa delle parti
principali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.10.2019 n. 42105 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Trasformazione urbanistica ed
edilizia di terreno destinato ad uso agricolo – Area adibita
a campeggio e piazzole con sovrastanti roulottes – Confisca
dell’area – Artt. 3, 10, 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001 – Artt.
169 e 181 del d.lgs. n. 42/42004 – Artt. 54, 55 e 1161 c.
nav.
Si configura il reato di lottizzazione
abusiva la realizzazione, all’interno di un’area adibita a
campeggio, di una struttura ricettiva che presenta le
caratteristiche di un insediamento residenziale stabile,
posto che il campeggio presuppone allestimenti e servizi
finalizzati alla sosta o ad un soggiorno occasionale e
limitato nel tempo, comportando di contro una siffatta
struttura il sostanziale stravolgimento dell’originario
assetto definito mediante pianificazione e ciò
indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati,
dalle caratteristiche costruttive o dalla agevole
rimovibilità dell’opera
(Cass., Sez. 3, n. 8970 del 23/01/2019, Scifoni).
...
La condotta nel reato di lottizzazione abusiva materiale –
Presupposti – Modifica urbanistica dei terreni in zona non
adeguatamente urbanizzata – Assenza di qualunque intervento
programmatorio.
Integra il reato di lottizzazione
abusiva materiale “qualunque condotta che comporti una
modificazione edilizia od urbanistica dei terreni in una
zona non adeguatamente urbanizzata, la quale conferisca ad
una porzione di territorio comunale un assetto differente in
assenza di qualunque intervento programmatorio da parte
della competente Autorità” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2019 n. 41941 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva “mista” – Natura di reato
progressivo – Individuazione del momento consumativo del
reato – Compimento dell’ultimo atto integrante la condotta
illecita – Stipulazione di atti di trasferimento –
Esecuzione di opere di urbanizzazione – Ultimazione dei
manufatti – Computo dei termini prescrizionali – Fattispecie
– Artt. 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il momento consumativo del reato di
lottizzazione abusiva “mista” (consistente, come nel caso di
specie, nella formazione di singoli lotti, nell’esecuzione
di opere di urbanizzazione e nella vendita delle unità
abitative), si individua, per tutti coloro che concorrono o
cooperano nel reato, nel compimento dell’ultimo atto
integrante la condotta illecita, che può consistere nella
stipulazione di atti di trasferimento, nell’esecuzione di
opere di urbanizzazione o nell’ultimazione dei manufatti che
compongono l’insediamento, con la conseguenza che,
trattandosi di reato progressivo cui si applica la
disciplina del reato permanente, ai fini del calcolo del
tempo necessario per la prescrizione, non è rilevante per il
concorrente il momento in cui è stata tenuta la condotta di
partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può
intervenire anche a notevole distanza di tempo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.10.2019 n. 41609 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia
stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione
costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio
necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche
di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo
paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi
applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva
e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto
paesaggistico circostante..
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione
di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.”
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca
visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di
“visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può
ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità
dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto
paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità
amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione
effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento.
---------------
1. Il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordinanza di
demolizione e ripristino adottata dal Comune di Lumezzane a seguito
dell’accertamento della realizzazione, in difformità rispetto al titolo
edilizio, di un sopralzo del sottotetto di una porzione del fabbricato di
proprietà dei ricorrenti.
...
16. Con l’ultimo motivo è denunciata l’inconferenza del richiamo,
contenuto nella motivazione del provvedimento avversato, alla localizzazione
del manufatto in area soggetta a vincolo paesistico ai sensi dell’articolo
142, comma 1, lett. c), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Secondo i ricorrenti la difformità nella realizzazione del sopralzo non
creerebbe infatti alcun danno al bene tutelato, ovvero al fiume nella cui
fascia di rispetto si trova l’abitazione, non incidendo in alcun modo sul
suo alveo, sulla regimazione delle acque o sulla loro portata e deflusso.
Aggiungono che l’immobile in questione non ha alcun valore storico,
tipologico, simbolico e ha uno scarso valore percettivo.
17. La doglianza è priva di pregio.
18. Va evidenziato, infatti, che in presenza di un vincolo paesaggistico,
ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere
da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche
ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche
di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo
paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi
applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva
e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto
paesaggistico circostante (TAR Campania, Napoli, sez. III, 29.05.2019, n.
2881).
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di
demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.”
19. Inoltre quanto alla supposta irrilevanza paesistica dell’opera, “la
giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca
visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di
“visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può
ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità
dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto
paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato” (TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2019, n. 1523).
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità
amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione
effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.10.2019 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine
decadenziale poiché è orientamento costante della giurisprudenza
amministrativa quello secondo cui le opere realizzate senza titolo (quindi
abusive) costituiscono illecito permanente, salve le rare ipotesi (che qui
non vengono dedotte) in cui può essere salvaguardato l’affidamento del
privato rispetto all’atteggiamento ingiustificatamente inerte serbato per
lunghissimo tempo dell’amministrazione pubblica.
---------------
Riguardo al secondo profilo di doglianza, va ricordato che, in materia di
repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine
decadenziale, poiché è orientamento costante della giurisprudenza
amministrativa (anche di questo Tribunale), quello secondo cui le opere
realizzate senza titolo (quindi abusive) costituiscono illecito permanente,
salve le rare ipotesi (che qui non vengono dedotte) in cui può essere
salvaguardato l’affidamento del privato rispetto all’atteggiamento
ingiustificatamente inerte serbato per lunghissimo tempo
dell’amministrazione pubblica (cfr. tra le ultime, TAR Marche, 26/04/2019 n.
270; 27/04/2018 n. 318; 20/02/2015 n. 141)
(TAR Marche,
sentenza 04.10.2019 n. 620 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione da parte dei ricorrenti di un’istanza di “permesso di
costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica
acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e
smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità
del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
---------------
Il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380
è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed
ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la
doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della
domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto
che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di
sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto
edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità
non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò
significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul
quale ha chiesto il permesso di costruire.
---------------
2.1 Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Preliminarmente, quanto all’assoggettabilità degli interventi al previo
rilascio del permesso di costruire, la presentazione da parte dei medesimi
ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria
postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto
alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la
sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato
ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
In ogni caso parte ricorrente, nel riconoscere la non conformità del
manufatto alla normativa urbanistico edilizia vigente nel Comune di
Fossacesia, ha dichiarato, inammissibilmente, di voler ottenere una
sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 condizionata alla “riconduzione
a conformità” dell’intervento abusivo con caratteristiche diverse sì da
renderlo assentibile ai sensi della locale disciplina urbanistica ed
edilizia.
Una tale domanda non è all’evidenza riconducibile allo schema legale tipico
della sanatoria di cui all’art. 36 d.p.r. n. 38072001 che presuppone il
completamento e l’ultimazione dell’intervento in tutte le sue componenti sì
da renderne verificabile la doppia conformità prima della definizione della
istanza e non successivamente.
Ed infatti, il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti
completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal
momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione
della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del
manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda
di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto
edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità
non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò
significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul
quale ha chiesto il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V,
11.10.2005, n. 5495)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza del tutto consolidata, l'impugnativa del provvedimento di
acquisizione gratuita, non preceduta dalla tempestiva impugnazione
dell'ordinanza di demolizione relativa ad opere abusive, nonché del diniego
di sanatoria delle medesime, comporta che non possano essere denunciati
eventuali vizi di tale atto presupposto in sede di gravame avverso l'atto
applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto
essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento
di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di
acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di
sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura
acquisitiva.
---------------
CONSIDERATO:
- che l'impugnata constatazione di inottemperanza con acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate
costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione, né in senso
ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza di motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante
l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della
misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché
risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed
elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche.
Per giurisprudenza del tutto consolidata -da cui il Tar non ravvisa ragioni
per discostarsi- l'impugnativa del provvedimento di acquisizione gratuita,
non preceduta dalla tempestiva impugnazione dell'ordinanza di demolizione
relativa ad opere abusive, nonché del diniego di sanatoria delle medesime,
comporta che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto
presupposto in sede di gravame avverso l'atto applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto
essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento
di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di
acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di
sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura
acquisitiva (ex multis,Tar Umbria, 20.06.2017, n. 470; Tar Emilia
Romagna, Bologna, II, 13.05.2015, n. 458; Tar Campania, Napoli, III,
03.02.2015, n. 640; Tar Puglia, Bari, III, 16.05.2014, n. 621)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.10.2019 n. 231 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune
dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione
dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo
estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «L'interesse, quale condizione di ammissibilità
dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una
decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una
situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di
richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di
opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente).
---------------
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa
di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione
stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le
sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
---------------
La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di
demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può,
infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la
confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani
completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione
in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione.
Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della
legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a
terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale
acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze
della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti
del venditore.
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione
abusiva alla demolizione dell'opera non rileva,
pertanto, per la considerazione della violazione di norme
interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia
all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
Inoltre il tempo potrebbe rilevare solo per un
eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative.
---------------
In
materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine
di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale
ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di
sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria
del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul
soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del
principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande
Stevens c. Italia del 04.03.2014.
---------------
5. Il ricorso è inammissibile, principalmente per mancanza di interesse in
quanto l'immobile è stato acquisito al patrimonio del Comune (come
evidenziato dalla stessa ricorrente nel ricorso in cassazione e nella
memoria di replica) e, comunque, per manifesta infondatezza dei motivi (art.
606, comma 3, del cod. proc. pen.).
5.1. L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile
del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal
giudice con la sentenza di condanna, e con la sua successiva esecuzione ad
opera del Pubblico ministero, ostandovi soltanto la delibera consiliare che
abbia stabilito l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento
delle opere abusive. (Sez. 3, n. 1904 del 18/12/2006 - dep. 23/01/2007,
Turianelli, Rv. 235645).
L'acquisizione al patrimonio del Comune come principale effetto fa venire
meno l'interesse della ricorrente alla revoca o alla sospensione dell'ordine
di demolizione. Il bene, infatti, ormai è di proprietà del Comune e sullo
stesso nessun interesse giuridico può essere rivendicato dalla ricorrente,
responsabile dell'illecito edilizio (in tal senso già Sez. 3, 07.03.2017 -
udienza del 06.10.2016 - n. 10964, Brio, non massimata e Sez. 3, n. 45432
del 25/05/2016 - dep. 27/10/2016, Ligorio, Rv. 26813301; vedi ora
espressamente Sez. 3, del 01.08.2019, n. 35203, Centioni, non massimata).
Può, quindi, esprimersi il seguente principio di diritto: «In
tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune
dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione
dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo
estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «L'interesse, quale condizione di ammissibilità
dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una
decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una
situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di
richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di
opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente)»
(Sez. 3, n. 24272 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Abagnale, Rv. 24768501;
vedi anche Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016 - dep. 28/04/2016, Conte, Rv.
26717201).
6. Comunque il ricorso è manifestamente infondato anche nel merito, poiché in materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa
di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione
stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le
sanzioni pecuniarie con finalità punitiva
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv. 264736;
Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011, Mercurio e altro, Rv.
250336).
6.1. La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di
demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può,
infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la
confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani
completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione
in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione
(vedi Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti; Cass. Sez. 3, 11/02/2016,
n. 5708, Wolgar).
6.2. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della
legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a
terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale
acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze
della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti
del venditore (Sez. 3, 28/03/2007,
n. 22853, Coluzzi).
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione
abusiva alla demolizione dell'opera non rileva,
pertanto, per la considerazione della violazione di norme
interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia
all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
6.3. Inoltre il tempo potrebbe rilevare solo per un
eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative,
ma tale prospettazione risulta assente nel ricorso e genericamente
richiamata (senza nessuna specificazione) nella memoria di replica.
Le questioni personali e familiari della ricorrente non sono rappresentate,
quindi, a questa Corte, che pertanto non può verificare (in linea del tutto
teorica, stante l'inammissibilità del ricorso, per mancanza di motivi
specifici -autosufficienza-) l'incidenza sul caso della recente sentenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo del 21.04.2016, Ivanova e
Cherkezov V/Bulgaria, ricorso 46577/15. La violazione o no, nella
fattispecie concreta, dell'art. 8 della convenzione europea, sotto il
profilo della proporzionalità, tra l'abuso -se di dimensioni tali da farlo
ritenere di necessità- e gli interessi generali della comunità al rispetto
delle norme.
7. Non sussiste neanche una violazione del principio del ne bis in idem,
e conseguentemente di esecuzione di un giudicato ingiusto, come già deciso
da questa Corte di Cassazione con decisione che deve riaffermarsi: «In
materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine
di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale
ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di
sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria
del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul
soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del
principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande
Stevens c. Italia del 04.03.2014»
(Sez. 3, n. 51044 del 03/10/2018 - dep. 09/11/2018, M, Rv. 27412801)
(Corte di cassazione, Sez. II penale,
sentenza 02.10.2019 n. 40396).
---------------
Al riguardo sei legga anche:
● L. B. Molinaro,
Dopo la Corte
Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità” (28.10.2019
- link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto
e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; la
stessa, pertanto, non richiede la previa comunicazione di
avvio del procedimento.
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta
dall'art. 21-octies L. n. 241/1990, nei procedimenti
preordinati all'emanazione delle ordinanze di demolizione di
opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo
di comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in
materia di sanzioni edilizie dovuta- non ha effetti
invalidanti, specie quando emerga che il contenuto del
provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello
in concreto adottato.
---------------
L'ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto e
vincolato, per la cui adozione non è necessaria una
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto, nonché all'individuazione ed alla
qualificazione degli abusi edilizi.
Invero, ''l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto
e vincolato che, in linea generale, non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto nonché all'individuazione ed alla
qualificazione degli abusi edilizi. L'Amministrazione,
quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la
sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale,
alla repressione dell'abuso né ad effettuare una
comparazione con l'interesse privato alla conservazione del
manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico
alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della
legalità'.
---------------
Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, secondo
altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo
lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto
sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non
elide l’esercizio del potere di contrasto degli interventi
abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale
circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse
pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il
consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza
di una situazione giuridicamente illecita, la quale non può
ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del
tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun
termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a
notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso
edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola
ricognizione dei suoi presupposti.
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato ha
rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001,
introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l.
12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la mancata o tardiva
emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le
responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione
della performance individuale, nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del
funzionario inadempiente” il decorso del tempo dal momento
del commesso abuso- non priva giammai l'Amministrazione del
potere di adottare l’ingiunzione a demolire, configurando
piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di
responsabilità in capo al dirigente o al funzionario
imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un
atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
---------------
Infondato è il primo motivo.
Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza
di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto,
non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento (cfr., ex multis, questa Sezione,
03.10.2018, n. 5782; 17.09.2018, n. 5510; TAR Liguria, sez.
I, 22.04.2011 n. 666; Cons. Stato, sez. IV, 06.02.2013 n.
666, 06.06.2011 n. 3398; Idem, sez. VI, 02.02.2015 n. 466).
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta
dall'art. 21-octies L. n. 241/1990, nei procedimenti
preordinati all'emanazione delle ordinanze di demolizione di
opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo
di comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in
materia di sanzioni edilizie dovuta- non ha effetti
invalidanti, specie quando emerga che il contenuto del
provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello
in concreto adottato (Cfr., ex multis, Cons. Stato,
sez. VI, 12.08.2016 n. 3620; questa Sezione, 26.06.2013 n.
3328; TAR Liguria, sez. I, 22.04.2011 n. 666).
...
4.- Infondati sono il terzo ed il sesto motivo
che, per ragioni di connessione, possono ricevere
trattazione congiunta.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, anche
di questa Sezione, l'ordinanza di demolizione costituisce un
atto dovuto e vincolato, per la cui adozione non è
necessaria una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione dei presupposti di fatto, nonché
all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi
edilizi (cfr., per tutte, di questa Sezione, sentenze
01.03.2019, n. 1162 e 07.11.2017 n. 5212, secondo cui: ''l'ordinanza
di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in
linea generale, non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché
all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi
edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere
ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse
pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso
né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al
ripristino della legalità (ex multis, Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.02.2017, n. 908; TAR Campania, Napoli, sez. VI,
21.06.2017, n. 3377)''.
Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, secondo
altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo
lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto
sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi
non elide l’esercizio del potere di contrasto degli
interventi abusivi né impone un più stringente obbligo
motivazionale circa il permanere del carattere di attualità
dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è
ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di
tutela in costanza di una situazione giuridicamente
illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto
del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun
termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a
notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso
edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola
ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato, sez. VI,
03.10.2017, n. 4580).
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato
(17.10.2017, n. 9), ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis,
d.p.r. n. 380/2001, introdotto dal comma 1, lettera q-bis),
dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la
mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio,
fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento
di valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente” il decorso del
tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a
demolire, configurando piuttosto specifiche e diverse
conseguenze in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il
ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 02.10.2019 n. 4706 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ingiunzione
a demolire costituisce, anche rispetto alla fattispecie di
cui all'art. 33 d.p.r. 380/2001, la prima ed obbligatoria
fase del procedimento repressivo e sanzionatorio.
La norma in argomento individua, infatti, come prima
soluzione sanzionatoria, proprio quella dell’abbattimento e
del ripristino, a conferma della gravità dell'abuso e della
previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo
stesso è subordinato.
La stessa prevede al più la possibilità, qualora emergano
difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione,
di irrogare la sanzione pecuniaria.
Questa evenienza rileva, tuttavia, solo nella fase
esecutiva, sicché la sua assenza nell'ordinanza di
demolizione -al pari dell'eventuale presenza circa gli
impedimenti tecnici a demolire- non costituisce vizio
dell’ordinanza medesima.
L’art. 34, a sua volta, riguardante gli interventi eseguiti
in parziale difformità dal titolo edilizio, ha una portata
dispositiva sostanzialmente analoga.
E’ comunque onere dell’interessato chiederne l’applicazione
in proprio favore, fornendo seria e idonea dimostrazione del
pregiudizio paventato per la struttura e l'utilizzo del bene
residuo, poiché, in quanto autore dell'opera e del progetto,
è a conoscenza di come quest’ultimo è stato eseguito e di
quali danni potrebbero prodursi, a seguito della
demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
---------------
5.- Infondato è infine il quarto motivo.
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, l'ingiunzione a
demolire costituisce, anche rispetto alla fattispecie di cui
all'art. 33 d.p.r. 380/2001, la prima ed obbligatoria fase
del procedimento repressivo e sanzionatorio.
La norma in argomento individua, infatti, come prima
soluzione sanzionatoria, proprio quella dell’abbattimento e
del ripristino, a conferma della gravità dell'abuso e della
previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo
stesso è subordinato.
La stessa prevede al più la possibilità, qualora emergano
difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione,
di irrogare la sanzione pecuniaria.
Questa evenienza rileva, tuttavia, solo nella fase
esecutiva, sicché la sua assenza nell'ordinanza di
demolizione -al pari dell'eventuale presenza circa gli
impedimenti tecnici a demolire- non costituisce vizio
dell’ordinanza medesima (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
19.02.2018, n. 1063; Id., 10.11.2017, n. 5180; sez. VI,
21.11.2016, n. 4855; questa Sezione, 14.03.2018, n. 1613).
L’art. 34, a sua volta, riguardante gli interventi eseguiti
in parziale difformità dal titolo edilizio, ha una portata
dispositiva sostanzialmente analoga.
E’ comunque onere dell’interessato chiederne l’applicazione
in proprio favore, fornendo seria e idonea dimostrazione del
pregiudizio paventato per la struttura e l'utilizzo del bene
residuo, poiché, in quanto autore dell'opera e del progetto,
è a conoscenza di come quest’ultimo è stato eseguito e di
quali danni potrebbero prodursi, a seguito della
demolizione, in pregiudizio della parte conforme (ex
ceteris, TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.02.2017, n.
1137; id., 05.12.2016, n. 5620; id., 02.11.2016, n. 5022; id.,
11.10.2016, n. 4667; id., 22.11.2013, n. 5317; Cons. Stato,
sez. V, 05.09.2011, n. 4982) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 02.10.2019 n. 4706 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistico-edilizi – Opere accessorie e complementari
e superfetazioni successive – Carattere abusivo
dell’originaria costruzione – Abusiva prosecuzione delle
opere – Inesistenza di un titolo – Ordine di demolizione –
Restitutio in integrum dello stato dei luoghi – Art.
31, c. 9, D.P.R. n. 380/2001 (T.U.E.) – Giurisprudenza.
In materia urbanistica, a prescindere
dall’inesistenza di un titolo che disponga la demolizione
delle opere abusive successivamente eseguite, quando queste
non siano fisicamente separate dall’originaria opera di cui
è stata ingiunta la demolizione, vale il principio secondo
cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto
dall’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda
l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali
aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione
penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di
demolizione si configura come un dovere di “restitutio in
integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non
avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente
contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché
le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il
carattere abusivo dell’originaria costruzione
(Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Molinari,
relativa ad un caso in cui il giudice dell’esecuzione, con
provvedimento ritenuto legittimo, aveva respinto la
richiesta, formulata dal proprietario del piano primo di un
edificio, di revoca o modifica dell’ordine di demolizione
del piano terreno, disposto con sentenza nei confronti del
responsabile dell’abuso; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011,
Apuzzo, concernente un’ipotesi in cui sul manufatto abusivo
erano stati eseguiti interventi che ne avevano determinato
ulteriori aumenti volumetrici; Sez. 3, n. 2872 del
11/12/2008, dep. 2009, Corimbi) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2019 n. 40074 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ciò
che viene sanzionato -nella misura massima
di € 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé
considerato (nel qual caso, evidentemente,
rileverebbe la consistenza e l'entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata
spontanea ottemperanza all'ordine di
demolizione legittimamente impartito dalla
P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi
macroscopici, sia nell'ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è
l'inottemperanza all'ingiunzione di
ripristino (legittimamente impartita dalla
P.A.) inerente agli abusi in quelle
particolari (e circoscritte) "aree"
ed in quei particolari (e circoscritti)
"edifici" specificamente indicati nell'art.
27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del
2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che
l’abuso sia stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della norma, non
avendo la ricorrente provveduto alla
demolizione dopo l’entrata in vigore della
norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in
simili casi, di una violazione del principio
di irretroattività delle norme che
introducono misure sanzionatorie si è
espresso di recente il Consiglio di Stato, assegnando rilievo
decisivo alla circostanza che la mancata
esecuzione dell’ordine di demolizione si
collochi in epoca successiva all’entrata in
vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis.
---------------
D. Con il terzo ricorso per motivi
aggiunti la ricorrente ha impugnato
l'ordinanza comunale n. 3 del 16.11.2017,
notificata in data 17.11.2017, recante
irrogazione di sanzione pecuniaria ex art.
31, comma 4-bis, del DPR 380/2001 nella
misura massima pari ad € 20.000,00, e la
delibera di giunta comunale n. 217 del
30.10.2017 recante approvazione dei criteri
per la determinazione ed applicazione delle
sanzioni ex art. 31, comma 4-bis, del DPR
380/2001.
Il motivo n. 11), di invalidità derivata è
infondato a causa della reiezione di tutti i
motivi precedenti.
Anche il motivo n. 12), secondo il quale la
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31,
comma 4-bis, del DPR 380/2001 non può essere
applicata ad abusi realizzati prima
dell'entrata in vigore della stessa, è
infondato.
La giurisprudenza alla quale il Collegio si
conforma (TAR Campania, Salerno, Sez. I n.
1045 del 06.07.2018) ha chiarito che ciò che
viene sanzionato -nella misura massima di
Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è
la realizzazione dell'abuso edilizio in sé
considerato (nel qual caso, evidentemente,
rileverebbe la consistenza e l'entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata
spontanea ottemperanza all'ordine di
demolizione legittimamente impartito dalla
P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi
macroscopici, sia nell'ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è
l'inottemperanza all'ingiunzione di
ripristino (legittimamente impartita dalla
P.A.) inerente agli abusi in quelle
particolari (e circoscritte) "aree"
ed in quei particolari (e circoscritti)
"edifici" specificamente indicati nell'art.
27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del
2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che
l’abuso sia stato realizzato prima
dell’entrata in vigore della norma, non
avendo la ricorrente provveduto alla
demolizione dopo l’entrata in vigore della
norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in
simili casi, di una violazione del principio
di irretroattività delle norme che
introducono misure sanzionatorie si è
espresso di recente il Consiglio di Stato (Sez.
VI, 16/04/2019 n. 2484), assegnando rilievo
decisivo alla circostanza che la mancata
esecuzione dell’ordine di demolizione si
collochi in epoca successiva all’entrata in
vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 2088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di acquisizione di opere
abusive al patrimonio comunale ha come unico
presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione, con la conseguenza
che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso
non è subordinato ad alcuna valutazione
sulla compatibilità delle opere con gli
interessi urbanistici e ambientali e
sull'utilizzabilità delle stesse a fini
pubblici, e risulta sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura
sanzionatoria, rientra nella competenza
dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3,
del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono
attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di
attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati
dai medesimi organi, tra i quali in
particolare, secondo le modalità stabilite
dallo statuto o dai regolamenti dell'ente:
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei
lavori, abbattimento e riduzione in pristino
di competenza comunale, nonché i poteri di
vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in
materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa
ha chiarito che “decorso
infruttuosamente il termine di novanta
giorni dalla notificazione dell'ordinanza di
demolizione della costruzione abusiva, se
l'inottemperanza non sia giustificata, si
verifica automaticamente l'acquisizione al
patrimonio del comune di tale costruzione,
nonché dell'area di sedime e di quella
ulteriore necessaria ai fini
urbanistico-edilizi; la suddetta
acquisizione al patrimonio del Comune, si
precisa, è infatti atto dovuto sottoposto
esclusivamente all'accertamento della
volontaria inottemperanza e del decorso dei
termini prescritti”.
L’esclusione della competenza consiliare si
radica quindi nel fatto che l’acquisto è un
effetto ex lege che sottrae tale tipo
di acquisto alle scelte discrezionali
fondamentali riservate al consiglio comunale
dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato
che il provvedimento dirigenziale di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere abusive nonché del terreno
sottostante e circostante costituisce atto
dichiarativo dell'intervenuta acquisizione ex lege
in conseguenza dell'inutile decorso del
termine fissato dall'art. 7 della l. n. 47
del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza
all'ingiunzione di demolizione.
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la
giurisprudenza riconosce anche la natura
sanzionatoria del medesimo atto. Infatti
l'acquisizione gratuita al patrimonio del
comune dell'area sulla quale insiste la
costruzione abusiva non è una misura
strumentale per consentire al Comune di
eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, bensì costituisce una
sanzione autonoma che consegue ad un duplice
ordine di condotte, poste in essere da chi,
dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non
adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare
l'ulteriore area che può essere acquisita in
quanto «necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può
comportare il mutamento della natura
dell’atto in considerazione della natura di
accertamento tecnico della scelta da
effettuare. L’acquisizione al patrimonio
comunale degli immobili abusivi rientra
quindi tra le competenze gestionali della
dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può
radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c.
5, del DPR 380/2001, in un momento
successivo in quanto, dopo l’adozione
dell’ordinanza di demolizione e
dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio
di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'opera abusiva, come
conseguenza della mancata esecuzione
dell'ordine di demolizione, residua
l'eventualità che il Consiglio Comunale
possa, con apposita delibera, escludere la
demolizione dell'opera acquisita al
patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza
di prevalenti interessi pubblici al suo
mantenimento e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi
urbanistici) e si configura quale
alternativa all'ulteriore ordinanza di
demolizione in danno delle opere abusive
gratuitamente acquisite.
---------------
E. Venendo all’esame del quarto ricorso
per motivi aggiunti, con cui la ricorrente
ha impugnato l’acquisizione dell’immobile al
patrimonio comunale e l’ordine di sgombero
dei locali, il motivo n. 14), di invalidità
derivata, è infondato, a seguito della
reiezione dei precedenti motivi.
Il motivo n. 15), fondato sull’incompetenza
del dirigente ad adottare un provvedimento
di acquisizione gratuita dell’immobile al
patrimonio comunale, è infondato.
Il provvedimento di acquisizione di opere
abusive al patrimonio comunale ha come unico
presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione, con la conseguenza
che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso
non è subordinato ad alcuna valutazione
sulla compatibilità delle opere con gli
interessi urbanistici e ambientali e
sull'utilizzabilità delle stesse a fini
pubblici, e risulta sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata
inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura
sanzionatoria, rientra nella competenza
dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3,
del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono
attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di
attuazione degli obiettivi e dei programmi
definiti con gli atti di indirizzo adottati
dai medesimi organi, tra i quali in
particolare, secondo le modalità stabilite
dallo statuto o dai regolamenti dell'ente:
g) tutti i provvedimenti di sospensione dei
lavori, abbattimento e riduzione in pristino
di competenza comunale, nonché i poteri di
vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in
materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, sez. V 26.01.2000, n.
341) ha chiarito che “decorso
infruttuosamente il termine di novanta
giorni dalla notificazione dell'ordinanza di
demolizione della costruzione abusiva, se
l'inottemperanza non sia giustificata, si
verifica automaticamente l'acquisizione al
patrimonio del comune di tale costruzione,
nonché dell'area di sedime e di quella
ulteriore necessaria ai fini
urbanistico-edilizi; la suddetta
acquisizione al patrimonio del Comune, si
precisa, è infatti atto dovuto sottoposto
esclusivamente all'accertamento della
volontaria inottemperanza e del decorso dei
termini prescritti” (Sez. V, 23.01.1991,
n. 66; cfr. anche Sez. V, 20.04.1994, n.
333).
L’esclusione della competenza consiliare si
radica quindi nel fatto che l’acquisto è un
effetto ex lege che sottrae tale tipo
di acquisto alle scelte discrezionali
fondamentali riservate al consiglio comunale
dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato
che il provvedimento dirigenziale di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere abusive nonché del terreno
sottostante e circostante costituisce atto
dichiarativo dell'intervenuta acquisizione
ex lege in conseguenza dell'inutile
decorso del termine fissato dall'art. 7
della l. n. 47 del 1985 al trasgressore per
l'ottemperanza all'ingiunzione di
demolizione (TAR Sicilia, Palermo, III,
02/08/2018 n. 1745; TAR Sicilia, Palermo,
Sez. II, 04.06.2012, n. 4610).
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la
giurisprudenza riconosce anche la natura
sanzionatoria del medesimo atto. Infatti
l'acquisizione gratuita al patrimonio del
comune dell'area sulla quale insiste la
costruzione abusiva non è una misura
strumentale per consentire al Comune di
eseguire la demolizione, né una sanzione
accessoria di questa, bensì costituisce una
sanzione autonoma che consegue ad un duplice
ordine di condotte, poste in essere da chi,
dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non
adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare
l'ulteriore area che può essere acquisita in
quanto «necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può
comportare il mutamento della natura
dell’atto in considerazione della natura di
accertamento tecnico della scelta da
effettuare. L’acquisizione al patrimonio
comunale degli immobili abusivi rientra
quindi tra le competenze gestionali della
dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può
radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c.
5, del DPR 380/2001, in un momento
successivo in quanto, dopo l’adozione
dell’ordinanza di demolizione e
dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio
di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'opera abusiva, come
conseguenza della mancata esecuzione
dell'ordine di demolizione, residua
l'eventualità che il Consiglio Comunale
possa, con apposita delibera, escludere la
demolizione dell'opera acquisita al
patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza
di prevalenti interessi pubblici al suo
mantenimento e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi
urbanistici) e si configura quale
alternativa all'ulteriore ordinanza di
demolizione in danno delle opere abusive
gratuitamente acquisite (cfr., ex multis,
Tar Campania, Napoli, IV, 23/05/2019 n.
2758)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 2088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non
richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione
che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le
dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra
esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831
cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del
manufatto".
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Secondo la costante giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1,
d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti,
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione
certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti
urbanistici vigenti.
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Per pacifico principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un
immobile abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come
dotato di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la
descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro abusività.
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Il sig. -OMISSIS- ha impugnato l’ordinanza n. -OMISSIS-con cui il Comune di
-OMISSIS- gli ha ordinato di rimuovere una recinzione e il provvedimento del
-OMISSIS-, di inibitoria della scia in sanatoria, presentata il 04.03.2014, articolando le seguenti doglianze: ...
...
Le censure non sono fondate.
Per giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non
richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione
che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le
dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra
esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831
cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del
manufatto" (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 14.06.2018, n. 3661).
Nel caso di specie, la circostanza che la recinzione sia costituita da
blocchi prefabbricati in calcestruzzo è già di per sé sola sufficiente ad
escludere l’assenza di modifica dell’assetto del territorio.
Non può neppure ritenersi che l’opera in questione sia realizzabile in forza
di una scia e che trovi conseguentemente applicazione la sola sanzione
pecuniaria.
L’opera contrasta, difatti, con la previsione di cui all’art. 51, c. 3, delle nta, secondo cui nelle zone urbanistiche EE le recinzioni fisse devono
essere realizzate integralmente in legno o con montanti in legno
direttamente infissi nel ruolo e rete metallica di altezza non superiore a
150 cm.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, quanto contestato con i
provvedimenti impugnati circa le caratteristiche costruttive della
recinzione realizzata dal sig. -OMISSIS- in zona agricola non deriva da mere
valutazioni estetiche dell’amministrazione ma è previsto in una disposizione
vincolante, contenuta nelle nta del prg.
Deve, pertanto, escludersi che potesse essere irrogata la sola sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria: secondo la costante
giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1,
d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti,
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione
certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti
urbanistici vigenti (Cons. Stato Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873; Tar Piemonte,
sent. n. 70/2019; n. 1296/2018).
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato –in un
contesto in cui la scia è stata presentata dal sig. -OMISSIS- a fronte di
lavori già eseguiti ed a seguito della comunicazione di avvio del
procedimento demolitorio– e della correttezza del contenuto dispositivo dei
provvedimenti impugnati, la censura con cui viene dedotta la violazione del
principio del contraddittorio non può portare all’annullamento della nota
con cui il Comune si è pronunciato sulla scia del 04.03.2014, così come
previsto dall’art. 21-octies, l. n. 241/1990.
Non sussiste, infine, il lamentato difetto di motivazione: per pacifico
principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come dotato
di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la descrizione
delle opere abusive e la constatazione della loro abusività (cfr., fra le
tante, Consiglio di Stato sez. VI, 30/04/2019, n. 2823).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è esente da questo vizio,
indicando con precisione l’opera abusiva e le disposizioni violate, senza
che assuma alcun rilievo il richiamo ad un parere, pur non necessario.
Per le ragioni esposte il ricorso è, dunque, infondato e deve essere
respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.09.2019 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Attività che comporti il pericolo di
un’urbanizzazione non prevista o diversa da quella
programmata – Integrazione del reato – Differenza tra
lottizzazione abusiva e mero abuso edilizio – Illegittima
trasformazione urbanistica od edilizia del territorio – Artt.
30 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di lottizzazione abusiva è
integrato non soltanto dalla trasformazione effettiva del
territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente
comporti anche solo il pericolo di un’urbanizzazione non
prevista, o diversa da quella programmata, in generale va
ricordato che, per integrare il reato di lottizzazione
abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria
una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del
territorio, di consistenza tale da incidere in modo
rilevante sull’assetto urbanistico della zona; ne consegue
che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le
opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente
punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a) e b), d.P.R. n. 380
del 2001, ovvero se esse siano idonee a conferire all’area
un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità
di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare
quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative
scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.09.2019 n. 39332 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Esecuzione di lavori in
terreni vincolati – Cambio destinazione d’uso - Manufatti da
rurale a residenziale – Assenza dell’autorizzazione
paesaggistica – Reati paesaggistici – Differenza tra
difformità parziale e totale – Irrilevanza – Disciplina
urbanistica e paesaggistica – Art. 181, D.Leg.vo 42/2004 –
Configurabilità.
La disposizione contenuta all’art. 181,
D.Leg.vo 42/2004 punisce l’esecuzione dei lavori in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica «o in difformità di essa»,
senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di
difformità parziale e totale rilevante invece nella
disciplina urbanistica.
Ai soli fini del reato urbanistico, integra l’ipotesi di
difformità totale c.d. qualitativa che, per l’art. 31, comma
1, prima parte, T.U.E. ricorre quando gli interventi
«comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche,
planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del
permesso stesso».
Sia per quanto riguarda le caratteristiche tipologiche degli
organismi edilizi oggetto d’intervento (trasformazione da
depositi rurali ad edifici di civile abitazione) sia quanto
al conseguente diverso utilizzo –peraltro vietato dallo
strumento urbanistico– è indiscutibile che nel caso di
specie si sia realizzato quell’allud pro alio che integra
gli estremi della contravvenzione urbanistica ritenuta e non
possa parlarsi soltanto di parziale difformità
(Cass. Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e aa.).
...
Permesso di costruire – Assenza, totale difformità o
variazione essenziali – Ordinanza di sospensione dei lavori
– Ingiunzione a demolire – Art. 31, c. 3, T.U.E.
Nel caso interventi eseguiti in assenza
di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazione essenziali, il provvedimento richiamato dalla
norma è quello dell’ingiunzione a demolire di cui all’art.
31, comma 3, T.U.E.
Decorso il suddetto termine di quarantacinque giorni
dall’ordinanza di sospensione dei lavori, sia che venga
emanata l’ingiunzione a demolire (o altro provvedimento
previsto in caso di differente inosservanza), sia che il
comune non adotti invece alcun provvedimento, la sospensione
dei lavori perde efficacia, trattandosi di provvedimento
cautelare che il legislatore ha appunto costruito come
funzionale all’adozione, in tempi contenuti e
predeterminati, dei provvedimenti sanzionatori definitivi di
competenza dell’autorità amministrativa.
...
Reati edilizi – Direttore dei lavori – Responsabilità –
Assenza dal cantiere – Onere di vigilanza – Permane anche
dopo l’ordine di sospensione dei lavori – Dovere di
contestare le irregolarità riscontrate – Rinuncia
all’incarico da parte del tecnico – Cantiere sia sottoposto
a sequestro – Artt. 27, 29, 31 e 44 D.P.R. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l’assenza dal
cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi
commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l’onere
di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie
ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se
del caso rinunziando all’incarico.
Pertanto, l’obbligo di vigilanza che l’art. 29, D.P.R.
380/2001 pone in capo al direttore dei lavori circa la
conformità delle opere al permesso di costruire, con la
conseguente responsabilità penale nel caso di reati da altri
commessi senza che intervenga quella forma di dissociazione
prevista dal comma 2 della disposizione, permane sino a che
non venga comunicata la formale conclusione dell’intervento
ovvero sino a che il tecnico non rinunci all’incarico, e non
viene meno in caso di adozione dell’ordinanza di sospensione
dei lavori di cui all’art. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001
salvo che –e fintanto che– il cantiere sia sottoposto a
sequestro.
...
Conformità delle opere al permesso di costruire –
Responsabilità del Direttore dei lavori anche in caso di
assenza dal cantiere – Omessa (diligente) vigilanza –
GIURISPRUDENZA.
Sussiste, in capo al direttore dei
lavori una posizione di garanzia per il rispetto della
normativa urbanistica ed edilizia, addebitandogli le
conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta
esecuzione delle opere rispetto al permesso di costruire
(art. 29, comma 1, d.P.R. 380 del 2001), ed imponendogli
altresì di “dissociarsi” dalla condotta illecita da altri
commessa, anche se trattisi del suo stesso committente.
In particolare, «il direttore dei lavori non è responsabile
qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione
delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione
delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o
responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e
motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di
totale difformità o di variazione essenziale rispetto al
permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre
rinunciare all’incarico contestualmente alla comunicazione
resa al dirigente» (art. 29, comma 2, T.U.E.).
Se quest’ultima disposizione prevede una causa personale di
non punibilità che vale esclusivamente per il reato nella
forma omissiva e che consente al professionista di sfuggire
all’applicazione delle sanzioni qualora adempia alle
prescrizioni previste nel tassativo modello legale, essa
–letta unitamente alla norma contenuta nel primo comma–
individua invece una vera e propria posizione di garanzia
che fonda la penale responsabilità del direttore dei lavori
nel caso di condotta da altri commessa.
Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità oggettiva,
essendo sempre necessario che il tecnico, volutamente o per
negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone.
Certamente negligente è la condotta del direttore dei lavori
che si disinteressi del cantiere ove riveste tale formale
qualità (Sez. 3,
n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del
17/06/2010, Ponzio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38479 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Impugnazione proposta dal solo
imputato – Principio del divieto della “reformatio in
peius” Poteri e limiti del giudice di appello – Ipotesi
di aggravamento per specie o quantità della pena – Art. 597,
comma 3, cod. proc. pen. – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA –
Ordine di demolizione della costruzione abusiva – Pene
accessorie – Applicazione d’ufficio – BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI – Tutela dei beni paesaggistici e ambientali.
In tema di “reformatio in peius”, nel
caso di impugnazione proposta dal solo imputato,
l’ordinamento processuale impone al giudice di appello, di
attenersi alle ipotesi di aggravamento –per specie o
quantità– della pena, di applicazione di nuova o più grave
misura di sicurezza, di pronunzia di proscioglimento con
formula meno favorevole o di revoca di benefici; in detto
divieto non è compreso l’ordine di demolizione della
costruzione abusiva, impartito dal giudice ai sensi
dell’art. 7 legge 28.02.1985 n. 47 (oggi D.P.R. n.
380/2001), trattandosi non di pena accessoria, ma di
sanzione amministrativa di tipo ablatorio, consequenziale
alla sentenza di condanna e la cui irrogazione costituisce
atto dovuto.
Del resto, è altrettanto pacifico che la previsione di cui
all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. non contempla, tra i
provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, le
pene accessorie che, ex art. 20 cod. pen., conseguono di
diritto alla condanna come effetti penali di essa.
È pertanto legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del
giudice di appello, tramite il procedimento di correzione di
errore materiale, delle pene accessorie non applicate in
primo grado. Sicché, il divieto della “reformatio in peius”,
previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. quando
appellante è il solo imputato, non impedisce che il giudice
d’appello ordini la rimessione in pristino dello stato dei
luoghi prevista in caso di sentenza di condanna dall’art.
181, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, allorquando, per mera
omissione, la stessa non sia stata disposta con la sentenza
di primo grado, trattandosi di sanzione amministrativa la
cui irrogazione costituisce atto dovuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it). |
agosto 2019 |
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URBANISTICA:
Pianificazione urbanistica – Convenzione di lottizzazione –
Rilascio permessi di costruire – Lottizzazione abusiva c.d.
“cartolare” o negoziale – Configurabilità – Artt. 30, 44
D.P.R. n. 380/2001.
In materia di pianificazione
urbanistica, oltre, laddove manchi la necessaria
autorizzazione, il reato di lottizzazione abusiva non è
escluso dal rilascio dei permessi di costruire, posto che la
convenzione di lottizzazione prevede anche l’accollo di una
quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria –
nemmeno l’impegno del privato ad eseguire le opere di
urbanizzazione primaria nel contesto del rilascio di un
titolo edilizio può surrogare la mancanza di un piano di
lottizzazione, poiché l’urbanizzazione dei terreni deve
essere programmata per zona e non avvenire in occasione
dell’edificazione dei singoli lotti, sicché costituisce
lottizzazione abusiva anche la nuova utilizzazione del
terreno a scopo di insediamento residenziale pur se sia
richiesto il permesso di costruire ovvero siano rilasciati
una pluralità di permessi nella zona interessata dal nuovo
insediamento, tanto più che il permesso di costruire non ha
la funzione di pianificare l’uso del territorio.
...
Lottizzazione abusiva “mista” – Natura della contravvenzione
– Reato a forma libera e progressivo nell’evento – Atti di
frazionamento o esecuzione delle opere – Riserva autorità
amministrativa dell’assetto urbanistico – T.U.E.-
Integrazione del reato anche a titolo di sola colpa.
La contravvenzione di lottizzazione
abusiva è reato a forma libera e progressivo nell’evento,
che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia
successiva agli atti di frazionamento o all’esecuzione delle
opere, posto che tali iniziali attività non esauriscono
l”iter” criminoso, che si protrae attraverso gli ulteriori
interventi che incidono sull’assetto urbanistico, con
ulteriore compromissione delle scelte di destinazione ed uso
del territorio riservate all’autorità amministrativa
competente (Sez.
3, n. 14053 del 20/02/2018, Ammaturo e a.).
Per significare che, in siffatti casi, alla
lottizzazione negoziale segue quella materiale si parla
comunemente di lottizzazione “mista”. Inoltre, il reato di
lottizzazione abusiva può essere integrato anche a titolo di
sola colpa (Sez.
3, n. 38799 del 16/09/2015; De Paola; Sez. 3, n. 17865 del
17/03/2009, Quarta e aa. Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005,
Stiffi e a.).
...
Lottizzazione abusiva c.d. “mista” – Momento consumativo del
reato – Calcolo dei termine di prescrizione inizio e
decorrenza – Disciplina del reato permanente – Applicazione.
In presenza di lottizzazione abusiva
c.d. “mista”, il momento consumativo del reato si individua,
per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel
compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita,
che può consistere nella stipulazione di atti di
trasferimento, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o
nell’ultimazione dei manufatti che compongono
l’insediamento; ne consegue che, ai fini del calcolo del
tempo necessario per la prescrizione, per il concorrente non
è rilevante il momento in cui è stata tenuta la condotta di
partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può
intervenire anche a notevole distanza di tempo
(Sez. 3, n. 48346 del 20/09/2017, Bortone e aa.).
Dovendosi, applicare la disciplina del
reato permanente, il termine di prescrizione inizia a
decorrere solo dopo l’ultimazione sia dell’attività
negoziale, sia dell’attività di edificazione, e cioè, in
quest’ultima ipotesi, dopo il completamento dei manufatti
realizzati sui singoli lotti oggetto del frazionamento
(Sez. 3, ord. n. 24985 del 20/05/2015, Diturco e a.; Sez. 3,
n. 35968 del 14/07/2010, Rusani e a.).
...
Lottizzazione abusiva c.d. cartolare o negoziale – Natura di
contravvenzione a consumazione anticipata – Condotta – Reato
a consumazione alternativa.
Il reato di lottizzazione abusiva c.d.
cartolare o negoziale, ha natura di contravvenzione a
consumazione anticipata, nel senso che il reato è integrato
non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma
da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo
il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da
quella programmata
(Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine e aa.)
rispetto ad opere che, per caratteristiche o
dimensioni, siano idonee a pregiudicare la riserva pubblica
di programmazione territoriale
(Sez. 3, n. 15404 del 21/01/2016, Bagliani e a.).
Il reato di lottizzazione abusiva è dunque
configurabile con riferimento a zone di nuova espansione o
scarsamente urbanizzate relativamente alle quali sussiste
un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato
abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione
(Sez. 3, n. 6629 del 07/01/2014, Giannattasio e aa.),
sicché, se da un lato deve escludersi con
riferimento a zone completamente urbanizzate, d’altro lato è
invece configurabile sia con riferimento a zone
assolutamente inedificate, sia con riferimento a zone
parzialmente urbanizzate in cui sussista un’esigenza di
raccordo con il preesistente aggregato abitativo
(Sez. 3, n. 37472 del 26/06/2008, Belloi e a.).
Quanto alla condotta, la contravvenzione di
lottizzazione abusiva si configura come reato a consumazione
alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un
provvedimento di autorizzazione, sia quando quest’ultimo
sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti
urbanistici, in quanto grava sui soggetti che predispongono
un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui
committenti e costruttori l’obbligo di controllare la
conformità dell’intera lottizzazione e delle singole opere
alla normativa urbanistica e alle previsioni di
pianificazione
(Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini; Sez. 3,
n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa.).
...
Lottizzazione abusiva – Configurabilità – Elementi indiziari
– Trasformazione urbanistica od edilizia del territorio.
Ai fini della configurabilità del reato
di lottizzazione abusiva negoziale o cartolare,
l’elencazione degli elementi indiziari di cui all’art. 30,
comma primo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non è tassativa né
tali elementi devono sussistere contemporaneamente, in
quanto è sufficiente per l’integrazione del reato anche la
presenza di uno solo di essi, purché risulti inequivocamente
la destinazione a scopo edificatorio del terreno.
Peraltro, ai fini della integrazione del reato, il
frazionamento di un terreno non deve necessariamente
avvenire mediante apposita operazione catastale che preceda
le vendite o gli atti di disposizione, ma può realizzarsi
con ogni altra forma di suddivisione fattuale dello stesso;
l’espressione in questione, infatti, da intendersi in modo
atecnico, si riferisce a qualsiasi attività giuridica che
abbia per effetto la suddivisione in lotti di un’area di più
ampia estensione, comunque predisposta od attuata,
attribuendone la disponibilità a terzi al fine di realizzare
una non consentita trasformazione urbanistica od edilizia
del territorio.
Ciò che conta, è che il contesto indiziario
sia idoneo a rivelare in modo non equivoco
la finalità edificatoria, che costituisce
l’elemento comune alle varie forme
(materiale, negoziale, mista) in cui
l’illecito può essere realizzato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.08.2019 n. 36397 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Sui
distinguo fra le due fattispecie di lottizzazione e cioè la
lottizzazione "materiale" o "sostanziale" e la
lottizzazione "negoziale" o "cartolare".
Risulta integrata la lottizzazione materiale in ragione della
trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area e la lottizzazione cartolare
mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita
dei lotti da essa risultanti.
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L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 preve che si
abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o
senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga
predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti,
del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in
relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli
strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di
opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma
derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione
“materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase
iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o
edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una
lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione
avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo
edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di
c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso
l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica
di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della
disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti
pianificatori.
In particolare, siffatti interventi
devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico
insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della
ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico
tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia
dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e
della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard
apprestabili.
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd.
lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla
natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Con riferimento specifico
alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile
allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il
frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti-
del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive
caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla
natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla
base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale
previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione
abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del
frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche
l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il
frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale
indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre
circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura
edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali
certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è
propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo
a fini edificatori.
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma
nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere
l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento
abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
---------------
Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla
Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si
fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione
urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei
confronti dei propri danti causa.
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio
che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la
circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al
frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno
lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare
quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura
oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'animus
dei proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza
con riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato.
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere
contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli
acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano
invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo
essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei
all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria
diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza,
tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di
illecita utilizzazione del territorio.
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede
e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo
scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale
consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico
dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine
dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca
urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata
comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l'argomento
medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa
dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio disponibile del
Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in
quanto atto vincolato.
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie.
---------------
L’appello è infondato.
Con riferimento al primo motivo di appello con cui si contesta l’avvenuta
lottizzazione ad opere dell’appellante, ritiene il Collegio di evidenziare,
come rilevato dal giudice di primo grado, che l’area in questione è stata
interessata da una lottizzazione c.d. mista, in quanto, alla originaria
suddivisione del suolo mediante il frazionamento catastale e gli atti di
vendita si è aggiunta, nel tempo, la successiva attività di trasformazione
edilizia dei singoli fondi attraverso la esecuzione di opere, peraltro in
una area con destinazione agricola ed edificabilità limitata ad opere
necessarie alla conduzione del fondo.
Risultano, quindi, integrate sia la lottizzazione materiale in ragione della
trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area in contrasto con le norme
vigenti sia la lottizzazione cartolare, posta in essere mediante il
frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da
essa risultanti. La lottizzazione contestata, infatti, è stata attuata nel
tempo, prima attraverso vari atti di frazionamento e conseguenti vendite di
singoli lotti e poi attraverso la esecuzione di opere di urbanizzazione e la
trasformazione edilizia degli stessi.
L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata
l’ordinanza impugnata, riproduce integralmente le disposizioni già contenute
nell’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47; tali norme prevedono che si
abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei
terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o
senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga
predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti,
del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in
relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli
strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di
opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma
derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione
“materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase
iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o
edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una
lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione
avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo
edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di
c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso
l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica
di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della
disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti
pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio, siffatti interventi
devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione
urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico
insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria
attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della
ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico
tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà
programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia
dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e
della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard
apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416; id. 09.01.2018, n. 5805, inerente peraltro il medesimo provvedimento oggetto
dell’odierno contenzioso).
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd.
lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla
natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti,
denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” (Cons.
Stato Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Con riferimento specifico
alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile
allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il
frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti-
del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive
caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla
natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla
base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale
previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la
destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429; Sez. IV, 13.05.2011, n.
2937).
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione
abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del
frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche
l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia
oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione
a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle
parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il
frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale
indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre
circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura
edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali
certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è
propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo
a fini edificatori (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma
nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere
l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento
abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura
attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico (Cons. Stato
Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla
Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo
stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si
fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione
urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei
confronti dei propri danti causa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2016
n. 26 del 2016; Cons. Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215; id Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio
che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la
circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al
frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno
lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare
quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura
oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'animus dei
proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza con
riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato (cfr. Sez VI 09.10.2018 n. 5805).
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere
contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli
acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano
invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo
essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei
all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria
diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza,
tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di
illecita utilizzazione del territorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 13.02.2014, n. 2646; id.,
03.12.2013, n. 51710; id., 27.04.2011,
n. 21853).
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede
e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo
scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale
consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico
dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine
dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca
urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata
comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828) , nel mentre l'argomento
medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio
disponibile del Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380
del 2001, in quanto atto vincolato (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez.
VI, 23.03.2018, n. 1878; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente
dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito
urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e
sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni
abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine
titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della
fattispecie (Cons. Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie, deve
ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva in relazione
alle circostanze di fatto, peraltro incontestate, desumibili da tutti gli
accertamenti effettuati: i lotti appartenenti all’appellante risultano dal
frazionamento di un’unica area molto più vasta, a destinazione agricola; la
contestualità temporale di tutte le vendite originarie, attraverso le quali
si realizzò il frazionamento; la realizzazione sui suoli risultanti dal
frazionamento di molteplici interventi edilizi abusivi, incompatibili con la
detta destinazione agricola delle aree; la carenza in capo all’appellante o
comunque la mancata deduzione in proposito della qualifica di imprenditore
agricolo; la necessaria realizzazione di opere di urbanizzazione, in assenza
delle quali un insediamento residenziale non avrebbe avuto le necessarie
condizioni di abitabilità.
Agli effetti della configurazione della fattispecie, inoltre, ciò che rileva
non è l’epoca di realizzazione delle opere edilizie abusive, quanto il loro
discendere dall’iniziale frazionamento dell’area, ciò che deve ritenersi
sufficiente a dimostrarne la coerenza con l’originario intento
lottizzatorio.
Peraltro, nel caso di specie, la destinazione agricola dei terreni
risultante anche espressamente dagli atti di acquisto dei terreni rendeva
conoscibile alla parte odierna appellante la radicale trasformazione
dell’area in assenza di qualsiasi attività pianificatoria comunale
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
L’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene
inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire
l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che
tale obbligo viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere
la partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento
finale.
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione
di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche
nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie,
risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo
carattere non autorizzato ed abusivo”.
---------------
Con il secondo motivo di appello si lamenta la violazione del principio di
partecipazione al procedimento.
Il motivo è infondato.
L’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241,
per cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, conduce infatti ad un
giudizio di infondatezza della censura, in quanto il provvedimento impugnato
non avrebbe potuto avere contenuto diverso né l’eventuale partecipazione procedimentale avrebbe potuto incidere sui presupposti del provvedimento
impugnato, in relazione alla sussistenza della lottizzazione abusiva, basata
sull’indubbio accertamento del frazionamento di una più vasta proprietà in
diversi lotti ai fini edilizi e sulla materiale trasformazione degli stessi
suoli.
L’art. 21-octies si riferisce, infatti, anche al provvedimento che
abbia natura in concreto vincolata con la conseguenza che l’avviso di inizio
del procedimento non sia comunque dovuto quando in concreto si rilevi la
sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento impugnato.
Deve essere in proposito richiamata la consolidata giurisprudenza, per cui
l’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene inteso in
senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire l’apporto
collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che tale obbligo
viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la
partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento finale
(Consiglio di Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1407; Sez. VI, 18.05.2015, n. 2509).
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione
di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche
nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie,
risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo
carattere non autorizzato ed abusivo” (Consiglio di Stato, sezione IV 09.10.2017
n. 4668)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Anche le varianti per il recupero dei nuclei edilizi abusivi
rientrano nell’ampia discrezionalità del potere pianificatorio urbanistico comunale.
Nessun obbligo di redazione di varianti
per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29
della legge n. 47 del 1985, mentre la
perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione
della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio
discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la
discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via
di fatto, ma che
tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle
generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di tali norme non è, infatti, quella di imporre alle
amministrazioni comunali l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a
fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di
variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le
amministrazioni interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di
contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi.
---------------
L’appellante sostiene poi la violazione dell’art. 29 della legge n. 47 del
1985 e dell’art. 23 della legge regionale della Campania n. 16 del 2004, in
quanto l’Amministrazione comunale non avrebbe valutato il recupero
urbanistico degli insediamenti abusivi, tramite l’approvazione di una
variante urbanistica.
Anche tale motivo di appello è infondato.
Ai sensi dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985, “entro novanta giorni
dall'entrata in vigore della presente legge le regioni disciplinano con
proprie leggi la formazione, adozione e approvazione delle varianti agli
strumenti urbanistici generali finalizzati al recupero urbanistico degli
insediamenti abusivi, esistenti al 01.10.1983, entro un quadro di
convenienza economica e sociale”.
In base all’art. 23, commi 3 e seguenti, della legge regionale 22.12.2004, n. 16, il Piano urbanistico comunale “individua la perimetrazione
degli insediamenti abusivi esistenti al 31.12.1993 e oggetto di
sanatoria ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47, capi IV e V, e ai
sensi della legge 23.12.1994, n. 724, articolo 39, al fine di: a)
realizzare un'adeguata urbanizzazione primaria e secondaria; b) rispettare
gli interessi di carattere storico, artistico, archeologico, paesaggistico-ambientale ed idrogeologico; c) realizzare un razionale
inserimento territoriale ed urbano degli insediamenti.
4. Le risorse
finanziarie derivanti dalle oblazioni e dagli oneri concessori e sanzionatori dovuti per il rilascio dei titoli abilitativi in sanatoria sono
utilizzate prioritariamente per l'attuazione degli interventi di recupero
degli insediamenti di cui al comma 3.
5. Il Puc può subordinare l'attuazione
degli interventi di recupero urbanistico ed edilizio degli insediamenti
abusivi, perimetrati ai sensi del comma 3, alla redazione di appositi Pua,
denominati piani di recupero degli insediamenti abusivi, il cui procedimento
di formazione segue la disciplina prevista dal regolamento di attuazione
previsto dall'articolo 43-bis.
6. Restano esclusi dalla perimetrazione di
cui al comma 3 gli immobili non suscettibili di sanatoria ai sensi dello
stesso comma 3”.
Ritiene il Collegio sul punto di richiamare il consolidato orientamento
giurisprudenziale per cui anche le varianti per il recupero dei nuclei
edilizi abusivi rientrano nell’ampia discrezionalità del potere
pianificatorio urbanistico comunale. Nessun obbligo di redazione di varianti
per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29
della legge n. 47 del 1985, mentre la
perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione
della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio
discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la
discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via
di fatto, ma che
tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle
generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di
tali norme non è, infatti, quella di imporre alle amministrazioni comunali
l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì
quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già
contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le amministrazioni
interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare
all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi (cfr. Consiglio
di Stato, IV, 25.07.2001, n. 4078; 03.10.2001, n. 5207; Sez. VI, 05.04.2012, n. 2038; Sez. IV,
07.06.2012, n. 3381; TAR Lazio Roma Sez. II-quater, 28.03.2018, n. 3423).
Nel caso di specie, il Comune di Giugliano non ha approvato alcuna variante
per il recupero del nucleo abusivo né aveva alcun un obbligo in tal senso
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA:
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia
costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto
della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere
vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste
dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non
richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del
manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell'abuso.
---------------
La fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al
Comune del potere pianificatorio,
prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla
presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal
rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio
anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso
può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in
presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in
sanatoria.
L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza della
domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo sugli atti
adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non potendo essere
comunque rilasciato il titolo in sanatoria.
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione
abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le
singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata
essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo
stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso.
---------------
Con ulteriore motivo di appello si lamenta l’erroneità delle affermazioni
del giudice di primo grado circa il difetto di motivazione del provvedimento
comunale sull’interesse pubblico alla repressione dell’attività abusiva,
nonché una sua mancata comparazione con l’interesse privato sacrificato,
considerato anche il tempo trascorso dall’epoca della lottizzazione abusiva.
Anche tale motivo è infondato in relazione al costante orientamento
giurisprudenziale per cui i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia
costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione,
non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può
giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto
della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere
vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste
dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non
richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera
rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione
dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del
manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell'abuso ( Consiglio di Stato, sez. VI 09.04.2019, n.
2329; sez. IV, 31.08.2016 n. 3750 con espresso riferimento ad una
ipotesi di lottizzazione abusiva).
Sotto tale profilo, non può avere alcun
rilievo l’invio al Comune degli atti di vendita, che peraltro avevano ad
oggetto un terreno a destinazione agricola.
Infine, l’appellante ha dedotto di avere presentato domande di sanatoria per
i manufatti abusivi, che avrebbero dovuto essere considerate dal Comune così
come il Comune avrebbe dovuto valutare l’approvazione di un piano di
lottizzazione attraverso il meccanismo previsto agli artt. 25 e 35 della
legge 47 del 1985.
Anche tale motivo di appello è infondato, in relazione al costante
orientamento giurisprudenziale per cui la fattispecie della lottizzazione
abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio,
prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla
presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal
rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del
potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del
territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio
anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso
può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in
presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in
sanatoria. L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza
della domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo
sugli atti adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non
potendo essere comunque rilasciato il titolo in sanatoria (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115).
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione
abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le
singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata
essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo
stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381).
Quanto all’approvazione del piano di lottizzazione, ritiene il Collegio di
richiamare quanto già sopra evidenziato circa l’ampia discrezionalità del
potere pianificatorio del Comune rispetto al recupero urbanistico dei nuclei
abusivi.
Conclusivamente, pertanto, l’appello è da ritenersi infondato e deve essere
respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
luglio 2019 |
 |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Abuso
realizzato su parti comuni di un edificio.
Le parti comuni dell’edificio non sono
di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini;
a tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata
esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in
quanto unici (com)proprietari delle stesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2019 n. 1764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
2.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato da questa Sezione, l’art. 1117 cod.
civ. stabilisce che le parti comuni dell’edificio sono
oggetto di proprietà comune dei condomini, con la
conseguenza che il Codominio non vanta alcun diritto reale
sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il
Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità
giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR
Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302). Siffatto
principio è stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220
del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici), poiché quest’ultima, pur avendo attribuito un
attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giudica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014,
n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni
dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma
dei singoli condomini.
A tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata
esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in
quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia,
Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
L’ordine rivolto al Condominio risulta quindi illegittimo,
in ragione del difetto di legittimazione passiva dello
stesso con riguardo alla repressione degli abusi edilizi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Verifica dello stato legittimo degli immobili
risalenti nel tempo
(Regione Emilia Romagna,
nota 11.07.2019 n. 592534 di prot.). |
giugno 2019 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo per
l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri
immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero
verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere
endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio
l’esito del verbale.
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non
costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare,
non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella
mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento
amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato,
avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata
allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario-
lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto
fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi
provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale
autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo
tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31
del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del
successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e
dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da
acquisire, dispositivo della trascrizione.
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di
attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece
ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art.
31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa
recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e
forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile
al patrimonio comunale.
---------------
8- Il ricorso è inammissibile
laddove impugna il verbale di accertamento dei VV.UU., in quanto atto non
autonomamente impugnabile.
Secondo la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo
per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri
immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero
verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere
endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio
l’esito del verbale (TAR Sicilia, Catania, sez. II, 24.04.2018, n. 837; TAR
Catania, sez. I, 23.04.2015, n. 1118; TAR Napoli, (Campania), sez. VII,
11.05.2017, n. 2550; TAR Roma, (Lazio), sez. I, 04.05.2016, n. 5123).
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non
costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare,
non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella
mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento
amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato,
avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata
allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario-
lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto
fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi
provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale
autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo
tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31
del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del
successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e
dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da
acquisire, dispositivo della trascrizione (in termini TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 11.05.2017; TAR Napoli, sez. III, 01.12.2016, n. 5556).
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di
attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece
ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art.
31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa
recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e
forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile
al patrimonio comunale (cfr. TAR Sicilia Catania sez. II 02.04.2018 n. 837 e
giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche TAR Campania Salerno sez. II
18.03.2016, n. 692)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’atipico
ordine del Comando dei vigili urbani –contenuto nel verbale–
"di non toccare assolutamente i manufatti oggetto dell'accertamento di
inottemperanza" viola il principio per il quale gli atti amministrativi sono
"tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di uno specifico
potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma di legge.
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova
fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a
garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere
in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al
procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato
concretamente perseguito; e ciò vale soprattutto per "gli atti incidenti
negativamente sui terzi".
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura
acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la
sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un
provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua
illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una
norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase
di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina
per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di
un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il
bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al
patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere
distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di
accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è
demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non
si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione ha chiarito che financo l’acquisizione
gratuita al patrimonio, in assenza di una delibera comunale di dichiarazione
dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, non costituisce
impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di
demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità
dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole
demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei
responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio
dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del
territorio; a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli
abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia
municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello
stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art.
31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
---------------
9- Il ricorso è invece ammissibile
ed altresì fondato laddove impugna l’ordine del Comando dei vigili urbani
–contenuto nel verbale– di non demolire, basato sul presupposto che siano
decorsi i prescritti 90 giorni per la demolizione.
In effetti l’atipico ordine "di non toccare assolutamente i manufatti
oggetto dell'accertamento di inottemperanza" (di cui al Verbale P.M.
13/09/2018 n. 1877), viola il principio per il quale gli atti amministrativi
sono "tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di
uno specifico potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma
di legge (cfr. TAR Trieste, sez. I, 03/12/2014 n. 609; TAR Veneto, sez. III,
31/12/2007 n. 4129 e C.d.S., sez. V, 7/10/2002 n. 5275).
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova
fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a
garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere
in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al
procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato
concretamente perseguito (cft. C.d.S., sez. VI, 13/09/2010 n. 6554); e ciò
vale soprattutto per "gli atti incidenti negativamente sui terzi" (cfr.
TAR Genova, sez. I, 12/03/2009 n. 305).
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura
acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la
sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un
provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua
illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una
norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase
di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina
per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile
dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di
un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il
bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al
patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere
distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di
accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è
demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non
si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che
l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione (Cass. pen. Sez. III, Sent., 16.01.2018,
n. 1564) ha chiarito che financo l’acquisizione gratuita al patrimonio, in
assenza di una delibera comunale di dichiarazione dell’interesse pubblico al
mantenimento dell’opera, non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla
possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento
dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente
preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va
posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non
invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che
contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 42698 del
07/07/2015,; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007; Sez. 3, n. 49397 del
16/11/2004); a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli
abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia
municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello
stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art.
31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
Ne consegue l’illegittimità (rectius nullità) del detto verbale nella
specifica parte in cui contiene il detto ordine di non demolire
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre le
varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o
quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato,
tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo
elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto
il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario
permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate
da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio
originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del
2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed
autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni
vigenti al momento di realizzazione della variante.
---------------
Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le
nuove costruzioni è previsto e regolato dall’art. 34 del TUE
(applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai
sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la
cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza
amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento
costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato
dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da
quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in
negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del
manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di
concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si
configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino
in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture
essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro
disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la
demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione
pecuniaria.
---------------
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato
dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n.
70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della
categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha
indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle
variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli
scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non
potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la
difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente
circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di
interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle
autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con
l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di
vicinato.
---------------
1.1.- La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla
tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di
interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi
intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale
della parziale difformità da esso.
1.2.- L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (di seguito: “TUE”) disciplina
gli abusi più gravemente sanzionati.
L’assenza di permesso consiste nella sua insussistenza oggettiva per l’opera
autorizzata.
Accanto al caso del permesso mai rilasciato, vi sono i casi nei quali il
titolo è stato rilasciato, ma è privo (o è divenuto privo) di effetti
giuridici.
L’art. 31, comma 1, del TUE prevede anche una figura di mancanza sostanziale
del permesso, che si verifica quando vi è difformità totale dell’opera
rispetto a quanto previsto nel titolo, pur sussistente. Si ha difformità
totale, quando sia realizzato un organismo edilizio:
- integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed
edilizie;
- integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e
cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi;
- integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la
destinazione d’uso derivante dai caratteri fisici dell’organismo edilizio
stesso);
- integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi
ed autonomi.
1.3.- Accanto alle forme di abuso appena ricordate, l’art. 32 del TUE, -così come prima l’art. 7, comma 2, della legge n. 47 del 1985- regola la
fattispecie dell’esecuzione di opere in «variazione essenziale» rispetto al
progetto approvato. Tale tipo di abuso è parificato, quanto alle
conseguenze, al caso di mancanza di permesso di costruire e di difformità
totale, salvo che per gli effetti penali (le variazioni essenziali sono
infatti soggette alla più lieve pena prevista per l’ipotesi della lettera a,
dell’articolo 44 del TUE).
La determinazione dei casi di variazione essenziale è affidata alle regioni
nel rispetto di alcuni criteri di massima.
In particolare, ai sensi
dell’art. 32, comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale
esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni:
a)
mutamento di destinazione d’uso che implichi variazione degli standards
previsti dal D.M. 02.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto
approvato, ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di
pertinenza;
d) il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio
assentite;
e) la violazione della normativa edilizia antisismica.
Il comma 2 dell’art. 32 del TUE precisa che «non possono ritenersi comunque
variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature
accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole
unità abitative».
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di
esecuzione delle opere, va distinto dalle “varianti” che invece riguardano
la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2,
del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o
quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato,
tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo
elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto
il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario
permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate
da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio
originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380
del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo
ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le
disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr.
Cassazione penale, sez. III, 27.02.2014, n. 34099).
Nel caso di
variante essenziale il problema si concentra nella necessità o meno di nuovo
titolo, che deve quindi considerare l'eventuale diversa normativa
sopravvenuta; la variante invece si riferisce al titolo originario senza
nuova valutazione della normativa vigente.
...
1.4.- Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le
nuove costruzioni è invece previsto e regolato dall’art. 34 del TUE
(applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai
sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la
cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza
amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento
costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato
dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da
quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in
negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del
manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di
concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si
configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino
in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture
essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro
disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la
demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione
pecuniaria.
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato
dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n.
70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della
categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha
indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle
variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli
scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non
potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la
difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità
immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente
circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di
interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle
autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con
l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.06.2019 n. 4331 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri,
previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non consente la destinazione
all’uso abitativo dei locali oggetto di condono edilizio.
La giurisprudenza è stabilmente orientata nel senso di
ritenere che, ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il
certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire
rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano
carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello
primario.
Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata
ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996,
che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti
gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti
fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga
indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli
edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti
costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto
all’abitazione.
E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato
formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o
secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni
igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai
regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di
esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente
sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano
precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m.
05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio
disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili,
al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione
degli incendi e degli infortuni.
---------------
La giurisprudenza (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. 03.06.2013, n. 3034;
id., 03.05.2011, n. 2620) è stabilmente orientata nel senso di ritenere che,
ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il certificato di
abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga
a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di
salubrità richieste da fonti normative di livello primario. Questo in
coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha
fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996, che
ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli
obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti
fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga
indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli
edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti
costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto
all’abitazione. E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva
il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte
primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche
condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad
esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano
espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge
gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari
che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui
al d.m. 05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del
rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto
inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e
di prevenzione degli incendi e degli infortuni (così Cons. Stato n.
2620/2011, cit.).
Alla luce degli indirizzi interpretativi consolidati, dai quali non vi sono
ragioni per discostarsi, il mancato rispetto del requisito dell’altezza
interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non
consente la destinazione all’uso abitativo dei locali di proprietà del
ricorrente.
La certificazione di abitabilità o agibilità conseguita secondo il
meccanismo disciplinato dall’art. 86, co. 4, l.r. n. 1/2005 è pertanto
illegittima, per questo aspetto giustificandosi l’esercizio del potere di
autotutela da parte del Comune resistente
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.06.2019 n. 857 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
uffici di questa Unione di Comuni ricevono richiesta di annullamento di
verbali (L. 24.11.1981, n. 689) in vari ambiti con particolare riferimento
ad illeciti edilizi o occupazioni abusive di suolo pubblico avvenute molti
anni fa (oltre 5 o 10 anni).
Sono prescritti questi illeciti?
L'art. 28, L. 24.11.1981, n. 689 (legge generale sul procedimento
sanzionatorio pecuniario) dispone "Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel
termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione".
Tale disposizione è stata oggetto di approfondimento giurisprudenziale con
particolare riferimento al tema dei cosiddetti "illeciti permanenti".
Secondo la dottrina "Si ha quindi illecito permanente qualora la condotta
dannosa non si esaurisca in un solo momento, ma si rinnovi costantemente nel
tempo. Pertanto, la condotta del responsabile produce un evento dannoso che
si rinnova per tutto il tempo in cui permane l'azione lesiva, avendosi
coesistenza della condotta lesiva e del danno permanente. Per la sussistenza
della permanenza sono necessarie tre condizioni: (i) il carattere
continuativo dello stato dannoso o pericoloso derivante dalla condotta del
soggetto; (ii) il rapporto di causalità tra il protrarsi dello stato dannoso
o pericoloso e la condotta del soggetto la quale prosegue senza interruzione
dopo la realizzazione del fatto, da cui il danno o il pericolo ha origine e
(iii) la possibilità per il responsabile di porre fine alla situazione
dannosa".
In presenza di dette condizioni, quindi di un illecito permanente, ne
deriva:
- l'applicazione del regime sanzionatorio vigente al momento in cui
l'amministrazione provvede ad irrogare la sanzione stessa, senza che sia
ravvisabile la violazione del principio di irretroattività;
- il potere repressivo dell'amministrazione può essere esercitato
anche a lunga distanza di tempo, non derivando dal decorso di questo né una
sorta di sanatoria dell'opera abusiva né tanto meno una situazione di
affidamento in capo all'autore dell'abuso;
- in materia di lesione dell'interesse pubblico si protrae nel
tempo sino al ripristino della legittimità violata;
- la prescrizione delle sanzioni pecuniarie non inizia a decorrere
dalla data di realizzazione dell'abuso o della violazione ma da quella in
cui il soggetto che ha commesso l'abuso ha ripristinato la situazione di
legalità.
Tale giurisprudenza, formatasi prevalentemente con riferimento agli abusi
edilizi, vale anche in altri analoghi contesti, per cui si è ritenuto che in
materia di scadenza dell'autorizzazione ad occupare suolo pubblico, il lungo
lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e, dunque, il
perseverare nell'occupazione abusiva nonché l'inerzia serbata
dall'amministrazione non sono idonee ad ingenerare nel privato alcuna
convinzione della legittimità della propria situazione.
In definitiva dunque, per gli illeciti permanenti, il termine di
prescrizione quinquennale non decorre dalla data di commissione
dell'illecito ma dalla data della sua scoperta da parte dell'autorità
competente.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 24.11.1981, n. 689, art. 28
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. 22.04.2013, 9711 - Cass. 06.02.1982, n. 685 - Cons. Stato Sez. V,
16.04.2019, n. 2499 - Cons. Stato Sez. VI, 16.04.2019, n. 2484 - Cons. Stato
Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 -
Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 04.03.2019,
n. 1477 - Cons. Stato Sez. VI, 14.02.2019, n. 1056 - Cons. Stato Sez. VI,
03.01.2019, n. 85 - Cons. Stato Sez. VI, 07.06.2018, n. 3460 - Cons. Stato
Sez. VI, 27.02.2018, n. 1166 - Cons. Stato Sez. VI Sent., 03.10.2017, n.
4580
Riferimenti di dottrina
- Danni da violazione delle norme sulle distanze tra costruzioni.
illecito permanente e illecito istantaneo a effetti permanenti - Il commento
- [Danno e Resp., 2016, 1, 82 (nota a sentenza)] - di Sebastiano Cassani
- Illecito paesistico e condono edilizio - [Corriere Giur., 2000,
8, 1003 (nota a sentenza)] - a cura di Luigi Carbon (12.06.2019 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: realizzazione di opere in difformità dal titolo
edilizio – sanatoria parziale – configurabilità – parere
(Legali Associati per Celva,
nota 11.06.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza costante “l'ordinanza di demolizione non deve
essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura
vincolata" e “il provvedimento con cui
viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo
e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il
titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…”.
---------------
In considerazione della natura totalmente vincolata dei
provvedimenti di demolizione parimenti infondate sono le ulteriori censure
svolte dai ricorrenti in rapporto all’omessa comunicazione di avvio del
procedimento di repressione degli abusi edilizi o alla pretesa carenza o
insufficienza della motivazione.
Per giurisprudenza costante, infatti, “l'ordinanza di demolizione non deve
essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura
vincolata" (TAR Campania, Napoli , sez. VII, 15.03.2019, n. 1448; TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 11.03.2019 n. 413) e “il provvedimento con cui
viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo
e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il
titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…” (TAR Puglia, Lecce, Sez. III , 18.02.2019, n. 262; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.03.2019 , n.
1942).
Parimenti non meritevoli di accoglimento sono, infine, le ultime doglianze
esposte dai ricorrenti in rapporto alla pretesa sproporzione della sanzione
della demolizione rispetto all’entità degli abusi ed alla asserita
riconducibilità delle opere de quibus ad interventi di restauro o
risanamento conservativo, realizzabili “in base a semplice SCIA” e,
comunque, “assolutamente conformi al tessuto urbanistico di riferimento”.
Tali affermazioni sono del tutto contraddette dalla descrizione delle opere
contenuta nei verbali di accertamento e nelle varie determinazioni di
demolizione, nonché da quanto rappresentato nelle stesse domande di condono
presentate in relazione ad una serie di immobili “monopiano” realizzati man
mano nel corso degli anni, anche in aderenza l’uno all’altro, senza alcun
titolo e con creazione ex novo di superfici e volumi.
Da qui l’assoluta impossibilità di qualificare le opere de quibus come
restauro o risanamento conservativo, la sussumibilità delle stesse
nell’alveo degli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, comma 1,
lett. e.1), del DPR n. 380/2001 e la piena congruità della sanzione di
demolizione disposta dall’Amministrazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.06.2019 n. 7300 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
linea di diritto, che l’onere della prova dell'ultimazione entro una certa
data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra
fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra
quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché
realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò
interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di
elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca
di realizzazione del manufatto.
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai
fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato
orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di
notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non
rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi
che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non
risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria
dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente-.
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente
l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la
detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur
presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova
circa la data certa di ultimazione dei lavori.
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato
nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico
dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente
risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel
sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto
potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la
sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono
edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di
condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine
istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai
fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri
alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova
costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di
opere interne di edifici già esistenti.
---------------
Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici
“ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”.
Costituisce
principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante
solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma
necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in
concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili.
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di
avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve
le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non
soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza
planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d.
ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno)
sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne
connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le
opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da
quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto,
trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di
servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere
del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, ossia quelle opere che qualifichino
in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione.
---------------
7. – Va premesso, in linea di diritto, che l’onere della prova
dell'ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo
scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere
una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo
ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul
privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di
documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr., in tal senso tra le
molte e più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2018 n. 1391).
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai
fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato
orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di
notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non
rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi
che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non
risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria
dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente- (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014 n. 2782
e 27.05.2010 n. 3378).
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente
l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la
detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur
presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova
circa la data certa di ultimazione dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6548).
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato
nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico
dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente
risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel
sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto
potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la
sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono
edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di
condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine
istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai
fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri
alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova
costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di
opere interne di edifici già esistenti.
Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici
“ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce
principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante
solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma
necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in
concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr.,
fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998 n. 130).
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di
avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve
le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non
soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza
planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d.
ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno)
sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne
connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza
amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le
opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da
quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto,
trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di
servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere
del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 14.07.1995 n. 1071), ossia quelle opere che qualifichino
in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez.
V, 04.07.2002 n. 3679)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.06.2019 n. 3696 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
maggio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Invero, <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an
che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante
la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione;
nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art.
21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti
a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla
violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente
che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali
vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di
conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di
economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e
dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe,
necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
---------------
In
materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il
decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di
demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il
provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di
illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il
decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere
di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma
4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis)
dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal
momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di
adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e
diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al
funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un
atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>>.
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento
dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la
possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese
l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile
unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per
ragioni tecniche.
Il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in
ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente
nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle
opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del
privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame,
allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del
Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il
responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla
demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità
dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la
demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in
mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non
si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della
legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che
presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla
materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni
considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che
possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla
ricorrente.
---------------
Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento,
superato il datato orientamento giurisprudenziale riferito in gravame,
l’orientamento giurisprudenziale in argomento è ormai costante nel ritenere
che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>>
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233; TAR Lazio Roma,
Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an
che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di
demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante
la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania,
Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse
ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737);
nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art.
21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti
a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla
violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente
che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali
vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di
conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di
economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e
dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe,
necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
...
In
materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il
decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di
demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il
provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (Consiglio di Stato, sez. V,
11.07.2014, n. 3568; Consiglio Stato, sez. I, 31.08.2010, n. 3955).
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di
illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr.
ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania,
Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013,
n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il
decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere
di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma
4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis)
dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal
momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di
adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e
diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al
funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un
atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio
di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine
un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento
dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la
possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese
l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile
unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per
ragioni tecniche.
Inoltre, il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in
ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente
nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle
opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del
privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame,
allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del
Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il
responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla
demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità
dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la
demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in
mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non
si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della
legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che
presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla
materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni
considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che
possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla
ricorrente (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
sanzione della demolizione si applica per il solo fatto della realizzazione
di un’opera senza che sia stata preceduta dal rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza
o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in
mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione,
il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità
delle opere.
A ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere di provare
la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento della loro
realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede la sanatoria
(con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di realizzazione dell’abuso
in modo da individuare la normativa cui riferire la doppia conformità in
parola).
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia
costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una
puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica
sull'astratta non sanabilità.
---------------
I provvedimenti repressivi
di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione,
bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un
adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e
di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa
l'insussistenza di un permesso di costruire.
---------------
Trattandosi di attività
doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione
dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto
all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti
di fatto contenuti nei verbali accertativi.
---------------
Giova
subito evidenziare che la sanzione della demolizione si applica per il solo
fatto della realizzazione di un’opera senza che sia stata preceduta dal
rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza
o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in
mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione,
il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità
delle opere; a ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere
di provare la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento
della loro realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede
la sanatoria (con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di
realizzazione dell’abuso in modo da individuare la normativa cui riferire la
doppia conformità in parola); nel caso di specie, parte ricorrente è
limitata apoditticamente ad asserire.
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia
costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta
sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una
puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica
sull'astratta non sanabilità (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n.
2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331).
Ancora parte ricorrente si interroga su come possa avere impatto negativo
sull'assetto paesaggistico circostante senza minimamente valutare in via
preventiva la portata specifica della consistenza e della natura delle opere
realizzate in rapporto all'intero assetto paesaggistico del territorio in
cui le stesse sono inserite ritenendosi, in tal modo, esentato dal
dimostrare espressamente la concreta violazione del vincolo paesaggistico
attraverso l'attività edilizia abusiva realizzata.
Tuttavia le argomentazioni di parte ricorrente non tengono conto che, in
ragione della funzione di tutela preventiva dei valori anche di rilievo
costituzionale, apprestata dal vincolo paesaggistico-ambientale, bastando
l’esistenza di un pregiudizio meramente potenziale, è la sua mera
apposizione che attua la predetta tutela, mentre arbitraria sarebbe ogni
indagine sull’idoneità dell’opera contestata ad incidere in concreto
sull’assetto paesaggistico circostante in argomento anche la giurisprudenza
di questa Sezione avendo già rilevato che: <<I provvedimenti repressivi
di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione,
bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un
adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali
e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa
l'insussistenza di un permesso di costruire>> (TAR Campania, Napoli,
sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
Il territorio del Comune di Torre del Greco è assoggettato (tra gli altri)
al “vincolo idrogeologico di cui all’art. 1 del R.D. 30.12.1923, n. 3267
per le parti di bacino idrogeologico dei lagni vesuviani” e, pertanto, è
obbligatorio ottenere lo svincolo idrogeologico dell’area per poter
acquisire il permesso di costruire, mentre, nel caso di specie, il
ricorrente ha totalmente omesso di acquisire qualsiasi titolo edilizio e
nulla osta presupposto la qual cosa rende abusive le opere realizzate.
Pertanto la demolizione di nuove opere realizzate senza autorizzazione
paesaggistica in zone vincolate si presenta come doverosa sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e
non vede le sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità
assoluta.
...
Invero,
nel provvedimento impugnato l'Amministrazione comunale, conformemente a
quanto ampiamente affermato in giurisprudenza, attraverso il provvedimento
gravato, ha fornito un'ampia e puntuale descrizione degli abusi perpetrati
sul suolo de quo, indicando nel contempo anche i parametri normativi di
riferimento; trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non
occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al
riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei
verbali accertativi (TAR Campania Napoli, sez. IV, 23.04.2015, n. 2309; sez.
VII, 03.03.2009, n. 1209) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
legislazione statale in materia di condono presuppone la permanenza
dell’opera da condonare nel corso del procedimento di condono.
In pendenza di tale procedimento, sono ammessi solo lavori di completamento
dell’opera stessa, come risulta dalla chiara formulazione dell’art. 35,
comma 12, della l. n. 47/1985. Non è invece ammissibile la sua sostituzione
con un nuovo manufatto, anche se identico dal punto di vista volumetrico,
della sagoma e della superficie.
Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati
nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati
nella domanda di condono”.
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale
demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate
dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno
l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della
originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per
volontà del suo titolare.
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la
preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova
edificazione richiedente nuovo titolo edilizio.
---------------
6. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
In merito alla rovina, documentata in atti, dei manufatti oggetto dei
procedimenti di condono, il Collegio osserva che la legislazione statale in
materia di condono presuppone la permanenza dell’opera da condonare nel
corso del procedimento di condono. In pendenza di tale procedimento, sono
ammessi solo lavori di completamento dell’opera stessa, come risulta dalla
chiara formulazione dell’art. 35, comma 12, della l. n. 47/1985. Non è
invece ammissibile la sua sostituzione con un nuovo manufatto, anche se
identico dal punto di vista volumetrico, della sagoma e della superficie.
Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati
nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati
nella domanda di condono” (Cons. Stato, sez. VI, n. 4954/2018, cit.).
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale
demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate
dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno
l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della
originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per
volontà del suo titolare (Cons. St. sez. V, 23.03.2000, n. 1610; sez. IV,
21.10.2008, n. 5162; CGARS, ad. sez. riun., 11.11.2014, n. 1229).
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la
preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova
edificazione richiedente nuovo titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV
13.10.2010, n. 7476 e sez. V, 08.03.2011, n. 1452)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 28.05.2019 n. 3471 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere stagionali, ancorché la loro costruzione venga rinnovata nel tempo,
non possano considerarsi precarie.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del
relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento
alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui
si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta
di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in
modo da poter essere agevolmente rimossa.
---------------
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che il carattere stagionale
dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà dell’attività, né di per
sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi il rinnovarsi
dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità
dell’attività e dell’opera a ciò necessaria.
---------------
Il manufatto in questione (manufatto
in legno adibito a bar delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di
circa mt 6.00), quand’anche fosse strutturalmente
amovibile, deve essere considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del
d.P.R. n. 380/2001, un intervento di nuova costruzione che ai sensi
dell’art. 10 dello stesso decreto necessita di permesso di costruire e, di
converso, se realizzato in assenza del permesso di costruire, se ne deve
ordinare la demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
---------------
La natura abusiva dall’opera
comporta l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento
tutelabile sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il
legislatore stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede
amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio
–interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è
meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore
giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione
permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio
con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori
costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni
ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui
agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi
edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento
non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi
dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione e di rimessa in
pristino del 03.05.2018 prot. n. 1338, notificata il successivo 08.05.2018
con la quale il Comune di Campotosto ha ordinato al sig. Le.Gi. nato a
L'Aquila il ... residente a Campotosto in frazione Mascioni, via ... n. 62
c.f. ..., di demolire ovvero rimuovere, entro 90 giorni dalla data di
notifica del presente provvedimento, il manufatto in legno adibito a bar
delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di circa mt 6.00 sito il
località “Ponte stecche” sul terreno riportato in catasto al n. 299 e
300 del foglio 40 del Comune di Campotosto.
...
Il ricorrente riferisce di essere comodatario avente causa dalla società
ENEL S.p.a. della particella n. 299 del foglio 40 del catasto terreni del
Comune di Campotosto, sulla quale nel 2013 ha realizzato e recintato un
manufatto amovibile in legno per l’esercizio di attività stagionale di
somministrazione di alimenti e bevande, segnalata al Comune di Campotosto
con successive SCIA.
Con due motivi del ricorso in decisione Gi.Le. impugna l’ordinanza con la
quale il Comune di Campotosto gli ha intimato la demolizione del manufatto
in quanto abusivo.
...
Il ricorso è infondato.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del
relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento
alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui
si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta
di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in
modo da poter essere agevolmente rimossa.
L’opera, di superficie pari a nove metri quadrati e altezza di m. 2.50 (così
descritta nel provvedimento impugnato), serve per la vendita stagionale di
generi alimentari e dal 2013 occupa lo stesso sedime del quale il ricorrente
riferisce di poter disporre a titolo di comodato.
Tuttavia il nulla osta dell’Ente parco, che il ricorrente indica a sostegno
della legittimità del manufatto, ha validità permanente, a dimostrazione del
fatto che si tratta di un’opera destinata ad un uso, non già provvisorio, né
connesso ad esigenze contingenti, ma destinato a rinnovarsi annualmente in
primavera, come si evince dalle SCIA commerciali che ininterrottamente, dal
2013 al 2015, il ricorrente ha presentato al Comune di Campotosto.
In proposito va osservato che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che
il carattere stagionale dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà
dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi
il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della
stabilità dell’attività e dell’opera a ciò necessaria (Consiglio di stato,
sez. 6, 21.02.2017, n. 795; Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n.
2842; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 13.03.2017 n. 409; Cass. pen. sez.
III, 30.06.2016 n. 36107).
Non ricorre poi la deroga prevista dall’art. 3, comma 1, lettera e.5), del
d.P.R. n. 380/2001 che esonera dal preventivo rilascio del permesso di
costruire i manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che
siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, che di norma vi sono soggetti, quando essi siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei
turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e,
ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di
settore.
Il ricorrente, che a detta deroga fa espresso riferimento, non prova però
che il manufatto in questione sia ricompreso in una struttura ricettiva
all’aperto, ma si limita ad allegare di essere titolare di un contratto di
gestione decennale dell’area comunale di sosta per camper allestita su aree
identificate da particelle catastali diverse da quelle sulle quali insiste
il manufatto in legno.
Peraltro si evince agevolmente dalla consultazione per via telematica del “Geoportale
cartografico catastale dell’Agenzia delle Entrate”, liberamente
accessibile, che le particelle nn. 226, 227 e 751 di sedime dell’area di
sosta non sono neppure contigue alla particella n. 300 sulla quale -come
asserito dal Comune e non contestato dal ricorrente– insiste quasi per
intero il chiosco da questi realizzato.
Ne consegue che, come correttamente osservato dal Comune, il manufatto in
questione, quand’anche fosse strutturalmente amovibile, deve essere
considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, un
intervento di nuova costruzione che ai sensi dell’art. 10 dello stesso
decreto necessita di permesso di costruire e, di converso, se realizzato in
assenza del permesso di costruire, se ne deve ordinare la demolizione ai
sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre l’ordinanza di demolizione fa espresso rinvio all’art. 35 del d.P.R.
n. 380/2001 sul presupposto, parimenti incontestato, che il manufatto
insiste in gran parte su suolo di proprietà del Comune su suolo demaniale,
indisponibile da parte di soggetti diversi dall’Ente proprietario se non per
atto di concessione.
Sul punto, che smentisce la legittimazione asserita del ricorrente a
conseguire un titolo abilitativo sul presupposto che abbia la disponibilità
del suolo ove insiste il manufatto, il ricorrente non muove alcuna censura.
Non ha alcuna rilevanza poi il fatto che l’Ente Parco nazionale “Gran
Sasso e Monti della Laga” abbia rilasciato il nulla osta permanente alla
realizzazione dell’opera in quanto ogni intervento realizzato su area
soggetta a vincolo paesaggistico è soggetta al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica regionale o del Comune, eventualmente a tal fine delegato,
anche se trattasi di opera temporanea, precaria e amovibile.
Lo si evince a contrario dall’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 che elenca le
opere che non necessitano dell’autorizzazione, fra le quali non figura la
tipologia cui è riconducibile il manufatto in questione.
Quanto detto esclude che le segnalazioni rivolte al Comune dal ricorrente
d’inizio attività edilizia o commerciale possano aver, da un lato,
legittimato la realizzazione del fabbricato e, dall’altro, aver determinato
un affidamento incolpevole sulla conformità dello stesso al regime edilizio
vigente.
Sotto il primo profilo è evidente che l’ordine di demolizione non implica
l’annullamento in autotutela –tanto meno tardivo per decorso del termine di
cui all’art. 21-nonies- di un precedente titolo edilizio d’iniziativa
privata per l’evidente ragione che la presentazione di una DIA o SCIA non
produce alcun effetto se ha ad oggetto un l’intervento che, come in specie,
deve essere assentito con permesso per costruire.
Ne consegue, sotto il secondo profilo, la natura abusiva dall’opera e
l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento tutelabile
sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il legislatore
stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede
amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio
–interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è
meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore
giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione
permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio
con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori
costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni
ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui
agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001 (Cons. St., Ad. Plen.,
17.10.2017, n. 9).
Il primo motivo pertanto è respinto.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi
edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento
non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi
dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Anche il secondo motivo pertanto è respinto
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 27.05.2019 n. 273 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
---------------
9. Con i primi due motivi l’appellante afferma che la sentenza di
primo grado non avrebbe tenuto conto della vetustà delle opere contestate
anche con riferimento al legittimo affidamento che si sarebbe determinato.
Le censure non sono fondate in ragione della non sanabilità degli abusi per
la violazione della normativa sulle distanze.
L’Adunanza plenaria n. 9 del 2017, infatti, ha stabilito (confermando
l’orientamento prevalente della giurisprudenza risalente) che «il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua
natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino».
Conseguentemente, deve essere respinta anche l’istanza istruttoria di
consulenza tecnica
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si lamenta che
l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla
necessaria partecipazione procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la
considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non
rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione
procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio come
“l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla
sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa
la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In
sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione
ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della
natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la
preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un’ampia
motivazione”.
---------------
8.3. Infondato è anche il terzo
mezzo, col quale, nel reiterare la corrispondente censura di primo grado
(pagina 10 dei motivi aggiunti), si lamenta che l’emissione dell’ordine
demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione
procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la
considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non
rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione
procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in
particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente
si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017,
n. 5595, nonché Cons. Stato n. 2799/18), “l’ordine di demolizione è un
atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e
non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la
sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura
vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la
preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”.
Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale, le osservazioni
presentate dall’appellante avverso l’ordinanza di demolizione riproponevano
sostanzialmente argomenti già confutati dall’Amministrazione con il diniego
di condono, osservazioni che, quindi, non hanno imposto all’Amministrazione
di ripercorrere anche nella (consequenziale) ordinanza di demolizione quanto
già controdedotto nel precedente diniego.
Dagli atti di causa è peraltro dato rilevare che, a seguito del diniego di
condono del 30.05.2007, il Comune di Seregno ha comunicato al signor Lu. Di
Na. l’avviso di avvio procedimentale del 28.05.2008, a seguito del quale
questi ha fatto pervenire, in data 01.07.2008, le sue controdeduzioni a
proposito delle quali l’Amministrazione, nel corpo dell’ingiunzione a
demolire, evidenzia che “quanto osservato non trova riscontro negli atti
d’ufficio e nella documentazione depositata presso questa Amministrazione”.
Da tale sia pur sintetica locuzione si evince che l’Amministrazione si è
soffermata sul contributo partecipativo reso dal destinatario del
provvedimento demolitorio (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 3208 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza
all’ordine di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita
dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31,
comma 3, del TU Edilizia.
In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di tale
inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione nei
registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo
atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura
meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e
formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo
all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo,
una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e
indicato nel provvedimento di demolizione.
---------------
Il verbale d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento
di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello
successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di
sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti
all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei
luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in
mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di
irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto”.
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto dispositivo,
limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l’inadempimento
dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo stesso venga
notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il provvedimento con
cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando l’adempimento della
notificazione all’interessato dell’accertamento formale
dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione
in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo
dell’acquisizione”.
---------------
Nella disciplina statale non par dubbio che il proprietario possa essere
coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza
all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo
all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a
prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che
tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei
principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili
dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro
ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost..
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio,
non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo adottate in funzione di
accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine
demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di
ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente
interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.
---------------
9. L’appello è infondato.
9.1. I rilievi sollevati col gravame in esame impingono nella stessa
dinamica del procedimento sanzionatorio innescato dall’esecuzione di opere
edilizie abusive, evidenziandosi che la contestazione circa la
legittimazione passiva rispetto all’atto che dispone l’acquisizione
dell’abuso al patrimonio indisponibile del Comune non postula l’efficace
impugnativa della previa ordinanza demolitoria.
Invero, l’appellante avversa il passaggio della motivazione dell’impugnata
sentenza, col quale il giudice di prime cure ha evidenziato la natura
automatica dell’effetto acquisitivo alla scadenza del termine per
l’esecuzione della sanzione demolitoria, che è stata sì impugnata
dall’appellante ma con ricorso dichiarato improcedibile dal Tribunale con la
sentenza n. 264 cit..
9.2. Per vero, questo Consiglio ha ribadito, di recente, che l’effetto
acquisitivo si produce automaticamente al decorso del termine di 90 giorni
previsto per l’esecuzione della demolizione e che il verbale che attesta
l’inottemperanza all’ordine demolitorio non è suscettibile di autonoma
impugnativa.
Per il primo profilo si è infatti osservato che: “La giurisprudenza sul
punto è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza all’ordine
di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al
patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU
Edilizia. In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di
tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione
nei registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo
atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura
meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e
formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo
all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo,
una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e
indicato nel provvedimento di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
14.04.2015 n. 1884)” (cfr. sentenza Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2019, n.
398).
Per il secondo aspetto, questo Consiglio ha rilevato che il verbale
d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento di
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello
successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di
sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti
all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei
luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in
mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di
irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto”
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.07.2018, n. 4479).
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto
dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata
l’inadempimento dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo
stesso venga notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il
provvedimento con cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando
l’adempimento della notificazione all’interessato dell’accertamento formale
dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione
in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo
dell’acquisizione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.05.2014, n. 2368).
Vale quindi il principio, confermato di recente da questo Consiglio, secondo
cui “Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il
proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo
all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in
particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio
comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta
responsabilità nell’illecito edilizio. La giurisprudenza amministrativa ha
avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di
criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali
ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che
trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base
all’art. 117 Cost.. E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni
in senso improprio, non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo
adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia
conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la
effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la
soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2017, n. 3366; Cons.
Stato, sez. VI, 15.04.2015, n. 1927).
Alla luce dell’orientamento assunto da questo Consiglio, dal quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi, le critiche sollevate dall’appellante
non sono in grado di superare le statuizioni in rito contenute
nell’impugnata sentenza, aventi effetto preclusivo all’indagine del merito
del ricorso, che pertanto vanno in questa sede confermate
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 3207 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione accessorio alla condanna penale per
reati edilizi - Riesame in sede esecutiva - Pendenza di un
procedimento amministrativo - Sospensione o revoca -
Presupposti - Bilanciamento di interessi - Fattispecie -
Art. 31 d.P.R. 380/2001.
L'ordine di demolizione accessorio alla
condanna penale per reati edilizi, insuscettibile di passare
in giudicato, è riesaminabile in sede esecutiva ove può
essere revocato in presenza di determinazioni della autorità
o giurisdizione amministrativa incompatibili con
l'abbattimento del manufatto oppure può essere sospeso
quando sia ragionevolmente prevedibile, in base a elementi
concreti, che un tale provvedimento sarà adottato in breve
arco temporale.
Mentre la revoca, (che si fonda sul sopravvenire di
legittimi provvedimenti amministrativi che siano
assolutamente incompatibili con l'ordine stesso o per aver
conferito all'immobile altra destinazione o per essersi
proceduto alla regolarizzazione postuma di opere che, pur
non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle
previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in
cui vennero eseguite, lo siano divenute solo
successivamente), nel caso di specie, non è configurabile in
difetto di provvedimenti incompatibili con l'ordine di
demolizione impartito ai ricorrenti, la pendenza di un
procedimento amministrativo per il conseguimento di un
titolo concessorio in sanatoria non è invece di ostacolo, in
astratto, ad un provvedimento di sospensione, dovendosi
tuttavia a tal fine contemperare due interessi, tra loro
configgenti, ed entrambi meritevoli di protezione: quello
pubblico alla tutela del territorio con la rapida
riparazione del bene violato e quello del privato ad evitare
un danno irreparabile in presenza di una situazione
giuridica che potrebbe evolversi a suo favore.
Fattispecie: abuso edilizio consistito nella realizzazione,
in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione
della Soprintendenza su un'area soggetta a vincolo
paesaggistico con contestuale violazione della normativa per
le costruzioni in cemento armato ed in zona sismica.
...
Reati urbanistici - Ordine di demolizione - Istanza di
condono o di sanatoria - Passaggio in giudicato della
sentenza di condanna - Richiesta di revoca o sospensione -
Riesame in sede esecutiva - Poteri e verifiche del giudice
dell'esecuzione.
In materia di reati urbanistici, in
presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva
al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il
giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di revoca
o sospensione dell'ordine di demolizione di opere accertate
come abusive, è tenuto ad una attenta disamina dei possibili
esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in
particolare:
a) a verificare il possibile risultato dell'istanza e se esistono
cause ostative al suo accoglimento;
b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di
definizione del procedimento amministrativo e sospendere
l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento
dello stesso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.05.2019 n. 21383 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a)
per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in materia
edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro adozione è
pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in
assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo
tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con
l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare motivazione
in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
----------------
b) per la costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza
e, quindi, in ultima analisi, della sua sanabilità, incombe
sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di
un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge;
----------------
c) la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e
la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non
dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli
inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto,
dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico
in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata
secondo il principio della vicinanza della prova;
d) spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la
data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in
quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed
elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove,
l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il
suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il
diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova
contraria viene trasferito in capo all'amministrazione.
---------------
Va inoltre osservato che:
a) per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in
materia edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro
adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento
edilizio in assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza
che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate
con l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare
motivazione in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
b) per la costante giurisprudenza in materia (cfr. Cons. Stato,
Sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Sez. IV, 10.01.2014 n. 46 e 14.02.2012 n. 703;
Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2013 n. 4182; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2013 n.
6159 e 01.02.2013 n. 631), l'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza e, quindi, in
ultima analisi, della sua sanabilità, incombe sull'interessato, e non
sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non
assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla ai sensi di legge;
c) si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la
prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa
consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non
dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli
inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto,
dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico
in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata
secondo il principio della vicinanza della prova;
d) tali principi sono stati ancora di recente ribaditi dalla
Sezione (Cons. Stato, Sez. VI, 19.10.2018 n. 5984: “Spetta a colui che ha
commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la
consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato
può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano
radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un
manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la
sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la
sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca
la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo
all'amministrazione”) e da essi il Collegio non ravvisa motivo per
discostarsi
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.05.2019 n. 3133 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A)
ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la
mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle
sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i
presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di
conformità di cui all'articolo 36”.
B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di
abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n.
380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia
d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici
vigenti”.
C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come,
per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in
violazione del norme edilizie come è stato evidenziato dalla sentenza che
qui viene appellata e come è confermato dall’esame della documentazione
depositata (anche) nella sede di appello, è ammessa l'adozione
dell'ordinanza di demolizione.
---------------
8. – Quanto poi alle rimanenti censure (ri)proposte nei motivi di appello,
non resta che rammentare che:
A) ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la
mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle
sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i
presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di
conformità di cui all'articolo 36”.
B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di
abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n.
380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è
limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia
d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici
vigenti” (così Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2013 n. 2873);
C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come,
per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in
violazione del norme edilizie come è stato evidenziato dalla sentenza che
qui viene appellata e come è confermato dall’esame della documentazione
depositata (anche) nella sede di appello, è ammessa l'adozione
dell'ordinanza di demolizione.
Da ciò ne consegue che, sebbene l'intervento in esame possa dirsi sottoposto
a DIA, lo stesso, in ragione della descritta contrarietà alla normativa
comunale (per quanto si è sopra detto e quindi che l’opera in concreto
realizzata non può considerarsi organismo edilizio completamente interrato,
come invece il proprietario aveva rappresentato di voler realizzare
presentando la d.i.a iniziale e quella in variante e che la predetta opera è
stata costruita grazia ad un innalzamento del piano di campagna oltre i
limiti consentiti dall’art. 4, comma 3, punto 5, delle N.T.A. al vigente
P.R.G.), rientra nelle ipotesi eccezionali che, in considerazione della
gravità dell'illecito, giustificano l'adozione della massima sanzione della
demolizione, così derogando alla regola che prevede per tali casi
l'applicazione della sola sanzione pecuniaria
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.05.2019 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' infondato l’argomento con cui si
censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione
comunale nella valutazione della difformità delle opere realizzate rispetto
al titolo edilizio.
Per sua natura tale attività non ha carattere discrezionale, essendo
limitata ad un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
---------------
Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che
“le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg., l.
n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono
risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso
formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo
da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva
influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla
concreta portata del provvedimento finale”.
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e
vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza
il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario.
---------------
Anche l’argomento con cui si
censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione
comunale nella valutazione della difformità delle opere rispetto al titolo
edilizio è infondato. Per sua natura tale attività non ha carattere
discrezionale, essendo limitata ad un mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (cfr.
Cons. Stato Sez. IV, 29.03.2019, n. 2086).
Il motivo d’appello relativo alla violazione dell’art. 7 della l. n.
241/1990 è infondato.
Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che
“le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg.,
l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono
risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso
formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo
da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva
influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla
concreta portata del provvedimento finale” (ex plurimis, Cons.
Stato, sez. IV, 13.08.2018, n. 4918).
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e
vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza
il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario; essi, comunque, nella
fattispecie, non avrebbero potuto far venire meno la circostanza che le
opere erano state realizzate senza il necessario titolo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 13.05.2019 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Ampliamento di un fabbricato - Concetto
urbanistico di pertinenza - Giurisprudenza - Manufatto
distinto e separato da quello principale - Asservimento -
Fattispecie: costruzione di un nuovo vano in adiacenza alla
preesistente abitazione - Permesso di costruire - Art. 3,
10, 36, 44, 45, 71 e ss. 83, 93, 95, d.P.R. 380/2001 (T.U.E.).
In materia di reati edilizi,
l'ampliamento di un fabbricato preesistente non può
considerarsi pertinenza, ma parte integrante dell'edificio e
privo di autonomia rispetto ad esso, perché, una volta
realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i
bisogni cui è destinato
(Sez. 3, n. 4139/2018).
La pertinenza, richiede che si tratti di un
manufatto distinto e separato da quello principale a cui è
asservito, essendovi in caso contrario ampliamento
dell'edificio che, laddove avvenga «all'esterno della sagoma
esistente» è da considerarsi intervento di nuova costruzione
ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1), T.U.E.,
assoggettato a permesso di costruire ai sensi del successivo
art. 10, comma 1, lett. a). Per questo la giurisprudenza ha
sempre ritenuto necessario detto provvedimento (o la
previgente concessione edilizia) nel caso, ad es., di
trasformazione di balconi in verande
(Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 2014, Summa),
di tettoie realizzate sul lastrico solare
(Sez. 3, n. 21351/2010, Savino), di
porticato addossato ad un fabbricato
(Sez. 3, n. 33657/2006, Rossi).
Nella specie, l'ampliamento dell'edificio
residenziale in questione con costruzione di un nuovo vano
in adiacenza alla preesistente abitazione -vano che al
momento del sopralluogo era destinato a cucina- esclude la
possibilità di invocare il concetto urbanistico di
pertinenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
ordine alla questione relativa alla prova della data di ultimazione
dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre rammentare
l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di
beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata
realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre
l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la
situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la
documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente
realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali
risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta
dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può
assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non
si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei
lavori>>.
---------------
Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma
nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova
esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire
l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il
compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data
successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte
a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il
ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto
a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il
richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori
che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di
realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere
dell'Amministrazione di negare la sanatoria>>.
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere
ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in
forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione>>.
---------------
Al
riguardo, in ordine alla questione relativa alla prova della data di
ultimazione dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre
rammentare l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di
beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata
realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre
l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la
situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la
documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente
realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali
risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta
dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può
assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non
si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei
lavori>> (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4168).
Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma
nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova
esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire
l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il
compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data
successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte
a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il
ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto
a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il
richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori
che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di
realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere
dell'Amministrazione di negare la sanatoria>> (TAR Campania, sez. III,
10/07/2018, n. 4579; nello stesso senso, TAR Sardegna, sez. II,
06/06/2018, n. 550).
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere
ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in
forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione>> (C. Stato, sez. IV,
22/08/2018, n. 5030) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 06.05.2019 n. 409 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Preavviso
di rigetto nel procedimento di sanatoria.
L’istituto del preavviso
di rigetto di cui all’art. 10-bis legge n.
241/1990 si applica anche nei procedimenti
di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve essere ritenuto
illegittimo il provvedimento di diniego
dell’istanza di sanatoria che non sia stato
preceduto dall’invio della comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento, in quanto
in mancanza di tale preavviso al soggetto
interessato risulta preclusa la piena
partecipazione al procedimento e dunque la
possibilità di un apporto collaborativo.
---------------
.. per l'annullamento:
- della ordinanza n. 3 in data 14.02.2017, Prot. n. 625, notificata
in data 16.02.2017, con la quale il
Responsabile dell'Area Tecnica comunale ha
ingiunto di provvedere alla demolizione del
“… fabbricato adibito a garage di superficie
pari a mq 48,90 utili in lato nord del
confine stradale";
- di ogni altro atto presupposto, preordinato, connesso e/o,
comunque, consequenziale, ivi inclusi la
comunicazione di avvio del procedimento n.
Prot. 585 in data 23.02.2016, il verbale di
sopralluogo in data 28.05.2016, nonché la
nota in data 07.02.2017 con la quale il
Responsabile dell'Area Tecnica, “… preso
atto della difformità dell'opera realizzata
rispetto alla comunicazione n. 1848 in data
21.07.2015 (formazione di pergolato in
legno) ed in totale assenza del Permesso di
costruire …”, ha comunicato la “…non
procedibilità della soluzione proposta in
quanto l'area su cui sorge il fabbricato
oggetto di contestazione è inibita
all'edificazione…”.
...
Risulta, innanzitutto, fondata la censura,
di carattere formale, di violazione
dell’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990, in relazione all’adozione della nota
comunale del 02.07.2017.
Invero, l’istituto del preavviso di rigetto
di cui al succitato art. 10-bis si applica
anche nei procedimenti di sanatoria o di
condono edilizio, con la conseguenza che
deve essere ritenuto illegittimo il
provvedimento di diniego dell’istanza
presentata dall’interessato che non sia
stato preceduto dall’invio della
comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento, in quanto in mancanza di
tale preavviso al soggetto interessato
risulta preclusa la piena partecipazione al
procedimento e dunque la possibilità di un
apporto collaborativo (ex multis,
Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n.
2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR
Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n. 797; TAR
Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n.
2137).
La comunicazione comunale del 02.07.2017 è,
dunque, illegittima, e va annullata, non
essendo stata data la possibilità alla
ricorrente di partecipare al procedimento al
fine di fornire il proprio apporto
collaborativo, esponendo le ragioni a
sostegno della propria domanda (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 04.05.2019 n. 434 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Violazione sostanziale e/o formali in materia antisismica -
Omessa denuncia lavori in zona sismica - Configurabilità del
reato - Zona inclusa tra quelle a basso indice sismico -
Violazione delle prescrizioni tecniche antisismiche -
Decorrenza del termine di prescrizione - Giurisprudenza -
Artt. 44, 83, 93 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di omessa denuncia lavori in
zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in
zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che
l'art. 83, comma secondo, del d.P.R. n. 380/2001, non pone
alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone
medesime (Sez. 3,
n. 30651/2017, Rubini; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011,
Marini).
Quanto al reato di cui all'art. 95, d.P.R.
n. 380 del 2001, la decorrenza iniziale del termine di
prescrizione è stata variabilmente risolta a seconda che sia
contestata la violazione sostanziale delle prescrizioni
tecniche in materia antisismica
(nel qual caso la permanenza ha termine con la cessazione
dei lavori; cfr. Sez. Un., n. 18 del 23/07/1999, Lauriola;
Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro)
o, come nel caso di specie, che vengano contestate
le violazioni formali della omessa denunzia dei lavori e/o
dell'omesso deposito dei progetti
(nel qual caso si registra un contrasto di giurisprudenza
tra chi ritiene la natura istantanea del reato - Sez. Un.,
n. 18/1999; Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano; Sez. 3,
n. 23656 del 26/05/2011, Armatori -e chi, invece, ne afferma
la natura permanente con cessazione alla data di adempimento
degli obblighi formali ovvero di cessazione dei lavori-
così, da ultimo, Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014, Petrolo;
Sez. 3, n. 1145 del 08/10/2015, Stabile; Sez. 3, n. 2209 del
03/06/2015, Russo).
...
Costruzione abusiva - Reato di natura permanente -
Decorrenza e cessazione della permanenza - Edificio
concretamente funzionale - Provvedimento di sequestro.
Il reato di costruzione abusiva cessa
con il totale esaurimento dell'attività illecita e, quindi:
a) quando siano terminati i lavori di rifinitura
(Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, secondo cui deve
ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente
funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o
abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo,
ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla
presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per
ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile
abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la
conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni;
Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali);
b) ovvero, se precedente, con
il provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la
disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.04.2019 n. 17701 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata
dell’amministrazione, con la conseguenza che l’eventuale mancata
partecipazione del privato al relativo procedimento non consente in ogni
caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art.
21-octies della legge 241/1990.
---------------
10
– Deve essere rigettato anche il motivo con il quale si lamenta l’omissione
degli adempimenti partecipativi di cui alla legge 241/1990.
Invero, per quanto attiene a quest’ultima violazione procedimentale, va
ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata dell’amministrazione, con la conseguenza che
l’eventuale mancata partecipazione del privato al relativo procedimento non
consente in ogni caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua
dell’art. 21-octies della legge 241/1990 (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 734
del 2014; Cons. St., sez. V, n. 3337 del 2012; Cons. St., sez. V, n.
4764/2011) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.04.2019 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
marzo 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla responsabilità del direttore dei lavori.
Il d.P.R. 380/2001 individua, nell'articolo 29,
alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni
della normativa urbanistica.
Tali soggetti, indicati nel titolare del
permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono infatti
ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori,
a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Il direttore dei lavori ha dunque, per il ruolo svolto, la responsabilità
tecnica delle opere cui deve sovrintendere ed il riferimento, contenuto
dalla norma, al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la
esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige
materialmente i lavori in assenza del permesso secondo i principi generali
del diritto penale in materia di concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori non viene
meno neppure nel caso in cui si assuma il carattere meramente fittizio della
prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti
normativi e regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il rapporto
di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano
pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al Comune, ovvero nel caso
in cui il soggetto che assume la direzione dei lavori sia sfornito di idoneo
titolo professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo, di fatto,
alla realizzazione dell'opera abusiva.
La giurisprudenza di questa Corte ha pure ritenuto la responsabilità del
direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante controllo sullo
svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi
urbanistiche ed al progetto autorizzato, nel caso in cui si disinteressi
dell'esecuzione delle opere edilizie poste in essere in difformità del
provvedimento autorizzatorio o le stesse vengano realizzate autonomamente da
altri a sua insaputa o in sua assenza.
Il menzionato art. 29 d.P.R. 380/2001 prevede tuttavia, al secondo comma, un
esonero di responsabilità del direttore dei lavori qualora egli, come
ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte:
- abbia contestato al titolare del
permesso di costruire, al committente ed al costruttore la violazione delle
prescrizioni del provvedimento amministrativo;
- abbia fornito
contemporaneamente all'Amministrazione comunale motivata comunicazione della
violazione stessa e,
- nelle ipotesi di totale difformità o di variazione
essenziale, abbia altresì rinunziato contestualmente all'incarico, sempre
che il recesso sia tempestivo, quando, cioè, intervenga non appena
l'illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore
dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui
impartite siano state disattese o violate.
---------------
Valgono,
con riferimento al primo motivo di ricorso, le considerazioni già svolte
sulla illiceità della procedura seguita per il rilascio del titolo abilitativo e la conseguente abusività dell'intervento, aggiungendo che il
motivo di ricorso presenta un ulteriore profilo di inammissibilità,
rappresentato dalla prospettazione di plurimi argomenti in fatto non
proponibili in questa sede.
Occorre parimenti richiamare quanto in precedenza osservato con riferimento
all'elemento soggettivo della contravvenzione contestata, rilevando che
anche questo ricorrente, rivestendo la qualifica, indicata nel capo di
imputazione, di direttore dei lavori, non poteva sottrarsi agli specifici
obblighi impostigli dalla legge.
Deve infatti ricordarsi che il d.P.R. 380/2001 individua, nell'articolo 29,
alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni
della normativa urbanistica. Tali soggetti, indicati nel titolare del
permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono infatti
ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori,
a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Il direttore dei lavori ha dunque, per il ruolo svolto, la responsabilità
tecnica delle opere cui deve sovrintendere ed il riferimento, contenuto
dalla norma, al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la
esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige
materialmente i lavori in assenza del permesso secondo i principi generali
del diritto penale in materia di concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori non viene meno
neppure nel caso in cui si assuma il carattere meramente fittizio della
prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti
normativi e regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il rapporto
di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano
pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al Comune (così, Sez. 3,
n. 10131 del 27/06/1995, PM. in proc. Solano, Rv. 203087. Conf. Sez. 3, n.
460 del 25/11/1997 (dep. 1998), P.M. in proc. Positano, Rv. 209252), ovvero
nel caso in cui il soggetto che assume la direzione dei lavori sia sfornito
di idoneo titolo professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo,
di fatto, alla realizzazione dell'opera abusiva (Sez. 3, n. 8631 del
24/06/1988, Dapaz, Rv. 179018).
La giurisprudenza di questa Corte ha pure ritenuto la responsabilità del
direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante controllo sullo
svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi
urbanistiche ed al progetto autorizzato (Cass. Sez. 3, n. 36567 del
08/07/2008, Aliquò, non massimata), nel caso in cui si disinteressi
dell'esecuzione delle opere edilizie poste in essere in difformità del
provvedimento autorizzatorio (Sez. 3, n. 38924 del 07/11/2006, Pignatelli, Rv.
235465) o le stesse vengano realizzate autonomamente da altri a sua insaputa
(Sez. 3, n. 4328 del 20/12/2005 (dep. 2006), Balducci ed altro, Rv. 233302)
o in sua assenza (Sez. 3, n. 22867 del 11/05/2005, Battistella, Rv. 231945).
Il menzionato art. 29 d.P.R. 380/2001 prevede tuttavia, al secondo comma, un
esonero di responsabilità del direttore dei lavori qualora egli, come
ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 23198 del
17/3/2009, Coluccelli, non massimata):
- abbia contestato al titolare del
permesso di costruire, al committente ed al costruttore la violazione delle
prescrizioni del provvedimento amministrativo;
- abbia fornito
contemporaneamente all'Amministrazione comunale motivata comunicazione della
violazione stessa e,
- nelle ipotesi di totale difformità o di variazione
essenziale, abbia altresì rinunziato contestualmente all'incarico, sempre
che il recesso sia tempestivo, quando, cioè, intervenga non appena
l'illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore
dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui
impartite siano state disattese o violate (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di un abuso edilizio in un Parco, in seguito all'inottemperanza
all'ordine di demolizione e riduzione in pristino, l'Ente Parco acquisisce
di diritto il manufatto abusivo e, quindi, non serve intervento del Comune.
Non è configurabile il difetto assoluto di attribuzione
quando l’Ente gestore di aree naturali protette abbia emesso un
provvedimento di demolizione delle opere ivi abusivamente realizzate, e
successivamente, di fronte all’inottemperanza dello stesso, ne abbia
disposto l’acquisizione, ponendosi, semmai, un problema di competenza
concorrente con quella comunale, dunque una questione di legittimità
dell’atto impugnato e non già di nullità.
Nel caso di abuso edilizio nell’area protetta rappresentata da un parco
nazionale, le sanzioni sono le stesse quanto al contenuto, ma si deve tener
conto delle disposizioni speciali (art. 29, comma 1, l. 394/1991) che
prevedono la potestà del medesimo Ente di prevenire e di reprimere gli abusi
edilizi, e di sanzionarli.
Nonostante il disposto dell’art. 31, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 preveda, nel
caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, l’acquisizione
dell’opera a favore dell’amministrazione competente alla vigilanza, prevale
la disciplina speciale di settore, antecedente e successiva a quella
generale, che prevede l’accentramento dell’effetto della acquisizione
gratuita in capo all’ente gestore, risolutiva, peraltro, delle questioni di
coordinamento tra i Comuni i cui territori facciano parte del parco
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
---------------
... per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per
la Campania, Sede di Napoli, n. 3819/2017.
...
1 – Gli appellati sono proprietari di un fabbricato sito nel comune di Somma
Vesuviana, in via ..., rispetto al quale è stato emesso il provvedimento n.
41 del 2012 dell’Ente Parco del Vesuvio, che ha ingiunto la demolizione
delle opere ivi abusivamente realizzate (foglio 22, particelle 1073 e 1076).
2 – Quindi, l’Ente Parco Nazionale del Vesuvio, stante l’inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, ha notificato in data 27.02.2017 il
provvedimento n. 318 del 26.09.2016 di acquisizione dell’area ed ha disposto
che i responsabili gli corrispondano una indennità mensile di occupazione
senza titolo.
3 – Tale provvedimento è stato impugnato avanti il TAR per la Campania che,
con la sentenza n. 3819 del 2017, ha dichiarato il difetto di giurisdizione
sulla contestazione relativa all’indennità di occupazione ai sensi dell’art.
11 c.p.a. ed inammissibile il ricorso contro il provvedimento di
acquisizione, ritenendo che l’Ente avesse agito in difetto assoluto di
attribuzione, in quanto il potere di dichiarare l’acquisizione gratuita
spetterebbe al comune nel cui territorio l’opera abusiva si trova.
Più precisamente, ad avviso del giudice di primo grado, ai sensi dell'art.
31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dell'art. 29 della l. 06.12.1991, n. 394,
e dell'art. 1, comma 1104, della l. 27.12.2006, n. 296, l'Ente gestore di
un'area protetta avrebbe il potere di ingiungere la demolizione e la
riduzione in pristino di opere abusive, ma in caso di inottemperanza a tali
ordini non sarebbe titolare del potere di dichiarare l'acquisizione gratuita
delle opere al proprio patrimonio, al fine di procedere alla immissione in
possesso e alla trascrizione. Da ciò discenderebbe la nullità assoluta
dall’atto impugnato per difetto del potere amministrativo ai sensi dell’art.
7 c.p.a.
4 – Con l’appello in esame, l’Ente Parco contesta quest’ultimo capo della
sentenza, mentre non ha svolto alcun motivo di impugnazione avverso il capo
della sentenza che ha dichiarato di difetto di giurisdizione ai sensi
dell’art. 11 c.p.a. rispetto al motivo con cui si contestava la
determinazione dell’indennità di occupazione, che pertanto è passato in
giudicato.
4.1 – Rispetto agli argomenti valorizzati dal TAR al fine di giustificare la
pronuncia di inammissibilità per carenza assoluta di attribuzione rispetto
all’atto con cui è stata disposta l’acquisizione ha invece dedotto che:
a) l'acquisizione gratuita non costituirebbe esercizio di potere
amministrativo, ma una sanzione legale, e che, quindi, dichiararne l'avveramento
rientra nelle competenze dell'Ente che se ne avvantaggia;
b) comunque non si verserebbe in una fattispecie di carenza di
potere o di difetto assoluto di attribuzione; e che, in subordine, l'art. 31
T.U., ove fosse interpretato nel senso voluto dal TAR, sarebbe
incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.
5 – La medesima questione, che interessava anche in tali casi l’Ente Parco
del Vesuvio, è già stata esaminata dalla Sezione in senso favorevole
all’appellante, tenuto conto della sussistenza della giurisdizione esclusiva
amministrativa in materia urbanistica e delle peculiarità della vicenda
posta all’esame della Sezione (cfr. Cons. St., Sez. VI,
n. 3347/2018 e
n.
2018/2018).
Non sussistendo ragioni per discostarsi da tale orientamento, l’appello deve
trovare accoglimento
6 – Come già osservato nei precedenti citati, in primo luogo, non si possono
considerare sussistenti i presupposti per ravvisare un “difetto assoluto
di attribuzione”, quando un Ente Parco emani un provvedimento in tema di
tutela del territorio: poiché la legislazione di settore ha previsto il
diritto-dovere del medesimo Ente di prevenire e di reprimere gli abusi
edilizi, e di sanzionarli conseguentemente.
Qualora si prospetti che l’Ente Parco abbia esercitato un potere spettante
in materia esclusivamente al Comune, si pone se mai un problema di “competenza”,
e dunque una questione di legittimità dell'atto impugnato, ma non è
possibile ravvisare un difetto assoluto di attribuzione.
A questo riguardo, va rimarcato che -anche in tema di competenza- ogni
violazione di legge, più o meno grave, determina l'annullabilità del
provvedimento, tranne i casi in cui l'Autorità emanante non abbia alcun
potere nella materia in questione, ciò soltanto configura il difetto
assoluto di attribuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2018, nn. 2017 e
2018; Sez. VI, 07.08.2013, n. 4167).
7 – Tanto precisato, deve ulteriormente osservarsi che nel caso di abusi
edilizi cd. maggiori, ovvero di opere realizzate in assenza o totale
difformità dal necessario permesso di costruire, le sanzioni sono previste
in via generale dall'art. 31 del T.U. 380/2001, riproduttivo sul punto delle
corrispondenti disposizioni già contenute nella l. 28.02.1985, n. 47. Il
Comune, quale ente preposto alla corretta gestione del territorio e titolare
del relativo potere di vigilanza, deve ordinare la rimessione in pristino e
la demolizione in cui essa si concreta; in caso di inottemperanza si
verifica poi di diritto l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio
dell'ente, il quale è tenuto a provvedere, quale proprietario, alla
rimessione in pristino non ancora effettuata.
7.1 - Ai fini del presente giudizio deve sottolinearsi che, quando si tratta
di un abuso nell'area protetta rappresentata da un parco nazionale, le
sanzioni sono le stesse quanto al contenuto, ma si deve tener conto delle
disposizioni speciali che prevedono le relative competenze.
In particolare, l'art. 29, comma 1, della l. 394/1991 ha previsto che: "Il
legale rappresentante dell'organismo di gestione dell'area naturale
protetta, qualora venga esercitata un'attività in difformità dal piano, dal
regolamento o dal nulla osta, dispone l'immediata sospensione dell'attività
medesima ed ordina in ogni caso la riduzione in pristino o la ricostituzione
di specie vegetali o animali a spese del trasgressore con la responsabilità
solidale del committente, del titolare dell'impresa e del direttore dei
lavori in caso di costruzione e trasformazione di opere".
I poteri in materia sono stati pertanto concentrati nel legale
rappresentante dell'Ente, il quale è nella miglior posizione per valutare se
siano o no rispettate tutte le norme di tutela dell'area protetta (che
potrebbe interessare anche il territorio di più Comuni, con i relativi
problemi di coordinamento che sorgerebbero, se operasse la tutela ordinaria,
demandata a ciascuno di essi).
Inoltre, nel quadro disegnato dalla disposizione citata, si inserisce l'art.
2, comma 1, della l. 426/1998, per il quale "Nelle aree naturali protette
nazionali l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7,
sesto comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni ed
integrazioni, si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione":
il riferimento è alla normativa previgente all'art. 31 del T.U., che, come
rilevato, aveva un corrispondente contenuto.
In altri termini, poiché le attività in contrasto con le esigenze di tutela
sono di solito rappresentate da opere abusive, si è completato il sistema,
accentrando anche l'effetto della acquisizione gratuita in capo all'ente
gestore.
Identica disposizione è contenuta nell'art. 1, comma 1104, della l.
296/2006, posteriore al D.P.R. 380/2001, per il quale: "Nelle aree
naturali protette l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui
all'articolo 7, sesto comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive
modificazioni, si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione
ovvero, in assenza di questi, a favore dei comuni";
8 – Dunque, non risulta condivisibile la tesi secondo la quale l'art. 31 del
T.U. 380/2001 avrebbe disposto l’abrogazione delle norme di tutela
descritte, in quanto: a) in primo luogo, si tratta di norme speciali (a
tutela delle aree rientranti nel parco), le quali per principio generale non
vengono abrogate da una legge generale sopravvenuta; b) l'art. 1, comma 1104
citato, è entrato in vigore successivamente all'entrata in vigore del T.U.
n. 380 del 2001.
9 – Da un altro punto di vista, non risulta nemmeno condivisibile
l'interpretazione per cui occorrerebbe distinguere fra l'effetto legale
della acquisizione gratuita, che va a vantaggio dell'ente gestore ed è
automatico, e il potere di dichiarare l'effetto stesso, che spetterebbe
invece al Comune.
Al riguardo, deve evidenziarsi che il beneficiario di tale effetto legale è
sicuramente l'Ente Parco, in forza delle norme speciali appena riportate,
che prevalgono sul comma 6 dell'art. 31 del T.U., per cui "Per gli
interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi
statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l'acquisizione gratuita,
nel caso di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, si verifica di
diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza
sull'osservanza del vincolo. Tali amministrazioni provvedono alla
demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a
spese dei responsabili dell'abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli,
l'acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune").
Quest’ultima disposizione, infatti, rappresenta una normativa generale sulla
pluralità di vincoli, mentre l'istituzione di un parco nazionale non si
riduce a un mero “vincolo”, ma comporta un più complesso sistema di tutela a
sé stante (come disposto dalla normativa anche sopravvenuta al testo unico).
10 - Inoltre, come correttamente rilevato dall'amministrazione appellante,
nel sistema delineato dall'art. 1, comma 1104, della l. 296/2006,
l'attribuzione all'Ente Parco del potere di acquisizione risulta anche
coerente con l'esigenza che siano ridotte le questioni di coordinamento tra
i Comuni i cui territori facciano parte del parco, in un'ottica tenuta
presente dal legislatore- secondo cui proprio l'Ente Parco è l'autorità che
è specificamente preposta alla repressione degli abusi posti in essere
all'interno del territorio del parco (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2018,
nn. 2017 e 2018).
11 – Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere accolto (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.03.2019 n. 1502 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune risarcisce chi acquista un edificio abusivo. CASSAZIONE. L’acquirente
si può rivalere sull’ente locale che ha agito in maniera negligente.
Il Comune può essere citato in giudizio per il risarcimento danni quando
l’acquirente si accorga di aver acquistato un edificio privo del permesso di
costruire e della licenza di abitabilità.
Lo affermano le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con
ordinanza 19.02.2019 n. 4889.
Si apre così una nuova strada per gli acquirenti, che già possono agire nei
confronti del venditore per difformità edilizie (articolo 1490 del Codice
civile) e difetti statici (articolo 1669 del Codice civile) e che ora
possono rivalersi verso l’ente locale per abusi edilizi non repressi.
Il caso più frequente è quello di immobili acquistati dopo aver
genericamente verificato l’esistenza del permesso di costruire e della
licenza di abitabilità. Dopo l’acquisto, si può avere l’amara sorpresa di
irregolarità edilizie (con ordini di demolizione, sanzioni pecuniarie), per
parziale o totale a abusività dell’immobile: il bene si può rivelare, in
questi casi, inidoneo all’uso e non commerciabile.
Altro caso frequente è quello del Comune che esiga la regolarizzazione di
unità immobiliari a distanza di molti decenni dalla costruzione, applicando
un orientamento del Consiglio di Stato (adunanza plenaria, 9/2017) che
consente di sanzionare abusi di diversi decenni prima. Il principio espresso
dalla Cassazione con la sentenza 4889/2019 consente all’acquirente di
reagire alla sanzione per abusi remoti, chiedendo al Comune il risarcimento
del danno causato dall’incolpevole affidamento su una situazione che il
Comune stesso ha tollerato per inerzia e negligenza.
Il caso specifico esaminato dalla Cassazione riguarda un edificio realizzato
a Latina, con difformità che erano state oggetto di ordinanza di
demolizione. Anche se il ricorso al Tar era stato respinto (sentenza
46/2018), l’acquirente ha chiesto al Comune, dinanzi il Tribunale civile, i
danni per comportamento inerte e negligente nei confronti di precedenti
abusi edilizi: se il Comune fosse stato vigile nel reprimere l’abuso, la
vendita non sarebbe avvenuta.
Anche in diversi altri casi l’ente locale è stato ritenuto responsabile per
aver causato danni per mera negligenza: così quando ha generato concrete
aspettative sul rilascio di un titolo edilizio, dapprima approvando il
permesso di costruire, ma negandone il rilascio quando i lavori erano ormai
imminenti (Tar Lecce 261/2019); ancora, quando il Comune ha annullato un
titolo edilizio sulla base una lettura errata di propri atti di
pianificazione (Cassazione 1162/2015), o quando ha rilasciato erroneamente
un certificato di destinazione urbanistica (Cassazione 6595/2011).
Questo dovere di vigilanza del Comune integra un sistema di recente innovato
con il codice della crisi d’impresa (Dlgs 14/2019), che impone la forma
della scrittura privata autenticata, con fideiussione del costruttore, per
vizi strutturali degli immobili da costruire: i difetti oggetto di tale
garanzia sono quelli che possono causare una rovina totale o parziale
(crepe, pavimenti irregolari, umidità), cui ora si aggiunge anche la
possibilità di chiedere al Comune il risarcimento danni per negligente
controllo degli abusi edilizi
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.02.2019).
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SENTENZA
FATTI DI CAUSA
An.Ca. ha chiesto la condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c.
del Comune di Cisterna di Latina al quale ha addebitato di aver omesso la
dovuta vigilanza circa il rispetto delle prescrizioni urbanistiche, da parte
della S.r.l. St.Im., nella realizzazione di un fabbricato.
L'attore ha esposto, in particolare, di aver acquistato un
appartamento facente parte di detto fabbricato, facendo affidamento sia
sulla conformità a legge ed alla vigente disciplina urbanistica dei relativi
titoli abilitativi -permesso di costruire e licenza di abitabilità- emessi
dal convenuto, sia sulla conformità del bene ai medesimi titoli, ma di aver
scoperto, in seguito, che l'immobile era affetto da svariate irregolarità
edilizie ed urbanistiche, tanto gravi da renderlo parzialmente abusivo,
inidoneo all'uso ed incommerciabile.
Nel contraddittorio del Comune e della Società St.Im., chiamata in giudizio,
il GI dell'adito Tribunale di Latina, con ordinanza del 03.07.2017, ha
rinviato la causa per la precisazione delle conclusioni, avendo ritenuto la
controversia devoluta in tesi alla giurisdizione esclusiva del Giudice
Amministrativo, in quanto connessa con l'attività provvedimentale della p.A.
An.Ca. ha, quindi, proposto regolamento preventivo di giurisdizione,
chiedendo dichiararsi la giurisdizione del Giudice Ordinario. Il Comune ha
resistito con controricorso, mentre la società costruttrice non ha svolto
difese.
Il Procuratore Generale ha concluso per la declaratoria della giurisdizione
del giudice ordinario. Le parti costituite hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il regolamento preventivo in esame pone la questione dell'individuazione
del giudice dotato di giurisdizione sulla controversia che il privato
introduca, adducendo che la p.A., nell'omettere la dovuta sorveglianza ed i
controlli prescritti dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 nei confronti
di un terzo costruttore e nell'emettere i provvedimenti abilitativi, lo
abbia indotto a acquistare una parte dell'edificio realizzato, confidando
incolpevolmente sulla relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi
inesistente.
2. La questione, come postula il ricorrente ed afferma il PG nelle sue
conclusioni, va risolta al lume della giurisprudenza di questa Corte
regolatrice (Cass. SU. nn. 6594-6596 del 2011; n. 1162 del 2015; n. 17586
del 2015; n. 12799 del 2017; n. 1654 del 2018; n. 33364 del 2018) a mente
della quale in tema di riparto della giurisdizione,
l'attrazione (ovvero la concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al
giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal
soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del
provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del
danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento
di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
La tesi è coerente coi principi affermati dalla Corte Cost. con le sentenze
n. 292 del 2000 e 281 del 2004 (in riferimento alle disposizioni di cui al
D.Lgs. n. 80 del 1998 art. 35, come sostituito dalla L. 2015 del 2000, oggi
art. 7, c.p.a.) che hanno posto in evidenza come la devoluzione al giudice
amministrativo, oltre che del controllo di legittimità dell'azione
amministrativa, anche (ove configurabile) del risarcimento del danno, sia
funzionale allo scopo di evitare al privato la necessità di instaurare un
successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario.
3. Ora, se è bensì vero che, come ricorda il Comune in seno alla memoria, la
menzionata giurisprudenza è stata elaborata in riferimento ad ipotesi
connotate dal pregresso annullamento di un provvedimento amministrativo
favorevole ed ampliativo, ciò non esclude che i danneggiati abbiano in quei
casi dedotto la lesione della loro integrità patrimoniale ai sensi dell'art.
2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non
rilevava in sé, ma per l'efficacia causale del danno-evento da affidamento
incolpevole.
Parimenti, ciò che viene in rilievo nella presente controversia non è la
legittimità dei titoli abilitativi relativi alla costruzione della Società
Stella -che il Comune sottolinea, più volte, non esser stati impugnatima la
situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione
dell'integrità del patrimonio che il ricorrente assume esser stata lesa per
avere acquistato una parte di quella costruzione sull'affidamento riposto
sull'azione del Comune, rivelatasi invece negligente ed inerte, sicché i
provvedimenti menzionati rilevano solo se ed in quanto idonei a fondare tale
affidamento, e la relativa tutela risarcitoria non richiede la previa
instaurazione di un giudizio innanzi al giudice amministrativo che accerti
l'illegittimità di atti e comportamenti tenuti dall'amministrazione.
In altri termini, la questione involta dalla domanda
concerne l'apprezzamento del comportamento tenuto dalla p.A. non come
espressione dell'esercizio di un potere, bensì nella sua oggettività a
determinare il legittimo affidamento del privato, e così a cagionargli un
danno, nella specie rappresentato dal ricorrente in svariate irregolarità
edilizie ed urbanistiche dell'immobile acquistato.
4. Così convenendo, ne consegue che:
a) le argomentazioni svolte dal Comune in riferimento al giudizio
impugnatorio (con esito negativo, come dallo stesso riferito) dell'ordinanza
di demolizione -emessa nei confronti del ricorrente e della Società St.-, di
interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, sono
già in astratto irrilevanti, e tanto più lo sono in concreto, in quanto
estranei ai fatti dedotti a sostegno della domanda;
b) l'art. 7, co 1, c.p.a. non è richiamato a proposito, non venendo
in rilievo una controversia relativa all'esercizio del potere
amministrativo, né con riferimento ad un provvedimento né con riguardo ad un
atto né in relazione ad un comportamento mediatamente riconducibile
all'esercizio di quel potere;
c) il vantato diritto al risarcimento del danno non concerne, ai
sensi del comma 5 dell'appena citato art. 7, un diritto soggettivo
riconducibile alle controversie attratte nelle materie di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, secondo la previsione dell'art. 133
dello stesso codice (anche con riferimento specifico alla materia
dell'edilizia di cui alla lett. f);
d) del tutto fuori tema è il richiamo alla giurisdizione generale
di legittimità di cui al comma 4 dell'art. 7 c.p.a. ed alla disposizione
dell'art. 30 c.p.a. in tema di risarcimento del danno per lesione di interessi
legittimi, trattandosi, appunto, di una pura azione aquiliana, per
violazione del principio dell'affidamento incolpevole;
e) le contestazioni relative alla posizione, di terzietà o meno,
del Ca. rispetto ai titoli abilitativi, al tempo del rilascio dell'agibilità
(che si afferma assentita per silentium in epoca successiva
all'acquisto), ed all'esistenza del danno attengono al giudizio di merito.
5. Va, in conclusione, affermata la giurisdizione del
giudice ordinario innanzi al quale le parti vanno rimesse,
anche, per la statuizione delle spese del presente regolamento. |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di un'istanza di sanatoria in
epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione
ha automatico
effetto caducante sull'ordinanza di demolizione,
rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria
produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in
quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo
termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato
(una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza).
---------------
7. Il ricorso è palesemente infondato e va respinto.
8. Dalla documentazione –anche fotografica- versata in atti
emerge in modo pacifico ed incontestato che lo stato di
fatto del fabbricato, rappresentato dall’elaborato
progettuale sottoposto dal ricorrente all’esame dell’ufficio
tecnico comunale, è totalmente difforme dall’effettivo stato
dei luoghi negli aspetti dettagliatamente descritti nel
verbale di sopralluogo eseguito dai tecnici comunali su
richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale
di Reggio Calabria (mancato rispetto delle distanze dei
fabbricati dai confini lato nord e lato sud; realizzazione
di un quinto piano f.t. non contemplato dal progetto
depositato, locale seminterrato costruito completamente
fuori terra, assenza di tratto strada carrabile di
collegamento con la via pubblica).
Da ciò non può che derivare la doverosità del provvedimento
di autotutela adottato e rivolto, in buona sostanza, a
rimuovere un titolo a suo tempo fondato su falsi presupposti
di fatto.
9. La difesa del ricorrente si impernia esclusivamente sulla
domanda di sanatoria presentata ex art. 36 d.P.R. 380/2001,
ma il mezzo si rivela mal posto.
Nella vicenda in decisione, infatti, l’interesse del
ricorrente è finalizzato a mantenere valido ed efficace
l’originario permesso di costruire,contestandone ab
origine il suo annullamento, non assumendo alcuna
rilevanza la successiva ed autonoma iniziativa in sanatoria
che non incide su alcun ordine di demolizione nel frattempo
intervenuto.
E’, del resto, fin troppo chiara la differenza tra il caso
di specie e quello che si verifica quando all’ordine di
demolizione,legittimo o meno che sia, si dia seguito alla
domanda di sanatoria.
Nella prima ipotesi, l’organo competente adotta il
provvedimento costitutivo dello ius aedificandi che
viene successivamente rimosso attraverso il provvedimento di
ritiro in autotutela (annullamento), laddove il ricorso
avverso quest’ultimo provvedimento è rivolto a ripristinare
l’originaria situazione favorevole di partenza.
Nella seconda ipotesi, l’organo competente, constatando la
mancanza del titolo edilizio, emana da subito un
provvedimento negativo (ordine di demolizione) nei confronti
del destinatario (proprietario o responsabile dell’abuso)
che, allo scopo di costituire il titolo che prima mancava,
attiva su domanda un ulteriore procedimento amministrativo
ordinato a verificare da parte dell’Autorità procedente la
conformità dell’intervento alla disciplina edilizia ed
urbanistica esistente al momento della realizzazione
dell’opera e al momento della presentazione dell’istanza di
sanatoria (cd. requisito della doppia conformità).
Laddove ricorra simile evenienza (ma non è quella sottoposta
all’attenzione del Collegio) trova spazio il noto, anche se
non unanime, indirizzo della giurisprudenza, secondo cui “La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva
all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di
sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere
improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per
sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure
al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o
implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un
nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato
un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già
dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria
17.09.2018 n. 559).
10. In definitiva, poiché il ricorrente ha impugnato
l’annullamento della concessione edilizia, deducendone
l’illegittimità solo attraverso la prospettazione della
probabile fondatezza della domanda di sanatoria (che non
risulta affatto delibata né tanto meno accolta), il ricorso
non coglie nel segno e va respinto (TAR Calabria-Reggio
Calabria,
sentenza 11.02.2019 n. 78 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza della
Sezione, pur non ignorando l’esistenza di recenti
orientamenti di segno diverso, ritiene preferibile dare
continuità alla tradizionale massima secondo cui la
presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi
produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata
dall’amministrazione.
---------------
1. Con ordinanza n. 899/2017, il Comune di Pistoia ha
ingiunto ai signori Gu.To. e Ca.Fu.,
nonché alla Gr. S.r.l., la demolizione di un insieme
di opere edilizie realizzate senza di titolo e destinate a
struttura di vendita della predetta società Gr.. Il
provvedimento, nel descrivere le costruzioni da demolire, le
identifica come “Struttura 1” (immobile commerciale adibito
alla vendita al pubblico, anche identificato dalle parti
come “serra grande”) e “Struttura 2” (serra modulare
coperta, anche “serra piccola”), tra loro collegate da una
zona aperta pavimentata, parimenti utilizzata come area
espositiva destinata alla vendita.
1.1. L’ordinanza è stata impugnata dai suoi destinatari con
il ricorso iscritto al n. 1612/2017 R.G..
Nella camera di consiglio del 16.01.2018, il collegio
ne ha sospeso l’efficacia anche in considerazione della
sopraggiunta presentazione, da parte degli interessati, di
separate istanze per l’accertamento di conformità delle due
strutture.
1.2. Decorso inutilmente il termine di legge, sulle due
istanze di sanatoria si è formato il silenzio-rigetto (art.
36 d.P.R. n. 380/2001; art. 209, co. 4, l.r. toscana n.
65/2014), impugnato dagli interessati con i ricorsi iscritti
ai nn. 569 e 570/2018 (relativi, rispettivamente, alla serra
piccola e alla serra grande).
1.3. Nei tre giudizi si è costituito il Comune di Pistoia,
per resistere ai gravami.
1.4. Le cause sono state discusse congiuntamente e
trattenute per la decisione nella pubblica udienza del 18
dicembre 2018, preceduta dallo scambio di documenti e
memorie difensive.
2. In via pregiudiziale deve essere disposta la riunione dei
ricorsi, accomunati da palesi profili di connessione
oggettiva e soggettiva, e verificata la persistenza
dell’interesse ad agire.
A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza della Sezione, pur
non ignorando l’esistenza di recenti orientamenti di segno
diverso, ritiene preferibile dare continuità alla
tradizionale massima secondo cui la presentazione di
un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata
dall’amministrazione.
Ne discende l’improcedibilità dell’impugnazione proposta,
con il più risalente dei ricorsi riuniti, avverso
l’ordinanza di demolizione n. 899/2017, definitivamente
superata dalle istanze di sanatoria presentate dagli
interessati il 20.12.2017.
Sorte analoga tocca ai due giudizi più recenti, giacché le
istanze di sanatoria sono state a loro volta definite dal
Comune di Pistoia con i provvedimenti espressi depositati
dai ricorrenti in vista dell’udienza di discussione. Pur con
esiti confermativi dei pregressi rigetti taciti, si tratta
di un vero e proprio riesercizio del potere cui oggi è
affidata in via esclusiva la regolazione del rapporto e che,
come tale, richiedono di essere autonomamente impugnati (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 04.02.2019 n. 175 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Alla stregua della tradizionale massima –alla
quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con
gli indirizzi della Sezione– la presentazione
di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di
demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già
adottata.
---------------
Considerato:
- che i ricorrenti impugnano l’ordine di demolizione e ripristino
pronunciato nei loro confronti dal Comune di Pisa con
riferimento all’avvenuta realizzazione senza titolo di una
serie di opere edilizie (manufatto precario adibito a
ufficio; tettoia prefabbricata) a corredo dell’attività di
parcheggio svolta dal signor Sc. sul terreno di proprietà
del signor Pa.;
- che, in vista dell’udienza pubblica del 06.12.2018, essi
hanno chiesto differirsi la trattazione di merito della
controversia, stante l’avvenuta presentazione, nelle more
del giudizio, di una domanda per l’accertamento di
conformità delle opere oggetto del provvedimento impugnato;
- che la circostanza è stata confermata dal Comune di Pisa, il
quale ha aderito all’istanza di rinvio;
- che il collegio ha rappresentato alle parti, ai sensi dell’art.
73, co. 3, c.p.a., la volontà di trattenere la causa in
decisione onde verificare la persistenza dell’interesse al
ricorso pur in pendenza della sopravvenuta richiesta
dell’accertamento di conformità;
- che il difensore dei ricorrenti non si è opposto, insistendo
tuttavia per la compensazione delle spese processuali;
- che, confermando quanto già prospettato alle parti, il ricorso va
dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di
interesse, alla stregua della tradizionale massima –alla
quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con
gli indirizzi della Sezione– secondo cui la presentazione
di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 30.01.2019 n. 152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di demolizione va notificata all’autore dell’abuso e al proprietario del
terreno.
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, in base all’articolo 31 del
Dpr 380/2001 (testo unico in materia di edilizia), dev’essere notificata
all’autore dell’abuso e al proprietario del terreno se non sono la stessa
persona. In difetto di notifica è illegittimo il successivo provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto e dell’area di
sedime, in caso di inottemperanza all'ordinanza di demolizione.
Così ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la
sentenza 28.01.2019 n. 1053.
Il caso
Ai ricorrenti è stata notificata la determinazione dirigenziale che dispone
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva e
dell'area di sedime per non essere stata eseguita l’ordinanza di
demolizione.
Nell’impugnare il provvedimento al Tar, i ricorrenti precisano, tra l'altro,
di essere divenuti proprietari del terreno sul quale è costruito il
manufatto illegale, in quanto eredi di chi era proprietario e autore
dell'abuso. Il Comune, però, ha notificato l'ordinanza di demolizione, atto
presupposto rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale,
soltanto al precedente proprietario che realizzò l'abuso (e che non effettuò
la demolizione) e non anche agli attuali proprietari: da qui, a giudizio dei
ricorrenti, l'illegittimità del successivo provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale.
La decisione
Il Tar accoglie la tesi dei ricorrenti e annulla il provvedimento impugnato.
Secondo i giudici, infatti, la notifica dell'ordine di demolizione al
soggetto che risulti proprietario al momento dell'adozione del provvedimento
ripristinatorio, oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto
necessario per il successivo atto di acquisizione gratuita dell'opera e del
sedime al patrimonio comunale.
In assenza di notifica, gli attuali proprietari non sono stati messi in
condizione di dare esecuzione all'ordine di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi entro il termine previsto dall'articolo 31 del Dpr
380/2001 (novanta giorni dall'ingiunzione) e dunque agli stessi non può
essere comminata la sanzione prevista per l'inottemperanza all'ordine di
demolizione, vale a dire l'acquisizione gratuita del manufatto e dell'area
di sedime al patrimonio comunale.
La predetta acquisizione gratuita, afferma il Tar, sarebbe dunque effettuata
al di fuori delle modalità previste dalla Legge e poste dall'ordinamento a
tutela del diritto di proprietà inciso dal provvedimento sanzionatorio.
Inevitabile, pertanto, l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della
determinazione dirigenziale.
La sentenza appare condivisibile e in linea con l’articolo 31, comma 2, del
Dpr 380/2001 che esplicitamente afferma: «il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.02.2019).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
I ricorrenti, in punto di fatto, precisano di essere diventati proprietari
del terreno in quanto eredi del precedente proprietario, autore dell’abuso,
a cui il Comune aveva notificato l’ordinanza di demolizione dei manufatti
eseguiti senza titolo, laddove la medesima ordinanza, atto presupposto
rispetto all’atto di acquisizione al patrimonio comunale, non gli è mai
stata comunicata né notificata. In ciò si sostanzierebbe l’illegittimità
contestata.
Il Collegio ritiene fondata la censura proposta con il secondo motivo
di ricorso per la violazione dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, risultando
dirimente il profilo, già rilevato in sede di ordinanza cautelare, della
mancata notifica ai proprietari dell’ordine di demolizione e della natura
punitiva dell’ordinanza di acquisizione.
La notifica dell'ordine di demolizione al proprietario,
oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto necessario per il
successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale, in quanto
questo secondo atto costituisce una sanzione per l'inottemperanza alla
demolizione, che non può essere pronunciata nei confronti di chi non sia
stato destinatario dell'ordine di demolizione, per cui la mancata notifica
al proprietario dell'ordine di demolizione non inficia la legittimità dello
stesso, ma preclude l'emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale ex art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001
(ex multis TAR Basilicata, Sez. I, 21.04.2016, n. 402; TAR
Calabria-Reggio Calabria, 26.01.2016, n. 83; TAR Lombardia Milano Sez. II,
14.01.2016, n. 76; TAR Campania Napoli Sez. III, 22.12.2015, n. 5876).
In assenza quindi di contestazioni da parte dell’amministrazione non
costituita in giudizio, in merito agli elementi di fatto e di diritto della
causa, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale deve avvenire secondo
le modalità previste dalla legge, che costituiscono un presidio
irrinunciabile di garanzia del diritto di proprietà inciso dal provvedimento
sanzionatorio.
Di conseguenza, pur essendo in ipotesi legittima
l’acquisizione nei confronti di proprietari che, seppure non responsabili
dell’abuso, siano comunque venuti a conoscenza dell’intervenuta esistenza di
un ordine demolitorio, affinché scatti la conseguenza acquisitiva è
necessario che l’ordine di demolizione sia stato notificato formalmente al
soggetto proprietario al momento dell’adozione del provvedimento
ripristinatorio e, conseguentemente, che sia stato concesso, anche
formalmente, il termine di novanta giorni per demolire, ai sensi degli art.
31, commi 2 e 3, che prevedono rispettivamente che il provvedimento di
riduzione in pristino sia ingiunto “al proprietario e al responsabile
dell'abuso” e che sia concesso all’interessato un termine di novanta
giorni dall'ingiunzione per procedere alla demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi.
Nel caso di specie tale notifica non risulta essere stata effettuata.
Pertanto, assorbiti per motivi di economia processuale gli ulteriori profili
dedotti, il ricorso è da accogliere, con salvezza degli eventuali ulteriori
provvedimenti emanati da parte dell’amministrazione, anche nelle more della
presente decisione. |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: risposta a quesito sulla rimozione spontanea di abuso edilizio
(Regione Emilia Romagna,
nota
22.01.2019 n. 87281 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sottoposizione di un immobile a
sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione, sempre che il
giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul destinatario dell’ordine
di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente a riguardo.
Invero, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza materiale e
giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire dell’immobile da
demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una condotta priva di
fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato art. 31 d.P.R. n.
380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla realizzazione di interventi
edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di tutela di cui intende farsi
carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale del 2017 appaiono
efficacemente tutelabili sul piano della momentanea inefficacia dell’ordine
di demolizione quanto al decorso del termine per l’esecuzione, destinato a
riattivarsi in via automatica con il venir meno del sequestro.
---------------
3. Nel merito, con il primo motivo di impugnazione il ricorrente
deduce la nullità dell’ordine di demolizione e ripristino pronunciato nei
suoi confronti, trattandosi di opere già sottoposte a sequestro penale.
La censura si sostanzia nell’invocazione di una recente decisione del
Consiglio di Stato, che, in consapevole dissenso dal prevalente orientamento
della giurisprudenza, ha sostenuto che “l'ingiunzione che impone un
obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un
immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del
comando (il quale, se eseguisse l'ordinanza, commetterebbe il reato di cui
all'art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell'ordine, e
cioè, l'imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite,
parere n. 1175 del 09.07.2013-20.11.2014, sull'affare n. 62/2013). In quest'ordine
di idee, l'ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela,
quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità
radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre
qualsivoglia effetto di diritto […] L'affermazione dell'eseguibilità
dell'ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto
tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può,
infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell'assunto della
configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell'abuso,
ai fini dell'ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione
dell'ingiunzione” (Cons. Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2337).
Allo stato, la tesi della nullità del provvedimento demolitorio adottato
dall’autorità amministrativa in presenza di un sequestro penale non sembra
tuttavia aver trovato stabile seguito, alla luce di successive decisioni che
hanno riaffermato il principio in forza del quale la sottoposizione di un
immobile a sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione,
sempre che il giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul
destinatario dell’ordine di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente
a riguardo (così Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2018, n. 2700); ovvero, hanno
mostrato di condividere le affermazioni contenute nella pronuncia invocata
dall’odierno ricorrente nei soli limiti in cui la pendenza del sequestro
penale impedisce che l’ordine di demolizione produca i suoi effetti sino a
quando il bene sequestrato non rientri nella disponibilità dell’interessato,
con particolare riferimento alla decorrenza del termine di novanta giorni
stabilito dall’art. 31, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001 per l’esecuzione e, in
difetto, per l’acquisto della proprietà del bene stesso da parte
dell’amministrazione procedente (si veda Cons. Stato, sez. VI, 20.07.2018,
n. 4418).
Come si vede, il rifiuto dell’idea che il proprietario del bene sia
obbligato ad attivarsi presso il giudice penale onde eseguire l’ordine di
demolizione non implica necessariamente il riconoscimento della nullità di
quest’ultimo per mancanza di un elemento essenziale, ai sensi dell’art.
21-septies della legge n. 241/1990.
D’altronde, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza
materiale e giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire
dell’immobile da demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una
condotta priva di fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato
art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla
realizzazione di interventi edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di
tutela di cui intende farsi carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale
del 2017 appaiono efficacemente tutelabili sul piano della momentanea
inefficacia dell’ordine di demolizione quanto al decorso del termine per
l’esecuzione, destinato a riattivarsi in via automatica con il venir meno
del sequestro (TAR Toscana, Sez. III,
con la
sentenza 04.01.2019 n. 7
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non
riveste automaticamente la qualità di controinteressato in senso
proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento
impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli
effetti prodotti della determinazione adottata nella propria
sfera giuridica.
Infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione
dei controinteressati nel processo amministrativo deriva
dalla simultanea compresenza di un presupposto formale,
consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel
provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale,
derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un
interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di
carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere
con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la
regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato
dal ricorrente.
Sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e la mera
menzione nell’atto in chiave descrittiva delle distinte
proprietà non sono sufficienti a qualificare formalmente e
sostanzialmente un interesse legittimo a difendere in
giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie applicate
con il provvedimento impugnato.
---------------
... per l'annullamento:
-
dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui
revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di
demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti
metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di
un’area
di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la
parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di
cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso,
se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di
sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia
Locale e U.T.C.;
...
Considerato preliminarmente che:
- è da escludere la sussistenza nella specie di
contraddittori necessari non intimati in giudizio, posto che
il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non riveste
automaticamente la qualità di controinteressato in senso
proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento
impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli
effetti prodotti della determinazione adottata nella propria
sfera giuridica;
- infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione
dei controinteressati nel processo amministrativo deriva
dalla simultanea compresenza di un presupposto formale,
consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel
provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale,
derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un
interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di
carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere
con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la
regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato
dal ricorrente (cfr. Cons. St., sez. IV, 01/08/2018, n. 4736);
- sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e
la mera menzione nell’atto in chiave descrittiva delle
distinte proprietà non sono sufficienti a qualificare
formalmente e sostanzialmente un interesse legittimo a
difendere in giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie
applicate con il provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'illegittimità dell'ordinanza di demolizione relativamente all'installazione di n. 6 paletti
metallici con rete metallica ed alla posa in opera della pavimentazione di
un’area di circa 35 mq..
La sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del
2001 si
riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è
prescritta la previa acquisizione di un permesso di
costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed
eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto
titolo abilitativo.
Gli interventi di nuova costruzione che richiedono il
permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile
l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli
interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e
straordinaria, del restauro e
risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia,
contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R.
n. 380.
La posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a
sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere
murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto
urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo
di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per
cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di
costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli
paesaggistici.
L'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta
estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di
costruire salvo che non comporti una trasformazione
urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione,
sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli
paesaggistici.
---------------
... per l'annullamento:
-
dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui
revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di
demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti
metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di
un’area
di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la
parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di
cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso,
se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di
sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia
Locale e U.T.C.;
...
Ritenuto nel merito che:
- la sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del
2001, nella specie irrogata con le ordinanze impugnate, si
riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è
prescritta la previa acquisizione di un permesso di
costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed
eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto
titolo abilitativo;
- gli interventi di nuova costruzione che richiedono il
permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile
l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli
interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e
straordinaria, del restauro e
risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia,
contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R.
n. 380;
- la posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a
sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere
murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto
urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo
di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per
cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di
costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli
paesaggistici (cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907;
TAR Roma, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV,
15/12/2017, n. 5908);
- l'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta
estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di
costruire salvo che non comporti una trasformazione
urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione,
sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli paesaggistici
(cfr. TAR Napoli, sez. VI, 01/08/2018, n. 5144; cfr. art. 6,
co. 1, lett. e-ter), del d.P.R. n. 380);
- nella specie non risultano adottati atti di autotutela
riferiti ai titoli abilitativi di cui la ricorrente
riferisce il possesso e posti a sostegno degli interventi in
questione;
- né la sussistenza di vincoli paesaggistici giustifica
l’applicazione di una sanzione edilizia diversa da quella
prevista in relazione al difetto del prescritto titolo
abilitativo edilizio, fatta salva ovviamente l’applicazione,
se del caso, delle pertinenti misure repressive (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente
costituisce un’autonoma sanzione derivante
dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione. In
altre parole, essa rappresenta la reazione dell’ordinamento
al duplice illecito posto in essere dal privato che,
dapprima, esegue un’opera abusiva e, successivamente, non
adempie all’obbligo di demolire entro il termine fissato
dall’amministrazione.
Alla luce dei principi esposti, deve
ritenersi che le questioni relative all’acquisizione
dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un
successivo momento procedimentale, non possono essere
introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di
demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di
acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di
un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio
pubblico non costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione
dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione,
che costituisce distinta misura sanzionatoria.
---------------
In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione,
deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta
la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso.
Nel caso in esame, il provvedimento impugnato contiene
sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il
tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali
lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel
rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza
rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità
di motivare il provvedimento amministrativo non può
ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem
degli atti procedimentali, se questi offrano comunque
elementi sufficienti e univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale
posti a sostegno della determinazione assunta.
---------------
4 – Con il primo motivo si deduce la violazione
dell’art. 7 della l. 47/1985, oggi art. 31 del d.p.r. 380/2001
e art. 132 della l.reg. 01/2005.
Più precisamente, si censura la sentenza impugnata nel punto
in cui afferma che “l’indicazione dell’area di sedime non
deve essere contenuta nel provvedimento di demolizione,
bensì nell’atto in cui l’Amministrazione accerta
l’inottemperanza all’ordine di demolizione”.
Secondo l’appellante, la sanzione che determina
l'acquisizione della proprietà del bene altrui -anche in
relazione alla sua particolare gravità- richiederebbe una
esatta individuazione del bene che il Comune intende
acquisire e tale indicazione dovrebbe essere contenuta già
nell'ingiunzione.
4.1 – La censura non può essere accolta, contrastando con
l’orientamento di gran lunga maggioritario a cui il Collegio
intende aderire.
Al riguardo, deve infatti ricordarsi che l’acquisizione
gratuita al patrimonio dell’ente costituisce un’autonoma
sanzione (cfr. Corte Cost. n. 82/1991, Corte Cost. n.
345/1991), derivante dall’inottemperanza dell’ingiunzione di
demolizione. In altre parole, essa rappresenta la reazione
dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere dal
privato che, dapprima, esegue un’opera abusiva e,
successivamente, non adempie all’obbligo di demolire entro
il termine fissato dall’amministrazione (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 03.05.2011, n. 2639; Cons. St., sez. V, 15.07.2016, n. 3834).
Alla luce dei principi esposti, deve
ritenersi che le questioni relative all’acquisizione
dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un
successivo momento procedimentale, non possono essere
introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di
demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di
acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di
un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio
pubblico non costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione
dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione,
che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del
2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez.
VI, n. 1998 del 2004).
5
- Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e
falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 241/1990.
A tal fine, l’appellante rileva che il provvedimento
impugnato si riferisce genericamente ad “opere abusive” così
come descritte nel verbale della P.M., ma non distinguerebbe
le singole fattispecie, che sarebbero soggette a discipline
diverse.
5.1 - Può essere esaminata in questa sede anche la censura
con la quale si contesta il difetto di motivazione
dell’ordinanza impugnata nel punto in cui ha disposto la
demolizione della tettoia e del box-container.
In particolare, l’appellante contesta la decisione del
TAR che, rispetto a tale censura, avrebbe preso in
considerazione la situazione del solo box–container, senza
fare alcun riferimento alla tettoia.
6 – Le censure sono infondate.
In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione,
deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta
la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso(cfr. Cons. St., Ad. Plen.,
17.10.2017, n. 9).
6.1 - Nel caso in esame, come già osservato dal Giudice di
prime cure, il provvedimento impugnato contiene sufficienti
elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso
edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è
stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della
polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità
di motivare il provvedimento amministrativo non può
ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem
degli atti procedimentali, se questi offrano comunque
elementi sufficienti e univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale
posti a sostegno della determinazione assunta (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 21.04.2015, n. 2011).
Le considerazioni che precedono valgano evidentemente sia
per il box che per la tettoia, dal momento che anche quest’ultima
è contemplata nel verbale di accertamento del 21.10.1996 (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.12.2018 n. 7210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità produce l’effetto
di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere
abusive comportando la necessità di un nuovo provvedimento
sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere, allo stato non emanato.
---------------
Il PGT non può prevedere una norma tecnica che vieti la
modifica di destinazione d’uso degli edifici condonati.
Se la zona in cui insiste un edificio condonato ammette una
determinata destinazione è illegittima l’ulteriore norma
tecnica che –creando una artificiale distinzione tra edifici
condonati ed edifici autorizzati o assentiti mediante
sanatoria ordinaria– vieti comunque il cambio d’uso sui
primi.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
a) del provvedimento comunale del 11.10.2018, notificato il
19.10.2018, recante diniego di permesso di costruire in
sanatoria relativo all’istanza presentata in data 13.09.2018
per ristrutturazione edilizia con parziale cambio d’uso ed
ampliamento relativamente all’edificio di proprietà sito in
via ... n. 13, nonché recante conferma dell’ordinanza
comunale n. 165/2018 del 23.07.2018 ed indicazione di
prosecuzione del procedimento repressivo;
b) della comunicazione dei motivi ostativi del 01.10.2018
richiamata dal provvedimento indicato sub a);
c) dell’ordinanza comunale del 23.07.2018 n. 165/2018 recante
ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi, confermata
dal provvedimento indicato sub a);
d) dell’art. 45 delle Norme Tecniche Attuative del piano delle
regole del Piano di Governo del Territorio di Lissone,
nonché per la condanna, del Comune di Lissone al
risarcimento dei danni patiti e patiendi nella misura da
quantificarsi in corso di causa.
...
1. Considerato che parte ricorrente fonda la domanda
cautelare, in primo luogo, sul pregiudizio derivante dalla
prosecuzione del procedimento di cui all’ordinanza
demolitiva del 23.07.2018.
1.1. Ritenuto sussistente il pregiudizio indicato e non
privo di fumus boni iuris il relativo motivo di
ricorso atteso che la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità produce l’effetto di rendere
inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive
comportando la necessità di un nuovo provvedimento
sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere, allo stato non emanato (cfr., per il principio,
la recente sentenza della sezione: TAR per la Lombardia –
sede di Milano, sez. II, 23.11.2018, n. 2635).
2. Considerato, inoltre, che l’istanza cautelare è proposta
anche al fine di “suggerire anche un più meditato riesame
della vicenda e condurre ad un ripensamento in termini più
ragionevoli ed equilibrati, anche a seguito dei motivati
rilievi qui esposti”.
2.1. Considerato che:
a) a fronte di un provvedimento negativo la tutela cautelare può
assumere carattere propulsivo e concretizzarsi nella forma
del remand, con cui il giudice ordina all’Amministrazione di
riesaminare l’istanza del privato in base ai criteri da esso
individuati in base agli elementi di fondatezza del gravame;
b) simile misura risulta, tuttavia, suscettibile di adozione
soltanto laddove ricorrano i presupposti del fumus boni
iuris e del periculum in mora indicati all’articolo 55
del codice del processo amministrativo;
2.2. Ritenuto sussistente il periculum in mora e
rilevato che, nel pur sommario esame tipico della presente
fase cautelare, non paiono prive di adeguato fumus boni
iuris le censure articolare in ordine all’articolo 45
delle N.T.A. del piano delle regole del P.G.T. tenuto conto
che:
a) nel caso in esame difetta una previsione normativa sovraordinata
che imponga la limitazione in esame al pari di quanto
avviene nel caso deciso dalla sentenza n. 1991 del 2017 di
questo Tribunale;
b) la previsione in esame detta un divieto di carattere assoluto e
generale (e senza alcuna valutazione di compatibilità
concreta) privando il titolare del diritto di proprietà
della possibilità di procedere ad interventi di manutenzione
straordinaria aventi quale finalità la tutela della
integrità della costruzione, la conservazione della sua
funzionalità, e, nel caso di specie, la realizzazione di
esigenze abitative (cfr., per il principio, Corte
Costituzionale, 29.12.1995, n. 529; Corte Costituzionale,
23.06.2000, n. 238);
c) non sussistono ulteriori specifiche ragioni che legittimino
previsioni restrittive per il caso di immobili oggetto di
condono (cfr. Consiglio di Stato, 16.12.2016, n. 5358);
2.3. Considerato, inoltre, che, nel caso di specie, la
possibilità di riesame della vicenda da parte
dell’Amministrazione può avvenire, comunque, senza investire
necessariamente la previsione di cui all’articolo 45 delle
N.T.A del piano delle regole del P.G.T., la cui eventuale
modificazione richiede un complesso ed articolato
procedimento.
2.4. Infatti, non paiono comunque privi di fondamento i
motivi articolati sul punto da parte ricorrente considerato
che la previsione di cui all’articolo 45 delle N.T.A. del
piano delle regole del P.G.T. si riferisce agli immobili
condonati e non contempla invece la fattispecie di immobili
oggetto di condono parziale, per i quali la disposizione
sembra operare in forza di una estensione analogica
difficilmente giustificabile, tuttavia, in ragione della
natura eccezionale della regola in esame.
2.5. Inoltre, deve considerarsi che, come risulta dalla
documentazione depositata da parte ricorrente in data
03.12.2018 (senza opposizione del Comune resistente quanto
al suo vaglio in sede cautelare), le istanze di condono sono
relative ad opere in difformità dal titolo ma conformi alle
norme e alle prescrizioni dettate dagli strumenti
urbanistici vigenti e, come tali, risultano assimilabili
alle ipotesi previste in via ordinaria dall’articolo 36 del
D.P.R. 380 del 2001.
2.6. In ultimo, l’asserita necessità di parere della
Commissione del paesaggio muove correttamente dalla classe
di sensibilità paesaggistica del sito ma non sembra
considerare in modo adeguato le caratteristiche proprie del
sito oggetto di intervento e del miglioramento estetico che
le modifiche effettuate apportano all’immobile.
3. In definitiva, deve sospendersi l’efficacia dei
provvedimenti impugnati con contestuale ordine
all’Amministrazione di riesaminare la vicenda alla luce dei
rilievi indicati ai punti 2.2–2.6 della presente ordinanza
depositando gli eventuali provvedimenti emessi entro il
termine indicato in dispositivo.
4. Le spese di lite della presente fase cautelare possono
essere compensate in ragione della complessità delle
questioni trattate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda),
a) accoglie la domanda cautelare nei sensi di cui in motivazione e,
per l’effetto, sospende l’efficacia dei provvedimenti
impugnati e ordina all’Amministrazione di riesaminare
l’istanza del privato, entro il 31.03.2019, alla luce dei
criteri indicati in motivazione;
b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza
pubblica del 13.11.2019, ore di regolamento (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 05.12.2018 n. 1698 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazioni edilizi - Ordine
di demolizione del manufatto abusivo - Revoca o sospensione
dell'esecuzione dell'ordine di demolizione - Limiti - Natura
di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio -
Principio del ne bis in idem - Normativa convenzionale ed
eurounitaria - Artt. 23 e 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
In materia di reati concernenti
violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto
abusivo non è sottoposto alla disciplina estintiva stabilita
per le sanzioni penali, né a quella della prescrizione
prevista dall'art. 173 cod. pen. avendo natura di sanzione
amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di
finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto
che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che
questi sia l'autore dell'abuso - né a quella conseguente al
decorso del tempo con condotta favorevole, prevista
dall'art. 445, comma 2, cod. proc. pen..
Proprio con riguardo a quest'ultima disposizione, invocata
in ricorso, è stato infatti ripetutamente affermato che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo (previsto
dall'art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), qualora
sia stato impartito con la sentenza di applicazione della
pena su richiesta, resta eseguibile anche nel caso di
estinzione del reato conseguente al decorso del termine di
cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., poiché, detto
ordine, in quanto sanzione amministrativa, non è soggetto
alle norme relative all'estinzione della pena o del reato,
nemmeno per effetto di un'applicazione analogica delle
medesime.
Detta sanzione, peraltro, non è neppure soggetta alla
prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981, n.
689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con
finalità punitiva.
Pertanto, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un
manufatto abusivo non comporta la violazione del principio
del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella
causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.
...
Demolizione del manufatto
abusivo - Coordinamento tra l'intervento specifico
giudiziario e quello generale, di carattere amministrativo -
Fase esecutiva dei provvedimenti - Poteri e valutazione del
giudice dell'esecuzione - Fattispecie.
Il coordinamento tra l'intervento
specifico giudiziario e quello generale, di carattere
amministrativo si realizza non già a livello dei rispettivi
poteri, bensì nella fase esecutiva dei provvedimenti, ma
solo nel senso che spetta al giudice dell'esecuzione
valutare la compatibilità del provvedimento giurisdizionale
di demolizione con le determinazioni dell'Amministrazione,
al fine di decidere se vi siano i presupposti per metterlo
in esecuzione e con quali modalità
(Sez. 3, n. 702 del 14/02/2000, Cucinella).
Nel caso di specie non è stata allegata
l'adozione di alcun provvedimento amministrativo
incompatibile con l'esecuzione della demolizione, sicché
nulla osta a che l'autorità giudiziaria proceda in via
esecutiva, avendo peraltro l'ordinanza impugnata attestato
che l'esecuzione in sede amministrativa non ha avuto seguito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53685 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto
abusivo - Esclusione - Natura di sanzione amministrativa a
carattere ripristinatorio - Giurisprudenza della Corte EDU -
Art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
In materia di reati concernenti
violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto
abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione
stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali,
avendo natura di sanzione amministrativa a carattere
ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti
che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene,
indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso.
...
Reati edilizi - Ordine di demolizione - Eventuale «disapplicazione»
dell'atto amministrativo - Potere-dovere di verifica del
giudice penale - Fattispecie: Sentenza passata in giudicato.
In tema di reati edilizi, il giudice
penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale
la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la
conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai
regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in
materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti
l'eventuale «disapplicazione» dell'atto amministrativo ai
sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato
E, atteso che viene operata una identificazione in concreto
della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela,
da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e
sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Nella specie, il richiamo all'art. 5 dell'all. e) della
legge 2248 del 1865 è del tutto inconferente, posto che
l'ordine di demolizione deriva dalla sentenza passata in
giudicato.
Peraltro, il diniego del condono edilizio non risultava
neanche essere stato impugnato
(Cass. Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53661 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sopravvenuta formazione di un nuovo
provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno
dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti
repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per
l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza
di demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi.
---------------
La
presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera,
sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa.
Per effetto degli artt. 38, 43 e
44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma
25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza
di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione
comunale di procedere prioritariamente all'esame della
medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per
l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione
della domanda di sanatoria; infatti, in caso di
accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso
di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare
l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per
l'ottemperanza da parte dell'interessato.
---------------
Il presente contenzioso ha ad oggetto il provvedimento di
accertamento di inottemperanza ad ordine di demolizione ed
acquisizione di beni immobili abusivi, Rep. n. 31824 del 24.07.2018.
Ritiene il Collegio che la natura della controversia e la
riscontrata completezza del contraddittorio e
dell’istruttoria consentano la sua immediata definizione.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente impugna il
provvedimento indicato in epigrafe evidenziando che esso è
illegittimo per un vizio del procedimento.
In vero, sul punto, il ricorrente deduce che
“successivamente al diniego comunque illegittimamente
formulato della istanza di condono presentata dal sig. Ma., non ha provveduto a reiterare l’ingiunzione di
demolizione e non ha fissato un nuovo termine per
l’ottemperanza, limitandosi a notificare l’illegittimo
provvedimento di acquisizione quivi gravato”.
Il motivo è manifestamente fondato e merita accoglimento.
Come rilevato, da molteplici sentenze del giudice
amministrativo: “La sopravvenuta formazione di un nuovo
provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno
dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti
repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per
l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza
di demolizione, con fissazione di nuovi termini per
ottemperarvi” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 02/05/2018, n.
2623).
Analogamente, il TAR Campania Napoli, Sez. VIII,
04/04/2018, n. 2193 (conforme, anche, TAR Campania Napoli Sez. II, 21.06.2016, n. 3128), ha statuito che “La
presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera,
sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità,
provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell'impugnativa. Per effetto degli artt. 38, 43 e
44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma
25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza
di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione
comunale di procedere prioritariamente all'esame della
medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per
l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione
della domanda di sanatoria; infatti, in caso di
accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso
di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare
l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per
l'ottemperanza da parte dell'interessato”.
In ragione del suesposto orientamento competerà dunque al
Comune di Sarno riesaminare la vicenda ed emanare, ove lo
ritenga, l’ordinanza di demolizione debitamente notificata a
ciascuno dei destinatari.
Va dunque accolto il primo motivo di ricorso, con
assorbimento di tutti gli altri motivi (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 23.11.2018 n. 1696 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla natura del silenzio ex art. 37, comma 4,
del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 22 della l.r. 15/2008 – Area Vigilanza
urbanistico-edilizia e contrasto all'abusivismo (Regione Lazio,
nota 09.11.2018 n. 705439 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione di opere abusive - Individuazione della
corrispondenza tra l'immobile da demolire e quello descritto
in sentenza - Verifica di tutti gli elementi disponibili -
Limiti della verifica - Casi di aggiunte, modifiche e
superfetazioni successive alla condanna definitiva -
Completa restitutio in integrum dello stato dei
luoghi - Giurisprudenza.
In tema di demolizione di opere abusive,
ai fini della individuazione della corrispondenza tra
l'immobile da demolire e quello descritto nella sentenza di
condanna, è l'identità tra le opere oggetto di imputazione e
quelle da abbattere, desumibile non soltanto dalla
volumetria, soggetta a diversi criteri di computo, ma dalla
sostanziale coincidenza ricavabile in base a tutti gli
elementi disponibili.
Peraltro, la necessità di una simile verifica va esclusa in
tutti i casi di aggiunte, modifiche e superfetazioni
successive alla realizzazione delle opere per le quali vi è
stata condanna definitiva, in quanto, la demolizione
ordinata dal giudice non riguarda soltanto l'immobile
oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo
esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito
successivamente che, per la sua accessorietà all'opera
abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo
consentirsi che un qualunque intervento additivo,
abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare
l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione
dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa
restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal
giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse,
si finirebbe per incentivare le più diverse forme di
abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo
indefinito la demolizione di opere in precedenza
illegalmente realizzate
(Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016 (dep. 2017), Molinari; Sez.
3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore; Sez. 3, n. 21797 del
27/04/2011, Apuzzo; Sez. 3, n. 2872 del 11/12/2008 (dep.
2009), P.M. in proc. Corimbi; Sez. 3, n. 13649 del
20/02/2002, Corbi; Sez. 3, n. 10248 del 18/1/2001, Vitrani) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51058 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esecuzione in assenza o in difformità degli
interventi subordinati a SCIA comporta l'applicazione della
sanzione penale prevista dall'art. 44, lett. a), d.P.R.
380/2001 se gli stessi non sono conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore,
mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o
difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata
disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa
prevista dall'art. 37 d.P.R. 380/2001.
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22
d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono
realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli
interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e
che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la
disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione
amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in
difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la
loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi
per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta
l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44,
lett. a), in quanto tale disposizione sanziona
"l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità
esecutive previste dal presente titolo, in quanto
applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dal permesso di costruire".
---------------
Anche l'infondatezza del secondo motivo di entrambi i
ricorsi è di macroscopica evidenza.
Come affermano i ricorrenti, la giurisprudenza di questa
Corte, ha chiarito che l'esecuzione in assenza o in
difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta
l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44,
lett. a), d.P.R. 380/2001 se gli stessi non sono conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore,
mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o
difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è
applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37
d.P.R. 380/2001 (Sez. 3, n. 952 del 07/10/2014 (dep. 2015),
Parisi, Rv. 261783; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo,
Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv.
235413).
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22
d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono
realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli
interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e
che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la
disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione
amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in
difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la
loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi
per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta
l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44,
lett. a), in quanto tale disposizione sanziona "l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal
presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal
permesso di costruire".
Il principio richiamato è pienamente condiviso dal Collegio,
che intende ribadirlo, ma, nel fare ciò, deve però rilevarsi
che nella sentenza impugnata risulta accertato in fatto che
le opere erano state realizzate "...in parte in assenza
di titolo ed in parte in difformità dalla DIA n. 322/2010,
nonché in violazione degli strumenti urbanistici ed edilizi
vigenti al momento del fatto presso il Comune di Colle Val
D'Elsa".
A fronte di tale affermazioni, entrambi i ricorsi si
limitano alla apodittica affermazione della conformità delle
opere espressamente smentita dal giudice del merito, con le
conclusioni del quale neppure si confrontano (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50144). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'annullamento in autotutela di una licenza
edilizia in sanatoria, rilasciata ai sensi della legge 47/1985, ottenuta
sulla base di una falsa dichiarazione dell'epoca dell'abuso – Comune di
Mazzano Romano (Regione Lazio,
nota 06.11.2018 n. 693050 di prot.). |
ottobre 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura
di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non
è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod.
pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita
dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente
le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
---------------
Nessuna equiparazione può, logicamente, farsi tra la
demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti
diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino
(riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione.
Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già
dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa
nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente
(reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le
conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi
competenti, nei confronti del venditore.
---------------
4. Il ricorso è inammissibile, per manifesta infondatezza
dei motivi (art. 606, comma 3, del cod. proc. pen.) e per
genericità, reitera i motivi dell'istanza 2 senza
confrontarsi con le motivazioni del provvedimento impugnato.
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura
di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non
è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod.
pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita
dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente
le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n.
36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv.
264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011,
Mercurio e altro, Rv. 250336).
5. La questione della natura sanzionatoria dell'ordine di
demolizione relativamente alle sentenze Cedu sulla confisca
è mal posta, oltre che generica.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la
demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti
diversi che operano su piani completamente diversi:
sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino
(riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione (vedi Cass. Sez.
3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti).
6. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già
dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa
nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente
(reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le
conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi
competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/03/2007,
n. 22853, Coluzzi; Sez. 3, 11/02/2016, n. 5708, Woolgar).
7. La mera proposizione di una sanatoria non consente
l'automatica sospensione dell'ordine di demolizione, in
quanto il giudice penale deve valutare la ragionevole
previsione che, in un breve lasso di tempo, intervenga un
provvedimento amministrativo in insanabile contrasto con la
demolizione: «L'ordine di demolizione delle opere abusive
emesso con la sentenza passata in giudicato può essere
sospeso solo qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla
base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo
sia adottato dall'autorità amministrativa o giurisdizionale
un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con
detto ordine di demolizione» (Sez. 3, n. 42978 del
17/10/2007 - dep. 21/11/2007, Parisi, Rv. 238145; vedi
inoltre, Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016,
Manna, Rv. 266763) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2018 n. 48834). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive - Ordine di demolizione - Revoca o sospensione
dell'ordine di demolizione - Istanza di condono o sanatoria
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna - Effetti - Pendenza del condono edilizio -
Verifiche del giudice dell'esecuzione - Esclusione
dell'efficacia sanante sulle opere abusive - Pagamento
dell'oblazione - Art. 31 d.P.R. n. 380/2001.
La revoca o la sospensione dell'ordine
di demolizione delle opere abusive, di cui all'art. 31
d.P.R. n. 380 del 2001, in conseguenza della presentazione
di una istanza di condono o sanatoria successivamente al
passaggio in giudicato della sentenza di condanna,
presuppone l'accertamento da parte del giudice
dell'esecuzione della sussistenza di elementi che facciano
ritenere plausibilmente prossima la adozione da parte della
autorità amministrativa competente del provvedimento di
accoglimento (Sez.
3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2018 n. 48835 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fermo restando che la denuncia anonima non può
essere utilizzata a fini probatori, onde in base a essa non
possono essere compiuti atti, quali ad esempio le
intercettazioni telefoniche, le perquisizioni o i sequestri
(ossia atti di indagine che presuppongono l'esistenza di
indizi di reato), tuttavia le notizie contenute nella
denuncia anonima possono -anzi devono, per effetto del
principio dell'obbligatorietà dell'azione penale- costituire
spunti per una investigazione di iniziativa del pubblico
ministero o della polizia giudiziaria al fine di assumere
dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo
possano ricavarsi gli estremi di una notitia criminis.
Invero, “Una denuncia anonima non può essere posta a
fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è
possibile procedere a perquisizioni, sequestri e
intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che
implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità.
Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime
possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico
ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere
dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo
possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una
notitia criminis”.
---------------
10. Nel merito il ricorso è infondato e va pertanto
rigettato, dovendosi disattendere tutte le doglianze
articolate.
11. Quanto all’inutilizzabilità dell’esposto anonimo ai fini
dell’avvio del procedimento, in applicazione analogica
dell’art. 333, comma 3, c.p.p. occorre evidenziare che
l’orientamento giurisprudenziale citato in ricorso appare
superato da un successivo e maggiormente condivisibile
orientamento giurisprudenziale affermatosi nella
giurisprudenza penale.
11.1. In particolare deve osservarsi che nella prevalente
impostazione ermeneutica l’apporto conoscitivo dell’esposto
anonimo è limitato nell'ambito della c.d. pre-inchiesta,
ossia nella fase in cui gli organi investiganti ricercano
elementi utili per l'individuazione della notizia di reato e
che si caratterizza, da un lato (sotto il profilo
procedurale) per l'atipicità e l'informalità delle attività
svolte sia dal pubblico ministero, che dalla polizia
giudiziaria; dall'altro (sotto il profilo cronologico) per
la collocazione in un momento antecedente all'avvio delle
indagini preliminari.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza del giudice
penale (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 28.10.2008, n.
4329, Sez. VI, 21.09.2006, n. 36003), fermo restando che la
denuncia anonima non può essere utilizzata a fini probatori,
onde in base a essa non possono essere compiuti atti, quali
ad esempio le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni
o i sequestri (ossia atti di indagine che presuppongono
l'esistenza di indizi di reato), tuttavia le notizie
contenute nella denuncia anonima possono -anzi devono, per
effetto del principio dell'obbligatorietà dell'azione
penale- costituire spunti per una investigazione di
iniziativa del pubblico ministero o della polizia
giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi diretti a
verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi di
una notitia criminis.
Del resto -sebbene facendo leva sul tenore letterale degli
articoli 240, comma 1, e 333, comma 3, cod. proc. pen. le
disposizioni ivi contenute si prestino essere interpretate
nel senso di escludere che l'esposto anonimo non consenta
l'avvio di alcun tipo di accertamento- tuttavia tale
interpretazione è smentita dall'art. 330 cod. proc. pen.,
che permette alla polizia giudiziaria ed al pubblico
ministero di formare autonomamente la notizia di reato,
accedendo a fonti d'informazione c.d. spurie, tra le quali
si inserisce anche l'esposto anonimo.
Inoltre la prevalente impostazione ermeneutica trova
conferma nell'art. 5 del D.M. 30.09.1989 (recante il "Regolamento
per l'esecuzione del codice di procedura penale"), ove
si prevede che:
a) "le denunce e gli altri documenti anonimi che non possono
essere utilizzati nel procedimento sono annotati in apposito
registro suddiviso per anni, nel quale sono iscritti la data
in cui il documento è pervenuto e il relativo oggetto";
b) il predetto registro (c.d. modello 46) ed i documenti anonimi
sono "custoditi presso la procura della Repubblica con
modalità tali da assicurarne la riservatezza" (comma 2);
c) "decorsi cinque anni da quando i documenti indicati nel comma
1 sono pervenuti alla procura della Repubblica, i documenti
stessi e il registro sono distrutti con provvedimento
adottato annualmente dal procuratore della Repubblica".
Ciò posto, come chiarito anche di recente dalla Suprema
Corte “Una denuncia anonima non può essere posta a
fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è
possibile procedere a perquisizioni, sequestri e
intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che
implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità.
Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime
possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico
ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere
dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo
possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una
notitia criminis” (Cass. pen., sez. VI, 22.04.2016 che
ha pertanto ammesso l’utilizzabilità dell’anonimo
esclusivamente come “mero atto di impulso investigativo
per verificare l’esistenza di una notitia criminis”).
11.2. Si evidenzia al riguardo che nell’ipotesi di specie
l’esposto anonimo è stato solo il sollecito sulla cui base
si è condotta un’attività accertativa d’ufficio
concretizzatasi, a seguito di apposito sopralluogo, nel
rapporto fascicolo 23315 del 25/09/1996 richiamato nel
provvedimento gravato, con cui si è constata ad opera del
Corpo dei Vigili Urbani, Comando del XX Gruppo Circ.le, la
realizzazione dei cancelli di cui è causa -laddove per
contro con l’esposto anonimo si era lamentata l’istallazione
abusiva di un unico cancello- per cui l’Unita organizzativa
tecnica della circoscrizione XX del Comune di Roma ha
qualificato le opere de quibus come opere eseguite in
assenza di D.I.A. e suscettibili pertanto di essere
sanzionate ai sensi dell’art. 60, comma 2, l. 662/1996.
Da ciò l’infondatezza della doglianza al riguardo formulata.
12. Ciò posto, senza dubbio destituita di fondamento è anche
la censura fondata sull’asserita contraddittorietà fra
l’esposto anonimo e le risultanza del sopralluogo, in
quanto, come detto, l’esposto anonimo è stato solo l’impulso
al fine di accertare d’ufficio la presenza di abusi edilizi,
per cui valore probatorio deve assegnarsi unicamente alle
risultanze del sopralluogo, peraltro eseguito da soggetti
qualificabili quali pubblici ufficiali; da ciò il valore di
fede privilegiata, ovvero sino a querela di falso ex art.
2700 c.c. da assegnarsi alle predette risultanze (cfr., in
tali senso, Cons. Stato, sez. quinta, sentenza 03.11.2010,
n. 7770; 28.01.1998, n. 103; sezione prima, 08.01.2010, n.
250 e cfr. anche, per il principio, Tar Campania, sesta
sezione, n. 760 del 06.02. 2013; 11.12.2012, n. 5084,
21.06.2012, n. 2944; 02.05.2012, n. 2006, 02.05.2012, n.
2006, 05.06.2012, n. 2635 e n. 2644; 30.03.2011, n. 1856;
sezione terza, 20.11.2012, n. 4638; sezione quarta,
03.01.2013, n. 59) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifica giurisprudenza l’applicazione delle
sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente
vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono
sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e
non necessitano di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico che è in re ipsa.
---------------
Per costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e
della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non
sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la
prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e
la relativa consistenza è nella disponibilità
dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo
l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti
o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto
che, nel caso della doppia conformità, necessita della
previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere,
stante la necessità di poterne accertare la conformità sia
con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data
della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo
nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli
interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante
per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella
specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento
della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso
fare applicazione del principio processualcivilistico in
base al quale la ripartizione dell’onere della prova va
effettuata secondo il principio della vicinanza della prova.
---------------
Non avendo parte ricorrente offerto prova, parimenti
destituita di fondamento è la censura riferita alla non
applicabilità della predetta sanzione alle ricorrenti, in
qualità di proprietari dell’immobile in cui sarebbero state
da altri realizzate le opere edili di cui è causa, in quanto
a seguito dell’entrata in vigore della l. 47/1985 si è
andato per contro affermando il principio secondo il quale a
norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985 sussiste a carico del
proprietario dell'immobile una presunzione semplice di
responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché
l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità
dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso da altri .
---------------
E' destituita di fondamento la censura riferita
all’illegittimità della sanzione demolitoria, stante il
lasso di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e
l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il
principio giurisprudenziale secondo il quale “Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell'onere di ripristino”, principio questo
applicabile in riferimento a tutte le sanzioni in materia
edilizia e non solamente in riferimento all’ordine di
demolizione, ricorrendo il medesimo presupposto della natura
vincolata del potere esercitato.
---------------
14. Parimenti infondate sono le ulteriori censure, riferite
al difetto di motivazione e di istruttoria in relazione alla
sussistenza dei presupposti per l’applicazione della
sanzione di cui è causa.
Si evidenzia al riguardo che per pacifica giurisprudenza
l’applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto
tipicamente vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono
sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e
non necessitano di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico che è in re ipsa (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n.
9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008 ,
n. 20987).
Ed invero nell’ipotesi di specie, avendo l’Amministrazione
comunale accertato la realizzazione delle opere de quibus
in assenza della prescritta D.I.A., alcun altro accertamento
doveva essere condotto dalla medesima, incombendo su parte
ricorrente, cui era stata ritualmente inviata la
comunicazione di avvio del procedimento, la prova della loro
realizzazione in data antecedente l’entrata in vigore della
L. 47/1985, onde ritenere che le stesse fossero sottratte
non solo al regime della D.I.A., ma anche a quello
dell’autorizzazione, laddove detto onere non è stato assolto
non solo in sede procedimentale –non risultando che parte
ricorrente abbia prodotto in quella sede memorie scritte e
documenti, per cui si palesa infondata la dedotta violazione
dell’art. 10 l. 241/1990– ma neanche nella presente sede.
Infatti per costante giurisprudenza in materia (ex multis
TAR Campania Napoli, sez. VI, 17/09/2015, n. 4565 Cons. St.,
sez. IV, 14.02.2012 n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
02.07.2010 n. 16569; Cons. St., sez. IV, 10.01.2014 n. 46;
Cons. St., sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Cons. St., sez. VI,
20.12.2013 n. 6159, Cons. St., sez. V, 20.08.2013 n. 4182;
Cons. St., sez. VI, 01.02.2013 n. 631) l'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e
della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non
sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la
prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e
la relativa consistenza è nella disponibilità
dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo
l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti
o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto
che, nel caso della doppia conformità, necessita della
previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere,
stante la necessità di poterne accertare la conformità sia
con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data
della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo
nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli
interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante
per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella
specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento
della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso
fare applicazione del principio processualcivilistico in
base al quale la ripartizione dell’onere della prova va
effettuata secondo il principio della vicinanza della prova
(cfr. per tutte Cassazione S.U. 30.10.2001 sentenza n.
13533).
Nell’ipotesi di specie per contro alcuna prova è stata al
riguardo fornita, non potendosi annettere valore di prova in
tale senso all’impegno contrattuale assunto dalla società
Ac.Im.80 circa l’istallazione dei cancelli entro il mese di
Maggio 1984, non essendovi alcuna prova in atti che in
effetti i cancelli siano stati apposti entro la suddetta
data e comunque in data anteriore all’entrata in vigore
della L. 47/1985.
14.1. Non avendo parte ricorrente offerto siffatta prova,
parimenti destituita di fondamento è la censura riferita
alla non applicabilità della predetta sanzione alle
ricorrenti, in qualità di proprietari dell’immobile in cui
sarebbero state da altri realizzate le opere edili di cui è
causa, in quanto a seguito dell’entrata in vigore della l.
47/1985 si è andato per contro affermando il principio
secondo il quale a norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985
sussiste a carico del proprietario dell'immobile una
presunzione semplice di responsabilità per gli abusi edilizi
accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale
responsabilità dimostrando la sua estraneità all'abuso
commesso da altri (ex multis TAR Sicilia Palermo Sez.
II, 04.07.2014, n. 1744); per contro detta estraneità non
può affermarsi nell’ipotesi di specie, in quanto le opere
de quibus, anche se realizzate dalla società Ac.Im.80,
erano state eseguite per conto ed in favore dei coniugi Fa.,
come da impegno contrattuale al riguardo intervenuto, con la
conseguenza che alcun esonero di responsabilità può farsi
valere nell’odierna sede, salva la possibilità di rivalsa in
sede civile per inesatto inadempimento dell’obbligazione
assunta dalla società Ac.Im.80.
15. Parimenti destituita di fondamento è la censura riferita
all’illegittimità della sanzione applicata, stante il lasso
di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e
l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il
principio giurisprudenziale, di recente ribadito con
sentenza dell’Adunanza Plenaria 17/10/2017, n. 9 secondo il
quale “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in
cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale
non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non
denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”,
principio questo applicabile in riferimento a tutte le
sanzioni in materia edilizia e non solamente in riferimento
all’ordine di demolizione, ricorrendo il medesimo
presupposto della natura vincolata del potere esercitato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In linea di diritto, l'onere della prova
dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia
abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra
quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale
ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis,
incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad
essere nella disponibilità di documenti e di elementi di
prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza
l'epoca di realizzazione del manufatto.
Analogamente va richiamata la predominante giurisprudenza che pone
in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso)
assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare
il carattere risalente del manufatto della cui demolizione
si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge
"ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa
licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al
di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel
caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile
al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa prevalente opinione giurisprudenziale ammette un temperamento secondo
ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti
a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie,
dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e,
dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione del manufatto
privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali.
---------------
Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di
prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti
tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei
ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali,
laddove la prova per testimoni è del tutto residuale.
Data la premessa, da essa discende che la prova dell'epoca
di realizzazione si desume da dati oggettivi, che resistono
a quelli risultanti dagli estratti catastali ovvero alla
prova testimoniale ed è onere del privato, che contesti il
dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della
diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando
quella fornita dalla parte pubblica.
---------------
4. Le considerazioni di cui alla sentenza appellata non
sono condivisibili e l’appello è fondato.
4.1 In linea di diritto, l'onere della prova
dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia
abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra
quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale
ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo
ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato,
unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e
di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. ad es.
Consiglio di Stato sez. VI 05.03.2018 n. 1391).
Analogamente va richiamata la predominante -e qui
condivisa, in linea di principio- giurisprudenza che pone
in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso)
assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare
il carattere risalente del manufatto della cui demolizione
si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge
"ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa
licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al
di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel
caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile
al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa, prevalente opinione
giurisprudenziale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI,
18.07.2016, n. 3177) ammette un temperamento secondo
ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti
a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie,
dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e,
dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione del manufatto
privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali
(sembrerebbe essere questa la fattispecie per la quale è
causa, in cui lo stesso Comune alla fine dà atto
dell’esistenza di una tettoia o comunque di un manufatto poi
consolidato, pur entro una situazione in punto di fatto non
del tutto perspicua e caratterizzata da elementi documentali
non sempre univoci e sicuri, che dovrà costituire oggetto di
approfondimento istruttorio nella naturale sede procedimentale).
4.2 Sulla scorta di tali linee direttrici la fattispecie in
esame appare connotata da elementi ben diversi rispetto a
quanto rilevato dal Tar con la sentenza, resa in forma
semplificata, qui appellata.
Dall’analisi della documentazione versata in atti emerge,
infatti, come gli elementi prodotti da parte odierna
appellante non si siano limitati alle richiamate
dichiarazioni.
In particolare, emergono i seguenti elementi.
4.2.1 In primo luogo le risultanze degli atti pubblici di
compravendita degli immobili interessati. In particolare,
già il contratto di compravendita del 1940 tra gli originari
proprietari ed il dante causa dell’odierno appellante,
contiene il riferimento all’alienazione di una “casa civile
con stalla, portico e fienile” e, quindi, un immobile
composto non solo dalla casa di civile abitazione, ma anche
da altri due corpi di fabbrica ovvero un portico ed un
fienile che, presumibilmente, sono stati trasformati –con
un intervento che la p.a. è chiamata a qualificare– nel
manufatto in contestazione.
Ai fini della presente causa
rileva che, contrariamente a quanto posto a fondamento del
provvedimento demolitorio e della sentenza impugnata, lungi
dal trattarsi di un manufatto ex novo l’ampliamento esisteva
da epoca risalente –anche ante 1942– con conseguente onere
di approfondimento istruttorio e motivazionale, ben distinto
rispetto alla conclusione sottesa alla ordinata demolizione,
sulla dimostrazione e sulla consistenza della presunta
modifica successiva.
4.2.2 In secondo luogo, le aerofotogrammetrie, con
particolare riferimento a quella rilasciata dall’Istituto
Geografico militare del 1962, dalla quale è rilevabile la
presenza di un manufatto, collocato nel punto riferibile
all’ampliamento in contestazione. Tale fondamentale
elemento, neppure esaminato o controdedotto dalla p.a. in
sede procedimentale, evidenzia la presenza di un manufatto
realizzato in epoca ante 1962.
Sul punto la concisa
considerazione svolta dalla sentenza appellata appare tanto
generica quanto contraddittoria, laddove prende atto che una
copertura (e quindi un manufatto) vi fosse, in termini
quindi opposti alla contestazione, di cui all’ordinanza
impugnata, circa la presenza di un ampliamento abusivamente
realizzato ex novo.
4.2.3 In terzo luogo, le diverse dichiarazioni sostitutive
le quali, seppur in astratto non sufficienti ex sé, in
concreto, a fronte della loro pluralità e della coerenza con
gli altri richiamati elementi, impongono alla p.a. uno
sforzo ben maggiore di quello posto a fondamento del
provvedimento condiviso dal Tar.
Anche sul punto le concise
considerazioni del Tar si basano su di un’affermazione
generale non coerente con i principi sopra richiamati e
basata sul richiamo di precedenti non pertinenti, in quanto
relativi a fattispecie ben distinte: la prima, (Tar Veneto
121/2017) concernente una sola dichiarazione contrastante
con plurime altre; la seconda (Tar Basilicata 164/2015)
concernente un caso di irrilevanza della prova in quanto
attestante la realizzazione di un manufatto nel 1970, cioè
quando già sussisteva la generalizzata necessità del titolo
edilizio.
In dettaglio, vano richiamate le tre dichiarazioni
sostitutive, erroneamente considerate come isolate dal Tar:
quella della signora Bi.Ma.Te., nata nel 1949
nei luoghi di causa (cosicché è ben ipotizzabile che possa
correttamente riferire per un’epoca quantomeno anteriore al
1967), la quale conferma la circostanza che si evince
dall’atto di compravendita del 1940 in merito all’esistenza
di un porticato e, quindi, di un corpo di fabbrica già dagli
anni ’40, che, negli anni ‘50 è stato tamponato ed ha
assunto l’attuale consistenza; quella della signora La.Zu., acquirente pro quota, con il Br. nel 1982
dell’immobile oggetto dell’ordinanza di demolizione, che
afferma che l’ampliamento all’epoca esisteva e che nello
stesso vi era già quello che è ancora l’unico servizio
igienico della casa; quella del signor Gr.Vi.,
mediatore che si era occupato dell’acquisto dell’immobile
per conto del signor Br., il quale conferma la
sussistenza dell’ampliamento nel 1982.
Tali ultime due
dichiarazioni, pur riferendosi ad un’epoca posteriore al
1967, assumono rilievo sia in generale, quale conferma degli
elementi desumibili dagli altri documenti, sia nello
specifico quale esistenza del manufatto nell’attuale
consistenza in epoca ben anteriore all’apposizione del
vincolo paesaggistico.
5. In definitiva, conformemente ai principi sopra
richiamati, la parte privata ha fornito una serie di
elementi coerenti e plurimi in ordine alla risalenza del
manufatto ad un’epoca anteriore alle date rilevanti in
materia (1942 e 1967) e nella presente fattispecie (1987).
Rispetto a tali elementi, non risulta che la p.a. abbia
svolto il necessario approfondimento istruttorio e
motivazionale, essendosi limitata a formule generiche e
sostanzialmente di stile.
Inoltre, a fronte delle richiamate emergenze documentali, il
Comune ha comunque erroneamente valutato come interamente
abusivo l’ampliamento, considerandolo come realizzato ex
novo; vizio in cui è incorso anche il giudice di prime cure.
All’opposto, risulta provato per tabulas che un’opera era
già esistente addirittura nel 1940 (oltre che nel 1962, come
da aerofotogrammetria); conseguentemente appare fondato
anche in parte qua il vizio dedotto in termini di
travisamento fatti, difetto di motivazione e istruttoria
sull’epoca e sulla consistenza dell’intervento asseritamente
abusivo in quanto realizzato post 1967.
La p.a. è chiamata
altresì a rivalutare il manufatto sotto il profilo
paesaggio, in quanto risulta provata l’epoca di
realizzazione anteriormente al vincolo, apposto solo nel
1987; al riguardo, se è pur vero che in caso di sanatoria
assume rilievo unicamente l’epoca di valutazione
dell’istanza, nel caso di specie, in assenza di un’istanza
dell’odierno appellante, la p.a. è preliminarmente chiamata
a verificare e valutare la consistenza dell’opera ed a
dimostrare la realizzazione di un intervento, ante
imposizione del vincolo, rilevante ai fini del vincolo
stesso.
6. Sempre in linea generale, rispetto agli elementi
rilevanti acquisiti nella presente controversia, vanno
svolte le ulteriori considerazioni, sempre sulla scorta
della prevalente e condivisa seguente opinione
giurisprudenziale: nelle controversie in materia edilizia,
soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i
principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei
manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si
rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe
catastali, laddove la prova per testimoni è del tutto
residuale; data la premessa, da essa discende che la prova
dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi, che
resistono a quelli risultanti dagli estratti catastali
ovvero alla prova testimoniale ed è onere del privato, che
contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova
rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile,
superando quella fornita dalla parte pubblica (Consiglio di
Stato sez. IV 09.02.2016 n. 511).
Nel caso di specie la p.a. non ha fornito la necessaria
prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli elementi
concreti forniti, attraverso formule di stile non
sufficienti alla luce dei principi sopra richiamati.
Parimenti irrilevante (in disparte della questione di
ammissibilità che accomuna la perizia tecnica da ultimo
prodotta da parte appellante, non richiamata dal Collegio in
quanto reputata irrilevante), è la documentazione da ultimo
prodotta dalla difesa comunale, sia in quanto integrante una
inammissibile integrazione giudiziale della motivazione, sia
per irrilevanza della stessa: per ciò che concerne i dati
catastali, gli stessi non sono rilevanti, nei termini appena
richiamati; per ciò che concerne la nuova dichiarazione
sostitutiva la stessa, oltre a non contraddire in gran parte
gli elementi già acquisiti e sopra descritti, dovrà comunque
essere debitamente valutata nella naturale sede
procedimentale insieme a tutti i numerosi elementi rilevanti
nella fattispecie.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va
accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza
appellata, va parimenti accolto il ricorso di primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2018 n. 5988 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio
consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione
dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso
e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il
suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare
la sanzione demolitoria.
---------------
3.– Sotto altro profilo, non è assistita da prova la tesi
secondo cui la tettoia sarebbe stata assai risalente nel
tempo –segnatamente, si tratterebbe di una tettoia
preesistente sin dal 1927, usata come concimaia, per la
quale all’epoca non abbisognava alcun tipo di permesso
autorizzatorio–, cosicché l’intervento edilizio contestato
si sarebbe limitato ad un’opera di manutenzione
straordinaria e restauro.
3.1.– Costituisce principio consolidato che l’onere di
provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo
spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la
deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il
suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare
la sanzione demolitoria.
3.2.– Nel caso di specie, gli appellanti non hanno fornito
elementi idonei a comprovare la preesistenza del manufatto,
nella sua attuale consistenza.
Dall’atto di divisione in data 11.01.2006, risulta sì
una tettoia ma, a quel tempo «fatiscente» e dunque
bisognevole di sostanziale rispristino, che dunque ha subito
–come confermato anche dalle foto– una radicale alterazione
di struttura e fisionomia.
Che la «concimaia» esistente prima degli interventi edilizi
realizzati dal Sig. Vi.Gi., fosse un manufatto del
tutto diverso da come oggi appare –collocato peraltro su un
plateatico di calcestruzzo– risulta dalle stesse
dichiarazioni del perito depositate in atti, secondo cui:
-
«il sottoscritto non conoscendo personalmente, lo stato di
fatto dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere di
manutenzione effettuate, può determinare l’entità di queste
per confronto tra lo stato attuale e quello precedente
riferendosi esclusivamente ad una descrizione del fabbricato
preesistente, che seppur in forma sommaria è stata riportata
nell’atto di divisione dell’11.01.2006 rep. 48061 racc.
17534»;
- «dalla stringata descrizione si evince che si trattava di
una tettoia fatiscente che per maggior precisazione
riportata in via verbale al sottoscritto dai proprietari,
era realizzata con profilati metallici e lamiere posticce,
quindi i lavori di manutenzione straordinaria hanno senza
dubbio riguardato il rinnovo delle pareti strutturali
principali e la sostituzione della copertura con i materiali
descritti che hanno reso definitiva la tettoia»;
- «nulla
può essere detto a riguardo del piccolo bagno adiacente la
tettoia coperto dalle falde di tetto della stessa, in quanto
in nessuna descrizione precedente lo stesso è stato citato» (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2018 n. 5983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Trattandosi di attività vincolata, le violazioni
formali non consentono l’annullamento del provvedimento
impugnato: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in
cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale
non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non
denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”.
---------------
3.2. Trattandosi di attività vincolata, le violazioni
formali pure denunciate con il ricorso non consentono
l’annullamento del provvedimento impugnato: “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Cons. Stato,
Ad. Plen., 17.10.2017 n. 9).
3.3. L’ordinanza di demolizione non è stata notificata alla
sig.ra Gi.Se. a titolo personale, ma quale amministratrice
del condominio, in quanto tale sicuramente legittimata ai
sensi dell’art. 1131, co. 2, c.c. a ricevere i provvedimenti
dell’autorità concernenti le parti comuni.
3.4. Il riferimento alla sussistenza del deposito di rifiuti
deve ritenersi neutro ai fini dell’ingiunzione demolitoria,
essendo questa sufficientemente motivata in ragione della
riscontrata abusività delle opere (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. I,
sentenza 18.10.2018 n. 1773 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura
ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale
del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo
invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con
la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente
l’abuso.
---------------
Il ricorso è infondato.
Non è condivisibile la prima censura, secondo cui i
proprietari sarebbero estranei alla realizzazione dell’abuso
edilizio, avendo acquistato l’immobile dopo la sua
edificazione (censura qualificata dai ricorrenti come
“difetto di legittimazione passiva”).
Come ripetutamente osservato dalla giurisprudenza anche di
questa Sezione (TAR Napoli, n. 1501/2018) la sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura
ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale
del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo
invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con
la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente l’abuso
(cfr. da ultimo Cons. St., Ad plen. 9/2017).
Peraltro va aggiunto, con riguardo al caso concreto, che in
forza delle clausole del contratto di compravendita sopra
richiamato, gli acquirenti erano stati resi edotti del
cambiamento d’uso del fabbricato, originariamente rurale, in
abitazione ad uso residenziale e della circostanza che tale
cambiamento costituiva oggetto da parte della venditrice di
una Dichiarazione Inizio Attività, sul cui esito
procedimentale era pienamente esigibile, secondo un
principio di ordinaria diligenza, una verifica da parte
degli odierni ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non si può applicare a un fatto illecito
(l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema
di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato
per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio,
ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta –e
inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter
legem.
---------------
Non sussiste
l'illegittimità del provvedimento
di demolizione per la mancata indicazione del bene da
acquisire al patrimonio comunale.
Invero, il manufatto è sufficientemente
descritto sia nella conformazione fisica che con i
riferimento catastali, così da non risultare lese le
esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore
analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce
alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta
acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR
380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal
decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di
demolizione.
---------------
Non è fondata la seconda doglianza, con cui si contesta la
insufficienza della motivazione in relazione al decorso del
tempo e alla violazione del legittimo affidamento.
La
questione -invero controversa al momento dell’introduzione
del giudizio, (in senso contrario a quanto dedotto da parte
ricorrente, cfr. peraltro Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n.
3750)– è stata come è noto oggetto di una recente
pronuncia dell’Adunanza Plenaria (Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 9); pertanto il principio di sinteticità ex
art. 3 c.p.a. consente di richiamare quanto ivi affermato,
secondo cui “non si può applicare a un fatto illecito
(l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema
di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato
per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio,
ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta –e
inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter
legem”.
E ciò a prescindere dalla specifica cognizione degli
aventi causa circa la regolarità urbanistica dell’immobile,
evincibile dal contratto di acquisto.
Infine, non può essere condivisa la terza censura, con cui i
ricorrenti si dolgono della illegittimità del provvedimento
di demolizione per la mancata indicazione del bene da
acquisire al patrimonio comunale.
Il manufatto –sulla cui abusività non vi è contestazione– è sufficientemente
descritto sia nella conformazione fisica che con i
riferimento catastali, così da non risultare lese le
esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore
analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce
alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta
acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR
380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal
decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di
demolizione (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014 n. 3438; TAR Campania Napoli, Sez II,
09.07.2018, n. 4530; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 09.01.2015
n. 68) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di sospensione dei lavori edili in
corso, attribuito all’autorità comunale dall’art. 27, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto
destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia,
mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo
provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che
viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del
destinatario, con conseguente assorbimento della disposta
misura sospensiva.
---------------
1. Con il gravame in trattazione, la ricorrente, che espone di
essere proprietaria di un fabbricato di due piani fuori
terra, oltre a piano seminterrato, ubicato in Striano alla
Via ... e concesso in locazione a fini produttivo-artigianali, impugna l’ordinanza dirigenziale del
Comune di Arzano n. 19 del 02.05.2017, con la quale le è
stata ingiunta, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, il ripristino della destinazione residenziale
originaria, come risultante dal certificato di agibilità
prot. n. 5495 del 16.06.2016.
In particolare, con la
predetta ordinanza le è stata contestata la realizzazione,
in assenza di permesso di costruire, di un cambio di
destinazione d’uso del piano terra e del piano seminterrato,
che avrebbero visto rispettivamente la trasformazione da
locale ad uso residenziale in locale ad uso produttivo-artigianale e da locale autorimessa (servente la
residenza) in locale deposito dell’attività artigianale;
inoltre, è stato posto a base dell’ordinanza, come motivo
ulteriore del dovere di ripristino, il contrasto della
trasformazione edilizia posta in essere con l’art. 4, comma
5, della legge regionale n. 19/2009 (cd. legge piano casa),
che così recita: “Per gli edifici e loro frazionamento, sui
quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della
presente legge, non può essere modificata la destinazione
d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla
comunicazione di ultimazione dei lavori.”.
La ricorrente aggiunge al riguardo di aver prodotto, in data
11.07.2016, CILA ai fini del cambio di destinazione
d’uso del piano terra in locale ad uso
produttivo-artigianale (seguito dalla relativa SCA del 28.07.2016) e che il suo inquilino, prima di avviare
l’attività artigianale, presentava regolarmente SCIA
commerciale in data 02.09.2016.
L’impugnativa ricomprende la comunicazione di avvio del
procedimento di ripristino e la disposizione dirigenziale
sospensiva dell’intervento di cambio di destinazione d’uso,
entrambi atti meglio in epigrafe individuati.
L’intimata amministrazione comunale conclude nella sua
memoria di costituzione per il rigetto del gravame.
Parte ricorrente insiste nelle sue ragioni con ulteriore
memoria difensiva.
L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1261
del 13.09.2017, poi riformata in appello dal
Consiglio di Stato con ordinanza n. 4600 del 20.10.2017, che ha ritenuto di accordare tutela cautelare sulla
scorta della seguente motivazione: “Considerato che, ad un
primo esame, l’impugnato ordine di ripristino non appare
un’implicita rimozione degli effetti favorevoli della CILA,
né per questi ultimi sarebbe potuta bastare la mera
sospensione disposta dal Comune (misura cautelare che scade
decorso inutilmente il termine di cui all’art. 19, c. 3,
della l. 241/1990: al più gg. 45 dalla sua emanazione, ai
sensi dell’art. 27, c. 3, del DPR 380/2001), quand’anche
detto Comune la volesse intendere a guisa di presupposto
della statuizione ripristinatoria; Considerato infatti che
l’art. 19, c. 6-bis, II per. della l. 241/1990 fa sì salvi i
poteri repressivi ex DPR 380/2001, ma nei limiti di cui ai
precedenti commi 3 e 4, onde occorre pur sempre l’esercizio
espresso dell’autotutela prima dell’emanazione d’ogni misura
repressiva o ripristinatoria; Considerato quindi che, allo
stato, va accolto l’appello cautelare.”.
La causa, infine, è stata trattenuta in decisione
all’udienza pubblica del 05.06.2018.
2. Il più approfondito esame dell’intera vicenda
contenziosa, proprio del merito, fa propendere il Collegio
per la complessiva infondatezza del ricorso, sebbene con
motivazioni alquanto diverse da quelle esposte in prima
battuta in sede cautelare.
3. In via preliminare, va chiarito che l’unico provvedimento
passibile di cognizione è l’ordinanza di ripristino n.
29/2017, dal momento che sui rimanenti atti gravati non può
intervenire alcuna pronuncia di merito, essendo le relative
impugnative inammissibili, irricevibili e/o improcedibili
per le ragioni che si andranno di seguito sinteticamente ad
esporre con riferimento ad ogni singola determinazione:
1)
comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 739 del 27.01.2017: inammissibilità per carenza di interesse,
perché nella specie si tratta di mero atto endoprocedimentale destinato ad essere recepito nel
provvedimento ripristinatorio finale e, quindi, di atto
privo di autonoma lesività;
2) disposizione dirigenziale prot. n. 7315 del 22.08.2016, recante la sospensione
dell’intervento di cambio di destinazione d’uso: irricevibilità per tardività, essendo il presente ricorso
stato portato alla notifica (a mezzo ufficiale giudiziario)
il 20.06.2017, mentre la disposizione in parola è
entrata nella piena cognizione della ricorrente –come dalla
stessa ammesso e documentalmente provato in atti– almeno a
far data dall’08.09.2016, con conseguente sforamento
del termine perentorio di sessanta giorni per proporre
impugnativa.
Ad ogni modo, atteggiandosi tale provvedimento
come un sostanziale ordine di sospensione lavori,
l’impugnativa è anche improcedibile per sopravvenuta carenza
di interesse, essendo decorso il termine di efficacia di 45
giorni previsto dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n.
380/2001.
Invero, il potere di sospensione dei lavori edili
in corso, attribuito all’autorità comunale dalla suddetta
disposizione normativa, è di tipo cautelare, in quanto
destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia,
mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo
provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che
viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del
destinatario, con conseguente assorbimento della disposta
misura sospensiva (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.06.2016 n. 2758; TAR Lazio Roma, Sez. II,
04.04.2017
n. 4225; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 24.01.2017 n.
173; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016 n. 2282) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d’uso posto in essere,
con passaggio dalla categoria residenziale a quella
produttiva, è giuridicamente rilevante e non può essere
eseguito liberamente ma necessita del rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, alla cui stregua deve essere letto anche
il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di
variazioni essenziali al permesso di costruire, così
dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il
mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
assentibile solo mediante permesso di costruire sia in
presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto, poiché la
semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si
è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le
categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente
non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli
standard urbanistici, a conferma della scelta già operata
con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la
trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari
da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale,
configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome,
costituisce per espressa qualificazione di legge un
mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso.
---------------
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della
destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di
categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto)
ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato
dalla trasformazione edilizia posta in essere.
---------------
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue
automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine
di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del
d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale
istituto connesse al mancato incremento degli standard
urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.
---------------
4. Perimetrato l’ambito del giudizio al su indicato
provvedimento di ripristino, si può dare corso allo
scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso
quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era
“liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di
costruire, in virtù del combinato disposto degli artt.
23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non
avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio
urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza
del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti
indici:
i) “prima di avere una destinazione residenziale, la
porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una
destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha
fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso
produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua
costruzione”;
ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva
dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune
al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento
urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione
produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed
ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati
direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”;
iii)
“il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di
un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente
urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di
allacci idrici e fognari”;
b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non
avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale
all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può
omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2,
lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra
l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati
adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le
parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione
d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;
c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era
comunque asseverata dalla CILA dell’11.07.2016 e dalla
SCIA commerciale del 02.09.2016, con la conseguenza
che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine
di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti
titoli abilitativi;
d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di
inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come
quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da
residenziale a produttivo non comporti incremento degli
standard urbanistici.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate.
5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla
ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a
quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva
essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello
specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001
(introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella
legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche
il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di
variazioni essenziali al permesso di costruire, così
dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il
mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
assentibile solo mediante permesso di costruire sia in
presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto, poiché la
semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si
è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le
categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente
non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli
standard urbanistici, a conferma della scelta già operata
con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la
trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari
da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra
categorie funzionali autonome, costituisce per espressa
qualificazione di legge un mutamento giuridicamente
rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez.
III, 22.09.2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI,
13.05.2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III,
03.12.2015
n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 05.09.2017 n.
4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17.02.2016 n.
344).
5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente
richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai
minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2016 n. 1684), che per aversi mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe
appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali
diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul
tessuto edilizio in termini di incremento degli standard
urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per
l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).
Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia
con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R.
n. 380/2001.
Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si
rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto
dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il
concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad
una diversa assegnazione della categoria funzionale di
appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico
urbanistico, inteso come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi
di una determinata zona territoriale.
Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione
funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico,
è evidente, in considerazione della differenziazione
infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio
perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del
corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che
sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo
la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di
ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante
appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017
cit.).
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della
destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di
categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto)
ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato
dalla trasformazione edilizia posta in essere.
...
8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza
all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art.
31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale
istituto connesse al mancato incremento degli standard
urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reati urbanistici - Opere
edilizie in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire - Responsabilità del progettista e del direttore
dei lavori - Individuazione del dies a quo per la
decorrenza della prescrizione - Giurisprudenza - Art. 44,
d.P.R. n. 380/2001 - Fattispecie: piano seminterrato
palesemente non era ancora ultimato.
In tema di reati edilizi, la valutazione
dell'opera ai fini della individuazione del dies a quo per
la decorrenza della prescrizione deve riguardare la stessa
nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare
separatamente i suoi singoli componenti
(Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo).
Inoltre, ai fini del decorso del termine di
prescrizione del reato, di cui all'art. 44, primo comma,
lett. b), d.P.R. 380/2001, l'uso effettivo dell'immobile,
accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza
di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di
ritenere "ultimato" l'immobile abusivamente realizzato,
coincidendo l'ultimazione con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli
infissi (Sez. 3,
n. 39733 del 18/10/2011, Ventura; Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano, che ha specificato essere onere del
ricorrente che voglia retrodatare la consumazione del reato
dimostrare di avere non solo sospeso l'attività edilizia, ma
anche di aver inteso lasciare volutamente l'opera abusiva
nello stato in cui è stata rinvenuta). L'ultimazione dei
lavori, coincidente con la realizzazione delle rifiniture,
deve riferirsi anche per le parti che costituiscono annessi
dell'abitazione, come i locali destinati a magazzino e
garage (Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali).
Del resto, nel caso di specie, le
difformità dal permesso di costruire rilasciato concernevano
non tanto il piano abitativo dell'edificio -in effetti già
occupato- quanto il sottostante piano seminterrato, vale a
dire proprio quello che, secondo la non contestata
ricostruzione della sentenza impugnata, palesemente non era
ancora ultimato al momento del sopralluogo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.10.2018 n. 46215 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti vincolati (ndr:
di demolizione) devono intendersi congruamente motivati con
la mera giustificazione del potere esercitato, mediante la
sola indicazione dei presupposti normativi e fattuali.
---------------
Più in generale, va detto che i provvedimenti di repressione
degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere
essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali,
per cui è da escludere la necessità di una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed
attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
Ne discende che essi sono sufficientemente motivati con
riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere
ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei
titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento
sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore
obbligo motivazionale.
---------------
4. La disposizione impugnata indica in motivazione, in
maniera sufficientemente chiara e precisa, sia la normativa
urbanistico-edilizia ritenuta violata (disciplina
urbanistica comunale), sia la tipologia dell’illecito
commesso (costruzione di sottotetto ad uso abitativo non
assoggettabile a sanatoria); ne consegue che, trattandosi
nella specie di attività vincolata tesa alla repressione di
illeciti, il corredo motivazionale appare sicuramente
adeguato nonché conforme al consolidato principio secondo il
quale gli atti vincolati devono intendersi congruamente
motivati con la mera giustificazione del potere esercitato,
mediante la sola indicazione dei presupposti normativi e
fattuali (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 23.04.2008 n.
3498).
4.1 Più in generale, va detto che i provvedimenti di
repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con
carattere essenzialmente vincolato e privi di margini
discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico
concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; ne
discende che essi sono sufficientemente motivati con
riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere
ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei
titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento
sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore
obbligo motivazionale (cfr. Consiglio di Stato, A.P.,
17.10.2017 n. 9; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n.
1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV,
12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750).
5. Né è rinvenibile il denunciato difetto di istruttoria,
soffermandosi diffusamente il provvedimento impugnato sulle
concrete ragioni che non rendevano praticabile la sanabilità
del sottotetto (TAR Campania-Napoli, Sez.
II,
sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di sanzioni
amministrative (nella specie, quelle urbanistico-edilizie),
non vige il principio di irretroattività della legge, che la
Costituzione pone solo per le norme penali, per cui per
determinare la sfera di applicabilità della disciplina
sanzionatoria edilizia occorre aver riguardo non alla data
della costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica
amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito.
---------------
La doglianza è infondata.
Infatti, questa Sezione ha più volte affermato che in
materia di sanzioni amministrative (nella specie, quelle
urbanistico-edilizie), non vige il principio di
irretroattività della legge, che la Costituzione pone solo
per le norme penali (cfr. Cons. Stato, VI, 31.05.1982, n.
275; V, 30.09.1980, n. 800), per cui per determinare la
sfera di applicabilità della disciplina sanzionatoria
edilizia occorre aver riguardo non alla data della
costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica
amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito (Cons.
Stato, V, 29.04.2000, n. 2544 e 09.02.1996, n. 152).
La riferita conclusione trova una specifica conferma negli
artt. 32, comma 3, 33, comma 3, e 40, comma 1, della citata
legge n. 47 del 1985, che assoggettano alla demolizione le
opere abusive realizzate prima dell’entrata in vigore della
legge non suscettibili di sanatoria.
Va comunque rilevato che la sanzione demolitoria non è stata
introdotta per la prima volta dalla legge n. 47 del 1985, ma
era già prevista dall'articolo 32 della legge urbanistica
del 1942 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non
ha alcuna rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di
demolizione non emerga una valutazione unitaria e
complessiva degli interventi sanzionati; ciò che conta è,
infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco
collegamento funzionale che ne impone una considerazione
unitaria.
---------------
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la
Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che
l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento,
avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato.
---------------
Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile
doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito
attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare
esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la
stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al
comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si
impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali.
---------------
Col secondo motivo si deduce che il giudice di prime
cure avrebbe errato a respingere la doglianza con cui si era
lamentato che il Sindaco non avrebbe potuto ingiungere la
demolizione delle opere accessorie rispetto alla piscina
(vialetto, solarium e pavimentazione esterna) non essendo la
detta sanzione applicabile agli interventi soggetti a
semplice autorizzazione come quelli di specie.
Il Tribunale ha motivato la reiezione affermando che “Tali
opere sono state ritenute, nel loro insieme, contrastanti
rispetto al vincolo idrogeologico.
Coerentemente il diniego di sanatoria ha interessato tali
interventi unitariamente considerati.
L’impugnato ordine di demolizione ha considerato gli stessi,
nel loro complesso, assoggettati a regime concessorio,
trattandosi di abusi edilizi rispondenti ad un disegno
unitario, ovvero costituenti l’uno il completamento
dell’altro, stante la stretta connessione tra piscina,
relativi accessi, solarium, e volumi tecnici …. Non è quindi
dato scorporare le opere di trasformazione del territorio
nei singoli interventi che le compongono, onde valutarne
l’impatto e la disciplina isolandone l’una dall’altra,
trattandosi di manufatti che rilevano, sul piano degli
effetti lesivi per il territorio, nel loro insieme. Inoltre,
va esclusa l’applicabilità del regime autorizzatorio proprio
delle pertinenze laddove l’opera accessoria acceda ad un
manufatto principale abusivo assoggettabile alla sanzione
demolitoria …, estendendosi l’esigenza ripristinatoria al
complesso dei beni realizzati abusivamente, compresi quelli
accessori al manufatto principale abusivo”.
Tuttavia, per un verso tale motivazione risulterebbe
estranea al provvedimento impugnato, per altro verso
le opere in questione, seppur correlate alla piscina, da
essa si distinguerebbero “per le ridotte dimensioni, per
l’ubicazione, per il modesto valore economico, per l’assenza
di carico urbanistico”.
La censura non merita accoglimento.
Diversamente da quanto l’appellante sostiene non ha alcuna
rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di
demolizione non emerga una valutazione unitaria e
complessiva degli interventi sanzionati, ciò che conta è,
infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco
collegamento funzionale che ne impone una considerazione
unitaria.
Nella fattispecie non è dubbio che vialetto, solarium e
pavimentazione esterna siano opere a servizio della piscina
che, assieme ad essa danno luogo, dal punto di vista
urbanistico-edilizio, a un unitario intervento, senza che,
in contrario, possano rilevare le caratteristiche delle
dette opere accessorie invocate dall’appellante: “ridotte
dimensioni, … ubicazione, … modesto valore economico, …
assenza di carico urbanistico”.
Col terzo motivo si denuncia l’errore commesso dal
giudice di prime cure nel disattendere la censura con la
quale era stata dedotta l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento.
Il mezzo di gravame è infondato.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la
Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che
l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento,
avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato (ex
plurimis Cons. Stato, IV, 31.08.2018, n. 5123;
19.03.2018, n. 1717 e 29.11.2017, n. 5595; VI, 16.03.2018,
n. 1688).
Col quarto motivo si lamenta che il Tribunale avrebbe
errato a respingere la censura con cui era stato dedotto che
in considerazione del lungo tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso, l’ordine di demolizione avrebbe
dovuto essere sorretto da adeguata motivazione.
La doglianza è infondata.
Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile
doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito
attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare
esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la
stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al
comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si
impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali (Cons.
Stato, Cons. Stato, Ad. Plen. 17.10.2017, n. 9; VI,
06.07.2018, n. 4135; 19.06.2018, n. 3773; 02.05.2018, n.
2612 e 26.03.2018, n. 1887) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare il
provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di un
immobile abusivo.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva -
Acquisizione al patrimonio comunale di un immobile abusivo –
Impugnazione – Creditore ipotecario – Non è legittimato
E’ inammissibile il ricorso proposto
da un istituto bancario avverso il provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale di un immobile sul quale
è stato realizzato un abuso da un terzo destinatario di un
mutuo ipotecario, sul rilievo che l’eventuale mancata
inottemperanza comporti l’acquisizione dell’immobile al
patrimonio comunale con perdita del credito ipotecario (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il creditore ipotecario, non rientrando
tra i soggetti che possono disporre giuridicamente e
materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità
edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal
provvedimento in esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento
amministrativo deve essere direttamente correlata alla
situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal
provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale
e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti
l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare
a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione
amministrativa, con conseguente ampliamento della
legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il
carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa
legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al
vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. St., sez.
IV, 13.12.2012, n. 6411).
Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile
con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere,
oltre che attuale, personale, ossia differenziato
dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità
dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui
discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale,
deve essere diretta, nel senso che incide in maniera
immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente;
di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di
interesse di fatto, può essere privo di giuridica
legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la
stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare
effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera
di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del
giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato
fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato
dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché
portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. St.,
sez. V, 13.05.2014, n. 2439).
Quindi, anche se si potesse valorizzare il riferimento al
successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione
del bene al patrimonio comunale, rimane ferma
l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in
via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione,
posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per
surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il
destinatario dei provvedimenti ex art. 31, d.P.R. n. 380 del
2001 (TAR Valle
d’Aosta,
sentenza 12.10.2018 n. 48 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. Ciò detto, il ricorso è inammissibile.
2.1. E’ indubbio che laddove l’ordine di demolizione delle
opere abusive non venga adempiuto, il Comune potrà procedere
all’acquisizione dell’immobile sul quale insiste l’opera
abusiva, alle condizioni di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001.
D’altronde,
ai fini della legittimazione ad impugnare
l'ordine di demolizione, deve considerarsi come l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti
destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel
responsabile dell'abuso, considera quale soggetto passivo
della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta
(TAR Roma, (Lazio), sez. II, 01/12/2017, n. 11903).
Per contro, il creditore ipotecario, non rientrando tra i
soggetti che possono disporre giuridicamente e materialmente
del bene in modo da rimuovere le difformità edilizie, non
può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in
esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento
amministrativo deve essere direttamente correlata alla
situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal
provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale
e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti
l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare
a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione
amministrativa, con conseguente ampliamento della
legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il
carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa
legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al
vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. Stato,
sez. IV, 13/12/2012, n. 6411).
Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile
con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere,
oltre che attuale, personale, ossia differenziato
dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità
dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui
discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale,
deve essere diretta, nel senso che incide in maniera
immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente;
di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di
interesse di fatto, può essere privo di giuridica
legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la
stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare
effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera
di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del
giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato
fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato
dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché
portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. Stato,
sez. V, 13/05/2014, n. 2439).
Quindi, anche se si potesse valorizzare il riferimento al
successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione
del bene al patrimonio comunale, rimane ferma
l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in
via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione,
posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per
surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il
destinatario dei provvedimenti ex art. 31 d.p.r. 380/2001.
In questo senso, è certamente ammissibile per il creditore
ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di
impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di
demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo
dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario,
laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare
il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti
di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo
da parte del creditore pignorante non può ritenersi
ammissibile perché chiaramente avente natura “surrogatoria”
e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere
abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere
con la demolizione.
Pertanto, in via generale, il creditore ipotecario deve
ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo
all’intera serie dei provvedimenti contemplati dall’art 31
T.U. edilizia.
2.2. La conferma di quanto sopra emerge chiaramente anche
dall’esame della disciplina civilistica dell’ipoteca.
Pur trattandosi di un diritto che, secondo l’opinione
prevalente, ha natura “reale”, la caratteristica principale
dello stesso è che non conferisce poteri o facoltà di
godimento del bene ipotecato, ma si limita, da un lato, ad
attribuire al titolare un diritto potestativo di duplice
contenuto (espropriare e far vendere la cosa e poi
soddisfarsi sul ricavato con preferenza sugli altri
creditori) e, dall’altro lato, a vincolare la cosa senza
però impedirne o limitarne l’attuale godimento o
disposizione importando soltanto una possibile
espropriazione futura.
In questo senso, i poteri del creditore ipotecario a tutela
della propria garanzia con riguardo all’esistenza e
consistenza del bene ipotecato sono limitati.
L’art. 2813 c.c., ai sensi del quale <<qualora il debitore o
un terzo compia atti da cui possa derivare il perimento o il
deterioramento dei beni ipotecati, il creditore può
domandare all'autorità giudiziaria che ordini la cessazione
di tali atti o disponga le cautele necessarie per evitare il
pregiudizio della sua garanzia>>, infatti, si riferisce ai
soli pericoli di “danni materiali” (come emerge chiaramente
anche dall’esame della relazione al codice civile).
Per contro, l’art. 2878, n. 4 c.c. prevede, quale causa di
estinzione dell’ipoteca, il “perimento del bene ipotecato”.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha sottolineato che
l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio
indisponibile del Comune dell'immobile costruito in totale
difformità o assenza della concessione, emessa dal Sindaco
ai sensi dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, che si
connota per la duplice funzione di sanzionare comportamenti
illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi,
dà luogo ad acquisto a titolo originario, con la conseguenza
che l'ipoteca e gli altri eventuali pesi e vincoli
preesistenti vengono caducati unitamente al precedente
diritto dominicale, senza che rilevi l'eventuale anteriorità
della relativa trascrizione o iscrizione.
La fattispecie è
assimilabile al perimento del bene, ipotesi nella quale si
estingue l'ipoteca, giacché l'immobile abusivo è destinato
al "perimento giuridico", normalmente conseguente alla
demolizione, salva la eccezionale acquisizione al patrimonio
comunale, che lo trasforma irreversibilmente in "res extra commercium" sotto il profilo dei diritti del debitore e dei
terzi che vantino diritti reali limitati sul bene (così, Cass., ord. n. 23453 del 06/10/2017).
E’ evidente, allora, che il provvedimento di acquisizione
gratuita si pone come un evento esterno alla sfera di
controllo e al potere di intervento del creditore ipotecario
che ne subisce le conseguenze senza poter concretamente
opporsi allo stesso.
2.3. Sotto altro profilo, poi, laddove si ammettesse la
legittimazione e l’interesse ad agire in capo a parte
ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione, si dovrebbe,
altresì, affermare la medesima situazione con riguardo al
precedente provvedimento di diffida a demolire.
Ma, in tal caso, il ricorso in esame risulterebbe comunque
inammissibile in quanto Banca Sella per un verso, non ha
impugnato in questa sede anche le diffide a demolire nn.
1/17 e 2/17 e, dall’altro lato, ha dedotto la difformità tra
l’ordine di demolizione e la diffida 1/17, quando
l’ordinanza di demolizione consegue alla diffida n. 2/17,
che è motivata specificamente con riguardo all’art. 78 e non
80 d.p.r. 380/2001.
Al riguardo, occorre rammentare che, secondo la
giurisprudenza di questo TAR, la diffida a demolire è
idonea a produrre un doppio effetto lesivo a carico del
destinatario dell'atto atteso che, in primo luogo, qualifica
come abusivi manufatti aventi rilievo edilizio che il Comune
assume essere stati realizzati in assenza o in difformità
dal titolo abilitativo; in secondo luogo, mette in mora il
destinatario a dare esecuzione all'ordine entro il termine
previsto dalla legge, pena l'esecuzione in danno e
l'applicazione di eventuali sanzioni accessorie; ne consegue
che la diffida a demolire va impugnata tempestivamente, onde
impedire il consolidamento quantomeno del primo effetto
lesivo (ossia la qualificazione delle opere come abusive)….
(TAR Valle d'Aosta, sez. I, 17/04/2018, n. 25).
Il procedimento di repressione degli abusi edilizi delineato
dall'art. 77, l.reg. Valle d'Aosta n. 11 del 1998, infatti,
è articolato in due fasi che danno luogo a distinti sub
procedimenti; il primo si conclude con la diffida a demolire
e il secondo, nel presupposto di quest'ultima, con
l'ordinanza di demolizione; i due atti sono autonomi ed
entrambi impugnabili per i vizi loro propri, dato che
incidono in modo pregiudizievole sugli interessi del
destinatario; la diffida è un necessario presupposto
dell'ordinanza di demolizione (e infatti quest’ultima è
illegittima se emanata in difetto della prima) cosicché il
suo annullamento facendo venir meno il presupposto
necessario dell’ordinanza di demolizione determina
l’automatica caducazione di quest’ultima (secondo lo schema
della c.d. invalidità caducante) (TAR Valle d'Aosta, sez.
I, 10/07/2013, n. 46).
2.4. Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto il consolidato indirizzo
giurisprudenziale che esclude dall’ambito di applicazione
della norma sulla comunicazione di avvio i procedimenti
volti a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia,
mediante adozione dell’ordinanza di demolizione, trattandosi
di procedimenti che mettono capo a provvedimenti di
contenuto vincolato.
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste
ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto
interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere,
che integrano, alla luce della disciplina
urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti
partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono
svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la
decisione amministrativa, che non potrebbe avere un
contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma
di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n.
9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra
anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto
vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere
abusive e non richiede una specifica motivazione circa la
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei
manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia
motivazione».
---------------
Non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare, per
il sol fatto di aver versato le imposte comunali (ICI, IMU,
TARI).
Invero, diversi sono i presupposti in base ai quali si
formano i predetti obblighi tributari [si veda sul punto
Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema di
TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della tassa de
qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è
l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte
nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di
smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto
concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere
dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o
meno della costruzione) …»].
---------------
1. – Con il ricorso in esame, il Sig. Sa.Pi. chiede
l’annullamento dell'ordinanza del 14.04.2011, con la quale
il responsabile del Servizio Edilizia Privata ed Urbanistica
del Comune di Aglientu, ha ordinato all’odierno ricorrente
la demolizione delle opere realizzate senza titolo,
consistenti in un "...edificio di forma rettangolare
adibito a casa di civile abitazione avente una superficie di
mq. 79, quasi completamente fuori terra con quattro aperture
di cui tre sul prospetto principale e una sul prospetto
laterale ad una veranda di mq 33 con sottostante
pavimentazione e coperta da travi in legno e soprastante
copertura in cemento..." e in un "... muretto
perimetrale in blocchetti di cemento e locale adibito a
forno per la cottura degli alimenti".
...
6. - Le censure sopra esposte sono manifestamente infondate.
6.1. - In linea di fatto, occorre riprendere la motivazione
dell’ordinanza di demolizione e del rapporto del 31.03.2011,
del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale (Stazione
Forestale di Luogosanto), da cui si evince che le opere,
ricadenti in zona E (agricola) e in area soggetta a vincolo
paesaggistico, sono state realizzate senza autorizzazione
paesaggistica; e che, sotto il profilo edilizio e
urbanistico, il Sig. Pi. aveva a suo tempo ottenuto una
autorizzazione edilizia (n. 625 del 17.12.1996) per la “realizzazione
di una cisterna idrica interrata”.
Dai rilievi effettuati, veniva accertata, invece, la
realizzazione di una casa di civile abitazione di mq 79,
oltre a un muro perimetrale in blocchetti di cemento e un
locale adibito a forno per la cottura di alimenti.
6.2. - Ciò posto, passando alle censure dedotte dal
ricorrente, in primo luogo va rilevata la manifesta
infondatezza della censura basata sull’omessa comunicazione
di avvio del procedimento.
E’ noto, infatti, il consolidato indirizzo giurisprudenziale
che esclude dall’ambito di applicazione della norma sulla
comunicazione di avvio i procedimenti volti a esercitare i
poteri repressivi in materia edilizia, mediante adozione
dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di procedimenti
che mettono capo a provvedimenti di contenuto vincolato (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. III, 14.05.2015, n. 2411;
da ultimo, Sez. IV, n. 5524/2018).
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste
ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto
interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere,
che integrano, alla luce della disciplina
urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti
partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono
svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la
decisione amministrativa, che non potrebbe avere un
contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma
di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n.
9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra
anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto
vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere
abusive e non richiede una specifica motivazione circa la
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei
manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia
motivazione».
6.3. - Nemmeno può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo
legittimare. Anche la circostanza dell’aver versato le
imposte comunali (ICI, IMU, TARI), fatta valere dal
ricorrente con la memoria conclusiva, non rileva sotto
questo profilo, poiché diversi sono i presupposti in base ai
quali si formano i predetti obblighi tributari [si veda sul
punto Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema
di TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della
tassa de qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è
l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte
nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di
smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto
concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere
dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o
meno della costruzione) …»] (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 840 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti volti a
sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere preceduti
dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in quanto
l’attività di repressione di tali abusi si caratterizza per
essere urgente e strettamente vincolata.
---------------
4.2. Parimenti infondata è la seconda censura ove si tenga
conto che il provvedimento sanzionatorio è consequenziale
alla rimozione parziale del titolo.
Opera, pertanto, il
consolidato principio giurisprudenziale secondo cui gli atti
volti a sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere
preceduti dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in
quanto l’attività di repressione di tali abusi si
caratterizza per essere urgente e strettamente vincolata (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 18.01.2018, n.
289; TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. IV, 03.05.2017, n. 2320; nella giurisprudenza di questa sezione
v., da ultimo, TAR Lombardia, sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 732) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
settembre 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo una consolidata giurisprudenza il
proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida
dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi
degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è
titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti
poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo
preposto alla repressione di tali abusi edilizi.
Quindi, a fronte della persistenza in capo
all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale
potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in
ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto
dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben
può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in
caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento.
Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni caso, a
rispondere alla domanda con la quale i proprietari di
terreni limitrofi a quello interessato da un abuso edilizio
chiedono ad esso di adottare atti di accertamento delle
violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi e, ove
sussistano le condizioni, anche ad adottare gli stessi.
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque,
essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal
Comune sulla diffida inoltrata dal
ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere
il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce
giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario
confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di
provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive
realizzate nella vicinanza della sua proprietà.
---------------
Il ricorso è in parte improcedibile e in parte fondato.
Stante quanto dichiarato dallo stesso ricorrente non vi è
più interesse al ricorso con riferimento dalla domanda di
accesso; per la restante parte il ricorso è fondato.
Il ricorrente ha inoltrato al Comune di Casalnuovo di Napoli
un atto di diffida con il quale ha chiesto l’adozione degli
opportuni provvedimenti sanzionatori nei confronti dei
controinteressati.
In tale diffida il ricorrente ha rilevato che i suddetti,
rispettivamente proprietario dell’immobile e occupante una
porzione dello stesso ove viene svolta attività commerciale
analoga alla sua, avrebbero illegittimamente realizzato un
soppalco in cemento armato abitabile.
In particolare, tale
opera non potrebbe trovare legittimazione nei grafici
allegati alla SCIA n. 123 del 02.082012; a tale riguardo
anche la DIA del 2001 (nella quale si riferisce di un
soppalco per allocare impianti tecnologici e, dunque, non
abitabile) non costituirebbe un titolo idoneo dal momento
che farebbe a sua volta riferimento a dei permessi di
costruire (le autorizzazioni n. 20 del 13.07.2001 e n.
41 dell’11.10.2001) andati smarriti (cfr. denuncia di
smarrimento depositata in data 26.07.2018 dal Comune di Casalnuovo di Napoli).
Il Comune nelle proprie difese sostiene che non vi sarebbe
alcun obbligo di provvedere sulla diffida del 15.12.2017 in quanto in data 14.09.2015 l’amministrazione
avrebbe effettuato tutti i necessari accertamenti.
Osserva di contro il Collegio che, da un lato, alla diffida
del 15.12.2017 (successiva all’accertamento degli
organi tecnici) il Comune non ha dato alcun riscontro,
dall’altro lato, al verbale di accertamento del 14.09.2015 non è seguito alcun provvedimento. Come, peraltro,
evidenziato dal ricorrente la legittimità edilizia del
soppalco in cemento armato abitabile non emerge dagli atti
di causa visto che i permessi di costruire del 2001 sono
andati smarriti e sia nella DIA del 2001 sia nella SCIA del
2012 si fa riferimento a un soppalco per allocare impianti
tecnologici e non di un soppalco abitabile con un soffitto
di circa 3 metri.
Deve aggiungersi che, secondo una consolidata giurisprudenza
il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida
dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi
degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è
titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti
poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo
preposto alla repressione di tali abusi edilizi (ex multis
TAR Brescia, sez. I, n. 1205 del 27.07.2011; Cons. St.,
Sez. IV, 05.01.2011, n. 18; TAR Lazio, Roma, sez. II, n.
6260 del 26.06.2009; Cons. St. Sez. IV, 19.10.2007
n. 5466).
Quindi, a fronte della persistenza in capo
all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale
potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in
ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto
dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben
può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in
caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento. Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni
caso, a rispondere alla domanda con la quale i proprietari
di terreni limitrofi a quello interessato da un abuso
edilizio chiedono ad esso di adottare atti di accertamento
delle violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi
e, ove sussistano le condizioni, anche ad adottare gli
stessi (TAR Lazio Latina, 24.10.2003, n. 876).
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque,
essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal
Comune di Casalnuovo di Napoli sulla diffida inoltrata dal
ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere
il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce
giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario
confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di
provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive
realizzate nella vicinanza della sua proprietà (ex multis
TAR Campania, sez. VIII, 24.04.2009, n. 2166).
Il Collegio ritiene di non dover esercitare la facoltà di
pronunciarsi sulla fondatezza nel merito dell'istanza la
quale richiede l’effettuazione di accertamenti tecnici da
parte del Comune.
L’amministrazione comunale dovrà pertanto concludere il
procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso nel
termine di sessanta giorni dalla notifica o dalla
comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.
Nel caso di inadempienza si nomina sin da ora, quale
commissario ad acta, il Prefetto di Napoli od un funzionario
del suo Ufficio all’uopo da lui delegato, che si attiverà su
specifica richiesta del ricorrente.
Il commissario, prima del suo insediamento, accerterà se
nelle more è stato adottato il provvedimento finale e, in
caso di perdurante inadempimento, lo adotterà in
sostituzione; le spese relative all’eventuale compenso del
commissario, da liquidarsi con separato decreto, devono
essere poste a carico del Comune (TAR Campania-Napoli, Sez.
VI,
sentenza 28.09.2018 n. 5666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La condizione di estraneità alla commissione
dell'illecito, riguardata in termini di buona fede
soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che non è
stata però disposta con il provvedimento impugnato con il
ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza
che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del
2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e
al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è
passivamente legittimato rispetto al provvedimento di
demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione
indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla
perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità
del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un
soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità
non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei
suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di
specifici presupposti– del provvedimento repressivo a
costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene".
---------------
Poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve
escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive
debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione.
Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di
per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo”
in capo ai proprietari dell’abuso.
Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato
come ‘principio fondamentale’ dell'Unione Europea dalla
stessa Corte di Giustizia UE– è quello ingenerato nel
privato da provvedimenti amministrativi, ed è correlato
all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici
costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in generale
alla stabilità dei provvedimenti amministrativi, ipotesi,
questa, che –all’evidenza- non ricorre nella fattispecie in
esame, in cui non sussiste alcun provvedimento favorevole
sulla cui base siano state realizzate le opere in questione,
che risultano, quindi, essere prive dei prescritti titoli.
Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata in
ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e attuale
alla demolizione delle opere grava sull’amministrazione
procedente.
---------------
Con riguardo alla dedotta mancata indicazione dell’area
oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale in
ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva che l’omessa o
imprecisa indicazione non costituisce motivo di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che, con
il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la
sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre
l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto
accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria
dell’acquisizione.
---------------
Come affermato dall’univoca giurisprudenza (il che esime da
citazioni specifiche), la funzione dell’ingiunzione a
demolire è quella di provocare il tempestivo abbattimento
del manufatto abusivo, rendendo noto ai destinatari che il
mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose
della semplice demolizione.
A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo
di sanzione che la legge collega all’abuso senza
puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel
patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici
e conclusivi, essere esattamente definite al momento della
effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
---------------
3.1. Doverosamente e legittimamente l’amministrazione
comunale ha proceduto all’adozione del provvedimento di
irrogazione della sanzione demolitoria, individuando quale
soggetto legittimato passivo anche la proprietaria attuale
del bene.
3.2. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte
ricorrente, infatti, la condizione di estraneità alla
commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona
fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale (v. TAR
Bari Puglia sez. III, 10.05.2013, n. 710) che non è
stata però disposta con il provvedimento impugnato con il
ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza
che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del
2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e
al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è
passivamente legittimato rispetto al provvedimento di
demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione
indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla
perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità
del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un
soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità
non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei
suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di
specifici presupposti– del provvedimento repressivo a
costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene" (cfr.
TAR Napoli Campania sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180).
4. Non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a
contestare la carenza di un adeguato substrato motivazionale
del provvedimento impugnato, avendo l’amministrazione
indicato puntualmente i presupposti alla base della
irrogazione della sanzione demolitoria, costituiti dall’abusività
delle opere, adeguatamente descritte, in quanto edificate in
assenza del permesso di costruire.
4.1. Come chiarito, inoltre, dalla giurisprudenza (con
orientamento che ha ottenuto l’autorevole avallo
dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del 2017),
poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve
escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive
debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo
può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a
perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa
sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può
radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere
“legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
4.2. Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato come ‘principio fondamentale’ dell'Unione
Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE– è quello
ingenerato nel privato da provvedimenti amministrativi, ed è
correlato all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti
giuridici costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in
generale alla stabilità dei provvedimenti amministrativi,
ipotesi, questa, che –all’evidenza- non ricorre nella
fattispecie in esame, in cui non sussiste alcun
provvedimento favorevole sulla cui base siano state
realizzate le opere in questione, che risultano, quindi,
essere prive dei prescritti titoli (cfr. TAR Lazio, Roma,
sez. II-bis, n. 6520 del 2018).
4.3. Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata
in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e
attuale alla demolizione delle opere grava
sull’amministrazione procedente, fermo restando che, nella
fattispecie, la descrizione delle opere contestate ed i
giustificativi alla base dell’irrogazione della sanzione
demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal
provvedimento impugnato.
5. Infine, con riguardo alla dedotta mancata indicazione
dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale in ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva
che l’omessa o imprecisa indicazione non costituisce motivo
di illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che,
con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la
sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre
l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto
accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria
dell’acquisizione (cfr. Cons. Stato, VI, 05.01.2015, n. 13).
5.1. Inoltre, come affermato dall’univoca giurisprudenza (il
che esime da citazioni specifiche), la funzione
dell’ingiunzione a demolire è quella di provocare il
tempestivo abbattimento del manufatto abusivo, rendendo noto
ai destinatari che il mancato adeguamento spontaneo
determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A
tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo
di sanzione che la legge collega all’abuso senza
puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel
patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici
e conclusivi, essere esattamente definite al momento della
effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
6. Per tutte le suesposte considerazioni il ricorso deve
essere respinto (TAR Campania-Napli, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 5661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale
di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi
realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione
differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti
nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale
illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua
proprietà, onde egli è titolare di una posizione di
interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di
vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del
silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm..
Pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato,
nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato
esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad
abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere,
se non vengono adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra
gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede
giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo
di provvedere in modo espresso.
Del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di
concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio
ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un
provvedimento espresso.
Inoltre, è principio consolidato quello secondo cui
l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali
previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla
peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di
giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti
espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e
di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi
dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al
privato di una legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative,
quali che esse siano.
---------------
In ipotesi di segnalazioni circostanziate e
documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di
attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso
della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel
senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella
della motivata archiviazione, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per
l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un
comportamento meramente silente.
In ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda
giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune
concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento
espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei
riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno
delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il
provvedimento sfavorevole.
---------------
Indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali
per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti
assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva
oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di
indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione
degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere
esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in
considerazione della natura permanente di simili illeciti.
---------------
Ritenuto:
- che, come rilevato dalla giurisprudenza,
sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di
provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi
realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di
vicinitas, gode di una legittimazione
differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti
nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale
illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua
proprietà, onde egli è titolare di una posizione di
interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di
vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del
silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm. (v. Cons.
Stato, Sez. IV, 09.11.2015 n. 5087; e, da ultimo, Sez.
VI, 07.06.2018 n. 3460);
-
che, pertanto, il proprietario di un’area o di un
fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il
mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi
relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può
pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra
gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede
giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo
di provvedere in modo espresso;
-
che, del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del
1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere
di concludere il procedimento conseguente in modo
obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di
un provvedimento espresso;
-
che, inoltre, è principio consolidato quello secondo cui
l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali
previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla
peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di
giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti
espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e
di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi
dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al
privato di una legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative,
quali che esse siano (v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. I,
11.05.2018 n. 5233);
-
che nella fattispecie, in qualità di proprietari confinanti
con l’area in cui è stato realizzato il contestato “muro”, i
ricorrenti avevano addotto circostanziati profili di
perplessità circa la regolarità edilizia del manufatto,
sicché il Comune di Argegno aveva l’obbligo di provvedere
sulla loro argomentata richiesta, effettuando le dovute
verifiche e determinandosi quindi esplicitamente e
motivatamente sull’istanza, in senso positivo o negativo che
fosse;
-
che, al contrario, pur procedendosi ad un sopralluogo in
presenza dei soggetti interessati, alla redazione del
relativo verbale (riassuntivo dei rilievi effettuati) non ha
fatto poi séguito l’adozione di determinazioni conclusive
dell’ente che di quelle operazioni costituissero il
risultato, neppure dopo che i ricorrenti avevano segnalato
in modo analitico le questioni rimaste irrisolte all’esito
del sopralluogo e invocato le conseguenti misure repressive,
posto che, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e
documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di
attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso
della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel
senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella
della motivata archiviazione, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per
l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un
comportamento meramente silente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
-
che, in ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda
giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune di Argegno
concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento
espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei
riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno
delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il
provvedimento sfavorevole (v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.06.2018 n. 3460);
-
che va invece disattesa l’eccezione di inammissibilità del
ricorso per intervenuto consolidamento della d.i.a. del 2005
(v. memoria difensiva della controinteressata), in quanto,
indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali
per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti
assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva
oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di
indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione
degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere
esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in
considerazione della natura permanente di simili illeciti
(v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3460/2018 cit.);
-
che, in conclusione, va assegnato al Comune di Argegno un
termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione
della presente sentenza affinché lo stesso provveda sulla
richiesta degli interessati con atto puntualmente motivato,
essendo evidente che, per l’esigenza di accertamenti
istruttori di competenza dell’ente locale, il presente
dictum giudiziale è circoscritto alla statuizione della
sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo
all’Amministrazione e non è anche esteso all’accertamento
della fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in
giudizio;
-
che, in caso di inerzia e su documentata richiesta dei
ricorrenti, provvederà in via sostitutiva, nei successivi
sessanta giorni, un Commissario ad acta che viene sin d’ora
nominato nella persona del Prefetto di Como, con facoltà di
delega ad un funzionario del medesimo ufficio;
Considerato, pertanto,
- che il ricorso va accolto, con
conseguente obbligo dell’Amministrazione comunale (e, in via
sostitutiva, del Commissario ad acta) di provvedere nei
termini suindicati;
-
che le spese di lite seguono la soccombenza del Comune di
Argegno, mentre le stesse appaiono suscettibili di
compensazione nei confronti della controinteressata
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda), pronunciando sul ricorso in epigrafe,
così provvede:
- lo accoglie quanto alla pretesa formazione del
silenzio-rifiuto sull’istanza in data 05.03.2018 e, per
l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio, ordina
all’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, al
Commissario ad acta) di provvedere nei termini indicati in
motivazione;
- nomina, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Como –con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio–, che interverrà su richiesta dei ricorrenti solo dopo
l’inutile decorso del termine assegnato all’Amministrazione
comunale.
Condanna il Comune di Argegno al pagamento delle spese del
presente giudizio, che liquida in complessivi € 2.000,00
(duemila/00), oltre agli accessori di legge e alla rifusione
del contributo unificato (nella misura effettivamente
versata). Compensa le spese nei confronti della sig.ra
Mo.Ge..
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente
pronuncia –una volta passata in giudicato– alla Corte dei
conti, Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale
per la Regione Lombardia, ai sensi dell’art. 2, comma 8,
della legge n. 241 del 1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 2171 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 35 Testo Unico dell’edilizia prevede un
potere repressivo di competenza del Comune in materia di
repressione di interventi abusivi su suolo demaniale il
quale concorre, ma è comunque distinto rispetto a quello
spettante all’Autorità marittima ai sensi dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942
n. 327.
---------------
Come più volte affermato in giurisprudenza, posto che il
demanio marittimo presenta una conformazione variabile nel
corso del tempo in considerazione della mutevole azione del
mare sulle coste le aree demaniali marittime, per intrinseca
natura, possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto
possono intervenire, con un certo margine di probabilità,
modificazioni del territorio costiero che rendano non più
affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della
linea di confine, rende illegittimo un procedimento
istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso
senza la partecipazione al procedimento stesso del privato,
in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art.
32 cod. nav. mentre “Le mappe
catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a
costituire strumento di certa definizione dei confini tra
demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe
catastali non possono costituire uno strumento sicuro per
determinare la linea di confine del demanio marittimo, che
per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel
corso del tempo”.
---------------
1. Con il provvedimento del impugnato l’ente locale ordinò, ai
sensi dell’art. 35 TUE la demolizione della recinzione
con muro di contenimento in pietra alto mt. 4.2 circa sul
presupposto della sua realizzazione su suolo demaniale
marittimo per 146 mq.
Le doglianze relative all’illegittimo ed erroneo uso del
potere di cui all’art. 35 d.P.R. 380/2001 hanno fondamento.
Ai sensi del primo comma dell’art. 35, intitolato interventi
abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di
enti pubblici, “Qualora sia accertata la realizzazione, da
parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28,
di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in
totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del
demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il
dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non
rinnovabile, ordina al responsabile dell’abuso la
demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone
comunicazione all’ente proprietario del suolo”: la norma,
quindi, consente l’emanazione del provvedimento comunale di
demolizione per occupazione di suolo demaniale marittimo in
quanto abusiva e dunque realizzata in assenza di permesso di
costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal
medesimo.
Ha dimostrato parte ricorrente che la realizzazione del
fabbricato è avvenuta pur essendoci titolo edilizio e
concessione demaniale marittima emanate negli anni settanta
sicché il potere esercitato per repressione degli abusi
edilizi è stato utilizzato per il diverso fine della
violazione delle norme che regolano l’uso dei beni demaniali
da parte dei privati.
Va rammentato, infatti, che l’art. 35 Testo Unico
dell’edilizia prevede un potere repressivo di competenza del
Comune in materia di repressione di interventi abusivi su
suolo demaniale il quale concorre, ma è comunque distinto
rispetto a quello spettante all’Autorità marittima ai sensi
dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n.
327 (in tal senso TAR Napoli, sez. III, 16.01.2012
n. 195; TAR Latina, sez. I, 23.09.2009, n. 834; Tar Napoli, 24/05/2016, n. 2638).
2. Sebbene il riscontro del primo motivo di censura sia
dirimente ritiene il Collegio di affrontare anche gli
ulteriori motivi
Ha lamentato, in particolare, parte ricorrente che il
provvedimento sia fondato sull’erroneo presupposto in fatto
della demanialità dell’area, nonché la violazione
dell’obbligo partecipativo al procedimento, rilevando la
contraddittorietà con atto abilitativo del Comune nella
costruzione dell’abitazione e, soprattutto, con
l’autorizzazione prescritta a sensi dell’art. 55 del Codice
della Navigazione Capitaneria di Porto di Crotone.
Ebbene, dagli atti acquisiti risulta:
- che “il terreno è
situato all’ingresso di Soverato in una zona con notevole
sviluppo urbano. Tale situazione ha determinato uno stato di
fatto in cui parecchi fabbricati hanno eseguito delle
recinzioni con muri in cemento armato, sconfinando nella
proprietà demaniale” (verbale di ispezione 11.05.2004),
- che
la ricorrente ha proceduto ad occupazione abusiva di suolo
demaniale marittimo, in loc. “Ippocampo” del Comune di Soverato, di mq. 146 circa mediante un muro di contenimento
realizzato in pietra alto mt. 4,2 occupata per mq. 117 circa
da un terrazzo praticabile e per mq. 98,40 da giardino.
Lateralmente al muro vi è un’area di mq. 12 circa occupata
da gradini e battuto di cemento; su detta area esistono due
superfici facenti parte del fabbricato adibito a civile
abitazione che si estendono per ulteriori piani 4, per una
superficie totale di mq 33,00 circa. Ai tre piani superiori
del fabbricato vi è l’aggetto di altrettanti balconi per
una superficie complessiva di mq. 10,80 circa. La rimanente
area pari a mq. 29 circa risulta occupata ad uso giardino ed
in parte risulta pavimentata.
Nella parte centrale di quest’ultima
area esiste un cancello in ferro dal quale si accede al
–predetto giardino- (verbale di ispezione del 29.11.2005 ed
accertamento tecnico della medesima data). Dunque l’adozione
del provvedimento risulta essere effettivamente avvenuta sul
presupposto della demanialità dell’area occupata.
In punto di partecipazione, inoltre, si riscontra la
violazione delle garanzie partecipative previste dall’art. 7
della Legge 241/1990 posto che parte ricorrente è stata resa
edotta di un sopralluogo condotto dalla Capitaneria di
Porto, diretto all’accertamento di un abuso demaniale,
nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria. Non vi
è stata però alcuna comunicazione da parte del Comune
resistente circa l’avvio del relativo procedimento
amministrativo sanzionatorio per abuso edilizio.
Orbene la partecipazione, pur trattandosi di provvedimento
vincolato, risultava essenziale proprio a fronte della
delicatezza della verifica della demanialità e dell’avvenuta
contestazione da parte del privato non superata da deduzioni
dell’amministrazione ai sensi dell’art. 21-octies l. n.
241/1990.
Va, infatti, in proposito rammentato, come più volte
affermato in giurisprudenza, che posto che il demanio
marittimo presenta una conformazione variabile nel corso del
tempo in considerazione della mutevole azione del mare sulle
coste le aree demaniali marittime, per intrinseca natura,
possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto
possono intervenire, con un certo margine di probabilità,
modificazioni del territorio costiero che rendano non più
affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della
linea di confine, rende illegittimo un procedimento
istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso
senza la partecipazione al procedimento stesso del privato,
in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art.
32 cod. nav. (v. Tar Calabria 10.07.2014, n. 1105, TAR
Sardegna, sez. I 12.07.2017 n. 469; TAR Catania,
(Sicilia), sez. III, 22/07/2015, n. 1970) mentre “Le mappe
catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a
costituire strumento di certa definizione dei confini tra
demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe
catastali non possono costituire uno strumento sicuro per
determinare la linea di confine del demanio marittimo, che
per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel
corso del tempo” (v. TAR Sicilia (Catania) sez. III 20.02.2008 n. 309 e Cons. St. n. 5587/2006).
Ciò premesso nel caso di specie parte ricorrente ha allegato
e documentato che fin dalla data della concessione demaniale
marittima l’area occupata non ricadeva nella zona demaniale,
mentre l’amministrazione resistente non ha indicato il
carattere sopravvenuto della modifica o il momento nel quale
si sarebbe verificata la violazione rispetto alla normativa
edilizia.
Ne discende che in tale ipotesi il vizio partecipativo
risulta aver inciso sul procedimento ed, eventualmente,
anche sul contenuto del provvedimento, non avendo
l’amministrazione resistente provato nel provvedimento
impugnato né negli atti depositati in seguito all’ordinanza
istruttoria una diversa indicazione della linea del confine
demaniale da quella allegata dal ricorrente, una modifica
rispetto alla situazione di fatto preesistente ovvero altri
elementi idonei a provare il carattere demaniale dell’area
occupata.
Ne consegue l’accoglimento del ricorso con annullamento del
provvedimento impugnato, fatti salvi gli eventuali ulteriori
provvedimenti dell’amministrazione competente (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 28.09.2018 n. 1666 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla demolizione
di un chiosco realizzato su suolo demaniale.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001
presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire
“ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U.
dell'edilizia: e ciò in
ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata,
che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli
pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non
ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel
senso che una volta accertata la realizzazione di interventi
eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione
al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che
l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è
ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il
responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto
previsto dall’art. 31 in base al quale la demolizione può
essere legittimamente comminata anche al proprietario non
responsabile dell’abuso.
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la
possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile
dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse
conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed
esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere
realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso,
su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con
la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine
di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di
un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie
abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della
titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e
dell’area pertinenziale, è la principale ragione che
giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in
cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate,
tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi
contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è
realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di
sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A.
e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere
la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area
stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui
all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto
come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e
non anche il proprietario.
---------------
L’ordinanza di demolizione da cui origina la vertenza è stata
legittimamente adottata e notificata nei confronti del solo
responsabile dell'abuso (nella specie il concessionario,
signor St.Ga.), ovvero di colui che ha realizzato
le opere senza i necessari titoli edilizi o in difformità
dagli stessi.
La demolizione del chiosco ottagonale per cui è causa,
realizzato su suolo demaniale, è stata, invero, disposta dal
Comune ai sensi dell’art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001:
tale norma, che disciplina gli interventi abusivi realizzati
su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici,
prevede che qualora sia accertata la realizzazione di
interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia
di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità
dai medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello
Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al
“responsabile dell'abuso” la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001
presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire
“ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U.
dell'edilizia, richiamata dall’odierna ricorrente: e ciò in
ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata,
che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli
pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non
ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel
senso che una volta accertata la realizzazione di interventi
eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione
al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che
l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è
ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il
responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto previsto
dall’art. 31 in base al quale la demolizione può essere
legittimamente comminata anche al proprietario non
responsabile dell’abuso (cfr. TAR Napoli sez. IV n.
3935/2012; TAR Salerno 1820/2013; TAR Puglia Bari 678/2014).
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la
possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile
dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse
conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed
esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere
realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso,
su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con
la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine
di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di
un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie
abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della
titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e
dell’area pertinenziale, è la principale ragione che
giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in
cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate,
tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi
contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è
realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di
sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A.
e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere
la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area
stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui
all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto
come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e
non anche il proprietario.
Nel caso di specie il responsabile dell’abuso è
pacificamente il sig. St.Ga., concessionario
demaniale e titolare delle autorizzazioni edilizie in
precario, come accertato dal Comune e ammesso dalla stessa
ricorrente che, nel corso del sopralluogo del 2007,
dichiarava alla Polizia Municipale che committente ed
esecutore materiale del nuovo chiosco era proprio il sig.
Ga.: il procedimento sanzionatorio si è, pertanto,
legittimamente svolto nei suoi confronti, senza che si
rendesse necessario il coinvolgimento dell’odierna
ricorrente.
Ferme le considerazioni che precedono, la domanda
risarcitoria è comunque infondata in quanto la ricorrente
non ha provato l'ingiustizia (lesività) sostanziale
dell’ordinanza di demolizione, cioè l’impossibilità per la
P.A. di adottare un atto di contenuto analogo a quello
affetto dal supposto vizio formale o procedimentale,
dovendosi ritenere necessario per l’ammissione a
risarcimento il giudizio prognostico circa la non
reiterabilità dell’atto che si assume viziato da un vizio
formale o procedimentale.
Risulta, inoltre, dagli atti di causa che la ricorrente è di
fatto comunque venuta a conoscenza della possibilità di
recuperare gli arredi del chiosco (arg. in base a doc. 49 P.A.:
avviso di sgombero del chiosco da eventuali arredi,
suppellettili, etc. notificato dal Comune al Ga. il
25.11.2010 e ricevuto a mani dall’odierna ricorrente, La
Ro.An., convivente, prot. notifiche n. 2741; v. anche
doc. 59 e 51 P.A., lettera avv. Ca., in cui si afferma
che la ricorrente è di fatto venuta a conoscenza della
comunicazione circa la possibilità di recuperare entro il 26.06.2011 i beni mobili presenti nel chiosco, notificata
dal Comune al Ga. e ricevuta dalla figlia della
ricorrente, sig.ra Al.Fe.).
La mancata tempestiva attivazione della ricorrente per il
recupero dei beni mobili presenti nel chiosco, pur a fronte
dell’intervenuta conoscenza delle diffide inviate dal
Comune, preclude l’ammissione a risarcimento, dovendosi
escludere, in base agli artt. 30 c.p.a. e 1227 cod. civ., la
risarcibilità dei danni evitabili con l’ordinaria diligenza
(art. 30, comma 3, c.p.a. “Il giudice valuta tutte le
circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle
parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza...”;
art. 1227, comma 2, cod. civ.. “Il risarcimento non è dovuto
per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l'ordinaria diligenza”).
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere
respinto (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 28.09.2018 n. 308 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di
repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno
confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il
quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di
vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto
alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e
diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio
non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde
egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di
tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a
seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n.
104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt.
112 e ss. c.p.a..
---------------
S’osserva che il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnativa
del silenzio, serbato dal Comune di San Marzano sul Sarno,
che si sarebbe concretizzato non riscontrando, l’ente, la
diffida del ricorrente del 15.06.2017, prot. 8980 e non
emanando gli atti, conseguenti all’ordinanza di demolizione
degli abusi edilizi, riscontrati presso l’abitazione della
controinteressata, ex art. 31 e ss. d.P.R. 380/2001, mercé
l’attivazione del procedimento d’esecuzione d’ufficio
dell’ordinanza in questione, rimasta inottemperata; tanto,
come esplicitato nel testo della diffida in questione,
stante l’intervenuto rigetto, per silentium, ex art. 36,
comma 3, d.P.R. 380/2001, dell’istanza d’accertamento di
conformità, relativa agli abusi suddetti, presentata
dall’interessata.
Ciò posto, vanno esaminate le eccezioni d’inammissibilità
del ricorso, variamente sollevate dalle difese delle
resistenti Amministrazione Comunale e controinteressata.
La prima eccezione, sollevata dalla difesa di quest’ultima,
è imperniata sul preteso difetto d’interesse ad agire del
ricorrente, il quale alcun concreto pregiudizio subirebbe,
in tesi, per effetto della mancata eliminazione delle opere
edilizie abusive de quibus, per di più “interne
all’abitazione della Sc.”.
L’eccezione è infondata.
Come affermato, di recente, dalla Sezione, infatti:
“Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di
repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno
confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il
quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di
vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto
alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e
diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio
non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde
egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di
tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a
seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n.
104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt.
112 e ss. c.p.a.” (TAR Campania–Salerno, Sez. II,
12/04/2018, n. 546) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della
domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non
determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di
demolizione emessa.
L’esecuzione di tale sanzione, infatti,
in pendenza del termine di decisione della domanda di
sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in
mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto,
maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla
presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può
essere eseguita e non è necessaria da parte
dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti sanzionatori.
---------------
L’ulteriore eccezione d’inammissibilità del gravame,
sollevata dalla difesa della Sc., è poi fondata sul
dedotto obbligo del Comune, una volta respinta l’istanza di
sanatoria presentata dall’interessata, di riattivare il
procedimento, volto alla repressione degli abusi edilizi,
mercé l’emissione di una nuova ordinanza di demolizione dei
medesimi.
Anche tale eccezione è priva di pregio, posto che la Sezione
ha aderito alla diversa opzione ermeneutica, espressa, da
ultimo, nella massima che segue: “La presentazione della
domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non
determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di
demolizione emessa. L’esecuzione di tale sanzione, infatti,
in pendenza del termine di decisione della domanda di
sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in
mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto,
maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla
presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può
essere eseguita e non è necessaria da parte
dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti
sanzionatori” (Consiglio di Stato, sez. VI, 06/06/2018, n.
3417).
Vero è che, nella specie, il Comune di San Marzano sul Sarno
–dopo la concretizzazione del rigetto per silentium
dell’istanza di accertamento di conformità– licenziava
anche diniego espresso circa la stessa (provvedimento di
diniego definitivo, prot. n. 1114 del 22.01.2018, notificato
alla Sc. in data 24.01.2018); diniego definitivo che
era gravato di ricorso, innanzi a questo Tribunale (R. G. n.
604/2018).
La circostanza, peraltro, non sposta evidentemente i termini
della questione, non potendosi evidentemente ravvisare, in
detta circostanza, alcuna inammissibilità del presente
ricorso (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Circa le immagini
presenti sul programma Google Earth, i relativi fotogrammi
costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili
anche in sede penale.
---------------
I due ricorsi sono connessi e devono essere riuniti.
Risulta in atti che, nel 1987, Cr.An. ha presentato al
Comune di Catanzaro un’istanza di condono ai sensi della L.
47/1985, al fine di sanare l’immobile realizzato
abusivamente alla via ... n. 135, identificato catastalmente
al fl. 5, part. 333, sub. 10.
Al riguardo, il Comune ha dapprima rilasciato la concessione
edilizia in sanatoria in data 27.10.2008 n. 94087, che poi
ha però annullato in autotutela, con ordinanza dirigenziale
28.11.2012. n. 90422, a seguito di accertamenti successivi,
effettuati a seguito di denuncia presentata da Fu.Sa..
Quindi, con ordinanza n. 44 del 12.12.2012, impugnata con
motivi aggiunti, è stato fatto divieto a Cr.Al. (che nel
frattempo ha acquistato l’immobile oggetto di causa) di
proseguire l’attività commerciale svolta nello stesso
immobile, in quanto privo di titolo edilizio.
Poiché quest’ultimo atto è stato impugnato per vizi derivati
dall’illegittimità dell’annullamento in autotutela della
concessione in sanatoria e del certificato di agibilità, ai
fini della valutazione del merito del complessivo gravame, è
preminente la trattazione sulla legittimità dell’ordinanza
n. 90422/2012 (di annullamento della concessione edilizia in
sanatoria), poiché la legittimità, o meno, di quest’ultima
comporta la legittimità, o meno, dell’ordinanza n. 44/2012.
A tal proposito, va osservato che la domanda di condono
presentata da Cr.An., per poter essere accolta, deve avere
ad oggetto un’opera ultimata, sia pure abusivamente, entro
la data del 01.10.1983, come prescritto dall’art. 31 della
L. 47/1985, con la precisazione che “si intendono
ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico
e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne
agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla
residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Dunque, il presupposto indispensabile per potersi avvalere
dei benefici della legge suddetta è ravvisabile
nell’ultimazione dei lavori di costruzione entro la data del
01.10.1983.
Detta circostanza è stata però confutata, con argomentazioni
condivisibili, dal verificatore ing. An.Dr., il quale ha
attestato che l’opera è stata realizzata addirittura dopo la
presentazione della domanda di sanatoria e comunque
successivamente all’anno 2001 e che l’immobile, a quell’epoca,
era di dimensione differente rispetto allo stato
rappresentato in progetto.
Questo, sulla scorta delle aerofotogrammetrie acquisite
presso l’Amministrazione e delle immagini presenti sul
programma Google Earth, i cui fotogrammi costituiscono prove
documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale (cfr.
Cass. pen., Sez. III, 15.09.2017 n. 48178).
Per altro, a fronte di ciò, parte ricorrente non ha fornito
alcuna dimostrazione contraria, almeno in ordine alle
effettive dimensioni dell’immobile ed all’epoca del suo
completamento, lamentando soltanto l’inattendibilità della
verificazione suddetta; quando invece incombe sul
ricorrente, che agisce e afferma, la prova documentata
dell'anteriorità, rispetto alla data finale prevista dalla
legge sul condono edilizio, dell'ultimazione dei lavori
abusivi. In mancanza di tale prova, la tesi
dell’amministrazione sorregge adeguatamente la legittimità
del diniego di condono impugnato (cfr. TAR Campania Napoli,
Sez. III, 20.11.2012 n. 4638).
Opera, quindi, nella fattispecie, il pacifico principio
secondo cui, allorquando una concessione edilizia in
sanatoria sia stata ottenuta in base ad una falsa, o
comunque erronea, rappresentazione della realtà materiale, è
consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di
autotutela, ritirando l’atto, senza necessità di esternare
alcuna particolare ragione di pubblico interesse che, in
tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2013 n. 39).
Donde, l’annullamento anche del certificato di agibilità,
che non può essere rilasciato per fabbricati abusivi e non
condonati (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.03.2018
n. 1458).
La definizione sfavorevole del ricorso principale n.
1377/2012 determina, infine, anche il rigetto del ricorso n.
1388/2014 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 25.09.2018 n. 1604 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E' ormai principio acquisito in giurisprudenza
quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria
in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di
demolizione ha automatico effetto caducante
sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La
presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce,
quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione
contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di
interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera,
provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne
l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di
un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in
quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di
demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo
termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato
(una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza)”.
---------------
- Ritenuto, in primo luogo, che sussistono i presupposti di legge
per definire il giudizio nella presente sede cautelare, con
sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 del
c.p.a., essendo, tra l’altro, state rese edotte le parti di
tale eventualità, come consta dal verbale d’udienza;
- Considerato che il ricorso, senza che vi sia la necessità di
attendere l’esito della domanda di concessione del permesso
di costruire in sanatoria, è improcedibile, essendo ormai
principio acquisito in giurisprudenza quello per cui “La
presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva
all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico
effetto caducante sull'ordinanza di demolizione,
rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta
domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere
improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per
sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame
dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure
al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o
implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un
nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato
un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già
dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in
precedenza)” (cfr. ex multis ord. TAR Reggio
Calabria 06.09.2018 n. 142; sent. TAR Reggio Calabria
03.07.2018 n. 406; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 09/02/2018,
n. 1581 sent. TAR Napoli sez. VIII 02.01.2018 n. 1) (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 17.09.2018 n. 559 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza consolidata è giunta ad
affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al
patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata
nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta
nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione
procede all'acquisizione del bene, fermo restando che,
almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta
indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica
nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e
delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione.
Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione
costituisce titolo per la immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto
prescindere dalla esatta individuazione delle particelle
catastali coinvolte.
(Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza
di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i
suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una
planimetria o altri atti che consentano l'identificazione
esatta della aree interessate).
Sicché, la concreta individuazione delle aree da acquisire
al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione
costituiscono elementi necessari del provvedimento
acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo
costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Atteso che l'area acquisita non può comunque essere
superiore a dieci volte la complessiva superficie utile
abusivamente costruita, l’area da acquisire deve essere
individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione
l'autorità competente deve rispettare il principio di
proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che,
entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la
posizione soggettiva del privato in modo adeguato,
necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di
interesse pubblico perseguito.
---------------
Con verbale dell’11.05.1997 del Corpo forestale veniva
contestato alla ricorrente un movimento di terra in contrada
Monte Caputo in San Martino delle scale, movimento di terra
(asseritamente) finalizzato alla costruzione di una casa di
mq. 40.
Con lo stesso verbale il terreno era sottoposto a sequestro,
con apposizione di sigilli al fine di conservare l’integrità
del corpo del reato ed impedire il mutamento dello stato dei
luoghi.
Era quindi emesso decreto di sequestro preventivo da parte
del GIP (n. 6254/97 – 7761/97, notificato il 17/05/1997.
Il Comune di Monreale intimava, oltre la sospensione dei
lavori, anche la demolizione del fabbricato abusivo
(ordinanze n. 367 e n. 368 del 26/06/1997)
Con ordinanza n. 188 del 13/07/2000 l’Amministrazione
comunale integrava le precedenti ordinanze nella parte in
cui non erano stati indicati i dati catastali, rinnovando
quindi l’ordine di demolizione precisando che, qualora le
opere fossero state sottoposte a sigilli giudiziari, i
lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dopo la rimozione
dei sigilli.
Con verbale del 14/09/2001 alcuni funzionari della polizia
locale evidenziavano l’inottemperanza all’ordine demolitorio:
in tesi di parte la mancata demolizione era dovuta alla
persistenza del sequestro giudiziario.
Quindi con provvedimento del 17/05/2002 il Settore
Urbanistica del Comune di Monterale notificava il
provvedimento dirigenziale n. 524/M con cui è stata disposta
l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del
Comune per l’omessa ottemperanza entro il termine prescritto
all’ordine di demolizione.
...
Preliminarmente il Collegio non può
esimersi dallo stigmatizzare il comportamento del Comune di
Monreale che, al di là della libera scelta di non voler
resistere al ricorso, non ha dato riscontro ai reiterati
ordini istruttori emessi da questo Giudice, di cui alla
Ordinanza presidenziale n. 74/2016 e le due ordinanze
collegiali n. 250/2017 e n. 2891/2017: sulle consequenziali
determinazioni il Collegio ritornerà a conclusione della
presente sentenza.
Ciò premesso, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti
di cui di seguito meglio precisati.
Risultano fondate la seconda e la terza censura
qui previamente e contestualmente scrutinate.
Il provvedimento impugnato, nel disporre l'acquisizione
gratuita, indica, in modo del tutto approssimativo, un'area
pari fino a dieci volte la superficie complessiva utile
abusivamente costruita sulla particella n. 59 del foglio di
mappa n. 20 del N.C.T. di Monreale esteso per circa mq.
1510, a fronte di un contestato abuso di circa 45 mq.
La mancata precisa individuazione della acquisenda area,
essendo indicata solo la particella ma non anche la porzione
di questa, inficia il provvedimento impugnato.
Ed invero, diversamente da quanto può anche non essere
presente nel provvedimento di che intima le demolizione del
bene, per quanto attiene al momento con si dispone
l’acquisizione dello stesso e della relativa aera di sedime,
in una misura che comunque non può essere superiore a 10
volte quella dell’abuso, occorre che l’ordinanza specifichi
nel dettaglio la porzione del maggiore terreno che con il
provvedimento si intende acquisire.
Opportunamente parte ricorrente richiama l’orientamento
della giurisprudenza amministrativa secondo cui "La
giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che
l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio
pubblico non deve essere necessariamente indicata
nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta
nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione
procede all'acquisizione del bene (in termini TAR Toscana,
sez. 3^, 07.05.2013, n. 724), fermo restando che, almeno
l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta
indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica
nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e
delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione. Ciò
discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione
costituisce titolo per la immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto
prescindere dalla esatta individuazione delle particelle
catastali coinvolte. Nella specie né l'ordinanza di
demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del
presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta
allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti
che consentano l'identificazione esatta della aree
interessate. Alla luce delle considerazioni che precedono la
censura risulta fondata, il che comporta l'accoglimento del
ricorso con il conseguente annullamento dell'ordinanza n.
150 del 1997 gravata, potendosi ritenere assorbite le
ulteriori censure proposte" (cfr. TAR Toscana—Firenze,
Sez. III, 16.01.2014, n. 64; principio affermato anche nelle
recentissime decisioni del TAR Piemonte—Torino, 28.04.2016,
n. 573 e del TAR Sardegna—Cagliari, 24.03.2016, n. 278).
La concreta individuazione delle aree da acquisire al
patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione
costituiscono elementi necessari del provvedimento
acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo
costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Quanto alla terza censura, il Collegio ritiene di
poter condividere il precedente invocato dalla parte, di cui
alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.09.2014 n.
5607, secondo cui "–atteso che l'area acquisita non può
comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita- l’area da acquisire
deve essere individuata con precisione: nell'applicazione
della sanzione l'autorità competente deve rispettare il
principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una
sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito,
sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo
adeguato, necessario e strettamente proporzionale
all'obiettivo di interesse pubblico perseguito": nel
caso in esame, attesa l’estensione della superficie abusiva,
parti a circa 45 mq, ed il rapporto con l’estensione della
particella di circa mq 1.510, l’Amministrazione non illustra
le ragioni per cui ha ritenuto di procedere alla
acquisizione secondo il parametro massimo (di dieci volte
l’estensione della superficie abusiva).
In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente
annullamento, nei limiti sopra esposti, del provvedimento
impugnato, con improcedibilità di ogni altra censura siccome
ininfluente ai fini del decidere.
Ciò posto, come già osservato, va
stigmatizzato il mancato riscontro alle sopra citate
ordinanze istruttorie.
Oltre che contrastare con le previsioni del codice del
processo amministrativo che impongono alle parti di
cooperate con il Giudice ai fini della ragionevole durata
del processo (art. 2 comma 2), il
comportamento tenuto dal Comune di Monreale può altresì
integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art.
328 c.p. e l’art.
650 c.p.) per cui appare opportuno sin d’ora
disporre la trasmissione della presente sentenza alla
Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale
della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.
Le spese di lite possono tuttavia essere compensate tra le
parti tenuto conto del contestuale mancato riscontro
all’ordine istruttorio, ord. n. 2891/2017, che incombeva,
per quanto di pertinenza, sulla stessa parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto
annulla il provvedimento impugnato nei sensi di cui in
motivazione.
Spese compensate.
Manda la Segreteria di trasmettere copia
della presente sentenza alla Procura della Repubblica di
Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per
la Sicilia per le opportune valutazioni di competenza (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.09.2018 n. 1944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di
un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un
automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione
delle opere abusive eventualmente già adottata, ovvero ne
inibisce l’adozione a pena di illegittimità della sanzione
demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria.
In altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria
comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza
impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione
riterrà di adottare all’esito del procedimento.
---------------
Considerato:
- che, come risulta dalla documentazione in atti, successivamente
all’instaurazione del giudizio il ricorrente signor Miniati
ha chiesto al Comune di Firenze la sanatoria e il
contestuale accertamento di conformità paesaggistica dei
manufatti oggetto del provvedimento impugnato;
- che la circostanza sopravvenuta determina la manifesta
improcedibilità del ricorso, da accertarsi e dichiararsi ai
sensi dell’art. 60 c.p.a.;
- che, nella specie, trova infatti applicazione la tradizionale
massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in
coerenza con gli indirizzi della Sezione– secondo cui la
presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi
produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di
demolizione delle opere abusive eventualmente già adottata,
ovvero ne inibisce l’adozione a pena di illegittimità della
sanzione demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria
(fra le molte, da ultimo cfr. TAR Toscana, sez. III,
02.08.2018, n. 1130; id., 21.05.2018, n. 691);
- che, in altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria
comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza
impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione
riterrà di adottare all’esito del procedimento (TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza 13.09.2018 n. 1177 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito
che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione
dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non
impone un più stringente onere motivazionale circa la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla
demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi
nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o
comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi
legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per
effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna
decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole
intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio,
costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei
presupposti di fatto e di diritto.
Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto
dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del
2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014–
precisa che “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità
penali, costituisce elemento di valutazione della
performance individuale, nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del
funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del
tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di
demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse
conseguenze in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il
ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
---------------
Colui che acquista un immobile su cui è stato realizzato un
abuso edilizio subentra nella medesima situazione giuridica
del dante causa e, se è ancora pendente il termine fissato
nella ordinanza di demolizione, ha egli stesso la
possibilità di eseguire l'ordinanza di demolizione, e se il
dante causa al momento della vendita non segnala la
sussistenza dell'abuso, tale circostanza può dar luogo ai
consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante –per le
ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del
potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti
previsti dalla legge.
---------------
L’amministrazione comunale non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione,
prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso
che è posto in capo al proprietario o al responsabile
dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato
costruito, con riferimento specifico all'onere di provare la
costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n.
765/1967 cd. Legge ponte.
---------------
2.3.- Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che il
lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione
dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non
impone un più stringente onere motivazionale circa la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla
demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi
nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o
comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi
legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per
effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna
decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole
intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio,
costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei
presupposti di fatto e di diritto (Cons. Stato, sez. VI,
03.10.2017, n. 4580; Cons. Stato, Sez. VI, 11.12.2013 n.
5943).
2.4.- Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato (sentenza del 17.10.2017 n. 9) che l'art. 31, comma
4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera
q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del 2014, convertito con
modificazioni dalla L. n. 164 del 2014– precisa che “la
mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio,
fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento
di valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del
tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di
demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse
conseguenze in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il
ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
2.5.- Non rileva che gli abusi siano stati compiuti non dai
ricorrenti ma dal loro dante causa.
Anche in questo caso, secondo condivisa e costante
giurisprudenza, colui che acquista un immobile su cui è
stato realizzato un abuso edilizio subentra nella medesima
situazione giuridica del dante causa e, se è ancora pendente
il termine fissato nella ordinanza di demolizione, ha egli
stesso la possibilità di eseguire l'ordinanza di
demolizione, e se il dante causa al momento della vendita
non segnala la sussistenza dell'abuso, tale circostanza può
dar luogo ai consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante
–per le ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del
potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti
previsti dalla legge (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.07.2014,
n. 3565; Tar Genova, sez. I, 06.10.2016, n. 1001).
2.6.- I ricorrenti sostengono al riguardo la preesistenza
del manufatto al 01.09.1967.
Rilevano che al punto 7, lett. D, del rogito notarile, la
parte alienante attesta che la costruzione del piano terra è
iniziata ed ultimata in data anteriore al 01.09.1967, nel
mentre dichiara che la costruzione al primo piano è stata
realizzata in conformità a regolare provvedimento
autorizzativo, rilasciato dal Sindaco, corrispondente alla
concessione edilizia n. 20313 del 22.10.1968; precisa
inoltre che in seguito non vi sono stati interventi edilizi
o mutamenti di destinazione che avrebbero richiesto un
titolo.
L’assunto circa la preesistenza del manufatto non è
assistito da una valida prova, il cui onere incombe
sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza,
anche di questa Sezione (cfr. sentenza del 27.08.2016 n.
4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione,
prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso
che è posto in capo al proprietario o al responsabile
dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è
stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732), con
riferimento specifico all'onere di provare la costruzione
dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd
Legge ponte.
Né costituisce valido principio di prova, a sostegno delle
ragioni dei ricorrenti, la nota prot. n. 20313 del
22.10.1968, di cui copia è allegata agli atti di causa,
posto che con la stessa il Sindaco del Comune di Torre del
Greco autorizzava l’alienante degli odierni ricorrenti ad
installare una semplice “casetta prefabbricata” in
via Montedoro.
In senso contrario alle deduzioni difensive di parte
ricorrente, la nota rende del tutto verosimile che gli abusi
contestati siano stati compiuti in epoca successiva al 1967;
è sufficiente mettere a confronto il contenuto
dell’autorizzazione edilizia sindacale con le dichiarazioni
dell’alienante contenute nell’atto di compravendita notarile
del 1994, nel quale si fa menzione di una “casa per uso
abitazione, …composta da un piano terra di due vani, adibiti
a piccola autorimessa e lavanderia o stanza di sbarazzo, e
da un primo piano, costituito da tre vani utili ed accessori” (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2018 n. 5464 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
formazione, o meno, del silenzio-assenso in
materia di condono edilizio.
E' stato precisato che
il silenzio-assenso non si perfeziona
unicamente per effetto del mero decorso del
tempo a far data dalla presentazione della
domanda e del pagamento dell'oblazione,
occorrendo altresì che il Comune acquisisca
la prova, ovviamente da fornirsi dal privato
richiedente, della ricorrenza dei requisiti
soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle
specifiche disposizioni di settore.
Negli stessi termini si pronunciato anche
questo Tribunale riaffermando
che “Il termine legale per la formazione del
silenzio-assenso in materia di condono degli
abusi edilizi presuppone che la domanda sia
stata corredata dalla prescritta
documentazione, non sia infedele, sia stata
interamente pagata l'oblazione, e
soprattutto, che l'opera sia stata ultimata
nel termine di legge e non sia in contrasto
con i vincoli di inedificabilità di cui
all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47. Ne
consegue che il silenzio-assenso non si
perfeziona per il solo fatto dell'inutile
decorso del termine perentorio a far data
dalla presentazione della domanda di
sanatoria e del pagamento dell'oblazione,
occorrendo altresì l'acquisizione della
prova, da parte del Comune, della ricorrenza
dei requisiti soggettivi ed oggettivi
stabiliti dalle specifiche disposizioni di
settore. In particolare, pertanto, il
silenzio-assenso non si forma per effetto
della presentazione di una domanda di
condono qualora questa non sia corredata
dall'integrale dimostrazione dell'esistenza
di detti requisiti, relativi al tempo di
ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla
consistenza delle opere e ad ogni altro
elemento rilevante affinché possano essere
utilmente esercitati i poteri di verifica
dell'Amministrazione Comunale”.
Da ultimo il giudice d’appello ha
riaffermato che “Per la formazione del
silenzio-assenso sull'istanza di condono
edilizio è necessario che ricorrano i
requisiti sia dell'avvenuto pagamento
dell'oblazione dovuta e degli oneri di
concessione, che dell'avvenuto deposito di
tutta la documentazione prevista per
l'istanza di condono, e ciò affinché possano
essere utilmente esercitati i poteri di
verifica da parte dell'Amministrazione
comunale”.
Inoltre è da escludere la formazione del
silenzio-assenso in aree assoggettate a
vincoli paesaggistici senza il rilascio del
parere dall'autorità preposta alla gestione
del vincolo. Infatti la sussistenza
di un vincolo di inedificabilità assoluta ai
sensi dell’art. 33 della legge n. 47/1985
preclude un assenso espresso o tacito della
sanatoria e comunque, nelle zone
assoggettate a vincoli, il termine previsto
dall'art. 35 non inizia a decorrere prima
dell'acquisizione del parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo ai sensi
del successivo comma 18.
---------------
Con la quarta censura si deduce che
l’operato del Comune si pone, altresì, in
violazione della disciplina sul silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche
preposte alla tutela paesaggistico-territoriale contenuta
nell’art. 17-bis, co. 3, della L. n. 241 del
1990, inserito dall’art. 17-bis, co. 3, L.
241 del 1990, inserito dall’art. 3 della L.
n. 124 del 2015, in proposito rilevandosi
che tale normativa prevede, al comma 1, che
nei casi in cui è prevista l’acquisizione di
assensi, concerti, o nulla-osta comunque
denominati di amministrazioni pubbliche, per
l’adozione di provvedimenti normativi ed
amministrativi di competenza di altre
amministrazioni pubbliche, le
amministrazioni comunicano il proprio
assenso, concerto o nulla-osta entro trenta
giorni dal ricevimento dello schema di
provvedimento corredato della relativa
documentazione, da parte l’amministrazione
procedente, salva l’interruzione del termine
in caso di richiesta di integrazione
documentale, decorsi i termini di cui al
comma 1, senza che sia stato comunicato
l’assenso, il concerto o il nulla-osta, lo
stesso si intende acquisito.
Nella specie,
per effetto di tale disciplina, non avendo
la Soprintendenza espresso alcun parere
definitivo in ordine alla pratica di condono
del ricorrente, il Comune avrebbe dovuto
ritenere acquisito ex lege il nulla-osta,
risultando illegittimo il provvedimento
impugnato per violazione dell’art. 17-bis
della Legge 241/1990.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è
condivisibile.
Invero è stato precisato che il silenzio-assenso
non si perfeziona unicamente per effetto del
mero decorso del tempo a far data dalla
presentazione della domanda e del pagamento
dell'oblazione, occorrendo altresì che il
Comune acquisisca la prova, ovviamente da
fornirsi dal privato richiedente, della
ricorrenza dei requisiti soggettivi ed
oggettivi stabiliti dalle specifiche
disposizioni di settore (Cons. St., sez. VI,
27/07/2015, n. 3661).
Negli stessi termini si pronunciato anche
questo Tribunale (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 25/02/2016, n. 1032) riaffermando
che “Il termine legale per la formazione del
silenzio-assenso in materia di condono degli
abusi edilizi presuppone che la domanda sia
stata corredata dalla prescritta
documentazione, non sia infedele, sia stata
interamente pagata l'oblazione, e
soprattutto, che l'opera sia stata ultimata
nel termine di legge e non sia in contrasto
con i vincoli di inedificabilità di cui
all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47. Ne
consegue che il silenzio-assenso non si
perfeziona per il solo fatto dell'inutile
decorso del termine perentorio a far data
dalla presentazione della domanda di
sanatoria e del pagamento dell'oblazione,
occorrendo altresì l'acquisizione della
prova, da parte del Comune, della ricorrenza
dei requisiti soggettivi ed oggettivi
stabiliti dalle specifiche disposizioni di
settore. In particolare, pertanto, il
silenzio-assenso non si forma per effetto
della presentazione di una domanda di
condono qualora questa non sia corredata
dall'integrale dimostrazione dell'esistenza
di detti requisiti, relativi al tempo di
ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla
consistenza delle opere e ad ogni altro
elemento rilevante affinché possano essere
utilmente esercitati i poteri di verifica
dell'Amministrazione Comunale”.
Da ultimo il giudice d’appello ha
riaffermato che “Per la formazione del
silenzio-assenso sull'istanza di condono
edilizio è necessario che ricorrano i
requisiti sia dell'avvenuto pagamento
dell'oblazione dovuta e degli oneri di
concessione, che dell'avvenuto deposito di
tutta la documentazione prevista per
l'istanza di condono, e ciò affinché possano
essere utilmente esercitati i poteri di
verifica da parte dell'Amministrazione
comunale” (Cons. St., Sez. IV, 11/10/2017,
n. 4703).
Inoltre è da escludere la formazione del
silenzio-assenso in aree assoggettate a
vincoli paesaggistici senza il rilascio del
parere dall'autorità preposta alla gestione
del vincolo (cfr. TAR Napoli, sez. VII,
27/02/2018, n. 1280). Infatti la sussistenza
di un vincolo di inedificabilità assoluta ai
sensi dell’art. 33 della legge n. 47/1985
preclude un assenso espresso o tacito della
sanatoria e comunque, nelle zone
assoggettate a vincoli, il termine previsto
dall'art. 35 non inizia a decorrere prima
dell'acquisizione del parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo ai sensi
del successivo comma 18 (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 19/12/2016, n. 5366)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Con
riferimento al profilo relativo alla
datazione del vincolo paesaggistico, per
consolidato orientamento giurisprudenziale e
per il più generale principio di legalità
dell’azione amministrativa,
l’Amministrazione deve assumere i
provvedimenti di sua competenza in base alla
normativa vigente al momento dell’adozione
degli stessi, risultando il procedimento
amministrativo regolato dal principio tempus
regit actum.
D’altronde un tale
orientamento deve farsi risalire alla
sentenza dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 20 del 22.07.1999,
secondo la quale: <<La disposizione
dell'art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, in
tema di condono edilizio, nel prevedere la
necessità del parere dell'amministrazione
preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico ai fini del rilascio delle
concessioni in sanatoria, non reca alcuna
deroga ai principi generali e pertanto essa
deve interpretarsi nel senso che l'obbligo
di pronuncia dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione
all'esistenza del vincolo al momento in cui
deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui
il vincolo medesimo sia stato introdotto.
Ciò in quanto tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale
compatibilità con il vincolo dei manufatti
realizzati abusivamente>>.
---------------
Con la quinta censura si deduce
l’illegittimità della valutazione negativa
di compatibilità paesaggistica effettuata
dalla Soprintendenza in quanto basata su
presupposti giuridici e fattuali errati,
nonché su motivazioni apodittiche, atteso
che:
- la Soprintendenza ritiene il fabbricato
non compatibile con gli interventi ammessi
dalla disciplina vincolistica prescritta dal
P.T.P. dei Comuni vesuviani per la zona
R.u.a. (Recupero Urbanistico-Edilizio e
Restauro Paesistico-Ambientale) ove ricade
l’immobile, sottolineando sotto tale
profilo, la necessità di dover prendere in
considerazione il P.T.P. dei Comuni
Vesuviani benché entrato in vigore
successivamente alla realizzazione
dell’abuso e la legittimità di una
valutazione fondata sui “contrasti con i
dettami del P.T.P.”, aggiungendo, infine,
considerazioni apodittiche e generiche sulla
grandezza dell’immobile che contribuirebbe
ad “alterare il già depauperato ambiente in
cui l’immobile è inserito”;
- tuttavia tale motivazione è illegittima
perché, se è vero che il P.T.P. dei Comuni
Vesuviani di cui al D.M. 04.07.2002 inserisce
l’area di Terzigno interessata
dall’intervento in discussione, nella zona
R.u.a., sottoposta alle norme di tutela per
il recupero urbanistico-edilizio e al
restauro paesistico ambientale, un vincolo
di inedificabilità per gli interventi di
incremento dei volumi esistenti, è stato
introdotto solo con il D.M. 04.07.2002, ossia
successivamente all’intervento oggetto della
presente controversia pacificamente
realizzato negli anni '90;
- tale circostanza temporale assume assoluta
rilevanza in quanto l’art. 33 della Legge
47/1985, applicabile anche al c.d. secondo
condono, ai sensi dell’art. 39 della Legge
724/1994, prevede che le opere di cui
all’art. 31 non sono suscettibili di
sanatoria quando siano in contrasto con i
seguenti vincoli, qualora questi comportino
inedificabilità e siano stati imposti prima
della esecuzione delle opere stesse, da ciò
facendone derivare che la insistenza del
vincolo di inedificabilità assoluta
preclude, in senso oggettivo ed inderogabile
il rilascio della sanatoria solo laddove
imposto in data antecedente alla
realizzazione dell’opera, mentre, secondo
consolidato orientamento del Consiglio di
Stato i vincoli di inedificabilità -come
nella specie- sopravvenuti alla
realizzazione dell’intervento edilizio non
operano quali fattori di preclusione
assoluta al condono, ma si atteggiano a
vincoli relativi ex art. 32 della legge n.
47/1985 che impongono (non una valutazione
dell’Autorità preposta alla gestione del
vincolo attinente alla conformità con il
regime normativo previsto, in via astratta
dalla disciplina paesaggistica, ma) “un
apprezzamento concreto di compatibilità”
paesaggistica avuto riguardo ai beni
ambientali di specifica rilevanza della zona
di riferimento (cfr. C.d. S., sez. IV,
04.05.2012, n. 2576; C. di S., sez. VI, n.
1077/2008), apprezzamento, nella specie, non
effettuato;
- con ulteriore profilo di censura si
deduce che, nella specie, il presupposto
giuridico errato ha fatto sì che la
valutazione espressa dall’Autorità
Ministeriale entrasse nel merito, non
rispondendo alle caratteristiche minime
indispensabili che deve possedere una
motivazione in materia paesaggistica,
delineate dal Consiglio di Stato nella
sentenza della sez. VI, n. 2176/2016,
dovendo rispondere a un modello che
contempli, in modo dettagliato, la
descrizione:
I) dell’edificio mediante
indicazione delle dimensioni, delle forme,
dei colori e dei materiali impiegati;
II) del
contesto paesaggistico in cui esso si
colloca, anche mediante l’indicazione di
eventuali altri immobili esistenti, della
loro posizione e dimensioni;
III) del
rapporto fra edificio e contesto, anche
mediante l’indicazione dell’impatto visivo
al fine di stabilire se esso si inserisca in
maniera armonica nel paesaggio;
- nella specie, mentre la suddetta
impostazione ed i relativi contenuti sono
stati rispettati dalla Commissione Locale
per il Paesaggio con l’espressione del
parere favorevole, viceversa la
Soprintendenza, al fine di rafforzare il
dato della non conformità del fabbricato con
l’astratta disciplina vincolistica di zona
che vieta interventi volumetrici, si è
limitata a rimarcare con formule suggestive
contenenti più che altro apprezzamenti di
gusto estetico soggettivo (del tutto
inammissibili in quanto estranei al
parametro della valutazione affidata alla
Soprintendenza) la consistenza dell’immobile
omettendo, tuttavia di esaminare -secondo
le coordinate valutative indicate dal
Consiglio di Stato- circostanze che, se
valutate, avrebbero portato ad un positivo
scrutinio di compatibilità paesaggistica
considerato che l’immobile si inserisce
armonicamente nella zona in cui è collocato,
non assumendo un valore incrementativo, in
termini volumetrici e di altezza, rispetto
agli altri edifici che compongono il
contesto urbano di inserimento, tale da
giustificare una sua speciale considerazione
negativa dal punto di vista paesaggistico,
come ampiamente illustrato nella relazione
paesaggistica allegata alla pratica di
sanatoria;
- non senza rimarcare che le stesse
previsioni del P.u.c. assegnano alla zona
una disciplina speciale proprio in ragione
della natura spontanea (rectius abusiva)
dell’edificio che, naturalmente, presenta
caratteristiche costruttive ampiamente
variegate, con la conseguenza che il parere
espresso dall’Autorità Ministeriale è
illegittimo in quanto fondato su
affermazioni apodittiche, prive della
necessaria valutazione inerente la
visibilità dell’intervento progettato nel
più vasto contesto ambientale nonché privo
dell’esame delle specifiche caratteristiche
dei luoghi e del progetto e l’accertamento
in concreto della compatibilità
dell’intervento con il mantenimento e
l’integrità del valore dei luoghi.
La censura, nei vari profili in cui si
articola, non è fondata.
Al riguardo, con riferimento al profilo
relativo alla datazione del vincolo, per
consolidato orientamento giurisprudenziale e
per il più generale principio di legalità
dell’azione amministrativa,
l’Amministrazione deve assumere i
provvedimenti di sua competenza in base alla
normativa vigente al momento dell’adozione
degli stessi, risultando il procedimento
amministrativo regolato dal principio tempus
regit actum (cfr. C. di S., sez. IV,
28.09.2009, n. 5835; C.d. S., sez. VI,
03.09.2009, n. 5195). D’altronde un tale
orientamento deve farsi risalire alla
sentenza dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato n. 20 del 22.07.1999,
secondo la quale: <<La disposizione
dell'art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, in
tema di condono edilizio, nel prevedere la
necessità del parere dell'amministrazione
preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico ai fini del rilascio delle
concessioni in sanatoria, non reca alcuna
deroga ai principi generali e pertanto essa
deve interpretarsi nel senso che l'obbligo
di pronuncia dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione
all'esistenza del vincolo al momento in cui
deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui
il vincolo medesimo sia stato introdotto.
Ciò in quanto tale valutazione corrisponde
all'esigenza di vagliare l'attuale
compatibilità con il vincolo dei manufatti
realizzati abusivamente>>.
Correttamente, quindi l’Amministrazione ha
adottato le sue determinazioni in base alle
norme dell’adottato Piano del Parco, entrato
in vigore in data antecedente all’emanazione
del provvedimento conclusivo del
procedimento.
Inoltre, non è esatto, come invece assume il
deducente, che esso sia stato apposto per la
prima volta con il Piano territoriale
paesistico del Comuni vesuviani di cui al
D.M. 05.07.2002, atteso che come rilevato nel
medesimo parere impugnato il vincolo deve
farsi risalire al D.M. 07.08.1961,
pubblicato nella G.U. n. 209 del 24.08.1961
(ex lege n. 1497/1939) -richiamato nel
medesimo parere impugnato- che ha
dichiarato di notevole interesse pubblico
l’intero territorio del Comune di Terzigno,
decreto ministeriale peraltro già noto alla
Sezione poiché richiamato ed applicato in
molti provvedimenti di diniego di condono o
di demolizione esaminati in casi analoghi.
Il vincolo di inedificabilità in
controversia è, dunque, da ascrivere non
solo e non tanto alle previsioni del P.T.P
del 2002, ma soprattutto al D.M. 07.08.1961
che lo ha impresso sul territorio del Comune
di Terzigno per le finalità di tutela
paesaggistica di cui alla l. n 1497/1939
sulle c.d. bellezze naturali.
Dal che discende che detto vincolo è
sicuramente antecedente alla realizzazione
delle opere abusive oggetto dell’istanza di
condono denegata con il provvedimento
impugnato.
A ciò va soggiunto che l’intervento ricade
in zona R.U.A. (Recupero
Urbanistico-Edilizio e Restauro Paesistico-A,
ambientale), laddove l’art. 13 del P.T.P.
dei Comuni Vesuviani, che norma la suddetta
zona nella quale è ubicato l’immobile, vieta
interventi che comportano incrementi di
volume e zona Br (agglomerati edilizi
prevalentemente spontanei) dello strumento
edilizio, per modo che neppure può dirsi che
la valutazione di compatibilità
paesaggistica non sia stata effettuata
(anche) in concreto, ossia con riferimento
anche alla situazione paesaggistica ed
urbanistica dell’intervento, quale risulta
dagli strumenti vigenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La prima questione si riferisce alla possibilità di
frazionare le domande di condono
edilizio relativamente ad un unico fabbricato o
“corpo di fabbrica” unitario con il
risultato preconizzato da parte ricorrente
di riferire il limite massimo di cubatura
pari a 750 mc. previsto dall’art. 39 della
L. 724/1994 ai volumi contemplati da ogni
singola istanza.
Al quesito va data risposta negativa atteso
che la volontà del privato di considerare
un’unità immobiliare autonomamente
utilizzabile ed indipendente rispetto alle
altre porzioni ed unità del medesimo
fabbricato, non può influire sui criteri e
sui limiti inderogabilmente fissati
dall’ordinamento per la condonabilità
dell’immobile abusivo, per modo che il
frazionamento surrettizio di un immobile non
può valere a sottrarlo al regime di
condonabilità che gli è proprio.
---------------
Ai fini del perfezionamento del condono
edilizio di cui alla legge 724/1994, il
limite volumetrico di 750 metri cubi
previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile
a tutte le opere, senza alcuna distinzione
tra residenziali e non residenziali.
A tale riguardo la questione è già
stata più volte affrontata dalla
giurisprudenza amministrativa e da quella
penale che, dopo iniziale adesione
all’opzione ermeneutica prospettata dal
ricorrente, si è però orientata in senso
opposto e, quindi,
per l'applicabilità del richiamato limite
volumetrico per qualsivoglia tipologia di
manufatto, sia residenziale sia
commerciale/produttivo; in questo senso si
segnala il principio di diritto espresso di
recente dalla Cassazione Penale, sez. III,
con la sentenza del 01.07.2015 n. 31955,
secondo cui “ai fini del perfezionamento del
condono edilizio di cui alla L. n. 724 del
1994, il limite volumetrico di 750 metri
cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è
applicabile a tutte le opere, senza alcuna
distinzione tra residenziali e non
residenziali”.
Questo orientamento era già stato condiviso
anche dalla Cassazione civile la quale aveva chiarito che: “in tema di abusi
edilizi, ai sensi dell'art. 39, comma 1, l.
n. 724 del 1994, i limiti di cubatura cui è
condizionata la sanabilità dell'abuso sono
riferibili anche agli edifici ad uso non
residenziale, secondo un'interpretazione che
valorizzi l'intenzione del legislatore di
porre un limite inderogabile alla sanabilità
ricollegato all'entità oggettiva degli abusi
edilizi e, di conseguenza, della lesione
inferta ai valori espressi dalla normativa
urbanistica a tutela di un interesse
pubblico preminente, non rilevando in senso
contrario le disposizioni di deroga (‘ai
limiti di cubatura di cui al comma 1’)
dell'art. 39, comma 16, della stessa legge,
che si riferiscono unicamente al pagamento
(e alla misura) dell'oblazione, e non alla condonabilità dell'abuso”; sulla medesima
lunghezza d’onda si era orientata anche la
giurisprudenza amministrativa; in
particolare, il Consiglio di Stato (Sez. V,
23.06.2008, n. 3098) ha affermato che:
“il limite posto dal primo comma del citato
art. 39, il quale è diretto espressamente ad
individuare gli immobili oggetto di
sanatoria, si riferisce a qualsiasi tipo di
costruzione, senza alcuna distinzione a
seconda della sua destinazione” (il
superamento del limite è ammesso, nel
medesimo comma, solo nel caso di
annullamento della concessione
edilizia)...”.
In altra decisione, sempre il
Consiglio di Stato, nel rilevare come non possa
ammettersi un condono privo di limiti
quantitativi, ha ricordato che la Corte
Costituzionale sottolineò come
le norme sul condono abbiano carattere del
tutto eccezionale e siano, pertanto,
particolarmente soggette al limite di
ragionevolezza, con la conseguenza che
l’esclusione di ogni limite quantitativo
alla condonabilità degli edifici commerciali
o industriali trasformerebbe l’art. 39 della
L. n. 724 del 1994, art. 39, da disposizione
di eccezione a disposizione di rottura
incondizionata del controllo edilizio
passato. Infatti sarebbe del tutto
irragionevole ritenere condonabili in modo
indiscriminato gli immobili a destinazione
non residenziale, spesso di rilevante
impatto sul territorio, e di porre invece
limiti volumetrici invalicabili solo per
quelli ad uso abitativo e, d'altra parte si
giungerebbe altrimenti alla conclusione che
gli abusi relativi agli immobili non
residenziali sarebbero sanabili senza alcun
limite, in contrasto con quanto stabilito in
materia di condono anche da provvedimenti
legislativi successivi (cfr. art. 32, comma
25, d.l. 30.09.2003, n. 269).
Infine, come d’altronde affermato già da
tempo dalla giurisprudenza amministrativa, la
possibilità, in relazione ad immobili con
destinazione non residenziale, di pagare
l'oblazione anche con riferimento a cubature
maggiori trova la sua unica giustificazione
nel fatto che, in tal modo, può determinarsi
l'estinzione di taluni reati in materia
edilizia, come previsto dal comma 2
dell'art. 38 L. n. 47 del 1985, articolo
che, si rammenta, fa parte del capo IV della
legge stessa, richiamato dal più volte
citato art. 39, comma 1, L. n. 724 del 1994.
---------------
Con la nona censura si deduce che:
- è in ogni caso erronea la motivazione del
provvedimento soprintendentizio, in ordine al
superamento del limite di cubatura (750 mc.)
previsti dall’art. 39 della L. 724/1994,
sotto tale profilo il preavviso di diniego,
così argomentando: <<- le istanze di
condono del sig. Vi.Ca. e del
sig. Cr.Ca. afferenti porzioni
diverse del medesimo fabbricato superano
complessivamente il limite volumetrico di
750 mc. previsto dall’art. 39 della L.
724/1994 che riguarderebbe la volumetria
complessiva del manufatto indipendentemente
dal numero delle istanze di condono
presentate, essendo esclusa “la possibilità
di aggirare il suddetto limite mediante
fittizio frazionamento dell’immobile”; - il
suddetto limite volumetrico riguarda sia gli
immobili aventi destinazione residenziale
che le opere destinate ad uso diverso
dall’abitazione>>;
- quanto al primo elemento ostativo addotto,
si evidenzia che l’art. 39, co. 1, della
Legge 724/1994 prevede che le disposizioni
di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 e successive
modificazioni ed integrazioni, come
ulteriormente modificate dal presente
articolo, trovano altresì applicazione alle
opere abusive realizzate nel termine ivi
previsto relative a nuove costruzioni non
superiori a 750 metri cubi per ogni singola
richiesta di concessione edilizia in
sanatoria, a sua volta da presentarsi in
relazione ad ogni singola unità immobiliare
(cfr. circolari del Ministero dei Lavori
Pubblici sul condono edilizio nn. 3357/25
del 30.07.1985 e nn. 2241 del 17.06.1995);
- nella specie, le istanze di condono di
Vi.Ca. e Cr.Ca.
hanno ad oggetto abusi diversi benché
realizzati sul medesimo fabbricato,
costituendo, in particolare, l’abuso oggetto
della pratica dell’odierno ricorrente
un’unità immobiliare autonomamente
utilizzabile ed indipendente rispetto alle
altre porzioni ed unità del medesimo
fabbricato (da considerarsi, quindi “nuova
costruzione” ossequiosa del limite di “750
metri cubi per singola richiesta di
concessione edilizia in sanatoria”) e
l’autonomia e la diversità degli abusi è
confermata anche dalla diversità di
destinazione degli immobili, in quanto,
mentre l’istanza di Vi.Ca.
riguarda manufatti aventi destinazione
commerciale, la pratica dell’odierno
ricorrente concerne un appartamento
destinato a civile abitazione;
- assolutamente irrilevante ed illegittima
risulta altresì l’ulteriore argomentazione
ostativa addotta, per la quale il limite
dimensionale previsto dall’art. 39 si
applicherebbe sia ai manufatti aventi
destinazione residenziale, sia a quelli
aventi destinazione, atteso che
l’appartamento oggetto della pratica di
condono dell’odierno ricorrente ha
destinazione residenziale e rispetta la
destinazione residenziale e rispetta il
limite di 750 mc. come attestato dal Comune
con note prot. nn. 15656 del 31.10.2014 e n.
11611 del 17.06.2016, con la conseguenza che
il richiamo ai manufatti aventi la
destinazione non residenziale è palesemente
inconferente;
- in ogni caso, trattasi di argomentazione
errata poiché la limitazione dimensionale
richiamata nel provvedimento non può essere
riferita alle istanze di condono edilizio di
edifici produttivi, essendo i limiti
volumetrici riguardanti unicamente il
condono edilizio “residenziale”, per modo
che il comma 1 dell’art. 39, contrariamente
a quanto asserito dalla Soprintendenza, deve
essere interpretato nel senso che sono
sicuramente sanabili le nuove costruzioni
con destinazione d’uso non residenziale,
prescindendo dai limiti volumetrici previsti
per gli edifici a scopo abitativo (in tal
senso anche la Circolare del Ministero dei
Lavori Pubblici del 17.06.1995 n. 2241/UL,
dedicata alla quantificazione
dell’oblazione, indicando specificamente
l’importo da corrispondere per le opere
edilizio che superino i 750 mc.);
- né rileva in contrario l’interpretazione
giurisprudenziale secondo cui la deroga
prevista dall’art. 39, co. 16, non
concernerebbe la sanatoria ma unicamente il
pagamento dell’oblazione (che potrebbe
essere corrisposta anche per immobili non
condonabili, onde consentire l’estinzione di
alcuni reati edilizi), in quanto, sia nel
sistema previsto dalla L. 47/1985, che in
quello previsto dalla L. 724/1994, la
possibilità della estinzione delle
imputazioni relative ai reati concernenti
costruzioni abusive è riconducibile non solo
al pagamento dell’oblazione, ma alla
avvenuta presentazione della domanda
relativamente ad immobili oggettivamente
sanabili;
- in ragione di quanto precede, è evidente
l’illegittimità della motivazione addotta
dalla Soprintendenza in merito al limite
volumetrico previsto dall’art. 39 della
Legge n. 724/1999 poiché l’istanza di
Ca.Cr. -inerente il secondo
piano adibito ad appartamento avente
volumetria pari a 749 mc.- rispettano
pienamente i limiti volumetrici previsti
dalla normativa di settore.
La censura è destituita di fondatezza.
La prima questione indotta dalla censura in
esame si riferisce alla possibilità di
frazionare le domande di condono
relativamente ad un unico fabbricato o
“corpo di fabbrica” unitario con il
risultato preconizzato da parte ricorrente
di riferire il limite massimo di cubatura
pari a 750 mc. previsto dall’art. 39 della
L. 724/1994 ai volumi contemplati da ogni
singola istanza.
Al quesito va data risposta negativa atteso
che la volontà del privato di considerare
un’unità immobiliare autonomamente
utilizzabile ed indipendente rispetto alle
altre porzioni ed unità del medesimo
fabbricato, non può influire sui criteri e
sui limiti inderogabilmente fissati
dall’ordinamento per la condonabilità
dell’immobile abusivo, per modo che il
frazionamento surrettizio di un immobile non
può valere a sottrarlo al regime di
condonabilità che gli è proprio.
Sul punto nel “Considerato” del medesimo
provvedimento impugnato si rileva che: “la
valutazione, come stabilito dalla Corte di
Cassazione, deve essere effettuata sulla
base della volumetria complessiva del
manufatto, indipendentemente dal numero
delle istanze di condono presentate. Infatti
la Corte ha escluso la possibilità di
aggirare il limite volumetrico mediante il
fittizio frazionamento dell'immobile".
Quanto sopra argomentato si presenta in
linea anche con le circolari sul condono
edilizio del Ministero dei Lavori Pubblici (nn.
3357/25 del 30.07.1985 e nn. 2241 del 17.06.1995), richiamato dal ricorrente -
per le quali la domanda di concessione in
sanatoria deve essere presentata in
relazione ad ogni singola unità immobiliare,
da intendersi come insiemi di vani ed
ambienti accessori con autonomia funzionale
ed ingresso indipendente, la qualcosa non è,
all’evidenza, incompatibile con una
considerazione volumetria globale e unitaria
del manufatto da condonare.
Nella fattispecie conferma della esattezza
di tale impostazione è offerta anche dalla
considerazione che il piano secondo per il
quale Ca.Cr., odierno
ricorrente, ha chiesto il condono ed in
relazione alla quale la Soprintendenza ha
reso parere sfavorevole, non poterebbe
divenire oggetto di un eventuale autonomo
provvedimento repressivo, rispetto alle
restanti unità immobiliari del medesimo
fabbricato in titolarità di Ca.Fr. (ricorso n. 1010/2017 R.G.).
Nell’impugnato provvedimento viene
richiamato il principio secondo il quale ai
fini del perfezionamento del condono
edilizio di cui alla legge 724/1994, il
limite volumetrico di 750 metri cubi
previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile
a tutte le opere, senza alcuna distinzione
tra residenziali e non residenziali.
Nella fattispecie -come rilevato nel
predetto provvedimento- l’immobile nella
sua interezza (composto piano seminterrato,
il piano rialzato, il primo piano e il terzo
piano) oggetto della richiesta di condono
supera il limite dei 750 mc. richiesto
dall’art 39, co. 1, della L. 724/1994, senza
che, sul punto rilevi la distinzione fra
immobile a destinazione residenziale ed
destinazione produttiva.
Al riguardo -e si passa alla disamina
dell’altra questione indotta dalla censura
in esame- si legge nel medesimo avversato
parere che: “il Comune di Terzigno, per
giustificare la maggiore cubatura rispetto a
quanto consentito dall’art. 39, co. 1, della
L. 724/1994, per quanto concerne gli
immobile con destinazione non residenziale,
fa riferimento alla Circolare del Ministero
dei Lavori Pubblici n. 2241/UT del
17.06.1995, nella quale viene affermato che
il limite volumetrico per l’ammissibilità
della sanatoria si applicherebbe alle
costruzioni abusive a carattere residenziale
e non a quelle destinati ad altri usi”; ma,
soggiungendosi che: “il contenuto
dell’avviso negativo ha trattato solo in
seconda battuta la questione urbanistico-edilizia. In buona sostanza lo
scrivente, nel dare rilievo all’”incompatibilità paesaggistica” dell’edificio
non ha potuto fare a meno di sottolineare
come il Comune ha dato corso ad un’istanza
palesemente in contrasto con la legge stessa
che, com’è stata chiarita in maniera
esaustiva, l’istanza non rientra nei
presupposti legislativi previsti dall’art.
39, co. 1, legge 724/1994”.
A tale riguardo (cfr. TAR Campania, sez. III,
28/10/2016, n. 5007) la questione è già
stata più volte affrontata dalla
giurisprudenza amministrativa e da quella
penale che, dopo iniziale adesione
all’opzione ermeneutica prospettata dal
ricorrente, si è però orientata in senso
opposto (salvo il caso di Cass. Pen., sez.
III, 09.02.2012, n. 9598) e, quindi,
per l'applicabilità del richiamato limite
volumetrico per qualsivoglia tipologia di
manufatto, sia residenziale sia
commerciale/produttivo; in questo senso si
segnala il principio di diritto espresso di
recente dalla Cassazione Penale, sez. III,
con la sentenza del 01.07.2015 n. 31955,
secondo cui “ai fini del perfezionamento del
condono edilizio di cui alla L. n. 724 del
1994, il limite volumetrico di 750 metri
cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è
applicabile a tutte le opere, senza alcuna
distinzione tra residenziali e non
residenziali”.
Questo orientamento era già stato condiviso
anche dalla Cassazione civile la quale -con
la sentenza del 26.02.2009, n. 4640 (Sez.
I)- aveva chiarito che: “in tema di abusi
edilizi, ai sensi dell'art. 39, comma 1, l.
n. 724 del 1994, i limiti di cubatura cui è
condizionata la sanabilità dell'abuso sono
riferibili anche agli edifici ad uso non
residenziale, secondo un'interpretazione che
valorizzi l'intenzione del legislatore di
porre un limite inderogabile alla sanabilità
ricollegato all'entità oggettiva degli abusi
edilizi e, di conseguenza, della lesione
inferta ai valori espressi dalla normativa
urbanistica a tutela di un interesse
pubblico preminente, non rilevando in senso
contrario le disposizioni di deroga (‘ai
limiti di cubatura di cui al comma 1’)
dell'art. 39, comma 16, della stessa legge,
che si riferiscono unicamente al pagamento
(e alla misura) dell'oblazione, e non alla condonabilità dell'abuso”; sulla medesima
lunghezza d’onda si era orientata anche la
giurisprudenza amministrativa; in
particolare, il Consiglio di Stato (Sez. V,
23.06.2008, n. 3098) ha affermato che:
“il limite posto dal primo comma del citato
art. 39, il quale è diretto espressamente ad
individuare gli immobili oggetto di
sanatoria, si riferisce a qualsiasi tipo di
costruzione, senza alcuna distinzione a
seconda della sua destinazione” (il
superamento del limite è ammesso, nel
medesimo comma, solo nel caso di
annullamento della concessione
edilizia)...”.
In altra decisione, sempre il
Consiglio di Stato (Sez. V, 17.09.2008, n. 4416), nel rilevare come non possa
ammettersi un condono privo di limiti
quantitativi, ha ricordato che la Corte
Costituzionale (28.07.1995, n. 416; 12.09.1995, n. 427; 23.07.1996, n.
302; 17.07.1996, n. 256) sottolineò come
le norme sul condono abbiano carattere del
tutto eccezionale e siano, pertanto,
particolarmente soggette al limite di
ragionevolezza, con la conseguenza che
l’esclusione di ogni limite quantitativo
alla condonabilità degli edifici commerciali
o industriali trasformerebbe l’art. 39 della
L. n. 724 del 1994, art. 39, da disposizione
di eccezione a disposizione di rottura
incondizionata del controllo edilizio
passato. Infatti sarebbe del tutto
irragionevole ritenere condonabili in modo
indiscriminato gli immobili a destinazione
non residenziale, spesso di rilevante
impatto sul territorio, e di porre invece
limiti volumetrici invalicabili solo per
quelli ad uso abitativo e, d'altra parte si
giungerebbe altrimenti alla conclusione che
gli abusi relativi agli immobili non
residenziali sarebbero sanabili senza alcun
limite, in contrasto con quanto stabilito in
materia di condono anche da provvedimenti
legislativi successivi (cfr. art. 32, comma
25, d.l. 30.09.2003, n. 269).
Infine, come d’altronde affermato già da
tempo dalla giurisprudenza amministrativa (cfr.
Tar Latina 21.01.1999, n. 48), la
possibilità, in relazione ad immobili con
destinazione non residenziale, di pagare
l'oblazione anche con riferimento a cubature
maggiori trova la sua unica giustificazione
nel fatto che, in tal modo, può determinarsi
l'estinzione di taluni reati in materia
edilizia, come previsto dal comma 2
dell'art. 38 L. n. 47 del 1985, articolo
che, si rammenta, fa parte del capo IV della
legge stessa, richiamato dal più volte
citato art. 39, comma 1, L. n. 724 del 1994.
In definitiva, preso atto che, a motivo
della non compatibilità del manufatto
oggetto della richiesta di condono rispetto
alla normativa di tutela paesaggistica
vigente, il parere di cui alla nota prot. n.
4658 del 05.10.2016 superava indenne il
vaglio di legittimità indotto con
l’impugnativa in epigrafe, il ricorso è
infondato e va, quindi, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può
aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di
diniego della sanatoria e del conseguente ordine di
demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della
domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera
inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un
potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità
di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo
ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine
illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può
certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo'
in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di
un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare
un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può
applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il
complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo
concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo
e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita
del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza
titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile
giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile-
forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del
tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione
della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che
l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il
richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento,
senza che si impongano sul punto ulteriori oneri
motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell'interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento:
l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta
commissione di abusi non fa venire meno il dovere
dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti
previsti a salvaguardia del territorio.
---------------
Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento
all’ipotesi in cui il
destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile
dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “Anche nel
caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia
responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia
stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le
stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il
carattere reale della misura ripristinatoria della
demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino
di valori di primario rilievo non si pongono in modo
peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia
responsabile dell'abuso.
Non può infatti ritenersi che,
ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria,
la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e
l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il
carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue
conseguenze non consentono di valorizzare ai fini
motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale
può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della
misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle
responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo
avente causa)”
---------------
Con il primo motivo di ricorso si lamenta l’eccessiva durata del
procedimento, rappresentando che questo, avviato con la
domanda di condono presentata in data 09.12.2004 s’è concluso
solo il 18.09.2015 -dopo ripetute richieste di integrazioni
documentali, imponendo “degli adempimenti non espressamente
previsti nel modulo che la stessa amministrazione comunale
aveva predisposto”, formulate in data 08.10.2007– ritardando
di sei mesi la risposta dopo che l’istante aveva provveduto,
entro i termini previsti, agli adempimenti richiesti e
persistendo in tale comportamento omissivo anche a seguito
della presentazione, da parte dello stesso ricorrente, in
data 05.05.2008 della documentazione scritta e fotografica per
ottenere il Nulla Osta Legge 29.06.1939 n. 1497, al quale la
PA ha dato riscontro solo in data 17.01.2012 – sicché il
lungo periodo di tempo trascorso ha ingenerato nel
ricorrente (Sig. Ni.Ma.) il legittimo affidamento
sul tacito accoglimento della domanda di sanatoria; tale
ingiustificato ritardo nel provvedere costituisce una
violazione del "buon andamento" sancito dall'art. 97 Cost. e
del principio di ragionevolezza desumibile dalla legge n.
241/1990 e dell’obbligo di trasparenza dell’azione
amministrativa sancito dalla legge n. 15/2005.
Le doglianze relative alla tempistica della procedura,
articolatamente sviluppate con il primo mezzo di gravame,
non sono utili a dimostrare l’illegittimità del
provvedimento impugnato, alla luce dell’orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato, in particolare dopo gli
ulteriori chiarimenti forniti dall'Adunanza plenaria n. 9
del 2017.
È infatti ormai stato definitivamente chiarito che: “non può
aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di
diniego della sanatoria e del conseguente ordine di
demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della
domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera
inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un
potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità
di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo
ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine
illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può
certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo'
in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di
un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare
un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può
applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il
complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo
concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo
e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita
del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza
titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile
giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile-
forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del
tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione
della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che
l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il
richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento,
senza che si impongano sul punto ulteriori oneri
motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell'interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento:
l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta
commissione di abusi non fa venire meno il dovere
dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti
previsti a salvaguardia del territorio”.
Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento
all’ipotesi –come nel caso di specie– in cui il
destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile
dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “Anche nel
caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia
responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia
stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le
stesse. Si osserva in primo luogo al riguardo che il
carattere reale della misura ripristinatoria della
demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino
di valori di primario rilievo non si pongono in modo
peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia
responsabile dell'abuso. Non può infatti ritenersi che,
ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria,
la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e
l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il
carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue
conseguenze non consentono di valorizzare ai fini
motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale
può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della
misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle
responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo
avente causa)” (Cons. St., sez. VI, n. 3527/2018, con ampio
richiamo all’AP 9/2017 cit.)
Il Collegio condivide pienamente le sopra richiamate
considerazioni e conclusioni, che trovano piena applicazione
nel caso di specie.
In conclusione, il decorso del tempo per la definizione
della pratica, nel caso in esame, potrebbe al più supportare
una richiesta di indennizzo per danno da ritardo (però non è
stata formulata in questa sede dai ricorrenti), ove ne
sussistano i presupposti.
Non può tuttavia ignorarsi che il
rallentamento è dipeso, nel caso di specie,
dall'incompletezza della domanda di sanatoria presentata che
è imputabile esclusivamente all’istante, che ha l’onere di
allegare alla richiesta tutta la documentazione prescritta
dalla normativa in materia.
Non può nemmeno condividersi
l’assunto del ricorrente secondo cui la mancata integrazione
documentale sia stata “posta, del tutto illogicamente, tra
le motivazioni della determina di diniego del condono”, dato
che, al contrario, è proprio la normativa in materia a
stabilire quali atti debbano essere allegati all’istanza di
condono e sancire l’improcedibilità dell’istanza in caso di
mancata tempestiva integrazione degli stessi ove richiesto
dal Comune (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il titolo abilitativo
tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso,
soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in
quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice
che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il
decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della
fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il
silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia
stato avviato da un'istanza conforme al modello legale
previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
---------------
Il titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto
del silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile
sia ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o
ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile,
in tale condizione, acquisire il parere espresso
dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Il provvedimento positivo può ritenersi intervenuto in
presenza del vincolo solo con il decorso del termine
normativamente prescritto dall'emanazione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e
soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non
potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso.
--------------
Innanzitutto
va ricordato che, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, il titolo abilitativo tacito può
formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la
domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti
soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la
mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa
avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del
tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie
autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso,
occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da
un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma
che regola il procedimento di condono (vedi, da ultimo,
TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. I, n. 50/2018, con
richiamo a TAR Puglia, Lecce, n. 181/2014; nonché Consiglio
di Stato, sez. VI, n. 3634/2018, che specifica l’onere
documentale incombente sull’istante evidenziando che: “la
natura procedurale del condono edilizio è infatti
eccezionale e straordinaria rispetto alla ordinaria
disciplina edilizia e urbanistica: il Comune deve istruire
il procedimento nei modi e termini specificatamente previsti
dalla legge (cfr., art. 35, comma 12 , l. n. 47/1985 in
relazione all'art. 39, comma 4, l. 724/1994); l'interessato al
buon esito della pratica deve, a sua volta, assolvere
all'onere d'individuare nel dettaglio tipo, consistenza
materiale riferita al singolo immobile dell'illecito
edilizio, e, in aggiunta, non restare inerte di fronte alle
doverose istanze d'integrazione recapitategli dal Comune)”.
Inoltre, e soprattutto, va ricordato che, secondo
altrettanto pacifico orientamento giurisprudenziale, il
titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto del
silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile sia
ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o
ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile,
in tale condizione, acquisire il parere espresso
dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Come
ribadito anche di recente dalla Sezione con sentenza n.
6520/2018 il provvedimento positivo può ritenersi
intervenuto in presenza del vincolo solo con il decorso del
termine normativamente prescritto dall'emanazione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e
soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non
potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso (sicché
non trova applicazione nei procedimenti in esame l’art. 17-bis della legge n. 241/1990, tardivamente invocato nel ricorso
n. 5832/2016 dal ricorrente Ma.Ni. come nuovo motivo
di ricorso a contestazione dell’atto di diffida impugnato
con il ricorso introduttivo) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a
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agosto 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non sanabilità di un abuso edilizio inerente parti
condominiali.
Le fotografie presenti nel fascicolo
di parte ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino
come egli abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni
del più ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni
debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio.
Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria.
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi
possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al
conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a
condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso
comunque manifestato dal proprietario.
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del
condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo
condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di
prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso
che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per
legittimare una sostanziale appropriazione di spazi
condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri, i quali
potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso
anche in via amministrativa e non solo con azioni
privatistiche.
---------------
1. – Gi.Ru. si duole del provvedimento con il quale il
Comune di Rossano gli ha negato il permesso di costruire in
sanatoria relativo alla messa in opera di ringhiera
metallica e pavimentazione su esistenti balconi e apertura
di un accesso su un parapetto al sesto piano di un edificio
insistente su via ....
In particolare, l’amministrazione non ha concesso il
richiesto titolo in quanto le opere sarebbero state
realizzate non già su balconi preesistenti, bensì su un
cornicione e su un un parapetto, e cioè su beni che
ricadrebbero in comunione e in relazione ai quali, in ogni
caso, il ricorrente non avrebbe dato prova del titolo di
disponibilità.
Inoltre, dalla documentazione prodotta non si evincerebbe se
i cornicioni a sbalzo siano atti a sopportare i
sovraccarichi, permanentio accidentali, previstidalla
normativa vigente per le civili abitazioni.
...
5. – Nel merito della vicenda controversa, osserva il
Collegio come le fotografie presenti nel fascicolo di parte
ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino come egli
abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni del più
ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni
debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio (cfr.
C. App. Salerno, 16.03.1992, in Giur. Merito, 1994; ma sulla
nozione di facciata cfr. anche Cass. Civ., Sez. II ,
14.12.2017, n. 30071).
5. – Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.04.2012, n.
1990).
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi
possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al
conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a
condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso
comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 25.09.2014, n. 4818; Cons. Stato, Sez. IV,
26.01.2009, n. 437; Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2000, n.
3520).
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del
condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo
condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di
prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso
che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per
legittimare una sostanziale appropriazione di spazi
condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri, i quali
potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso
anche in via amministrativa e non solo con azioni
privatistiche (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n.
3282).
7. – In questi termini, l’operato dell’amministrazione
intimata appare corretto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 21.08.2018 n. 1556 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2,
l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del
2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione
pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione
implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla
funzionalità del manufatto, perché per impedire
l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un
effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio,
consistente in una menomazione dell'intera stabilità del
manufatto.
---------------
Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75
del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato,
l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi
dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive
eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti
nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a
piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano
con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando
così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito
in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva
ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Sono del pari da disattendere il secondo e il
terzo motivo di ricorso.
Quanto al secondo, con il quale parte ricorrente
lamenta che l’Amministrazione avrebbe illegittimamente
pretermesso di valutare l’irrogazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria, il Collegio
osserva che, nel caso di specie, non si rinviene alcun
elemento da cui inferire che l’esecuzione della sanzione
applicata (riduzione al pristino stato dei locali al piano
terra) potrebbe arrecare pregiudizio alla restante parte
dell’edificio regolarmente assentita, cosicché alcuna
censura può muoversi alla determinazione assunta
dall’Amministrazione sulla base di una valutazione
tecnico-discrezionale: per giurisprudenza pacifica "il
privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la
costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, l. n. 47
del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001),
che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria
nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire
senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe
una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità
del manufatto, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
dell'intera stabilità del manufatto" (TAR Campania
Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056; nello stesso senso
Cons. St., sez. VI 08.07.2011 n. 4102) (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimità dell'iter
procedimentale posto in essere dall'Amministrazione per il
ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione
dell'opera edilizia abusiva, è sufficiente la notifica
dell'ordinanza di demolizione, così come degli atti
consequenziali, ad uno solo dei comproprietari e in ogni
caso al responsabile dell'illecito, dovendo questo
adoperarsi, in ragione della funzione ripristinatoria e non
sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito, onde
sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del
bene, al pregiudizio della perdita della propria quota
ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso,
quindi, può comunque autonomamente impugnare il
provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie
ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza
dell'ingiunzione.
Altresì, “La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione
a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità,
comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti
del solo proprietario ignaro, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza
demolitoria di abusi edilizi deve essere, infatti,
notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili
dell'abuso anche al proprietario dell'area. La ragione per
la quale quest'ultimo deve essere il destinatario
dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni
coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
realizzate, si individua nella considerazione che la legge
pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe
oggettiva e come tale contraria ai principi
dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella
rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può
produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del
fondo”.
---------------
Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75
del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato,
l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi
dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive
eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti
nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a
piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano
con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando
così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito
in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva
ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Va disatteso, infine, il terzo e ultimo motivo di
ricorso, con il quale parte ricorrente denuncia
l’illegittimità dell’atto impugnato in quanto notificato ad
uno solo dei comproprietari, alla stregua del consolidato
orientamento di questo Tribunale: “ai fini della
legittimità dell'iter procedimentale posto in essere
dall'Amministrazione per il ripristino dei valori giuridici
offesi dalla realizzazione dell'opera edilizia abusiva, è
sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione, così
come degli atti consequenziali, ad uno solo dei
comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito,
dovendo questo adoperarsi, in ragione della funzione
ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare
l'illecito, onde sottrarsi, salvo comprovare
l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della
perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il
comproprietario pretermesso, quindi, può comunque
autonomamente impugnare il provvedimento sanzionatorio,
facendo valere le proprie ragioni entro il termine
decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione” (TAR
Napoli, sez. VI, 06/03/2018 n. 1416); “La mancata
notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei
comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone
semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo
proprietario ignaro, ai fini della successiva acquisizione
del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza demolitoria di
abusi edilizi deve essere, infatti, notificata oltre che al
soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al
proprietario dell'area. La ragione per la quale quest'ultimo
deve essere il destinatario dell'ordine di demolizione, pur
in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle
opere non realizzate, si individua nella considerazione che
la legge pone a suo carico non una responsabilità (che
sarebbe oggettiva e come tale contraria ai principi
dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella
rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può
produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del
fondo” (TAR Napoli, sez. III, 07/11/2017 n. 5212) (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Il
Fondo rotativo per le demolizioni abusive è indebitamento.
La Corte dei conti, sezione controllo per Campania, con il
parere 01.08.2018 n.
100, ha affrontato la questione della qualificazione e del trattamento
contabile del fondo rotativo previsto dell'articolo 32, comma 12, del
decreto legge 269/2003, per dare copertura alle spese per demolizioni
giudiziali e amministrative di opere abusive.
Caso e quadro normativo
La norma prevede l'istituzione del «Fondo per le demolizioni delle opere
abusive», finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza interessi,
per finanziare i costi degli interventi di demolizione delle opere abusive.
Stabilisce, inoltre, che le anticipazioni siano restituite al fondo al
massimo in cinque anni, grazie alle somme riscosse dagli esecutori degli
abusi.
In caso di mancato rimborso, il Comune procede alla riscossione
mediante ruolo. Qualora le somme anticipate non siano restituite, il
ministro dell'Interno provvede al rimborso alla Cassa depositi e prestiti,
trattenendo le somme dai trasferimenti erariali in favore dei Comuni.
Un sindaco campano ha chiesto chiarimenti circa le modalità di
contabilizzazione del fondo rotativo e, in particolare, se questo possa
qualificarsi come «partita di giro», dunque non tra le forme d'indebitamento
e neutro ai fini equilibri di bilancio.
La decisione
La Corte ricorda che la Cassa depositi e prestiti ha disciplinato il
funzionamento del fondo, prevedendo, fra le altre cose, l'obbligo del
rilascio da parte del Comune richiedente della delegazione di pagamento
irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre
titoli del bilancio annuale, come previsto dall'articolo 206 del Tuel,
relativo all'esercizio nel quale è stato previsto il ricorso
all'anticipazione.
La Corte non ha condiviso la tesi del Comune che ritiene che l'istituto in
esame sia soltanto una partita di giro, ma, secondo l'interpretazione
unanime della magistratura contabile, lo qualifica come una forma
d'indebitamento sottoposta a tutti i limiti di legge, inclusi quelli che ne
vietano l'utilizzo agli enti in dissesto.
La Corte, infatti, ha già chiarito in passato che il Fondo ha natura di
strumento di finanziamento per le Pa locali, che sono tenute alla
restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e prestiti
indipendentemente dal recupero o meno le somme necessarie per la demolizione
dell'opera abusiva. Qualora non provvedano direttamente, il ministero
dell'Interno deve eseguire il versamento alla Cassa depositi e prestiti e,
in seguito, trattenere l'importo, comprensivo delle spese, da ogni
trasferimento di competenza degli enti locali inadempienti.
I precedenti
Già il
parere 11.04.2013 n. 76 della Sezione controllo del Piemonte ha
precisato che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia
pure senza interessi, implicano che le somme del «Fondo per le demolizioni
delle opere abusive» rientrino fra le forme d'indebitamento ai sensi
dell'articolo 202 del Tuel. La stessa Cassa depositi e prestiti prevede il
rilascio da parte degli enti locali della delegazione di pagamento prevista
dall'articolo 206 del Tuel, quale garanzia del pagamento delle rate di
ammortamento dei mutui e dei prestiti.
Le risorse del fondo rotativo, dunque, non possono essere considerate alla
stregua di «trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico»,
poiché si tratta di un finanziamento con specifica destinazione e con
obbligo di restituzione. Le risorse provenienti dal fondo devono essere
allocate, quindi al Titolo V dell'entrata e, riguardo al loro utilizzo, si
applicano tutte le disposizioni in materia d'indebitamento e di pareggio di
bilancio.
Sulla stessa scia si pongono le Sezioni riunite per la Regione Sicilia in
sede consultiva (parere
08.03.2013 n. 14), per le quali il fondo costituisce
una vera e propria forma d'indebitamento ai sensi dell'articolo 3, comma 17,
della legge 350/2003. Ne deriva il divieto di utilizzo in caso di ricorso
alla procedura di riequilibrio disciplinata dall'articolo 243-bis del Tuel.
Le conseguenze
La Sezione Campania, pertanto, anche tenuto conto della delegazione di
pagamento, conferma che la natura di anticipazione e l'obbligo di
restituzione, sia pure in assenza d'interessi, implica che le somme del
fondo rientrino fra le forme d'indebitamento disciplinate dall'articolo 202
del Tuel.
Di conseguenza, il Comune dissestato non può, sino al ritorno in bonis, attivare il fondo rotativo, trattandosi di operazione comportante
risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura
certa in bilancio. Quest'operazione, pertanto, non può qualificarsi come
partita di giro. Nelle partite di giro e nei servizi in conto terzi,
difatti, l'entrata o l'uscita finanziaria è obbligatoriamente correlata a
equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
Da ciò deriva, tanto nei vecchi come nei nuovi principi contabili, la
sostanziale neutralità dell'operazione, nel senso che entrate e spese si
equivalgono, le prime coprendo esattamente le seconde. Nel caso del fondo
rotativo, invece, se chi ha commesso l'illecito edilizio non ottempera al
pagamento dei costi per la demolizione forzata, il Comune è obbligato a
pagare le spese, mentre le somme versate dalla Cassa depositi e prestiti
costituiscono una semplice “anticipazione” per far fronte a una momentanea
carenza di liquidità, con ciò escludendosi la possibile qualificazione
dell'istituto come partita di giro.
L'attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura alle demolizioni
giudiziali rappresenta, a fronte di un recupero solo aleatorio, dunque un
vero e proprio indebitamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2018).
---------------
MASSIMA
La Sezione non condivide la prospettazione del
comune rogante per la quale l'istituto del fondo rotativo presso la cassa
depositi e Prestiti di cui all'art.
32, co. 12, d.l. n. 269/2003, conv. da l. n. 326/2003 al fine di
garantire copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) sia solo
una partita di giro che non incide sugli equilibri presenti e futuri di
bilancio.
Aderisce all'interpretazione unanime della Corte dei conti che lo colloca
all'interno della categoria dell'indebitamento, sottoposta a tutti i limiti
di legge, inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto.
La Sezione ribadisce dunque che la natura di anticipazione e l'obbligo di
restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica che le somme del
"Fondo per le demolizioni delle opere abusive" erogate dalla CDP s.p.a.
rientrano fra le forme di indebitamento ex art. 202 del Tuel.
Al comune, laddove dichiarato dissestato, è preclusa, sino al ritorno in
bonis, l'attivazione del fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o
amministrative, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e
spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio.
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Il Sindaco del Comune di Lacco Ameno (NA) chiede lumi in merito alla
interpretazione dell’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003, convertito
dalla legge n. 326/2003 e, in particolare, se l’attivazione del “fondo
rotativo presso la cassa depositi e Prestiti di cui all’art. 32, comma 12,
del d.l. n. 269/2003, convertito dalla l. n. 326/2003 al fine di garantire
copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) e amministrative
(in numero rilevante), può qualificarsi come “partita di giro”, non
rientrante, in quanto tale, tra le forme di indebitamento previste, con
conseguente sua irrilevanza sugli equilibri finanziari ed economici presenti
e futuri di un comune, quale il comune di Lacco Ameno, con un cospicuo
numero di procedimenti demolitori da evadere e già soggetto alla procedura
di dissesto finanziario”.
Il Sindaco reputa che “le risorse che provengono dal “Fondo per le
demolizioni delle opere abusive" non possano essere considerate alla stregua
di 'trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico", poiché le
stesse danno luogo a un finanziamento avente una specifica destinazione, con
obbligo irrevocabile di restituzione, la cui copertura non è garantita
(essendo il recupero delle somme dal condannato-esecutato incerto ed
occasionale, condizionalo dalla sua concreta solvibilità)” ed evidenzia
che:
“a) la stessa Cassa depositi e prestiti, nella della disciplina
contrattuale alla quale subordina l'accesso al fondo, prevede espressamente
il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento
irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre
titoli del bilancio annuale, prevista dall'art, 206 del citato T.U. quale
garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti;
b) ad analoghe conclusioni sulla natura del trasferimento in
questione perviene la Commissione ARCONET (Armonizzazione contabile degli
Enti territoriali) nel suo parere del 13.04.2016 reso ai sensi dell’art.
3-bis del decreto legislativo n. 118 del 2011 corretto e integrato dal
decreto legislativo n. 126 del 2014”.
...
C. Venendo all’esame del merito della questione proposta, la disposizione
recata dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003 citato in epigrafe, ha
introdotto nell'ordinamento nuove «misure per la riqualificazione
urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività
di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli
illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali».
Nell'ambito di tali misure, il comma 12 ha autorizzato la Cassa depositi e
prestiti S.p.A. a costituire un Fondo di rotazione dell’importo massimo di
50 milioni di euro, denominato “Fondo per le demolizioni delle opere
abusive”, finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza
interessi, per finanziare i costi relativi agli interventi di demolizione
delle opere abusive: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del
presente decreto la Cassa depositi e prestiti è autorizzata a mettere a
disposizione l'importo massimo di 50 milioni di euro per la costituzione,
presso la Cassa stessa, di un Fondo di rotazione denominato Fondo per le
demolizioni delle opere abusive per la concessione ai Comuni e ai soggetti
titolari dei poteri di cui all'articolo 27, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, anche avvalendosi delle modalità di cui all’articolo 2, comma 55,
della legge 23.12.1996, n. 662, e all’articolo 41, comma 4, del decreto
legislativo 06.06.2001, n. 380, di anticipazioni, senza interessi, sui costi
relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive anche disposti
dall'Autorità giudiziaria e per le spese giudiziarie, tecniche e
amministrative connesse. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente
quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in
un periodo massimo di cinque anni, secondo modalità e condizioni stabilite
con decreto del ministro dell'Economia e delle finanze, di concerto con il
ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, utilizzando le somme riscosse
a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo
del credito l'amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante
ruolo ai sensi del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46. Qualora le somme
anticipate non siano rimborsate nei tempi e nelle modalità stabilite, il
ministro dell'Interno provvede al reintegro alla Cassa depositi e prestiti,
trattenendone le relative somme dai fondi del bilancio dello Stato da
trasferire a qualsiasi titolo ai comuni.".
Questa Sezione non condivide la prospettazione del comune
rogante che reputa che l’istituto in esame sia soltanto una partita di giro
che non incide sugli equilibri presenti e futuri di bilancio e aderisce
all’interpretazione unanime della Corte dei conti
-di seguito richiamata- che lo colloca all’interno della
categoria dell’indebitamento, sottoposta a tutti i relativi limiti di legge,
inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto
come Lacco Ameno.
La Corte dei conti ha già chiarito in passato la natura del
Fondo quale strumento di finanziamento per le Amministrazioni locali che
sono tenute alla restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e
prestiti S.p.A. indipendentemente dalla circostanza che abbiano recuperato o
meno le somme necessarie per la demolizione dell’opera abusiva. Qualora non
provvedano direttamente, il Ministero dell’Interno deve effettuare il
versamento alla Cassa depositi e prestiti S.p.A. e, successivamente,
trattenere l’importo, comprensivo delle spese, da ogni trasferimento di
pertinenza degli Enti locali inadempienti
(cfr.
parere 11.04.2013 n. 76 Sezione controllo per il Piemonte).
“La natura di anticipazione e l’obbligo di restituzione, sia pure in
assenza di interessi, implica che le somme del “Fondo per le demolizioni
delle opere abusive” erogate dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A.
rientrino fra le forme di indebitamento alle quali possono ricorrere gli
Enti locali ai sensi dell’art. 202 del TUEL. A questa conclusione, peraltro,
è giunta anche la Cassa depositi e prestiti S.p.A. che nell’ambito della
disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al fondo prevede il
rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento
irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre
titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206 del TUEL, quale garanzia
del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti.
Conseguentemente, le risorse che provengono dal “Fondo per le demolizioni
delle opere abusive” non possono essere considerate alla stregua di
“trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico” poiché si
tratta di un finanziamento avente una specifica destinazione, con obbligo
irrevocabile di restituzione. Le risorse provenienti dal “Fondo per le
demolizioni delle opere abusive” devono essere allocate, quindi al Titolo V
dell’entrata e in relazione al loro utilizzo si applicano tutte le
disposizioni in materia di indebitamento e di Patto di stabilità interno
attualmente previste” (cfr.
parere 11.04.2013 n. 76 cit.).
Anche le Sezioni riunite per la regione siciliana in sede consultiva (cfr.
parere 08.03.2013 n. 14) hanno trattato dell’istituto in esame
evidenziando come “l’accesso al Fondo di rotazione che
qui ci occupa, realizza, come di tutta evidenza, un’operazione che comporta
l’acquisizione di risorse aggiuntive, per effettuare spese per le quali non
é già prevista idonea copertura di bilancio” e che “Tale operazione,
esente da corresponsione di interessi passivi ma gravata di una quota delle
spese di gestione del Fondo, fa sorgere un’obbligazione debitoria a carico
del Comune, suscettibile di esecuzione per compensazione da parte del
Ministero dell’Interno, a carico di qualsiasi altro trasferimento a favore
degli enti locali previsto dalla legge, che prescinde dall’effettivo
recupero di tali somme, da parte dell’ente locale, in danno dei soggetti
obbligati alla demolizione”.
In base della considerazione per cui l’eventuale ricorso al Fondo di cui
all’art. 32, comma 12, del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n.
326/2003, come una vera e propria forma di indebitamento, per come sopra
specificato, la predetta sezione della Corte riteneva che esso deve
ritenersi precluso in presenza dell’avvenuta attivazione della procedura di
riequilibrio di cui all’art. 243-bis, del T.U. n. 267/2000 (cfr. Sezioni
riunite per la regione siciliana in sede consultiva,
parere 08.03.2013 n. 14).
Va ribadita pertanto che la natura di anticipazione e
l’obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica,
comunque, che le somme del “Fondo per le demolizioni delle opere abusive”
erogate dalla Cassa depositi e prestiti s.p.a. rientrino fra le forme di
indebitamento di cui all’art. 202 del T.U. n. 267 del 2000.
Del medesimo avviso è, peraltro, anche la Cassa depositi e prestiti che,
nell’ambito della disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al
fondo, prevede il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di
Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate
afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206
del citato.
Ciò premesso è evidente che al comune, laddove dichiarato
dissestato, è preclusa, sino al ritorno in bonis, l’attivazione del
fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o amministrative, trattandosi
di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è
prevista alcuna copertura certa in bilancio.
La predetta operazione non può qualificarsi come “partita
di giro”, locuzione che contraddistingue, nella contabilità finanziaria
di un ente pubblico, l’entrata o l’uscita finanziaria correlata a
equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
E’ da precisare che nelle partite di giro così come nelle partite per conto
terzi vi è una sostanziale neutralità dell’operazione, nel senso che entrate
e spese si equivalgono ovvero le prime coprono esattamente le seconde; tanto
si ricava anche dai nuovi principi contabili che sanciscono quanto segue: ”La
necessità di garantire e verificare l’equivalenza tra gli accertamenti e gli
impegni riguardanti le partite di giro o le operazioni per conto terzi,
attraverso l’accertamento di entrate cui deve corrispondere,
necessariamente, l’impegno di spese correlate (e viceversa) richiede che, in
deroga al principio generale n. 16 della competenza finanziaria, le
obbligazioni giuridicamente perfezionate attive e passive che danno luogo a
entrate e spese riguardanti le partite di giro e le operazioni per conto
terzi, siano registrate ed imputate all’esercizio in cui l’obbligazione è
perfezionata e non all’esercizio in cui l’obbligazione è esigibile”
(Allegato A/2, n. 4/2, al D.Lgs. 118/2011 PRINCIPIO CONTABILE APPLICATO
CONCERNENTE LA CONTABILITA’ FINANZIARIA, 7.2).
Nella fattispecie oggetto del parere se chi ha commesso
l’illecito edilizio non ottempera al pagamento delle spese di demolizione
forzata (caso frequente), è onere del Comune pagare le predette spese mentre
le somme versate dalla cassa depositi e Prestiti costituiscono una semplice
“anticipazione” per far fronte a momentanea carenza di liquidità.
Anche da questo punto di vista, è da escludere che tale anticipazione possa
considerarsi una partita di giro.
L’attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura
alle demolizioni giudiziali equivale, pertanto, a fronte di un recupero solo
aleatorio, un vero e proprio indebitamento suscettibile di alimentare, in
futuro, le condizioni di una nuova crisi finanziaria che il comune stesso,
mediante la procedura di risanamento, è obbligato ad evitare
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 01.08.2018 n.
100).
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luglio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di
un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
n. 380/2001 (così come la presentazione di una istanza di
condono edilizio) in epoca successiva all'adozione
dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto
caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria
produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel
caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile,
stante che il provvedimento perde efficacia al momento della
presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso
l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione,
dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque
assegnare un nuovo termine all’interessato per poter
procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così
evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello
precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte
espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle
istanze di condono edilizio sia alle richieste di
accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380
presentate dopo l'ordinanza di demolizione.
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Il Collegio aderisce all'orientamento giurisprudenziale
secondo cui la presentazione di un'istanza di accertamento
di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 (così come la
presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca
successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha
automatico effetto caducante sull'ordinanza di
demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria
produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile
l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta
carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività
dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di
verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito
(di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel
caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile,
stante che il provvedimento perde efficacia al momento della
presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso
l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione,
dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque
assegnare un nuovo termine all’interessato per poter
procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così
evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello
precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte
espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle
istanze di condono edilizio sia alle richieste di
accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380
presentate dopo l'ordinanza di demolizione (TAR Campania
Napoli, sez. VIII, 06/03/2017, n. 1289; Cons. Stato, sez. IV,
28/11/2013, n. 5704; Cons. Stato, sez. IV, 12/05/2010, n.
2844; Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2013, n. 5704; TAR
Piemonte Torino, Sez. II, 18.01.2013, n. 48) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2018 n. 5115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel
contestato provvedimento comunale, il Collegio rileva che,
al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del
Comune di ritenere il titolo abilitativo rilasciato venuto
meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che
“il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e
scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato
ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello
tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è
incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con
la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione
e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe
una costruzione solo apparentemente simile a quella
originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un
falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto
stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura
storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste
più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione
giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato
legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente
abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art.
3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli
interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità,
danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n.
380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di
cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di
demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli
interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in
totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico
vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione
dell’edificio esistente- e la costruzione di altro
manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria
(identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal
provvedimento in contestazione), come detto, determinano una
ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di
tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non
può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma
deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente
abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di
tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs.
n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la
normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha
assunto una portata generale e prevalente rispetto alla
pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni
culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia
urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli
ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e
del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono
ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui
all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art.
3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001
riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la
demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la
ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma
anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare
applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non
sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a
vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello
stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene
vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e
volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione
edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo
periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia
incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece,
come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura
perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal
caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato
dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze
di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
---------------
L’intervento posto in essere, come
detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in
nuova volumetria) -diversa da quella originaria che
costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente
abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza
dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo
rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge
regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985
né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli
interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con
variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in
contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata,
sia al momento della realizzazione sia al momento della
domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il
quale dispone che il permesso in sanatoria può essere
ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie
inesistente, costituisce condicio sine quanon per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli
appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una
costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle
vigenti al momento della definizione dell’istanza,
rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da
questo Collegio.
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L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004
stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta
la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che
l’intervento realizzato ha comportato la indebita
demolizione di un edificio che, per espressa previsione
delle norme urbanistiche comunali non poteva essere
distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico
da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi
totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria,
sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo
della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni
culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il
fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura
tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e,
una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto
distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid
novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume
completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente
inapplicabilità della norma che consente l’accertamento
della compatibilità paesaggistica.
---------------
L’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto
della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in
termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di
sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del
d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e
dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non
essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive
che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”.
---------------
... per la
riforma della
sentenza 01.07.2011 n. 1113 del TAR VENETO, Sez.
II.
...
Le doglianze, che affrontano le problematiche centrali
dell’intera controversia, non possono essere condivise.
2.1 Con decreto ministeriale 20.12.1965, la zona in cui è
compreso l’immobile in discorso, di proprietà degli
appellanti, sita nel territorio del Comune di Creazzo
(Vicenza), è stata dichiarata di notevole interesse pubblico
ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 (“protezione
delle bellezze naturali”).
L’art. 26 delle NTA al PRG del
Comune di Creazzo è rubricato “Beni culturali –
insediamenti urbani e rurali con caratteristiche ambientali
ed architettoniche” ed al primo comma dispone che [la
zona] “è costituita dalle parti del territorio
interessate da insediamenti urbani e rurali, comprendenti
aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che
rivestono carattere storico-artistico o di particolare
pregio ambientale”.
Il secondo comma del detto art. 26 prevede che “in tali
ambiti il P.R.G. si attua per intervento edilizio diretto,
secondo le prescrizioni delle schede urbanistiche riferite
ad ogni singolo immobile o complesso di immobili, in deroga
alle norme della zona territoriale omogenea della quale
fanno parte”.
Per quanto più specificamente interessa in questa sede, la
parte finale del comma 4 indica che “non sono ammesse
demolizioni con successive ricostruzioni, se non
specificamente concesso”.
La scheda relativa all’edificio n. 114, di proprietà degli
appellanti, quale tipo di intervento ammesso prevede: “demolizione
dell’accessorio sul lato ovest e riduzione della sporgenza
del poggiolo a cm. 50 con eliminazione dei pilastri.
Ampliamento e sopraelevazione dell’edificio ad Ovest in
continuità di quello ad Est”.
Di talché, non sussiste dubbio che l’edificio di proprietà
dei signori Lo. e Pe., quale bene rientrante in una zona
paesaggisticamente tutelata, ai sensi della specifica e non
contestata normativa urbanistica, non avrebbe potuto essere
interamente demolito e successivamente ricostruito.
La concessione ad eseguire l’attività edilizia rilasciata
dal Comune di Creazzo in data 20.09.2001 ha avuto ad oggetto
i lavori di ristrutturazione con ampliamento e
sopraelevazione di un fabbricato residenziale in via Po.,
con esecuzione delle opere come richieste secondo gli
allegati grafici di progetto che, debitamente vistati, fanno
parte integrante della concessione e, comunque, nel rispetto
delle leggi, dei regolamenti vigenti, delle condizioni e
prescrizioni tutte contenute nel provvedimento abilitativo e
negli atti allegati.
Gli stessi appellanti hanno rappresentato che la concessione
prevedeva il mantenimento di due tratti delle pareti sud e
nord (oltre a quella est, condivisa con un edificio attiguo
e di proprietà di un soggetto terzo) ed hanno specificato
che per la parti che sarebbero risultate ammalorate, era
stata consentita la sostituzione mediante la tecnica c.d.
del “cuci e scuci”.
Il Collegio rileva in primo luogo che la suddetta tecnica
del “cuci e scuci” è una tecnica di riparazione (o
consolidamento) delle lesioni di murature e consiste nella
sostituzione delle parti ammalorate di muratura mediante
rifacimento con materiale nuovo e, quindi, non può trarsi
dalla previsione del possibile utilizzo di tale tecnica,
come pure sembrano adombrare gli appellanti nei loro scritti
difensivi, una facoltà di demolizione e ricostruzione, del
tutto esclusa invece dalla strumentazione urbanistica così
come dal provvedimento concessorio.
Pertanto, mentre la parete ovest poteva essere demolita per
effettuare il richiesto ampliamento, non sussiste alcun
dubbio che le pareti nord e sud (oltre la est condivisa con
edificio attiguo) non potessero essere demolite e
ricostruite perché ciò era vietato sia dalla concessione
edilizia “a valle” sia dagli strumenti urbanistici di
governo del territorio “a monte”.
Parimenti, non sussiste dubbio sul fatto che la tutela
paesaggistica non riguarda solo l’elemento naturalistico
della collina, ma anche, come riportato nell’art. 26 delle
NTA al PRG, aggregazioni edilizie, singoli edifici e
manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di
particolare pregio ambientale.
Di talché, può ritenersi certo che un’istanza presentata
dall’avente titolo volta ad ottenere la concessione per
demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto –così come
materialmente avvenuto, con creazione di un nuovo manufatto-
non avrebbe potuto trovare accoglimento in quanto non
ammessa dal piano regolatore generale per il valore
paesaggistico dell’originario edificio.
L’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 dispone
che, “anche in deroga ad altre leggi regionali, ai
regolamenti e alle previsioni degli strumenti urbanistici,
il Sindaco è autorizzato a rilasciare le concessioni o le
autorizzazioni per la ricostruzione di edifici o di loro
parte o comunque di opere edilizie o urbanistiche,
integralmente o parzialmente distrutti a seguito di eventi
eccezionali o per cause di forza maggiore”.
La norma, nel fare riferimento ad eventi eccezionali o a
cause di forza maggiore, circoscrive la propria operatività
ad eventi che siano al contempo imprevedibili ed inevitabili
e, quindi, nemmeno in parte riconducibile alla iniziativa
degli interessati. Nello stesso senso va inteso il
riferimento alla fattispecie della “distruzione”
dell’edificio, ossia ad un evento dovuto a cause esterne
rispetto all’azione dei proprietari e come tale nettamente
distinto rispetto alla demolizione effettuata dagli stessi.
La contestuale presenza della imprevedibilità e della
inevitabilità, nel caso di specie, non è stata dimostrata e
non è rinvenibile.
Nella memoria e consulenza tecnica redatta dall’ing. Pa.Ro.,
in data 22.05.2003, su incarico dei signori Lo. e Pe., è
indicato, a pag. 5, che “il fabbricato in questione, così
come si presenta ai giorni nostri, è stato oggetto di una
ristrutturazione complessiva per la parte originaria, dove
progressivamente è stata sostituita la parte povera di
parametro murario senza alcun elemento di pregio … e
successivamente fedelmente ricostruita, fino al completo
rinnovo dell’organismo edilizio”, per cui la demolizione
e ricostruzione sembra essere frutto di una scelta, sia pure
originata da una valutazione tecnica, non certo di un evento
al contempo imprevedibile ed inevitabile.
Inoltre, dalla perizia statica redatta dal direttore dei
lavori ing. Gu. Da. Ve., incaricato dai signori Lo. e Pe.,
asseverata in data 17.07.2003, a pag. 5 si legge che “stante
le condizioni sopra accennate, ai fini della stabilità
dell’intera struttura, non risultava proponibile né
realizzabile, in concreto, un intervento di recupero
conservativo delle parti di muratura non previste da
demolizione”.
In definitiva, deve ritenersi che, già prima dell’inizio dei
lavori, fosse stata accertata –o fosse comunque accertabile-
l’impossibilità o l’inopportunità di eseguire il progetto
come assentito dal provvedimento abilitativo.
Tuttavia, gli interessati hanno provveduto ad effettuare la
vietata demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto
senza avere preventivamente avanzato istanza di variante
(istanza che, come più volte detto, non avrebbe potuto
trovare accoglimento in applicazione degli strumenti
urbanistici in vigore), tanto che l’intervenuta demolizione
e ricostruzione è stata accertata dall’Ufficio Tecnico con
sopralluogo in data 05.02.2003 e l’istanza di variante è
stata integrata il successivo 05.03.2013.
In conclusione, dal quadro sopra descritto, emerge con
nitidezza che nessun accadimento eccezionale né alcun evento
imprevedibile e inevitabile aveva imposto la vietata
demolizione dell’intero manufatto e che, di conseguenza,
tale decisione, sia pure supportata da considerazioni
tecniche, è stata assunta dagli interessati che hanno messo
l’amministrazione dinanzi al “fatto compiuto”.
D’altra parte, la sentenza del Tribunale di Vicenza, Sezione
Penale, n. 850 del 2008, nell’escludere il valore
scriminante delle circostanze afferenti alla salvaguardia
della incolumità del cantiere e alla irreparabilità della
situazione dei manufatti, che sarebbero state, secondo la
prospettazione di parte, alla base della decisione di far
abbattere i muri vecchi e di ricostruirne i nuovi, ha
indicato che “la situazione di crollo parziale e di non
recuperabilità non è dimostrata, come non è dimostrato
perché non potessero essere attivate procedure di
salvaguardia e di restauro, certo costoso più della
demolizione, ma ben possibile come la comune esperienza del
recupero dei beni storici insegna. Anche i testi … che
materialmente hanno eseguito le demolizioni nulla hanno
detto circa pericoli od altro; hanno riferito della
condizione del muro, normale, e dell’ordine ricevuto … di
demolirlo. Nessun panico, nessuna situazione drammatica che
imponeva drastiche misure”.
Ne consegue la insussistenza dei presupposti per
l’applicazione alla fattispecie dell’art. 76, comma 8, della
L.R. Veneto n. 61 del 1985 (norma che, comunque, riconosce
al Sindaco una mera facoltà di autorizzare l’intervento, e
non un obbligo).
2.2 Per quanto concerne l’utilizzo della locuzione “decadenza”
nel contestato provvedimento dell’amministrazione comunale
del 31.10.2003, il Collegio rileva che, al di là del
nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di
ritenere il titolo abilitativo venuto meno per inesistenza
sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che
“il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e
scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato
ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello
tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è
incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con
la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione
e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe
una costruzione solo apparentemente simile a quella
originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un
falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto
stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura
storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste
più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione
giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato
legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto
totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art.
3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli
interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende
quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove
eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale
difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33
d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione
pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché
all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo
unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico
vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione
dell’edificio esistente- e la costruzione di altro
manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria
(identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal
provvedimento in contestazione), come detto, determinano una
ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di
tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non
può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma
deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente
abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia
di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel
d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004),
la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha
assunto una portata generale e prevalente rispetto alla
pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni
culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia
urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli
ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e
del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono
ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui
all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Cons. Stato, IV,
07.04.2015, n. 1764).
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art.
3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001
riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la
demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la
ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma
anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare
applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non
sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a
vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello
stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene
vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e
volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione
edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo
periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia
incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece,
come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura
perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal
caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato
dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze
di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
Le considerazioni sopra esposte non solo attestano
l’infondatezza delle doglianze proposte dagli appellati
avverso le statuizioni con cui il giudice di primo grado ha
respinto l’azione di annullamento proposta con il ricorso
introduttivo del giudizio, ma sono anche alla base
dell’infondatezza delle ulteriori censure proposte nella
presente sede di appello.
3. I signori Lo. e Pe., con riferimento alle statuizioni con
cui in primo grado è stata respinta l’azione di annullamento
contenuta nel primo atto di motivi aggiunti, hanno sostenuto
che l’affermazione contenuta nel provvedimento di diniego
dell’istanza di sanatoria -secondo cui nessun rilievo
potrebbe essere attribuito a quanto disposto dalla adottata
variante al PRG giacché l’intervento sarebbe in contrasto
con il PRG vigente- sarebbe viziata dalla erronea e falsa
applicazione dell’art. 97 della L.R. 61/1985.
Il descritto provvedimento del 31.10.2003, impugnato con
l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha
respinto, per violazione dell’art. 97, comma 3, L.R. Veneto
n. 61 del 1985 e dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001,
l’istanza di variante in sanatoria alla concessione edilizia
presentata in data 30.06.2003.
Con successivo provvedimento in data 13.12.2004, impugnato
presso il TAR con un primo atto di motivi aggiunti, il
Comune di Creazzo ha confermato il diniego di sanatoria
espresso in data 31.10.2013 a seguito di istanza di riesame
presentata dagli interessati in data 31.12.2003 ed integrata
in data 21.04.2004 e in data 13.08.2004.
A prescindere dalla eccezione di inammissibilità della
censura formulata dall’amministrazione comunale in quanto
l’atto sarebbe meramente confermativo del precedente
diniego, la doglianza è senz’altro infondata in quanto
l’intervento posto in essere dagli appellanti, come detto,
si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova
volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva
oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva,
essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza
dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo
rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge
regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985
né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli
interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con
variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in
contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata,
sia al momento della realizzazione sia al momento della
domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il
quale dispone che il permesso in sanatoria può essere
ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie
inesistente, costituisce condicio sine quanon per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex
multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017,
n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons.
Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli
appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una
costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle
vigenti al momento della definizione dell’istanza,
rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da
questo Collegio.
In ogni caso, detta tesi non è applicabile alla fattispecie
in esame sia perché la variante urbanistica invocata dagli
appellanti -la quale, per il provvedimento di diniego
contestato, è comunque difforme dalla sanatoria richiesta-
era stata adottata ma non approvata, per cui non costituiva,
alla data di emanazione dell’atto, normativa vigente, sia
perché, come evidenziato dall’amministrazione nella propria
memoria difensiva, la variante è stata modificata in sede di
approvazione (deliberazione di Giunta Regionale n. 3462 del
07.11.2016).
4. Gli appellanti hanno contestato le statuizioni della
sentenza con cui sono state respinte le censure proposte
avverso il diniego di accertamento di compatibilità
paesaggistica.
In particolare, gli interessati, evidenziando ancora una
volta l’erronea impostazione iniziale del Comune che aveva
dichiarato la decadenza del titolo edilizio, ritengono di
avere correttamente rappresentato come l’intervento, quanto
a volumi e superfici, aveva pienamente rispettato le
autorizzazioni edilizia e ambientale.
Le doglianze non sono persuasive.
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004
stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta
la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che
l’intervento realizzato ha comportato la indebita
demolizione di un edificio che, per espressa previsione
delle norme urbanistiche comunali, ormai inoppugnabili, non
poteva essere distrutto in quanto bene di valore
ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto
deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente
nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal
perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel
codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il
fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura
tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e,
una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto
distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid
novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un
volume completamente nuovo in zona vincolata, con
conseguente inapplicabilità della norma che consente
l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
5. Con riferimento alle ultime doglianze, relative alle
statuizioni della sentenza di primo grado che hanno respinto
l’azione di annullamento, proposta con i terzi motivi
aggiunti, avverso il diniego delle istanze di condono
edilizio presentate dagli interessati, è sufficiente
richiamare ancora una volta l’attenzione sul fatto che, a
differenza di quanto prospettato dagli appellanti,
l’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto
della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in
termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di
sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del
d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e
dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non
essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive
che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.07.2018 n. 4690 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appare
legittimo rivolgere l’ordine di demolizione
nei confronti di chi abbia la disponibilità
dell’opera, indipendentemente dal fatto che
tale soggetto si sia reso responsabile
dell’abuso per averlo concretamente
realizzato, rilevando tale aspetto
esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini
della legittimità dell’ordine di
demolizione.
L’ordinanza di demolizione di un’opera
abusiva, infatti, può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile
dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere
ripristinatorio e non prevede l’accertamento
del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la trasgressione.
---------------
Non può determinare l’annullamento
dell’ordine di demolizione la mancata
indicazione dell’area da acquisire in caso
di inottemperanza allo stesso ordine, in
quanto, come sostenuto da un consolidato
orientamento giurisprudenziale, “l’omessa o
imprecisa indicazione di un’area che verrà
acquisita di diritto al patrimonio pubblico
non costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il
contenuto dispositivo di quest’ultima si
commina, appunto, la sanzione della
demolizione del manufatto abusivo,
l’indicazione dell’area costituisce
presupposto accertativo ai fini
dell’acquisizione, che costituisce distinta
misura sanzionatoria. Persiste infatti la
netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione,
preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire. Quindi, l’individuazione dell’area
da acquisirsi non deve essere
necessariamente contenuta nel provvedimento
di ingiunzione di demolizione, a pena di
illegittimità dello stesso, ben potendo
essere riportata nel momento in cui si
procede all’acquisizione del bene”.
---------------
2.3. Inoltre, appare legittimo rivolgere
l’ordine di demolizione nei confronti di chi
abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale
soggetto si sia reso responsabile dell’abuso
per averlo concretamente realizzato,
rilevando tale aspetto esclusivamente sotto
il profilo della responsabilità penale, ma
non certo ai fini della legittimità
dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di un’opera abusiva, infatti,
può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se
non responsabile dell’abuso, considerato che
l’abuso edilizio costituisce illecito
permanente e che l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del
soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR
Lombardia, Milano, II, 03.05.2018, n. 1198;
27.02.2018, n. 574; 03.11.2016, n. 2013, TAR
Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261).
2.4. Pertanto, la censura deve essere
respinta.
3. Con la seconda doglianza si
deducono la genericità e l’indeterminatezza
dell’ordinanza di demolizione per mancata
specifica individuazione sia dell’area
interessata dall’asfaltatura abusiva che
dell’eventuale area di sedime che verrebbe
acquisita di diritto al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza da parte della
ricorrente.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che in data 05.05.2017 gli
Uffici comunali hanno trasmesso alla
ricorrente la planimetria catastale
contenente l’indicazione dei mappali da
acquisirsi in caso di inottemperanza
all’ordinanza di demolizione (all. 11 del
Comune); in ogni caso deve sottolinearsi
come fosse possibile individuare agevolmente
le parti di strada su cui intervenire al
fine di rimuovere l’asfaltatura abusivamente
realizzata, vista la sua immediata
rilevabilità.
Ciò rende irrilevante l’originaria omissione
del Comune, che ha provveduto celermente a
trasmettere la planimetria, comunque non
indispensabile ai fini dell’ottemperanza.
3.2. Ulteriormente va evidenziato come non
possa determinare l’annullamento dell’ordine
di demolizione la mancata indicazione
dell’area da acquisire in caso di
inottemperanza allo stesso ordine, in
quanto, come sostenuto da un consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso
dal Collegio, “l’omessa o imprecisa
indicazione di un’area che verrà acquisita
di diritto al patrimonio pubblico non
costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il
contenuto dispositivo di quest’ultima si
commina, appunto, la sanzione della
demolizione del manufatto abusivo,
l’indicazione dell’area costituisce
presupposto accertativo ai fini
dell’acquisizione, che costituisce distinta
misura sanzionatoria. Persiste infatti la
netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione,
preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire. Quindi, l’individuazione dell’area
da acquisirsi non deve essere
necessariamente contenuta nel provvedimento
di ingiunzione di demolizione, a pena di
illegittimità dello stesso, ben potendo
essere riportata nel momento in cui si
procede all’acquisizione del bene”
(Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13;
altresì, TAR Lombardia, Milano, II,
02.05.2018, n. 1190; 18.07.2017, n. 1644)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.07.2018 n. 1886 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere comunale di controllo in materia edilizia,
per orientamento giurisprudenziale consolidato, non è soggetto né a termini
di decadenza, né di prescrizione, essendo preordinato a consentire
l’adozione, sussistendone i presupposti, dei provvedimenti di carattere
sanzionatorio ovvero di provvedimenti vincolati, in quanto collegati alla
tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio, così
come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione edilizia
vigenti e rispetto ai quali il soggetto inciso non può nemmeno dolersi del
fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti
atti repressivi..
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in
essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento,
confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi
il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità
dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme
alle statuizioni amministrative pregresse.
---------------
Oggetto del presente giudizio (rectius del ricorso introduttivo, che,
per primo, viene scrutinato) sono gli asseriti abusi edilizi realizzati dai
controinteressati al quinto piano dell’edificio denominato “Condominio
...” in Tolmezzo.
I ricorrenti lamentano, invero, che il Comune, seppur sollecitato a farlo
con il loro esposto in data 18/11/2013, avrebbe omesso di esercitare i
poteri repressivi di competenza, concludendo, anzi, il relativo procedimento
senza prendere espressa posizione in ordine ai profili di illegittimità di
carattere urbanistico/edilizio, che pure erano stati oggetto di segnalazione
e di richiesta di puntuale disamina, al fine dell’adozione dei provvedimenti
conseguenti.
Prima di procedere al vaglio dei vizi denunciati dai ricorrenti, il Collegio
deve, tuttavia, farsi carico delle eccezioni preliminari di rito sollevate
dalla difesa del Comune e dei controinteressati.
Nessuna di tali eccezioni è fondata.
Non lo è, innanzitutto, quella di prescrizione e/o decadenza e/o tardività
e/o di irrilevanza di qualsivoglia doglianza in quanto relativa a situazioni
consolidatesi da decenni.
Pare, invero, sufficiente rammentare che, nel caso specifico, viene in
rilievo il mancato esercizio del potere di controllo invocato, potere che,
per orientamento giurisprudenziale consolidato, condiviso dal Collegio, non
è soggetto né a termini di decadenza, né di prescrizione, essendo
preordinato a consentire l’adozione, sussistendone i presupposti, dei
provvedimenti di carattere sanzionatorio ovvero di provvedimenti vincolati,
in quanto collegati alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato
sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e
nella regolamentazione edilizia vigenti (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013,
n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907) e rispetto ai quali il
soggetto inciso non può nemmeno dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI,
31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in
essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento,
confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi
il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità
dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme
alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013,
n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV,
04.05.2012, n. 2592).
L’illecito edilizio ha, infatti, carattere permanente e conserva nel tempo
la sua natura, sicché non può assolutamente ritenersi che la “iniziativa”
di chi sollecita l’esercizio dei poteri di controllo possa essere soggetta a
limiti temporali.
Analogamente privo di pregio è il denunciato difetto di interesse
(TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 30.07.2018 n. 268 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n.
380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione pecuniaria è sempre
inflitta nella misura massima, senza alcun margine di
discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi
realizzati "sulle aree e sugli edifici" di cui all'art. 27,
comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè solo su quelle
"aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle tipologie
vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella
summenzionata disposizione, vale a dire:
1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità";
2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962,
n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni"
(relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di
aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di
"Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a
"vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti
a limitazioni nella loro utilizzazione";
4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n.
1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924,
n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel
Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26
del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895,
che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L.
22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni culturali e
ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n.
352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del
paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs.
n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di
quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per
le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii.;
7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
---------------
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di ragionevolezza e proporzionalità della entità della
sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree
e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria
“ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro
20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del
2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio
in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe
la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente)
la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione
legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente
realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia
nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione
di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente
agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed
in quei particolari (e circoscritti) "edifici"
specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso
D.P.R. n. 380 del 2001”.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 292 del 17.09.2015
con cui il comune di Avellino -sportello unico per
l'edilizia- ha ingiunto al ricorrente il pagamento di una
sanzione amministrativa ai sensi dell'art. 31, comma 4-bis,
del d.p.r. 380/2001.
...
1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità del
provvedimento n. 292 del 17.09.2015 con cui il comune di
Avellino ha rilevato la mancata ottemperanza da parte del
responsabile dell’ordine di demolizione n. 43 del 2015
emesso per la rimozione di opere edilizie realizzate sine
titulo ed ha ingiunto il pagamento di una sanzione
amministrativa pari ad euro 20.000 ai sensi dell'art. 3,
comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001.
Trattasi, nella specie, di opere realizzate senza titolo in
area sottoposta a vincolo paesaggistico.
...
4.2 Con la formulata censura di illegittimità costituzionale
dell’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. 380 del 2001, il
ricorrente deduce, sostanzialmente, che tale norma -in
combinato disposto con l'art. 27, comma 2, dello stesso
Testo Unico-, assoggettando alla sanzione pecuniaria massima
di Euro 20.000,00 tutti gli abusi commessi "sulle aree e
sugli edifici di cui al comma 2 dell'art. 27" del D.P.R.
n. 380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e
della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero
presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui
predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive
dimensioni delle opere (nel caso in esame, trattasi di “baracca
in lamiera di 12 mq.”)-, contrasterebbe con i principi
costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza.
A tale proposito il Collegio intende confermare il giudizio
di infondatezza della prospettata censura ribadendo quanto
già espresso nella sentenza n. 103 del 16.01.2017 nella
quale è stato precisato che: “In base all'art. 31, comma
4- bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione
pecuniaria è sempre inflitta nella misura massima, senza
alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione,
nel caso di abusi realizzati "sulle aree e sugli edifici" di
cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè
solo su quelle "aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle
tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente
indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità";
2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962,
n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni"
(relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di
aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di
"Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a
"vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti
a limitazioni nella loro utilizzazione";
4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n.
1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924,
n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel
Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26
del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895,
che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L.
22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni culturali e
ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n.
352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del
paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs.
n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di
quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per
le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii.;
7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di ragionevolezza e proporzionalità della entità della
sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree
e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, Sent., 12/07/2016, n. 1105)
“ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro
20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del
2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio
in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe
la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente)
la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione
legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente
realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia
nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione
di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente
agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed
in quei particolari (e circoscritti) "edifici"
specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso
D.P.R. n. 380 del 2001”.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità
costituzionale dell'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con
l'art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico- si appalesa
manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate”.
5. Per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso è
infondato e va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 06.07.2018 n. 1045 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge -
rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità –
necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva,
nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla riconducibilità, o meno, del pianerottolo, sito sulle scale
condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano
nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si
svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti
al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi
i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale; ed
infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale
chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile
da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di
soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza
la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di
diritto.
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di
"privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante
l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo,
rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini
dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i
relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la
tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non
assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al
riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero
indeterminato di soggetti.
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio
costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad
un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità
di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un
numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e
pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un
potere di fatto o di diritto.
---------------
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La problematica centrale riguarda la nozione di luogo pubblico o
aperto al pubblico, posto che il reato contravvenzionale, ex art. 4
legge n. 110/1975, implica il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Ed invero, nell'ambito del presente procedimento, il contrasto è insorto,
proprio a seguito dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata,
circa la riconducibilità del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad
una pertinenza dell'abitazione dell'imputato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi
destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale (Sez. U, n.
31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 270076); ed infatti,
per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale
chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile
da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di
soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza
la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di
diritto (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 - dep. 14/06/2017, C., Rv. 270251).
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario,
di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo,
antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad
un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di
privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini
dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i
relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere
la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non
assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al
riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero
indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 - dep.
12/07/2017, P.C. in proc. Tinervia, Rv. 270679).
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio
costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad
un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
(applicazione in tema di porto abusivo di armi) (Sez. 1, n. 934 del
28/09/1982 - dep. 03/02/1983, CHIAPPERO, Rv. 157237).
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità
di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un
numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e
pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un
potere di fatto o di diritto (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013 - dep.
27/05/2013, Ambrosio, Rv. 256949) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 01.06.2018 n. 24755). |
maggio 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla questione se
il diniego del permesso di costruire in parziale sanatoria e
l’ordine di demolizione delle opere abusive sarebbero
viziati per difetto di legittimazione del destinatario
poiché
erroneamente indirizzati al sig. ... in proprio e non, invece, nella qualità di
amministratore unico e legale rappresentante della .... s.a.s..
Il sig. Sa. è
amministratore unico e socio accomandatario della società
proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita
semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto
modo di affermare che “L'attività svolta della società in
accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al
ricorrente, socio accomandatario e suo legale
rappresentante, non rilevando pertanto la mancata
indicazione della qualità per cui la sanzione è stata
direttamente notificata al ricorrente, in ragione della
confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente
responsabile e la società medesima”.
Inoltre, in una tale situazione, deve ragionevolmente
ritenersi che il destinatario sia in grado di apprezzare la
lesività del provvedimento, sia come persona fisica, che
come socio della società.
Nel condividere integralmente e fare propri tali indirizzi,
il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto del
presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a produrre
effetti anche nei confronti della società è dimostrata non
solo –sul piano astratto– dai profili di confusione
patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza richiamata, ma
anche dalla circostanza che -in concreto– è stato proprio il
sig. Sa. a determinare la commistione tra l’attività svolta
per sé e quella esercitata per Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di costruire in parziale sanatoria,
benché presentata dal sig. Sa. in nome proprio, è stata
infatti avanzata per conto e a beneficio della società. E’
perciò del tutto incongruo ritenere che la stessa società,
che ben avrebbe potuto beneficiare dell’esito favorevole
dell’istanza, non sia invece tenuta a sopportare le
conseguenze della conclusione negativa dell’iter.
---------------
10. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono
di seguito.
11. Con il primo motivo i ricorrenti allegano che il
provvedimento impugnato, recante il diniego del permesso di
costruire in parziale sanatoria e l’ordine di demolizione
delle opere abusive, sarebbe viziato per difetto di
legittimazione del destinatario. Ciò in quanto la nota
comunale sarebbe erroneamente indirizzata al sig. Cr.Sa. in proprio, e non invece nella qualità di
amministratore unico e legale rappresentante di Im.Qu.Og. s.a.s.
11.1 Al riguardo, occorre anzitutto rilevare che il sig.
Sa. aveva presentato in nome proprio la domanda di
permesso di costruire in parziale sanatoria, qualificandosi
come proprietario.
11.2 Ciò posto, nessuna illegittimità è ravvisabile nel
provvedimento impugnato.
Deve tenersi presente, infatti, che il sig. Sa. è
amministratore unico e socio accomandatario della società
proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita
semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto
modo di affermare che “L'attività svolta della società in
accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al
ricorrente, socio accomandatario e suo legale
rappresentante, non rilevando pertanto la mancata
indicazione della qualità per cui la sanzione è stata
direttamente notificata al ricorrente, in ragione della
confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente
responsabile e la società medesima (cfr. TAR Campania,
Napoli, n. 927/2015)” (così TAR Abruzzo, L'Aquila, 09.08.2016, n. 482).
Inoltre, in una tale situazione, deve
ragionevolmente ritenersi che il destinatario sia in grado
di apprezzare la lesività del provvedimento, sia come
persona fisica, che come socio della società (Cons. Stato,
Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426).
11.3 Nel condividere integralmente e fare propri tali
indirizzi, il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto
del presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a
produrre effetti anche nei confronti della società è
dimostrata non solo –sul piano astratto– dai profili di
confusione patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza
richiamata, ma anche dalla circostanza che -in concreto– è
stato proprio il sig. Sa. a determinare la commistione
tra l’attività svolta per sé e quella esercitata per
Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di
costruire in parziale sanatoria, benché presentata dal sig.
Sa. in nome proprio, è stata infatti avanzata per conto
e a beneficio della società. E’ perciò del tutto incongruo
ritenere che la stessa società, che ben avrebbe potuto
beneficiare dell’esito favorevole dell’istanza, non sia
invece tenuta a sopportare le conseguenze della conclusione
negativa dell’iter.
11.4 Il motivo va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il locale studio e il locale w.c. abusivamente
realizzati non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato,
ma consistono ampliamenti al di fuori della sagoma
originaria.
Tali opere
non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti
meramente accessori e serventi all’edificio, privi di
incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani
aggiunti all’originario edificio, con corrispondente
incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura
pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste
dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al
fabbricato preesistente.
A ben vedere, infatti, i ricorrenti
distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per
sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma
accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi
rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto
successivamente a un edificio, purché di dimensioni
contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del
presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non
sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende
proprio dal fatto che esso viene a costituire parte
integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e
la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il
carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le
quali non possono consistere in porzioni costitutive del
medesimo immobile cui dovrebbero servire.
---------------
Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali
aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno
titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”,
trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della
sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R.
n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo
20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla
disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e
non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si
riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia
(oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
---------------
E' stata
presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere
eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente,
perciò, ad aver qualificato le opere come un unico
intervento edilizio abusivo.
L’istanza non può, pertanto, essere valutata in
modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è
consentito al Comune prendere in considerazione singole
porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di
attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di
“manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo
intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato.
---------------
12. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale si
sostiene, sotto diversi profili, che le opere abusive non
sarebbero soggette alla sanzione demolitoria.
12.1 I ricorrenti affermano, anzitutto, che il locale studio
e il locale w.c. costituirebbero mere pertinenze, contenute
entro il limite del venti per cento del fabbricato
principale, per le quali non sarebbe richiesto il rilascio
del permesso di costruire.
Conseguentemente, si tratterebbe
di abusi non soggetti alla sanzione della demolizione, ma
soltanto a quella pecuniaria prevista dall’articolo 37 del d.P.R. n. 380 del 2011 per le opere realizzate in assenza di
denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.1.1 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che le opere in
esame non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato,
ma consistono in ampliamenti al di fuori della sagoma
originaria, come correttamente allegato dalla difesa
comunale e come chiaramente risulta dagli elaborati
progettuali depositati agli atti del giudizio. Tali opere
non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti
meramente accessori e serventi all’edificio, privi di
incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani
aggiunti all’originario edificio, con corrispondente
incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura
pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste
dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al
fabbricato preesistente. A ben vedere, infatti, i ricorrenti
distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per
sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma
accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi
rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto
successivamente a un edificio, purché di dimensioni
contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del
presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non
sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende
proprio dal fatto che esso viene a costituire parte
integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e
la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il
carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le
quali non possono consistere in porzioni costitutive del
medesimo immobile cui dovrebbero servire.
12.1.2 Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali
aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno
titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”,
trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della
sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R.
n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo
20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla
disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e
non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si
riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia
(oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.2 Non merita accoglimento neppure la seconda censura
articolata nel secondo motivo, con la quale i ricorrenti
lamentano che il Comune non avrebbe potuto ordinare la
demolizione delle opere di divisione interne, in quanto
qualificabili come mero intervento di manutenzione
straordinaria e, come tali, ammesse dalla disciplina
urbanistica dettata dal PRG per gli edifici incompatibili
con la destinazione della zona “M”, quale è il fabbricato
residenziale sul quale le opere sono state eseguite.
12.2.1 Al riguardo, deve infatti osservarsi che –come
correttamente evidenziato dalla difesa comunale– è stata
presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere
eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente,
perciò, ad aver qualificato le opere come un unico
intervento edilizio abusivo.
L’istanza non avrebbe potuto, pertanto, essere valutata in
modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è
consentito al Comune prendere in considerazione singole
porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di
attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di
“manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo
intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato. E,
d’altro canto, l’adozione di un’ordinanza di demolizione
riferita all’abuso nella sua interezza, per come dichiarato
dal privato, costituisce una mera conseguenza del diniego
dell’accertamento di conformità.
12.2.2 Tale esito, peraltro, non preclude la presentazione
di una nuova istanza, al fine di regolarizzare la sola parte
dell’intervento che si ritenga eventualmente conforme alla
disciplina urbanistica, eseguendo, per il resto, l’ordinanza
di demolizione.
12.3 Da ciò il rigetto di tutte le censure articolate con il
secondo motivo di impugnazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di
risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento
amministrativo presuppone, logicamente, che un ritardo sia
configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in
presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo,
quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente
giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in
radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi
dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
D’altro canto, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo
la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente
approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di
tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi
risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi
genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli
atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano
essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa
e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli
interessati di procrastinare la demolizione dell’opera
abusiva e di continuare a trarne profitto.
---------------
16. I ricorrenti hanno domandato anche la condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno derivante dal
ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo.
16.1 Al riguardo, il Collegio ritiene di poter prescindere
dall’eccezione di tardività sollevata dalla difesa comunale,
stante l’infondatezza nel merito della domanda.
16.2 La possibilità di risarcire il danno da ritardata
conclusione del procedimento amministrativo presuppone,
infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile;
evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una
fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella
riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio,
secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la
risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo
2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato,
Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
D’altro canto, come correttamente rimarcato dalla difesa
comunale, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo
la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente
approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di
tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi
risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi
genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli
atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano
essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa
e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli
interessati di procrastinare la demolizione dell’opera
abusiva e di continuare a trarne profitto.
16.3 Da ciò il rigetto della domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In sede di impugnazione di ordinanza di
demolizione di opere abusive emanata in pendenza del termine
per la presentazione della domanda di sanatoria edilizia, ex
art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (...), il g.a., chiamato ad
applicare la sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n.
47, deve valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la
ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso
concreto, escludendola laddove le opere in questione non
siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo,
temporale, finanziario.
La sospensione del giudizio di cui all'art. 44, l.
18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32 d.l. n. 269 del
2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è applicabile in
relazione alle opere assolutamente non suscettibili di
sanatoria, come sono, tra le altre, le opere abusive
eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti vincoli di
inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47 del 1985).
---------------
2.6. Quanto all’ultimo motivo, osserva il Collegio
che l'intimazione contenuta nel provvedimento impugnato,
relativa alla sola porzione di opera che, come visto, non è
suscettibile di sanatoria, non viola il principio di
sospensione fissato dall'art. 44 della l. n. 47/1985, atteso
che tale principio non trova applicazione per le opere
assolutamente insuscettibili di sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza costante ha affermato che “in
sede di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere
abusive emanata in pendenza del termine per la presentazione
della domanda di sanatoria edilizia, ex art. 32 d.l.
30.09.2003 n. 269 ( ... ), il g.a., chiamato ad applicare la
sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n. 47, deve
valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la
ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso
concreto, escludendola laddove le opere in questione non
siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo,
temporale, finanziario. La sospensione del giudizio di cui
all'art. 44, l. 18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32
d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è
applicabile in relazione alle opere assolutamente non
suscettibili di sanatoria, come sono, tra le altre, le opere
abusive eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti
vincoli di inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47
del 1985)” (TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n.
3816/2005; conf. TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n.
18085/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 17690/2004;
TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n. 16733/2004; TAR
Campania-Napoli, Sezione VI, n. 14660/2004 e TAR
Campania-Napoli, Sezione VI, n. 9527/2004).
2.7. In ragione delle suesposte considerazioni il ricorso è
infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante “l’ordine di
demolizione di opera edilizia abusiva” deve ritenersi
“sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività del manufatto”.
Ciò in quanto “l’attività di repressione degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di potere non discrezionale,
bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad un mero
accertamento tecnico dello stato dei luoghi”.
---------------
9. Sempre per l’infondatezza deve infine concludersi in
ordine all’asserito difetto di motivazione, atteso che per
giurisprudenza costante “l’ordine di demolizione di opera
edilizia abusiva” deve ritenersi “sufficientemente
motivato con l’affermazione dell’accertata abusività del
manufatto” (così Cons. St., sez. IV, 28.02.2017, n.
908); ciò in quanto “l’attività di repressione degli
abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non
discrezionale, bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad
un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi”
(TAR Campania , Napoli, sez. III, 20.02.2018, n. 1096) (TAR
Umbria,
sentenza 11.05.2018 n. 303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti di autotutela sugli ordini di demolizione
sono retti dai principi enucleati dalla Adunanza plenaria n.
9 del 2017.
---------------
●
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Autotutela –
Interesse pubblico – Motivazione - Limiti.
●
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Sostituzione
con sanzione pecuniaria – Valutabilità nella fase esecutiva
del procedimento demolitorio
●
I provvedimenti di autotutela (anche di secondo grado) sugli
ordini di demolizione, e dunque la loro riconferma, non
incontrano i limiti stabiliti dalla plenaria 17.10.2017, n.
8 in ordine all’individuazione motivata dell’interesse
pubblico ma sono retti dai principi enucleati dalla plenaria
17.10.2017, n. 9, con la conseguenza che non richiedono una
specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso (1).
●
La possibilità di sostituire la sanzione
demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame il
Comune indotto in errore dall’appellante circa la
consistenza delle opere sanande, l’interesse pubblico è da
ritenere autoevidente e non richiede quindi una particolare
ostensione argomentativa, secondo il recente insegnamento
dell’Adunanza
plenaria 17.10.2017, n. 8; tale pronuncia,
inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su provvedimenti
ampliativi: nel caso di specie, invece, nella sostanza (come
si dirà in prosieguo) si tratta della conferma di un ordine
di demolizione per abusivismo edilizio.
Ha aggiunto che è pur vero che, con la su citata pronuncia,
l’Adunanza plenaria ha escluso la configurabilità
dell’interesse pubblico in re ipsa con riferimento
all’esercizio del potere di autotutela sui titoli edilizi in
sanatoria, quali atti di natura ampliativa, ma la vicenda in
esame sottende l’esercizio di un potere sanzionatorio avente
carattere ripristinatorio e doveroso
La Sezione (14.12.2016,
n. 5262) ha peraltro già opinato, in epoca
precedente a tale fondamentale pronuncia, che “allorquando
una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta
dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando
l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna
particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale
ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”.
(2)
Cons. St., sez. VI, 23.11.2017, n. 5472
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2018 n. 2799
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
7.3.2. Da tanto
consegue anche l’infondatezza del terzo connesso profilo di
censura, in quanto:
- essendo stato il Comune indotto in errore
dall’appellante circa la consistenza delle opere sanande,
l’interesse pubblico è da ritenere autoevidente e non
richiede quindi una particolare ostensione argomentativa,
secondo il recente insegnamento dell’Adunanza plenaria n. 8
del 2017; tale
pronuncia, inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su
provvedimenti ampliativi: nel caso di specie, invece, nella
sostanza (come si dirà in prosieguo) si tratta della
conferma di un ordine di demolizione per abusivismo
edilizio;
- questa Sezione ha peraltro già opinato, in epoca precedente a
tale fondamentale pronuncia, che “allorquando
una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta
dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando
l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna
particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale
ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”
(cfr. sentenza 14.12.2016, n. 5262);
- è pur vero che, con la su citata pronuncia, l’Adunanza plenaria
ha escluso la configurabilità dell’interesse pubblico in
re ipsa con riferimento all’esercizio del potere di
autotutela sui titoli edilizi in sanatoria, quali atti di
natura ampliativa, ma la vicenda in esame sottende
l’esercizio di un potere sanzionatorio avente carattere
ripristinatorio e doveroso; in ogni caso i principi espressi
dall’Adunanza plenaria sono comunque estensibili alla
controversia in esame;
- deve infatti rilevarsi che anche nel caso di
specie il potere di autotutela esercitato
dall’amministrazione, avente ad oggetto un precedente
provvedimento repressivo dell’ordine demolitorio invece che
un titolo edilizio risultato illegittimo, sottende “l’evidente
esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno
dell'abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con
strumenti efficaci e tempestivi e con la piena
consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in
relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale
(quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio,
nonché la tutela della pubblica incolumità)”;
- non va peraltro trascurato, per rimarcare nella specie la natura
vincolata dell’atto oggetto del presente giudizio, che
l’ordine demolitorio rivitalizzato
dall’amministrazione comunale non solo non risulta più
intaccato nella sua portata effettuale dalle derminazioni in
autotutela dell’amministrazione, ma nemmeno è stato
interessato da alcun intervento annullatorio dell’Autorità
giurisdizionale;
- poiché viene in considerazione, nel caso di specie, un titolo in
sanatoria di carattere parziale, il provvedimento oggetto di
gravame non è espressione del potere di autotutela
decisoria, intimamente discrezionale, ma si fonda sulla mera
presa d’atto del perimetro abilitativo della sanatoria, la
cui validità non è quindi messa in discussione;
- nel caso di specie viene infatti in
considerazione un provvedimento di assenso postumo avente ad
oggetto soltanto una parte delle opere oggetto della
relativa istanza, di guisa che quella residua risulta
estranea all’alveo della sanatoria stessa, nel rispetto
quindi del principio secondo cui i limiti imposti dal
legislatore alla concessione della sanatoria sono tassativi
e non soggetti ad “alcuna possibilità di estensione
discrezionale da parte della PA”
(Cons. giust. amm., n. 941 del 2009), onde
consentire la tutela di valori fondamentali (a livello
costituzionale ed internazionale) quali il governo del
territorio, l’ambiente, il paesaggio;
- dagli atti di causa si evince che la società ha assunto una
condotta tale da indurre in errore l’amministrazione, per
avere affermato in sede giurisdizionale, contrariamente al
vero, che le opere descritte nell’ordinanza demolitoria prot.
n. 39669/6924 del 03.10.1996 erano oggetto della domanda di
condono n. 422 del 1995;
- tale condotta è pertanto inidonea a consolidare una posizione di
affidamento secondo le stesse coordinate ermeneutiche
elaborate dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 8 del
2017;
- deve escludersi,
in definitiva, che le cautele divisate
dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 possano trovare
ingresso in un caso come quello in esame stante la
doverosità dell’intervento repressivo della P.A. e
l’incidenza dell’autotutela su un provvedimento d’indole
sanzionatoria e non certo di carattere autorizzatorio o
comunque ampliativo.
7.3.3. Non può configurarsi inoltre alcun conflitto con il
decreto del Presidente del Tar Toscana, sez. III, n. 4438
del 04.09.2003 -come dedotto a pagina 7 del ricorso di primo
grado- in quanto con tale pronuncia monocratica si dava
semplicemente atto dell’intervenuta revoca del provvedimento
demolitorio con l’atto del 01.02.1997 e pertanto, al di là
dell’uso di formule di mero stile, non postulava alcuna
valutazione circa l’effettiva integrale soddisfazione
dell’originaria pretesa della parte ricorrente in modo da
acquisire forza di giudicato.
7.4. Sono del pari infondati gli ulteriori vizi-motivi
articolati avverso il provvedimento impugnato (pagine 8 e
ss. del ricorso di primo grado), in quanto:
- non vi è alcuna interferenza tra il provvedimento impugnato ed il
(previo) parziale accoglimento della domanda di sanatoria,
stante la rilevata diversità delle aree interessate dai
rispettivi interventi;
- la reviviscenza dell’ordinanza demolitoria del 03.10.1996 non è
preclusa dal fatto che la stessa era stata precedentemente
revocata comportando l’atto impugnato il travolgimento
proprio di tale precedente determinazione di autotutela;
- l’impugnato provvedimento nemmeno può ritenersi precluso
dall’istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria del
24.06.2003 rimasta inevasa non assumendo tale iniziativa la
valenza di domanda di sanatoria;
- i presupposti (normativi ed ermeneutici)
dell’istituto della fiscalizzazione dell’illecito edilizio
si pongono infatti su un piano ontologicamente diverso da
quelli della sanatoria sia perché esso trova il proprio
fondamento nella impossibilità di rimuovere le conseguenze
dell’illecito senza creare danni irreparabili alla parte di
edificio eseguita in conformità al permesso a costruire sia
perché il pagamento della sanzioni pecuniarie, se esclude
che opere edilizie abusive possano essere legittimamente
demolite, non ne rimuove, però, il carattere antigiuridico
(Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2011, n. 5412);
- va altresì rilevato che, come da orientamento ormai pienamente
consolidato di questo Consiglio (da ultimo, sez. IV,
27.07.2017, n. 3728) “la P.A. non ha
alcun obbligo di reiterare l’ingiunzione a demolire dopo che
ha respinto una istanza di sanatoria presentata
successivamente all’originario ordine di demolizione
(cfr. ex plurimis sez. V, n. 466 del 2015 e Sez. VI, n. 1909
del 2013 cui si rinvia a mente dell'art. 88, co. 2, lett.
d), c.p.a.)”;
- ad ogni modo, detta istanza contiene espresso riferimento
all’ordinanza demolitoria di cui al provvedimento prot.
37771 del 21.10.1997 che riguarda le opere oggetto della
domanda di sanatoria n. 423 del 1995, insistenti come detto
sul mappale n. 535, invece che le diverse opere, pur della
medesima consistenza, di cui all’ordinanza di demolizione
prot. n. 39669/6924 del 03.10.1996;
- la pronuncia cautelare che abbia, seppur temporaneamente, fatto
venir meno l’obbligo di dare esecuzione all’ordine di
ripristino dello status quo ante incide sul decorso
del termine di 90 giorni concesso agli interessati per
provvedere nel senso che questo riprende a decorrere dopo il
venir meno degli effetti della stessa pronuncia, di tal che
l’ordinanza cautelare del Tar per la Toscana (n. 483 del
03.06.1997) ha comportato la sospensione dell’ordinanza
demolitoria del 03.10.1996 soltanto a decorrere
dall’intervento della pronuncia cautelare invece che,
retroattivamente, dalla data di emanazione del provvedimento
impugnato;
- va quindi escluso che, come si assume dall’appellante,
l’accoglimento della domanda cautelare abbia assunto
carattere ostativo alla consumazione del termine di novanta
giorni prescritto dalle legge per la sua esecuzione essendo
questo, avuto riguardo alla data cui risale la notificazione
dell’ordine demolitorio (09.10.1996), già ampiamente decorso
al momento del pronunciamento cautelare;
- né la validità della sanzione demolitoria può dirsi inficiata
dalla vagheggiata possibilità di applicare, in sua vece, la
sanzione pecuniaria a norma dell’art. 12 della legge n. 47
del 1985, in quanto “La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria
deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella
fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma
rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della
legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio
per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va
senz'altro emesso. La norma, inoltre, è chiara nel riferirsi
soltanto al caso in cui si sia in presenza di opere
realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire”
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472).
8. Infondate sono anche le censure articolate nei riguardi
del provvedimento sub b) del precedente § 1 (pagine 12 e ss.
del ricorso di primo grado) avendo la società valorizzato
ancora una volta la circostanza della presentazione di
istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria sostitutiva di
quella demolitoria.
Vale al riguardo osservare, come da orientamento di questa
Sezione, che “l'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è
normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a
formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al
patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del
termine assegnato con l'ingiunzione stessa. La
giurisprudenza ha pacificamente confermato tale lettura,
affermando che l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è una
misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di
demolizione. Né in senso ostativo può assumere rilevanza
l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni d'interesse
pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re
ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura
interamente vincolata del provvedimento
(ex multis Cons. di Stato, Sez. IV, 05.05.2017 n. 2053 e
Sez. V, 15.07.2013, n. 3834)”
(cfr. sentenza 27.07.2017, n. 3728).
Ne consegue che la prospettata
impossibilità di demolire le opere abusive senza pregiudizio
della parte costruita legittimamente,
a tacer della necessità di fornire ogni dimostrazione al
riguardo incombente sul medesimo istante,
può impedire l’esecuzione in danno dell’ordine demolitorio
ma non anche l’effetto acquisitivo dell’area di sedime
siccome contemplato come automatico dalla normativa in
materia (art. 31 del D.P.R n. 380 del 2001).
Va altresì evidenziato che il provvedimento in questione
concerne le richiamate ordinanze demolitorie prot. n. 37771
e n. 37773 del 21.10.1997, relative alle opere insistenti
sul mappale n. 535, non interessate da alcun provvedimento
di ritiro o annullamento giurisdizionale sì da conservare
piena efficacia repressiva delle opere ivi contestate. |
EDILIZIA PRIVATA:
La
lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del
1990, per l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento, non sussiste ai fini dell’esercizio del potere
repressivo in materia edilizia avendo questo carattere
interamente doveroso.
---------------
L’ordine
di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente
alla sussistenza di opere abusive e non richiede una
specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo,
essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento, né un'ampia
motivazione.
---------------
7.2. Infondato è il
primo motivo del ricorso instaurativo della lite
(pagina 6), col quale si lamenta la violazione dell’art. 7
della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione
dell’avviso di avvio del procedimento; invero, tale
diaframma partecipativo non è necessario ai fini
dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia
avendo questo carattere interamente doveroso.
A tal riguardo, il ricorrente valorizza la natura di secondo
grado dell’atto impugnato essendo inteso al ritiro della
determinazione a sua volta repressiva dell’ordine
demolitorio, lamentando quindi la mancanza del profilo
motivazionale richiesto dall’invocato art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990 in punto di interesse pubblico.
La deduzione non può essere condivisa, in quanto, come
opinato anche di recente da questa Sezione (sentenza
28.03.2018, n. 1959), il potere di autotutela costituisce la
riedizione del potere originariamente esercitato in modo da
essere attratto alla relativa disciplina.
Non va trascurata infatti la circostanza che, attraverso
l’atto impugnato, l’amministrazione, nel ritirare il
precedente provvedimento di autotutela, ha di fatto
riesercitato il potere sanzionatorio edilizio, per il quale,
secondo orientamento pretorio tanto consolidato da assurgere
a jus receptum, non si richiede la previa
instaurazione del contraddittorio procedimentale innescato
dall’avviso di avvio del procedimento per la natura
vincolata della irroganda sanzione.
Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo
Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria
17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima
applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n.
5595), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato
ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e
non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza
del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo,
essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione
della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è
pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
7.2.1. Comunque la censura risulta neutralizzata anche per
effetto del principio di dequotazione dei vizi formali di
cui all’art. 21-octies della medesima legge n. 241 del 1990,
in quanto, come si dirà in prosieguo, la società ricorrente
non avrebbe potuto offrire all’attenzione
dell’amministrazione circostanze di fatto e di diritto tali
da indurre a determinazioni diverse da quella adottata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2018 n. 2799
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio
del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati
e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
E
seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del
prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta
palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza
di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse
stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
L’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove sia
decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione
dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a
specificare la sussistenza dell’interesse pubblico alla
eliminazione dell’opera realizzata o addirittura ad indicare
le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si
sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato, può
essere condiviso solo se riferito a situazioni assolutamente
eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra
il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al
ripristino della legalità violata.
---------------
Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
La prima censura, incentrata sull’omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento, è palesemente infondata.
Per
giurisprudenza costante, i provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla
comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti
tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e,
seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del
prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta
palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza
di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse
stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
La seconda censura, con cui ci si duole della carenza di
motivazione, atteso che la motivazione è necessaria qualora
si ordini la demolizione di strutture assai risalenti, come
avverrebbe nel caso di specie, è anch’essa infondata.
Infatti, la pretesa risalenza dell’immobile non risulta
affatto dimostrata: secondo parte ricorrente, essa si
evincerebbe dal nulla osta dei VV.F. del Comando provinciale
di Napoli, datato 10.12.62.
Tale nulla osta, tuttavia, non
risulta essere stato allegato; né sono stati allegati altri
documenti (ad es., una perizia di parte) da cui evincere
almeno un principio di prova circa la data di presumibile
realizzazione dell’abuso.
Inoltre, l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale, ove sia decorso un
notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso
edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la
sussistenza dell’interesse pubblico alla eliminazione
dell’opera realizzata o addirittura ad indicare le ragioni
della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe
ingenerato un affidamento in capo al privato (TAR Marche,
29.08.2003, n. 976; Cons. Stato, Sez. V, 19.03.1999,
n. 286), può essere condiviso solo se riferito a situazioni
assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la
sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e
l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata
(TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 19.06.2006, n. 7082;
18.05.2005, n. 6497) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2972 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento, recante l’acquisizione coattiva dell’area al
patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di
presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di
diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per
l’effetto caducante che da tale annullamento segue.
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante:
● “il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto
annullato direttamente come di quello caducato per
conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
●
il secondo individuato nel rapporto di necessaria
derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed
ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed
ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo
al coinvolgimento di soggetti terzi.
---------------
21. Sulla scorta di quanto esposto in narrativa e in disparte ogni
altro rilievo, il Collegio ritiene che:
a) il bene della vita richiesto dagli appellanti e oggetto di
successivi contenziosi consiste nella possibilità di mutare
in abitazione la destinazione d’uso dell’attuale magazzino
agricolo di loro proprietà.
Tale bene è stato loro
definitivamente riconosciuto dalla ricordata sentenza n.
3415/2014 e una decisione di merito nel presente contenzioso
non potrebbe recare loro alcuna altra utilità, anche perché
il provvedimento impugnato in questa sede si autoqualifica
espressamente come “atto meramente confermativo del diniego
del 21.11.2005 prot. 9338”, annullato dalla sentenza
citata.
Venendo in considerazione un atto meramente
confermativo, per un verso difettava in radice l’interesse
alla sua impugnazione, mentre, per altro verso,
l’annullamento dell’atto confermato ha esplicato un
automatico effetto caducante sull’atto confermativo. Di
conseguenza, per questa parte, il ricorso di primo grado era
in effetti inammissibile e limitatamente a questo profilo va
confermata la sentenza impugnata;
b) con l’atto di motivi aggiunti di primo grado, gli appellanti
hanno chiesto l’annullamento del provvedimento comunale n.
251/2010, recante l’acquisizione gratuita del manufatto al
patrimonio comunale. Tale provvedimento ha il suo espresso
presupposto nella nota di diniego di cambio d’uso del 2005,
annullata dalla sentenza n. 3415/2014.
In ragione di tale annullamento, deve darsi atto del
sopravvenuto difetto di interesse degli appellanti alla
decisione sui motivi aggiunti proposti in primo grado.
Deve, infatti, precisarsi che il provvedimento n. 251 del 15.01.2010, recante l’acquisizione coattiva dell’area al
patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di
presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di
diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per
l’effetto caducante che da tale annullamento segue (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, n. 3415; sez. IV, 08.09.2015, n. 4193; sez. IV, 14.12.2017, n.
5896).
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante (Cons. Stato, sez. IV, 21.09.2015, n.
4404), “il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto
annullato direttamente come di quello caducato per
conseguenza, alla medesima serie procedimentale; il secondo
individuato nel rapporto di necessaria derivazione del
secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi (ex plurimis, indicando le
decisioni più recenti, C.d.S., sez. V, 26.06.2015, n.
2611; id., sez. VI, 27.04.2015, n. 2116; id., sez. VI, 09.04.2015, n. 1782; id., sez. VI, 30.03.2015, n. 1652;
id. sez. V, 20.01.2015, n. 163; id., sez. III, 19.12.2014, n. 6174)” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.04.2018 n. 2277 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
permesso di costruire in sanatoria – immobile in
comproprietà – necessità del consenso di tutti i
comproprietari per il rilascio del titolo abilitativo
richiesto – parere
(Legali Associati per Celva,
nota
06.04.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di Ayas ha
ricevuto una domanda di Permesso di Costruire in sanatoria
per opere di risanamento e rimodellazione di giardino a
servizio di edificio esistente, in seguito all’esecuzione di
opere di sostituzione della fognatura gravemente
danneggiata. Le opere erano state eseguite senza alcun
titolo autorizzativo.
A seguito dell’istruttoria eseguita dall’Ufficio tecnico
comunale si è verificato che detto terreno non appartiene in
modo esclusivo al richiedente ma anche ad altri intestatari
che non risultano presenti nella richiesta.
Al fine del rilascio del provvedimento , quindi, è stato
richiesto di integrare la domanda con la firma di tutti i
comproprietari.
In data 22/01/2018 è pervenuta una lettera da parte di un
comproprietario non richiedente la sanatoria che specifica
che “...declina ogni responsabilità riguardo alle opere
eseguite su detta corte in quanto del tutto estranea ai
lavori per i quali è stata richiesta sanatoria. Ella , non
ha conoscenza degli interventi effettivamente eseguiti sulla
corte in questione , non li ha autorizzati e non ha
incaricato né un professionista né un impresa ad eseguirli.
E’ stata inoltre avvisata delle richiesta di sanatoria solo
a posteriori ….. Si riserva di adire le vie legali nel caso
se ne presentasse l’esigenza.”
Riferimenti normativi: Codice civile; Art. 1102 del
codice civile; Ordinanza della Cassazione Sez. VI n. 5729
del 23/03/2015; Sentenza TAR Molise n. 101 del 19/03/2008,
Sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV n. 3823 del
07/09/2016
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Nessuna
Quesiti: Con la presente si richiede se il Comune sia
tenuto a richiedere la condivisione della domanda da parte
di tutti i comproprietari oppure possa rilasciare il titolo
abilitativo in sanatoria al solo richiedente
comproprietario. |
marzo 2018 |
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EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
immobile realizzato in area sottoposta a vincolo
paesaggistico in assenza di titolo – accertamento positivo
di compatibilità – istanza di rilascio concessione in
sanatoria con mutamento della destinazione d’uso –
provvedimenti consequenziali in capo all’Ente locale –
parere (Legali Associati per Celva,
nota 28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: In data 21.03.1986 il
proprietario di un immobile rurale, realizzato abusivamente
in area sottoposta a vincolo paesaggistico, presenta una
richiesta di condono ai sensi della legge n. 47 del
28.02.1985. L’amministrazione comunale non rilascia il
condono poiché la Soprintendenza si esprime con parere
negativo con provvedimento n. 9923/TP del 20.05.2002 (in
allegato).
I nuovi proprietari dell’immobile, in data 13.07.2017,
presentano presso la Soprintendenza domanda di accertamento
della compatibilità paesaggistica proponendo, questa volta,
sulla base delle motivazioni del provvedimento di diniego
del 2002, il recupero del fabbricato con intervento di
adeguamento e rimozione delle superfetazioni. Tuttavia il
recupero del fabbricato prevede la demolizione, la
ricostruzione e il contestuale cambio di destinazione d’uso
(da agro-silvo-pastorale ad abitazione temporanea).
La struttura regionale preposta alla tutela del vincolo,
riesaminato il caso in questione, si esprime ‘con parere
favorevole al mantenimento in opera di quanto realizzato e
dispone la realizzazione degli interventi di adeguamento e
rimozione delle superfetazioni di cui agli allegati
elaborati progettuali, da ultimarsi nel termine di otto mesi
dalla data di notifica” (nota n. 825/TP del 07.08.2018 in
allegato).
Riferimenti normativi: .
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: .
Quesiti: L’Amministrazione comunale chiede come
procedere al fine di consentire la realizzazione delle
disposizioni impartite dalla Soprintendenza, tenuto conto
che le stesse si inseriscono nel procedimento di condono
edilizio del 1986 col quale si chiedeva solo di
regolarizzare un manufatto rurale abusivo, e come consentire
il contestuale cambio di destinazione d’uso, tenuto conto
dell’imprescindibile unitarietà dell’intervento proposto e
dell’onerosità dello stesso. |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Vergine,
EFFETTI DELLA DOMANDA IN SANATORIA EX ART. 36 DEL DPR
380/2001 IN CASO DI PREGRESSA ADOZIONE DELL’ORDINANZA DI
DEMOLIZIONE. Breve nota alla sentenza
22.03.2018 n. 468
del TAR Puglia–Lecce.
...
La
sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia –Sez.
I di Lecce–
esamina il caso del ricorso proposto avverso l’ordinanza di
demolizione con l’unico motivo della presentazione della
domanda di sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001.
Tale disposizione espressamente prevede che decorsi 60
giorni dall’istanza senza che l’amministrazione si pronunci
si formi il silenzio-rigetto (III comma), che, se non
impugnato, rende definitivo il provvedimento implicito di
diniego.
La novità dell’arresto giurisprudenziale del Tar è
rappresentato dal principio secondo cui anche nel caso in
cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n.
241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni
ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla
quale il privato non ha dato seguito, il termine per il
perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino
alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha
l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio
(ordinanza di demolizione) in quanto –precisa il TAR– la
mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine
demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che
l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
Questo indirizzo è conforme alla più recente giurisprudenza
del Consiglio di Stato secondo cui “La presentazione di
una nuova istanza ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non
rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e,
quindi, non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta
carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso
l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un
arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva
che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della
domanda di sanatoria. Sostenere che, nell'ipotesi di
rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento
di conformità, l'Amministrazione debba riadottare
l'ordinanza di demolizione, equivarrebbe a riconoscere in
capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”
(Cons. di Stato, sez. VI, 04.04.2017 n. 1565) (22.03.2018 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi
dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di
rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato
seguito, il termine per il perfezionamento del
silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del
silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha
l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio
(ordinanza di demolizione) in quanto la mancata impugnazione
conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente
impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova
ordinanza di demolizione”.
---------------
La ricorrente ha impugnato l'ordinanza n. 25 del 25.11.2016
con la quale il Comune di Seclì le ha intimato la
demolizione di un fabbricato in muratura della superficie di
mq. 83,67, realizzato in assenza del previo rilascio del
necessario titolo edilizio.
Nell’atto introduttivo la ricorrente ha allegato di avere
presentato, in data 24.02.2017, istanza di accertamento di
conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed ha
eccepito, come unico motivo di ricorso, la conseguente
illegittimità sopravvenuta dell’atto impugnato.
Il Comune di Seclì si è costituito in giudizio e con memoria
depositata in data 19.01.2018 ha evidenziato il formarsi del
silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del
2001 sull’istanza presentata dalla ricorrente, essendo
decorsi sessanta giorni dal deposito senza che l’Ente si sia
espresso favorevolmente e non avendo, peraltro, la signora
Mo. articolato alcuna osservazione dopo l’invio da parte del
Comune del preavviso di diniego ex art. 10-bis della Legge
n. 241 del 1990, né prodotto l’ulteriore documentazione
preannunciata con mail del 18.05.2017.
Il Collegio all’esito del giudizio, sulla base delle difese
assunte dalle parti, degli atti prodotti e dei principi
applicabili alla materia, ritiene il ricorso infondato.
Invero, la ricorrente ha articolato quale unica doglianza
l’illegittimità sopravvenuta del provvedimento impugnato,
per effetto della presentazione della domanda ex art. 36
D.P.R. n. 380 del 2001in relazione al fabbricato abusivo, ma
su tale domanda, come dimostrato dall’Ente convenuto, si è
formato il silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n.
380 del 2001, provvedimento implicito che la signora Mo. non
ha impugnato nei termini di legge, con conseguente
consolidamento dell’ordine demolitorio inizialmente
impartito, senza necessità che l’Ente emetta una nuova
ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, sentenza n.
1565 del 2017) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.03.2018 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è possibile
applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n.
689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
L’oggetto del contendere riguarda la
possibilità di applicare la previsione di cui all’art. 16
della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai
sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
La questione va definita sulla base
della natura (punitiva o ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si
controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa
la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che
trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della
legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la
sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare
alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la
finalità prevista dal legislatore.
Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è
preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente
affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella
sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
- “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di
conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014,
convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo
di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale
dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di
demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi
lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per
procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le
relative somme, per poi rivalersi sul responsabile
dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello
stesso”;
- “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne
l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante
dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti,
il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro
vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle
sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
La natura ripristinatoria della sanzione di cui si
controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata
a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n.
689/1981.
---------------
4) L’oggetto del contendere riguarda la possibilità di
applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n.
689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001,
possibilità negata dal Comune di Aramengo nel caso in esame,
nonostante la richiesta in tal senso presentata dai
ricorrenti.
4.1) Il citato art. 31 (“Interventi eseguiti in assenza
di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali”) così dispone al comma 4-bis, in
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione: “L'autorità
competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione
amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro
e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e
sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di
abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma
2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio
idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata
nella misura massima…”.
Nel caso in esame la sanzione è stata irrogata nella misura
massima in quanto gli abusi sono stati realizzati dai
ricorrenti in area in cui “gli elementi di pericolosità
geomorfologica sono tali da impedirne l’utilizzo”.
A sua volta l’art. 16 della legge n. 689/1981 così dispone
al primo comma: “E' ammesso il pagamento di una somma in
misura ridotta pari alla terza parte del massimo della
sanzione prevista per la violazione commessa, o, se più
favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione
edittale, pari al doppio del relativo importo oltre alle
spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni
dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata,
dalla notificazione degli estremi della violazione”.
4.2) I ricorrenti sostengono:
a) che l’istituto della riduzione della sanzione ha portata
generale, come risulta dall’art. 12 della stessa legge n.
689/1981, secondo cui: “Le disposizioni di questo Capo si
osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia
diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali
è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista
in sostituzione di una sanzione penale…”; tale istituto
è applicabile anche alle sanzioni pecuniarie in materia
edilizia, non essendovi disposizioni in senso contrario, né
incompatibilità, posto che tali sanzioni presentano natura
punitiva (e non ripristinatoria) avendo finalità repressive
e preventive; e ciò vale anche per la sanzione di cui
all’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001;
b) che il diniego opposto dall’Amministrazione alla richiesta di
riduzione della sanzione è comunque illegittimo perché
totalmente privo di motivazione.
4.3) Come emerge dalle stesse censure formulate nel ricorso,
la questione va definita sulla base della natura (punitiva o
ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si
controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa
la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che
trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della
legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la
sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare
alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la
finalità prevista dal legislatore.
4.4) Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è
preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente
affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella
sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
- “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di
conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014,
convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo
di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale
dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di
demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi
lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per
procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le
relative somme, per poi rivalersi sul responsabile
dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello
stesso”;
- “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne
l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante
dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti,
il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro
vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle
sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
4.5) La natura ripristinatoria della sanzione di cui si
controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata
a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n.
689/1981. Perciò il Comune di Aramengo ha legittimamente
opposto un diniego alla richiesta in tal senso formulata dai
ricorrenti, senza che fosse necessaria una particolare, più
dettagliata motivazione.
5) In conclusione, le censure formulate nel ricorso
risultano infondate e il ricorso stesso va respinto. Lo
stesso vale per i motivi aggiunti, in cui sono formulate
censure di illegittimità derivata (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 20.03.2018 n. 336 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ORDINE DI DEMOLIZIONE CONSERVA LA SUA EFFICACIA NEI
CONFRONTI DELL’EREDE DEL CONDANNATO E NON È CONTRARIO ALLA
CEDU.
Nell’ipotesi di acquisto dell’immobile
per successione mortis causa intervenuto dopo la
irrevocabilità della sentenza di condanna, l’ordine di
demolizione conserva la sua efficacia nei confronti
dell’erede del condannato stante la preminenza
dell’interesse pubblico cui è preordinato il provvedimento
amministrativo emesso dal giudice penale, ovverosia la
tutela dell’assetto paesaggistico od urbanistico, rispetto a
quello privatistico della conservazione del manufatto nel
proprio patrimonio vantato dall’avente causa, non entrando
in gioco, in ragione della diversa natura rivestita dalla
ingiunzione demolitoria, il carattere personale della pena;
ne discende, altresì, che l’ordine demolitorio non
perseguendo, a differenza delle sanzioni penali detentive e
pecuniarie, alcuna finalità punitiva, è del tutto conforme
alla Convenzione e.d.u., essendo insuscettibile ad essere
declinato in termini quantitativi che consentano di
evidenziarne la particolare afflittività rispetto al
patrimonio del condannato.
Il tema
oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza
in esame è quello relativo alla natura, penale od
amministrativa,
dell’ordine di demolizione ed alla sua compatibilità con i
principi
fissati dalla giurisprudenza della Corte e.d.u. con
riferimento, in
particolare, agli artt. 7 e 1, protocollo n. 1 della
Convenzione e.d.u.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il
Tribunale,
adito in funzione di G.E., aveva rigettato il ricorso con
cui
l’interessata, destinataria di ordine di demolizione delle
opere
edilizie abusive per le quali era stata pronunciata nei suoi
confronti sentenza penale di condanna da parte dello stesso
Tribunale, divenuta irrevocabile, aveva richiesto la revoca
dell’ingiunzione
demolitoria sul presupposto, per quanto qui interessa,
della sua sopravvenuta estinzione per prescrizione e
della propria estraneità al procedimento penale, essendo
stata la pronuncia di condanna e la conseguente sanzione
accessoria resa nei confronti di altro soggetto, deceduto,
cui
era subentrata jure successionis.
Avverso tale sentenza
aveva
proposto ricorso per cassazione l’interessata, in
particolare
sostenendo che l’ordine di demolizione non può ricadere su
di un soggetto estraneo all’illecito penale, tale essendo la
condizione della stessa, erede del condannato deceduto, e
che sotto tale profilo l’ordinanza impugnata si poneva in
contrasto
con i principi sia sovrannazionali (art. 7 Cedu) che interni
(art. 42 c.p.) secondo cui nessuno può essere punito per un
fatto che non abbia commesso, dovendo la pena seguire la
persona e non potendo ricadere su soggetti ad essa estranei:
anche considerando la natura amministrativa dell’ordine di
demolizione, trattasi pur sempre di una pena accessoria alla
condanna penale, tanto è vero che la stessa viene revocata
nel
caso di improcedibilità dell’azione penale o per morte del
reo
quando il decesso interviene in corso di causa.
La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso
dell’interessata,
ha ricordato che è pacifico nella giurisprudenza di
legittimità
che l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso
dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione
amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto
essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono
in
rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o
personale di godimento, anche se si tratti di soggetti
estranei
alla commissione del reato: esso conserva, pertanto, la sua
efficacia anche nei confronti dell’erede o dante causa del
condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o
personale di godimento, potendo essere revocato solo nel
caso in cui siano emanati, dall’ente pubblico cui è affidato
il
governo del territorio, provvedimenti amministrativi con
esso
assolutamente incompatibili (Cass. pen., Sez. III, 11.12.2009, n. 47281, A., CED, 245403; Id., Sez. III, 23.10.2015,
n. 42699, C., CED, 265193 che ha ritenuto legittimamente
eseguibile l’ordine di demolizione di immobile conferito,
dall’erede
dell’autore dell’abuso, in fondo patrimoniale, oggetto
di successiva azione revocatoria esperita dai creditori).
È
chiaro dunque che la titolarità del manufatto, a qualunque
titolo conseguita, fa sì che anche i terzi subiscano le
conseguenze
della demolizione, allo stesso modo in cui sono soggetti
agli effetti della acquisizione gratuita del manufatto con
la
relativa area di sedime al patrimonio indisponibile del
Comune,
d.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 31, in quanto la natura
pubblicistica
dell’ordine che colpisce il bene abusivo in ragione della
lesione arrecata all’ambiente, prescinde dalle vicende
traslative
di natura civilistica (Cass. pen., Sez. III, 11.04.2014,
n.
16035, A., CED, 259802; Id., Sez. III, 23.10.2015, n.
42699, C., CED, 265193).
Conclusione questa che peraltro
vanifica, per i Supremi Giudici, alla radice l’ulteriore
rilievo
difensivo relativo all’eccessiva severità della pena
ritenuta
dalla Corte di Strasburgo quale elemento costitutivo della
natura penale della sanzione: non perseguendo l’ordine di
demolizione, a differenza delle sanzioni pecuniarie
applicate
nella fattispecie sottoposta all’esame dei giudici europei,
alcuna finalità punitiva ne consegue l’insuscettibilità
della
medesima ad essere declinata in termini quantitativi che
consentano
di evidenziarne la particolare afflittività rispetto al
patrimonio del condannato.
Né d’altra parte potrebbe
ritenersi,
sempre con riferimento all’ordinamento sovrannazionale, che
la pronuncia resa dalla Corte di Strasburgo in ordine alla
violazione
dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo e del conseguente principio del ne bis in
idem
discendente dal sistema del doppio binario, amministrativo e
penale, relativo alle norme di diritto interno volte alla
repressione
degli abusi di mercato in seguito alle modifiche apportate
dalla L. 18.04.2005, n. 62 al D.Lgs. 24.02.1998,
n.
58 per essere stati i ricorrenti perseguiti, dopo
l’applicazione
delle sanzioni amministrative particolarmente afflittive sul
piano patrimoniale, nell’ambito di un procedimento penale
per gli stessi fatti, possa avere ricadute dirette sulla
fattispecie
in esame (cfr. Cedu 04.03.2014, Grande Stevens c. Italia)
nella quale in tanto scatta, nell’ottica di garantire le
esigenze di
celerità sottese alla riduzione in pristino dell’assetto del
territorio,
l’ordine di demolizione giudiziale in quanto non abbia
trovato esecuzione quello amministrativo: lungi dall’attuare
una duplicazione sanzionatoria per il medesimo fatto
illecito, la
sanzione in esame resta sempre la medesima, e dunque di
natura amministrativa, ancorché irrogabile dal giudice
penale
all’esito dell’affermazione della responsabilità penale che
peraltro opera a prescindere dal fatto come sopra
evidenziato
che l’opera abusiva sia di proprietà del soggetto condannato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2018
n. 9886 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo
amministrativo– un illecito a carattere permanente e
pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata
realizzata dal precedente proprietario dell’immobile”.
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere
sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del
contratto in presenza dei relativi presupposti), sono
infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o
in parte abusivo) sotto il profilo privatistico.
L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica
del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la
normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro
dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei
confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei
poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione
quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi
atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti
del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del
titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e
dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo
affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella
civile)”.
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione
dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…)
ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione”.
---------------
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, tenuto conto
che “l’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo
amministrativo– un illecito a carattere permanente e
pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata
realizzata dal precedente proprietario dell’immobile” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1886).
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere
sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del
contratto in presenza dei relativi presupposti), sono
infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o
in parte abusivo) sotto il profilo privatistico.
L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica
del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la
normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro
dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei
confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei
poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione
quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi
atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti
del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del
titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e
dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo
affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella
civile)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 30.04.2013,
n. 2363).
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione
dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente
o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…)
ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione” (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo Consiglio ha a più riprese chiarito che
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
---------------
Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di costruire impugnato
ed i successivi provvedimenti e cioè:
a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38, d.P.R.
380/2001, in relazione alla porzione abitativa
dell’immobile;
b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto
l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del
certificato di agibilità del 06.06.2010;
c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con
il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie
con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni
in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del
certificato di agibilità del 07.07.2011;
d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n.
18/2012, in forza del quale è stato autorizzato
l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di
porzione rustica del fabbricato in questione,
un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimi
non eseguono il provvedimento oggi impugnato, ma
costituiscono autonomo esercizio del potere discrezionale
dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei
precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di
altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale
percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di
costruire non farebbe venire meno i plurimi titoli
autorizzatori sui quali fonda la costruzione avversata
dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo non
potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita
sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla
demolizione dell’immobile in questione con conseguente
riduzione in pristino.
---------------
7. L’odierno appello è improcedibile per sopravvenuto
difetto di interesse.
8. Preliminarmente, è necessario chiarire la portata della
sentenza n. 780/2006 di questo Consiglio, che -nel
confermare la sentenza del TAR per il Veneto di annullamento
del permesso di costruire n. 3/2005, rilasciato
dall’amministrazione appellata a favore dell’originario
controinteressato– ha respinto l’appello principale di
quest’ultimo.
8.1. Nella specie il Consiglio:
a) conveniva con le conclusioni raggiunte dal primo giudice in
relazione al fatto che la superficie relativa alla sottozona
E3, ricompresa nel fondo rustico dell’odierno appellato, su
cui insisteva l’intervento, fosse inferiore ai minimi
prescritti dalla disciplina regionale;
b) rilevava come l’annullamento del permesso di costruire n.
3/2005, non potesse non travolgere l’intero provvedimento,
stante la sua inscindibilità formale e la unitarietà
strutturale e funzionale dell’intervento edilizio;
c) aggiungeva, però, che restava: “…salva la potestà del Comune
di valutare, in diverso contesto procedimentale,
l'ammissibilità di interventi edificatori concernenti
esclusivamente annessi rustici per attività aziendale”.
8.2. Tanto evidenziato, ritiene il Collegio che la pronuncia
in questione non abbia concluso per la obbligatorietà della
demolizione di tutto quanto edificato dall’odierno
appellato.
La sopra riportata precisazione contenuta nel giudicato,
infatti, ha legittimato l’amministrazione comunale ad
adottare ulteriori provvedimenti salvaguardando gli annessi
rustici.
Dall’esame degli eventi e delle iniziative procedimentali
successivi al giudicato, risulta che all’indomani
dell’adozione del permesso di costruire n. 39/2006, avente
ad oggetto “la costruzione di un fabbricato ad uso
annessi rustici in Z.T.O. E3, ai sensi dell’art. 6 della
L.R. 24/1985”, quivi impugnato, l’amministrazione
comunale ha emanato:
a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38,
d.P.R. 380/2001, in relazione alla porzione abitativa
dell’immobile;
b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto
l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del
certificato di agibilità del 06.06.2010;
c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con
il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie
con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni
in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del
certificato di agibilità del 07.07.2011;
d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n.
18/2012, in forza del quale è stato autorizzato
l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di
porzione rustica del fabbricato in questione.
In particolare, dall’esame di quest’ultimo titolo edilizio
-che ha ad oggetto “ampliamento di casa di abitazione in
zona agricola mediante utilizzo di porzione rustica di
fabbricato esistente”- emerge che lo stesso è stato
adottato anche in forza delle ll.rr. Veneto n. 14/2009 e
13/2011, ossia in forza di una disciplina che modifica
sensibilmente la materia de qua e che spezza del
tutto ogni possibile collegamento tra l’esercizio del potere
edilizio cristallizzatosi con il provvedimento impugnato in
prime cure con quello esercitato successivamente
dall’amministrazione e culminato con il citato permesso n.
18/2012.
8.3. A questo punto occorre chiarire che l’eventuale
annullamento del permesso di costruire n. 39/2006, non
avrebbe portata caducante rispetto ai successivi
provvedimenti autorizzatori rilasciati dall’amministrazione
comunale.
Questo Consiglio (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez.
IV, 21.09.2015, n. 4404) ha a più riprese chiarito che
nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre
distinguere tra invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di
vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi
precisi:
a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato
direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla
medesima serie procedimentale;
b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione
del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile
conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare riguardo al
coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia
inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della
caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le
usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
8.4. Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di
costruire impugnato ed i successivi provvedimenti sopra
elencati un rapporto di consequenzialità necessaria, in
quanto quest’ultimi non eseguono il provvedimento oggi
impugnato, ma costituiscono autonomo esercizio del potere
discrezionale dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei
precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di
altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale
percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di
costruire n. 39/2006, non farebbe venire meno i plurimi
titoli autorizzatori sui quali fonda la costruzione
avversata dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo
non potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita
sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla
demolizione dell’immobile in questione con conseguente
riduzione in pristino (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
n. 2637 del 2016).
8.5. La statuizione di improcedibilità non trova ostacoli
neppure nella norma sancita dall’art. 34, comma 3, cod. proc.
amm., non essendo stata proposta la relativa domanda di
accertamento o comunque una pertinente istanza che manifesti
l’interesse della parte per un tale tipo di pronuncia (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 15.06.2016, n. 2637; Ad. plen., n. 4
del 2015; Sez. IV, 28.12.2012, n. 6703, 07.11.2012, n. 5674
cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), cod.
proc. amm.).
9. L’odierno appello deve, quindi, essere dichiarato
improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2018 n. 1247 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Calcolo
della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380/2001.
Con riguardo al calcolo della sanzione
pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, è corretta
le decisione del comune di ancorarla al momento attuale,
applicando le tariffe vigenti, e non a quello della
realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un
abuso di carattere permanente che non può consentire
all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro
legato al decorso del tempo.
La stima va effettuata in ogni caso al momento in cui il
Comune irroga la sanzione pecuniaria, e non con riferimento
alla data di accertamento dell’infrazione o di ultimazione
dell’opera abusiva; ciò onde evitare che il responsabile
dell’abuso possa ritrarre un indebito arricchimento per
effetto dell’incremento del prezzo della costruzione
successivo all’ultimazione dell’abuso e che la sanzione
pecuniaria si concreti in un vantaggio economico rispetto
all’alternativa costituita dalla sanzione demolitoria.
---------------
2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo
stesso non è fondato.
...
3.4. Infine, con riguardo al calcolo della sanzione
pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, appare
corretta le decisione del Comune di ancorarla al momento
attuale, applicando le tariffe vigenti, e non a quello della
realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un
abuso di carattere permanente che non può consentire
all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro
legato al decorso del tempo.
Secondo la giurisprudenza, infatti, “la stima va
effettuata in ogni caso al momento in cui il Comune irroga
la sanzione pecuniaria, e non con riferimento alla data di
accertamento dell’infrazione o di ultimazione dell’opera
abusiva. Ciò onde evitare che il responsabile dell’abuso
possa ritrarre un indebito arricchimento per effetto
dell’incremento del prezzo della costruzione successivo
all’ultimazione dell’abuso e che la sanzione pecuniaria si
concreti in un vantaggio economico rispetto all’alternativa
costituita dalla sanzione demolitoria” (TAR Puglia,
Bari, III, 15.06.2015, n. 877; altresì, Consiglio di Stato,
IV, 24.11.2016, n. 4943; TAR Veneto, II, 07.12.2017, n.
1114) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Di regola, al fine di sanare un
manufatto abusivo è richiesta la sussistenza del requisito
della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto
della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento
delle realizzazione dell’intervento che al momento della
sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo
carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne
discendono.
---------------
2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo
stesso non è fondato.
3. Con le censure contenute nel citato ricorso per motivi
aggiunti, da esaminare congiuntamente, si assume
l’illegittimità della sanzione pecuniaria in quanto non si
sostituirebbe, ma si aggiungerebbe a quella demolitoria, e
comunque riguarderebbe un abuso non più attuale, visto che
il nuovo strumento urbanistico comunale ha ridotto la fascia
di rispetto cimiteriale; in ogni caso, la repressione
dell’abuso sarebbe avvenuta a distanza di lungo tempo dalla
sua commissione, ascrivibile peraltro ad un altro soggetto
(il costruttore), in violazione dei principi di affidamento
e buona fede dei destinatari dell’atto, come pure il calcolo
della sanzione sostitutiva sarebbe stato effettuato
prendendo in considerazione, illegittimamente, le tariffe
attualmente in vigore, piuttosto che quelle vigenti
all’epoca del commesso abuso.
3.1. Le censure sono infondate.
In primo luogo, va ribadito che la sanzione pecuniaria
irrogata ai ricorrenti sostituisce quella demolitoria, come
emerge con evidenza dallo stesso testo dell’ordinanza n.
259/2014 che richiama l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001, che consente la conversione della misura
ripristinatoria in quella pecuniaria laddove vi sia un
pregiudizio per la parte eseguita in conformità in caso di
esecuzione della demolizione; ciò è stato altresì confermato
nella nota comunale, depositata in giudizio in data
03.04.2015 in esecuzione dell’ordinanza istruttoria n.
2988/2014.
3.2. Quanto all’intervenuta riduzione, attraverso
l’approvazione del nuovo strumento urbanistico comunale,
della fascia di rispetto cimiteriale e quindi alla
sopraggiunta attuale conformità del fabbricato, va
evidenziato che, di regola, al fine di sanare un manufatto
abusivo è richiesta la sussistenza del requisito della c.d.
doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della
disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle
realizzazione dell’intervento che al momento della
sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo
carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne discendono
(cfr. Consiglio di Stato, VI, 18.07.2016, n. 3194; TAR
Lombardia, Milano, II, 28.07.2017, n. 1706).
Trattandosi di fabbricato realizzato in violazione del
limite, allora vigente, della fascia di rispetto
cimiteriale, lo stesso non può essere oggetto di sanatoria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una
particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a
tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo
affidamento.
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso
responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato,
rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può
legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato
che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non
prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto
cui si imputa la trasgressione.
---------------
3.3. Nemmeno possono essere accolti i rilievi formulati in
relazione al lungo lasso di tempo trascorso tra l’abuso
commesso e l’adozione dell’ordinanza di demolizione, poi
convertita in sanzione pecuniaria, in violazione dei
principi di affidamento e buona fede dei destinatari, che
peraltro non hanno commesso direttamente l’abuso.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuta
realizzazione di opere difformi rispetto a quanto
autorizzato con i titoli edilizi e per la violazione della
disciplina edilizia e urbanistica, determinandosi in tal
modo la modifica dei parametri costruttivi, oltre che della
localizzazione dell’edificio rispetto all’area di
pertinenza.
Tale motivazione appare satisfattiva degli obblighi di
legge, atteso che il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una
particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a
tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo
affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n.
9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso
responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato,
rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può
legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato
che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non
prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto
cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II,
03.11.2016, n. 2013; TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n.
2261; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL RILASCIO DELLA AUTORIZZAZIONE ALL’OCCUPAZIONE TEMPORANEA
DEL SUOLO PUBBLICO NON SCUSA L’IMPUTATO CHE COMMETTE ABUSI
EDILIZI.
La valutazione dello stato soggettivo
dell’imputato, al fine dell’accertamento della sua buona
fede, idonea a escludere la colpevolezza, deve tenere conto
tanto dei fattori esterni che possono aver determinato
nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo
comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del
medesimo, sicché è necessaria una siffatta indagine onde
verificare la esistenza di uno stato di buona fede o la
scusabilità dell’errore di diritto.
La questione
giuridica oggetto di esame da parte della Suprema
Corte verte sul tema dell’applicabilità della scriminante
della
buona fede nelle contravvenzioni edilizie in costanza di un
convincimento
soggettivo di liceità del proprio comportamento sotto
il profilo urbanistico-edilizio.
La vicenda processuale
trae origine
dalla sentenza con cui il Tribunale aveva dichiarato non
doversi
procedere nei confronti dell’imputato in relazione al reato
di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma1, lett. b),
contestatogli per
avere realizzato, in assenza di titolo abilitativo e in
contrasto con
gli strumenti urbanistici, una pedana delle dimensioni di
metri 6x5 e della superficie di 30 metri quadrati, utilizzata come
area per il
consumo di alimenti nell’anno 2015 e nell’anno 2016 per un
tempo superiore a novanta giorni, ritenendo mancante
l’elemento
soggettivo di tale reato, in conseguenza del rilascio da
parte della amministrazione comunale di autorizzazione alla
occupazione
del suolo pubblico per un periodo superiore a sei mesi, ai
sensi della L.R. Emilia Romagna n. 15 del 2013, art. 7,
lett. f).
Avverso tale decisione proponeva ricorso il PM, in sintesi
sostenendo che era stato impropriamente ritenuto scusabile
un
errore sulla legge penale, eccependo l’irrilevanza dell’atto
amministrativo
favorevole adottato dalla amministrazione comunale a
favore dell’imputato, trattandosi solamente della
autorizzazione
alla occupazione del suolo pubblico e non anche ad
edificare,
inidonea a scusare l’errore sulla legge penale ritenuto
configurabile
dal Tribunale, ricordando comunque l’orientamento
interpretativo
secondo cui è obbligo del privato verificare comunque,
anche in caso di rilascio di provvedimento favorevole da
parte
della pubblica amministrazione, la conformità delle opere
edilizie
alle norme urbanistiche.
La tesi ha convinto i Supremi giudici, che, nell’affermare
il
principio di cui in massima, hanno accolto il ricorso del
P.M.,
rilevando come la sentenza risultava fondata esclusivamente
sul dato formale del rilascio della autorizzazione alla
occupazione
del suolo pubblico per un periodo non superiore a sei
mesi, che avrebbe determinato nell’imputato la convinzione
della liceità della sua condotta anche sul piano urbanistico-edilizio,
in assenza di qualsiasi indagine a proposito delle
conoscenze
e delle informazioni assunte dall’imputato, nonché
riguardo alle eventuali assicurazioni fornitegli dagli
uffici amministrativi
ai quali si era rivolto e alle prassi esistenti nella realtà
territoriale di riferimento, cosicché risultava mancante il
dato
della evidenza della sussistenza della causa di
proscioglimento
che aveva determinato il G.I.P. a pronunciare la sentenza
impugnata.
Nel caso in esame, il giudice, richiesto di emettere
decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato,
aveva
disatteso tale richiesta e pronunciato la sentenza di
proscioglimento
impugnata, ritenendo, sia pur implicitamente, evidente
la mancanza di rilevanza penale della condotta
dell’imputato, in
assenza, però, di qualsiasi approfondimento circa le sue
conoscenze
della disciplina applicabile, il suo stato soggettivo, la
sua
eventuale buona fede, che avrebbero potuto ipoteticamente
consentire di addivenire a una sentenza di proscioglimento
per
l’erroneo, ma incolpevole, convincimento della liceità della
condotta (v., per i precedenti in materia: Cass. pen., Sez.
VI,
22.06.2011, n. 43646, S., CED, 251045) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.02.2018 n. 8410 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA VALUTAZIONE DI ORDINE ECONOMICO INERENTE AL COSTO DELLE
SPESE DI DEMOLIZIONE NON GIUSTIFICA IL MANTENIMENTO
DELL’OPERA ABUSIVA.
La valutazione cui deve conseguire la
non eseguibilità della demolizione (ovvero, il prevalente
interesse pubblico e l’assenza di contrasto del manufatto
con rilevanti interessi urbanistici), ove la stessa sia di
ordine economico, inerente al costo delle spese di
demolizione, non può qualificare l’interesse al mantenimento
dell’opera abusiva, posto che ove assunta con criterio di
indefettibile interesse pubblico al mantenimento dell’opera
finirebbe per tradursi in fattore di contrasto con
l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n. 380
del 2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso
inoperante.
La questione
affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame
concerne un tema assai rilevante nella pratica applicazione
in
sede esecutiva dell’ordine di demolizione, attinente alla
individuazione
delle condizioni in presenza delle quali la P.A. può
“bloccare” l’esecuzione di tale ordine in costanza di un
interesse
pubblico al mantenimento dell’opera.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il
Tribunale,
quale giudice dell’esecuzione, aveva revocato l’ordine di
demolizione
delle opere abusive, di cui alla sentenza di condanna
divenuta irrevocabile, in presenza di acquisizione del bene
al
patrimonio del Comune e dell’adozione di una delibera
comunale
con la quale veniva dichiarato l’interesse pubblico al
mantenimento
dell’opere abusiva.
In particolare, il Consiglio
comunale aveva dichiarato la prevalenza dell’interesse pubblico
alla conservazione del manufatto perché da destinarsi a
concessione
in locazione o dismissione in conformità con quanto
previsto dalla L.R. Campania n. 5 del 2013, art. 1, comma 65,
e
del regolamento edilizio approvato dal Comune. Sulla scorta
di
tali dati di fatto, il Tribunale, con il provvedimento
impugnato,
aveva revocato l’ordine di demolizione imposto con la
sentenza
di condanna.
Contro tale ordinanza proponeva ricorso per
cassazione
il P.M., in particolare sostenendo che la delibera del
Comune, con cui era dichiarato il prevalente interesse
pubblico
alla conservazione del manufatto, conteneva una generica
indicazione
della destinazione dell’opera a “concessione in locazione
o dismissione... in conformità a quanto previsto dalla L.R.
n. 5 del 2013”, senza, peraltro, farne corretta applicazione
in
quanto la legge citata, che disciplina il c.d. housing
sociale,
all’art. 1, comma 65 prevede, quale criterio per
l’assegnazione
delle opere in questione, “riconoscendo precedenza a coloro
che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite,
previa
verifica che gli stessi non dispongono di altra idonea
soluzione
abitativa, nonché procedure di un piano di dismissione degli
stessi”, non risultando, per contro, che il Comune aveva in
concreto verificato se l’occupante avesse i requisiti per
concorrere
all’assegnazione e non disponesse di altra utile dimora.
La tesi del P.M. è stata accolta dai giudici di legittimità
che,
nell’annullare l’ordinanza del tribunale, hanno ricordato
che il
Consiglio comunale può dichiarare legittimamente la
prevalenza
di interessi pubblici ostativi alla demolizione alle
seguenti condizioni:
1) assenza di contrasto con rilevanti interessi urbanistici
e,
nell’ipotesi di costruzione in zona vincolata, assenza di
contrasto
con interessi ambientali: in quest’ultimo caso l’assenza di
contrasto
deve essere accertata dall’amministrazione preposta alla
tutela del vincolo;
2) adozione di una formale deliberazione
del
consiglio con cui si dichiari formalmente la sussistenza di
entrambi i presupposti;
3) la dichiarazione di contrasto
della
demolizione con prevalenti interessi pubblici, quali ad
esempio
la destinazione del manufatto abusivo ad edificio pubblico,
ecc.
(Cass. pen., Sez. III, 10.10.2008, n. 41339, C. e altra,
inedita).
La natura eccezionale di tali ipotesi rispetto a quella che
dovrebbe essere la ordinaria conseguenza, ovvero l’esito
demolitorio,
impone una interpretazione restrittiva dei presupposti che
il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di
verificarne la
sussistenza, non potendosi fondare, la delibera comunale che
dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul
ripristino
dell’assetto urbanistico violato, su valutazioni di
carattere
generale (Cass. pen.,Sez. III, 29.01.2013 n. 11419, B., CED,
254421; Id., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, CED,
257140).
Il
tribunale non aveva dunque per i Supremi Giudici fatto
corretta
applicazione dei principi ermeneutici sopra riportati ed in
particolare
quello affermato nella sentenza (Cass. pen., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, cit.), nella quale è stato ribadito
il
principio secondo cui l’esistenza di un interesse pubblico
prevalente
sul ripristino dell’assetto urbanistico violato non può
essere
fondato su un “generico” riferimento alla destinazione, in
questo
caso a “concessione in locazione o dismissione... in
conformità a
quanto previsto dalla L.R. n. 5 del 2013”, genericamente
enunciato,
e da quanto affermato anche da Sez. III, 29.01.2013,
n. 11419 B., cit., secondo cui non può giustificarsi
l’interesse
concreto nel caso in cui, di fatto, la delibera costituisce
piuttosto
atto di indirizzo politico in quanto rimanda a successivi
atti
amministrativi (anche solo al fine di verificare i
presupposti
applicativi della Legge Regionale c.d. sull’housing sociale)
e dunque, rimanda, in definitiva, la valutazione dei
presupposti di
legge cui l’art. 31 cit. condiziona la non operatività della
demolizione.
Dunque, per la S.C., la valutazione di ordine economico,
inerente al costo delle spese di demolizione, non può
qualificare
l’interesse al mantenimento dell’opera abusiva, posto che
ove
assunta con criterio di indefettibile interesse pubblico al
mantenimento
dell’opera finirebbe per tradursi in fattore di contrasto
con l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n.
380 del
2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso inoperante (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.02.2018 n. 8055 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rammentato in via preliminare che, secondo il
principio “tempus regit actum”, la valutazione della
legittimità del provvedimento impugnato (ordinanza di
demolizione) va condotta “con riguardo alla situazione di
fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”,
Il Collegio ritiene di dover rilevare, in linea generale e
con riferimento alla fattispecie odierna, che:
- in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che
il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità
urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere
siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente
i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia
abusiva;
- né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia
dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla
presentazione della istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della
impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
- la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un
provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di
sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in
presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una
disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla
disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate
condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria
degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare
applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi
dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di
una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente,
si definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
- sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di
accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o
implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba
riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la
presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un
effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe
a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum”
del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di
paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel
medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica
autorità, il che non può ammettersi;
- posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di
demolizione non risultano compromesse dalla presentazione
della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del
menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima
comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi
uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente
fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o,
si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso
contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36
cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in
assenza o in difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché
●
qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene
accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego
ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il
venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere
abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità
dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche
in sede giurisdizionale, alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dell’intervento e sia al momento della
presentazione della domanda;
●
mentre, nel caso di rigetto della istanza, tacito o
esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura repressiva
adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non
era definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa
della conclusione del nuovo iter procedimentale, con la sola
specificazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il
diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non
può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà
prevista dalla legge e deve, pertanto, poter usufruire
dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi
all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse
alla mancata esecuzione dello stesso;
- il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica
dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del
tutto autonomo e differente dal precedente procedimento
sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con
l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o
difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono
ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il
riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito
negativo del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione
costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in
esito a un procedimento amministrativo sul quale non
interferisce l’eventuale conclusione negativa del
procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento
sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di
una esplicita previsione legislativa, in una inutile e
antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa.
---------------
5. L’appello è infondato e va respinto.
Le impugnate statuizioni della sentenza di primo grado sono
corrette e vanno confermate.
5.1. In via preliminare, anche in relazione a quanto dedotto
dall’appellante nell’ultima parte del secondo motivo
di impugnazione, specie sulla omessa considerazione, da
parte del Tar, della avvenuta presentazione, da parte del F.,
della istanza di cui all’art. 36 del t.u. n. 380 del 2001,
istanza che avrebbe un “effetto caducante” sulla
ingiunzione a demolire contestata in primo grado, il
Collegio ritiene di dover puntualizzare che l’avvenuta
presentazione della istanza e il fatto che sia pendente,
davanti al Tar del Lazio, un giudizio proposto dal Fu.
avverso e per l’annullamento del diniego di accertamento di
conformità n. 944/2012 opposto dal Comune sulla istanza del
ricorrente medesimo avanzata ai sensi del citato art. 36 (v.
sopra, p. 4., “in finem”), non assume rilievo ai fini
di una eventuale pronuncia di (im)proseguibilità del
presente gravame.
A questo proposito, rammentato in via preliminare che,
secondo il principio “tempus regit actum”, la
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va
condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di
diritto esistente al momento della sua adozione”
(sentenza n. 49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del
2016) (così C. cost., n. 224 del 2016) e precisato che
l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit.
risulta datata 13.10.2011 e, quindi, è posteriore di alcuni
mesi rispetto alla ordinanza di demolizione per la quale
oggi è controversia, adottata il 09.05.2011, il Collegio
ritiene di dover rilevare, in linea generale e con
riferimento alla fattispecie odierna, che:
- in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che
il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità
urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere
siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente
i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia
abusiva;
- né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia
dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla
presentazione della istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della
impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
- la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un
provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di
sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in
presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una
disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla
disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate
condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria
degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare
applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi
dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di
una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente,
si definisce doppia conformità, limita la valutazione
dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
- sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di
accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o
implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba
riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la
presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un
effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe
a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum”
del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di
paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel
medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica
autorità, il che non può ammettersi;
- posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di
demolizione non risultano compromesse dalla presentazione
della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del
menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima
comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura
ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi
uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente
fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o,
si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso
contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36
cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in
assenza o in difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché
qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene
accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego
ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il
venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere
abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità
dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche
in sede giurisdizionale, alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dell’intervento e sia al momento della
presentazione della domanda; mentre, nel caso di rigetto
della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile,
la misura repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua
efficacia, che non era definitivamente cessata, ma soltanto
sospesa, in attesa della conclusione del nuovo iter
procedimentale, con la sola specificazione che il termine
concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione
decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza
dell’interessato, il quale non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge e
deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui
assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le
conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello
stesso;
- il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica
dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del
tutto autonomo e differente dal precedente procedimento
sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con
l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o
difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono
ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il
riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito
negativo del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione
costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in
esito a un procedimento amministrativo sul quale non
interferisce l’eventuale conclusione negativa del
procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento
sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di
una esplicita previsione legislativa, in una inutile e
antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.02.2018 n. 1063 - link a
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gennaio 2018 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Il
condono non salva l'immobile. Se è in zona
sismica l'edificio abusivo può essere
abbattuto. Una sentenza della Cassazione
individua il pericolo di danno nel solo
rischio di terremoto.
L'abuso edilizio compiuto in zona sismica
che comprometta la stabilità di un edificio
va abbattuto anche se è stato oggetto di
condono. L'attualità del pericolo di danno
deve valutarsi non già in riferimento allo
stato asismico, bensì in relazione alla
possibilità, sempre incombente nelle zone
sismiche, di un movimento tellurico. Sicché
dalla inosservanza delle prescrizioni
tecniche deve desumersi una presunzione di
instabilità della costruzione realizzata, e,
quindi, una situazione di pericolo
permanente, da rimuovere senza indugio
alcuno.
È il principio espresso dalla Corte di
Cassazione, II Sez. civile, con la
sentenza 29.01.2018 n. 2115 con
la quale è stato rigettato un ricorso contro
la demolizione di un corpo di fabbrica
realizzato sulla superficie sovrastante un
immobile del tutto abusivo, con ripristino
del lastrico solare preesistente.
I giudici di piazza Cavour ricordano che
l'articolo 1127, secondo comma, c.c., fa
divieto al proprietario dell'ultimo piano
dell'edificio condominiale di realizzare
sopraelevazioni precluse dalle condizioni
statiche del fabbricato e consente agli
altri condomini di agire per la demolizione
del manufatto eseguito in violazione di tale
limite.
Inoltre lo stesso dettato normativo
impedisce altresì di costruire
sopraelevazioni che non osservino le
specifiche disposizioni dettate dalle leggi
antisismiche. Fondando la necessità di
adeguamento alla relativa normativa tecnica
su una presunzione di pericolosità, senza
che abbia rilievo, ai fini della valutazione
della legittimità delle opere sotto il
profilo del pregiudizio statico, il
conseguimento della concessione in sanatoria
relativa ai corpi di fabbrica elevati sul
terrazzo dell'edificio. Atteso che tale
provvedimento prescinde da un giudizio
tecnico di conformità alle regole di
costruzione.
Osservano ancora i cassazionisti che, in via
generale, la salvaguardia delle condizioni
statiche dell'edificio ha carattere
assoluto. L'accertamento delle condizioni
statiche non costituisce propriamente un
limite all'esercizio del diritto a
sopraelevare, ma un presupposto della sua
esistenza. Il relativo divieto deve essere
inteso non solo nel senso che le strutture
del fabbricato devono consentire di
sopportare il peso della sopraelevazione, ma
anche nel senso che dette strutture devono
permettere di sopportare –una volta eretta
la nuova fabbrica– l'urto di forze in
movimento quali le sollecitazioni di origine
sismica.
Pertanto, quando le norme antisismiche
prescrivano particolari cautele tecniche da
adottarsi, in ragione delle caratteristiche
del territorio, nella sopraelevazione degli
edifici, esse sono da considerarsi
integrative dell'articolo 1127, comma 2,
c.c., e la loro inosservanza determina una
presunzione di pericolosità della
sopraelevazione che può essere superata
esclusivamente mediante l'allegazione della
prova, incombente sull'autore della nuova
costruzione, che non solo la
sopraelevazione, ma anche la struttura
sottostante, sia idonea a fronteggiare il
rischio sismico
(articolo ItaliaOggi del
03.02.2018).
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MASSIMA
Osserva il collegio che, in via
generale, l'art. 1127 c.c. (con particolare
riferimento al disposto del comma 2°)
prevede il rispetto di tre condizioni,
di cui quella riguardante la salvaguardia
delle condizioni statiche dell'edificio ha
carattere assoluto.
L'accertamento delle
condizioni statiche non costituisce
propriamente un limite all'esercizio del
diritto a sopraelevare, ma un presupposto
della sua esistenza. Il relativo divieto
deve essere inteso non solo nel senso che le
strutture del fabbricato devono consentire
di sopportare il peso della sopraelevazione,
ma anche nel senso che dette strutture
devono permettere di sopportare -una volta
eretta la nuova fabbrica- l'urto di forze in
movimento quali le sollecitazioni di origine
sismica: pertanto, quando le norme
antisismiche prescrivano particolari cautele
tecniche da adottarsi, in ragione delle
caratteristiche del territorio, nella
sopraelevazione degli edifici, esse sono da
considerarsi integrative dell'art. 1127,
comma 2, c.c., e la loro inosservanza
determina una presunzione di pericolosità
della sopraelevazione che può essere
superata esclusivamente mediante
l'allegazione della prova, incombente
sull'autore della nuova costruzione, che non
solo la sopraelevazione, ma anche la
struttura sottostante, sia idonea a
fronteggiare il rischio sismico
(v. Cass. n. 3196/2008 e Cass. n.
10082/2013).
Con riferimento al ricorso in questione è
importante rilevare che la prescrizione
dell'art. 1127, comma 2, c.c. si applica
anche con riferimento alle sopraelevazioni
realizzate dal proprietario del lastrico
solare (in relazione a quanto previsto dal
1° comma della stessa norma), qualità
ricoperta, nella fattispecie, dal dante
causa dei coniugi Os.-Pi. (odierni
ricorrenti e originari convenuti), il quale
aveva iniziato la costruzione (in assenza di
concessione edilizia ed in violazione della
normativa antisismica), al di sopra
dell'immobile degli attori, di un altro
piano, utilizzando la superficie di mq. 50 a
lui donata dai genitori, non risultando,
quindi, decisiva, ai fini dell'applicabilità
della norma censurata di cui all'art. 9
della legge n. 1684/1962, la circostanza che
gli immobili contigui interessati debbano
risultare tra loro in aderenza.
Del resto, l'inosservanza
delle norme antisismiche comporta il diritto
alla riduzione in pristino non solo quando
risultino violate norme integrative di
quelle previste dall'art. 873 c.c. e segg.
in materia di distanze, ma anche quando
emerga una concreta lesione o il pericolo
attuale di una lesione all'integrità
materiale del bene oggetto di proprietà,
ovvero si sia verificata la violazione di
altra specifica disposizione delimitativa
della sfera delle proprietà (in senso ampio)
contigue, che conceda in via autonoma la
tutela diretta.
In particolare, l'attualità del pericolo di
danno deve valutarsi non già in riferimento
allo stato asismico, bensì in relazione alla
possibilità, sempre incombente nelle zone
sismiche, di un movimento tellurico, sicché
dalla inosservanza delle prescrizioni
tecniche dettate per prevenire le
conseguenze dannose del sisma deve desumersi
una presunzione di instabilità della
costruzione realizzata, e, quindi, una
situazione di pericolo permanente, da
rimuovere senza indugio alcuno
(cfr. Cass. n. 2335/1981; Cass. n. 5024/1991
e, più recentemente, Cass. n. 24141/2007).
Da ciò consegue la superfluità di un
accertamento di pericolo attuale e di una
motivazione necessariamente specifica al
riguardo, stante l'immanenza del pericolo,
per il futuro, nel fatto stesso
dell'edificazione effettuata in violazione
della normativa antisismica.
Sulla base di tali presupposti, la Corte
distrettuale ha -con corretta e compiuta
motivazione- espressamente evidenziato, in
più passaggi, nella sentenza impugnata, come
-ai fini della pronuncia di merito da
adottare in ordine all'azione così come
esperita- non rilevava lo stato peculiare
dell'immobile di proprietà degli originari
attori, quanto lo stato di sopravvenuto
pericolo derivante dalla realizzazione della
fabbrica nuova soprastante di proprietà
degli attuali ricorrenti, avvenuta in
violazione delle relative norme
urbanistiche, edilizie e, soprattutto,
antisismiche. |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato
di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona
in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni
caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo e che, in ogni caso, la
realizzazione della costruzione abusiva non può essere giustificata dalla
mera necessità di evitare un danno alle cose.
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1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente ricordare, con riferimento al primo motivo di
ricorso, quale sia, in linea generale, la posizione di questa Corte rispetto
all'applicazione della scriminante dello stato di necessità ai reati
urbanistici.
[applicabilità dell'art. 54 cod. pen. in tema di costruzione abusiva è stata
costantemente esclusa sul presupposto che è di regola evitabile il pericolo
di restare senza abitazione, sussistendo la possibilità concreta di
soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di mercato e dello stato
sociale ed in considerazione dell'ulteriore elemento, necessario per
l'applicazione della scriminante, del bilanciamento tra il fatto commesso ed
il pericolo che l'agente intende evitare (v. Sez. 3, n. 7015 del 09/04/1990,
Sinatra, Rv. 184321).
Si è successivamente osservato che il danno grave alla persona, cui fa
riferimento l'articolo 54 cod. pen., deve essere inteso come ogni danno
grave ai diritti fondamentali dell'individuo, tra i quali non rientra
soltanto la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma anche quella del
diritto all'abitazione, dovendo però sussistere comunque tutti i requisiti
richiesti dalla legge, la valutazione dei quali deve essere effettuata in
giudizio con estremo rigore (Sez. 3, n. 11030 del 01/10/1997, Guerra, Rv.
209047. V. anche Sez. 3, n. 12429 del 06/10/2000, Martinelli, Rv. 217995).
Successivamente, per escludere l'applicabilità della scriminante in
questione, si è posto l'accento sulla mancanza dell'ulteriore requisito
della inevitabilità del pericolo, osservando che l'attività edificatoria non
è vietata in modo assoluto, ma è consentita nei limiti imposti dalla legge a
tutela di beni di rilevanza collettiva, quali il territorio, l'ambiente ed
il paesaggio, che sono salvaguardati anche dall'articolo 9 della
Costituzione.
Di conseguenza, se il suolo è edificabile, le disagiate condizioni
economiche non impediscono al cittadino di chiedere il permesso di
costruire. Se il suolo non è edificabile, il diritto del cittadino a
disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della
collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Sez. 3, n. 28499 del
29/05/2007, Chiarabini, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 19811 del
26/01/2006, Passamonti e altro, Rv. 234316; Sez. 3, n. 41577 del 20/09/2007,
Ferraioli, Rv. 238258; Sez. 3, n. 35919 del 26/06/2008, Savoni e altro, Rv.
241094; Sez. 3, n. 7691 del 06/10/2016 (dep. 2017), Di Giovanni, non
massimata; Sez. 3, n. 25036 del 03/03/2016, Botticelli, non massimata).
2. Tali principi vanno dunque ribaditi, richiamando peraltro l'attenzione
sul fatto che l'art. 54 cod. pen. si riferisce, pur sempre, alla necessità
di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona,
pericolo che non deve essere causato volontariamente dall'agente e non
altrimenti evitabile.
Sicché, anche volendosi richiamare a quelle decisioni di questa Corte che
hanno interpretato in maniera estensiva la disposizione in esame,
ricomprendendo nel concetto di danno alla persona anche il diritto
all'abitazione, non può certo ritenersi giustificata la condotta di chi
realizzi una costruzione abusiva al fine di evitare un mero danno alle cose.
Senza poi considerare che, come pure si è osservato, tale interpretazione
estensiva dell'esimente dello stato di necessità si risolve, nella pratica,
in una mera petizione di principio, dal momento che l'ulteriore requisito
della inevitabilità del pericolo risulta difficilmente dimostrabile, stante
la possibilità di richiedere il titolo abilitativo per la realizzazione
dell'intervento edilizio (in tal senso si è espressa Sez. 3, n. 41577 del
20/09/2007, Ferraioli, Rv. 238258, cit. la quale esclude, in tali casi,
anche l'ipotesi della putatività dell'esimente, perché l'omessa
presentazione dell'istanza diretta ad ottenere il titolo edilizio sarebbe
quanto meno determinata da negligenza).
3. Deve conseguentemente essere ribadito che in materia di abusivismo
edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto,
pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il
danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito
dell'inevitabilità del pericolo e che, in ogni caso, la realizzazione della
costruzione abusiva non può essere giustificata dalla mera necessità di
evitare un danno alle cose.
4. Tale ultima evenienza è quella cui, sostanzialmente, fa riferimento il
ricorso, ove l'unico richiamo al pericolo che si sarebbe inteso evitare è
quello, peraltro del tutto eventuale, della caduta di pietre e massi sul
fabbricato quale conseguenza dello smottamento di una vicina scarpata, senza
alcun riferimento al pericolo, anch'esso del tutto ipotetico ed indiretto,
per le persone.
La Corte territoriale, inoltre, ha chiaramente specificato che, sulla base
della documentazione fotografica, quanto prospettato dall'imputato risultava
indimostrato e, a fronte di tale accertamento in fatto, il ricorrente
propone, in questa sede, una inammissibile valutazione alternativa delle
emergenze processuali (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.01.2018 n. 2280). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce ius receptum la regola secondo cui
alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi
possono provvedere non solo coloro che hanno a titolo
richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex
art. 11 t.u. edilizia ma anche, «salvo rivalsa nei confronti
del proprietario, ogni altro soggetto interessato al
conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria,
quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che
sia acquisito in modo univoco il consenso comunque
manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di
riferimento (art. 36 T.U. edilizia) ammette la proposizione
dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del
responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per
sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione
della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del
soggetto titolare del bene interessato il quale, ove
estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse
contrario alla definitiva regolarizzazione.
---------------
L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di
segnalazione certificata di inizio attività […] o in
difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o
l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto
a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l.
n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il
rilascio del titolo in sanatoria in presenza della
conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali
e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli
adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia
al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza
semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini
del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si
ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di
cui trattasi la conformità delle opere abusive allo
strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per
assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in
realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di
un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato
che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di
cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante,
in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica
vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle
norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello
strumento urbanistico adottato».
---------------
7.- Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
8.- È indubbio che il Comune di San Pietro in Casale,
allorché tra i motivi posti alla base della sospensione
della D.I.A. ha identificato la carenza di titolo alla
presentazione della medesima D.I.A. abbia inteso riferirsi,
seppur implicitamente, alla carenza del titolo di proprietà
che avrebbe legittimato l’intervento sanante di cui
trattasi.
In tal senso, ad avviso del Collegio, non ci si trova al
cospetto di un’integrazione postuma della motivazione del
provvedimento quanto di un’indicazione che, seppur in modo
sintetico, ha rilevato la carenza di presupposti per
avvalersi della possibilità di ottenere un titolo postumo
idoneo a sanare le opere abusivamente realizzate.
Sul punto, costituisce, invero, ius receptum la
regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli
adempimenti relativi possono provvedere, non solo coloro che
hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o
l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia, ma anche, «salvo
rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto
interessato al conseguimento della sanatoria medesima»:
la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum,
ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il
consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di
riferimento (art. 36 T.U. edilizia ed anche la l.r. Em. Rom.
n. 23 del 2004, art. 17) ammette la proposizione
dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del
responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per
sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione
della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del
soggetto titolare del bene interessato il quale, ove
estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse
contrario alla definitiva regolarizzazione.
Nel caso di specie, la mancata acquisizione del consenso da
parte del Condominio «Il Mu», odierno proprietario del bene,
non può giustificarsi sulla base della asserita qualità di
cointeressato che lo stesso Condominio rivestirebbe,
dovendosi, al contrario, ritenere che il medesimo soggetto
giuridico potrebbe astrattamente serbare un interesse alla
rimessione in pristino dei luoghi e non già alla
conservazione delle opere realizzate in difformità dal
titolo abilitativo.
9.- Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta
l’inapplicabilità delle misure di salvaguardia al caso di
specie poiché non viene in rilievo una D.I.A. ordinaria
bensì una D.I.A. in sanatoria volta ad ottenere
l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
La questione si porrebbe, ad avviso del ricorrente, poiché è
vero che il R.U.E ha introdotto, anche per gli interventi di
ristrutturazione edilizia, la separazione acque
bianche/acque nere ma lo stesso R.U.E., seppur adottato
anteriormente alla presentazione della D.I.A. in sanatoria,
è stato approvato in un momento successivo ad essa.
Tale circostanza deporrebbe, ad avviso della Er. s.r.l., per
l’applicazione alla vicenda per cui è causa del pregresso
assetto normativo comunale, ossia dell’art. 24 del
previgente regolamento per il servizio di fognatura e
depurazione approvato nel 1986.
9.1.- Il motivo non è meritevole di pregio.
9.2.- L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di
segnalazione certificata di inizio attività […] o in
difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o
l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto
a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l.
n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il
rilascio del titolo in sanatoria in presenza della
conformità delle opere «agli strumenti urbanistici
generali e di attuazione approvati e non in contrasto con
quelli adottati sia al momento della realizzazione
dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza
semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini
del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si
ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di
cui trattasi la conformità delle opere abusive allo
strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per
assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in
realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di
un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato
che «il mutamento lessicale della formulazione normativa
(di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi
irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina
urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al
rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle
prescrizioni dello strumento urbanistico adottato»
(Cass. pen. Sez. III, n. 21781 del 2011; sul punto già
Cass., sez. III, n. 291 del 2004).
...
11.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso,
poiché infondato, deve essere rigettato (TAR Emilia
Romagna-Bolgna, Sez. II,
sentenza 10.01.2018 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto
abusivo deve essere eseguito anche nei confronti di terzi
estranei al reato a cui è stata alienata la proprietà
dell'immobile.
L'eventuale alienazione a terzi
dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito
dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è
esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e
natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato né la sua operatività può essere
esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione.
---------------
L'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando
un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa
a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai
sensi dell'art. 173 cod. pen..
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche
dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità
anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla
giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la
demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della
CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un
danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge».
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1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non
impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito
dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è
esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014,
Attardi, Rv. 259802; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep.
2011, Giustino e altri, Rv. 249129; Sez. 3, n. 45301 del
07/10/2009, Roscetti, Rv. 245213, sez. 3, n. 22853 del
29.03.2007, Coluzzi, rv. 236880).
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e
natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato né la sua operatività può essere
esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione (Sez. 3, n. 37120 dell'11.05.2005,
Morelli, Rv. 232175; Sez. 3, n. 42781 del 21.10.2009,
Arrigoni, non massim.; Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Rv.
259802; Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Rv. 265193).
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte,
l'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando
un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa
a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai
sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del
07/07/2015, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011,
Mercurio e altro, Rv. 250336; Sez. 3, n. 43006 del
10/11/2010, La Mela, Rv. 248670), atteso che quest'ultima
disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3,
n. 39705 del 30/04/2003, Pasquale, Rv. 226573).
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche
dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità
anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata
dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la
demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7
della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva
di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge»
(Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Rv. 265540; Sez. 3, n.
48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918; Sez. 3, n.
47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403, nonché da ultimo
Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Rv. 267977, che ribadendo
il principio in questione ha ritenuto infondata la questione
di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3
e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 per
mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine
di demolizione del manufatto abusivo disposto con la
sentenza di condanna) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 249). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per
la formazione del silenzio-assenso
sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano
i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione
dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto
deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza
di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati
i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di
sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo,
potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso
soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta,
rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un
elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie
autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento
della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di
ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle
opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano
essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito
accoglimento della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l’aspetto formale.
Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce,
pertanto, solo uno degli elementi necessari, di per sé non
sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie, ai
cui fini occorre la conformità della domanda di sanatoria al
relativo modello legale.
---------------
Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del
procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di
condono occorre considerare che l’esito del procedimento non
avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi
dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, come indicato in motivazione.
---------------
Se il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità
degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso
l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente
essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione
sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo,
anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare
l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver
riscontrato opere abusive: quando è realizzato un abuso
edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo
affidamento e il proprietario non si può di certo dolere
dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione –a causa
del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza
degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il
provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
---------------
5. Parte ricorrente eccepisce ancora l’illegittimità dei
provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 35, comma
17, della l. n. 47 del 1985. In particolare, il ricorrente
ha proposto nel 1986 una domanda di sanatoria e, in mancanza
di alcuna risposta da parte del comune dei due anni
successivi, si sarebbe formato il silenzio assenso.
Il motivo di impugnazione non risulta meritevole di
accoglimento.
Come da costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa (cfr. Cons. St. 4703/2017; Cons. St.
187/2017) per la formazione del silenzio-assenso
sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano
i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione
dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto
deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza
di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati
i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di
sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo,
potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso
soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta,
rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un
elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie
autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento
della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di
ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle
opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano
essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito
accoglimento della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l’aspetto formale. Il semplice decorso
del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno
degli elementi necessari, di per sé non sufficiente, per il
perfezionamento della fattispecie, ai cui fini occorre la
conformità della domanda di sanatoria al relativo modello
legale (TAR Catania, 24.03.2016, n. 869; TAR Lecce,
12.04.2012, n. 625).
Nel caso di specie, l’incompletezza
della documentazione depositata emerge dalle richieste di
integrazioni formulate da parte del comune resistente (doc.
5 del fascicolo di parte resistente), tra le quali presenta
particolare rilievo la mancanza del titolo di proprietà o di
altra documentazione idonea.
Sul punto, occorre precisare che la volontà contraria del
proprietario appare ostativa alla stessa possibilità per il
ricorrente di ottenere il provvedimento ad effetti
incrementativi di sanatoria, in base al prevalente
orientamento della giurisprudenza amministrativa. Nel caso
di specie il proprietario del bene immobile ha manifestato
espressamente la propria contrarietà alla sanatoria
dell’immobile, circostanza di per sé ostativa all’esito
positivo della richiesta di condono formulata da parte
ricorrente (di alcun valore è la mera variazione catastale,
quale proprietà superficiaria, in mancanza di un titolo
idoneo al trasferimento di un tale diritto dal dante causa
al ricorrente).
L’originaria autorizzazione alla
realizzazione del capannone contenuta nel contratto di
locazione (da realizzarsi in senso conforme alla normativa
urbanistica vigente) appare inidonea a consentire la
realizzazione di un immobile difforme dalla normativa
edilizia per poi chiederne la regolarizzazione; in sostanza
altro è il consenso a realizzare un bene, altro è il
consenso alla regolarizzazione o al condono (specie se si
considera l’espresso dissenso manifestato dal proprietario).
La motivazione del provvedimento appare sufficiente per
descrivere la violazione posta in essere nel caso di specie
dal ricorrente. Il riferimento all’abusività deve, in
particolare, essere collegato alla documentazione richiesta
(doc. 5 del fascicolo di parte resistente ove emerge anche
la consegna delle richieste di integrazione sia al
ricorrente stesso che alla moglie) e non prodotta dal
ricorrente, con la conseguenza che il rigetto dell’istanza
di condono appare adeguatamente motivato con la mancanza
della documentazione richiesta che si traduce nell’abusività
dell’immobile per contrasto con la normativa edilizia.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell’abuso, non destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata. La giurisprudenza amministrativa
ha infatti evidenziato che non si può applicare a un fatto
illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni
che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato
enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sulla
doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito
attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve
conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che
l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il
richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento,
senza che si impongano sul punto ulteriori oneri
motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela
decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo,
anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare
l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver
riscontrato opere abusive (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI,
06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Sez. IV, 31.08.2010, n.
3955): quando è realizzato un abuso edilizio non è
radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il
proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale
ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato
accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi
pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la
legge impone di emanare immediatamente (cfr. C.d.S., Sez.
VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060, cit.).
Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del
procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di
condono occorre considerare che l’esito del procedimento non
avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi
dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, come indicato in motivazione (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.01.2018 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Parere in merito all'applicabilità del regime di pagamento
sanzionatorio ridotto di cui all'art. 16, comma 1, della
legge 689/1981 all'oblazione prevista per i titoli
abilitativi in sanatoria dall'art. 22 della l.r. 15/2008 –
Comune di Rieti (Regione Lazio,
nota 03.01.2018 n. 3176 di prot.). |
dicembre 2017 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione di lavori edilizi in difformità dal
permesso di costruire - Effetti - Completamento opere -
Limiti alla disponibilità dell'immobile abusivo - Vincolo di
asservimento del fondo agricolo - Necessità di contestazione
- Artt. 10, 30 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reato di esecuzione di lavori edilizi in
difformità dal permesso di costruire, per individuare la
natura e la sussistenza di detta difformità non è necessario
attendere il completamento dell'opera ove, da quanto già
realizzato, si possa desumere che il manufatto, una volta
ultimato, assumerebbe caratteristiche diverse da quelle
progettate (Cass. Sez. 3, n. 13592 del 30/01/2008, Dinolfo).
Né può essere escluso il pericolo che la libera
disponibilità dell'immobile abusivamente realizzato possa
aggravare o protrarre le conseguenze dell'illecito ovvero
agevolarne la commissione di altri (cfr. Sez. 3, n. 39731
del 28/09/2011, Rainone e altro, Rv. 251304) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2017 n. 57954
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Destinazione degli immobili abusivi acquisiti al
patrimonio comunale - Delibera comunale che dichiara
l'esistenza di un interesse pubblico prevalente sul restauro
dell'assetto urbanistico violato - Incidenza delle delibere
delle amministrazioni comunali - Incompatibilità con la loro
demolizione - Necessità di precisa individuazione
dell'immobile - Verifiche e poteri del giudice
dell'esecuzione - Fattispecie: violazione di sigilli,
plurime violazioni urbanistiche e reato paesaggistico - Art.
31 e 44 d.P.R. n. 380/2001 - delitto paesaggistico di cui
all'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Art. 349 cod. pen..
La delibera
comunale che dichiara l'esistenza di un interesse pubblico
prevalente sul ripristino dell'assetto urbanistico violato,
sottraendo l'opera abusiva al suo normale destino di
demolizione previsto per legge, non può fondarsi su
valutazioni di carattere generale o riguardanti
genericamente più edifici, ma deve dare conto delle
specifiche esigenze che giustificano la scelta di
conservazione del singolo manufatto, precisamente
individuato (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia,
relativa a fattispecie nella quale la Corte ha reputato
legittimo il rigetto, da parte del giudice dell'esecuzione,
di istanza di sospensione dell'ordine di demolizione, in
presenza di due delibere comunali aventi per oggetto i
criteri per individuare l'esistenza di prevalenti interessi
pubblici al mantenimento delle opere abusive e i criteri per
locare gli immobili già acquisiti al patrimonio comunale;
conf. Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone; Sez. 3, n.
30170 del 24/05/2017, Barbuti; cfr. anche Sez. 3, n. 11419
del 29/01/2013, Bene, nella quale è stato chiarito che "Il
giudice dell'esecuzione, al quale sia richiesto di revocare
l'ordine di demolizione contenuto nella sentenza di
condanna, ha il potere di sindacare la delibera di
acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
comunale, che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi
pubblici rispetto al ripristino dell'assetto urbanistico
violato") (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2017 n. 57942
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di "totale difformità" - Particolare
tenuità del fatto e ordine di demolizione.
Ai fini della integrazione del reato di cui all'articolo 44,
lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere
considerato in "totale difformità" qualsiasi
intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e
sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato
realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente
diverso da quello assentite per caratteristiche tipologiche,
plano volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del
permesso di costruire, dovendosi, a tal fine, considerare
che i parametri normativi di riferimento enunciati
dall'articolo 31 d.p.r. n. 380 del 2001 sono tra loro
alternativi e non cumulativi e che, per stabilire l'entità
della difformità, è necessario confrontare il realizzato con
l'autorizzato nel senso che il giudice deve svolgere un
preciso raffronto tra l'opera approvata e quella eseguita (Corte
di Cassazione, Sez. III,
sentenza 29.12.2017 n. 57914
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Comune di Montjovet – Scia per la realizzazione di
un’autorimessa – Abuso edilizio – Richiesta di sanatoria –
Parere
(Legali Associati per Celva,
nota
29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
----------------
Problema riscontrato: Un cittadino ha presentato
una SCIA per la realizzazione di un’autorimessa a servizio
del proprio edificio residenziale.
A distanza di anni dalla conclusione dei lavori, su
segnalazione del confinante, è stato effettuato sopralluogo
per rilevare il segnalato abuso edilizio. Dal sopralluogo è
emerso che parte dell’autorimessa era stata adibita a
servizio igienico e a taverna, quest’ultimo locale così
definito in quanto all’interno dello stesso era presente un
cucinino (fornelli, lavandino), un forno, una stufa a legna,
un divano, un tavolo con panche e sedie e vari
suppellettili.
Il proprietario dell’edificio ha presentato richiesta di
rilascio di permesso di costruire in sanatoria definendo
cantina quel locale che nel corso del sopralluogo era stato
identificato quale taverna e che lui stesso aveva così
definito in documenti presentati in precedenza all’ufficio
tecnico; non di poco conto il fatto che tale difformità
d’uso sia stata di recente evidenziata al Comune anche dal
vicino di casa sulla base della propria conoscenza diretta,
con il quale il proprietario ha in essere contenzioso
edilizio riguardante la costruzione in parola che ad oggi lo
ha visto soccombere con obbligo di demolizione di una parte
dell’autorimessa oltre che di altre opere pertinenziali.
Il progetto di sanatoria non evidenzia l’esecuzione di opere
successive al sopralluogo effettuato dal Comune e nulla
menziona in merito al fatto che la taverna sia poi diventata
cantina.
Si ipotizza che il locale non possedendo i requisiti
igienico-sanitari (luce e aerazione diretta dall’esterno)
non potesse essere definito taverna e per questa ragione sia
stato rinominato in cantina.
Si chiede se il Comune possa procedere al rilascio del
permesso di costruire in sanatoria del locale cantina,
sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato che il
medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in caso
affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano essere
applicate.
Riferimenti normativi: LR 11/1998
Quesiti: Si chiede se il Comune possa procedere al
rilascio del permesso di costruire in sanatoria del locale
cantina, sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato
che il medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in
caso affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano
essere applicate. |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha, più volte, chiarito che il
provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un
immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso.
L’ordine di demolizione non esige né una specifica
motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una
comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato
al mantenimento in loco dell’immobile: ciò in quanto non può
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può in alcun modo legittimare.
---------------
Sia l’ordine di demolizione che l’applicazione della
sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione non sono
riconducibili al paradigma dell’autotutela e non richiedono,
pertanto, motivazione in ordine alle ragioni di pubblico
interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della
legittimità violata, che impongono la rimozione dell’abuso o
l’applicazione della sanzione.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio,
ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta –e
inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
---------------
Configurando l’abuso edilizio un illecito permanente è
legittima l’applicazione della sanzione vigente al momento
dell’adozione del provvedimento, senza che sia ravvisabile
alcuna violazione del principio di irretroattività.
Invero:
- "il calcolo dell’ammontare della sanzione pecuniaria dovrà essere
effettuato tenendo conto del momento in cui la stessa viene
irrogata, in applicazione del principio generale per cui gli
interventi abusivi sono sanzionabili in base alla disciplina
vigente al momento in cui avviene la repressione…Ne consegue
che ai fini della determinazione della sanzione da
infliggere per la realizzazione di opere edilizie abusive,
deve tenersi conto del valore delle stesse al tempo della
relativa irrogazione e non a quello corrente al momento
della commissione dell’abuso, atteso che solo così operando
l’autore dell’abuso non gode di un lucro rispetto
all’alternativa sanzione della demolizione”;
- "il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in
conformità al principio del tempus regit actum, quello
vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore
all’epoca di consumazione dell’abuso e la natura della
sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la
situazione esistente e ad eliminare opere abusive in
contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce
di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui
propriamente si attaglia il divieto di retroattività”.
---------------
La quantificazione della sanzione risulta effettuata secondo
i parametri di legge: il calcolo del costo di produzione è
stato correttamente basato su norme della l. 392/1978; la
loro abrogazione ad opera della l. 431/1998 è irrilevante in
quanto la legge n. 392 del 1978, recante la disciplina delle
locazioni di immobili urbani, è richiamata dall’art. 93 L.R.
61/1985 e dall’art. 12 l. 47/1985 ai soli fini della
determinazione della sanzione pecuniaria sulla base di un
valore, il costo di produzione, disciplinato dalla legge
medesima. Essa perciò è applicabile in virtù di un rinvio
formale e non dinamico.
In altri termini la norma sanzionatoria fa proprio quel
meccanismo di calcolo del costo di produzione attualizzato e
lo rende indifferente alle successive modifiche apportate
alla legge medesima.
Tale interpretazione è più aderente a criteri di logica e
ragionevolezza in quanto il destinatario della sanzione
pecuniaria, commisurata ad una valutazione attualizzata
ottiene, con l'applicazione della sanzione pecuniaria in
luogo della demolizione, la definitiva disponibilità di un
bene anch'esso rivalutato che compensa, in tal modo, il
maggior onere pecuniario della sanzione.
---------------
Il ricorrente ha impugnato il provvedimento in epigrafe
indicato con cui gli è stata irrogata una sanzione
pecuniaria alternativa alla demolizione, pari a circa 33
milioni di lire, per aver realizzato opere in difformità
dalla concessione edilizia (ampliamento della casa al mare):
a sostegno del ricorso ha dedotto plurime censure di
violazione di legge ed eccesso di potere.
Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia
contrastando le avverse pretese.
Il ricorso non merita accoglimento per le ragioni di seguito
esposte.
La giurisprudenza ha, più volte, chiarito che il
provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un
immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso. L’ordine di demolizione non esige né una
specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né
una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse
privato al mantenimento in loco dell’immobile: ciò in quanto
non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (Ad
Plen. n. 9/2017; Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV,
12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n. 3750).
Analoghi principi valgono, ad avviso del Collegio, per
l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla
demolizione prevista dall’art. 93 della L.R.V. n. 61 del
1985.
E, invero, sia l’ordine di demolizione che l’applicazione
della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione non
sono riconducibili al paradigma dell’autotutela e non
richiedono, pertanto, motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata, che impongono la rimozione
dell’abuso o l’applicazione della sanzione.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio,
ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta –e
inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter
legem.
Quanto ai dedotti vizi formali e procedimentali, il Collegio
rileva che, nel caso di specie, non era necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento di irrogazione della
sanzione né la previa diffida a ripristinare lo stato dei
luoghi poiché è stato lo stesso interessato a chiedere
l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della
demolizione ex art. 93 della L.R.V. n. 61 del 1985.
Configurando l’abuso edilizio un illecito permanente è
legittima l’applicazione della sanzione vigente al momento
dell’adozione del provvedimento, senza che sia ravvisabile
alcuna violazione del principio di irretroattività (cfr. TAR
Veneto n. 473/2013 secondo cui “il calcolo dell’ammontare
della sanzione pecuniaria dovrà essere effettuato tenendo
conto del momento in cui la stessa viene irrogata, in
applicazione del principio generale per cui gli interventi
abusivi sono sanzionabili in base alla disciplina vigente al
momento in cui avviene la repressione…Ne consegue che ai
fini della determinazione della sanzione da infliggere per
la realizzazione di opere edilizie abusive, deve tenersi
conto del valore delle stesse al tempo della relativa
irrogazione e non a quello corrente al momento della
commissione dell’abuso, atteso che solo così operando
l’autore dell’abuso non gode di un lucro rispetto
all’alternativa sanzione della demolizione”; Cons. St.
n. 4943/2016 secondo cui “il regime sanzionatorio
applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio
del tempus regit actum, quello vigente al momento della
sanzione, non già quello in vigore all’epoca di consumazione
dell’abuso e la natura della sanzione demolitoria,
finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente
e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato
assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al
genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il
divieto di retroattività”).
La quantificazione della sanzione risulta effettuata secondo
i parametri di legge: il calcolo del costo di produzione è
stato correttamente basato su norme della l. 392/1978; la
loro abrogazione ad opera della l. 431/1998 è irrilevante in
quanto la legge n. 392 del 1978, recante la disciplina delle
locazioni di immobili urbani, è richiamata dall’art. 93 L.R.
61/1985 e dall’art. 12 l. 47/1985 ai soli fini della
determinazione della sanzione pecuniaria sulla base di un
valore, il costo di produzione, disciplinato dalla legge
medesima. Essa perciò è applicabile in virtù di un rinvio
formale e non dinamico: in altri termini la norma
sanzionatoria fa proprio quel meccanismo di calcolo del
costo di produzione attualizzato e lo rende indifferente
alle successive modifiche apportate alla legge medesima.
Tale interpretazione è più aderente a criteri di logica e
ragionevolezza in quanto il destinatario della sanzione
pecuniaria, commisurata ad una valutazione attualizzata
ottiene, con l'applicazione della sanzione pecuniaria in
luogo della demolizione, la definitiva disponibilità di un
bene anch'esso rivalutato che compensa, in tal modo, il
maggior onere pecuniario della sanzione (cfr.: Cons. Stato,
V, 30.09.1980 n. 800; TAR Veneto 23.04.1982 n. 393; TAR
Veneto n. 1140/2001).
Per quanto sin qui esposto il ricorso deve essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.12.2017 n. 1114 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
novembre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA: Privata
dimora e proprietà privata sono concetti non sovrapponibili, in
quanto il primo è molto più circoscritto del secondo, basti
pensare ai beni privati destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le
Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e
relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli
destinati ad attività lavorativa o professionale».
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha
espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale
che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art.
614 cod. pen..
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di
violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la
sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora
o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei
seguenti, indefettibili elementi:
«a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni
della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività
professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da
intrusioni esterne;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in
modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da
mera occasionalità;
c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il
consenso del titolare».
---------------
1. Il primo motivo merita accoglimento nella parte relativa al vizio
di motivazione.
L'ordinanza impugnata premette che l'aggressione è avvenuta in un tratto di
strada, che conduce all'abitazione della persona offesa, avente le
caratteristiche di spazio aperto al pubblico non delimitato da alcuna
recinzione. Riconduce, tuttavia, tale luogo al perimetro di tutela delineato
dall'art. 614 cod. pen., qualificandolo come pertinenza dell'abitazione di
proprietà del D'Am..
Specifica, poi, che l'area è destinata a sosta e parcheggio delle auto
riservata ai soli proprietari degli immobili, come si evince dalla
documentazione fotografica, prodotta dall'indagato, che indica la natura di
"proprietà privata" della zona in questione.
Tali argomentazioni sono, per un verso, giuridicamente erronee e,
per altro verso, sganciate dalla nozione di privata di dimora come
delineata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
Sotto il primo profilo va osservato che privata dimora e proprietà
privata sono concetti non sovrapponibili, in quanto il primo è
molto più circoscritto del secondo, basti pensare ai beni privati
destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le
Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e
relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli
destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. U, n. 31345 del
23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076).
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha
espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale
che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art.
614 cod. pen. (cfr. Sez. U, n.
31345 del 23/03/2017, D'Amico, cit., in motivazione).
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di
violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la
sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora
o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei
seguenti, indefettibili elementi:
«a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni
della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività
professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da
intrusioni esterne;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in
modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da
mera occasionalità;
c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il
consenso del titolare» (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico,
cit., in motivazione) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza
24.11.2017 n. 53438). |
ottobre 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di sostituzione edilizia su immobili condonati.
Dal quadro normativo vigente in Regione
Lombardia, si ricava che gli interventi di sostituzione
edilizia, previsti e disciplinati dall’art. 3 della legge
regionale 16.07.2009 n. 13 (Azioni straordinarie per lo
sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed
urbanistico della Lombardia) e dall’art. 5 della legge
regionale 13.03.2012 n. 4 (Azioni straordinarie per lo
sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed
urbanistico della Lombardia), non possono essere realizzati
con riferimento ad immobili a loro volta realizzati in
assenza di titolo o in totale difformità dallo stesso, e ciò
sebbene per tali immobili sia stato poi rilasciato un
provvedimento di condono
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
... quanto al ricorso introduttivo:
per l'annullamento:
- del provvedimento del Dirigente del settore Pianificazione del
Territorio del Comune di Lissone prot. n. 12708 in data
11.03.2016, intitolato a "Comunicazione motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza ai sensi art. 10-bis della
Legge 241/1990 e s.m.i.", ad oggetto "Denuncia di
inizio attività prot. 9447 del 24/02/2016 per "Sostituzione
dei fabbricati esistenti a prevalente uso
commerciale/capannone con nuovo edificio residenziale di 4
piani fuori terra con mantenimento del volume esistente" in
via Como - Foglio 15, mapp.le 221-227-228-229";
- del provvedimento del Dirigente del settore Pianificazione del
Territorio del Comune di Lissone prot. n. 13914 in data
18.03.2016, recante "Riscontro ad integrazione del
16/03/2016 prot, 13403";
- di ogni atto preordinato e connesso.
quanto ai motivi aggiunti depositati in data 16.06.2016:
- del provvedimento del Dirigente del settore
Pianificazione del Territorio del Comune di Lissone prot. n.
15490 in data 30.03.2016 avente ad oggetto “Comunicazione
conclusione del procedimento mediante annullamento e diniego
di Denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 2 della
legge 241/1990 e s.m.i.”, in ordine alla DIA prot. n.
9447 del 24.02.2016;
- dell'art. 45 delle n.t.a. del Piano delle Regole della variante
al P.G.T. adottata con delibera C.C. di Lissone n. 33
dell’01.04.2016;
- di ogni atto preordinato e connesso;
...
11. Con un’unica censura contenuta nel ricorso introduttivo
e ribadita nei motivi aggiunti, gli interessati contestano
l’argomentazione utilizzata dall’Amministrazione per
paralizzare la loro iniziativa.
In particolare, Secondo il Comune di Lissone, nel caso
specifico, l’intervento di sostituzione edilizia non sarebbe
effettuabile, atteso che l’immobile da sostituite è stato
assentito con provvedimento di condono e che gli immobili
condonati non potrebbero godere di alcun beneficio diverso
dalla possibilità di continuare a rimanere in essere con le
loro proprie caratteristiche strutturali e funzionali.
Secondo i ricorrenti, invece, gli immobili condonati
sarebbero assoggettabili alla medesima disciplina
riguardante tutti i fabbricati regolarmente assentiti, non
sussistendo alcuna valida ragione per riservare loro un
trattamento diverso. Ne conseguirebbe che, contrariamente da
quanto ritenuto dal Comune, la loro volumetria sarebbe
utilizzabile al fine di effettuare interventi di
sostituzione edilizia.
12. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
13. Preliminarmente si deve osservare che nella relazione
tecnica allegata alla DIA del 24.02.2016, i ricorrenti hanno
descritto l’intervento oggetto del presente giudizio, come
<<intervento di sostituzione dei fabbricati esistenti a
prevalente uso commerciale/capannone con edificio
residenziale di n. 4 piano fuori terra più soppalco non
abitabile mantenendo il volume esistente>>, ed hanno
ascritto lo stesso alla categoria della “nuova
costruzione”.
14. Il Comune nei provvedimenti impugnati ha a sua volta
qualificato tale intervento come “sostituzione edilizia”
di cui all’art. 27, terzo comma, lett. e), punto 7-bis,
della legge regionale n. 12 del 2005.
Questa qualificazione
–oltre a non essere incompatibile con quella fornita nella
relazione tecnica, posto che, come si vedrà,
la “sostituzione
edilizia” ricade nella più ampia categoria della “nuova
costruzione”– non è stata contestata dai ricorrenti i
quali, nei loro atti difensivi, si limitano a sostenere che
–contrariamente da quanto ritenuto dal Comune– gli
interventi di sostituzione edilizia sarebbero realizzabili
anche con riferimento ad edifici condonati.
15. Il Collegio, pertanto, in mancanza di contrari elementi
fattuali e giuridici dedotti dalle parti, ritiene di non
potersi discostare dalla qualificazione effettuata
dall’Amministrazione ed accettata dai ricorrenti.
16. Ciò premesso, deve ora osservarsi che, nella Regione
Lombardia, gli interventi di sostituzione edilizia sono
previsti e disciplinati dall’art. 3 della legge regionale
16.07.2009, n. 13 (Azioni straordinarie per lo sviluppo e la
qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della
Lombardia) e dall’art. 5 della legge regionale 13.03.2012,
n. 4 (Azioni straordinarie per lo sviluppo e la
qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della
Lombardia).
17. Con queste norme, il legislatore regionale ha, fra
l’altro, inteso incentivare la realizzazione di interventi
volti alla demolizione di vecchi edifici non in linea con i
livelli raggiunti dall’attuale evoluzione tecnologica
(soprattutto per quanto concerne la materia del risparmio
energetico) e la loro sostituzione con edifici moderni
rispondenti ai parametri individuati dai più recenti approdi
scientifici.
18. In particolare, l’art. 3, terzo comma, della legge
regionale n. 13 del 2009 ammette la possibilità di
realizzare –anche in deroga alle disposizioni quantitative
contenute negli strumenti urbanistici- interventi di
sostituzione di edifici non residenziali, ubicati in zone a
prevalente destinazione residenziale, con nuovi edifici,
destinati esclusivamente a residenza, di volumetria non
superiore a quella esistente.
19. Questa possibilità è stata poi ribadita dall’art. 5
della legge regionale n. 4 del 2012.
20. Il legislatore regionale è poi ulteriormente intervenuto
in materia con l’art. 17, secondo comma, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo
sviluppo e l'occupazione), il quale ha aggiunto il
punto
7-bis all’art. 27, comma 1, lett. e), della legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio),
ascrivendo alla categoria della “nuova costruzione”
gli interventi di sostituzione edilizia di cui alla
precedente normativa.
21. Ciò premesso, va ora osservato che l'art. 5, terzo
comma, lett. c), della citata legge regionale n. 13 del 2009
prevede che le disposizioni di favore contenute negli
articoli precedenti non si applicano con riferimento agli <<...
edifici realizzati in assenza di titolo abilitativo o in
totale difformità, anche condonati>>.
22. Dal combinato disposto di queste norme si ricava dunque
che gli interventi di sostituzione edilizia non possono
essere realizzati con riferimento ad immobili a loro volta
realizzati in assenza di titolo o in totale difformità dallo
stesso, e ciò sebbene per tali immobili sia stato poi
rilasciato un provvedimento di condono.
23. In tale quadro appare evidente come, contrariamente da
quanto sostenuto dai ricorrenti, vi sono specifiche
disposizioni normative di rango primario che vietano la
realizzazione di interventi di sostituzione edilizia che
abbiano ad oggetto edifici condonati.
24. Si deve pertanto ritenere che –siccome non è contestato
che l’immobile in riferimento al quale gli stessi ricorrenti
intendono realizzare un intervento di sostituzione edilizia
è stato costruito abusivamente e successivamente condonato–
tale intervento non sia realizzabile, stante la sussistenza
delle disposizioni ostative di cui sopra si dato conto.
25. Per queste ragioni la censura in esame è infondata; di
conseguenza, il ricorso ed i motivi aggiunti devono essere
respinti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.10.2017 n. 1991
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Motivazione
dell’ordinanza di demolizione adottata a
distanza di anni dall’abuso.
---------------
Edilizia – Abusi – Ordinanza di
demolizione – Adottata a distanza di anni
dall’abuso – Motivazione – Esclusione.
Il provvedimento con
cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la
sua natura vincolata e rigidamente ancorata
al ricorrere dei relativi presupposti in
fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse
(diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in
cui l’ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento
non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino (1).
---------------
(1) La questione era stata rimessa dalla
Cons. St., sez. VI, ord., 24.03.2017, n.
1337.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sul
punto si sono formati due orientamenti.
In base a un primo orientamento (ad oggi
maggioritario) l’ordinanza di
demolizione di un manufatto abusivo non
richiede una particolare motivazione in
ordine alla sussistenza di uno specifico
interesse pubblico al ripristino della
legittimità violata, e ciò nonostante sia
decorso un considerevole lasso di tempo
dalla commissione dell’abuso. In base
all’orientamento in parola deve infatti
escludersi la configurabilità di un
legittimo affidamento in capo al
responsabile dell’abuso o al suo avente
causa nonostante il decorso del tempo dal
commesso abuso (Cons.
St., sez. VI, 05.05.2016, n. 1774;
id.
23.10.2015, n. 4880; id.
11.12.2013, n.
5943).
Aggiungasi che l’ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né –ancora– una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (Cons.
St., sez. IV, 28.02.2017, n. 908).
In base ad un diverso (e minoritario)
orientamento, l’ingiunzione di
demolizione, in quanto atto dovuto in
presenza della constatata realizzazione
dell’opera edilizia senza titolo abilitativo
o in totale difformità da esso, è in linea
di principio sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera. Deve tuttavia essere fatta salva
l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell’abuso
e il protrarsi dell’inerzia
dell’Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato: ipotesi -questa-
in relazione alla quale si ravvisa un onere
di congrua motivazione la quale indichi,
avuto riguardo anche all’entità ed alla
tipologia dell’abuso, il pubblico interesse
-evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità- idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato (Cons.
St., sez. IV, 02.11.2016, n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti
simile a quella appena richiamata si è
affermato che, quanto meno in alcuni ‘casi-limite’,
l’ingiunzione di demolizione debba essere
assistita da un’adeguata motivazione circa
lo specifico interesse pubblico sotteso alla
riduzione in pristino dell’area. Ciò si
renderà necessario, in particolare: i)
quando il proprietario del bene sia
pacificamente persona diversa da quella che
ha commesso l’abuso; ii) quando
l’intervenuta alienazione della res
non palesi finalità elusive; iii) quando fra
il commesso abuso e l’ordine di demolizione
sia intercorso un rilevante lasso di tempo,
sì da ingenerare nel proprietario uno stato
di affidamento in ordine alla desistenza da
parte dell’amministrazione dall’adozione di
atti pregiudizievoli (Cons.
St., sez. IV, n. 1016 del 2014;
id.,
sez. V, n. 3847 del 2013).
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria la
fattispecie in esame non è riconducibile al
quadro generale dell’autotutela, non venendo
in rilievo l’ipotesi in cui
l’amministrazione abbia, a distanza di tempo
dal rilascio, disposto l’annullamento in
autotutela del titolo edilizio
illegittimamente adottato ovvero del
provvedimento di sanatoria rilasciato in
assenza dei necessari presupposti
legittimanti, ma la diversa ipotesi in cui
l’edificazione sia avvenuta nella totale
assenza di un titolo legittimante (laddove
–tuttavia– l’amministrazione abbia
provveduto solo a distanza di un
considerevole lasso di tempo all’adozione
dell’ingiunzione di demolizione). Si tratta,
in definitiva, dei casi di doverosa –se pure
tardiva– attivazione dell’ordine di
demolizione di fabbricati privi ab
origine di un qualunque titolo
legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Ad avviso dell’Alto Consesso non si può
applicare a un fatto illecito (l’abuso
edilizio) il complesso di acquisizioni che,
in tema di valutazione dell’interesse
pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria. Non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea
stessa di connettere al decorso del tempo e
all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno
dell’abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione
normativa a una siffatta –e inammissibile–
forma di sanatoria automatica o praeter
legem
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 17.10.2017 n. 9 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa
Adunanza Plenaria il ricorso in appello
proposto dai signori Fi., An. e Fa.Ba.
avverso la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio con cui è
stato respinto il ricorso da loro proposto
avverso l’ordinanza del Sindaco del Comune
di Fiumicino con la quale è stata loro
ingiunta la demolizione di un immobile
realizzato sine titulo oltre
trent’anni prima dalla loro comune dante
causa, la madre Co.Fi..
2. Come si è anticipato in narrativa,
viene chiesto a questa Adunanza
Plenaria di chiarire la questione dell’onere
motivazionale che grava in capo
all’amministrazione in sede di adozione di
un’ingiunzione di demolizione (nel caso in
esame, conseguente alla realizzazione di un
immobile in area vincolata nella radicale
assenza di un valido titolo edilizio) e se
in particolare, decorso un considerevole
lasso di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, gravi in capo
all’amministrazione un onere motivazionale
aggiuntivo, che non resti limitato al solo
richiamo alla normativa urbanistica violata
e alla conseguente necessità di ripristinare
l’ordine giuridico compromesso.
Viene altresì chiesto di
stabilire se uno specifico onere di
motivazione in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico e concreto alla
demolizione sia altresì ravvisabile
nell’ipotesi in cui l’attuale proprietario
del bene non sia responsabile dell’abuso e
il trasferimento del bene non denoti intenti
elusivi della normativa in tema di onere di
ripristino.
3. L’ordinanza di rimessione ha
correttamente –sia pur sinteticamente–
richiamato gli argomenti essenziali che
sostengono le due principali tesi
attualmente in campo.
3.1. In base a un primo orientamento (ad
oggi maggioritario)
l’ordinanza di demolizione di un manufatto
abusivo non richiede una particolare
motivazione in ordine alla sussistenza di
uno specifico interesse pubblico al
ripristino della legittimità violata, e ciò
nonostante sia decorso un considerevole
lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.
In base all’orientamento in parola deve
infatti escludersi la configurabilità di un
legittimo affidamento in capo al
responsabile dell’abuso o al suo avente
causa nonostante il decorso del tempo dal
commesso abuso
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 10.05.2016, n. 1774; id., VI,
23.10.2015, n. 4880; id., VI, 11.12.2013, n.
5943).
Si è osservato al riguardo che
l’ordine di demolizione, come tutti
i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né –ancora– una
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017,
n. 908).
Si è inoltre osservato al riguardo che,
laddove si annettesse rilievo in
siffatte ipotesi al decorso del tempo –sia
pure, al solo fine di incidere sul quantum
di motivazione richiesto
all’amministrazione-, si perverrebbe in via
pretoria a delineare una sorta di ‘sanatoria
extra ordinem’, la quale opererebbe
anche nelle ipotesi in cui il soggetto
interessato non abbia potuto –o voluto–
avvalersi delle disposizioni normative in
tema di sanatoria di abusi edilizi
(in tal senso: Cons. Stato, VI, 15.01.2015,
n. 13).
3.2. In base a un diverso (e minoritario)
orientamento,
l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto
dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell’opera edilizia senza
titolo abilitativo o in totale difformità da
esso, è in linea di principio
sufficientemente motivata con l’affermazione
dell’accertata abusività dell’opera. Deve
tuttavia essere fatta salva l’ipotesi in
cui, per il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell’abuso e il protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione preposta
alla vigilanza, si sia ingenerata una
posizione di affidamento nel privato:
ipotesi -questa- in relazione alla quale si
ravvisa un onere di congrua motivazione la
quale indichi, avuto riguardo anche
all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il
pubblico interesse -evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità- idoneo
a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2016,
n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti
simile a quella appena richiamata
si è affermato che, quanto meno in
alcuni ‘casi-limite’, l’ingiunzione
di demolizione debba essere assistita da
un’adeguata motivazione circa lo specifico
interesse pubblico sotteso alla riduzione in
pristino dell’area. Ciò si renderà
necessario, in particolare: i) quando il
proprietario del bene sia pacificamente
persona diversa da quella che ha commesso
l’abuso; ii) quando l’intervenuta
alienazione della res non palesi
finalità elusive; iii) quando fra il
commesso abuso e l’ordine di demolizione sia
intercorso un rilevante lasso di tempo, sì
da ingenerare nel proprietario uno stato di
affidamento in ordine alla desistenza da
parte dell’amministrazione dall’adozione di
atti pregiudizievoli
(in tal senso: Cons. Stato, IV, sent. 1016
del 2014; id., V, sent. 3847 del 2013).
A conclusioni non dissimili è pervenuta
quella parte della giurisprudenza secondo
cui il decorso del tempo
incide sulla certezza dei rapporti giuridici
e può incidere significativamente con le
possibilità di difesa dell’interessato sia
nei confronti dell’amministrazione che del
dante causa
(in tal senso: Cons. Stato, IV, 04.03.2014,
n. 1016; id., V, 15.07.2013, n. 3847; id.,
V, 24.11.2013, n. 2013).
4. Ad avviso di questa Adunanza Plenaria il
dato di fondo da cui occorre prendere le
mosse è costituito dall’oggettiva non
riconducibilità della fattispecie in esame
al quadro generale dell’autotutela.
Ed infatti, non viene qui in rilievo
l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a
distanza di tempo dal rilascio, disposto
l’annullamento in autotutela del titolo
edilizio illegittimamente adottato ovvero
del provvedimento di sanatoria rilasciato in
assenza dei necessari presupposti
legittimanti.
Al contrario, il caso che qui rileva si
presenta in termini sensibilmente diversi e
concerne la diversa ipotesi in cui
l’edificazione sia avvenuta nella totale
assenza di un titolo legittimante (laddove
–tuttavia– l’amministrazione abbia
provveduto solo a distanza di un
considerevole lasso di tempo all’adozione
dell’ingiunzione di demolizione).
Si tratta, in definitiva, dei casi
(frequenti nella pratica) di doverosa –se
pure tardiva– attivazione dell’ordine di
demolizione di fabbricati privi ab
origine di un qualunque titolo
legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Al riguardo ci si limita a rilevare che:
- nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto
amministrativo illegittimo ma favorevole al
proprietario, si radica comunque un
affidamento in capo al privato beneficiato
dall’atto in questione e ciò giustifica una
scelta normativa (quale quella trasfusa
nell’articolo 21-nonies della l. 241 del
1990) volta a rafforzare l’onere
motivazionale gravante in capo
all’amministrazione. Si tratta di stabilire
sino a che punto e in che termini
l’ordinamento si debba far carico di
tutelare un siffatto stato di legittimo
affidamento;
- al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di
demolizione, la mera inerzia da parte
dell’amministrazione nell’esercizio di un
potere/dovere finalizzato alla tutela di
rilevanti finalità di interesse pubblico non
è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo. Allo stesso modo,
tale inerzia non può certamente radicare un
affidamento di carattere “legittimo”
in capo al proprietario dell’abuso, giammai
destinatario di un atto amministrativo
favorevole idoneo a ingenerare
un’aspettativa giuridicamente qualificata.
In definitiva, non si può
applicare a un fatto illecito (l’abuso
edilizio) il complesso di acquisizioni che,
in tema di valutazione dell’interesse
pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
5. Va d’altra parte osservato che, anche
nelle sue declinazioni più estreme, la tesi
maggiormente orientata al riconoscimento
delle ragioni e delle prerogative
proprietarie non giunge a riconoscere
l’illegittimità dell’ordine di demolizione
quale diretta conseguenza della sua tardiva
emanazione, né postula una sorta di ‘sanatoria
extra ordinem’ quale effetto dell’omessa
o tardiva adozione del provvedimento
demolitorio.
Ed infatti, le decisioni riconducibili a
tale approccio pervengono soltanto –in
maniera più o meno incisiva– a delineare in
capo all’amministrazione che abbia omesso
per un considerevole lasso di tempo di
adottare l’ordine di demolizione un onere di
motivazione sia in ordine alle ragioni di
interesse pubblico –concreto e attuale–
sottese alla demolizione, sia in ordine alla
comparazione fra l’interesse pubblico al
ripristino della legittimità violata e
l’interesse privato alla permanenza in loco
del manufatto.
La stessa sentenza della Quarta Sezione di
questo Consiglio di Stato n. 1016 del 2014
(invocata dagli appellanti a sostegno delle
proprie tesi) non ha affermato
l’illegittimità ex se dell’ordine di
demolizione tardivamente adottato, ma ha
soltanto individuato una serie di “casi-limite”
in cui graverebbe comunque
sull’amministrazione l’obbligo di motivare
puntualmente in ordine alle ragioni sottese
alla tardiva attivazione del potere
ripristinatorio (la sentenza in questione ha
individuato tali “casi-limite” nelle
ipotesi in cui: i) il proprietario attuale
non abbia commesso l’abuso; ii)
l’alienazione in suo favore non palesi
intenti elusivi; iii) fra il commesso abuso
e il provvedimento demolitorio sia
intercorso un notevole lasso di tempo).
5.1. Si osserva comunque al riguardo che non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea
stessa di connettere al decorso del tempo e
all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno
dell’abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione
normativa a una siffatta –e inammissibile–
forma di sanatoria automatica o praeter
legem.
5.2. Una chiara conferma di quanto appena
rappresentato si desume dal terzo periodo
del comma 4-bis dell’articolo 31 del d.P.R.
380 del 2001 (per come introdotto dal comma
1, lettera q-bis), dell’articolo 17 del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133), secondo
cui “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le
responsabilità penali, costituisce elemento
di valutazione della performance
individuale, nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente”.
La disposizione appena richiamata chiarisce
che il decorso del tempo dal momento del
commesso abuso non priva giammai
l’amministrazione del potere di adottare
l’ordine di demolizione, configurando
piuttosto specifiche –e diverse– conseguenze
in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario responsabili
dell’omissione o del ritardo nell’adozione
di un atto che è e resta doveroso nonostante
il decorso del tempo.
6. Se pertanto il decorso del tempo non può
incidere sull’ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l’illecito
attraverso l’adozione della relativa
sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l’ordinanza di demolizione di
immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
6.1. Deve quindi ribadirsi che, in questi
casi, nemmeno si pone un problema di
affidamento, che presuppone una posizione
favorevole all’intervento riconosciuta da un
atto in tesi illegittimo poi successivamente
oggetto di un provvedimento di autotutela.
Un condiviso orientamento ha sottolineato al
riguardo l’oggettiva differenza che sussiste
fra:
- (da un lato) l’adozione di determinazioni sfavorevoli di segno
opposto rispetto ad altre precedenti e di
segno favorevole per l’interessato (come
l’annullamento in autotutela del titolo
edilizio o del provvedimento di sanatoria) e
- (dall’altro) l’adozione dell’ordine di demolizione in caso di
interventi realizzati in radicale assenza
del permesso di costruire (articolo 31 del
d.P.R. 380 del 2001).
In tale secondo novero di ipotesi è del
tutto congruo che l’ordine di demolizione
sia adeguatamente motivato mercé il richiamo
al comprovato carattere abusivo
dell’intervento, senza che si impongano sul
punto ulteriori oneri motivazionali,
applicabili nel diverso ambito
dell’autotutela decisoria (in tal senso:
Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
7. A conclusioni del tutto analoghe (in
punto di insussistenza di un obbligo di
motivazione nelle ipotesi che qui rilevano)
è pervenuta la giurisprudenza di questo
Consiglio anche prendendo le mosse da angoli
visuali diversi da quello dell’applicabilità
o meno delle categorie dell’autotutela
decisoria.
7.1. E’ stato in primo luogo affermato che
il tempo trascorso (in ipotesi,
anche rilevante) fra il momento della
realizzazione dell’abuso e l’adozione
dell’ordine di demolizione non determina
l’insorgenza di uno stato di legittimo
affidamento e non innesta in capo
all’amministrazione uno specifico onere di
motivazione. Ciò in quanto il decorso del
tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo
dell’intervento
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; id., VI,
06.03.2017, n. 1060).
7.2. E’ stato inoltre affermato che
il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione (che deve essere
adottato a seguito della sola verifica
dell’abusività dell’intervento) fa sì che
esso non necessiti di una particolare
motivazione circa l’interesse pubblico
sotteso a tale determinazione. Inoltre, il
provvedimento di demolizione non deve
motivare in ordine a un ipotetico interesse
del privato alla permanenza in loco dell’opus
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
7.3. E’ stato, ancora, affermato che
non occorre motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale
sia ordinata la demolizione di un immobile
abusivo neppure quando sia trascorso un
notevole lasso di tempo dalla sua
realizzazione. Ed infatti l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una
situazione antigiuridica soltanto laddove
esso presenti un carattere incolpevole,
mentre la realizzazione di un’opera abusiva
si concretizza in una volontaria attività
del costruttore realizzata contra legem
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; id., VI,
13.12.2016, n. 5256).
Si è altresì osservato –e in modo parimenti
condivisibile- che l’ordine
di demolizione presenta un carattere
rigidamente vincolato e non richiede né una
specifica motivazione in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, né una
comparazione fra l’interesse pubblico e
l’interesse privato al mantenimento in loco
dell’immobile. Ciò, in quanto non può
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo
non può in alcun modo legittimare
(in tal senso –ex multis-: Cons.
Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV,
12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n.
3750).
Deve pertanto essere confermato, anche da
questi diversi angoli visuali, che,
nelle ipotesi che qui rilevano di
edificazioni radicalmente abusive e giammai
assistite da alcun titolo, il richiamo alla
figura, peraltro ambigua e controversa,
dell’interesse pubblico in re ipsa,
appare improprio.
Ciò perché:
- da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio
e doveroso del provvedimento esclude la
pertinenza del richiamo alla motivazione
dell’interesse pubblico;
- dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi
risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’
dallo stesso legislatore (il quale ha
sancito in via indefettibile l’onere di
demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del
d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando
l’amministrazione dall’onere di svolgere –in
modo esplicito o implicito– una siffatta
ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti.
7.4. L’ordinanza di rimessione si è altresì
soffermata sulla possibile sussistenza di un
obbligo per l’amministrazione di motivare
l’ordine di demolizione in relazione alla
concretezza ed attualità dell’interesse
pubblico alla demolizione. Le considerazioni
sopra esposte -che evidenziano la non
riconducibilità della fattispecie
all’autotutela decisoria- escludono la
rilevanza delle questioni attinenti
all’onere motivazionale.
8. L’ordinanza di rimessione si sofferma
inoltre sul caso in cui l’attuale
proprietario dell’immobile non sia
responsabile dell’abuso e non risulti che la
cessione sia stata effettuata con intenti
elusivi.
8.1. Si osserva in primo luogo al riguardo
che il carattere reale della misura
ripristinatoria della demolizione e la sua
precipua finalizzazione al ripristino di
valori di primario rilievo non si pongono in
modo peculiare nelle ipotesi in cui il
proprietario non sia responsabile
dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma
restando la doverosità della misura
ripristinatoria, la diversità soggettiva fra
il responsabile dell’abuso e l’attuale
proprietario imponga all’amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e
la stretta doverosità delle sue conseguenze
non consentono di valorizzare ai fini
motivazionali la richiamata alterità
soggettiva (la quale può –al contrario–
rilevare a fini diversi da quelli della
misura ripristinatoria, come nelle ipotesi
del riparto delle responsabilità fra il
responsabile dell’abuso e il suo avente
causa).
Del resto, la principale (se non l’unica)
ragione che potrebbe indurre a valorizzare
la richiamata alterità soggettiva è quella
relativa allo stato soggettivo di buona fede
e di affidamento che caratterizza la
posizione dell’avente causa.
Tuttavia –e per le ragioni dinanzi esposte
retro, sub 7.1 e 7.3– tali stati soggettivi
non possono essere in alcun modo valorizzati
ai fini motivazionali
In definitiva l’Adunanza
plenaria ritiene di confermare
l’orientamento secondo cui gli ordini di
demolizione di costruzioni abusive, avendo
carattere reale, prescindono dalla
responsabilità del proprietario o
dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli
abusi assumendo comunque rilievo sotto altri
profili), applicandosi anche a carico di chi
non abbia commesso la violazione, ma si
trovi al momento dell’irrogazione in un
rapporto con la res tale da
assicurare la restaurazione dell’ordine
giuridico violato
(in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI,
26.07.2017, n. 3694).
9. A conclusioni del tutto analoghe a quelle
appena rassegnate deve giungersi anche in
relazione all’ipotesi in cui sia pacifico
che l’alienazione dell’immobile oggetto di
abuso sia stata realizzata in circostanze
che inducono ad escludere qualunque intento
elusivo.
Anche in questo caso ci si limita ad
osservare che tale circostanza –inerente in
ultima analisi allo stato soggettivo
dell’avente causa– non può in alcuno modo
rilevare sulla doverosità delle conseguenze
connesse alla commissione dell’abuso in
quanto tale.
10. In conclusione l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato enuncia il seguente
principio di diritto: “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un
immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto,
non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della
legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in
questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”. |
EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di costruzioni abusive.
E' legittima l'ordinanza di demolizione basata sul
presupposto dell'assenza del titolo paesaggistico, ex D.Lgs.
n. 42/2004, di una pergotenda che, in ragione delle sue
dimensioni, è idonea ad alterare l'aspetto dell'edificio, e
dunque ha un impatto sull'estetica e sulla "fotografia" del
paesaggio a prescindere infatti dalla sua natura precaria e
amovibile (di per sé irrilevante per l'applicazione delle
disposizioni dell'indicato Codice dei beni culturali e del
paesaggio).
---------------
Ritenuto che i motivi di appello non sono fondati, poiché:
- la sentenza impugnata ha correttamente considerato dirimente il
fatto che l’ingiunzione n. 17 del 22.03.2016 (sulla quale
si è nel corso del giudizio trasferito l’interesse a
ricorrere) trova autonomo fondamento giuridico nella norma
speciale che sanziona la violazione del vincolo
paesaggistico;
- come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, mentre
l’ingiunzione di demolizione oggetto del ricorso
introduttivo era basata sul solo difetto di titolo edilizio,
la successiva ordinanza n. 17 del 2016 risulta basata sul
presupposto dell’assenza del titolo paesaggistico, in quanto
in essa si fa espresso riferimento al fatto che la parte
ricorrente aveva presentato un’istanza ai sensi dell’art.
167 d.lgs. n. 42 del 2004, e che tale istanza era stata
dichiarata archiviata per mancata integrazione documentale
(con nota n. 4561 del 03.03.2016);
- il Comune di Sant’Agnello è collocato in un’area geografica ‒la
penisola sorrentina‒ interamente sottoposta al vincolo
paesaggistico, e ciò importa che anche per l’opera in
contestazione si impone la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica ‒atto autonomo e
presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio‒ in mancanza della quale l’applicazione
della riduzione in pristino è doverosa;
- a prescindere infatti dalla sua (peraltro contestata da
controparte) natura precaria e amovibile (di per sé
irrilevante per l’applicazione delle disposizioni del codice
n. 42 del 2004), la pergotenda oggetto dell’ingiunzione, in
ragione delle sue dimensioni, è idonea ad alterare l’aspetto
dell’edificio, e dunque ha un impatto sull’estetica e sulla
“fotografia” del paesaggio;
- l’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche
in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza
dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato;
- da ultimo, quanto all’asserito vincolo discendente dal cosiddetto
‘giudicato’ cautelare, è dirimente considerare che
l’ordinanza cautelare del giudice amministrativo è un
provvedimento meramente interinale, destinato ad essere
superato dal giudizio di merito;
- per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 12.10.2017 n. 4736
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distinzione tra variante essenziale e variante
minore o leggera: chiarimenti dal Tar Campania.
Ogni modifica incompatibile con il
disegno globale ispiratore dell'originario progetto
edificatorio costituisce variante essenziale.
Con la
sentenza 02.10.2017 n. 4605, la IV Sez. del TAR
Campania-Napoli illustra le differenze che intercorrono tra
la nozione di “variante essenziale” e il concetto di
“variante minore o leggera”.
“Costituisce variante essenziale”,
ricorda il Tar Napoli, “ogni modifica
incompatibile con il disegno globale ispiratore
dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto
qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della
configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la
definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32,
d.P.R. n. 380 del 2001, la quale ricomprende il mutamento
della destinazione d'uso implicante alterazione degli
standards, l'aumento consistente della cubatura o della
superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri
urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche
dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle
norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende
le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi
tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità
abitative”.
Invece, “ai fini dell'individuazione
della categoria di variante minore o leggera, l'art. 22,
comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate
a s.c.i.a. (ex d.i.a.) le varianti a permessi di costruire
che non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la
categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio
qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004,
non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel
permesso di costruire.
In tali ipotesi, la s.c.i.a. (ex d.i.a.) costituisce "parte
integrante del procedimento relativo al permesso di
costruzione dell'intervento principale" e può essere
presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei
lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle opere in difformità dal
permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti
leggere minori o leggere”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
1.1. Risulta fondato, in particolare, il vizio di difetto di
motivazione dedotto dall’appellante sotto il profilo della
violazione delle garanzie e dei presupposti previsti
dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio, ai sensi del combinato disposto dell'articolo
21-nonies della l. n. 241/1990 e degli articoli 22 e 23 del
d.P.R. n. 380/2001.
2. Occorre anzitutto procedere all’inquadramento della
tipologia di intervento in contestazione che è stato
realizzato sull’immobile mediante la presentazione di una
scia.
Ed invero l’errore sui requisiti soggettivi
o oggettivi della DIA, poiché è frutto di una dichiarazione
unilaterale, non può comportare in favore di chi la rende un
affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a
riceverla, per il solo fatto che quest’ultima non avrebbe
esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori,
potendo tale omissione comportare un’eventuale
responsabilità amministrativa, non già la convalida –recte
la sanatoria- della DIA mancante di un requisito essenziale.
Anche argomenti di ordine testuale e
sistematico consentono di confermare che il privato non può
accreditarsi, mediante DIA, un titolo edilizio per opere per
le quali è richiesta la più complessa procedura del rilascio
del permesso di costruire.
A tale riguardo appaiono evidenti le
analogie fra il caso in decisione e l’ipotesi di una DIA
priva dei requisiti essenziali e per questo inefficace
(Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2014, n. 1413),
o quella prevista dall’art. 23, comma 3, del d.P.R.
n. 380/2001 secondo cui la DIA non produce effetti quando
l’intervento edilizio incide su interessi sensibili e
l’Autorità, cui ne è affidata la tutela, non l’abbia
autorizzato o, ancora, se le dichiarazioni sostitutive di
atto notorio ad essa allegate non sono veritiere
(Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.2013 n. 5513).
In tale ipotesi, allora, il provvedimento,
nel rimuovere incidentalmente la scia, in sostanza verifica
che le opere edili non sono legittimabili con tale strumento
ed ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente
rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover
agire entro un termine ragionevole, chiaramente
inapplicabile all’attività di vigilanza edilizia, tanto più
che nessun affidamento può vantare la ricorrente, per quanto
detto in precedenza
(cfr. Tar Bari, II, n. 147 del 2017).
2.1. Su queste premesse è bene precisare, in punto di fatto,
che l’unico elemento ostativo alla validazione della scia n.
273 del 2016 (che ha comportato per connessione la
declaratoria di inefficacia di quella successiva n. 767 del
2016) è rappresentato dall’abbassamento della porzione di
solaio da quota +13,71 ml a quota +13,05, che secondo
l’amministrazione comunale realizza un potenziale cambio di
destinazione d’uso che conduce ad annoverare l’intervento
fra quelli di ristrutturazione, non assentibili con scia.
2.2. Secondo la tesi del ricorrente la ragione
dell’intervento risiede nel fatto che il solaio riproposto a
quota +13,05 è funzionale alla struttura della scala ed
all’utilizzo dell’ascensore, poiché a quella quota (+13,05)
vi è il pianerottolo della scala e lo sbarco della porta
dell’ascensore, i cui lavori sono stati ritualmente
assentiti.
2.3. Va considerato che l’abbassamento di
quota del solaio, anche se lascia immutata la superficie
utile, può, in presenza di elemento concorrente, costituire
l’indice di un cambio di destinazione d’uso.
Tuttavia, nel caso di specie, l’assenza di ulteriori
contestazioni o rilievi in merito al contestato cambio di
destinazione d’uso rendono il provvedimento impugnato privo
di adeguato supporto motivazionale.
2.4. Su queste premesse fattuali, vale osservare che
costituisce variante essenziale ogni modifica
incompatibile con il disegno globale ispiratore
dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto
qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della
configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la
definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32,
d.P.R. n. 380 del 2001, la quale ricomprende il mutamento
della destinazione d'uso implicante alterazione degli
standards, l'aumento consistente della cubatura o della
superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri
urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche
dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle
norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende
le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi
tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità
abitative.
2.5. Ai fini, invece, dell'individuazione
della categoria di variante minore o leggera, l'art. 22,
comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate
a s.c.i.a. (ex d.i.a.) le varianti a permessi di costruire
che non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la
categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio
qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004,
non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel
permesso di costruire.
In tali ipotesi, la s.c.i.a. (ex d.i.a.)
costituisce "parte integrante del procedimento relativo
al permesso di costruzione dell'intervento principale" e
può essere presentata prima della dichiarazione di
ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22
consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere
in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle
entro la fine dei lavori, purché si tratti -come si è visto-
di varianti leggere minori o leggere.
3. Come già rilevato in sede cautelare,
l’Amministrazione, quando interviene a distanza di tempo
dalla formazione di un titolo abilitativo astrattamente
idoneo alla realizzazione di alcuni lavori, deve illustrare
in maniera diffusa le ragioni, anche di interesse pubblico,
che giustificano il ritiro dell’abilitazione, ovvero le
altre ragioni che impongono il provvedimento sanzionatorio
con l’ordine di riduzione in pristino.
Nella specie tale motivazione non può ritenersi sufficiente
in quanto non si evincono i profili di asimmetria
sostanziale tra quanto assentito con la d.i.a. e quanto
realizzato.
3.1. La d.i.a., una volta decorsi i termini
per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo,
costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto
tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio
del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria.
Pertanto, deve considerarsi illegittima l’adozione, da parte
di un’Amministrazione comunale, di un provvedimento
repressivo-inibitorio della d.i.a. (già consolidatasi) oltre
il termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione
della d.i.a. e senza le garanzie e i presupposti previsti
dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio (cfr. Cons. Stato, n. 2842 del 2016 e n. 4780 del
2014).
4. Ne consegue l’accoglimento del primo motivo di ricorso,
con assorbimento della ulteriori censure. Le spese seguono
la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. |
settembre 2017 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Questa Corte ha
in passato, per un verso, ritenuto che fosse soggetta
a permesso di costruire l'esecuzione di interventi
finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento
del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una
modificazione permanente dello stato materiale e della
conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso
da quello che gli era proprio e, per altro verso, che
la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del
previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui,
avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area
relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto
nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio.
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il
descritto intervento edilizio alla nozione di
"ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il
medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a
fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario
necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire;
sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia
correttamente configurato, nel caso di specie, la
contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c),
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni
urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio
del committente, del titolare del permesso di
costruire, del direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di
intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A.
illegittima.
---------------
La legittimità di una procedura di rilascio di un titolo
abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano
indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto
l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente
al giudice penale verificare se siano state effettivamente
rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di
assentire un determinato intervento edilizio.
---------------
Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non
sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una
denuncia di inizio attività alternativa al permesso di
costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001,
mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai
sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere
richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati
in assenza o in difformità della denuncia di inizio
attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R.
citato- ma richiedono la procedura di accertamento di
conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36
del citato decreto.
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi
già realizzati possano essere successivamente assentiti
soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del
più pregnante controllo richiesto alla pubblica
amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni
originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si
proceda ad una valutazione di doppia conformità agli
strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito
della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato
accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
---------------
E' illegittimo e non determina l'estinzione del reato
edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e
45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso
di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di
specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto
abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici,
in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con
la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta
esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza
alla disciplina urbanistica.
---------------
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la Corte
territoriale abbia adeguatamente dato conto del fatto che le
opere realizzate -consistenti in una pavimentazione eseguita
previa spianatura del terreno esistente e con posa in opera
di erborelle amovibili, in un'area dell'ampiezza di 700
metri quadri, parzialmente destinata a viabilità secondo la
variante al P.R.G., in due muri divisori di metri 5,90 per
1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri,
nonché in un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni
di metri 56,80 per 2,20 per 0,30- avessero
significativamente inciso sull'assetto urbanistico della
zona de qua attraverso una trasformazione permanente del
suolo; e che, come tali, esse fossero qualificabili come "nuova
costruzione", tanto da richiedere il preventivo rilascio
di un permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1,
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto, il ricorso introduttivo argomenta nel senso che
l'intervento dovesse essere qualificato come "ristrutturazione
edilizia", realizzata a servizio del fabbricato. E da
tale qualificazione sarebbe derivato che le opere avrebbero
potuto essere assentite con permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001
ovvero con la D.I.A. sostitutiva o Super-D.I.A. che ai sensi
dell'art. 22, comma 3, lett. a), del predetto decreto, nella
versione all'epoca vigente, poteva essere adottata, in luogo
del permesso di costruire, proprio in relazione agli
"interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10,
comma 1, lettera c)".
2.1. La tesi difensiva è, però, manifestamente infondata.
In primo luogo è opportuno osservare che la stessa D.I.A.
presentata dalle due imputate aveva qualificato l'intervento
edificatorio non come "ristrutturazione edilizia",
quanto piuttosto come "manutenzione straordinaria";
ciò a riprova del fatto che la denominazione prospettata in
ricorso configuri, all'evidenza, un tentativo di
giustificare ex post il ricorso allo strumento della
D.I.A. in luogo del permesso di costruire. Tanto è vero che
la sentenza di secondo grado non si è in alcun modo
confrontata, sia pure criticamente, con tale tesi, mai
avanzata nel corso del giudizio di appello.
Al di là di tale osservazione preliminare, rileva il
Collegio che la illegittimità della D.I.A. presentata dalle
ricorrenti fosse stata correttamente riscontrata dai giudici
di appello sulla base di una serie di concreti elementi, che
le argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso
introduttivo non sono riuscite a confutare.
Secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n.
380 del 2001, infatti, costituiscono interventi di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono
subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di
nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso. E secondo l'art. 3,
comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. sono qualificati come
"interventi di ristrutturazione edilizia", gli
interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica".
In questa prospettiva, deve risolutamente escludersi che
l'intervento edilizio contestato a Ma. e Ti. Di Re. potesse
essere qualificato come "ristrutturazione edilizia".
Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, in
luogo dell'originaria corte costituente pertinenza del
fabbricato circostante, era stata realizzata, mediante
livellamento e successiva pavimentazione, una vasta area
destinata a parcheggio, con l'erezione di due muri divisori
di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60
per 0,30 metri, nonché di un muro di cinta in calcestruzzo
delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30.
Un intervento complessivo, quello appena descritto,
pacificamente riconducibile, secondo la consolidata
interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla
nozione di "nuova costruzione", secondo quanto
ricavabile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1,
lett. d) ed e), del citato d.P.R., avuto riguardo alla
significativa incidenza delle opere sull'assetto urbanistico
del territorio, riscontrata dai giudici di appello anche
alla stregua della documentazione fotografica in atti.
In passato, del resto, questa Corte ha, per un verso,
ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire
l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un
piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale
attività avesse determinato una modificazione permanente
dello stato materiale e della conformazione del suolo per
adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era
proprio (Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 12/01/2017,
Palma, Rv. 268847) e, per altro verso, che la
realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del
previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui,
avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area
relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto
nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio (Sez.
3, n. 52040 del 11/11/2014, dep. 15/12/2014, Langella e
altro, Rv. 261521).
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il
descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione
edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo
potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a
fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario
necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire;
sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia
correttamente configurato, nel caso di specie, la
contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c),
del d.P.R. n. 380 del 2001. Va, infatti, ribadito che in
tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità
per abuso edilizio del committente, del titolare del
permesso di costruire, del direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n.
380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento
realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez.
3, n. 10106 del 21/01/2016, dep. 11/03/2016, Torzini, Rv.
266291).
2.2. Né potrebbe argomentarsi, in contrario, seguendo il
percorso ricostruttivo svolto dalle ricorrenti che la
legittimità del ricorso alla D.I.A. possa ritenersi
dimostrata dal fatto che il comune di Chieri aveva assentito
la presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché
subordinatamente al rilascio del menzionato atto d'obbligo.
In proposito, è appena il caso di rilevare che la
legittimità di una procedura di rilascio di un titolo
abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano
indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto
l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente
al giudice penale verificare se siano state effettivamente
rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di
assentire un determinato intervento edilizio.
3. Parimenti infondato è, poi, il secondo profilo di
doglianza, con il quale le ricorrenti deducono che in
ogni caso l'approvazione della D.I.A. in sanatoria avrebbe
realizzato sostanzialmente un accertamento di conformità.
Secondo quanto può ricavarsi dalla lettura della sentenza e
dai motivi di ricorso, infatti, Ma. e Ti. Di Re. avevano
presentato una D.I.A. in sanatoria secondo la procedura
stabilita dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, a norma
del quale "la realizzazione di interventi edilizi di cui
all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in
difformità dalla denuncia di inizio attività" consente
al responsabile dell'abuso o al proprietario dell'immobile
di "ottenere la sanatoria dell'intervento versando la
somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro
stabilita dal responsabile del procedimento in relazione
all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia
del territorio", sempre che l'intervento realizzato
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento,
sia al momento della presentazione della domanda (comma 4).
Tale disciplina, invero, si presenta del tutto distinta da
quella dettata dall'art. 36 dello stesso decreto, a mente
del quale "in caso di interventi realizzati in assenza di
permesso di costruire, o in difformità da esso ovvero in
assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui
all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla
scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33,
comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle
sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o
l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il
permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda" (comma 1).
Permesso in sanatoria il cui rilascio "è subordinato al
pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di
costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a
norma di legge, in misura pari a quella prevista
dall'articolo 16".
Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale
difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla
parte di opera difforme dal permesso (comma 2). Sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata (comma 3).
Ed anzi, secondo il consolidato orientamento di questa
Corte, cui deve essere data assoluta continuità, gli
interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non
sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una
denuncia di inizio attività alternativa al permesso di
costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001,
mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai
sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere
richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati
in assenza o in difformità della denuncia di inizio
attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R.
citato- ma richiedono la procedura di accertamento di
conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36
del citato decreto (Sez. 3, n. 41425 del 29/09/2011, dep.
14/11/2011, Eramo, Rv. 251327; Sez. 3, n. 28048 del
19/05/2009, dep. 09/07/2009, Barbarossa, Rv. 244580; Sez. 3,
n. 9894 del 20/01/2009, dep. 05/03/2009, Tarallo, Rv.
243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, dep. 20/12/2006,
Cariello, Rv. 235413).
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi
già realizzati possano essere successivamente assentiti
soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del
più pregnante controllo richiesto alla pubblica
amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni
originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si
proceda ad una valutazione di doppia conformità agli
strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito
della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato
accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
Sotto altro profilo, deve altresì osservarsi, con
riferimento all'atto d'obbligo sottoscritto dalla legale
rappresentante della società committente, il quale, secondo
le ricorrenti avrebbe concorso al perfezionamento della
fattispecie sanante, che anche con riferimento tale aspetto
il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte
ritiene che sia illegittimo e non determini l'estinzione del
reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt.
36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un
permesso di costruire in sanatoria condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità
agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione
contrasta ontologicamente con la ratio della
sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle
opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina
urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, dep.
29/12/2015, Carratù e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 19587
del 27/04/2011, dep. 18/05/2011, Montini e altro, Rv.
250477; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003, dep. 09/01/2004, P.M.
in proc. Fannmiano, Rv. 226871).
Ne consegue la mancata integrazione della fattispecie
sanante, anche a prescindere dal fatto che l'intervento
edilizio incidesse su un'area parzialmente destinata a
tratti di viabilità e che, per tale motivo, le opere
realizzate si ponessero in conflitto con la disciplina della
relativa macrozona del Piano di edilizia economica popolare;
ciò che avrebbe, comunque, impedito, anche sotto tale
concorrente profilo, l'accertamento di conformità,
richiedendo l'art. 36 del d.P.R. citato la piena conformità
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento
della presentazione della domanda (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43155). |
EDILIZIA PRIVATA:
Premesso che il ricorrente presentava, dapprima,
una SCIA in data 16.10.2015 e
successivamente, in data 16.11.2015 una richiesta di
permesso di costruire per la realizzazione di un gazebo su
suolo pubblico dinanzi alla propria attività commerciale
laddove, in
entrambe le istanze, precisava che non sarebbe stata
realizzata alcuna opera in cemento armato, è palese che la realizzazione di una piattaforma
di forma rettangolare in calcestruzzo sulla sede stradale
antistante l’attività commerciale dell’esponente costituisce
una evidente difformità dell’intervento rispetto a quanto
autorizzato dal Comune
che, nel rispetto del regolamento comunale, autorizzava la
realizzazione sul suolo pubblico di pedane in legno sulle
quali posizionare il gazebo, assicurando in tal modo il
raccordo tra la quota del piano stradale ed il marciapiede.
Del resto solo una struttura in legno poteva assicurare che
si trattasse di struttura precaria e facilmente rimovibile,
come tale compatibile con la destinazione dell’area pubblica
oggetto di occupazione che, nel caso del ricorrente, è
quella a parcheggio pubblico.
---------------
Quanto al preteso omesso esame della variante depositata il
29.06.2016 presso lo sportello unico per l’edilizia, rileva
il collegio che non si tratta di una modifica
dell’originario progetto, sub specie di variante in corso
d’opera o di richiesta di autorizzazione in sanatoria, bensì
di una nuova richiesta di deposito sismico ai sensi
dell’articolo 93 del d.p.r. 380 del 2001 che in alcun modo
rileva ai fini del superamento della contestata difformità
tra il basamento realizzato -in calcestruzzo- e quello
autorizzato -pedana in legno- donde la sostanziale
irrilevanza della nuova richiesta di deposito sismico, come
tale inidonea ad incidere sulla legittimità dell’ordine di
demolizione e dei presupposti provvedimenti di sospensione
dei lavori, tutti incentrati sulla predetta, pacifica,
difformità del basamento realizzato rispetto a quello
autorizzato.
In altre parole il deposito in questione rileva ai fini del
procedimento autorizzatorio di competenza regionale, avente
ad oggetto la regolarità dell’intervento dal punto di vista
sismico e, come tale, non integra i presupposti della
variante architettonica o della richiesta di sanatoria
sicché nessun obbligo di riesame preventivo poteva ritenersi
sussistente in capo al Comune prima dell’adozione
dell’ordine di demolizione.
---------------
Non risponde al vero che le
disposizioni in materia di costruzioni in zone sismiche
richiedano necessariamente la realizzazione di fondamenta in
cemento armato.
Il deposito previsto dall’art. 93 del d.p.r. numero 380
del 2001 per le zone sismiche ha infatti portata generale ed
è riferito a qualunque tipologia di costruzioni, a
prescindere dai materiali utilizzati. Ne discende che anche
le costruzioni in legno sono soggette all’obbligo del
deposito sismico.
La caratteristica delle opere costruttive incide invece
sull’operatività dell’art. 65 del d.p.r. numero 380 del
2001 atteso che solo per le opere di conglomerato cementizio
armato è prescritto l’obbligo di denuncia al competente
ufficio tecnico regionale.
A conferma di quanto precede deve ancora evidenziarsi che il
d.m. del 14.01.2008, recante il
compendio di norme sulle caratteristiche tecniche
costruttive, contempla una sezione dedicata esclusivamente
alle costruzioni di legno in zona sismica (cfr. il
capitolo
7 rubricato “Progettazione per azioni sismiche” al punto 7.7
rubricato “Costruzioni di legno”).
Ne discende, conclusivamente, che dal richiamo contenuto nel
titolo autorizzatorio (comunale) all’obbligo del deposito sismico non
può inferirsi alcuna valutazione circa le caratteristiche
dei materiali impiegati per la costruzione, ben potendo
trattarsi anche di costruzioni in legno, secondo quanto
peraltro espressamente indicato nella relazione presentata
dal ricorrente ai fini del rilascio del titolo
autorizzatorio.
---------------
Manifestamente infondata è la tesi per cui il deposito
sismico presso la regione potrebbe contenere elementi
progettuali integrativi rispetto all’originario progetto
depositato presso il competente ufficio comunale poiché, ove
si accedesse a tale tesi, quest’ultimo si vedrebbe spogliato
del potere di verificare la compatibilità dei materiali
utilizzati per la costruzione rispetto alle prescrizioni
edilizie che, come noto, disciplinano, a seconda delle zone,
anche le tipologie dei materiali consentiti, tanto è vero
che la dichiarazione di asseverazione del professionista, da
presentare ai sensi dell’art. 20 del d.p.r. 380 del
2001, deve attestare anche la conformità del progetto alle
norme antisismiche e quindi illustrare le caratteristiche
costruttive dell’intervento.
---------------
Con ricorso notificato il 27.09.2016 e depositato il
successivo 17 ottobre, il signor Bernardo Angelo ha
impugnato dinanzi all’intestato Tribunale amministrativo
regionale per il Molise gli atti indicati in epigrafe con i
quali il Comune di Bojano, avendo accertato che l’esponente
stava eseguendo le opere di posizionamento di un gazebo su
suolo pubblico –già autorizzato con provvedimento n. 9 del
05.05.2016- in difformità rispetto al progetto approvato
dal Comune, dapprima sospendeva i lavori e successivamente
ne ordinava la rimessione in pristino.
In particolare, la polizia municipale in data 22.06.2016, a seguito di sopralluogo, constatava la realizzazione
-ai fini della installazione del gazebo- di una
piattaforma di forma rettangolare in calcestruzzo, sulla
sede stradale antistante l’esercizio pubblico del
ricorrente, con la funzione di raccordo tra la quota del
piano stradale ed il marciapiede, in violazione di quanto
previsto dall’articolo 7 della delibera di consiglio
comunale numero 32 del 28.08.2015 -recante il
regolamento per l’autorizzazione all’installazione di gazebo
su aree comunali- il quale prescrive che l’attacco a terra
del gazebo, di carattere precario e facilmente amovibile,
debba essere costituito da una pedana in legno, aderente al
suolo, al fine di raccordare la differenza di quota tra il
piano della strada e quello del marciapiede. Ciò, in
generale, al fine di non arrecare pregiudizio alle aree
comunali che, in particolare, nella parte antistante
l’attività commerciale dell’esponente sono destinate a
parcheggio.
...
Il ricorso è infondato.
L’articolo 7 della delibera di consiglio comunale numero 32
del 28.08.2015 recante il regolamento “per il rilascio
di autorizzazioni al posizionamento di gazebo, pedane,
tavoli e sedie su area pubblica antistante di esercizi
commerciali” prescrive espressamente, con riferimento ai
gazebo, che “…2. L’attacco a terra, di carattere precario,
deve essere costituito da una pedana in legno, aderente al
suolo, che nasconda l’ancoraggio terra e raccordi la
differenza di quota tra il piano della strada e quello del
marciapiede. 3. Tale struttura, interamente e facilmente
amovibile, è composta da un telaio in legno o ferro”.
Conformemente a tale previsione regolamentare, il ricorrente
presentava, dapprima, una SCIA in data 16.10.2015 e
successivamente, in data 16.11.2015 una richiesta di
permesso di costruire per la realizzazione di un gazebo su
suolo pubblico dinanzi alla propria attività commerciale. In
entrambe le istanze precisava che non sarebbe stata
realizzata alcuna opera in cemento armato.
E’ dunque evidente che la realizzazione di una piattaforma
di forma rettangolare in calcestruzzo sulla sede stradale
antistante l’attività commerciale dell’esponente costituisce
una evidente difformità dell’intervento rispetto a quanto
autorizzato dal Comune con provvedimento numero 9 del 2016
che, nel rispetto del regolamento comunale, autorizzava la
realizzazione sul suolo pubblico di pedane in legno sulle
quali posizionare il gazebo, assicurando in tal modo il
raccordo tra la quota del piano stradale ed il marciapiede.
Del resto solo una struttura in legno poteva assicurare che
si trattasse di struttura precaria e facilmente rimovibile,
come tale compatibile con la destinazione dell’area pubblica
oggetto di occupazione che, nel caso del ricorrente, è
quella a parcheggio pubblico.
A fronte di tale dato oggettivo, univocamente comprovato
dalla documentazione in atti, il ricorrente articola una
serie di censure che tuttavia non colgono nel segno.
Quanto al preteso omesso esame della variante depositata il
29.06.2016 presso lo sportello unico per l’edilizia,
rileva il collegio che non si tratta di una modifica
dell’originario progetto, sub specie di variante in corso
d’opera o di richiesta di autorizzazione in sanatoria, bensì
di una nuova richiesta di deposito sismico ai sensi
dell’articolo 93 del d.p.r. 380 del 2001 che in alcun modo
rileva ai fini del superamento della contestata difformità
tra il basamento realizzato -in calcestruzzo- e quello
autorizzato -pedana in legno- donde la sostanziale
irrilevanza della nuova richiesta di deposito sismico, come
tale inidonea ad incidere sulla legittimità dell’ordine di
demolizione e dei presupposti provvedimenti di sospensione
dei lavori, tutti incentrati sulla predetta, pacifica,
difformità del basamento realizzato rispetto a quello
autorizzato.
In altre parole il deposito in questione rileva ai fini del
procedimento autorizzatorio di competenza regionale, avente
ad oggetto la regolarità dell’intervento dal punto di vista
sismico e, come tale, non integra i presupposti della
variante architettonica o della richiesta di sanatoria
sicché nessun obbligo di riesame preventivo poteva ritenersi
sussistente in capo al Comune prima dell’adozione
dell’ordine di demolizione.
Tale circostanza è stata peraltro debitamente esplicitata in
sede istruttoria da parte del Comune atteso che nelle
premesse dell’ordinanza di demolizione si richiama altresì
la relazione dell’ufficio urbanistica del 20.07.2016
protocollo numero 1085 nella quale si rileva che “non si può
dar seguito alla variante strutturale proposta in data 29.06.2016 con nota di prot. 9579 in quanto le opere,
costituendo anche variante architettonica, non sono
consentite dal regolamento adottato con D.C.C. n. 32/2015".
Ne discende che alcuna violazione dell’obbligo di provvedere
può configurarsi nel caso di specie né tantomeno una
violazione dell’obbligo di valutare i contributi istruttori
esibiti dal ricorrente, ai sensi e per gli effetti
dell’articolo 10 della legge numero 241 del 90 e, in
generale, dell’articolo 97 della costituzione.
La stessa regione Molise, nell’accertare, con nota
protocollo numero 6571 del 13.04.2017, la conformità
della variante strutturale alla normativa tecnica sismica,
precisava che l’esito positivo della verifica non poteva
intendersi come sostitutivo della valutazione urbanistica di
competenza comunale, evidenziando che quanto realizzato non
era comunque conforme a quanto previsto dall’articolo 7,
comma 2, del regolamento comunale.
In conclusione, non solo la variante strutturale è stata
espressamente esaminata dal comune nel corso
dell’istruttoria prodromica all’adozione dell’ordine di
demolizione, ma deve convenirsi con quanto rilevato sia dal
comune che dalla regione circa l’irrilevanza di tale atto a
sanare l’assenza di idoneo titolo edilizio in quanto atto
rilevante ai soli fini del deposito sismico e comunque in
contrasto con il regolamento comunale, con conseguente
abusività della piattaforma in calcestruzzo poiché
realizzata in violazione di quanto previsto dall’articolo 7,
comma 2, del regolamento approvato con delibera di consiglio
comunale numero 32 del 2015 e della stessa autorizzazione
numero 9/2016.
Con ulteriore motivo di censura il ricorrente deduce la
contraddittorietà dell’azione amministrativa per avere il
comune sanzionato la realizzazione di un’opera -rappresentata da una piattaforma in cemento armato-
implicitamente imposta come condizione al punto 13
dell’autorizzazione comunale n. 9 del 2016 laddove viene
prescritto, prima dell’inizio dei lavori, l’obbligo di
procedere al deposito sismico e strutturale ai sensi della
legge regionale numero 20 del 1996 e dell’articolo 93 del
d.p.r. numero 380 del 2001.
La doglianza è infondata in quanto non risponde al vero che
le disposizioni in materia di costruzioni in zone sismiche
richiedano necessariamente la realizzazione di fondamenta in
cemento armato.
Il deposito previsto dall’articolo 93 del d.p.r. numero 380
del 2001 per le zone sismiche ha infatti portata generale ed
è riferito a qualunque tipologia di costruzioni, a
prescindere dai materiali utilizzati. Ne discende che anche
le costruzioni in legno sono soggette all’obbligo del
deposito sismico sicché quanto previsto al punto 13
dell’autorizzazione numero 9/2016 non rappresenta altro che
una prescrizione riproduttiva dell’obbligo legale di cui al
richiamato articolo 93 valevole per tutte le tipologie
costruttive.
La caratteristica delle opere costruttive incide invece
sull’operatività dell’articolo 65 del d.p.r. numero 380 del
2001 atteso che solo per le opere di conglomerato cementizio
armato è prescritto l’obbligo di denuncia al competente
ufficio tecnico regionale.
A conferma di quanto precede deve ancora evidenziarsi che il
decreto ministeriale del 14.01.2008, recante il
compendio di norme sulle caratteristiche tecniche
costruttive, contempla una sezione dedicata esclusivamente
alle costruzioni di legno in zona sismica (cfr. il
capitolo
7 rubricato “Progettazione per azioni sismiche” al punto 7.7
rubricato “Costruzioni di legno”).
Ne discende, conclusivamente, che dal richiamo contenuto nel
titolo autorizzatorio all’obbligo del deposito sismico non
può inferirsi alcuna valutazione circa le caratteristiche
dei materiali impiegati per la costruzione, ben potendo
trattarsi anche di costruzioni in legno, secondo quanto
peraltro espressamente indicato nella relazione presentata
dal ricorrente ai fini del rilascio del titolo
autorizzatorio.
Manifestamente infondata è poi la tesi per cui il deposito
sismico presso la regione potrebbe contenere elementi
progettuali integrativi rispetto all’originario progetto
depositato presso il competente ufficio comunale poiché, ove
si accedesse a tale tesi, quest’ultimo si vedrebbe spogliato
del potere di verificare la compatibilità dei materiali
utilizzati per la costruzione rispetto alle prescrizioni
edilizie che, come noto, disciplinano, a seconda delle zone,
anche le tipologie dei materiali consentiti, tanto è vero
che la dichiarazione di asseverazione del professionista, da
presentare ai sensi dell’articolo 20 del d.p.r. 380 del
2001, deve attestare anche la conformità del progetto alle
norme antisismiche e quindi illustrare le caratteristiche
costruttive dell’intervento.
In definitiva l’introduzione nel distinto -seppur collegato-
procedimento di autorizzazione sismica di modifiche alle
caratteristiche costruttive dell’intervento, deve ritenersi
non coperta dal titolo edilizio in quanto sottratta alle
verifiche istruttorie di competenza comunale, prodromiche al
rilascio dell’autorizzazione, come la stessa regione non ha
mancato di evidenziare con la nota protocollo numero 6571
del 13.04.2017.
Infondato è anche il terzo motivo di censura in quanto non
può ritenersi sussistente un contrasto dell’articolo 7 del
regolamento comunale con la disciplina regionale e nazionale
in materia di norme antisismiche atteso che la previsione
della realizzazione della pedana di appoggio in legno,
anziché in cemento armato, in zona sismica, non viola alcuna
norma della legislazione antisismica, sia perché, come si è
visto, è lo stesso decreto ministeriale del 14.01.2008
ad ammettere la realizzazione in zona sismica di costruzioni
in legno (cfr. punto 7.7), sia perché, in ogni caso, la
valutazione circa l’idoneità di una struttura di supporto in
legno rispetto ai parametri tecnici previsti dalla normativa
antisismica è rimessa alla competente struttura regionale,
con la precisazione che appare tutt’altro che manifestamente
illogico prevedere che un semplice gazebo abbia come
struttura di appoggio una pedana in legno, in zona peraltro
tutelata dal punto di vista paesaggistico.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve
conseguentemente essere respinto (TAR Molise,
sentenza 14.09.2017 n. 304 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di accertamento di conformità (c.d.
sanatoria) non incide sulla legittimità della previa
ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente
l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il
risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se
l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di
adempimento dalla conoscenza del diniego.
---------------
Va premessa la differente natura
dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di
accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla
domanda di condono
edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e
n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis
applicabile al caso che ci occupa) e che, nella
prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a
sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del
procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che “dalla presentazione della
domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze
della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due
procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e
quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non
solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono
edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione
sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le
prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro
(sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n.
380/2001) l'accertamento ex post della conformità
dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo
abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione
formale)".
Per tali osservazioni alla fattispecie
dell'accertamento di conformità non può applicarsi la
sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i
condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985,
come richiamato dalle successive disposizioni di cui
all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della
legge n. 326 del 2003", poiché, come anche precisato, "A
seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex
art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di
demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine
occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella
contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con
riferimento alle domande di condono edilizio; ...".
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull'erroneità
della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di
sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente
alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria
formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un
nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché
l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare
un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo
termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è
formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare
applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma
che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce
doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla
base di una disciplina preesistente", per cui
"Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o
implicito, dell'istanza di accertamento di conformità,
l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di
demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un
soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo
grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per
cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del
diniego”.
---------------
6.2. Del pari infondato è il secondo motivo di
gravame.
Il Collegio intende aderire all’orientamento, anche di
recente riaffermato da questo Consiglio di Stato, secondo
cui “L'istanza di accertamento di conformità (c.d.
sanatoria) non incide sulla legittimità della previa
ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente
l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il
risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se
l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di
adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di
Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Va premessa, a tal riguardo, la differente natura
dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di
accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla
domanda di condono
edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e
n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis
applicabile al caso che ci occupa) e che, nella
prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a
sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del
procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il
Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per
discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della
domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze
della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due
procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e
quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non
solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono
edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione
sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le
prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro
(sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n.
380/2001) l'accertamento ex post della conformità
dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo
abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione
formale)" (TAR Lazio, sez. I-quater, 11.01.2011, n.
124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR
Campania Napoli, sez. VI, 03.09.2010, n. 17282 in
quest'ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie
dell'accertamento di conformità non può applicarsi la
sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i
condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985,
come richiamato dalle successive disposizioni di cui
all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della
legge n. 326 del 2003" (Tar Lazio, sez. I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, "A
seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex
art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia
l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché
a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa,
come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985
con riferimento alle domande di condono edilizio; ..." (Tar
Lazio, sez. I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione,
con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull'erroneità
della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di
sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente
alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria
formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un
nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché
l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare
un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo
termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è
formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a
determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare
applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma
che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce
doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla
base di una disciplina preesistente", per cui
"Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o
implicito, dell'istanza di accertamento di conformità,
l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di
demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un
soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo
grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per
cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del
diniego” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n.
466).
Ciò premesso, nella vicenda in esame si rileva che:
l'ordinanza di demolizione è stata impugnata anteriormente
alla presentazione dell'istanza di accertamento di
conformità; nel corso del giudizio si è formato il
silenzio-rigetto sull'istanza di sanatoria, di cui non
risulta –o almeno di ciò l’appellante non ha fornito la
prova– esservi stata impugnazione; all’esito di tutto ciò
l'ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.09.2017 n. 4269 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È pacifico, nella giurisprudenza amministrativa,
che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del
procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla
sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di
parte.
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata
delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi,
anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la
possibilità di apporti partecipativi dei soggetti
interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della
relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del successivo art. 21-octies,
comma 2, primo periodo, della l. n. 241 del 1990, il mancato
preavviso di diniego non produrrebbe, comunque, effetti
vizianti ove il comune, come nel caso di specie, per le
considerazioni suesposte, non avrebbe potuto emanare
provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa
l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo
urbanistico e paesaggistico.
---------------
6.3. Del tutto infondato si rivela, altresì, l’ultimo motivo
di impugnazione teso a censurare il vizio di motivazione, di
istruttoria, nonché la mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento e della comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza.
Dai documenti versati agli atti –contrariamente a quanto
prospettato dall’appellante- si evince che
l’amministrazione ha puntualmente ottemperato all’obbligo di
motivazione del provvedimento, dando conto delle ragioni che
hanno condotto al diniego dell’istanza di condono e
all’ordine di demolizione: l’essere, le opere (di rilevanti
dimensioni e con forte impatto sul paesaggio), state
realizzate in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione
paesaggistica, in assoluto contrasto con lo strumento
urbanistico vigente e con i vincoli paesaggistici imposti
dal piano e con decreto ministeriale.
È poi pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che i
provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono
essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del
procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla
sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di
parte (ci si limita a riportare l’ultimo precedente
specifico in argomento: Consiglio di Stato, sez. IV, 05.05.2017, n. 2065).
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata
delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi,
anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la
possibilità di apporti partecipativi dei soggetti
interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della
relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del
successivo art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l.
n. 241 del 1990, il mancato preavviso di diniego non
produrrebbe, comunque, effetti vizianti ove il comune, come
nel caso di specie, per le considerazioni suesposte, non
avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in
concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle
opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico.
7. L’appello, pertanto, per le suesposte considerazioni, non
merita accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.09.2017 n. 4269 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
illegittimità dell'ordinanza di demolizione di un balcone
realizzato in spregio alla distanza legale di mt. 1.50 dal
confine ex art. 905 cod. civ..
Sebbene i provvedimenti impugnati
facciano riferimento ad una pretesa difformità dell’opera
rispetto al progetto, il loro specifico rinvio agli atti
istruttori chiarisce che la contestazione mossa all’odierno
ricorrente riguarda unicamente il rispetto delle distanze
legali dal balcone dell’unità immobiliare confinante.
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella
specie, non occorresse osservare la distanza minima di un
metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura
di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino
e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze,
lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta
di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di
fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada
prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe
comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c.,
giacché la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per
l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire
vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un
metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia una
via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che entrambi
fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è irrilevante
la loro collocazione, non richiedendosi in particolare che
si fronteggino o che da tale via siano separati, poiché
l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione
della strada pubblica con uno spazio che espone il fondo del
vicino all’indiscrezione di tutti i passanti, sicché i due
fondi possono anche essere contigui.
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta
sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel
balcone della controinteressata, poiché il balcone
realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi
l’affaccio (c.d. prospectio).
---------------
Col ricorso in esame, corredato di istanza cautelare, il
sig. Ro.Pa. impugna l'ordinanza n. 47AE/15 del 04.08.2015,
con cui il Comune di Anzio gli ha ingiunto il ripristino
dello stato dei luoghi in relazione alla realizzazione di un
balcone in via ... n. 3, primo piano int. 1, in pretesa
pretesa difformità dalla D.I.A. dallo stesso presentata,
nonché l’ordinanza n. 48AE/15 di pari data, con cui il
Comune gli ha irrogato, per la medesima vicenda, una
sanzione amministrativa dell’importo di euro 516,00
...
Il ricorso è fondato.
Con le ordinanze impugnate è stato ingiunto al ricorrente il
ripristino dello stato dei luoghi ed irrogata una sanzione
pecuniaria “per difformità alla DIA prot. 32917 del
29.07.2013”, individuata mediante rinvio per
relationem agli atti istruttori richiamati nel preambolo
e allegati al provvedimento; dagli stessi emerge che, in
sede di verifica dell’esecuzione dei lavori di realizzazione
di un balcone previsto negli elaborati grafici della
denuncia, sarebbe stato accertato il mancato rispetto delle
distanze minime dalla proprietà confinante (cfr. la
relazione tecnica prot. 1652/16 del 02.07.2015 dell’Unità
Abusivismo Edilizio, all’esito del sopralluogo del
precedente 10 giugno: “tra la linea esteriore di predetta
opera e il fondo confinante (balcone proprietà Ni.Fe.) non
vi è la distanza di m 1.50, così come previsto dall’art. 905
del Codice Civile, essendo il distacco di m 1.19”).
Parte ricorrente propone cinque ordini di censura:
(i) non vi è difformità tra quanto denunciato e quanto realizzato,
poiché la misura del distacco era facilmente ricavabile dal
progetto, sicché (tanto più che la questione dei distacchi
era già stata sollevata dal proprietario confinante) il
Comune soltanto ora verrebbe a contestare, in realtà, il
rispetto nello stesso progetto delle norme sulle distanze,
per la qual cosa avrebbe dovuto, piuttosto, procedere alla
revoca o all’annullamento del silenzio assenso sulla D.I.A.;
(ii) i rilievi e le misurazioni sono stati effettuati dai tecnici
comunali senza la partecipazione dell’interessato e senza
dargliene alcun avviso, in violazione del suo diritto al
contraddittorio procedimentale;
(iii) non sussiste alcuna violazione dell’art. 905 c.c.: nel caso
concreto non si tratta di una veduta diretta (art. 905
c.c.), ma obliqua (art. 906 c.c., che prescrive una distanza
di 75 cm), trattandosi di due balconi affiancati l’uno
all’altro, e comunque, anche se si trattasse di veduta
diretta, il fatto che entrambi i balconi affaccino su una
via pubblica (ancorché questa non li separi) importerebbe
comunque l’esenzione dal rispetto delle distanze a mente
dell’art. 905 ultimo comma c.c.. In ogni caso, l’ordine di
demolizione avrebbe dovuto interessare anche il balcone
della vicina, poiché il principio della prevenzione non si
applicherebbe ai distacchi tra vedute o balconi;
(iv) la demolizione parziale del balcone pregiudicherebbe la sua
parte eseguita in conformità;
(v) il Comune non ha osservato l’obbligo di contestare
immediatamente la violazione, in contrasto con gli articoli
27 del d.P.R. n. 380/2001 e 14, comma 1, della legge n.
689/1981.
Tanto premesso, anzitutto va osservato che, sebbene i
provvedimenti impugnati facciano riferimento ad una pretesa
difformità dell’opera rispetto al progetto, il loro
specifico rinvio agli atti istruttori (“tali difformità
sono meglio indicate nei citati atti”) chiarisce che la
contestazione mossa all’odierno ricorrente riguarda
unicamente il rispetto delle distanze legali dal balcone
dell’unità immobiliare confinante; ciò tenuto conto anche
del fatto, rilevante ai sensi dell’art. 116 c.p.c., che
l’amministrazione non ha mai dato riscontro alle ordinanze
con cui la Sezione ha chiesto di chiarire se le rilevate
difformità rispetto alla D.I.A. riguardassero il mancato
rispetto delle distanze previste in progetto.
Che la distanza tra i due balconi sia inferiore ai 150
centimetri è pacifico. Nella perizia giurata prodotta dal
ricorrente, corredata da grafici e rilievi fotografici, si
afferma che il balcone di proprietà del ricorrente è posto a
75 cm dal confine tra i due fabbricati, mentre il balcone
della controinteressata si trova a 49 cm del confine
medesimo (sicché la distanza che li separa sarebbe di 124
cm; maggiore è la distanza dalla finestra più vicina della
controinteressata, che la perizia quantifica in 190 cm).
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella
specie, non occorresse osservare la distanza minima di un
metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura
di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino
e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze,
lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta
di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di
fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada
prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe
comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c.,
giacché, come correttamente osservato nel terzo motivo
di ricorso, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per
l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire
vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un
metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia
una via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che
entrambi fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è
irrilevante la loro collocazione, non richiedendosi in
particolare che si fronteggino o che da tale via siano
separati, poiché l'esonero dal divieto è giustificato
dall'identificazione della strada pubblica con uno spazio
che espone il fondo del vicino all’indiscrezione di tutti i
passanti, sicché i due fondi possono anche essere contigui
(cfr. Cass., sez. II, 20.02.2009, n. 4222, ove ultt. citt.).
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta
sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel
balcone della controinteressata, poiché il balcone
realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi
l’affaccio (c.d. prospectio).
Tanto basta all’accoglimento del ricorso, assorbita ogni
altra censura, con conseguente annullamento, per l’effetto,
degli atti impugnati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 07.09.2017 n. 9626 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima l'ordinanza di demolizione laddove:
a) l’attestazione che le due fioriere in
metallo e le due panchine dello stesso materiale sono
infisse al suolo in modo non temporaneo fa piena prova sino
a querela di falso, in quanto si tratta di attestazione
contenuto in atto pubblico;
b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti
dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo
paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di
autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza
comunque una alterazione della situazione preesistente;
c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei
manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e
chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa
dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo
paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico.
---------------
... per l'annullamento previa sospensiva dell'ordinanza n.
61/2017 del 20/04/2017 con cui il Comune di Casalecchio di
Reno (BO) Area Servizi al Territorio - Servizio
pianificazione e rigenerazione urbana ha ingiunto la
rimozione di n. 2 fioriere e di n. 2 panchine entrambe in
metallo dall'area esterna all'esercizio di parrucchieri con
insegna "Vi." posto in via ... n. 61 Casalecchio di Reno
(BO) e di qualsiasi atto presupposto, connesso e/o
conseguenziale.
...
- Rilevato che il ricorso è –ad avviso del Collegio-
manifestamente infondato in quanto
a) l’attestazione che le due fioriere in metallo e le due panchine
dello stesso materiale sono infisse al suolo in modo non
temporaneo fa piena prova sino a querela di falso, in quanto
si tratta di attestazione contenuto in atto pubblico;
b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti
dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo
paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di
autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza
comunque una alterazione della situazione preesistente;
c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei
manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e
chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa
dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo
paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico;
d) la notifica dell’impugnata ordinanza comunale è stata
perfezionata nei confronti dell’attuale ricorrente non quale
persona fisica, ma per la sua correlazione con l’esercizio
di parrucchieri sito in via ... n. 61 –come si ricava dal
testo dell’atto- per modo che non sussiste l’asserita
strumentale censura di difetto di legittimazione passiva
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 07.09.2017 n. 625 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto
Pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare.
----------------
6. È infondato il motivo sub b).
“L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività
edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica,
ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto,
l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai
legittimare” (Cons. Stato, V, 11.06.2013, n. 3235)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.09.2017 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: All'accertamento
dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato
l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige
né una speciale motivazione sull'interesse pubblico.
---------------
Non è consentito, nell’ambito del giudizio ordinario di
legittimità, censurare i provvedimenti amministrativi per
vizi di merito.
---------------
Con il 2º motivo, la ricorrente deduce il difetto di
motivazione dell’ordinanza di demolizione, per carente
individuazione dell’interesse pubblico.
Il motivo è palesemente infondato perché all'accertamento
dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato
l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige
né una speciale motivazione sull'interesse pubblico (che è
in re ipsa), né la comparazione con quello del
privato (giurisprudenza pacifica, ex multis TAR
Piemonte, sez. I, 16.03.2017 n. 376).
Con il 3º motivo la ricorrente lamenta la
inopportunità del provvedimento impugnato trattandosi di
opere modestissime senza alcuna incidenza sul piano
urbanistico.
Il motivo è inammissibile non essendo consentito,
nell’ambito del giudizio ordinario di legittimità, censurare
i provvedimenti amministrativi per vizi di merito.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto solo in parte
e, per l’effetto, il provvedimento impugnato deve essere
annullato nella parte in cui estende l’efficacia dell’ordine
di demolizione anche alle opere estranee alla categoria
edilizia della ristrutturazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.09.2017 n. 9576 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2017 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio non ignora il diffuso e persuasivo orientamento
per cui, anche per effetto della dequotazione dei vizi
formali introdotta dall’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241,
nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione
dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter
procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento,
specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza
conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello che è stato in concreto adottato.
Tuttavia il ridetto canone antiformalistico deve ritenersi
recessivo nei casi in cui (trattandosi di contro-operare
rispetto ad una risalente situazione di fatto, relativa alla
sistemazione della copertura dei locali-deposito di
proprietà della ricorrente, che, in fatto, assume di essersi
limitata ad una semplice operazione di ripavimentazione
della stessa, senza alcuna alterazione dello stato di fatto
esistente da tempo immemorabile) solo la partecipazione
dell’interessato, in chiave cooperativa o contraddittoria,
poteva garantire che gli accertamenti, le misurazioni, le
verifiche ed i riscontri (unilateralmente e solitariamente
valorizzati dall’Ente) fossero valutati in coerenza con
l’affidamento riconnesso al consolidato status quo ante.
---------------
FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito,
An. Di Do., come in atti rappresentata e difesa, premetteva
di essere proprietaria, nel centro urbano di Vallata (AV),
di un fabbricato ad uso abitazione (distinto in Catasto
Fabbricati al foglio 17, p.lla 130), con antistante un
deposito interrato (distinto in Catasto al foglio 17, p.lla
131), avente copertura a livello dell'area pubblica
limitrofa.
Detta copertura, praticabile ma non carrabile, assolveva ad
una duplice funzione: a) evitare infiltrazioni nel locale
deposito sottostante, realizzato con volte in pietra; b)
consentire il collegamento del fabbricato con la proprietà
pubblica.
Tanto premesso, esponeva che in data 05.11.2015, con nota
assunta al prot. n. 7031, aveva provveduto a dare
comunicazione all'Ente dell’esercizio di attività edilizia
libera, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del D.P.R. 380/2001 e
s.m.i., segnatamente esplicitando di voler realizzare
interventi di manutenzione ordinaria sulla sua proprietà,
consistenti in: a) sistemazione della pavimentazione
esterna; b) rappezzi di intonaco esterno; c) tinteggiatura
esterna.
Precisava che, a seguito di tale comunicazione, senza che il
Comune di Vallata sollevasse obiezioni di sorta, decorso un
congruo termine, aveva proceduto alla sostituzione della
pavimentazione ammalorata esistente sull'area antistante la
propria abitazione, apposta sulla copertura a livello del
suolo del sottostante locale deposito.
Peraltro, successivamente alla esecuzione dei lavori, in
data 07.01.2016, l'Ufficio Tecnico Comunale ed il Comando
Polizia Municipale, dichiaratamente a seguito di una
segnalazione privata, avevano effettuato un accertamento sui
luoghi, constatando l’apposizione, senza la prescritta
autorizzazione, di tre fioriere infisse sulla pavimentazione
tramite tasselli in ferro.
Ne era seguita la nota prot. n. 672 del 29.01.2016, con la
quale l'U.T.C. aveva sollecitato la rimozione delle fioriere
nonché successiva ordinanza –conseguente a vana
interlocuzione procedimentale– recante ingiunzione di
provvedere ad horas alla rimozione dei manufatti
de quibus, disattesa la quale il Comune aveva da,
ultimo, provveduto alla comminata esecuzione in danno.
L’intera vicenda era stata, in ogni caso, oggetto di
impugnativa dinanzi all’intestato Tribunale (con ricorso
rubricato al n. RG n. 872/2016).
Sennonché, con successiva nota prot. 2809 del 05.05.2016, l'U.T.C.
del Comune di Vallata aveva comunicato (contestualmente alla
partecipazione dell’avvenuta rimozione in danno delle
fioriere di cui si è detto) che, da una verifica più
approfondita in loco, si era riscontrato che ricorrente
avrebbe pavimentato parte del suolo pubblico per circa mq.
6,00, con conseguente diffida alla rimozione della
pavimentazione entro venti giorni.
La ricorrente aveva, peraltro, riscontrato la nota de qua,
criticamente evidenziando: a) che l'attività posta in essere
era consistita esclusivamente nella sostituzione della
pavimentazione preesistente, ormai dissestata, apposta su un
locale deposito di proprietà, costruito agli inizi del
secolo scorso; b) che la pavimentazione rispettava le
dimensioni e la giacitura di quella preesistente da tempo
immemorabile, senza che mai alcuno avesse avuto alcunché da
contestare; c) che l'area pavimentata era stata anche
delimitata, in maniera unilaterale, dal Comune di Vallata,
alcuni mesi prima, allorché l'Ente aveva proceduto alla
pavimentazione dell'adiacente area comunale e, pertanto, gli
spazi erano predeterminati senza possibilità di modifiche;
d) che qualsiasi presunta verifica effettuata
unilateralmente dal Comune doveva ritenersi arbitraria e
priva di efficacia.
Vane le riassunte rimostranze, in data 13.06.2016 le era
stata notificata l'ordinanza n. 23, prot. 3602 del
10.06.2016 del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di
Vallata, con la quale si ingiungeva “di demolire le opere
abusive descritte in premessa (presunta pavimentazione in
pietra bocciardata di parte di suolo pubblico per circa mq.
6,00) e di ripristinare lo stato dei luoghi a proprie cure e
spese, entro e non oltre il termine di giorni 60 dalla
notifica”.
Avverso tale, lesiva determinazione insorgeva, lamentandone
l’illegittimità sotto plurimo profilo.
2.- Il Comune di Vallata, benché ritualmente intimato, non
si costituiva in giudizio.
Alla pubblica udienza del 24.05.2017, sulle reiterate
conclusioni del difensore di parte ricorrente, la causa
veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto, nei
sensi delle considerazioni che seguono.
Osserva il Collegio che –tra le varie ed articolate ragioni
di doglianza (con le quali la ricorrente, in sostanza, mira
a contestare la correttezza, la completezza e l’esattezza
degli accertamenti e delle verifiche compiute
dall’Amministrazione nell’apprezzamento del ritenuto
sconfinamento della realizzata pavimentazione in area
pretesamente pubblica)– debba darsi prioritaria ed
assorbente considerazione a quella con la quale si lamenta
la pretermissione del necessario momento partecipativo,
essendo stata l’ordinanza impugnata notificata –all’esito
della mera comunicazione delle verifiche– senza la
prescritta comunicazione di avvio del relativo procedimento
e, soprattutto, senza l’effettiva partecipazione della
ricorrente (che pure aveva vanamente fatto istanza di
accesso endoprocedimentale agli atti istruttori
unilateralmente adottati dall’Amministrazione) alle
misurazioni ed ai riscontri assunti a presupposto della
contestata misura ingiuntiva.
In proposito, il Collegio, beninteso, non ignora il diffuso
e persuasivo orientamento per cui, anche per effetto della
dequotazione dei vizi formali introdotta dall’art. 21-octies
l. 07.08.1990 n. 241, nei procedimenti preordinati
all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie
abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio dell’iter procedimentale non produce
l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che
il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in
concreto adottato (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI,
12.08.2016, n. 3620): tuttavia il ridetto canone
antiformalistico deve ritenersi recessivo nei casi –come
quello oggetto di controversia– in cui (trattandosi di
contro-operare rispetto ad una risalente situazione di
fatto, relativa alla sistemazione della copertura dei
locali-deposito di proprietà della ricorrente, che, in
fatto, assume di essersi limitata ad una semplice operazione
di ripavimentazione della stessa, senza alcuna alterazione
dello stato di fatto esistente da tempo immemorabile) solo
la partecipazione dell’interessato, in chiave cooperativa o
contraddittoria, poteva garantire che gli accertamenti, le
misurazioni, le verifiche ed i riscontri (unilateralmente e
solitariamente valorizzati dall’Ente) fossero valutati in
coerenza con l’affidamento riconnesso al consolidato
status quo ante.
I rilievi che precedono acquistano significato con
l’ulteriore osservazione che, alla luce delle attoree
doglianze, non emerge de plano che il contenuto della
contestata ordinanza (la quale si fonda, in fatto, sulla
riscontrata “invasione” della proprietà pretesamente
pubblica per soli 6 mq) fosse vincolato nel senso della
pedissequa ingiunzione ripristinatoria: e ciò proprio a
ragione delle obiettive difficoltà ed incertezze nella
misura degli effettivi sconfinamenti, che solo una verifica
congiunta, ed assunta in contraddittorio, avrebbe consentito
di ritenere validata da congruo apprezzamento istruttorio,
effettuato in presenza del soggetto concretamente
interessato.
Ne discende che il ricorso debba essere accolto, con
assorbente valorizzazione della argomentata regola
partecipativa, spettando all’Amministrazione, in prospettiva
conformativa, l’onere di procedere alla integrale
rinnovazione del procedimento, previa attivazione di
effettivo contraddittorio procedimentale con la ricorrente,
che dovrà prendere parte anche alle nuove verifiche
istruttorie.
2.- In tali sensi dovendosi accogliere il gravame (con
assorbimento di tutti gli altri motivi di doglianza
proposti), sussistono i presupposti –restando, allo stato,
impregiudicato l’apprezzamento del merito dei contestati
abusi– per dichiarare irripetibili (in difetto di
costituzione dell’Ente intimato) spese e competenze di lite,
fatto salvo il diritto al rimborso del contributo unificato
versato (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.08.2017 n. 1359 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che
costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito
posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale
difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non
adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il
termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che
opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine
assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3),
con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente
configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente
dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto
verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva
funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del
diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come
titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente
riconosciuto dalla giurisprudenza.
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione
dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico
per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto,
era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non
contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di
sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque,
divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del
mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né,
trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto
costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura
strumentale per consentire al Comune di eseguire al
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, non può fondatamente
tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere
per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera
del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata,
riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo
proprietario.
---------------
Il ricorso è affidato a due motivi di doglianza.
Con il primo motivo il ricorrente sostiene che, poiché con
l’ordinanza dirigenziale n. 22 del 03.03.2012 il Comune ha
proceduto all'acquisizione a titolo gratuito al proprio
patrimonio disponibile del solo manufatto abusivo senza
alcun riferimento all'area di sedime sulla quale insisteva
l'abuso, una volta che è stato abbattuto l'edificio
l'acquisita titolarità del diritto di proprietà
dell'amministrazione resistente sull’area di sedime
mancherebbe di presupposto, soprattutto sotto il profilo
dell'emissione di un apposito provvedimento che avrebbe
dovuto legittimare l'immissione nel possesso e sancire
espressamente l'acquisto originario del diritto di
proprietà.
Con il secondo motivo di impugnazione, sull’assunto che
nella fattispecie acquisitiva in questione la perdita del
diritto di proprietà assumerebbe i connotati di una sanzione
accessoria e tenderebbe a soddisfare anche un eventuale
interesse dell’amministrazione ad utilizzare per un fine
pubblicistico l'opera abusiva ovvero l'area di sedime sulla
quale esisteva, il ricorrente argomenta che, non essendo
stato manifestato dall'amministrazione nessun interesse per
il suolo, che sarebbe in stato di abbandono e non
destinatario di alcun intervento di urbanizzazione o di
riqualificazione, si verterebbe di un caso di sviamento di
potere, in quanto il Comune, anziché utilizzare il frutto di
un comportamento illecito per un fine pubblico a vantaggio
della collettività, avrebbe posto in essere un’attività
meramente repressiva e sanzionatoria.
Le censure, che si prestano ad essere esaminate
congiuntamente, sono infondate.
L'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che
costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito
posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale
difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non
adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il
termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che
opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine
assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3),
con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente
configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente
dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto
verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva
funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del
diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come
titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente
riconosciuto dalla giurisprudenza (ex multis, C.d.S., sez.
VI, 04.03.2015, n. 1064; sez. IV, 18.11.2014, n.
5666; sez. VI, 08.02.2013, n. 718).
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione
dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico
per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto,
era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non
contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di
sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque,
divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del
mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né,
trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto
costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura
strumentale per consentire al Comune di eseguire al
demolizione, né una sanzione accessoria di questa (cfr. C.
Cost., sent. n. 345 del 1991), non può fondatamente
tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere
per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera
del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata,
riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo
proprietario.
In ordine, infine, agli ulteriori profili di doglianza
introdotti con la memoria del 16.05.2017, se ne deve
rilevare l’inammissibilità in quanto introdotti con atto non
notificato.
In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve
essere rigettato perché infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.08.2017 n. 4096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
è innegabile che qualunque struttura sia utile a sostenere
quella sovrastante, risulta parimenti evidente che il citato
art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 subordina il
mantenimento dell’opera abusiva, ferma l’applicazione della
sanzione pecuniaria, alla condizione che la rimozione
dell’intervento pregiudichi la stabilità della porzione di
fabbricato legittimamente costruita.
---------------
Il citato art. 34 va interpretato, in modo coerente con la
valenza derogatoria della disposizione rispetto alla regola
generale della demolizione degli interventi e delle opere
realizzati ”in difformità”, nel senso che la sanzione
pecuniaria si applica soltanto se sia oggettivamente
impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria
deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione,
per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla
stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione
pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale
difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale
della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo
comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente
impossibile» procedere alla demolizione delle parti difformi
senza incidere, per le sue conseguenze materiali, sulla
stabilità dell’intero edificio.
---------------
Al riguardo è corretto, come osserva il Comune appellato,
per avvalorare la difendibilità della scelta di non disporre
una verificazione o una CTU, che in questa situazione la CTU
o la verificazione sarebbero state un aggravamento
istruttorio inutile, posto che le perizie prodotte dai
ricorrenti non avevano in effetti accertato che la rimozione
della chiusura al primo piano avrebbe pregiudicato la parte
del fabbricato realizzata legittimamente, ma solo che tale
chiusura esercitava un effetto benefico (un contributo
migliorativo al comportamento dinamico della porzione di
edificio legittima), senza però che della permanenza di tale
chiusura si attestasse la necessità in termini strutturali.
Ora, se è innegabile che qualunque struttura sia utile a
sostenere quella sovrastante, risulta parimenti evidente che
il citato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
subordina il mantenimento dell’opera abusiva, ferma
l’applicazione della sanzione pecuniaria, alla condizione
che la rimozione dell’intervento pregiudichi la stabilità
della porzione di fabbricato legittimamente costruita.
In definitiva, la valutazione compiuta in via amministrativa
in ordine alla insussistenza dei presupposti per ammettere
la proprietà al pagamento della sanzione pecuniaria in luogo
della eliminazione della volumetria abusiva risulta essere
stata formulata in maniera motivata e non irragionevole, e
l’apprezzamento del primo giudice in ordine alla non
ammissione della CTU o della verificazione risulta non
irragionevolmente esercitato.
Del resto, il citato art. 34 va interpretato, in modo
coerente con la valenza derogatoria della disposizione
rispetto alla regola generale della demolizione degli
interventi e delle opere realizzati ”in difformità”,
nel senso che la sanzione pecuniaria si applica soltanto se
sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria
deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione,
per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla
stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione
pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale
difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale
della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo
comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente
impossibile» procedere alla demolizione delle parti
difformi senza incidere, per le sue conseguenze materiali,
sulla stabilità dell’intero edificio (ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI,
09.04.2013 n. 1912)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.08.2017 n. 4013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, per giurisprudenza costante, va
distinto l’interesse di fatto del vicino, del proprietario
dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi
edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto
all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio
proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in
qualità di parte necessaria del processo nella veste di
controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile
il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino
(o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di
opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
- la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale
dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il
provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca
conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto
che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed
immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria
sfera giuridica.
Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze
processuali, ma dev'essere condotto sulla scorta o del c.d.
elemento sostanziale (individuazione della titolarità di un
interesse analogo e contrario alla posizione legittimante
del ricorrente), oppure del c.d. elemento formale
(indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla conservazione); in
conformità a ciò, il proprietario finitimo di un fabbricato,
in ordine al quale sia stata ordinata la demolizione di una
scala interna, non riveste una posizione giuridica di contro
interesse nel giudizio instaurato per l'annullamento
dell'ordinanza;
- pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non
sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso
in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso
deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e
immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera
giuridica;
- se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego
di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione
non sono normalmente configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la
posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità
di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato,
va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica.
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la
qualità di controinteressato in senso formale e quindi di
contraddittore necessario nel processo amministrativo
impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal
provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta
utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse
a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o
il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto
in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso
permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione
e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a
trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano
legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di
demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica.
In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante
riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso
l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è
indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a
intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di
controinteressato in senso formale, cioè di (unico)
contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato
chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del
ricorso.
---------------
9. – Va anzitutto scrutinata l’eccezione preliminare
sollevata dalla parte intervenuta ad opponendum che
sostiene la inammissibilità del ricorso perché alla stessa
non notificaoa nella qualità di controinteressato.
L’eccezione non ha pregio.
Come è noto, per giurisprudenza costante, va distinto
l’interesse di fatto del vicino, del proprietario
dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi
edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto
all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio
proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in
qualità di parte necessaria del processo nella veste di
controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile
il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino
(o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di
opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
- la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale
dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il
provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca
conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto
che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed
immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria
sfera giuridica. Siffatto riconoscimento opera non in
relazione ad esigenze processuali, ma dev'essere condotto
sulla scorta o del c.d. elemento sostanziale (individuazione
della titolarità di un interesse analogo e contrario alla
posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d.
elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento
di colui che ne abbia un interesse qualificato alla
conservazione); in conformità a ciò, il proprietario
finitimo di un fabbricato, in ordine al quale sia stata
ordinata la demolizione di una scala interna, non riveste
una posizione giuridica di contro interesse nel giudizio
instaurato per l'annullamento dell'ordinanza (così Cons.
Stato, Sez. V, 03.07.1995 n. 991);
- pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non
sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso
in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso
deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e
immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera
giuridica (così, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011 n. 3380);
- se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego
di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione
non sono normalmente configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la
posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità
di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato,
va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica (così, Cons. Stato, Sez. III,
12.12.2014 n. 6138).
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la
qualità di controinteressato in senso formale e quindi di
contraddittore necessario nel processo amministrativo
impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal
provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta
utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse
a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o
il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto
in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso
permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione
e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a
trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano
legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di
demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica.
In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante
riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso
l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è
indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a
intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di
controinteressato in senso formale, cioè di (unico)
contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato
chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del
ricorso (cfr., in tal senso, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
11.01.2017 n. 12, TAR Marche, Sez. I, 11.12.2015 n. 871, TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.12.2015 n. 1850, TAR
Campania Napoli, Sez. VI, 03.03.2015 n. 1356 e TAR Liguria,
Sez. I, 12.02.2015 n. 176).
Nel caso di specie, quindi, correttamente la Pe. ’90 non ha
notificato il ricorso introduttivo (che è dunque
ammissibile) al Signor Ca.Fe. e, altrettanto correttamente,
quest’ultimo è intervenuto in giudizio
ad
opponendum per
poter illustrare nel corso del processo le proprie ragioni e
valutazioni in ordine alla ammissibilità e fondatezza degli
atti di gravame
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il diffusissimo orientamento
giurisprudenziale, il ricorso proposto contro l’atto di
accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione
è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto
endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale
non è attribuita la competenza all'adozione di atti di
amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale
atto di accertamento della competente autorità
amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun
effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale
viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione
del provvedimento conclusivo del procedimento
amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è
possibile proporre impugnazione.
---------------
13. – Passando ora ad esaminare i due ulteriori gravami
proposti con ricorsi recanti entrambi motivi aggiunti, va
segnalato come con il primo dei due mezzi di impugnazione la
Pe. '90 ha chiesto l’annullamento dell’atto di accertamento
di inottemperanza all’ordine di demolizione n. 95/2015,
adottato dal Comune di Fiano Romano in data 11.04.2016 prot.
n. 11401.
Con tale atto gli uffici comunali, dopo aver nuovamente
ripercorso nella parte in premessa l’intera vicenda che, a
partire dal rilascio del permesso di costruire n. 36 del
19.06.2008, aveva condotto, attraverso le già note peripezie
giudiziarie, all’emanazione dell’ordinanza di demolizione n.
95 dell’01.10.2015, si limitavano:
1) a ricordare come “in data 05/04/2016 al prot. 10808 è stata
prodotta, dal Responsabile del Procedimento Geom. Br. Di
Gi., puntuale relazione (allegata al presente atto) relativa
al sopralluogo condotto in data 01/04/2016, dal quale si
evince con certezza che il fabbricato oggetto di ordinanza
95/2015, distinto in catasto, con l'area di sua stretta
pertinenza, al foglio 22, particella 1069, non è stato
demolito, e che si è accertato inoltre che l'immobile è
occupato da diverse famiglie”;
2) a dare atto di avere accertato “ai sensi dell'art. 15 della
L.R. 15/2008, l'inottemperanza all'Ordinanza n. 95 del
01/10/2015, attraverso la quale veniva disposta la
demolizione con ripristino dello stato dei luoghi del
fabbricato residenziale insistente sul terreno attualmente
distinto in catasto al foglio 22, particella 1069,
corrispondente alla superficie coperta del fabbricato stesso
ed all'area di sua stretta pertinenza con complessiva
consistenza pari a mq 800, constando il fabbricato di 13
appartamenti, ciascuno di consistenza tra 2,5 e 3 vani
catastali, disposti su 5 livelli fuori terra”;
3) ad avvisare che “tenuto conto dell'avvenuta ultimazione delle
opere e della presenza di vincolo paesaggistico, il presente
atto di accertamento dell'inottemperanza, previa notifica,
costituisce, ai sensi dell'art. 15, comma 3, della L.R.
15/2008, titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari; l'acquisizione,
secondo quanto disposto dall'art. 15, comma 6, della L.R.
15/2008, avviene "... a favore dell'ente cui compete la
-vigilanza sull'osservanza del vincolo ..." "... che procede
alla demolizione delle opere abusive e al ripristino dello
stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso”;
4) e nel contempo ad “applicare alla Pe. '90 spa, valutata
l'entità delle opere, una sanzione pecuniaria pari a euro
18.000,00 (diciottomila/00) ai sensi dell'art. 15, c. 3,
L.R. 15/2008, il quale prevede che "... l'accertamento
dell'inottemperanza comporta, altresì, l'applicazione di una
sanzione pecuniaria da un minimo di 2 mila euro ad un
massimo di 20 mila euro, in relazione all'entità delle opere".
14. – Dei quattro punti sopra riprodotti, attraverso i quali
si è ritenuto di scomporre per comodità l’atto impugnato con
il primo ricorso recante motivi aggiunti dalla Pe. '90, i
primi tre attengono ad un ordinario accertamento di
inottemperanza all’ordine di ingiunzione a demolire n. 95
dell’01.10.2015 rispetto al quale va dichiarata la
inammissibilità del gravame.
Sul punto è sufficiente richiamare il diffusissimo
orientamento giurisprudenziale a mente del quale il ricorso
proposto contro l’atto di accertamento dell’inottemperanza
ad un ordine di demolizione è inammissibile, in quanto
avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia
meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla
polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza
all'adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo
occorrendo un formale atto di accertamento della competente
autorità amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun
effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale
viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione
del provvedimento conclusivo del procedimento
amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è
possibile proporre impugnazione (cfr., tra le ultime, TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 06.02.2017 n. 749, TAR Lazio,
Sez. I, 04.05.2016 n. 5123 e TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II, 13.05.2015 n. 458).
Ne deriva che in parte qua il primo ricorso recante
motivi aggiunti è inammissibile per originaria carenza di
interesse, in quanto prodotto avverso un verbale di
accertamento di ottemperanza che, in quanto atto
endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma
impugnazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio ritiene di aderire all’orientamento, tuttora
maggioritario, della giurisprudenza amministrativa, secondo
cui la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide
sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A.,
sicché in sede di emissione dell’ordinanza di demolizione
non si richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto.
---------------
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell’ordine di demolizione, l’art 31 del d.P.R.
n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti dalle
misure repressive nel proprietario e nel responsabile
dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo
della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R.
n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di
demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile
dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si
limita a prevedere la legittimazione passiva del
proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di
demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di
una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino
non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche
nella commissione dell'illecito, ma è correlato
all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con
quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e
all’individuazione di un soggetto il quale abbia la
titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il
proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in
modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico,
non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del
proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su
cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici
attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e
relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso
prima della traslazione della proprietà.
Rimane salva, naturalmente, la facoltà di rivalsa del
privato sul dante causa. Opinare diversamente consentirebbe
di eludere in modo agevole la normativa edilizia, a danno
del territorio e della collettività locale.
---------------
3.3. Infine, sulla necessità, o meno, di un obbligo
motivazionale “rinforzato”, segnatamente in ordine
all’esistenza e alla indicazione di un interesse pubblico
attuale e concreto alla applicazione della sanzione demolitoria, anche in relazione a una comparazione di detto
interesse con gli altri interessi coinvolti, questo Collegio
di appello ritiene condivisibili le argomentazioni e le
conclusioni alle quali è giunto il Tar.
La Sezione ben conosce l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui, fermo il carattere dovuto dell’ingiunzione a
demolire, in presenza della constatata realizzazione di
un’opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da
esso) e, in linea di principio, la sufficienza della
motivazione limitata all’affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, la repressione dell'abuso edilizio,
disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una
puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino
dei luoghi.
In tali casi, infatti, per il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza,
si ritiene che si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio
del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla
tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Tuttavia, con riferimento al caso di specie questo Collegio,
come fondatamente osservato dal Tar, ritiene che
l’orientamento suindicato non possa trovare applicazione.
Prima di tutto, e in termini generali, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento, tuttora maggioritario, della
giurisprudenza amministrativa, secondo cui la risalenza nel
tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di
repressione dell’abuso da parte della P.A., sicché in sede
di emissione dell’ordinanza di demolizione non si richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto (così, ex multis, Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del
2014 e 6702 del 2012).
Nella fattispecie, l’ordinanza di demolizione irrogata alla
società Ze. risulta sufficientemente motivata attraverso
l’individuazione della struttura e delle sue
caratteristiche, e mediante l’indicazione del carattere
abusivo dell’intervento compiuto per l’assenza del
necessario permesso di costruire, risultando così in re ipsa
l’interesse pubblico ai corretti uso e gestione del
territorio.
Per quanto riguarda il reiterato rilievo difensivo di parte
appellante incentrato sull’assai lungo lasso di tempo
trascorso tra la realizzazione del manufatto (tra l’altro,
nemmeno da parte della ricorrente ma direttamente dal
costruttore e comunque dal precedente proprietario e dante
causa; e in disparte la soluzione da dare alla questione,
non necessaria per decidere, sulla data effettiva della
esecuzione dei lavori oggetto dell’ordinanza di
demolizione), e l’emissione dell’ordinanza impugnata, tale
elemento non assume rilievo nel senso prospettato dalla
società appellante e ciò perché non risulta comprovato che
il Comune fosse sin da epoca risalente a conoscenza
dell’abuso commesso –si sostiene- negli anni 1963-1965,
durante la costruzione del fabbricato.
Neppure risulta comprovata la conoscenza dell’abuso, da
parte del Comune, con riferimento alla data della
presentazione della istanza di sanatoria.
E’ esatto infatti quanto afferma la difesa civica e, cioè,
che il Comune ha attivato il procedimento di repressione
dell’abuso edilizio –illecito permanente- non appena la
società ha rinunciato alla istanza di sanatoria, il che è
avvenuto nel giugno del 2014, come risulta in atti.
Tra l’istanza di archiviazione della sanatoria e l’adozione
della misura repressiva impugnata in primo grado, datata 27.04.2015, è dunque trascorso meno di un anno (senza
considerare che l’avviso di avvio del procedimento di
repressione dell’abuso edilizio è stato consegnato alla
società Ze. il 16.02.2015), periodo di tempo, come
appare evidente, tale da non far sorgere in capo al privato
un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva o, perlomeno, tale da
subordinare la legittimità dell’ingiunzione di demolizione a
una motivazione rinforzata sull’interesse pubblico
prevalente alla demolizione della struttura.
Sul punto vanno aggiunte altre due considerazioni.
La prima attiene al fatto che il fabbricato ricade in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico (v. d.m. 14.12.1959,
recante dichiarazione di notevole interesse pubblico del
complesso insulare di Chioggia; cfr., ora, l’art. 157, lett.
c), del t.u. n. 42 del 2004; v. anche l’art. 167 del t.u.
cit., oltre a essere posta all’interno della conterminazione
lagunare – l. n. 366 del 1963), e in tale ipotesi la
prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato è
comunque da considerarsi in re ipsa, in considerazione del
rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2,
Cost. (sulla tutela del paesaggio inserita dall’art. 9 Cost.
tra i propri principi fondamentali, così da assurgere a
valore primario o assoluto, si può fare rinvio a Corte cost., n. 367/07), sicché sono da considerarsi recessivi gli
interessi privati in conflitto con il preminente interesse
alla tutela del bene paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. V, n.
4610 del 2012).
La seconda annotazione riguarda la legittimazione passiva
della società Ze. rispetto all’ordine di demolizione, e
si collega con il profilo di censura d’appello basato sulla
affermata, omessa considerazione dell’affidamento della
società ricorrente in ordine alla “legittimità”
dell’immobile acquistato.
Il Collegio –in disparte le considerazioni difensive
comunali che inducono a dubitare della fondatezza della tesi
della buona fede di parte appellante in quanto nuova
proprietaria; e precisato che la circolare comunale del
29.01.2008 si riferiva agli interventi edilizi realizzati
prima del 1967 al di fuori del centro abitato, mentre
l’edificio in esame rientra nel centro abitato, fatto
coincidere con il perimetro individuato dal d.m. del
14.12.1959-, ritiene che la legittimazione passiva non sia
esclusa per il fatto che la realizzazione dell’abuso sia
avvenuta, come si sostiene, prima dell’acquisto della
proprietà da parte della ricorrente.
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell’ordine di demolizione, infatti, l’art 31
del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti
dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile
dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo
della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R.
n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di
demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile
dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si
limita a prevedere la legittimazione passiva del
proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di
demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di
una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino
non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche
nella commissione dell'illecito, ma è correlato
all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con
quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e
all’individuazione di un soggetto il quale abbia la
titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il
proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in
modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico,
non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del
proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su
cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici
attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e
relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso
prima della traslazione della proprietà (cfr. Consiglio di
Stato, VI, n. 3210 del 2017; V, n. 40 del 2007).
Rimane salva, naturalmente, come il Comune appellato non
manca di rilevare, la facoltà di rivalsa del privato sul
dante causa.
Opinare diversamente consentirebbe di eludere in modo
agevole la normativa edilizia, a danno del territorio e
della collettività locale.
In conclusione, non sussistono né il difetto di motivazione
e neppure la carenza di istruttoria rilevati nell’atto di
appello che, dunque, va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.07.2017 n. 3789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica
ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua
divisione in tre ambienti e bagno”, sicché deve ritenersi
che tali difformità non possano qualificarsi quali
interventi eseguiti in parziale difformità del
permesso di costruire e, pertanto, rientranti nell’ambito di
applicazione del suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001.
Ciò in quanto il concetto di difformità parziale si
riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare
gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa
consistenza, nonché le variazioni relative a parti
accessorie che non abbiano specifica rilevanza.
---------------
L’applicazione della sanzione demolitoria deve ritenersi
doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, per il
risolutivo rilievo che l’area sulla quale insiste l’immobile
oggetto dell’intervento per cui è causa è soggetta a vincolo
paesistico in quanto, come disposto dall’art. 32, comma 3,
del medesimo D.P.R., qualunque intervento effettuato su
immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi
almeno come “variazione essenziale” e, in quanto
tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi del suddetto
art. 31, comma 1.
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie
oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio
di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di
destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli
standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve
ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di
costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32,
comma 1, lettera a) e comma 3.
---------------
Quanto alla parte del provvedimento con il quale è stata
disposta la demolizione delle opere abusive occorre
evidenziare che, come sostenuto dal Comune resistente, il
provvedimento sanzionatorio risulta adottato sulla base di
una pluralità di motivazioni e non solo sulla base della
riscontrata insufficienza della qualità di locatario di
parte ricorrente e, pertanto, non può ritenersi meramente
consequenziale all’annullamento del suddetto titolo edilizio
del 2001.
Ed invero nel provvedimento impugnato il Comune di Caserta
dà innanzitutto atto della realizzazione di opere realizzate
in difformità dall’autorizzazione edilizia n. 126/2001,
oggetto di accertamento da parte di un tecnico comunale
congiuntamente alla squadra di Polizia Edilizia VV.UU.,
nonché oggetto dell’ordinanza di sospensione dei lavori
richiamata nel medesimo provvedimento, in riferimento alle
quali parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura né ha
provato, come era suo onere, trattandosi di prova rientrante
nella sua piena disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a.,
che tali opere corrispondessero a quelle oggetto della
concessione edilizia in sanatoria del 27.12.2001;
parte ricorrente non ha infatti prodotto tale richiesta di
sanatoria, né il relativo progetto e la relazione tecnica.
Inoltre, premesso che, come specificato dal Comune anche
nelle memorie difensive, nel provvedimento prot. n. 6065 del
27.01.2004, oggetto di impugnazione, si dà anche atto
che la zona su cui insiste l’immobile è soggetta a vincolo
paesistico e che sul punto è intervenuta la nota del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 14.02.2002, occorre rilevare che anche in riferimento a tali
circostanze parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura.
In riferimento alla disposta demolizione parte ricorrente si
è limitata a richiamare l’applicazione dell’art. 34 del DPR
n. 380/2001 che prevede, per gli interventi edilizi
realizzati in difformità dal titolo concessorio, l’alternatività
tra la rimozione e/o l’applicazione di una sanzione
pecuniaria raddoppiata al costo di costruzione.
Al riguardo, premesso che il Comune di Caserta nel
provvedimento impugnato, dopo aver elencato le opere
realizzate in difformità dall’autorizzazione edilizia in
possesso di parte ricorrente, ha rappresentato che le opere
realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica
ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua
divisione in tre ambienti e bagno”, deve ritenersi che tali
difformità non possano qualificarsi quali interventi
eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire e,
pertanto, rientranti nell’ambito di applicazione del
suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001. Ciò in quanto il
concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra
le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o
di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni
relative a parti accessorie che non abbiano specifica
rilevanza (cfr. TAR Napoli Sez. VIII, 04.09.2015,
n. 4338), circostanze non ravvisabili nella fattispecie
oggetto di gravame.
Inoltre, l’applicazione della sanzione demolitoria deve
ritenersi doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R.
380/2001, per il risolutivo rilievo che l’area sulla quale
insiste l’immobile oggetto dell’intervento per cui è causa è
soggetta a vincolo paesistico, circostanza questa non
contestata da parte ricorrente, in quanto, come disposto
dall’art. 32, comma 3, del medesimo D.P.R., qualunque
intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo
paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione
essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser
demolito ai sensi del suddetto art. 31, comma 1 (cfr. TAR
Napoli, Sez. IV, 09.01.2014, n. 96).
Ed invero l’art. 32, comma 3, nel testo applicabile, ratione
temporis, alla fattispecie per cui è causa, dispone: “3. Gli
interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili
sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico,
archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili
ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e
regionali, sono considerati in totale difformità dal
permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44.
Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono
considerati variazioni essenziali.”
Il precedente comma 1,
richiamato dal comma 3 del medesimo art. 32, a sua volta,
prevede: “1. Fermo restando quanto disposto dal comma 1
dell'articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le
variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto
che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica
una o più delle seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi
variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale
02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del
16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di
solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi
del progetto approvato ovvero della localizzazione
dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.”
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie
oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio
di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di
destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli
standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve
ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di
costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32,
comma 1, lettera a) e comma 3.
Conclusivamente, alla luce dei su esposti motivi, il ricorso
deve ritenersi fondato limitatamente alla parte del
provvedimento che dispone l’annullamento dell’autorizzazione
edilizia n. 126/2001 e, pertanto, va accolto per quanto di
ragione di parte ricorrente, mentre deve ritenersi,
infondato e, pertanto, va respinto relativamente alla parte
del provvedimento con cui si dispone la demolizione delle
opere abusive
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.07.2017 n. 3941 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato di costruzione abusiva - Cessazione con il
totale esaurimento dell'attività illecita - Nozione di
"ultimazione" dell'edificio - Requisiti di agibilità o
abitabilità - Concetto unitario di costruzione e valutazione
di un'opera edilizia abusiva - Opera realizzata in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico - Giurisprudenza.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale
esaurimento dell'attività illecita e, quindi, soltanto
quando siano terminati i lavori di rifinitura (Sez. 3, n.
3183 del 18/01/1984, con richiamo a numerosi precedenti
conformi, nonché, più recentemente, Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano, secondo cui deve ritenersi "ultimato"
solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti
i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il
suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato
dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al
suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente
l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato,
coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del
27/01/2010, Vitali) ovvero, se precedente, con il
provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la
disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile (Sez. 3,
n. 5654 del 16/03/1994).
Sicché, in virtù del concetto unitario di costruzione la
valutazione di un'opera edilizia abusiva va effettuata con
riferimento al suo complesso, non potendosi considerare
separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 15442 del
26/11/2014, Prevosto; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2001, Forte;
nello stesso senso, Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015,
Casciato).
Gli stessi principi valgono per il reato di cui all'art.
181, d.lgs. n. 42 del 2004, che ha natura permanente e si
consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la
cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Sez. 3, n.
40265 del 26/05/2015, Amitrano; Sez. 3, n. 28934 del
26/03/2013, Borsani; Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010,
Cavallo; Sez. 3, n. 28338 del 30/04/2003, Grilli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.07.2017 n. 36605
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EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione dell'opera abusiva -
Efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del
condannato - Natura di sanzione amministrativa di carattere
reale a contenuto ripristinatorio - Giurisprudenza - Art. 31
D.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione dell'opera abusiva, avendo natura di
sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto
ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei
confronti dell'erede o dante causa del condannato o di
chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di
godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui
siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo
del territorio, provvedimenti amministrativi con esso
assolutamente incompatibili (Sez. 3, n. 42699 del
07/07/2015, Curcio); (sulla natura di sanzione
amministrativa a contenuto ripristinatorio, priva di
finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto
che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che
questi sia l'autore dell'abuso, Cass. Sez. 3, n. 49331 del
10/11/2015, Delorier) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2017 n. 34550
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R.
n. 380 del 2001 che il responsabile del competente ufficio
comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di interventi
in assenza di permesso […] ingiunge al proprietario e al
responsabile dell’abuso la demolizione, indicando nel
provvedimento l’area che verrà acquisita di diritto, ai
sensi del comma 3>>.
Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se il
responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al
rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono
acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali che
non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità
amministrativa. Pertanto, una volta accertata la
realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio,
l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione,
indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza; e una volta accertata,
l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio
comunale.
Sicché, in applicazione delle norme illustrate, il Comune
non poteva far altro che ingiungerne la demolizione, senza
obbligo di effettuare alcuna comparazione degli interessi
coinvolti, né alcuna valutazione circa la sanzione
appropriata da applicare.
---------------
13. Con il secondo motivo, viene dedotta la
violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, in
quanto, a dire delle ricorrenti, l’Amministrazione, prima di
applicare la sanzione demolitoria, prevista da tale norma,
avrebbe dovuto avrebbe dovuto valutare la gravità
dell’illecito ed avrebbe dovuto dar conto delle risultanze
di tale valutazione nel corpo motivazionale del
provvedimento.
14. Con il terzo motivo, viene dedotta la violazione
dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 giacché,
secondo le interessate, l’Amministrazione avrebbe dovuto
illustrare nell’atto impugnato le ragioni di interesse
pubblico che l’hanno indotta a prevedere l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime in caso
di inottemperanza all’ordine di demolizione.
15. Infine con il quarto motivo, viene dedotto il
vizio di eccesso di potere per violazione dei principi di
legalità, imparzialità, trasparenza e ragionevolezza non
avendo l’Amministrazione effettuato una corretta
comparazione degli interessi coinvolti.
16. Anche queste censure sono infondate per le ragioni di
seguito esposte.
17. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380
del 2001 che il responsabile del competente ufficio
comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di
interventi in assenza di permesso […] ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che verrà acquisita di
diritto, ai sensi del comma 3>>.
18. Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se
il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e
al rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono
acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
19. Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali
che non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità
amministrativa. Pertanto, una volta accertata la
realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio,
l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione,
indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza; e una volta accertata,
l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio
comunale.
20. Ciò premesso che, nel caso di specie, come visto, è
stata realizzata un’opera senza titolo (peraltro di non
trascurabili dimensioni); sicché, in applicazione delle
norme illustrate, il Comune di Uboldo non poteva far altro
che ingiungerne la demolizione, senza obbligo di effettuare
alcuna comparazione degli interessi coinvolti, né alcuna
valutazione circa la sanzione appropriata da applicare.
21. Ne consegue, che come anticipato, tutte le censure in
esame non possono essere condivise.
22. Per queste ragioni il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 04.07.2017 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2017 |
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi, il Foia all'angolo. Dopo la
denuncia niente accesso per avere i
documenti. Il garante privacy sul Freedom of
information act: possibile agire in base
alla legge 241/1990.
Strada sbarrata al Foia nelle pratiche di
abusivismo edilizio. Chi denuncia una
difformità della costruzione (ad esempio un
ampliamento in difformità dal piano
regolatore nella casa del proprio vicino)
non può invocare l'accesso civico
generalizzato (dlgs 33/2013) per avere
dall'ufficio tecnico comunale le copie
dell'eventuale procedimento edilizio di
accertamento dell'abuso.
Non si può neanche avere copia dell'atto
iniziale del procedimento di ispezione
edilizia (comunicazione di avvio del
procedimento).
È quanto precisato dal garante della
privacy, con il
provvedimento 28.06.2017 n. 295, reso
noto solo ora, con il quale l'autorità di
settore ha dato parere negativo all'accesso
generalizzato.
Al massimo chi denuncia può cercare di avere
le copie in base a un altro tipo di accesso,
quello documentale disciplinato dalla legge
241/1990, ma deve dimostrare di avere un
interesse diretto, concreto e attuale.
E, a questo proposito, aggiungiamo che non
basta la curiosità di sapere come si è mosso
l'ufficio comunale.
Nel caso specifico un cittadino ha segnalato
all'ufficio tecnico comunale un presunto
abuso edilizio commesso dal vicino e, in
seguito, ha chiesto copia degli atti del
comune per vedere che fine aveva fatto la
propria denuncia.
Essendoci un potenziale conflitto con la
privacy del denunciato, il responsabile
della trasparenza di un comune ha chiesto al
garante il parere previsto dall'articolo 5,
comma 7, del dlgs n. 33/2013.
Tra l'altro il cittadino in questione ha
presentata una richiesta di accesso agli
atti, senza precisare se si trattava di una
richiesta di accesso documentale, ai sensi
della legge n. 241/1990 oppure di accesso
civico (Foia) ai sensi dell'articolo 5 del
dlgs n. 33/2013.
E il comune ha applicato promiscuamente sia
le regole dell'accesso documentale sia
quelle dell'accesso del Foia.
In ogni caso la persona denunciata (controinteressato)
si è opposta all'accesso, sottolineando che
gli atti riguardano esclusivamente la
propria sfera personale e privata.
Il comune ha accolto l'accesso limitatamente
a un unico documento, e cioè alla copia
della comunicazione di avvio del
procedimento. Per gli altri documenti il
comune ha fatto rinvio ad altri enti
competenti per il procedimento.
Per la cronaca la pratica di abuso edilizio
è stata archiviata e cioè alla denuncia non
è seguita nessuna sanzione.
Il controinteressato non è rimasto
soddisfatto e ha chiesto il riesame
contestando l'accoglimento parziale della
richiesta (in sostanza riteneva non dovesse
essere fornita neanche la copia della
comunicazione di avvio del procedimento).
La vicenda è, quindi, approdata all'ufficio
del garante, che, innanzi tutto, ha
criticato la condotta del comune, in quanto
ha confuso due distinti istituti: l'accesso
civico e l'accesso documentale.
Sulla base di questo rilievo si nota che i
comuni, in caso di dubbio, dovranno
immediatamente chiedere precisazioni a chi
fa una domanda generica di accesso, e questo
per impostare correttamente fin dall'inizio
la pratica: il richiedente deve prendere
posizione, anche se non è da escludersi che
si faccia una richiesta multipla, invocando
diverse normative.
In ogni caso accesso documentale (legge
241/1990) e accesso civico generalizzato (dlgs
33/2013 noto come Foia) costituiscono
procedimenti diversi, ai quali si applicano
diversi termini, limiti e strumenti di
ricorso e revisione.
Comunque il garante non si è limitato a
rilievi procedurali e ha ritenuto di
pronunciare il suo parere a fronte
dell'importanza della questione.
Al garante, in effetti, la legge chiede di
valutare se, nel caso singolo, l'accesso
civico comporti un pregiudizio concreto alla
tutela della protezione dei dati personali (dlgs
n. 33/2013, articolo 5-bis, comma 2, lett.
a).
Se la risposta è sì, l'accesso civico
generalizzato va negato. Come è successo
nella vicenda in esame.
Ebbene, il garante ha ritenuto che la
conoscenza dei dati personali, anche quelli
contenuti nella copia della comunicazione di
avvio del procedimento, attivato a seguito
della denuncia per opere edilizie abusive da
parte di altro soggetto, potrebbe integrare,
a seconda delle ipotesi e del contesto in
cui le informazioni fornite possono essere
utilizzate da terzi, proprio quel
pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali previsto
dall'articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del
dlgs n. 33/2013.
Tradotto gli atti del fascicolo della
pratica di abuso edilizio non si possono
conoscere con l'istituto del Foia, che è
riservato alle richieste di copia da parte
di chi non ha un interesse diretto rispetto
agli atti stessi, senza necessità di
esprimere una motivazione all'accesso.
Resta, in ogni caso, salva la possibilità
per il denunciante l'abuso di avere copia
del documento, ma solo in base alla legge
241/1990 e, pertanto, solo se dimostra
l'esistenza di un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso (articolo 22 della legge n.
241/1990)
(articolo ItaliaOggi del
22.08.2017).
---------------
MASSIMA
La disciplina di settore contenuta nel
d.lgs. n. 33/2013 prevede che «Allo scopo
di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai
dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione ai sensi del
presente decreto, nel rispetto dei limiti
relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti secondo quanto
previsto dall'articolo 5-bis» (art. 5,
comma 2).
Ai fini della definizione delle esclusioni e
dei limiti all'accesso civico, è previsto
che «l'Autorità nazionale anticorruzione,
d'intesa con il Garante per la protezione
dei dati personali e sentita la Conferenza
unificata di cui all'articolo 8 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281, adott[i]
linee guida recanti indicazioni operative»
(art. 5-bis, comma 6).
In proposito, l'Autorità Nazionale
Anticorruzione-ANAC, d'intesa con il
Garante, ha approvato le citate «Linee
guida recanti indicazioni operative ai fini
della definizione delle esclusioni e dei
limiti all'accesso civico di cui all'art. 5,
co. 2, del d.lgs. 33/2013»
(in G.U. Serie Generale n. 7 del 10/01/2017.
Cfr. anche Provvedimento del Garante recante
«Intesa sullo schema delle Linee guida
ANAC recanti indicazioni operative ai fini
della definizione delle esclusioni e dei
limiti all'accesso civico» n. 521 del
15/12/2016, in www.gpdp.it, doc. web n.
5860807.
Nelle predette Linee guida è specificato,
fra l'altro, che «L'accesso generalizzato
deve essere anche tenuto distinto dalla
disciplina dell'accesso ai documenti
amministrativi di cui agli articoli 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241
(d'ora in poi "accesso documentale"). La
finalità dell'accesso documentale ex l.
241/1990 è, in effetti, ben differente da
quella sottesa all'accesso generalizzato ed
è quella di porre i soggetti interessati in
grado di esercitare al meglio le facoltà
–partecipative e/o oppositive e difensive–
che l'ordinamento attribuisce loro a tutela
delle posizioni giuridiche qualificate di
cui sono titolari. […] Tenere ben distinte
le due fattispecie è essenziale per
calibrare i diversi interessi in gioco
allorché si renda necessario un
bilanciamento caso per caso tra tali
interessi. Tale bilanciamento è, infatti,
ben diverso nel caso dell'accesso 241 dove
la tutela può consentire un accesso più in
profondità a dati pertinenti e nel caso
dell'accesso generalizzato, dove le esigenze
di controllo diffuso del cittadino devono
consentire un accesso meno in profondità (se
del caso, in relazione all'operatività dei
limiti) ma più esteso, avendo presente che
l'accesso in questo caso comporta, di fatto,
una larga conoscibilità (e diffusione) di
dati, documenti e informazioni» (par.
2.3. Cfr. anche TAR Roma, Lazio, sez. III,
21/03/2017, n. 3742).
Con particolare riferimento al caso
sottoposto all'attenzione del Garante,
risulta che la richiesta di accesso agli
atti aveva a oggetto documenti attinenti a
un procedimento amministrativo e che,
considerando il contenuto della notifica
inviata al controinteressato, il Comune ha
istruito la richiesta di accesso agli atti
come istanza formulata ai sensi della l. n.
241/1990 –cosa che ha portato il
controinteressato a invocare l'inesistenza
dell'interesse qualificato dell'istante–,
salvo poi aver riscontrato l'istanza di
accesso richiamando la disciplina e i limiti
sia in materia di accesso ai documenti
amministrativi ai sensi della l. 241/1990,
che in materia di accesso civico ai sensi
dell'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013.
Nel caso sottoposto all'attenzione del
Garante, pertanto, contrariamente a quanto
affermato nelle citate Linee guida dell'ANAC,
l'amministrazione destinataria dell'istanza
non ha tenuto distinta la disciplina
dell'accesso civico (d.lgs. n. 33/2013) da
quella dell'accesso ai documenti
amministrativi (l. 241/1900), confondendo i
relativi piani.
Pertanto, richiamando in ogni caso
l'attenzione del Comune sulla necessità di
rispettare i diversi procedimenti previsti
dalle singole normative di settore che
regolano gli istituti richiamati (accesso
documentale e accesso civico) –ai quali,
peraltro, si applicano diversi termini,
limiti e strumenti di ricorso e revisione–
si ritiene opportuno fornire le seguenti
indicazioni, atteso il carattere rilevante
della questione, e considerando, fra
l'altro, che il controinteressato ha
presentato richiesta di riesame del
provvedimento di accoglimento parziale ai
sensi dell'art. 5, comma 9, del d.lgs. n.
33/2013.
Nel procedimento relativo alle richieste di
accesso civico, è previsto che «Nei casi
di accoglimento della richiesta di accesso,
il controinteressato può presentare
richiesta di riesame […]» e che il
Garante sia sentito dal responsabile della
prevenzione della corruzione nel caso di
richiesta di riesame laddove l'accesso
generalizzato sia stato negato o differito
per motivi attinenti alla tutela della «protezione
dei dati personali, in conformità con la
disciplina legislativa in materia»
(artt. 5, commi 7 e 9; 5-bis, comma 2, lett.
a), del d.lgs. n. 33/2013).
Per i profili di competenza di questa
Autorità, si evidenzia che per «dato
personale» si intende «qualunque
informazione relativa a persona fisica,
identificata o identificabile, anche
indirettamente, mediante riferimento a
qualsiasi altra informazione, ivi compreso
un numero di identificazione personale»
(art. 4, comma 1, lett. b), del Codice).
Ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, si ricorda
che l'accesso civico può essere rifiutato,
fra l'altro, «se il diniego è necessario
per evitare un pregiudizio concreto alla
tutela [della] protezione dei dati
personali, in conformità con la disciplina
legislativa in materia» (art. 5-bis,
comma 2, lett. a)).
Al riguardo, si rappresenta che
la «disciplina in materia di
protezione dei dati personali prevede che
ogni trattamento –quindi anche una
comunicazione di dati personali a un terzo
tramite l'accesso generalizzato– deve essere
effettuato "nel rispetto dei diritti e delle
libertà fondamentali, nonché della dignità
dell'interessato, con particolare
riferimento alla riservatezza, all'identità
personale […]", ivi inclusi il diritto alla
reputazione, all'immagine, al nome,
all'oblio, nonché i diritti inviolabili
della persona di cui agli artt. 2 e 3 della
Costituzione. Nel quadro descritto, anche le
comunicazioni di dati personali nell'ambito
del procedimento di accesso generalizzato
non devono determinare un'interferenza
ingiustificata e sproporzionata nei diritti
e libertà delle persone cui si riferiscono
tali dati ai sensi dell'art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, dell'art. 8 della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea e
della giurisprudenza europea in materia»
(Linee guida ANAC, cit., par. 8 intitolato «I
limiti derivanti dalla protezione dei dati
personali»).
Si evidenzia, inoltre, che «Ai
fini della valutazione del pregiudizio
concreto, vanno prese in considerazione le
conseguenze –anche legate alla sfera morale,
relazionale e sociale– che potrebbero
derivare all'interessato (o ad altre persone
alle quali esso è legato da un vincolo
affettivo) dalla conoscibilità, da parte di
chiunque, del dato o del documento
richiesto, tenuto conto delle implicazioni
derivanti dalla previsione di cui all'art.
3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013 […]. Tali
conseguenze potrebbero riguardare, ad
esempio, future azioni da parte di terzi nei
confronti dell'interessato, o situazioni che
potrebbero determinare l'estromissione o la
discriminazione dello stesso individuo,
oppure altri svantaggi personali e/o
sociali. In questo quadro, può essere
valutata, ad esempio, l'eventualità che
l'interessato possa essere esposto a
minacce, intimidazioni, ritorsioni o
turbative al regolare svolgimento delle
funzioni pubbliche o delle attività di
pubblico interesse esercitate, che
potrebbero derivare, a seconda delle
particolari circostanze del caso, dalla
conoscibilità di determinati dati»
(ivi).
Nel merito, deve essere in generale
ricordato che la normativa di settore
prevede che «Tutti i documenti, le
informazioni e i dati oggetto di accesso
civico […] sono pubblici e chiunque ha
diritto di conoscerli, di fruirne
gratuitamente, e di utilizzarli e
riutilizzarli ai sensi dell'articolo 7»,
sebbene il loro ulteriore trattamento vada
in ogni caso effettuato nel rispetto dei
limiti derivanti dalla normativa in materia
di protezione dei dati personali (art. 3,
comma 1, del d.lgs. n. 33/2013).
Si evidenzia, inoltre, che, come indicato
anche nelle citate Linee guida dell'ANAC,
l'accesso "generalizzato" è servente
rispetto alla conoscenza di dati e documenti
detenuti dalla p.a. «Allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs.
n. 33/2013) (cfr. par. 8.1).
Di conseguenza, quando
l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni
relative a persone fisiche (e in quanto tali
«dati personali») non necessarie al
raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che
risultino comunque sproporzionate, eccedenti
e non pertinenti, l'ente destinatario della
richiesta, nel dare riscontro alla richiesta
di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale scegliere le modalità meno
pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato
(ivi).
In tale quadro, allo stato degli atti e ai
sensi della normativa vigente, nel caso
sottoposto all'attenzione del Garante,
si ritiene che la conoscenza dei
dati personali contenuti nella «copia
della comunicazione di avvio del
procedimento» attivato a seguito della
denuncia dell'istante per opere edilizie
realizzate in difformità alla normativa
vigente da parte di altro soggetto
(procedura peraltro archiviata dal Comune
destinatario dell'accesso), unita al citato
regime di pubblicità degli atti oggetto
dell'accesso civico, potrebbe integrare, a
seconda delle ipotesi e del contesto in cui
le informazioni fornite possono essere
utilizzate da terzi, proprio quel
pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali previsto
dall'art. 5-bis, comma 2, lett. a), del
d.lgs. n. 33/2013.
Resta, in ogni caso, salva
la possibilità per l'istante di accedere al
predetto documento, laddove dimostri
l'esistenza di «un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso», ai sensi degli artt. 22 ss.
della l. n. 241 del 07/08/1990. |
EDILIZIA PRIVATA: Non c'è dubbio che la nozione di
privata dimora sia più ampia di quella di
abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un
significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma.
L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una
indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il
luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente
abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il
fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in
cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per
svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la
presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di
cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è
preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in
tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato"
a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in
modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti
della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita
familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è
intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il
significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza
evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che,
ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica,
abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
---------------
1. La soluzione della questione controversa sottoposta alle Sezioni Unite ("Se,
ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del
delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen., i luoghi di lavoro possano
rientrare nella nozione di privata dimora") comporta che venga
correttamente definita la nozione di "privata dimora".
A tale nozione si fa riferimento non solo nell'art. 624-bis, ma anche in
altre norme, sia di carattere sostanziale (artt. 614, 615, 615-bis, 624-bis,
628, terzo comma, n. 3-bis, 52, secondo comma, cod. pen.), sia di carattere
processuale (art. 266, comma 2, cod. proc. pen.).
L'orientamento maggioritario, richiamato nell'ordinanza di rimessione,
partendo dalla considerazione che il concetto di privata dimora sia più
ampio di quello di abitazione, ne dà una interpretazione estensiva, tanto da
ricomprendervi tutti i luoghi, non pubblici, nei quali le persone si
trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti
della vita privata.
Si è ritenuto, pertanto, configurabile il delitto previsto dall'art. 624-bis
cod. pen. in ordine al furto commesso:
- all'interno di un ristorante in
orario di chiusura (Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283);
- in
un bar-tabacchi in orario di chiusura (Sez. 5, n. 6210 del 24/11/2015, Tedde,
Rv. 265875);
- all'interno di un cantiere edile allestito nel cortile di un
immobile in cui erano in corso lavori di ristrutturazione (Sez. 5, n. 2768
del 01/10/2014, Baldassin, Rv. 262677);
- all'interno di un'edicola (Sez. 5,
n. 7293 del 17/12/2014, Lattanzio, Rv. 262659);
- in uno studio odontoiatrico
(Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio, Rv. 249850);
- in una farmacia
durante l'orario di apertura (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009, Apprezzo, Rv.
244980);
- all'interno di un ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5,
n. 22725 del 05/05/2010, Dunca, Rv. 247969);
- in una baracca di un cantiere
edile adibito a spogliatoio (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010, Truzzi, Rv.
248356).
Della nozione di "privata dimora" si è data una interpretazione
ancora più ampia in tema di rapina, ritenendo sussistente la circostanza
aggravante prevista dall'art. 628, terzo comma, n. 3-bis, cod. pen.,
nell'ipotesi in cui la condotta delittuosa venga commessa, nell'area aperta
al pubblico, nei confronti dei clienti di un istituto di credito (Sez. 2, n.
28405 del 05/04/2012, Foglia, Rv. 253413), o all'interno di un supermercato
durante l'orario di apertura (Sez. 2, n. 24761 del 12/052015, Porcu, Rv.
264383).
2. Secondo tale indirizzo, cui si richiama anche la sentenza impugnata, gli
elementi identificativi del luogo di privata dimora sarebbero uno di
carattere strutturale (vale a dire l'astratta possibilità di inibire
l'accesso al pubblico attraverso dispositivi di sbarramento, quali portoni,
saracinesche o altri meccanismi; senza escludere che, in determinate ore del
giorno, sia liberamente consentito detto accesso) e l'altro di carattere
funzionale (la natura privata, cioè, dell'attività che vi si svolge;
specificandosi che atti della vita privata non sono soltanto quelli della
vita intima o familiare, ma anche quelli dell'attività professionale o
lavorativa, o quelli posti in essere a contatto con altri soggetti, quali
l'acquisto di merce in un supermercato, la fruizione di una prestazione
professionale, il compimento di operazioni bancarie).
2.1. Ritiene il Collegio che l'ampliamento della nozione, propugnato
dall'indicato orientamento, contrasti sia con il dato letterale sia con la
ratio e la interpretazione sistematica della norma.
Non c'è dubbio che la nozione di privata dimora sia più ampia di quella di
abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un
significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma.
L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una
indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il
luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente
abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il
fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in
cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per
svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la
presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di
cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è
preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in
tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato"
a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in
modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti
della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita
familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è
intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il
significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza
evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che,
ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica,
abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
2.2. L'indirizzo interpretativo sopra richiamato, inoltre, nel dare rilievo
al "luogo in sé", si limita a far riferimento allo svolgimento in
esso di atti della vita privata, siano essi lavorativi, professionali o di
altro genere, senza ulteriori approfondimenti.
Si ritiene, cioè, configurabile il reato di furto in abitazione,
disciplinato dall'art. 624-bis cod. pen., tutte le volte in cui l'azione
delittuosa venga commessa in un luogo nel quale si svolgano atti della vita
privata, a prescindere dall'orario e dalla presenza di persone (tra le
altre, Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283; Sez. 5, n. 6210
del 24/11/2015, Tedde, Rv. 265875; Sez. 5, n. 428 del 30/06/2015, Feroleto,
Rv. 265694).
In altre decisioni, invece, rendendosi evidentemente conto della portata
troppo estensiva, nella interpretazione della norma, del generico
riferimento ai luoghi in cui si svolgano atti della vita privata, si cerca
di delimitarne l'applicazione.
Si afferma, invero, che non commette il reato di furto in abitazione il
soggetto che si introduca all'interno di un esercizio commerciale in orario
notturno, trattandosi di un locale non adibito a privata dimora in ragione
del mancato svolgimento di attività commerciali che caratterizza le ore di
chiusura (Sez. 4, n. 11490 del 24/01/2013, Pignalosa, Rv. 254854).
Secondo altre pronunce il criterio discretivo da applicare è rappresentato
dall'accertamento della prevedibile presenza di persone nel luogo di
svolgimento di atti della vita privata, a prescindere dall'orario (notte o
giorno) e dalla chiusura o meno dell'esercizio (Sez. 5, n. 10747 del
17/11/2015, Casalanguida, Rv. 267560; Sez. 5, n. 18211 del 10/03/2015,
Hadovic, Rv. 263458; Sez. 5, n. 55040 del 20/10/2016, Rover, Rv. 268409;
Sez. 4, n. 12256 del 26/01/2016, Cisulli, Rv. 266701; Sez. 5, n. 10440 del
21/12/2015, Fernandez, Rv. 266807).
Tali soluzioni risultano non condivisibili, in quanto si fa dipendere
l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più grave (previsto dal
legislatore per il reato di furto in abitazione, al fine di apprestare una
più intensa tutela al luogo in cui l'azione delittuosa viene commessa) da
elementi estranei alla fattispecie e, per di più, vaghi, incerti ed
accidentali (di carattere temporale o di effettivo esercizio dell'attività
ivi svolta).
L'esigenza di maggior tutela dei luoghi destinati a privata dimora non viene
meno solo perché il furto è commesso in orario notturno o diurno, in orario
di apertura o di chiusura, oppure in presenza o in assenza di persone.
E' stato, in proposito, incisivamente osservato che lo "spostamento del
baricentro della previsione normativa dal luogo del commesso reato al
momento della consumazione" determinerebbe una inaccettabile "tutela
ad intermittenza" (Sez. 5, n. 428 del 2015, cit.).
2.3. Che il luogo destinato a privata dimora debba avere determinate "caratteristiche",
che non possono essere certamente quelle del mero svolgimento in esso di
atti della vita privata, è confermato dal dato sistematico nella sua
evoluzione.
Il Codice Zanardelli faceva riferimento, in ordine al reato di violazione di
domicilio (art. 157), «all'abitazione altrui o alle appartenenze di essa».
Dopo però che la dottrina maggioritaria, sotto la vigenza di quel codice,
aveva già ritenuto che il termine abitazione andasse interpretato
estensivamente come ogni luogo adibito ad uso domestico, nel quale si
fossero compiuti atti caratteristici della vita privata, il codice Rocco,
nell'art. 614, introduceva la nozione di "altro luogo di privata dimora",
affiancandola a quella di abitazione, e nella Relazione si precisava che la
tutela apprestata dalla norma riguardava «tutti i luoghi che servano, in
modo permanente o transitorio, alla esplicazione della vita privata».
Per il reato di furto la tutela (più intensa in termini di trattamento
sanzionatorio) rimaneva, però, limitata alla sola abitazione: l'art. 625,
primo comma, n. 1, cod. pen., prevedeva, infatti, come circostanza
aggravante, «se il colpevole, per commettere il furto, si introduce o si
trattiene in un edificio o in altro luogo destinato ad abitazione».
Con la legge 26.03.2001, n. 128, venne inserito nel codice penale l'art.
624-bis.
Previa abrogazione dell'art. 625, primo comma, n. 1, cod. pen., è stata
introdotta una ipotesi autonoma di reato definita in rubrica come "Furto
in abitazione e furto con strappo", con l'evidente scopo di ampliare la
tutela penale non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche personale.
E ciò è tanto vero che l'approvazione della legge n. 128 del 2001 era stata
preceduta dalla presentazione al Parlamento, da parte del Governo, del
disegno di legge n. 5925, nel quale il reato di furto in abitazione,
attraverso la previsione nel codice penale di un art. 614-bis, era stato
inserito nel Libro II, Titolo XII ("Delitti contro la persona"), al
fine di rafforzare «la tutela del domicilio non tanto nella sua
consistenza oggettiva, quanto nel suo essere proiezione spaziale della
persona, cioè ambito primario ed imprescindibile alla libera estrinsecazione
della personalità individuale».
Tale originaria impostazione non poteva non riflettersi nella formulazione
del "nuovo" art. 624-bis, pur mantenendosi la collocazione dello
stesso nei reati contro il patrimonio.
Si è visto già come, a fronte della rubrica che fa riferimento al furto in
abitazione, il testo normativo ricomprende qualsiasi luogo destinato in
tutto in parte a privata dimora o nelle pertinenze di esso.
L'ampliamento dell'ambito di applicabilità della "nuova" fattispecie
anche a luoghi che non possano considerasi abitazione in senso stretto
risulta dettato, da un lato, dalla necessità di superare le incertezze
manifestatesi in giurisprudenza in ordine alla definizione della nozione di
abitazione e, dall'altro, di tutelare l'individuo anche nel caso in cui
compia atti della sua vita privata al di fuori dell'abitazione.
Deve, però, trattarsi, come si evince dalla ratio della norma, di luoghi che
abbiano le stesse caratteristiche dell'abitazione, in termini di
riservatezza e, conseguentemente, di non accessibilità, da parte di terzi,
senza il consenso dell'avente diritto.
2.4. Tale interpretazione della norma è conforme ai principi enucleabili
dalla giurisprudenza costituzionale in tema di privata dimora.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere le questioni di
costituzionalità sollevate in relazione all'art. 266, comma 2, cod. proc.
pen. con riferimento alle intercettazioni eseguite «nei luoghi indicati
dall'art. 614 del codice penale», vale a dire nell'abitazione o in altro
luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi.
E, per stabilire se detti luoghi avessero la copertura dell'art. 14 Cost.,
il Giudice delle leggi ne ha individuato ambito, limiti e caratteristiche.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 135 del 2002, evidenziava che il
domicilio, cui fa riferimento l'art. 14 Cost., viene in rilievo «nel
panorama dei diritti fondamentali di libertà come proiezione spaziale della
persona, nella prospettiva di preservare da interferenze esterne
comportamenti tenuti in un determinato ambiente: prospettiva che vale, per
altro verso, ad accomunare la libertà in parola a quella di comunicazione
(art. 15 Cost.), quali espressioni salienti di un più ampio diritto alla
riservatezza della persona».
Nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità sollevata, la
Corte costituzionale, con la sentenza sopra indicata, dopo aver inquadrato la
libertà domiciliare nel sistema delle libertà fondamentali, sottolineava che
il problema di costituzionalità si poneva con riferimento a forme di «intrusione
nel domicilio in quanto tale», avendo la libertà di domicilio «una
valenza essenzialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da
interferenze esterne, pubbliche o private, determinati luoghi in cui si
svolge la vita intima di ciascun individuo».
Tali principi venivano ancor di più rimarcati nella sentenza n. 149 del
2008.
Il Giudice delle Leggi osservava, infatti, che la tutela del domicilio
prevista dall'art. 14 Cost. viene in rilievo sotto due aspetti: «come
diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui
si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla
riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi».
Perché sia operativa la tutela costituzionale del domicilio è necessario,
quindi, che si tratti di un luogo in cui sia inibito l'accesso ad estranei e
sia tale da garantire la riservatezza ovvero la impossibilità di essere "percepito"
dall'esterno anche senza necessità di una intrusione fisica. Laddove,
invece, il luogo sia accessibile visivamente da chiunque, venendo meno la
caratteristica della riservatezza, si rimane fuori «dall'area di tutela
prefigurata dalla norma costituzionale de qua».
2.5. Gli elementi, delineati dalla giurisprudenza costituzionale come
caratterizzanti il "domicilio" e ritenuti indefettibili per garantire
la copertura costituzionale dell'art. 14 Cost., si rinvengono anche nella
sentenza delle Sezioni Unite n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234269.
Dopo aver premesso che la nozione di domicilio di cui all'art. 14 Cost. è
più estesa di quella ricavabile dall'art. 614 cod. pen., le Sezioni Unite
sottolineano che, quale che sia il rapporto tra le due disposizioni, «il
concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un
qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza».
Non c'è dubbio che «il concetto di domicilio individui un rapporto tra la
persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata,
in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da
garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona ed il
luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la
persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche
se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo
che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza
della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato
dalla personalità del titolare, sia questo o meno presente».
Sulla base di tali considerazioni le Sezioni Unite introducono, come
elemento caratterizzante la nozione di privata dimora, il requisito della
stabilità, «perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che
può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli
acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità».
2.6. La interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai
principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale sopra
richiamate e dalla sentenza Prisco delle Sezioni Unite, consente di
delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti,
indefettibili elementi:
a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni
della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività
professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da
intrusioni esterne;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in
modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da
mera occasionalità;
c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il
consenso del titolare.
3. Non resta che applicare le linee tracciate in precedenza in relazione
alla nozione di privata dimora, contenuta nell'art. 624-bis cod. pen., ai
luoghi di lavoro.
E' indiscutibile che nei luoghi di lavoro il soggetto compia atti della vita
privata.
Ma ciò non è sufficiente, come invece ritiene l'indirizzo interpretativo
maggioritario, per affermare che tali luoghi rientrino nella nozione di
privata dimora e che, per i reati di furto in essi commessi, trovi
applicazione la norma rubricata come furto in abitazione (con conseguente
tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio).
I luoghi di lavoro, generalmente, sono accessibili ad una pluralità di
soggetti anche senza il preventivo consenso dell'avente diritto: ad essi è
quindi estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per
definizione, alla "intrusione" altrui. Si pensi agli esercizi
commerciali o agli studi professionali o agli stabilimenti industriali
accessibili a un numero indeterminato di persone, che possono pertanto
prendere contatto (e non solo visivo) con il luogo senza alcun filtro o
controllo.
L'attività privata svolta in detti luoghi avviene a contatto con un numero
indeterminato di altri soggetti e, talvolta, in rapporto con gli stessi.
Con riferimento ad essi è, pertanto, fuor di luogo parlare di riservatezza o
di necessità di tutela della sfera privata dell'individuo.
L'orientamento che interpreta estensivamente la nozione di privata dimora si
pone, quindi, in contrasto con la lettera e la ratio della norma.
Ritengono le Sezioni Unite che vada confermato l'orientamento che interpreta
la disciplina dettata dall'art. 624-bis cod. pen. come estensibile ai luoghi
di lavoro soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie
dell'abitazione (accertamento questo riservato ai giudici di merito).
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi
di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita
privata in modo riservato e precludendo l'accesso a terzi (ad esempio,
retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio
professionale o di uno stabilimento).
La conferma che i luoghi di lavoro, di per sé, non costituiscano privata
dimora si ricava, infine, dal terzo comma dell'art. 52 cod. pen. (aggiunto
dall'art. 1 della legge 13.02.2006, n. 59), nel quale si afferma che la
disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il
fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata
un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nel richiamato secondo comma si fa riferimento, ai fini della presunzione di
proporzionalità tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall'art. 614 cod.
pen. (vale a dire a quelli di privata dimora).
Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente,
tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi
sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il terzo comma nell'art. 52 per
estendere l'applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di
attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perché, secondo
il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva
dei luoghi di lavoro.
4. Va, quindi, affermato il seguente
principio di diritto:
"Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis
cod. pen., i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora,
salvo che il fatto sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera
privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di
cui all'art. 624-bis cod. pen. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad
attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi senza il consenso del titolare"
(Corte di cassazione, Sezz. unite penali,
sentenza
22.06.2017 n. 31345). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei
comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone
semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo
comproprietario interessato, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Altresì, cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive
deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti
responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere
destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione della
acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto
dipende dalle singole fattispecie: il proprietario
incolpevole della singola particella sarà tenuto a non
frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno
tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non
potrà essere riferita al proprietario incolpevole la
previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la
sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei
destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente
riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla
demolizione.
---------------
Rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere
aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a
contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di
avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui
all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità
non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione circa le ragioni della
sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione
della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto
dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e
all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re
ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed
al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione,
infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non
deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
---------------
Prive di pregio si appalesano le censure di carattere
formale-procedimentale, in disparte l’irrilevanza delle
stesse a fronte di un provvedimento di natura vincolata a
contenuto conforme rispetto ai dettami di legge (art.
21-octies, II co., L. 241/1990).
Ed, invero, per giurisprudenza pacifica (cfr. da ultimo TAR
Venezia, sez. I, 20/11/2015, n. 1240), la mancata notifica
dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non
ne inficia la legittimità, comportandone semmai
l'inefficacia relativa nei confronti del solo
comproprietario interessato, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Del pari va ribadito il principio di diritto per cui
l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere
notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili
dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere
destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione della
acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto
dipende dalle singole fattispecie: il proprietario
incolpevole della singola particella sarà tenuto a non
frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno
tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non
potrà essere riferita al proprietario incolpevole la
previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la
sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei
destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente
riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla
demolizione.
Sul piano procedimentale –in disparte la corretta
attivazione del meccanismo informativo-partecipativo ed i
già svolti rilievi in punto di vizi formali non invalidanti–
va ribadito l’assunto (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. IV,
27/03/2017, n. 1668) per cui rispetto all'ordine demolizione
non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale,
trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed
inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento
dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n.
241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione circa le ragioni della
sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione
della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto
dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e
all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re
ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito
ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di
demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura
vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento.
Nel caso di specie, in particolare, le descritte opere
risultano eseguite in assenza di atti abilitativi per
costruire, ricadenti in zona P.I. , comportandone
trasformazione urbanistica edilizia del territorio tanto da
indurre il Comune di Capri a disporre la sanzione
demolitoria prevista dall'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Oltre a ciò, le opere "abusive" risultano realizzate
in violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni
del Titolo I, Parte Terza del Dlgs 22/01/2004 n. 42. Infine,
le stesse opere risultano ricadere in zona classificata a
rischio sismico di classe III dal 28/11/2002 ai sensi della
L. 64/1974 e della L.R. 9/83 e pertanto sanzionate in
applicazione del decreto legislativo n. 42/2004 n. 42,
violando, tra l'altro, l'articolo 146 della stessa norma
s.m.i..
Ne discende altresì l’infondatezza della censura relativa al
mancato parere della Commissione edilizia, atteso che in
sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (in
termini TAR Napoli, sez. VI, 20/02/2017, n. 996) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla differenza tra varianti in senso proprio,
varianti essenziali e varianti minime.
La vigente normativa edilizia riconosce la
possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La
giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in
senso
proprio, varianti essenziali e varianti minime.
● Per quanto riguarda le c.d.
varianti in senso proprio, deve
rilevarsi che non tutte
le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi
varianti e che queste si
configurano solo allorquando il progetto già approvato non
risulti sostanzialmente
e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di
variante deve, cioè,
ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza
rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere
in considerazione, al fine
di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla
variante ad altro preesistente,
sono la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria, le
distanze dalle proprietà
viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del
fabbricato.
Il nuovo provvedimento
rimane
in posizione di sostanziale
collegamento con quello originario, e in questo rapporto di
complementarità e di
accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva
del permesso di costruire in
variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del
regime giuridico cui esso soggiace
sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare,
restano salvi tutti i
diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una
contrastante normativa sopravvenuta,
che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di
continuità, potrebbe
rendere irrealizzabile l'opera).
● Costituisce, poi, c.d.
variante essenziale ogni modifica
incompatibile col disegno
globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio,
sia sotto l'aspetto qualitativo
sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della
configurazione dell'ambito di tale
istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale
enunciata dall'art. 32 del
d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della
destinazione d'uso
implicante alterazione degli standards, l'aumento
consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il
mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito e la violazione
delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non
ricomprende le modifiche
incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono,
dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al
rilascio di un nuovo ed
autonomo permesso di costruire e, conseguentemente,
assoggettate alle disposizioni
vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi,
con esse, solo
di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un
'opera diversa, nelle sue caratteristiche
essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
● Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti
minori.
In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001
prevede che sono subordinate
a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire
che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e
la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio
qualora sottoposto a vincolo
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute
nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a.
costituisce "parte integrante
del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale"
e può essere presentata prima della dichiarazione di
ultimazione dei lavori:
la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle
opere in difformità dal permesso di costruire e poi
regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti
leggere'.
In altri termini, una
volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi
dal paradigma normativo
(art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione
comunale, anche dopo la scadenza
del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n.
380/2001, rimane
nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e
sanzionatori previsti dall'ordinamento
e, più in generale,
i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale
l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001
non prevede alcun termine decadenziale.
---------------
In corso d'opera:
- la ricostruzione del solaio di
copertura di mq. 32 e
- la realizzazione
di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente
delle dimensioni di mt.
2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il
predetto immobile,
sono opere edilizie che non possono rientrare
in una "variante leggera", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n.
380 del 2001, poiché la variante ha avuto incidenza su superficie,
volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le
distanze tra
edifici. Trattasi di affermazione,
quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già
questa Corte
affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese
anche le distanze tra
gli edifici.
---------------
Secondo l'attuale previsione normativa dell'art.
22, comma secondo,
T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante
segnalazione certificata di inizio
attività le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici
e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso
e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora
sottoposto a vincolo ai sensi
del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, e non
violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. Ai fini dell'attività
di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini
dell'agibilità, tali segnalazioni
certificate di inizio attività costituiscono parte
integrante del procedimento
relativo al permesso di costruzione dell'intervento
principale e possono essere presentate
prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori".
La
formulazione
dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare
corso alle opere in difformità
dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine
dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non
rientrava, a giudizio della
Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, comma 2.
Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica
sostanziale di parametri
urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché
di volumetria, ossia la
volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile
diruto.
Se
può, invero, ritenersi in astratto condivisibile
l'affermazione per cui la volumetria e la
cubatura del vano accessorio
non può costituire variazione essenziale ai sensi
dell'articolo 32 citato (posto che
a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso
variazioni essenziali quelle che
incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile
che la ricostruzione del
solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti
prefabbricati poggianti sulle murature
perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla
superficie e sui parametri
urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le
distanze tra gli edifici.
Tuttavia, deve ritenersi configurabile
la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b), a
fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante
leggera in corso d'opera"
autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati,
ma non autorizzabile
attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione
dell'art. 33, d.P.R. n. 380
del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio
di copertura di rilevante
consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso
capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette
variazioni essenziali
ai sensi dell'art.
32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della
cubatura o della superficie
di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
---------------
5. Al fine di inquadrare correttamente la questione, dev'essere premesso
quanto
segue.
La vigente normativa edilizia riconosce la
possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La
giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in
senso
proprio, varianti essenziali e varianti minime (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236;
25.09.2012
n. 49290).
Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve
rilevarsi che non tutte
le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi
varianti e che queste si
configurano solo allorquando il progetto già approvato non
risulti sostanzialmente
e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di
variante deve, cioè,
ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza
rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere
in considerazione, al fine
di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla
variante ad altro preesistente,
sono la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria, le
distanze dalle proprietà
viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del
fabbricato.
Il nuovo provvedimento -da rilasciarsi col
medesimo procedimento
previsto per il rilascio del permesso di costruire-
rimane
in posizione di sostanziale
collegamento con quello originario, e in questo rapporto di
complementarità e di
accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva
del permesso di costruire in
variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del
regime giuridico cui esso soggiace
sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare,
restano salvi tutti i
diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una
contrastante normativa sopravvenuta,
che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di
continuità, potrebbe
rendere irrealizzabile l'opera).
Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica
incompatibile col disegno
globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio,
sia sotto l'aspetto qualitativo
sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della
configurazione dell'ambito di tale
istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale
enunciata dall'art. 32 del
d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della
destinazione d'uso
implicante alterazione degli standards, l'aumento
consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il
mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito e la violazione
delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non
ricomprende le modifiche
incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono,
dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al
rilascio di un nuovo ed
autonomo permesso di costruire e, conseguentemente,
assoggettate alle disposizioni
vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi,
con esse, solo
di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un
'opera diversa, nelle sue caratteristiche
essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti
minori.
In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001
prevede che sono subordinate
a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire
che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e
la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio
qualora sottoposto a vincolo
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute
nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a.
costituisce "parte integrante
del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale"
e può essere presentata prima della dichiarazione di
ultimazione dei lavori:
la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle
opere in difformità dal permesso di costruire e poi
regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti
leggere'.
In altri termini, una
volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi
dal paradigma normativo
(art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione
comunale, anche dopo la scadenza
del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n.
380/2001, rimane
nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e
sanzionatori previsti dall'ordinamento
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2005 n. 3498; 12.09.2007
n. 4828; 18.12.2008 n. 6378; 12.02.2010 n. 781)
e, più in generale,
i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale
l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001
non prevede alcun termine decadenziale (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. VII, 04.10.2007 n. 8951).
6. Tanto premesso, nel caso in esame, l'intervento edilizio
contestato era consistito
nell'aver realizzato su un preesistente fabbricato ricadente
in zona sottoposta
a vincolo paesaggistico:
a) la ricostruzione del solaio di
copertura di mq. 32 circa
con travetti prefabbricati poggianti sulle murature
perimetrali;
b) la realizzazione
di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente
delle dimensioni di mt.
2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il
predetto immobile,
coperto con lo stesso solaio sub a).
Secondo quanto emerso
in dibattimento, in
occasione di un sopralluogo eseguito dalla PG in data 05.05.2010, erano stati
riscontrati i predetti interventi non autorizzati, in quanto
non previsti o in difformità
dal p.d.c. rilasciato nel 2009 (p.d.c. n. 256/2009), il
quale era stato preceduto
dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 59/2009.
Successivamente al sopralluogo
era stata presentata richiesta di variante in corso d'opera,
accolta dal
Comune con il rilascio del p.d.c. n. 205 del 22/07/2011
avente ad oggetto la "esecuzione
di lavori in variante a precedente titolo edilizio per lievi
modifiche di prospetto e recupero fabbricato rurale
esistente", titolo preceduto dal rilascio
dell'autorizzazione
paesaggistica n. 96 dell'08/07/2011 e dal parere favorevole
della soprintendenza
del 06/07/2011.
Come visto, i giudici di appello hanno escluso che detta
variante potesse rientrare
in quelle "leggere", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n.
380 del 2001, affermando
che la variante ha avuto incidenza su superficie,
volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le
distanze tra
edifici. Trattasi di affermazione,
quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già
questa Corte
affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese
anche le distanze tra
gli edifici (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep.
24/06/2010, Muoio e altro, Rv.
247686).
7. Orbene, secondo l'attuale previsione normativa dell'art.
22, comma secondo,
T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante
segnalazione certificata di inizio
attività le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici
e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso
e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora
sottoposto a vincolo ai sensi
del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, e non
violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire. Ai fini dell'attività
di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini
dell'agibilità, tali segnalazioni
certificate di inizio attività costituiscono parte
integrante del procedimento
relativo al permesso di costruzione dell'intervento
principale e possono essere presentate
prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori".
La
formulazione
dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare
corso alle opere in difformità
dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine
dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non
rientrava, a giudizio della
Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, comma 2.
Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica
sostanziale di parametri
urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché
di volumetria, ossia la
volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile
diruto.
Non hanno
pregio, sul punto, le osservazioni difensive secondo cui
quanto affermato dalla
Corte d'appello in realtà si porrebbe in contrasto con la
normativa di riferimento e
con le caratteristiche tecniche del progetto. Ed invero, la
circostanza che in fase
di progettazione era stato previsto un collegamento diretto
tra i due immobili mediante
la realizzazione di una struttura frangisole nonché una
precisa destinazione
d'uso al fabbricato rurale quale deposito per attrezzi
agricoli e concimi, non escluderebbe
la assoggettabilità degli interventi edilizi alla categoria
delle variazioni
essenziali di cui all'art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001.
Se
può invero ritenersi in astratto condivisibile (anche se la
verifica di quanto affermato dalla difesa comporterebbe
un apprezzamento in fatto, sottratto alla cognizione di
questa Corte di
legittimità), l'affermazione per cui la volumetria e la
cubatura del vano accessorio
non può costituire variazione essenziale ai sensi
dell'articolo 32 citato (posto che
a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso
variazioni essenziali quelle che
incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e
sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile
che la ricostruzione del
solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti
prefabbricati poggianti sulle murature
perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla
superficie e sui parametri
urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le
distanze tra gli edifici
(Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Muoio e
altro, Rv. 247686).
Il permesso originario di costruire era stato rilasciato
nell'agosto 2009 (n.
256/2009), previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
della competente Soprintendenza
(n. 59/2009); il 05/05/2010, allorquando i lavori erano
ancora in
corso, erano infatti state accertate opere non previste
nell'originario p.d.c. (la ricostruzione
del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti
prefabbricati poggianti
sulle murature perimetrali; la realizzazione di un ulteriore
vano adiacente al
fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e
superficie utile di mq.
4,70 comunicante con il predetto immobile, coperto con lo
stesso solaio sub a).
Successivamente al sopralluogo era stata presentata domanda
di variante al permesso
di costruire e la variante, previo nuovo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica
n. 96 dell'08/07/2011, era stata autorizzata con
provvedimento comunale
del 22/07/2011 n. 205.
Tuttavia, come correttamente affermato dalla Corte
d'appello, deve ritenersi configurabile
la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b), a
fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante
leggera in corso d'opera"
autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati,
ma non autorizzabile
attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione
dell'art. 33, d.P.R. n. 380
del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio
di copertura di rilevante
consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso
capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette
variazioni essenziali
ai sensi dell'art.
32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della
cubatura o della superficie
di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
Il primo motivo dovrebbe essere, dunque, rigettato,
ma l'intervenuto decorso del termine di prescrizione massima
alla data del 03/11/2015 impone a questa Corte
l'annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per
prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di
demolizione (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.06.2017 n. 30194). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esplicherebbe efficacia sulla
odierna vicenda il recente
intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento
recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata),
pubblicato sulla G.U.
n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017,
che
all'art. 2 rinvia per la
individuazione degli interventi e delle opere non soggette
ad autorizzazione paesaggistica
all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui
all'articolo 4).
Tra gli
interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di
cui al punto A.31 del predetto
allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante
a progetti autorizzati
ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento
delle misure progettuali
quanto ad altezza, distacchi, cubatura,
superficie coperta o
traslazioni dell'area
di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della
riconducibilità degli
interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente
giudizio (rientranti, come
detto, nella categoria generale delle "varianti", non
essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della
previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti
essenziali
e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31
del 2017 alcune specificazione
in senso escludente per queste ultime, riferendosi
genericamente ad
"opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti
autorizzati ai fini paesaggistici"),
a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna
autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando
ovviamente efficacia ai sensi
dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione, posto che l'attuale esclusione,
per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto
previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge
31.05.2014, n. 83,
convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
il quale disponeva che con regolamento da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n.
400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e
integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9,
quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le
ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori
semplificazioni procedimentali
nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti
ad autorizzazione
paesaggistica e quelle che possono essere regolate
attraverso accordi di collaborazione
tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, le regioni
e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
---------------
8. Quanto al
secondo motivo, con cui i ricorrenti si dolgono
del travisamento probatorio
cui la Corte territoriale sarebbe incorsa quanto al reato di
cui all'art. 181,
comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, si legge nella sentenza
impugnata che
l'autorizzazione comunale in variante dell'08/07/2011 non
sarebbe stata preceduta
dall'imprescindibile parere vincolante della competente
Soprintendenza, aggiungendosi
anzi che quest'ultima, dopo aver ricevuto copia
dell'autorizzazione comunale,
avrebbe rilasciato parere favorevole con prescrizioni; la
stessa autorizzazione
comunale, si precisa, sarebbe stata rilasciata
subordinatamente al rispetto di alcune
prescrizioni (gli intonaci esterni dovevano essere di colore
bianco; nelle aree
libere circostanti il fabbricato doveva essere poste a
dimora piante ad alto fusto
tipiche dei luoghi) il cui adempimento non risulterebbe
essere stato verificato.
In
definitiva, dunque, secondo la Corte d'appello, il rilascio
postumo di un qualsiasi
diverso provvedimento avente efficacia autorizzatoria ai
fini della tutela paesaggistica,
ove lo si ritenesse possibile al di fuori delle ipotesi di
condono edilizio), non
produrrebbe l'estinzione del reato paesaggistico.
Risulta, dunque, fondato il motivo di ricorso, posto che
effettivamente vi è stato
travisamento probatorio nel caso in esame, posto che la
Corte d'appello risulta
aver considerato e valutato solo l'autorizzazione
paesaggistica rilasciata dall'organo
competente in data 08/07/2011 (n. 96/2011), successivamente
al rilascio
dell'autorizzazione comunale, senza tuttavia aver tenuto
conto del parere favorevole
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in realtà
espresso con nota prot.
11424 del 06/07/2011, antecedente al rilascio
dell'autorizzazione comunale intervenuta
in data 08/07/2011.
In ogni caso, si osserva,
esplicherebbe efficacia sulla
odierna vicenda il recente
intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento
recante individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica
o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata),
pubblicato sulla G.U.
n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017,
che
all'art. 2 rinvia per la
individuazione degli interventi e delle opere non soggette
ad autorizzazione paesaggistica
all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui
all'articolo 4). Tra gli
interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di
cui al punto A.31 del predetto
allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante
a progetti autorizzati
ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento
delle misure progettuali
quanto ad altezza, distacchi, cubatura,
superficie coperta o
traslazioni dell'area
di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della
riconducibilità degli
interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente
giudizio (rientranti, come
detto, nella categoria generale delle "varianti", non
essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della
previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti
essenziali
e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31
del 2017 alcune specificazione
in senso escludente per queste ultime, riferendosi
genericamente ad
"opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti
autorizzati ai fini paesaggistici"),
a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna
autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando
ovviamente efficacia ai sensi
dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione
(v., per una ipotesi analoga
in materia edilizia: Sez. 3, n. 9131 del 27/05/1997 - dep.
09/10/1997, Marcelletti,
Rv. 209361), posto che l'attuale esclusione,
per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto
previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge
31.05.2014, n. 83,
convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n.
106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del
decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164,
il quale disponeva che con regolamento da emanare ai
sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n.
400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e
integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9,
quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le
ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori
semplificazioni procedimentali
nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti
ad autorizzazione
paesaggistica e quelle che possono essere regolate
attraverso accordi di collaborazione
tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del
turismo, le regioni
e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
Trattandosi di accertamento comportante un apprezzamento di
fatto, la sentenza
dovrebbe essere annullata con rinvio ad altra Sezione della
Corte d'appello. Tuttavia,
l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine
di prescrizione
massima alla data del 03/11/2015, osta al rinvio, imponendosi
anche per tale reato
la declaratoria di annullamento senza rinvio per essere il
reato paesaggistico
estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine
di rimessione in pristino
stato (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.06.2017 n. 30194). |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione
- Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna
definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione
effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene
a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale,
sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la
demolizione, presuppone che la valutazione effettuata
dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e
deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il
quale va precisamente individuato, dando atto delle
specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi
escludere che possano assumere rilievo determinazioni di
carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o
fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n.
25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del
17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 -
Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale -
Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo
paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso
di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo,
Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi.
Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3,
n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del
12/01/2005, Ricci) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30170 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici - Opere abusive -
Responsabilità del proprietario non committente - Onere
della prova - Elementi indiziari - Compartecipazione morale.
In tema di reati urbanistici, la prova della responsabilità
del proprietario non committente delle opere abusive non può
essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità
giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad
edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori
elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche
morale, alla realizzazione del manufatto (quali la
presentazione della domanda di condono edilizio, i rapporti
di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e
proprietario, la presenza di quest'ultimo "in loco" e
lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei
lavori o il regime patrimoniale dei coniugi), è altrettanto
vero, nel caso di specie, vi erano alcuni degli elementi
sopra indicati (rapporti di parentela o affinità tra
esecutore materiale dell'opera e proprietario; regime
patrimoniale dei coniugi) che, aggiunti alla piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo ed
all'interesse specifico (e comune al coniuge dichiaratosi in
via esclusiva committente) ad edificare la nuova
costruzione, consentivano di ritenere provata detta
compartecipazione morale (Cass. Sez. 3, n. 38492 del
16/09/2016, Avanzato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30157 -
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non sanabilità
di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona
agricola mediante livellamento del terreno e successivo
riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale
all’esercizio delle attività di trasporto di cui era
all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari
evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento,
sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento
della funzionalità agricola, sia con la destinazione
agricola di zona (come pure con quella asseritamente
sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con
l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona
agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività
agricola.
----------------
Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha
denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla
osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente
realizzato in zona agricola mediante livellamento del
terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di
recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente
del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione
metallica su pali in ferro e per il “livellamento della
depressione presente nel terreno agricolo"........... “al
fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno”
medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di
un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante
dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del
materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo
spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un
materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio,
trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata
dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza,
ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a
tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e
non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla
recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR
Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88
della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la
recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in
nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era
alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia
conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle
attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il
marito della ricorrente, è del pari evidente la
incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con
l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della
funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di
zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona
per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle
NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi
deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR
Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016,
TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che
essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di
contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta
paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione
che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni
visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III
1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di
autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario, al quale va
garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle
attività di rilevamento fattuale che preludono alla
valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
---------------
11. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale
la parte lamenta la mancanza di corrispondenza, quanto
all’individuazione dell’illecito edilizio, tra la
comunicazione di avvio del procedimento e l’ordinanza di
rimessione in pristino, oltre che la genericità di
quest’ultima nell’indicare le opere come meramente difformi
dal permesso di costruire.
11.1 La ricorrente insiste, anzitutto, sulla circostanza che
–a suo avviso– dalla comunicazione di avvio del procedimento
si evincerebbe che le opere fossero state ritenute conformi
al permesso di costruire, per cui la loro abusività veniva
fatta dipendere soltanto dalla ritenuta decadenza dello
stesso titolo edilizio. Nel provvedimento conclusivo,
invece, si afferma la difformità delle opere dal permesso di
costruire, benché decaduto.
Secondo la parte, la differente impostazione dell’ordinanza
di demolizione rispetto alla comunicazione di avvio del
procedimento avrebbe, perciò, frustrato le garanzie di
partecipazione procedimentale.
11.2 La prospettazione della parte non può essere condivisa.
Al riguardo, va anzitutto evidenziato che, secondo il
prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di
demolizione di opere edilizie abusive non richiede neppure
la previa comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con
riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario, al quale va garantita
soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez.
V, 07.06.2015, n. 3051). E, nel caso oggetto del presente
giudizio, il rilevamento dello stato dei luoghi non è
oggetto di contestazione.
11.3 Peraltro, l’Amministrazione ha effettivamente inviato
all’interessata la comunicazione dell’avvio di un
procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, evidenziando
–secondo quanto sopra riportato– che le opere fossero state
realizzate in assenza di titolo abilitativo. La ricorrente è
stata così messa pienamente in grado di partecipare al
procedimento, presentando le proprie osservazioni, al fine
di dimostrare il carattere non illecito delle opere.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale
non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla
comunicazione di avvio del procedimento non potrebbe in ogni
caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di
partecipazione procedimentale dell’interessato. E ciò in
quanto l’Amministrazione –nei procedimenti a iniziativa
d’ufficio– è tenuta soltanto a rendere noto l’avvio
dell’iter, ma non anche a comunicare lo schema finale del
provvedimento che intende adottare. Tanto più quando avviene
che, come nel caso di specie, il diverso tenore del
provvedimento conclusivo dipenda proprio dalla necessità di
chiarire profili (la corrispondenza o meno delle opere
rispetto al precedente permesso di costruire) posti
all’attenzione dell’Amministrazione dall’apporto
partecipativo dell’interessato.
11.4 La parte lamentata poi la genericità dell’ordinanza di
demolizione, nella parte in cui accerta la difformità delle
opere rispetto al titolo, senza precisare se si tratti di
difformità totale o parziale, e senza considerare che,
secondo la tesi della parte, dovrebbe trovare applicazione
analogica, pur in assenza della realizzazione di volumi
edilizi, l’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, che
imporrebbe di considerare irrilevante tale difformità.
La censura non può essere accolta.
Con l’uso del termine “difformità” l’amministrazione
ha inteso affermare che le opere non fossero sorrette dal
precedente permesso di costruire. Come detto, infatti, il
titolo edilizio rilasciato nel 2012 si riferiva a una
recinzione, mentre le opere sanzionate dal provvedimento
impugnato consistono in una asfaltatura diretta ad allargare
l’accesso carrabile e nella realizzazione di uno spazio
adibito a parcheggio.
Ciò posto, deve tenersi presente che l’assenza di titolo e
la totale difformità rispetto a questo sono del tutto
assimilate quanto al trattamento sanzionatorio, per cui non
è giuridicamente rilevante stabilire se si versi nell’una o
nell’altra ipotesi. Conseguentemente, è pure irrilevante una
eventuale improprietà terminologica del provvedimento su
questo punto. E’, invece, radicalmente escluso che il tenore
dell’ordinanza impugnata potesse ingenerare alcun dubbio
circa la possibilità di ricondurre le opere alla fattispecie
della mera difformità parziale dal permesso di costruire,
tenuto conto degli atti del procedimento e della circostanza
che sin dal verbale di sopralluogo era stata rilevato che le
opere non fossero sorrette da alcun titolo. Nessuno spazio
poteva trovare, quindi, l’applicazione analogica
dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ipotizzata
dalla ricorrente, al fine di pervenire alla qualificazione
delle “difformità” come irrilevanti.
11.5 Il motivo va, quindi, rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione ha un carattere dovuto,
dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo
intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo
alcun legittimo affidamento in capo al responsabile
dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata
la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso
un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto,
un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva.
---------------
2.7 Vanno respinte, al contrario, le ulteriori censure
proposte.
2.8 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il
quale si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere per
carenza di motivazione, in quanto la demolizione sarebbe
stata disposta dopo venti anni dalla realizzazione delle
opere di cui si tratta.
2.9 Costituisce orientamento maggioritario, fatto proprio
anche da questo Tribunale, quello in base al quale l'ordine
di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere
disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla
commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo
affidamento in capo al responsabile dell’abuso (Cons. Stato
Sez. VI, 23.10.2015, n. 4880).
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata
la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso
un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra legem. Non può ammettersi,
pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva (Cons.
Stato Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può
essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando
il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non
può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità.
---------------
3.3 Altrettanto infondato è il quarto motivo, diretto a
sostenere la legittimità dell’innalzamento del fabbricato.
3.4 Non solo i ricorrenti non hanno contestato né
l’innalzamento né la modifica della pendenza del tetto, ma
va evidenziato come dette variazioni non sono mai state
oggetto di richiesta di un provvedimento abilitativo o di
una variante alla concessione originaria, circostanza
quest’ultima che conferma il carattere abusivo degli stessi
manufatti.
3.5 Nemmeno risulta dimostrato che l’eventuale demolizione
della tettoia sarebbe di pregiudizio per la parte conforme.
3.6 Si consideri come costituisca orientamento consolidato
che la sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può
essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando
il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non
può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità (TAR Campania Napoli Sez. IV, 24.04.2017, n. 2217
e TAR Campania Salerno Sez. I, 02.03.2016, n. 485, TAR
Molise Campobasso Sez. I, 08.04.2016, n. 171)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non
richiede la comunicazione di avvio del procedimento,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato e che,
ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non
inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo
tale aspetto al provvedimento successivo e relativo
all’esecuzione dell’ordinanza gravata.
---------------
3.7 E’ noto, altresì, che l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non
richiede la comunicazione di avvio del procedimento,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato (Cons. Stato
Sez. VI, 15.09.2015, n. 4293) e che, ancora, la mancata
indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità
dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al
provvedimento successivo e relativo all’esecuzione
dell’ordinanza gravata (TAR Campania sez. IV del 06.10.2016,
n. 4574 e Cons. Stato Sez. IV, 23.01.2012, n. 282)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it) |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di esame della istanza di accertamento di conformità
proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del
2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti
espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli
–logicamente antecedenti e giuridicamente
rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo
testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in
materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico,
per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al
permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare
nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a
qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo
unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento
di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n.
10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso
la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a
verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con
il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini
su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve
effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla
sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla
giurisdizione ordinaria».
---------------
7.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dalle
interessate, in sede di esame della istanza di accertamento
di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico
n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli
accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma
anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente
rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo
testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in
materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico,
per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al
permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare
nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a
qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo
unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento
di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n.
10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza (Cons. Stato,
Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; Sez. V, 11.03.2001,
n. 1507), in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso
la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a
verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con
il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini
su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve
effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla
sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla
giurisdizione ordinaria».
Pertanto, il Comune non poteva che attribuire rilevanza alla
opposizione del signor Fu., che nel corso del procedimento
ha fornito una documentazione tale da far ritenere
ragionevole la sussistenza della sua legittimazione ad
opporsi anche all’accertamento di conformità.
Poiché il provvedimento impugnato non doveva risolvere il
conflitto venutosi a verificare tra le ricorrenti ed il
signor Fu., ma doveva unicamente prendere atto della
opposizione di quest’ultimo, adeguatamente motivata, il
contestato diniego risulta adeguatamente istruito e motivato
(e non si può nella presente sede giurisdizionale effettuare
l’indagine sulla effettiva titolarità del bene, dovendosi
unicamente verificare se l’atto impugnato sia legittimo)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 05.06.2017 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pur
nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241
del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione
sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di
cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto
tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di
silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in
esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di
procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza
che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di
per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto
di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione
dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
Ed invero, in relazione ai primi due motivi di
ricorso, concernenti l’assunta carenza di motivazione e la
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, deve
richiamarsi il costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, per il quale: “Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il
silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di
accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36,
d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di
reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e
non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il
termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può
essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale
nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla
stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i
difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la
conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito,
è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per
difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di
rigetto. Pertanto, l'ordinamento, a seguito della
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede
alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa” (cfr.,
fra le tante, TAR Campania, sez. III, 22.08.2016, n. 4088)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2017 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati
paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e
differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di
compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e
violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera
e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001
estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti
dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica
diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del
territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche
conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica
posto che la circostanza di avere ottenuto detto
provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei
reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto
compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di
fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del
cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ragione del contenuto rigidamente vincolato
che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia
edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione
d'avvio del relativo procedimento.
----------------
7. - Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento repressivo sanzionatorio (ai sensi ai sensi
dell’art. 7 l. 241/1990) che ha dato luogo all’ordinanza qui
gravata, trova applicazione il costante insegnamento
giurisprudenziale a mente del quale in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI,
24.09.2010 n. 7129).
Ne deriva che, come la terza, anche la quarta censura non si
presta ad essere accolta
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2017 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel
caso di impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contradditorio, atteso che la
qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi
abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro
i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della
propria sfera giuridica.
---------------
Al fine di individuare i soggetti potenziali destinatari
della sanzione demolitoria e, più in generale, dell’ordine
di ripristino dello stato dei luoghi, l’art. 31, comma 2,
del D.P.R. 380/2001 non opera alcuna distinzione fra
proprietario e responsabile dell’abuso: in materia edilizia,
la misura dell’ordine di rimessione in pristino dello stato
dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere
illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua
difformità, ha carattere reale, in quanto è volta non già a
sanzionare il comportamento ma principalmente a ripristinare
l’ordine materiale (prima ancora che giuridico), alterato a
mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di
un giusto titolo.
In altri termini, siccome non si tratta di punire una
condotta ma di adottare una misura di ricomposizione
dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione degli
effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata
alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a
soggetti estranei al comportamento illecito.
---------------
In linea generale, la repressione degli illeciti
urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente
vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in
ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della
commissione dell'abuso: infatti, l'illecito edilizio ha
carattere permanente e si protrae, conservandosi nel tempo
l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato, il
quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al
mantenimento dell'opera.
I provvedimenti sanzionatori sono dunque sufficientemente
motivati con riferimento all’oggettivo riscontro
dell’abusività degli interventi ed alla sicura
assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi,
e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente
eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine
al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi
del destinatario.
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi
del fatto che l'amministrazione lo abbia inizialmente
avvantaggiato, non esercitando il potere sanzionatorio di
cui è titolare o esercitandolo in misura meno afflittiva di
quanto avrebbe dovuto, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore “contra legem”.
In definitiva, non si rivela necessario specificare
ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso
di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza
dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla
vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato.
--------------
La società ricorrente censura il provvedimento
del Responsabile del Servizio in data 17/05/2010, recante
l’intimazione a demolire opere edilizie abusive e a
ripristinare lo stato dei luoghi.
0. Deve essere rigettata l’eccezione, sollevata dal Comune,
di inammissibilità del ricorso per omessa notifica a uno dei
controinteressati (proprietario confinante, ovvero
qualsivoglia Associazione portatrice di interessi collettivi
a salvaguardia del patrimonio paesaggistico).
Alla luce di
un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso di
impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contradditorio, atteso che la
qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi
abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro
i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della
propria sfera giuridica (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I-quater –
0903/2017 n. 3273; TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 30/12/2016 n. 2561; Consiglio di Stato, sez. VI –
19/01/2016 n. 168).
Nel merito il gravame è parzialmente fondato, per le ragioni
di seguito precisate.
0.1 Va premesso anzitutto che, al fine di individuare i
soggetti potenziali destinatari della sanzione demolitoria
e, più in generale, dell’ordine di ripristino dello stato
dei luoghi, l’art. 31, comma 2, del D.P.R. 380/2001 non opera
alcuna distinzione fra proprietario e responsabile
dell’abuso: in materia edilizia, la misura dell’ordine di
rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue
all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto
realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere
reale, in quanto è volta non già a sanzionare il
comportamento ma principalmente a ripristinare l’ordine
materiale (prima ancora che giuridico), alterato a mezzo
della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un
giusto titolo (Consiglio di Stato, sez. VI – 15/04/2015 n.
1927).
In altri termini, siccome non si tratta di punire una
condotta ma di adottare una misura di ricomposizione
dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione
degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata
alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a
soggetti estranei al comportamento illecito (TAR Puglia
Lecce, sez. III – 20/06/2016 n. 995 che richiama la pronuncia
del Consiglio di Stato appena citata; TAR Calabria Reggio
Calabria – 20/01/2017 n. 47).
1. Il primo motivo è privo di pregio giuridico.
1.1 Oltre a quanto appena illustrato, osserva il Collegio
che, in linea generale, la repressione degli illeciti
urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente
vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in
ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della
commissione dell'abuso (Consiglio di Stato, sez. VI –
05/05/2016 n. 1774): infatti, l'illecito edilizio ha carattere
permanente e si protrae, conservandosi nel tempo l'interesse
pubblico al ripristino dell'ordine violato, il quale è
sempre prevalente sull’aspirazione del privato al
mantenimento dell'opera.
1.2 I provvedimenti sanzionatori sono dunque
sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo
riscontro dell’abusività degli interventi ed alla sicura
assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi,
e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente
eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine
al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi
del destinatario (Consiglio di Stato, sez. IV – 12/10/2016
n. 4205).
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non
può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia
inizialmente avvantaggiato, non esercitando il potere
sanzionatorio di cui è titolare o esercitandolo in misura
meno afflittiva di quanto avrebbe dovuto, poiché
l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si
concretizza in una volontaria attività del costruttore
“contra legem” (Consiglio di Stato, sez. VI – 13/12/2016 n.
5256; si veda anche sentenza Sez. I di questo TAR
21/11/2014 n. 1282, che risulta appellata ma la domanda
cautelare è stata motivatamente respinta dal Consiglio di
Stato con ordinanza della sez. VI – 15/07/2015 n. 3163).
1.3 In definitiva, non si rivela necessario specificare
ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso
di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza
dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla
vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II
– 09/01/2017 n. 201; sentenza sez. I – 27/03/2017 n. 425).
Nella fattispecie, tuttavia, non è configurabile la deroga
appena citata, dato che l’abuso risulta accertato
dall’autorità comunale, nella sua effettiva consistenza, in
occasione del sopralluogo effettuato dall’Ufficio tecnico il
03/11/2009, poco tempo prima dell’emanazione del
provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l’acquisizione
dell’area di sedime (prevista dal legislatore nel caso di
manufatti abusivi, decorsi 90 giorni dall’ordine di
demolizione senza che il provvedimento sia stato eseguito)
la giurisprudenza è costante nell’escludere ciò solo nel
caso in cui le opere non appartengano al proprietario
dell’area, il quale non possa procedere alla loro
demolizione.
Viceversa, constatata l’esistenza di un abuso edilizio,
l’ordine di demolizione (e, in caso d’inottemperanza,
l’acquisizione al patrimonio del Comune) è atto vincolato
che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni
d’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi,
né comparazione con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto:
la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31 ss. D.P.R. n.
380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce la res abusiva,
a prescindere dall’attuale titolarità del diritto di
proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso.
D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il proprietario
non possessore può “evitare” gli effetti della eventuale
inottemperanza all’ordine di demolizione da parte del
possessore, dimostrando in sede procedimentale di non avere
avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità
dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato
ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.
--------------
5. La quinta censura non è passibile di positivo scrutinio.
Secondo l’esponente, l’acquisizione dell’area di sedime
(prevista dal legislatore nel caso di manufatti abusivi,
decorsi 90 giorni dall’ordine di demolizione senza che il
provvedimento sia stato eseguito) non sarebbe configurabile
dal momento che la Società “Il Bo. sas” è divenuta
proprietaria molto tempo dopo la realizzazione delle opere,
per cui non può essere ritenuta responsabile dell’abuso e di
conseguenza assoggettata alle previsioni di cui ai commi 3,
4 e 5 dell’art. 31.
Detto ordine di idee non merita
condivisione.
5.1 La giurisprudenza è costante nell’escludere l’effetto di
cui si discorre solo nel caso in cui le opere non
appartengano al proprietario dell’area, il quale non possa
procedere alla loro demolizione (cfr. sentenza Sezione
26/11/2015 n. 1593 e il precedente ivi citato).
Viceversa
(come già osservato) constatata l’esistenza di un abuso
edilizio, l’ordine di demolizione (e, in caso
d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune) è
atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione
di ragioni d’interesse pubblico al ripristino dello stato
dei luoghi, né comparazione con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto: la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31
ss. D.P.R. n. 380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce
la res abusiva, a prescindere dall’attuale titolarità del
diritto di proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso
(Consiglio di Stato, sez. VI – 06/03/2017 n. 1060).
5.2 D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il
proprietario non possessore può “evitare” gli effetti della
eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione da parte
del possessore, dimostrando in sede procedimentale di non
avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità
dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato
ad eseguire l’ingiunzione di demolizione (cfr. TAR Molise
– 306/2016, che richiama TAR Sicilia, sez. II, 01/04/2015
n. 808).
Dette circostanze esulano, evidentemente, dalla
situazione in esame.
6. La censura sull’erronea applicazione dell’art. 167 del D.Lgs.
42/2004 non interferisce con le conclusioni si qui
raggiunte, alla luce del tempo di realizzazione delle opere.
Per quelle più recenti, il profilo dell’esistenza del
vincolo ambientale introduce un ulteriore dato ostativo al
mantenimento del manufatto, mentre per quelle realizzate in
epoca risalente (ove la circostanza sia confermata dal
supplemento istruttorio demandato all’amministrazione) dovrà
trovare applicazione il regime per tempo vigente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ogni
sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va
comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U.
Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il
committente, mentre il proprietario non autore
dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi
responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento
doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori.
---------------
5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con
sentenza in forma semplificata alla luce di recenti
decisioni della Sezione che si sono pronunciate su
fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme
alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di
ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e
n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione che “Il
secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto,
l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del
costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a
quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U.
Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il
committente, mentre il proprietario non autore
dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi
responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento
doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR
Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR
Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria,
sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già
citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per
discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in
esame. Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i
ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso
accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i
soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare
del permesso di costruire, committente, costruttore,
direttore dei lavori).
Essi hanno acquistato la proprietà delle rispettive unità
immobiliari solo in anni recenti, tra il 1984 e il 2008,
mentre l’abuso edilizio è stato posto in essere all’epoca di
realizzazione dell’intero fabbricato, tra il 1973 e il 1974,
e comunque certamente prima del 1984, come dimostra il primo
atto pubblico di vendita posto in essere dai titolari della
concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito
Notaio Piacentino in data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979,
docc. 3 e 3-bis), che già aveva ad oggetto due unità
immobiliari al piano terreno, in luogo dell’unica assentita
dall’amministrazione, e due unità immobiliari al primo
piano, nella stessa conformazione plano-volumetrica
accertata attualmente dal Comune di Sangano e fatta oggetto
del provvedimento sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto,
l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è
stato adottato nei confronti di soggetti privi della
qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2,
DPR 380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione
pecuniaria ivi prevista.
6. In conclusione, in accoglimento del secondo motivo di
ricorso, va disposto l’annullamento del provvedimento
impugnato
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interventi edilizi realizzati
prima dell'apposizione del vincolo
paesaggistico - Permesso di costruire in
sanatoria - Disciplina paesaggistica (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 20.04.2017 n. 12633 di prot.).
---------------
Con la nota n. prot. 81219 del
16.02.2016, codesta Amministrazione
regionale ha posto un quesito riguardante la
disciplina applicabile ai casi di sanatoria
edilizia ai sensi dell'art. 36 del dPR n.
380 del 2001 relativi ad abusi edilizi
commessi antecedentemente all'apposizione
del vincolo paesaggistico (è stato
rappresentato il caso di un abuso edilizio
commesso nel comune di Sutri,
antecedentemente alla data di pubblicazione
del VIR adottato, in area posta all'interno
della "fascia di rispetto di un bene lineare
tipizzato di interesse archeologico, di cui
all'art. 13, lett. a), L.r. n. 24 del 1998",
e per il quale è stato richiesto il permesso
di costruire in sanatoria).
In particolare, è stato chiesto di chiarire
... (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria)
non incide sulla legittimità della previa ordinanza di
demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma
soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione,
espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa
potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata
decorrendo il relativo termine di adempimento dalla
conoscenza del diniego.
---------------
1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha
ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in
fatto.
2.– L’appello non è fondato.
3.– Con un primo motivo si afferma l’erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha avrebbe dichiarato
l’inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito della
presentazione, da parte degli appellanti, in data
25.02.2003, di una domanda di accertamento di conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede
che, in presenza di interventi, quali quelli di nuova
costruzione, eseguita in assenza di un permesso di
costruire, l’amministrazione deve ordinare la demolizione.
L’art. 36 dello stesso decreto che in presenza, tra l’altro,
di tali abusi è possibile «ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda».
Il due procedimenti sono diversi e separati. La
giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento che si
condivide, ha affermato, infatti, che «l'istanza di
accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego»
(Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata della p.a., con la
conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di
demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha
ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in
fatto.
2.– L’appello non è fondato.
...
4.– Con un secondo motivo si afferma l’erroneità
della sentenza nella parte in cui non avrebbe ritenuto
illegittimi gli atti impugnati per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento e per la mancata indicazione del
responsabile del procedimento.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che l’avvio del
procedimento è comunicato, tra gli altri, ai soggetti «nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti». L’art. 8 dispone che con tale
comunicazione deve essere indicato anche il nome del
responsabile del procedimento.
L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della
stessa legge prevede che: «Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato».
Parte della giurisprudenza amministrativa, con orientamento
che la Sezione condivide, assume che venendo in rilievo
elementi conoscitivi nella disponibilità del privato, spetta
a quest’ultimo indicare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto
la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a
questo onere l’amministrazione «sarà gravata dal ben più
consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato». La tesi opposta
porrebbe a carico della p.a. una probatio diabolica «quale
sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale
contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato
l’esito del procedimento» (Cons. Stato, sez. VI,
04.04.2015, n. 1060; Id., VI, 29.07.2008, n. 3786; id., V,
18.04.2012, n. 2257).
Nel settore dell’edilizia la giurisprudenza di questo
Consiglio ha già avuto modo di affermare che: «l’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai
fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto» (Cons. Stato, sez. VI,
05.01.2015, n. 13).
La parte non ha inoltre indicato alcun elemento probatorio
rilevante atto a dimostrare, ai sensi dell’art. 21-ocites
della legge n. 241 del 1990, che se avesse partecipazione al
procedimento avrebbe inciso sul contenuto della
determinazione finale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una nuova istanza ex art. 36,
d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia», non rende inefficace il provvedimento
sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina
l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse,
dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di
demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo
dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua
efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
---------------
I principi affermati in tema di condono edilizio non possono
trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente
ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che,
prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia
conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di
una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini
suddetti non può essere effettuata in via meramente
interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni
concezione sull’esercizio del potere, e richiede
un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in
ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti
del rapporto.
---------------
5. Questo Collegio, sebbene la questione non sia
strettamente rilevante per la decisione del ricorso in
appello, non può non rilevare che l’affermazione contenuta
nella sentenza appellata (secondo la quale l’istanza di
permesso di costruire in sanatoria, presentata
successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile
l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse)
non può essere condivisa.
Questo Consiglio ha, al contrario, affermato: “La
presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r.
06.06.2001, n. 380, recante il « Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia », non rende inefficace il provvedimento
sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina
l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse,
dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di
demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo
dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua
efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393).
“I principi affermati in tema di condono edilizio non
possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che,
prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia
conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di
una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini
suddetti non può essere effettuata in via meramente
interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni
concezione sull’esercizio del potere, e richiede
un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in
ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti
del rapporto” (Consiglio di Stato, VI, 06.05.2014, n.
2307).
6. La censura dedotta è fondata e, consequenzialmente, va
accolto il ricorso in appello e annullati i provvedimenti
impugnati in primo grado in quanto viziati da eccesso di
potere per difetto di istruttoria (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 04.04.2017 n. 1565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA: Parziali
difformità: le violazioni entro il 2% sono irrilevanti.
Il comma 2-ter dell'art. 34 del D.P.R.n.
380/2001 -a norma del quale "non si ha parziale difformità
del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano
per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali"- non contiene una definizione normativa della
parziale difformità, ma prevede una franchigia vera e
propria.
Il che a significare non che ogni violazione eccedente il 2%
considerato costituisce difformità totale, ma al contrario
che le violazioni contenute entro tale limite sono
irrilevanti.
In tal senso si esprime la Sez. VI del Consiglio di Stato
nella
sentenza 30.03.2017 n. 1481
in fattispecie nella quale si trattava di difformità
consistenti nell'altezza esterna del fabbricato e interna
del piano sottotetto, dovuta -ad avviso della ricorrente- di
una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in
progetto per la quale era stata presentata istanza per
ottenere la sanatoria dell'abuso ai sensi dell'art. 34 T.U.
06.06.2001 n. 380 e, subordinatamente alla sanatoria, il
recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della
specifica l.r. 15.11.2007 n. 33 della Puglia, ricevendo un
diniego.
In primo grado il TAR aveva respinto il ricorso proposto
contro il diniego ritenendo che l'intervento si dovesse
considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale
dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio
detto la sanzione non demolitoria, di cui all'art. 34, comma
2, T.U. 380/2001 non fosse applicabile.
I giudici d'appello hanno invece ritenuto che:
• la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata
nella fase esecutiva del procedimento di repressione
dell'abuso, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione: è per tal motivo che la norma viene a
costituire, in sostanza, un'ipotesi ulteriore di sanatoria,
denominata di solito "fiscalizzazione dell'abuso";
• l'amministrazione, tenuta a decidere sull'istanza della
ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l'abuso
costituisse effettivamente una "parziale difformità",
e in caso positivo se effettivamente non potesse essere
demolito senza pregiudizio per la parte conforme;
• la norma del comma 2-ter non contiene una definizione normativa
della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In
altre parole, intende stabilire non che ogni violazione
eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale,
ma al contrario che le violazioni contenute entro tale
limite sono irrilevanti;
• in tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della
norma, contenuta nell'articolo dedicato appunto alle
conseguenze della "parziale difformità", stabilisce
quando la stessa "non si ha", e quindi un caso in cui
l'abuso esula;
• nello stesso senso, è anche l'argomento storico: la norma è stata
aggiunta in un momento successivo, con l'art. 5 del decreto
legge 70/2011, cd. "Decreto sviluppo", il cui
dichiarato scopo è "liberalizzare le costruzioni private",
scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di
franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul
privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a
difformità, anche fra le più lievi;
• a identico risultato conduce l'argomento logico sistematico: se
effettivamente il comma 2-ter contenesse la nozione
normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe
abuso, e comporterebbe in via principale l'ordine di
rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure
di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici
assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso.
La decisione conferma le conclusioni a cui eravamo giunti in
questo commento al novellato art. 34: "Parziali
difformità ex art. 34 TUE: la soglia del 2% secondo il DL
Sviluppo", ossia che il legislatore nazionale, cui
spetta dettare i principi fondamentali e generali
dell'attività edilizia (art. 1 DPR 380/2001), ha ritenuto di
non assoggettare a sanzione alcuna le variazioni al titolo
comprese nella misura del 2% per altezza, distacchi,
cubatura o superficie (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
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MASSIMA
... per la riforma della
sentenza 16.09.2015 n. 1251 del TAR Puglia-Bari,
Sez. III, resa fra le parti, con la quale è stato respinto
il ricorso per l’annullamento del provvedimento 25.06.2014
prot. n. 11.21992 del Comune di Corato, di reiezione
dell’istanza proposta dalla Fe.Im. S.r.l. per la sanatoria
del recupero a fini abitativi di vani sottotetto non
abitabili siti a Corato, via ... 28 interni 36 e 37;
...
La ricorrente appellante è un’impresa di costruzioni che ha
realizzato, in Comune di Corato (Ba), una lottizzazione
denominata “Pandorea”, alla quale si accede per il
viale omonimo, composta da varie unità abitative all’interno
di villette di varia tipologia, sia unifamiliari sia
plurifamiliari.
Per due di queste unità, di cui all’epoca dei fatti era
ancora proprietaria, site all’interno di una villetta
quadrifamiliare, al numero 28, interni 36 e 38, le veniva
contestata una difformità nell’altezza esterna del
fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta a suo dire
all’impiego di una copertura del tetto a doppia falda
diversa da quella in progetto.
Precisamente, secondo il provvedimento impugnato, di cui
subito, al posto di una copertura di latero-cemento, priva
di elementi a vista e caratterizzata da uno spessore del
solaio finito pari a 0,20 mt, veniva impiegata,
asseritamente per un migliore isolamento termico, una
copertura di legno lamellare con elementi a vista,
costituiti da travi e arcarecci di sostegno, spessa 0,375
metri, cui si aggiungono altri 0.165 metri per lo spessore
delle travi; l’altezza risultava quindi incrementata del
maggior spessore della diversa copertura (doc. 1 in primo
grado ricorrente appellante, provvedimento impugnato, ove la
descrizione dell’opera).
A fronte di ciò, la ricorrente appellante ha presentato al
Comune istanza contestuale per ottenere la sanatoria
dell’abuso ai sensi dell’art. 34 T.U. 06.06.2001 n.380 e,
subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del
piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15.11.2007
n. 33, ricevendo un diniego con il provvedimento meglio
indicato in epigrafe (doc. 1 in primo grado ricorrente
appellante, cit.)
Con la sentenza di cui pure in epigrafe, il TAR ha respinto
il ricorso proposto contro il diniego predetto, ed ha in
sintesi ritenuto che l’intervento si dovesse considerare
realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo
abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la
sanzione non demolitoria, di cui all’art. 34, comma 2, T.U.
380/2001 non fosse applicabile, ma si desse luogo alla sola
demolizione, e che per conseguenza, trattandosi di opera
abusiva non sanabile, il recupero abitativo del sottotetto
fosse precluso.
...
1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni e nei
limiti di seguito esposti.
...
7. Tutto ciò posto, il primo motivo di appello è
fondato e va accolto.
In proposito, va ricordato quanto detto in premesse, ovvero
che la ricorrente appellante presentò al Comune un’istanza
dall’oggetto duplice: in primo luogo, l’applicazione della
sanzione non pecuniaria di cui all’art. 34 T.U. 380/2001,
poi il recupero abitativo del sottotetto creato con l’abuso.
Vanno quindi, per chiarezza, richiamate le norme di
riferimento, incominciando dalla prima.
8. L’art. 34 in questione dispone per quanto interessa al
comma 1 che “gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o
demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il
termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del
dirigente o del responsabile dell'ufficio. Decorso tale
termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese
dei medesimi responsabili dell'abuso”.
Alla regola fa un’eccezione al comma 2, stabilendo che “quando
la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio applica una sanzione” pecuniaria,
commisurata nel caso che interessa, di immobile abitativo,
al doppio del costo di produzione.
Infine, al comma 2-ter, aggiunto con d.l. 13.05.2011 n. 70,
prevede che “ai fini dell'applicazione
del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano
per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali”.
9. La giurisprudenza ha chiarito
–per tutte, la sentenza della Sezione 12.04.2013 n. 2001-
che la possibilità di applicare la sanzione
pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento
di repressione dell’abuso, successiva ed autonoma rispetto
all’ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma
viene a costituire, in sostanza, un’ipotesi ulteriore di
sanatoria, denominata di solito “fiscalizzazione
dell’abuso”.
10. Da ciò segue, secondo logica, che
l’amministrazione, tenuta a decidere sull’istanza della
ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l’abuso
costituisse effettivamente una “parziale difformità”,
e in caso positivo se effettivamente non potesse essere
demolito senza pregiudizio per la parte conforme.
11. In concreto,
nel provvedimento impugnato in primo grado,
l’amministrazione stessa si è fermata al primo punto, per
ragioni tuttavia errate. Contrariamente a quanto ritenuto
dal Giudice di primo grado, infatti, la
norma sopra riportata del comma 2-ter non contiene una
definizione normativa della parziale difformità, ma prevede
una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che
ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce
difformità totale, ma al contrario che le violazioni
contenute entro tale limite sono irrilevanti.
12. In tal senso, è anzitutto un
argomento letterale: il testo della norma, contenuta
nell’articolo dedicato appunto alle conseguenze della “parziale
difformità”, stabilisce quando la stessa “non si ha”,
e quindi un caso in cui l’abuso esula.
13. Nello stesso senso, è anche l’argomento
storico: la norma, come si è visto, è stata aggiunta in
un momento successivo, con l’art. 5 del decreto legge
70/2011, cd. “Decreto sviluppo”, il cui dichiarato
scopo è “liberalizzare le costruzioni private”, scopo
rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di
franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul
privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a
difformità, anche fra le più lievi.
14. Infine, ad identico risultato conduce
l’argomento logico-sistematico: se effettivamente il
comma 2-ter contenesse la nozione normativa di parziale
difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe
in via principale l’ordine di rimessione in pristino, ogni
difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più
lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e
complicazione del contenzioso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.03.2017 n. 1481 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In omaggio al consolidato
indirizzo giurisprudenziale, l’abuso edilizio costituisce
illecito permanente, senza che il decorso del tempo privi il
Comune del proprio potere/dovere di repressione dell’abuso,
soprattutto nel caso di specie in cui l’autore dell’abuso è
dante causa dei ricorrenti e le opere abusive –delle quali
gli esponenti hanno ampiamente beneficiato nel corso degli
anni- non appaiono certo, come già evidenziato, modeste o
minimali, visto l’aumento di slp e di volume dell’edificio.
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso,
non vi è stata neppure prescrizione del potere di
irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28
della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi
edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente
di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui
all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della
permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei
luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione.
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1.2 Nel secondo motivo di gravame, si sostiene in primo luogo che il
decorso del tempo dall’abuso (circa sessanta anni) avrebbe
ingenerato nel privato un affidamento meritevole di tutela.
La tesi non può trovare accoglimento, in omaggio al
consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale l’abuso
edilizio costituisce illecito permanente, senza che il
decorso del tempo privi il Comune del proprio potere/dovere
di repressione dell’abuso, soprattutto nel caso di specie in
cui l’autore dell’abuso è dante causa dei ricorrenti e le
opere abusive –delle quali gli esponenti hanno ampiamente
beneficiato nel corso degli anni- non appaiono certo, come
già evidenziato, modeste o minimali, visto l’aumento di slp
e di volume dell’edificio (cfr., fra le tante, Consiglio di
Stato, sez. V, 05.01.2015, n. 13; TAR Lazio, sez. I-quater,
27.05.2013, n. 5277 e TAR Lombardia, Milano, sez. II,
18.11.2011, n. 2786).
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso,
non vi è stata neppure prescrizione del potere di
irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28
della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi
edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente
di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui
all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della
permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei
luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. I, 12.07.2013, n. 3565 e TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 20.06.2013, n. 1593).
In conclusione, deve rigettarsi anche il secondo motivo di
ricorso
(TAR Lombardia, Sez. II,
sentenza 30.03.2017 n. 857 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito alla divisione ereditaria di
edifici ricadenti in zona agricola che comporti la
realizzazione di edifici plurifamiliari come causa di
esclusione della lottizzazione abusiva - Comune di Montopoli
di Sabina (Regione Lazio,
nota 28.03.2017 n. 159695 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Motivazione dell’ordinanza di demolizione adottata a
distanza di anni dall’abuso che non è stato commesso
dall’attuale titolare: rimessione all’Adunanza plenaria.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Motivazione
– Necessità – Ordinanza adottata a distanza di anni
dall’abuso che non è stato commesso dall’attuale titolare –
Rimessione all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza
plenaria la questione se l’ordinanza di demolizione di
immobile abusivo debba essere congruamente motivata sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata quando il provvedimento
sanzionatorio intervenga a una distanza temporale
straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il
titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento
sanzionatorio (1).
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(1)
Ha chiarito la Sezione che sulla questione si sono formati
due orientamenti giurisprudenziali.
Secondo il primo maggioritario orientamento
l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è
legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione
e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni
legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o
al di lui avente causa (Cons. St., sez. VI, 10.05.2016, n.
1774; id. 11.12.2013, n. 5943; id. 23.10.2015, n. 4880; id.,
sez. V, 11.07.2014, n. 4892; id., sez. IV, 04.05.2012, n.
2592).
Ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per
decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di
sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe
operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o
potuto) avvalersi del corrispondente istituto
legislativamente previsto (Cons. St., sez. VI, 05.01.2015,
n. 13).
Un secondo orientamento (Cons. St., sez. IV,
04.02.2014, n. 1016) individua “casi-limite in cui può
pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi”
(Cons. St., sez. VI, 14.08.2015, n. 3933): considerazioni
che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte
dell’Amministrazione: Cons. St., sez. V, 09.09.2013, n.
4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata
esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario
dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile
dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del
bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del
provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche Cons. St.,
sez. VI, 18.05.2015, n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013, n.
3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato -in relazione a “semplici
difformità” della costruzione dal titolo edificatorio
sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza
dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con
le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto
all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (Cons.
St., sez. V, 15.07.2013, n. 3847, seguìta da id. 24.11.2013,
n. 2013 e id., sez. IV, 04.03.2014, n. 1016; la medesima
decisione richiama V, 29.05.2006, n. 3270, che, pur facendo
riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non
limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici
difformità”) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
ordinanza 24.03.2017 n. 1337
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La sentenza appellata ha respinto il ricorso proposto
dai sig.ri Ba.Fi., An. e Fa. per l’annullamento
dell’ordinanza del Comune di Fiumicino prot. n. 14889 del
26.02.2014 con cui era stata ingiunta la demolizione delle
opere edili abusivamente realizzate sull’immobile sito in
quel Comune, località Isola Sacra, via ... n. 81-83.
Per quel che qui rileva, il ricorso è stato respinto alla
luce di quell’orientamento giurisprudenziale ex multis:
Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79) secondo il
quale “l’ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
Propongono ricorso in appello gli interessati evidenziando
come, nonostante l’edificio fosse stato ultimato nel 1982, e
sin da quel momento l’Amministrazione fosse a conoscenza
dell’esistenza dello stesso, l’ordinanza era stata
notificata soltanto a ben 32 anni dall’ultimazione del
fabbricato in argomento. Tale inerzia aveva ingenerato una
posizione di affidamento rispetto alla quale
l’amministrazione avrebbe avuto l’onere di una congrua
motivazione in ordine all’interesse pubblico prevalente che
giustificasse il sacrificio dei ricorrenti i quali,
peraltro, semplicemente ereditando la proprietà
dell’edificio nel 2009, dalla dante causa Fi.Co.,
risultavano addirittura estranei a qualsivoglia
realizzazione abusiva.
Veniva, quindi, in altri termini lamentato che, nonostante
il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e la risposta sanzionatoria, con il conseguente
affidamento medio tempore maturato dagli attuali
proprietari, l’Amministrazione comunale non avesse dato
conto alcuno, con idonea motivazione, delle ragioni di
attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse,
diverso dal mero ripristino della legalità, sotteso al
provvedimento sanzionatorio.
A sostegno del ricorso in appello gli interessati invocano
la pronuncia della IV Sezione (04.02.2014, n. 1016) secondo
la quale: “Il provvedimento di rimozione
dell’abuso è atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso
del bene e dalla coincidenza del proprietario con il
realizzatore dell’abuso medesimo; pertanto, le sanzioni in
materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti
dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla
modalità con cui l’abuso è stato consumato, salvo i casi in
cui sia pacifico che:
a) l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario
del provvedimento di rimozione, non è responsabile
dell’abuso;
b) l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il
successivo esercizio dei poteri repressivi;
c) tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e, più
ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri
repressivi, sia intercorso un lasso temporale ampio”.
Tale pronuncia costituisce l’esempio più approfondito di
quel filone giurisprudenziale che valorizza il decorso del
tempo come elemento influente sulla legittimità del
provvedimento sanzionatorio.
2. In effetti, nella giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, sembrano potersi individuare sul tema due
orientamenti giurisprudenziali, ancorché non sempre
compiutamente esplicitati.
Secondo il primo orientamento, che parrebbe
maggioritario, l’ordinanza di demolizione
di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza
alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso
temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi
escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al
responsabile dell’abuso o al di lui avente causa
(VI, 10.05.2016 n. 1774; VI, 11.12.2013 n. 5943; VI,
23.10.2015 n. 4880; V, 11.07.2014 n. 4892; IV, 04.05.2012 n.
2592). E si è precisato che ammettere la
sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del
tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria
extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche
quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi
del corrispondente istituto legislativamente previsto
(VI, 05.01.2015 n. 13).
3. E’ tuttavia presente un secondo orientamento
giurisprudenziale, che, conforme a quello invocato dagli
appellanti (IV, 04.02.2014, n. 1016), pur consapevole del
prevalente indirizzo contrario, individua
tuttavia “casi-limite in cui può pervenirsi a
considerazioni parzialmente difformi”
(VI, 14.08.2015 n. 3933): considerazioni
che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte
dell’Amministrazione:
V, 09.09.2013 n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona
fede è stata esclusa), sulla buona fede del
soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso
dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del
trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la
comminatoria del provvedimento sanzionatorio
(in tal senso, anche VI, 18.05.2015 n. 2512; V, 15.07.2013
n. 3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato
-ma, si badi, in relazione a “semplici difformità”
della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che
il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti
giuridici e può incidere significativamente con le
possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto
all’amministrazione sia nei confronti del dante causa
(V, 15.07.2013 n. 3847, seguìta da V, 24.11.2013 n. 2013 e
IV, 04.03.2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V,
29.05.2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla
rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il
principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici
difformità”).
4. Gli appellanti, in punto di fatto, evidenziano che i
requisiti richiesti dall’orientamento a loro favorevole si
riscontrano nel caso in esame:
a) gli attuali proprietari dell’immobile, destinatari del
provvedimento demolitorio, hanno acquistato il diritto reale
de quo per successione ereditaria dalla dante causa
Co.Fi., unica responsabile dell’abuso avvenuto nel 1982;
b) la modalità di trasferimento della proprietà mortis causa
evidentemente esclude qualsivoglia intento finalistico
elusivo dell’esercizio dei poteri repressivi spettanti
all’autorità amministrativa competente;
c) tra la realizzazione dell’edificio in argomento e l’ordinanza di
demolizione sono trascorsi ben 32 anni.
5. Sussiste dunque un contrasto tra quel
filone giurisprudenziale (richiamato dalla sentenza qui
appellata) che ritiene ininfluente il decorso del tempo e
quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a
determinate condizioni, richiede invece una specifica
motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento
sanzionatorio.
Il Collegio ritiene comunque di dover osservare che,
nell’arco temporale decorrente dalla commissione
dell’abuso (anno 1982) e l’adozione del provvedimento
impugnato (anno 2014) sono intervenuti ben tre condoni
edilizi disciplinati dalle leggi 28.02.1985, n. 47,
23.12.1994, n. 724 e 24.11.2003, n. 326.
Dagli elementi di fatto forniti dagli appellanti si desume
che la loro dante causa non ha ritenuto di
avvalersi delle facoltà concesse dalle leggi richiamate e di
ottenere il condono per l’immobile abusivamente realizzato,
previa corresponsione delle somme dovute a titolo di
oblazione stabilite dalla normativa sopra citata. Invero,
nella prospettazione degli appellanti, il trasferimento
mortis causa dell’immobile assorbirebbe l’omissione
della presentazione delle domande di condono, realizzando
una sorta di sanatoria extra ordinem, formatasi per
il mero decorso del tempo (sia pure prolungato), ed
esonerando ratione temporis gli appellanti da una
presentazione, sia pur tardiva delle stesse (ammesso che
-osserva la Sezione- una tale evenienza sia possibile).
Il Collegio
ritiene ancora di dover evidenziare che la
sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto
dalla giurisprudenza per l’annullamento (in autotutela) di
un preesistente provvedimento valutato in seguito
illegittimo. La giurisprudenza invocata dagli appellanti
estende, quindi, con una radicale innovazione di sistema, al
“fatto illecito” (quale deve considerarsi una
costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che
originariamente era richiesto solo per un “atto
illegittimo”.
E’ peraltro vero che un lasso di tempo
straordinariamente lungo tra la commissione dell’abuso (da
parte di terzi) e la sanzione, tempo intercorso anche a
causa dell’inerzia serbata dall’amministrazione, potrebbe
essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento
da parte del soggetto estraneo alla commissione dell’abuso;
affidamento che, se non può certo elidere in radice il
potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in
termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che
al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre
circostanze fattuali che si assumano rilevanti.
In conclusione, il Collegio, ai sensi dell’articolo 99
c.p.a., rimette l’affare all’Adunanza plenaria, perché possa
essere decisa la seguente questione: “Se
l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella
specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente
motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto
e attuale al ripristino della legalità violata quando il
provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza
temporale straordinariamente lunga dalla commissione
dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del
provvedimento sanzionatorio”. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inottemperanza all’ordine di demolizione non
può essere giustificata dalla circostanza che le opere
abusive siano state oggetto di sequestro adottato
dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette
è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di
eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio
dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime
al patrimonio del Comune.
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8. Deve rilevarsi l’infondatezza del motivo di cui al primo
ricorso per motivi aggiunti con cui è stato impugnato il
verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di
demolizione, con cui si è rilevato che tale atto non può
essere adottato in pendenza di ricorso avverso l’ordinanza
di demolizione. In assenza di provvedimento giurisdizionale
di sospensione tale ultimo atto esplica pienamente i suoi
effetti, per cui il destinatario è tenuto a eseguirlo.
Per identiche ragioni analoghe è infondato il secondo
motivo, con cui i ricorrenti hanno dedotto che l’eventuale
demolizione del manufatto comprometterebbe il proprio
diritto di difesa da esercitare in sede di giudizio penale e
di giudizio amministrativo.
Del tutto infondato il rilievo secondo cui, in presenza di
sequestro, non era possibile procedere alla demolizione.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che
l’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere
cioè giustificata dalla circostanza che le opere abusive
siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità
giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre
possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire
l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di
diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del
Comune (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2016 n.
335) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 409
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la
denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non
ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono
ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce
alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Ne consegue che il Comune ben
poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare
le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate.
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L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle
DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal
Comune.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura
quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso
stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa
giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio
dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una
riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti
per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo
edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di
un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina
urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il
rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto
proprio a fatto del privato”.
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In presenza di opere realizzate senza titolo in zona
vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re
ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni
paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza
circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in
considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da
ciò che era stato originariamente assentito.
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1.1.- In data 28.10.2015 la
Polizia Municipale ed il dirigente dell’U.T.C. di Mattinata effettuavano un
sopralluogo nell’area in questione, predisponendo il relativo verbale.
1.2.- Successivamente il dirigente, con la censurata ordinanza n. 21 del
07.12.2015, riportando il contenuto del suddetto verbale di sopralluogo,
accertava l’inefficacia delle D.I.A. presentate “… in quanto gli
interventi previsti e realizzati incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia ed
alterano la sagoma delle opere precedentemente approvate …” e, dunque,
rilevava che detti interventi erano stati eseguiti “… in totale
difformità da quanto autorizzato con il permesso di costruire n. 58/2006 …”,
anche perché compiuti in difetto “… delle autorizzazioni previste in
relazione ai vincoli esistenti sulla zona …”.
...
Sulla base di quanto esposto, va affermato che alcuna fattispecie tacita di
autorizzazione può ritenersi formata correttamente poiché l’intervento non
poteva essere assentito con DIA, tanto che la denunziata violazione delle
regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed
il connesso principio dell’affidamento del privato, non è meritevole di
positiva delibazione.
Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo,
la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica
non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n.
873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez.
I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e
le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere
realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I,
sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent.
n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce
alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di
ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non
surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350
del 02.12.2016).
13. - Né va tralasciato di considerare che l’intervento riferito
all’interrato del lotto 3, quand’anche singolarmente valutato, per come
realizzato, necessitasse, altresì, di nulla osta previsto dal R.D. n.
3267/1923 e dal R.D. n. 1126/1926, sussistendo sull’area anche il vincolo
idrogeologico.
14. – Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri
sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i
relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez.
VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un
sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che
restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende,
evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti
che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto
di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di
controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a
presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i
quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente
nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab
origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di
formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di
un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina
urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad
esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una
situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis,
da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania,
Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19
legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della
liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri
poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì
ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi
regionali».
17. – Alla luce delle suesposte considerazioni diventa superfluo -in quanto
irrilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a supportare una
conclusione di tipo diverso- soffermarsi ulteriormente sulla questione della
destinazione d’uso degli immobili realizzati (con particolare riferimento
alla eliminazione della ricezione e della camera per il personale, con
consequenziale cambio di destinazione d’uso del lotto n. 3 di cui si fa
menzione a pag. 5 -lett. e), in relazione agli interventi contemplati dalla
DIA del 31.05.2007, ed a pag. 6 -punto 3 della censurata ordinanza), in
quanto per consolidata giurisprudenza (ex pluribus, Cons. Stato, Sez.
V, 06.06.2011, n. 3382; Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2012, n. 3970; Cons.
Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5), quando un provvedimento amministrativo
negativo è sorretto da una pluralità di motivi è sufficiente che resti
dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi
perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di
disporne l’annullamento giurisdizionale.
18. – La natura e la corretta qualificazione degli interventi eseguiti
(sottoposti al regime del permesso di costruire), consentono di concludere
per la legittimità del provvedimento impugnato.
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza
di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi
provvedimento rigidamente vincolato. L’interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la
straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed
ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non
scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato
originariamente assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2015, n. 3179) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.03.2017 n. 223 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sono sanabili opere edilizi abusive realizzate su un’area
ricompresa in un piano particolareggiato destinato a
interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a
cui il ricorrente stesso appartiene.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state
edificate senza titolo, dunque abusivamente.
È altrettanto pacifico che si tratta di opere che
necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile
in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa
in un piano particolareggiato destinato a interventi di
e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il
ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
- da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua
efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di
sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia
stata presentata);
- dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può
dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento
privato in un’area nella quale sono previsti soltanto
interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore
dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire
degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il
carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza
titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle
particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente
e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti:
questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di
pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe,
evidenziando che “la normativa urbanistica statale e
regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti
che pongono in essere trasformazioni permanenti del
territorio e che a nessun proprietario è precluso, in
ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius
aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei
piani regolatori” .
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 440 del 23.11.2016
con la quale il Dirigente del Comune di Nichelino (TO) ha
ordinato la demolizione delle opere edilizie realizzate
all'interno del lotto di terreno sito in Nichelino (TO), Via
..., censito al Catasto Terreni al foglio 22,
mappale 173, ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché
di ogni altro atto ad essa presupposto, consequenziale o
connesso.
...
1) Con il provvedimento in epigrafe il Dirigente dell’Area
tecnica del Comune di Nichelino ha ordinato la demolizione
di opere edilizie abusive realizzate dal sig. Ott.Ce. -di etnia sinti- su un terreno di sua proprietà, in assenza
di permesso di costruire e in contrasto con la disciplina
urbanistica vigente nel predetto Comune, consistenti in un
“fabbricato di civile abitazione ad un piano fuori terra
costituito da muratura perimetrale in blocchi di laterizi
intonacati fondati su un basamento in calcestruzzo…”, nonché
in un “cancello carraio e pedonale per l’accesso al lotto…”
e in “manufatti vari posti in adiacenza al fabbricato
principale…”.
2) Di tale provvedimento l’interessato ha chiesto
l’annullamento deducendo:
- che le opere in questione, per quanto abusive, sono
comunque conformi alla disciplina urbanistica, in quanto
ricadono in area disciplinata da un piano particolareggiato
finalizzato a interventi di edilizia residenziale pubblica
in favore della popolazione nomade;
- che dunque il ricorrente
potrebbe chiedere al Comune un permesso in sanatoria;
- che
nell’immobile vivono il ricorrente e il suo nucleo
familiare, i cui componenti presentano anche numerosi
problemi di salute;
- che il provvedimento impugnato, infine,
viola l’art. 8 della CEDU e il principio di proporzionalità,
in quanto non tiene conto delle condizioni personali del
ricorrente e della sua famiglia, aventi risorse economiche
limitate e comprovati problemi di salute.
...
5) Il ricorso è infondato.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state
edificate senza titolo, dunque abusivamente.
È altrettanto pacifico che si tratta di opere che
necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile
in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa
in un piano particolareggiato destinato a interventi di
e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il
ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
- da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua
efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di
sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia
stata presentata);
- dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può
dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento
privato in un’area nella quale sono previsti soltanto
interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore
dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire
degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il
carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza
titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle
particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente
e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti:
questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di
pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe,
evidenziando che “la normativa urbanistica statale e
regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti
che pongono in essere trasformazioni permanenti del
territorio e che a nessun proprietario è precluso, in
ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius
aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei
piani regolatori” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, n. 1223 del
05.10.2016, che richiama le precedenti n. 358/2016 e n.
551/2015).
6) In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere
respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 03.03.2017 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2017 |
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EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo
restando tra l'altro il potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla
inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al
contrario, l'opposto principio dell'interesse
dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca-
delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
---------------
La sanzione dell'ordine di demolizione, prevista
dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla
regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in
sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è
consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o
del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento
del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente
prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che
tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non
potendo la tutela del territorio essere rinviata
indefinitamente.
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha
osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione
dell'istanza di condono in rapporto alla condanna
giudiziale- che per neutralizzare l'ordine di demolizione
non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in
tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie,
siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
---------------
4.1. In ragione della loro stretta connessione, i motivi di
impugnazione possono essere esaminati congiuntamente.
In proposito, è invero principio del tutto consolidato che
l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo
restando tra l'altro il potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio) (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla
inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al
contrario, l'opposto principio dell'interesse
dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca-
delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche)
(Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini e altro, Rv.
267024).
4.2. Ciò posto, dallo stesso contenuto del ricorso emerge
che la procedura di sanatoria pende da circa venti anni,
senza alcun apprezzabile risultato.
Né appare seriamente sostenibile, dati siffatti precedenti
ed anche al di là delle comunque non impegnative
dichiarazioni del tecnico comunale (al riguardo, nel
provvedimento impugnato si dà invece espressamente atto che
proprio dalle parole del funzionario pubblico poteva
addirittura desumersi che alcuna rapida definizione delle
pratiche edilizie era prevista), che essa possa concludersi
in tempi ragionevolmente pronosticabili.
Infatti la sanzione dell'ordine di demolizione, prevista
dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla
regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in
sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è
consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o
del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento
del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente
prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che
tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non
potendo la tutela del territorio essere rinviata
indefinitamente (Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv.
253050).
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha
osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione
dell'istanza di condono in rapporto alla condanna
giudiziale- che per neutralizzare l'ordine di demolizione
non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in
tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie,
siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
4.3. In ragione di ciò, non vi è alcuna possibilità,
pertanto, di confrontare l'ordine di demolizione con
provvedimenti di segno diverso, tali da metterne in dubbio
la perdurante piena efficacia.
4.4. Al riguardo, e con particolare attenzione al secondo
motivo di ricorso, è poi appena il caso di aggiungere che
-ferme le svolte considerazioni- non rileva il fatto
dell'inutile pendenza ventennale della procedura
amministrativa di sanatoria (tra l'altro, finora, ad
evidente esclusivo vantaggio del privato che ha goduto del
bene), atteso che, a fronte delle innegabili inefficienze di
pubbliche autorità, si pone in ogni caso l'obbligo di porre
in esecuzione un ordine di demolizione, nascente da una
sentenza irrevocabile di condanna.
5. I motivi di censura appaiono quindi manifestamente
infondati nella loro integralità, e ne va dichiarata
l'inammissibilità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8887). |
EDILIZIA PRIVATA: Valutazione
dell'abuso edilizio - Autonoma rilevanza dei i singoli
interventi edilizi - Esclusione - Conformità del manufatto a
tutti i parametri legali - Controllo di legittimità
dell'atto amministrativo - Artt. 3, 6, 22, 37 e 44, lett.
b), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Nella
valutazione dell'abuso edilizio, non è consentito frazionare
i singoli interventi edilizi al fine di dedurre la loro
autonoma rilevanza, ma occorre verificare l'ammissibilità e
la legalità alla luce della normativa vigente,
dell'intervento complessivo realizzato (Sez. 3, n. 45598 del
13/11/2013).
Sicché, il provvedimento è sorretto da motivazione congrua
laddove si accerti la conformità tra il fatto (opere
eseguite e/o in corso di esecuzione) e la fattispecie
legale, alla luce dell'interesse sostanziale protetto, quale
la tutela dell'assetto del territorio in conformità alla
normativa urbanistica, attraverso il controllo di
legittimità di un atto amministrativo che costituisce un
elemento costituito o presupposto del reato, così
verificando la conformità del manufatto a tutti i parametri
legali, fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli
strumenti urbanistici, oltre che dal provvedimento
autorizzatorio (Cass. S.U. n. 11635 del 21/12/1993, P.M. in
proc. Borgia) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8885 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione
amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto
alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28
della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se
disposta dal giudice
penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita,
ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente
dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen..
Una
lettura sistematica
della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la
dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento
penale, della
demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è
che, pur integrando
un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità
amministrativa, nel
senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice
penale anche qualora
sia stata già disposta dall'autorità amministrativa,
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel
contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione)
'amministrativo', ed è
eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine
'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da
parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore, in tal senso non
mutuando il
carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella
irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena;
resta
eseguibile, qualora sia
stato impartito con la sentenza di applicazione della pena
su richiesta, anche nel
caso di estinzione del reato conseguente al decorso del
termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc. pen.; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
all'irrevocabilità
della sentenza.
---------------
L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
disponibile del
Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione
emesso dal giudice con
la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione
da parte del pubblico
ministero, a spese del condannato, sussistendo
incompatibilità solo nel caso in
cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera,
l'esistenza di interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a
quello del ripristino
dell'assetto urbanistico violato.
Oltre a ciò, il giudice,
nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio
della sospensione della
pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale
ordine ha la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale
subordinazione è ostativa
l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del
comune, poiché anche
questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto
abusivamente
costruito.
---------------
4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. In relazione al primo profilo di censura, ed in ragione
della particolare struttura semplificata del presente
provvedimento, è del tutto opportuno e sufficiente ricordare
che è già stata anche
ritenuta manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, per violazione
degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per mancata previsione di un termine di
prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto
abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le
caratteristiche di detta sanzione amministrativa —che
assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso;
configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del
territorio; non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con
il bene, anche se non è l'autore dell'abuso—
non consentono
di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere
sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda
rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a
prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di
cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977).
Sì che va ribadito che l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione
amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto
alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28
della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (ad
es. Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv.
264736).
4.2. La Corte infine richiama ed integralmente condivide
Sez. 3, n. 9949 del
20/01/2016, Di Scala -allo stato non massimata- che
appunto conclude nel
senso che la demolizione del manufatto abusivo, anche se
disposta dal giudice
penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita,
ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente
dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen..
In ogni caso, ivi è comunque ribadito che l'art. 31 Testo
Unico dell'edilizia
disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere
abusive, adottata dall'autorità
amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione
d'ufficio; in caso di
inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione
amministrativa
pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva
al patrimonio del
Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei
responsabili
dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare
non venga dichiarata
l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che
l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il comma 9
del medesimo art. 31
prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la
sentenza di
condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una
lettura sistematica
della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la
dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento
penale, della
demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è
che, pur integrando
un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità
amministrativa, nel
senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice
penale anche qualora
sia stata già disposta dall'autorità amministrativa,
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel
contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione)
'amministrativo', ed è
eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone. Anche perché è pacifico che l'ordine
'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da
parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore (Sez. 3, n.
47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non
mutuando il
carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella
irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena (ad
esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez.
3, n. 7228 del
02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309);
resta
eseguibile, qualora sia
stato impartito con la sentenza di applicazione della pena
su richiesta, anche nel
caso di estinzione del reato conseguente al decorso del
termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 18533 del
23/03/2011, Abbate,
Rv. 250291); non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
all'irrevocabilità
della sentenza (cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv.
249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile
parallelamente al procedimento amministrativo, la cui
emissione è demandata
(anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di
responsabilità penale, al
fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del
procedimento di
esecuzione della demolizione.
4.3. In relazione all'ulteriore, e sostanzialmente connesso,
profilo di
censura, la giurisprudenza del tutto consolidata della Corte
è altresì nel senso
che l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
disponibile del
Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione
emesso dal giudice con
la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione
da parte del pubblico
ministero, a spese del condannato, sussistendo
incompatibilità solo nel caso in
cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera,
l'esistenza di interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a
quello del ripristino
dell'assetto urbanistico violato (ex plurimis, Sez. 3, n.
42698 del 07/07/2015,
Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep.
2008, Mancini, Rv.
238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposato, Rv.
230652; Sez. 3, n. 3489
del 03/11/2000, Mosca, Rv. 217999).
Oltre a ciò, è stato ricordato anche dal Procuratore
generale che il giudice,
nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio
della sospensione della
pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale
ordine ha la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale
subordinazione è ostativa
l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del
comune, poiché anche
questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto
abusivamente
costruito (Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3,
n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258517)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8882). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito alla necessità di
accertamento di compatibilità paesaggistica quale
presupposto per il permesso di costruire in sanatoria di cui
all'art. 36 d.P.R. 380/2001 per interventi realizzati prima
del vincolo paesaggistico (Regione Lazio,
nota 16.02.2017 n. 81219 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: La
struttura pubblicitaria può configurare abuso edilizio.
Reato anche se non si tratta di un’abitazione.
Una costruzione
edilizia, anche se non destinata a essere abitata, può
generare un abuso: lo sottolinea la Corte di Cassazione,
Sez. III penale, con la
sentenza 14.02.2017 n. 6872.
Il caso esaminato è particolare in quanto, dopo aver scelto
una località particolarmente visibile (e sottoposta a
vincolo ambientale), un'impresa di commercializzazione di
case prefabbricate aveva collocato più moduli, completi in
ogni loro parte, per mostrare le qualità del prodotto.
In questo modo, le abitazioni, di più vani, avevano perso
l'attitudine ad essere considerate abitazioni, ma
conservavano il loro impatto fisico. Poiché le norme
urbanistiche non prevedono che l'abuso abbia solo finalità
abitative, è quindi iniziato un procedimento penale
conclusosi con la condanna confermata dalla Cassazione.
La
motivazione adottata dalla Suprema corte prende spunto dal
rapporto della legge 10 del 1977 (Bucalossi) con le norme
precedenti (del 1942) e sottolinea che dal 1977 in poi il
territorio è tutelato indipendentemente dai vari usi che se
ne possono fare. Così appunto un consistente uso
pubblicitario, indipendentemente dal tipo di oggetto che si
intenda valorizzare (sia esso un'abitazione prefabbricata o
meno), esige un titolo edilizio.
Non è infatti il peso urbanistico che si intende limitare,
bensì l'uso del territorio, anche per l'uso pubblicitario.
Nel momento in cui si utilizza un'area per finalità diverse
da quelle previste dal piano urbanistico si pone infatti un
problema di “peso” dell'intervento, peso che va
valutato dall'amministrazione e che fa scattare, in caso di
assenza di titolo abilitativo, specifiche sanzioni. Tali
sanzioni non si applicano per opere temporanee, destinate a
essere rimosse dopo un allestimento provvisorio, ma sempre
che la consistenza delle opere non alteri parametri di
fruibilità del territorio.
Nel caso deciso dalla Cassazione ha avuto peso la
particolare natura delle opere prefabbricate, alte fino a 12
metri anche se in gran parte in materiale precario
(polistirolo) coerentemente alle finalità pubblicitarie.
Anche se non abitate, ciò che si era realizzato esprimeva
infatti stabilità e quindi un uso non temporaneo dell'area
impegnata. La sentenza condanna anche il soggetto che aveva
venduto e collocato le case pubblicitarie, ritenendo il
venditore partecipe del disegno illecito di utilizzo non
consentito del territorio.
Inoltre, per la loro fattiva partecipazione alla modifica
dei luoghi, sono stati condannati anche gli impiantisti che
avevano contribuito, da artigiani, a dotare la struttura
pubblicitaria di attacchi ed impianti: secondo la
Cassazione, infatti, anche chi realizza un pavimento,
intonaci e infissi risponde dell'abusivismo se ha
colposamente ignorato la circostanza che fosse necessario un
titolo edilizio.
Anche tale coinvolgimento dei soggetti esecutori (dal
venditore agli artigiani rifinitori) è del resto coerente
all'ampliamento delle responsabilità che la legge 10 del
1977 (oggi il Dpr 380/2001) prevede per arginare
l'abusivismo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2017).
---------------
MASSIMA
5.1 ricorsi sono infondati.
6. Per motivi di ordine logico devono essere esaminati i
motivi che riguardano la sussistenza oggettiva dei reati.
6.1. La natura precaria dell'opera edilizia
non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la
sua realizzazione né dalla sua facile amovibilità; quel che
conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle
esigenze che l'opera è destinata a soddisfare.
6.2. Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel
definire gli interventi di "nuova costruzione", per i
quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo
equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°,
lett. b, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), individua -tra gli
altri- i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni,
che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e "che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee"
(art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.).
La natura oggettivamente temporanea e contingente delle
esigenze da soddisfare è richiamata anche dall'art. 6, comma
2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che,
previa mera comunicazione dell'inizio lavori, possono essere
liberamente eseguite.
6.3. Si tratta di criterio che significativamente, anche se
ad altri fini, l'art. 812 cod. civ. utilizza per collocare
nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti
saldamente ancorati alla riva o all'alveo e destinati ad
esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così
diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla
navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di
cui all'art. 136 cod. nav. e che, a norma dell'art. 815 cod.
civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a
registrazione.
6.4. La oggettiva destinazione dell'opera a
soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente
attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né
contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla
giurisprudenza di questa Corte per distinguere l'opera
assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di
costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere
dall'incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati
(Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3,
Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497
del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994,
Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza
n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del
25/02/2009, quest'ultima con richiamo ad ulteriori
precedenti conformi di questa Corte e del Consiglio di
Stato).
Nemmeno il carattere stagionale
dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera
(Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza
n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del
19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009 cit.).
6.5. Il riferimento alla temporaneità e
alla contingenza dell'esigenza, piuttosto che alle
caratteristiche strutturali dell'opera edilizia ed al
materiale impiegato per la sua realizzazione, deriva dal
fatto che nella riflessione dottrinaria e giurisprudenziale
del secondo dopoguerra si è venuta consolidando la
consapevolezza che il territorio non può più essere
considerato strumento destinato al solo assetto ed
incremento edilizio
(art. 1 L. 1150/1942), ma come luogo sul
quale convergono interessi di ben più ampio respiro che
dalle modalità del suo utilizzo (o del suo non utilizzo)
possono trovare giovamento o, al contrario, pregiudizio, sì
che la sua trasformazione urbanistica ed edilizia
(così l'art. 1 L. 10/1977 che, si noti, operando un
rivolgimento copernicano rispetto all'art. 1 L. 1150/1942,
ha posto l'attività edilizia in secondo piano rispetto a
quella urbanistica) costituisce oggetto di
compiuta valutazione e comparazione degli interessi in gioco
e, dunque, vera e propria attività di governo
(così l'art. 117, comma 30 , Cost.), non
sempre, e non solo, appannaggio esclusivo della collettività
che lo abita.
6.6. E' evidente, pertanto, che la
temporaneità dell'esigenza che l'opera precaria è destinata
a soddisfare è quella (e solo quella) che non è suscettibile
di incidere in modo permanente e tendenzialmente definitivo
sull'assetto e sull'uso del territorio.
6.7. Tanto premesso, risulta dalla lettura della sentenza
impugnata che il modulo abitativo prefabbricato, al quale
era asservito il manufatto di dodici metri composto di
polistirolo, era stato collocato sopra una piattaforma di
cemento realizzata all'interno del fondo di proprietà della
Pe..
All'interno del medesimo fondo erano stati realizzati gli
allacciamenti elettrici, idrici e fognari destinati a
servire il manufatto sotto il cui pavimento erano stati
predisposti gli alloggiamenti per le tubature idriche e gli
impianti elettrici. Il bagno era munito di uno scaldabagno
elettrico. Nel manufatto erano state inserite le scatole per
gli interruttori elettrici ed i relativi interruttori. Sul
perimetro del fondo erano state realizzate delle aiuole e
piantati degli alberi a riprova, afferma la Corte, della
duratura destinazione dell'immobile ad abitazione.
6.8. Non v'è dubbio che la Corte di appello ha fatto buon
governo dei principi sopra indicati traendo dalle premesse
in fatto testé illustrate conseguenze non manifestamente
illogiche in ordine alla effettiva natura delle esigenze non
temporanee che il manufatto, nella sua interezza e a
prescindere dai materiali utilizzati, doveva soddisfare.
6.9. Le eccezioni sollevate dalla ricorrente non colgono nel
segno sia perché valorizzano l'argomento della tipologia dei
materiali utilizzati, sia perché non considerano che la
natura modulare dell'abitazione prefabbricata, alla luce
dell'inequivocabile dettato normativo sopra richiamato, non
esclude la durevolezza delle esigenze abitative cui il
manufatto era asservito.
L'ulteriore argomento difensivo secondo cui si trattava di
manufatto posto in opera a scopi puramente pubblicitari, e
dunque transitori, è stata smentita dalla Corte di appello
con argomentazioni non oggetto di specifica censura da parte
della ricorrente che si limita ad eccepire, al riguardo, un
inammissibile travisamento della prova volto, di fatto, a
creare un contatto diretto di questa Corte di cassazione con
le fonti di prova allegate al ricorso.
6.10. Quanto ai profili di responsabilità di tutti gli
imputati si deve osservare che la posa in opera del
manufatto costituisce l'esecuzione di un accordo intercorso
tra la proprietaria committente e il legale rappresentante
della società venditrice, accordo per effetto del quale
l'azione appartiene ad entrambi gli imputati. Il fatto che
la posa in opera del manufatto sia stata giustificata con le
(insussistenti) esigenze pubblicitarie indicate nel
contratto di vendita costituisce ulteriore argomento che
rafforza la prova della comune consapevolezza della
necessità del titolo edilizio mancante.
6.11. In ogni caso, assume valore dirimente
il fatto che la società legalmente rappresentata dal Sa. non
si è limitata alla vendita del manufatto, ma si è
direttamente interessata anche alla sua posa in opera e alla
realizzazione degli allacci, destinandovi due operai.
6.12. Il che è più che sufficiente a
qualificarla come "costruttore" ai sensi dell'art.
29, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in quanto tale, ha il dovere
di controllare preliminarmente che siano state richieste e
rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a
titolo di dolo del reato di cui all'art. 44 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante
l'accertamento negativo, e a titolo di colpa nell'ipotesi in
cui tale accertamento venga omesso
(Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carafa, Rv. 263474; Sez.
3, n. 860 del 25/11/2004, Cima, Rv. 230663).
6.13. Anche gli operai, materiali esecutori
dei lavori, rispondono del reato a titolo di concorrenti
(in questo senso Sez. 3, n. 16751 del 23/03/2011, Iacono, Rv.
250147, secondo cui la natura di reati "propri" degli
illeciti previsti dalla normativa edilizia non esclude che
soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 29, comma
primo, del decreto medesimo, possano concorrere nella loro
consumazione, in quanto apportino, nella realizzazione
dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole;
nello stesso senso anche Sez. 3, n. 35084 del 25/02/2004,
Barreca, Rv. 229651; Sez. 3, n. 48025 del 12/11/2008,
Ricardi, Rv. 241799, secondo cui concorre nel reato anche si
limita a svolgere lavori di completamento dell'immobile,
quali la pavimentazione, l'intonacatura, gli infissi, sempre
che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla
mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori).
6.14. Il Ca. ed il Di. non si erano limitati a collocare sul
posto il manufatto ma erano intenti ad effettuare lavori di
allaccio alle reti idrica ed elettrica che concorrevano a
rendere oggettivamente stabile l'opera edilizia, realizzata
in totale assenza di permesso di costruire e di qualsiasi
altra autorizzazione. Sicché essi ne rispondono anche a
titolo di colpa.
6.15. La argomentazioni sin qui svolte valgono a maggior
ragione anche per il reato di cui all'art. 181, comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004, peraltro non oggetto di specifica
impugnazione, al pari della muratura in pietra (della quale
non v'è menzione nei ricorsi). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Responsabilità del committente,
costruttore, direttore dei lavori, dirigente o responsabile
del competente ufficio comunale - Individuazione - Concorso
nel reato urbanistico - Extraneus - Profilo del dolo o della
colpa - Profilo oggettivo e soggettivo - Artt. 29, 44, lett.
c, d.P.R. 380/2001 e 142, 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati urbanistici, è indubbio che nel reato "proprio"
di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 -i cui autori sono
individuati, dall'art. 29 d.P.R. cit., nel committente, nel
costruttore e nel direttore dei lavori- possa concorrere l'extraneus.
Anche se, il precetto penale è diretto non a chiunque, ma
soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia,
rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto;
tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti
diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art.
29, compreso il sindaco che con la concessione edilizia
illegittima abbia posto in essere la condizione operativa
della violazione di quegli obblighi (cfr., ex multis,
Sez. 3 n. 996 del 15/10/1988).
È necessario, però, che vengano accertate le condizioni,
sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere
configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare
che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione
dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa).
Reati edilizi - Dirigente o del
responsabile UTC - Obbligo di vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia - Emanazione di provvedimenti
interdittivi e cautelari - Obbligo di impedire l'evento
dannoso - Artt. 27 e 31 d.P.R. 380/2001.
In materia edilizia, l'art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 pone a
carico del dirigente o del responsabile del competente
ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di
intervenire ogni qualvolta venga accertato l'inizio o
l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità
della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di
provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31
d.P.R. n. 380 del 2001).
Egli è quindi certamente titolare di una posizione di
garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l'evento
dannoso (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2017 n. 5439 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Svolgimento di attività in
assenza di autorizzazioni - DIRITTO PROCESSUALE PENALE -
Principio di retroattività della legge più favorevole e
successione di leggi amministrative - Applicazione -
Esclusione - Divieti esistenti ai momento del fatto.
Il principio di retroattività della legge più favorevole non
trova applicazione in riferimento alla successione di leggi
amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo
svolgimento di attività, il cui carattere criminoso dipenda
dall'assenza di autorizzazioni (tra le altre, Sez. 3, n.
25035 del 25/05/2011, dep. 22/06/2011, Pasinetti e altro;
Sez. 3, n. 18193 del 12/03/2002, dep. 14/05/2002, Pata); in
detta ipotesi rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale
del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo
controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti
esistenti ai momento del fatto.
Sicché, a fronte di tale principio è irrilevante l'assenza
di motivazione della sentenza impugnata posto che
l'accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito
favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass., Sez. 2, n.
10173 del 16/12/2014, dep. 11/03/2015, Bianchetti).
Interventi edilizi in zona
paesaggisticamente vincolata - Difformità totale o parziale
o in variazione essenziale - Qualificazione giuridica e
individuazione della sanzione penale applicabile - Artt. 31,
32, 34 e 44, lett. c), del d. P.R. n. 380/2001.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente
vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380
del 2001 prevede espressamente che tutti gli interventi
realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali
(Cass. Sez. 3, n. 37169 del 06/05/2014, dep. 05/09/2014,
Longo) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2017 n. 5435
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comporta la condannata per il reato previsto
dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380
l'aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in
abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando
il vano sottoscala di accesso al piano rialzato.
---------------
Il precedente 24.07.2003 la signora Pa. aveva presentato
all’agenzia del territorio di Frosinone una denuncia di
variazione, avente a oggetto il mutamento di destinazione
d’uso di una delle cantine poste a piano primo sottostrada a
“pranzo, cottura, Wc e ripostiglio” e la
realizzazione di un porticato di mq. 11 circa e di un
ripostiglio (ricavato nel vano sottoscala interno).
...
A latere della vicenda relativa al condono si svolgeva
peraltro anche un processo penale che si concludeva con la
condanna della signora Ve. per aver realizzato le opere in
questione senza titolo; in particolare la signora Ve. era
condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera
b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (in pratica per aver
trasformato un locale destinato a garage e cantina in
abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando
il vano sottoscala di accesso al piano rialzato) alla pena
di mesi uno e giorni venti di arresto e all’ammenda di euro
8.000, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi (si
vedano la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 245 del
27.02.2008, la sentenza della corte d’Appello di Roma n.
7951 del 03.12.2008 e la sentenza n. 42295 del 25.11.2009
con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma le cui
statuizioni sono quindi ormai definitive) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 06.02.2017 n. 69 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Consolidata giurisprudenza esclude la necessità
della partecipazione nei procedimenti di contrasto
all’abusivismo edilizio, ovvero, sotto diversa angolazione
prospettica, nega al vizio de quo carattere invalidante.
In ottica più generale, inoltre, il diritto vivente richiede
che il privato, il quale lamenti il mancato coinvolgimento
nell’azione amministrativa, indichi con sufficiente
precisione quegli elementi, specie di fatto, che avrebbe
potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato chiamato
a partecipare: solo in tal modo, infatti, la censura de qua
si rivela espressione di un’istanza di tutela sostanziale ed
individuale (recte “soggettiva”) e non una mera critica di
una formale e generale (recte “oggettiva”) disfunzione
amministrativa.
---------------
Quanto al merito, il Collegio, sulla scorta della natura
vincolata dell’ordinanza di demolizione gravata, ritiene la
superfluità della comunicazione di avvio.
Si premette che oramai consolidata giurisprudenza esclude la
necessità della partecipazione nei procedimenti di contrasto
all’abusivismo edilizio (ex multis C.d.S., IV,
26.08.2014, n. 4279), ovvero, sotto diversa angolazione
prospettica, nega al vizio de quo carattere
invalidante; in ottica più generale, inoltre, il diritto
vivente richiede che il privato, il quale lamenti il mancato
coinvolgimento nell’azione amministrativa, indichi con
sufficiente precisione quegli elementi, specie di fatto, che
avrebbe potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato
chiamato a partecipare: solo in tal modo, infatti, la
censura de qua si rivela espressione di un’istanza di tutela
sostanziale ed individuale (recte “soggettiva”)
e non una mera critica di una formale e generale (recte
“oggettiva”) disfunzione amministrativa.
Nello specifico della vicenda per cui è causa, a tenore
delle previsioni del locale PRG la zona ove insiste il
fabbricato è soggetta a radicale vincolo inaedificandi;
di converso, le opere in questione concretano con ogni
evidenza un intervento di nuova edificazione, giacché non si
limitano all’elevazione di muri di contenimento, peraltro di
rilevanti dimensioni, ma si sostanziano nella realizzazione
di volumi coperti.
Alla luce di ciò, il Comune non poteva che ordinare la
demolizione dell’opus, non disponendo di uno spazio
di discrezionalità sotto alcun rispetto (an, quid,
quomodo, quando), ma versando, al contrario, nella
condizione di dover solo riscontrare nella realtà materiale
la ricorrenza dei presupposti (edificazione in area
inedificabile) al cui positivo riscontro la legge riconnette
l’esercizio di un potere normativamente in toto conformato.
La natura interamente vincolata del potere nella specie
speso rende, pertanto, applicabile il richiamato art.
21-octies, comma 2, l. 241/1990: l’Amministrazione, mediante
la produzione del verbale del sopralluogo nel corso del
quale sono state rilevate le opere abusive e il preciso
riferimento alle prescrizioni urbanistiche vigenti
nell’area, ha assolto all’onere processuale delineato dalla
disposizione in commento, dimostrando che il “contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Né, per vero, valgono in contrario senso le considerazioni
formulate in primo grado dalla sig.ra Fi.: in disparte
la, peraltro assorbente, considerazione circa la mancata
riproposizione in appello delle medesime, con effetto di
rinuncia ex lege (art. 101, comma 2, c.p.a.), non vi
possono essere dubbi circa il “regime giuridico cui
restano soggette le opere in contestazione”,
inevitabilmente destinate alla demolizione in quanto la loro
stessa esistenza è, a quanto consta, incompatibile con le
vigenti prescrizioni urbanistiche (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 02.02.2017 n. 445 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso e del
proprietario del bene.
Per quanto riguarda la possibilità di
ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria
sostitutiva attraverso la rimozione delle opere abusive, si
ritiene che il ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso
(o del proprietario del bene) sia idoneo a determinare la
perdita del potere di esigere il pagamento della sanzione
già applicata.
Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza il prezzo di
una sanatoria, non esiste un interesse pubblico che possa
opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori acquisiti dal
privato in violazione della disciplina urbanistica.
Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di verificare
che:
(a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo tecnicamente possibile
ma anche non facilmente reversibile, e
(b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non comportino
pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita in
conformità (peraltro è possibile che il privato accetti di
modificare anche la parte conforme, se questo appare utile
per eliminare in sicurezza le opere abusive).
Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34, comma
2, del DPR 380/2001.
L’amministrazione subirebbe infatti un danno economico se
accettasse di perdere l’importo della sanzione in cambio di
un’eliminazione solo apparente dell’abuso, e d’altra parte
non è possibile lasciare al privato la valutazione circa
l’assenza di rischi per la sicurezza delle persone e delle
cose.
---------------
Nello specifico, è evidente che il ribassamento del soffitto
fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio in legno
non costituisce né un intervento irreversibile (essendo anzi
facilmente reversibile) né un ostacolo all’utilizzo della
superficie del locale per qualsiasi destinazione, comprese
quelle incompatibili con la disciplina urbanistica. Si
tratta in realtà di una misura che non cancella l’abuso
edilizio, e in particolare non riduce la superficie lorda di
pavimento e il connesso maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre
la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di
terreno sulla copertura.
La rimozione radicale delle opere abusive non è stata
proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata
sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi
che un simile intervento potrebbe creare per la parte
conforme dell’edificio.
Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento di
riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è
possibile qualificare come superfici non utili, e quindi
urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è
appena al di sotto del limite minimo ma comunque
perfettamente idonea a consentire la generalità degli
utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è
possibile conseguire la sanatoria solo formalmente,
ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità
delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica.
L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento
dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001,
con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
---------------
Relativamente
ai parametri utilizzati per calcolare l’importo di cui
all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, la base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva
è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge
392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è
disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come
riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata
accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di
produzione sono poi applicati diversi coefficienti in
incremento o in riduzione.
Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di
tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di
produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai
fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine
pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo
effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art.
16, relativo alla tipologia dell’abitazione.
Nel caso del
ricorrente, questo significherebbe non applicare il
coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale
A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo
della sanzione pecuniaria. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia
condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa
chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione,
sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria.
Così
formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi
di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le
quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla
sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è
più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e
omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi,
il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando
conseguentemente il principio di certezza del diritto.
...
Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di
produzione occorre fare riferimento alla situazione
successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore
economico rilevante è quello che risulta dal completamento
dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può
conservare il valore attuale del bene illegittimamente
realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che
sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non
può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie
edilizie di favore (come la definizione di locale
seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni
legittime.
...
L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il
coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e
manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il
ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla
presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza
che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non
sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la
copertura.
Non sembra tuttavia che questa situazione possa
consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La
finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un
canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in
cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione.
L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece
l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin
dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato
la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di
conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere
riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle
opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in
quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile
ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore
dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso)
di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della
propria obbligazione.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del responsabile del
Settore Tecnico-Manutentivo prot. n. 9128/2015 del
23.01.2015, con la quale è stato nuovamente ingiunto al
ricorrente il pagamento di una sanzione pari a € 88.520,28
in luogo della demolizione delle opere abusive, ai sensi
dell’art. 34, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380;
...
1. Il Comune di Carobbio degli Angeli, con ordinanza del
responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 23.01.2015,
ha nuovamente ingiunto al ricorrente Si.Fu. il pagamento di
una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle
opere abusive, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del DPR
06.06.2001 n. 380. L’importo della sanzione è stato
quantificato in € 88.520,28.
2. L’intervento edilizio abusivo interessa un edificio
residenziale situato nella frazione di S. Stefano, e
consiste nella realizzazione di una cantina più ampia di
quanto assentito e nella trasformazione della stessa in
taverna o soggiorno abitabile (e quindi in superficie
utile).
3. Questo intervento è stato ritenuto non sanabile, mentre
per altre opere abusive eseguite nel medesimo edificio è
stato concesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del
DPR 380/2001. La domanda di sanatoria era stata presentata
il 25.06.2012, ed era poi stata integrata l’08.01.2013.
4. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore
Tecnico-Manutentivo del 02.03.2013, aveva già quantificato
in € 88.520,28 la sanzione ex art. 34, comma 2, del DPR
380/2001. Tale provvedimento non è stato impugnato.
5. In data 04.05.2013 il ricorrente ha contestato
direttamente presso gli uffici comunali le modalità di
calcolo attraverso una perizia del geom. Ma.An.Br.,
proponendo una stima diversa. I punti di contrasto (riferiti
agli art. 16-19-21-22 della legge 27.07.1978 n. 392)
riguardavano (a) il livello di piano (seminterrato o piano
terra), (b) lo stato di conservazione dell’immobile
(mediocre o normale), e (c) la base di calcolo della
sanzione pecuniaria (disapplicazione del coefficiente
correttivo riferito alla tipologia di costruzione).
Modificando solo i parametri relativi al livello di piano e
allo stato di conservazione, la sanzione sarebbe pari a €
57.226,02. Se poi venisse modificata anche la base di
calcolo, non applicando al costo di produzione la
maggiorazione collegata alla tipologia di costruzione, la
sanzione sarebbe pari a € 40.875,73.
6. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore
Tecnico-Manutentivo del 20.08.2014, ha respinto l’ipotesi di
calcolo formulata dal ricorrente, confermando la sanzione in
€ 88.520,28. Contro questo provvedimento il ricorrente ha
presentato ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, con atto notificato il 19.12.2014.
7. Nello stesso tempo, il ricorrente, con nota del
19.11.2014, ha reiterato la richiesta di riduzione della
sanzione, e, in alternativa, ha proposto un percorso di
cancellazione dell’abuso edilizio mediante modifica dello
stato dei luoghi (ribassamento del soffitto fino a 2,50
metri, ripristino della destinazione a cantina).
L’eliminazione delle opere abusive avrebbe dovuto comportare
l’inapplicabilità dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, e
la conseguente liberazione del ricorrente dall’obbligazione
pecuniaria.
8. Il Comune, con la citata ordinanza del 23.01.2015, ha
respinto le richieste del ricorrente, confermando l’importo
della sanzione.
9. Contro il suddetto provvedimento il ricorrente ha
presentato impugnazione davanti a questo TAR, con atto
notificato il 26.03.2015 e depositato il 17.04.2015. Le
censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione delle garanzie procedimentali per omesso invio del
preavviso di diniego;
(ii) violazione dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, in quanto
il Comune non ha consentito al ricorrente di sottrarsi alla
sanzione pecuniaria rimuovendo le opere abusive;
(iii) violazione degli art. 15-22 della legge 392/1978, in quanto
vi sarebbero degli errori nel calcolo del costo di
produzione delle opere abusive (in proposito, il ricorso
rinvia a una nuova perizia del geom. Ma.An.Br., datata
12.10.2014).
10. Il Comune si è costituito in giudizio, eccependo
l’inammissibilità del ricorso, e chiedendone la reiezione
nel merito.
11. Questo TAR, con
ordinanza 12.05.2015 n. 793, ha accolto la
domanda cautelare in relazione al secondo motivo di ricorso,
invitando il Comune a esaminare la proposta di cancellazione
delle opere abusive finalizzata a ottenere la liberazione
dalla relativa sanzione.
12. In esecuzione dell’ordine del TAR, il Comune ha invitato
il ricorrente a chiarire le modalità scelte per
l’eliminazione dell’abuso edilizio. Il ricorrente ha
presentato un apposito progetto, che prevedeva la riduzione
dell’altezza interna del locale destinato a soggiorno
mediante l’installazione di un solaio in legno con innesti
nella muratura, e contemporaneamente la mimetizzazione della
costruzione all’esterno con la posa di terreno sulla
copertura.
Il responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo, con
provvedimento del 05.08.2015, ha ritenuto che la predetta
soluzione non fosse idonea a ripristinare una situazione
urbanisticamente conforme, in quanto lasciava invariata la
maggiore superficie lorda di pavimento (87,05 mq) rispetto a
quella assentita (45,00 mq).
13. Il provvedimento del 05.08.2015 non è stato impugnato.
14. Così riassunta la vicenda contenziosa, sulle questioni
rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le
seguenti considerazioni.
Sulle eccezioni preliminari
15. La sanzione pecuniaria ex art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, sostitutiva della demolizione, è stata definita
nello stesso importo in tre distinti provvedimenti: il primo
(02.03.2013) non impugnato; il secondo (20.08.2014)
impugnato con ricorso straordinario; il terzo (23.01.2015)
impugnato nel presente ricorso.
16. Non vi è stata acquiescenza rispetto al primo
provvedimento, in quanto la richiesta di riesame ha tenuto
aperto il canale di confronto con gli uffici comunali.
L’amministrazione, pertanto, sia con il secondo sia con il
terzo provvedimento, ha adottato decisioni fondate su una
nuova valutazione dei fatti, che hanno ciascuna sostituito
la precedente.
17. Proseguendo su questa linea, si può ritenere che non vi
sia litispendenza rispetto al ricorso straordinario, in
quanto il terzo provvedimento si presenta come la risposta
finale dell’amministrazione alle plurime richieste e
contestazioni del ricorrente. L’interesse a impugnare il
secondo provvedimento sussisteva certamente in origine, ma è
stato poi sostituito dall’interesse a impugnare il terzo
provvedimento, che ha definitivamente impedito al ricorrente
sia di cancellare la sanzione pecuniaria attraverso la
rimozione delle opere abusive sia di ottenere una riduzione
dell’importo dovuto.
18. Non sussisteva invece un autonomo onere di impugnazione
del quarto provvedimento della serie, ossia del nuovo
diniego emesso dal Comune il 05.08.2015 in seguito al
supplemento istruttorio disposto da questo TAR con
l’ordinanza cautelare. Per chiarire questo punto è
necessario esaminare il primo motivo di impugnazione, che
riguarda la violazione delle garanzie procedimentali.
Sulle garanzie procedimentali
19. In generale, l’omissione del preavviso di diniego in una
procedura avviata da tempo e caratterizzata dalla continua
interlocuzione tra il privato e gli uffici comunali non può
essere considerata come un vizio autonomo del provvedimento
finale.
20. Diverso è il problema del mancato esame dell’ultima
proposta avanzata dal ricorrente, ossia della possibilità di
ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria mediante
la rimozione delle opere abusive. Qui, in effetti,
l’interlocuzione tra il ricorrente e gli uffici comunali si
è arrestata troppo presto, lasciando il dubbio di
un’istruttoria inadeguata.
Questo difetto, tuttavia, non riguarda l’intero
provvedimento (non incide, in particolare, sui criteri di
calcolo della sanzione pecuniaria), e può essere oggetto di
convalida in sede giudiziale tramite il meccanismo della
motivazione ex post di cui all’art. 21-octies comma 2
della legge 07.08.1990 n. 241.
21. L’ordinanza cautelare, attivando immediatamente il
suddetto meccanismo allo scopo di fare economia dei mezzi
processuali, ha rimesso in termini le parti per completare
il confronto anche su questo profilo della vicenda
contenziosa. Tale confronto ha avuto esito negativo per il
ricorrente, nel senso che il Comune ha confermato
motivatamente la propria posizione.
Tuttavia, poiché il nuovo provvedimento appartiene
all’attività processuale, non è necessaria un’autonoma
impugnazione, potendovi essere diretta cognizione da parte
del giudice, nella fase di merito, sugli atti conseguenti
alle pronunce cautelari. La censura riguardante il mancato
esame della proposta di rimozione delle opere abusive si
trasforma quindi da formale a sostanziale, concentrandosi
sulle ragioni che non hanno consentito questo percorso di
sanatoria.
Sulla cancellazione delle opere abusive
22. Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la
liberazione dalla sanzione pecuniaria sostitutiva attraverso
la rimozione delle opere abusive, si ritiene che il
ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso (o del
proprietario del bene) sia idoneo a determinare la perdita
del potere di esigere il pagamento della sanzione già
applicata. Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza
il prezzo di una sanatoria, non esiste un interesse pubblico
che possa opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori
acquisiti dal privato in violazione della disciplina
urbanistica.
23. Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di
verificare che (a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo
tecnicamente possibile ma anche non facilmente reversibile,
e (b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non
comportino pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita
in conformità (peraltro è possibile che il privato accetti
di modificare anche la parte conforme, se questo appare
utile per eliminare in sicurezza le opere abusive).
24. Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34,
comma 2, del DPR 380/2001. L’amministrazione subirebbe
infatti un danno economico se accettasse di perdere
l’importo della sanzione in cambio di un’eliminazione solo
apparente dell’abuso, e d’altra parte non è possibile
lasciare al privato la valutazione circa l’assenza di rischi
per la sicurezza delle persone e delle cose.
25. Nello specifico, è evidente che il ribassamento del
soffitto fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio
in legno non costituisce né un intervento irreversibile
(essendo anzi facilmente reversibile) né un ostacolo
all’utilizzo della superficie del locale per qualsiasi
destinazione, comprese quelle incompatibili con la
disciplina urbanistica. Si tratta in realtà di una misura
che non cancella l’abuso edilizio, e in particolare non
riduce la superficie lorda di pavimento e il connesso
maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre
la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di
terreno sulla copertura.
26. La rimozione radicale delle opere abusive non è stata
proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata
sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi
che un simile intervento potrebbe creare per la parte
conforme dell’edificio.
27. Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento
di riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è
possibile qualificare come superfici non utili, e quindi
urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è
appena al di sotto del limite minimo ma comunque
perfettamente idonea a consentire la generalità degli
utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è
possibile conseguire la sanatoria solo formalmente,
ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità
delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica.
L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento
dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001,
con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
Sulla quantificazione della sanzione pecuniaria
sostitutiva
28. Relativamente ai parametri utilizzati per calcolare
l’importo di cui all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, si
ritiene che il Comune abbia operato correttamente.
29. La base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva
è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge
392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è
disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come
riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata
accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di
produzione sono poi applicati diversi coefficienti in
incremento o in riduzione.
30. Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di
tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di
produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai
fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine
pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo
effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art.
16, relativo alla tipologia dell’abitazione. Nel caso del
ricorrente, questo significherebbe non applicare il
coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale
A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo
della sanzione pecuniaria.
31. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia
condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa
chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione,
sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria. Così
formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi
di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le
quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla
sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è
più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e
omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi,
il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando
conseguentemente il principio di certezza del diritto.
32. L’art. 19 della legge 392/1978 individua il coefficiente
0,80 per le abitazioni situate al piano seminterrato. Il
ricorrente sostiene che il locale abusivo sarebbe appunto
seminterrato, tenendo conto della linea originaria del
terreno.
33. Questa impostazione non può essere condivisa.
Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di
produzione occorre fare riferimento alla situazione
successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore
economico rilevante è quello che risulta dal completamento
dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può
conservare il valore attuale del bene illegittimamente
realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che
sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non
può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie
edilizie di favore (come la definizione di locale
seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni
legittime.
34. Nello specifico, le stesse cartografie prodotte dal
ricorrente in occasione della domanda di sanatoria e la
relativa documentazione fotografica (doc. 5 e 6 del Comune)
chiariscono che il locale abusivo fuoriesce dal terreno su
tre lati, ed è del tutto assimilabile per aspetto e
funzionalità a una costruzione fuori terra.
35. L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il
coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e
manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il
ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla
presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza
che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non
sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la
copertura.
36. Non sembra tuttavia che questa situazione possa
consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La
finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un
canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in
cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione.
L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece
l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin
dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato
la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di
conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere
riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle
opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in
quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile
ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore
dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso)
di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della
propria obbligazione.
37. Nello specifico, come riferito nel provvedimento del
23.01.2015 oggetto di impugnazione, le autocertificazioni e
le dichiarazioni allegate alla domanda di sanatoria
attestavano la conformità dell’impianto elettrico e
dell’impianto termosanitario, e l’idoneità statica del
locale. Su questa base, si può ritenere che alla data della
domanda di sanatoria, e a maggior ragione alla data di
conclusione dei lavori abusivi, l’immobile si trovasse in
uno stato di conservazione e manutenzione normale.
Conclusioni
38. Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.12.2016 n. 1792 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione delle opere abusive nelle aree naturali
protette: il principio “tempus regit actum” (parere
16.12.2016-593183, AL 20874/2016 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
---------------
L’Avvocatura distrettuale in indirizzo con la nota di
riferimento ha rimesso a questo G.U. il proprio parere in
ordine alla questione in oggetto, sollevata dall’ente Parco
... con nota del 09.03.2016 n. 1322, ritenuta rilevante ed
avente portata di massima.
In particolare, l’ente Parco ha posto il quesito se prima
della entrata in vigore della legge n. 426/1998 e della
legge n. 296/2006, l’acquisizione delle proprietà delle aree
soggette anche a vincolo di parco e sulle quali fu commesso
un abuso edilizio, si verifichi esclusivamente in capo agli
enti comunali allo scadere dei novanta giorni dalla
notificazione dell’ordinanza di demolizione da questi ultimi
emanata. (...continua). |
novembre 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
PUÒ ESSERE ACCERTATO IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO SE
L’INTERVENTO EDILIZIO È ANCORA IN CORSO D’OPERA?
Il reato di esecuzione dei lavori in
totale difformità dal
permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art. 44, comma1, lett. b), non presuppone necessariamente il
completamento dell’opera, ma è altresì configurabile nel
corso dell’esecuzione degli interventi edilizi, allorché la
difformità risulti palese durante l’esecuzione dei lavori,
in
quanto dalle opere già compiute appare evidente la
realizzazione
di un organismo diverso da quello assentito.
La questione affrontata dalla Cassazione con la sentenza qui
esaminata è di particolare interesse e riguarda
l’individuazione
delle condizioni in base alle quali può essere ritenuto
configurabile
un mutamento di destinazione d’uso quando ancora
l’intervento edilizio non è ultimato.
La vicenda processuale
trae origine dalla Corte d’Appello che aveva confermato
quella
del Tribunale con la quale l’imputato era stato dichiarato
colpevole del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44,
lett. b), perché quale proprietario committente aveva
realizzato
in totale difformità dalla concessione edilizia in luogo dei
previsti locali di sgombero sottotetto, due ulteriori unità
immobiliari
con destinazione residenziale prive dell’altezza minima
prevista per l’abitabilità, indipendenti rispetto alle
sottostanti
unità abitative ed accessibili tramite scala esterna e con
aperture
finestrate, non previste in progetto, che avevano
determinato
le modifiche dei prospetti.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo che l’affermazione di responsabilità era stata
basata sulle dichiarazioni dell’agente accertatore che, pur
privo delle necessarie conoscenze tecniche specifiche,
aveva dichiarato che si era in presenza di un ipotizzabile cambio
di destinazione d’uso, senza valutare la documentazione
prodotta e le dichiarazioni rese dal responsabile
dell’ufficio
tecnico comunale che comprovavano la sanabilità dell’opera.
La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in
massima, ha
respinto il ricorso, in particolare osservando come era
stato
accertato che i servizi realizzati (di natura idraulica,
elettrica,
fognaria) all’interno delle parti del fabbricato destinate
ad uso
non abitativo fossero inequivocabilmente dimostrativi della
diversa destinazione in corso di realizzazione, non
assentita
dal permesso di costruire e certamente idonea ad incidere
sul
carico urbanistico, sicché, nella specie, il reato era già
sussistente,
non occorrendo certamente il completamento degli
interventi abusivi per configurarlo.
A tal proposito, i
Supremi
Giudici hanno fatto applicazione di un principio già
affermato
dalla Cassazione secondo cui il reato di esecuzione dei
lavori in
totale difformità dal permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), non presuppone
necessariamente il completamento dell’opera, ma è altresì
configurabile nel corso dell’esecuzione degli interventi
edilizi,
allorché la difformità risulti palese durante l’esecuzione
dei
lavori, in quanto dalle opere già compiute appare evidente
la
realizzazione di un organismo diverso da quello assentito
(Cass. pen., Sez. III, 20.09.2007, n. 41578, B., in
CED, n. 238000; Id., Sez. III, 30.01.2008, n. 13592,
P.M. in proc. D., in CED, n. 239837).
Da qui la conclusione
degli Ermellini secondo cui in corso d’opera, l’accertamento
del mutamento di destinazione d’uso va effettuato sulla base
della individuazione di elementi univocamente significativi,
propri del diverso uso cui è destinata l’opera e non
coerenti
con la destinazione originaria (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.11.2016 n. 49840 - Urbanistica e appalti 2/2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
SOLO LA DIFFORMITÀ PARZIALE RISPETTO ALL’ASSENTITO NON È
SOGGETTA A SANZIONE PENALE IN CASO DI SUPERDIA.
In tema di reati edilizi, nel caso in
cui la denuncia di inizio attività (DIA ora SCIA) si ponga
quale titolo abilitativo esclusivo (d.P.R. 06.06.2001, n.
380, art. 22, commi 1 e 2), solo l’esecuzione di interventi
edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli
strumenti urbanistici e dai regolamenti edilizi integra il
reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a).
Diversamente, nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cosiddetta
superDIA: d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3) è
configurabile il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. b), sia nel caso di assenza del permesso di
costruire o della DIA, sia nel caso di difformità totale
delle opere eseguite rispetto alla DIA presentata, restando
priva di sanzione penale la sola difformità parziale.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame sulla
configurabilità
del reato di costruzione edilizia abusiva in caso di
interventi
edilizi eseguibili con la c.d. DIA alternativa (ora SCIA) al
permesso di costruire.
La vicenda processuale trae origine,
per quanto qui di interesse, dalla sentenza con cui la Corte
d’Appello confermava la quella di primo grado che aveva
dichiarato l’imputato responsabile del reato di cui al
d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), il d.P.R. n.
380
del 2001, per aver realizzato opere in difformità rispetto
alle
previsioni progettuali -consistite in interventi di
occupazione di
un’area di superficie superiore a quella indicata,
realizzazione
dei muretti di divisione dei settori e di muretto di
divisione
esterno, omessa realizzazione di adeguato sistema di
canalizzazione
delle acque meteoriche- e con violazione della disposizioni
in materia antisismica.
Contro la sentenza proponeva
ricorso per Cassazione l’imputato, sostenendo che, all’esito
dell’istruttoria, era emerso che le divergenze tra la DIA e
lo
stato di fatto accertato non presentavano quelle
caratteristiche
di “integrale diversità” atte ad integrare la fattispecie
criminosa, limitandosi, invece, a correzioni di poco conto
che il tecnico incaricato della direzione dei lavori aveva
ritenuto
necessario effettuare in corso d’opera al fine di garantire
la
funzionalità della struttura; il Tribunale aveva, però,
ritenuto
configurabile la fattispecie criminosa di cui al d.P.R. n.
380 del
2001, art. 44, lett. a), con violazione dei diritti di
difesa per
violazione del principio di correlazione tra accusa e
sentenza,
mentre la Corte di Appello aveva ritenuto integrata la
fattispecie
criminosa di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.
b).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha
accolto il ricorso per il mancato esame delle doglianze difensive,
soffermandosi più specificamente sul regime sanzionatorio
della c.d. superDIA.
Ha ricordato, in proposito, la
Cassazione
che la DIA prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22,
comma 3
(c.d. DIA alternativa o SuperDIA), non è istituto ontologicamente
diverso da quello disciplinato dai due commi precedenti
(c.d. DIA semplice, ora SCIA) dal quale non si distingue certo per
il carattere dell’onerosità, che ben può essere comune e
differisce
da esso soltanto in relazione agli interventi assoggettabili
(alternativamente) alla procedura.
Diverso, invece, è il
connesso
regime sanzionatorio.
Nei casi previsti dal d.P.R. n. 380
del 2001, art. 22, commi 1 e 2, -in cui la DIA (ora S.C.I.A.),
si pone
come titolo abilitativo esclusivo (non alternativo, cioè, al
permesso
di costruire)- la mancanza della denunzia di inizio
dell’attività
o la difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA
effettivamente presentata non comportano l’applicazione di
sanzioni penali ma sono sanzionate soltanto in via
amministrativa
(d.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, comma 6).
Dovendo
ritenersi, però, che sia comunque punibile ai sensi del
d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), -pure se preceduta da
rituale
denuncia d’inizio- l’esecuzione di interventi
sostanzialmente
difformi da quanto stabilito da strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi. La Cassazione ha, infatti, affermato che
l’esecuzione in assenza o in difformità degli interventi
subordinati a denuncia di
inizio attività (DIA) d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art.
22, commi
1 e 2, (ora S.C.I.A.), allorché non conformi alle previsioni
degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina
urbanistico-edilizia in vigore, comporta l’applicazione
della sanzione
penale prevista dal citato d.P.R. n. 380, art. 44, lett. a),
atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in
assenza o
difformità dalla DIA (ora S.C.I.A.), ma conformi alla citata
disciplina,
è applicabile la sanzione amministrativa prevista dallo
stesso d.P.R. n. 380 del 2001, art. 37 (Cass. pen., Sez. III,
22.11.2006, n. 41619, C., in CED, n. 235413; Id., Sez.
III, 20.01.2009, n. 9894, T., in CED, n. 243099).
Nei casi
previsti dal
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3, invece- in cui la DIA
(DIA
alternativa o superDIA), ai sensi del successivo art. 44,
comma 2-bis, si pone come alternativa al permesso di costruire,
l’assenza
sia del permesso di costruire sia della denunzia di inizio
dell’attività
ovvero la totale difformità delle opere eseguite rispetto
alla
DIA effettivamente presentata integrano il reato di cui al
successivo
art. 44, lett. b) (Cass. pen.,Sez. III, 09.03.2006, n. 8303; Id.,
26.01.2004, n. 2579, T.).
La disciplina sanzionatoria
penale
non è correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì
alla consistenza
concreta dell’intervento. Ciò che conta non è la
qualificazione
dell’intervento data dal privato nella DIA presentata ma la
esatta indicazione e descrizione, in tale denuncia, delle
opere,
poi, effettivamente eseguite (Cass. pen., Sez. III, 26.10.2007, n. 47046, in CED, n. 238463).
Non trova, comunque,
sanzione penale la difformità parziale: le sanzioni di cui
al d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, sono applicabili soltanto in caso
di
assenza o totale difformità dalla DIA, atteso che la
esclusione
dell’ipotesi di parziale difformità dal regime sanzionatorio
opera
sia in caso di edificazione con permesso di costruire che
nella
diversa ipotesi di opzione per la DIA (Cass. pen., Sez. III,
23.09.2004, n. 44248, in CED, n. 230147) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.11.2016 n. 47970
- Urbanistica e appalti 2/2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è stato ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità
del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990;
tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro
carattere doveroso.
---------------
Mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2,
d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un
secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo
competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta
dell'interessato in tal senso.
---------------
7 - Su queste premesse è possibile esaminare le restanti
singole censure, anche mediante accorpamento delle stesse
per omogeneità delle tematiche involte.
La lamentata violazione degli artt. 7 e ss. legge 241/1990
(atteso che l’originaria contestazione di avviso della
autotutela non contemplava il preteso spostamento verso
l’esterno delle originarie pareti in ferro e vetri) si
rivela infondata, poiché dalla disamina del complesso
carteggio emerge la volontà dell’amministrazione comunale di
sottoporre a verifica la totalità degli interventi eseguiti
sull’albergo Ro..
Peraltro, come è stato ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza della sezione, la doverosità del
provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990;
tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro
carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/90 e, in
giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, sez. IV, n.
3605/2016, sez. VI, n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V,
19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV,
02.12.2008, n. 20794 e TAR Campania, Napoli, sez. IV,
16.06.2000 n. 2147).
8 - La censura avente ad oggetto violazione degli artt. 3,
10, 22, DPR 380, art. 1 D.Lgs. 301/2000 (nonché la
violazione delle leggi regionale n. 19 del 2001 e n. 16 del
/2004, eccesso di potere, difetto di motivazione, violazione
art. 31 e 32 DPR 380, violazione degli artt. 7 e 14 delle
NTA della variante generale al PRG, violazione art. 124 e 12
delle NTA, eccesso di potere per difetto di istruttoria,
errore sul presupposto, violazione dell’art. 33, co. 4 e
6-bis DPR 380/2001) risulta non convincente, poiché, come
detto, gli interventi non possono essere considerati
assentibili con D.I.A.; ne consegue la reiezione anche di
tutte le altre censure (violazione degli artt. 33, comma 4,
34, 37 e 38 DPR 380/2001) che si fondano sulla tesi della
validità abilitativa della D.I.A., con la specificazione che
la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria, infatti, attiene alla fase dell'esecuzione
dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del
destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza
nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto va ribadito che, mentre l’ingiunzione di
demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del
procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere
effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il
soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di
esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in
assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o
delle opere edili costruite in parziale difformità dallo
stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta
dell'interessato in tal senso (ex multis, v. Sent.
TAR Napoli, sez. IV, n. 3120/2015, cit., nonché TAR Napoli,
sez. VII, 14.06.2010 n. 14156) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione
dei manufatti (abusivi) in questione sulla base di una
pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla
garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del
codice civile.
Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale
non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto
delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei
manufatti.
Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto
di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.
---------------
Le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire
solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi,
precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire
l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito
della quale è stata specificamente rilevata e motivata
l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente.
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione
sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata,
essendo certa esclusivamente la provenienza della
dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono
stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come
prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune ai
fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque
titolo.
---------------
Né ha pregio il deposito in giudizio di perizia giurata a
firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale
preesistenza.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di
deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la
preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i
contrari elementi di prova oggettivi richiamati
dall’amministrazione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n.
75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia
Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il
permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione
straordinaria e del permesso di costruire per opere di
ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n.
4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte
ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta
presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della
relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i
provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del
processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo
amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente
costruzione dei manufatti in questione sulla base di una
pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti
dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700
del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in
giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto
posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente
costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte
ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente
giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la
sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità
dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al
presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità
risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta,
con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi
ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non
pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento
di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento
dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione.
Lamenta in particolare che il comune di Verona ha
indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni
sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da
quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come
imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori
evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta
vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio
del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la
zona di progetto e la zona in cui sono individuati i
manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la
loro omissione nell’atto notarile di compravendita di
terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di
accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono
costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi
gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a
scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione
nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e
motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal
richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione
sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata,
essendo certa esclusivamente la provenienza della
dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della
dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo
con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti
per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di
esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli
dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio
Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente
e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che
i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti
fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava
istanza di permesso di costruire avente ad oggetto
fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale
istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei
manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I
manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area
di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui
planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del
diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto
provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente
all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento
edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione
di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria,
essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo,
richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità
paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato
creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del
permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di
demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
4. Sono infondate le censure proposte con motivi aggiunti di
ricorso avverso l’ordinanza di demolizione sia perché sono
proposti vizi d’invalidità derivata già proposti col ricorso
principale sia perché l’amministrazione ha congruamente
smentito la circostanza, invocata da parte ricorrente, che i
manufatti preesistessero ad epoca anteriore alla seconda
guerra mondiale.
Né ha pregio il deposito in giudizio in data 07.05.2015
di perizia giurata a firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale preesistenza.
Si tratta infatti di perizia che non è stata prodotta da
parte ricorrente nel procedimento che ha condotto
all’adozione dei provvedimenti impugnati né sussistevano
impedimenti a che tale perizia fosse eventualmente prodotta
nel momento in cui parte ricorrente, nell’ambito delle
proprie facoltà partecipative, era abilitata a presentare
memorie e documenti prima dell’adozione dei provvedimenti
impugnati.
Il collegio prescinde dalla circostanza che il motivo di
ricorso incentrato su tale perizia costituisce motivo nuovo
di ricorso, proposto oltre il termine decadenziale di 60
giorni dalla conoscenza del provvedimento impugnato e dunque
irricevibile per tardività. Infatti tale motivo di ricorso è
comunque infondato.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di
deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la
preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i
contrari elementi di prova oggettivi richiamati
dall’amministrazione
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costante
orientamento giurisprudenziale ha rilevato come l'art. 35,
comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura
costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere
interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo
tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di
abitabilità dell'immobile condonato.
Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina del condono
edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle
disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando
ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano
della legittimità costituzionale, perché incidenti sul
fondamentale principio della tutela della salute.
Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di una
normativa di rango primario, costituendo una diretta
applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265
(Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma
primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia
igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
Ne consegue che proprio il carattere della fonte, diretta
attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, non
autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono per
le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario
applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e
supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene,
questi ultimi non attuativi di norme di legge
gerarchicamente sovraordinate.
---------------
FATTO
Il Sig. Ca.Ve. e la Sig.ra Ca.El. hanno
impugnato un provvedimento di annullamento degli effetti
dell’attestazione di abitabilità e del successivo rigetto
della richiesta di riesame, provvedimenti questi ultimi
successivi ad un cambio di destinazione da residence a
abitazione civile proposto dagli stessi ricorrenti.
Il provvedimento di annullamento degli effetti
dell’attestazione di abitabilità risulta emanato in
considerazione del fatto che non sarebbero stati dimostrati
i requisiti igienico-sanitari di cui al DM del 05.07.1975, in quanto l'immobile avrebbe una superficie pari a
soli 25 mq., inferiore ai 28 mq previsti dalla disposizione
sopra citata.
I ricorrenti con l’unico motivo sostengono la violazione
dell’art. 35, comma 20, della legge 28.02.1985 n. 47 e
degli artt. 24 del D.p.r. n. 380/2001 e 149 della L. Reg. n.
65/2014, in quanto dette disposizioni consentirebbero, una
volta intervenuto il condono edilizio, di ottenere
l'attestazione di abitabilità anche in deroga delle norme
regolamentari e, quindi, anche del DM del 05.07.1975.
Si è costituito il Comune di Firenze contestando le
argomentazioni dei ricorrenti e chiedendo il rigetto del
ricorso in considerazione della sua infondatezza.
All’udienza del 25.10.2016, uditi i procuratori delle
parti costituite, il ricorso è stato trattenuto per la
decisione.
DIRITTO
1. In ricorso è infondato e va respinto.
1.1 E’ necessario evidenziare che la fattispecie in esame
risulta disciplinata dall’art. 3 del DM del 05.07.1975
nella parte in cui prevede che l'alloggio monostanza, per
una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva
dei servizi, non inferiore a mq. 28, e non inferiore a mq.
38, se per due persone.
1.2 Detta disposizione a parere dei ricorrenti risulterebbe
derogabile nell’ipotesi di condono in considerazione di
quanto previsto dall’art. 35, comma 20, della L. 47/1985 nella
parte in cui dispone che "a seguito della concessione o
autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il
certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai
requisiti fissati da norme regolamentari.".
1.3 Le argomentazioni dei ricorrenti sono smentite da un
costante orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come
l'art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura
costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere
interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo
tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di
abitabilità dell'immobile condonato (in questo senso si veda
TAR Liguria, Genova, n. 194 del 27/1/2012).
1.4 Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina del condono
edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle
disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando
ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano
della legittimità costituzionale, perché incidenti sul
fondamentale principio della tutela della salute (in questo
senso TAR Toscana Sez. II, 03.04.2009, n. 559 e Cons. Stato,
sez. V, 13.04.1999, n. 814).
1.5 Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di
una normativa di rango primario, costituendo una diretta
applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265
(Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma
primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia
igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
1.6 Ne consegue che proprio il carattere della fonte,
diretta attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie,
non autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono
per le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario
applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e
supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene,
questi ultimi non attuativi di norme di legge
gerarchicamente sovraordinate.
1.7 Nel caso di specie è circostanza incontestata che il
manufatto in questione non presenta le caratteristiche
necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione
d'uso abitativa, difettando di una superficie minima non
inferiore a mq. 28, sicché l’Amministrazione non avrebbe
potuto che annullare gli effetti della dichiarazione di
abitabilità.
1.9 Il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 02.11.2016 n. 1575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
RISARCIMENTO DEL DANNO - Proprietario confinante
- Legittimazione a costituirsi parte civile - Condanna
generica al risarcimento dei danni in favore della Parte
Civile - Accertamento della potenziale capacità lesiva del
fatto dannoso - Nesso di causalità - Giurisprudenza.
La condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata
dal giudice penale (come avvenuto nel caso di specie), non
esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di
un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento
della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della
esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il
pregiudizio lamentato (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013 -
dep. 07/11/2013, Di Fatta e altri; Sez. 5, n. 191 del
19/10/2000 - dep. 10/01/2001, Mattioli F. P. ed altri; Sez.
6, n. 12199 del 11/03/2005 - dep. 29/03/2005, Molisso,
secondo cui ai fini della pronuncia di condanna generica al
risarcimento dei danni in favore della P.C. non è necessario
che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni
ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore
dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un
fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la
suddetta pronuncia infatti costituisce una mera "declaratoria
juris" da cui esula ogni accertamento relativo sia alla
misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è
rimesso al giudice della liquidazione; proprio in tema di
edilizia, Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009 - dep. 25/11/2009,
Vespa, secondo cui il proprietario confinante è legittimato
a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad
oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le
norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle
costruzioni (art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di
inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni
(art. 871 cod. civ.), indipendentemente dalle distanze;
fattispecie di mutamento di destinazione d'uso di un piano
seminterrato da garage e cantina in miniappartamento) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2016 n. 44319 -
link a www.ambientediritto.it). |
luglio 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non
comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione ma fa conseguire all’atto uno stato di
temporanea quiescenza, fino alla definizione del
procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o
difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere
conforme alla strumentazione urbanistica.
Una volta rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento
di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando,
così, la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello
stesso.
----------------
L’eccezione è infondata.
La proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non
comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione, (cfr. Cons. di Stato, n. 1546/2014 e
4818/2013), ma fa conseguire all’atto uno stato di
temporanea quiescenza, fino alla definizione del
procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di
evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la
demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o
difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere
conforme alla strumentazione urbanistica. Una volta
rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento di
demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così,
la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.07.2016 n. 3407 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Trasmissione Protocollo d'intesa in corso di stipula
relativo all'attività estimativa per abusi edilizi
prevista dal DPR 380/2001 (Agenzia delle
Entrate, Ufficio provinciale di Milano-Territorio,
nota 27.07.2016 n. 22078 di
prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito all'applicazione dell'art. 39, comma
10-bis, della legge 724/1994 in tema di condono edilizio -
Comune di Gaeta (Regione Lazio,
parere 22.07.2016 n. 388728 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e
ss.mm.ii. dispone che “L'autorità competente, constatata
l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga
una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso
tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in
caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui
al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a
rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre
irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella
misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa
la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle aree
e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su quegli “edifici”
ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e
tassativamente indicate nella summenzionata disposizione,
vale a dire:
1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità”;
2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge
18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed
integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire
l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica
e popolare”);
3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di
“Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a
“vincolo per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti
a limitazioni nella loro utilizzazione”;
4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927,
n. 1766” (rubricata “Conversione in legge del R.D.
22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi
civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica
l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D.
16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati
dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia gravate
da usi civici;
5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490” (“Testo
unico delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L.
08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le corrispondenti aree
di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice dei beni
culturali e del paesaggio”, a seguito dell’abrogazione
espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata dall'art. 184 del
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai
sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso
Decreto);
6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e
ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché per
le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e
ss.mm.ii.;
7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
---------------
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione
di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle aree
e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella
misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione
dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso,
evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea
ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente
impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel
caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante)
“colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino
(legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in
quelle particolari (e circoscritte) “aree” ed in quei
particolari (e circoscritti) “edifici” specificamente
indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n.
380/2001.
---------------
0. - Il ricorso è infondato nel merito e va respinto, così
come manifestamente infondata è la questione di legittimità
costituzionale prospettata dalla ricorrente, per le
motivazioni di seguito riportate.
1. - Osserva la Sezione che il gravame si basa,
essenzialmente, sulla censura di illegittimità
costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 (inserito dall'art. 17, comma 1, lett.
q-bis del D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), in combinato
disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n.
380/2001.
Difatti, ad avviso del Collegio, alcun eccesso di potere è
imputabile, nel caso di specie, al civico Ente resistente,
posto che quest’ultimo si è limitato ad irrogare
(doverosamente e correttamente) la sanzione pecuniaria nella
misura massima di euro 20.000,00, facendo applicazione
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e
ss.mm., (testualmente) “in ragione del sistema
vincolistico dell’area”, atteso -come pure
condivisibilmente rilevato dal Comune di Nardò- il carattere
obbligatorio e vincolato della sanzione pecuniaria di cui al
novellato art. 31, comma 4-bis, del T.U. Edilizia n.
380/2001 nell’ipotesi in cui ricorrano -come nella
fattispecie in esame- i relativi (stringenti e tassativi)
presupposti: si tratta, infatti, di abuso realizzato (come
già evidenziato nella parte “Fatto”) in “zona già
sottoposta a Vincolo Paesaggistico di cui al D.M. del
04.09.1975 … ovvero attualmente compresa nel P.P.T.R.
adottato con D.G.R. n. 1435 del 02.08.2013” - così
l’ordinanza n. 94/2015).
L’impugnazione dell’ordinanza n. 94 del 25.02.2015 è, poi,
irricevibile per tardività (e, comunque, la relativa
impugnazione è proposta solo in via tuzioristica -“ove
occorra”-, senza prospettare alcuno specifico vizio
della stessa). Peraltro, non risulta (agli atti del
giudizio) che alcun gravame sia stato azionato neppure
avverso il (presupposto) diniego di sanatoria edilizia ex
Lege n. 47/1985.
1.1 - Ciò premesso, osserva la Sezione che la ricorrente
deduce, sostanzialmente, che l’art. 31, comma 4-bis, del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto
con l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico-,
assoggettando alla sanzione pecuniaria massima di €
20.000,00 tutti gli abusi commessi “sulle aree e sugli
edifici di cui al comma 2 dell’art. 27” del D.P.R. n.
380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e
della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero
presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui
predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive
dimensioni delle opere (nel caso in esame, l’immobile misura
“soli mq 37 per un volume pari a 111,48 mc”)-,
contrasterebbe con i principi costituzionali di
proporzionalità e ragionevolezza, nonché con il principio di
uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della stessa Carta
Fondamentale (assimilando, quoad poenam, una gamma di
comportamenti che possono assumere natura ed entità
estremamente variabile).
La previsione di una “pena in misura fissa”
contrasterebbe, inoltre, con il diritto di difesa di cui
all’art. 24 della Costituzione, nonché con i principi
inerenti alla funzione giurisdizionale di cui agli artt. 101
e 102 della Costituzione ed alla funzione rieducativa della
pena di cui al successivo art. 27, primo e terzo comma
(essendo del tutto irragionevole l’automatismo “legislativo”
della sanzione stessa). La sanzione nella misura fissa di
euro 20.000,00, poi, risulterebbe, da un lato,
eccessivamente gravosa nel caso di abusi di piccole
dimensioni, dall’altro non potrebbe sortire alcuna efficacia
dissuasiva rispetto ad immobili abusivi di enormi
dimensioni.
1.2 - La questione di legittimità costituzionale
prospettata, sia pure suggestivamente argomentata, è, ad
avviso del Collegio, manifestamente infondata.
L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii.
dispone che “L'autorità competente, constatata
l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga
una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso
tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in
caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui
al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a
rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre
irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella
misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa
la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle
aree e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del
D.P.R. n. 380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su
quegli “edifici” ricadenti nelle tipologie
vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella
summenzionata disposizione, vale a dire:
1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità”;
2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad
interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla
legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed
integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire
l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica
e popolare”);
3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di
“Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a “vincolo
per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti a
limitazioni nella loro utilizzazione”;
4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge
16.06.1927, n. 1766” (rubricata “Conversione in legge
del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento
degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484,
che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del
R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati
dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia
gravate da usi civici;
5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”
(“Testo unico delle disposizioni legislative in materia
di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1
della L. 08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le
corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice
dei beni culturali e del paesaggio”, a seguito
dell’abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata
dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal
01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello
stesso Decreto);
6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati
monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge
o dichiarati di interesse particolarmente importante ai
sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490”
e ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché
per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490”
e ss.mm.ii.;
7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto
elevato” (pertanto, destituita di ogni fondamento appare
la prospettazione operata dalla ricorrente -v. pagg. 12 e 13
del ricorso introduttivo-, a mente della quale,
sostanzialmente, il richiamo all’art. 27, comma 2, di cui al
citato art. 31, comma 4-bis del D.P.R. n. 380/2001,
comporterebbe l’applicazione della sanzione pecuniaria
massima non solo agli abusi realizzati in aree ed immobili
rientranti nei prefati sistemi vincolistici, ma anche “in
tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici”).
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione
di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle
aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella
misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione
dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso,
evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea
ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente
impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel
caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante)
“colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di
ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente
agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) “aree”
ed in quei particolari (e circoscritti) “edifici”
specificamente indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso
D.P.R. n. 380/2001.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità
costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con
l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico– si appalesa
manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate.
2. - Per tutto quanto innanzi esposto, il presente ricorso
deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 12.07.2016 n. 1105 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
In base alla consolidata giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato, i provvedimenti demolitori “non
necessitano di una motivazione particolarmente estesa,
essendo sufficiente che l'Amministrazione individui con
chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della
decisione, anche con mero richiamo alle disposizioni di
legge delle quali viene fatta applicazione”, con la
conseguenza che il Comune, una volta accertata l’abusività
delle opere de quibus, realizzate in assenza dei richiesti
titoli abilitativi, non aveva alcun obbligo di motivare il
provvedimento di demolizione in relazione a quanto rilevato
nella succitata relazione tecnica.
---------------
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di
questo Consiglio di Stato “in caso di abusivismo edilizio,
non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la
sanabilità dell'opera prima di emettere un’ordinanza di
demolizione, atteso che, nello schema giuridico delineato
dal testo unico dell'edilizia, non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, dal momento che l'esercizio del
potere repressivo di un abuso edilizio consistente
nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo
abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re
ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto,
accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione
ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non
costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle
opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia”.
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva
delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne
in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale
valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa
di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di
demolizione non preclude all’interessato la possibilità di
presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva
valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in
merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi
dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una
circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento
demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve
ritenersi legittimo.
---------------
Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata
comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto
di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la
Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di
rigetto, per espressa previsione normativa, trova
applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza di
parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento che ha
condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di
demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza
della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato
nella nota della Soprintendenza, con la conseguenza che
l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di
adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art.
10-bis.
---------------
Infine, per quanto concerne la censura relativa al fatto che
l’Amministrazione comunale non avrebbe proceduto a confutare
analiticamente la relazione tecnica allegata alla SCIA del
16.04.2012, la Sezione rileva che, in base alla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, i provvedimenti
demolitori “non necessitano di una motivazione
particolarmente estesa, essendo sufficiente che
l'Amministrazione individui con chiarezza le ragioni
giuridiche assunte a fondamento della decisione, anche con
mero richiamo alle disposizioni di legge delle quali viene
fatta applicazione” (Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008,
n. 2977), con la conseguenza che il Comune, una volta
accertata l’abusività delle opere de quibus,
realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, non
aveva alcun obbligo di motivare il provvedimento di
demolizione in relazione a quanto rilevato nella succitata
relazione tecnica.
6. Con il secondo motivo di gravame la società ricorrente ha
dedotto l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per
violazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004;
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990;
eccesso di potere sotto i profili del presupposto erroneo,
del travisamento dei fatti, del difetto d’istruttoria e
della motivazione errata e contraddittoria; nonché
violazione dell’art. 15 del regolamento edilizio.
Secondo la società ricorrente, infatti, gli interventi de
quibus non avrebbero comportato la creazione di
superfici utili e volumi o l’aumento di quelli
legittimamente assentiti e sarebbero, quindi, sanabili ai
sensi dell’art. 167, lett. a) e c) del d.lgs. n. 42 del
2004, con la conseguenza che il Comune, prima di adottare il
contestato provvedimento demolitorio, avrebbe dovuto
comunicare alla società ricorrente il preavviso di diniego
di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990,
consentendo alla società di depositare una istanza di
sanatoria paesaggistica ai sensi del succitato art. 167.
Detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base ad un consolidato
orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato
“in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico
del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera
prima di emettere un’ordinanza di demolizione, atteso che,
nello schema giuridico delineato dal testo unico
dell'edilizia, non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, dal momento che l'esercizio del potere
repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione
di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce
atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico
alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di
opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia” (Cons. di Stato, Sez. IV,
26.08.2014, n. 4279).
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva
delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne
in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale
valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa
di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di
demolizione non preclude all’interessato la possibilità di
presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva
valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in
merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi
dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una
circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento
demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve
ritenersi legittimo.
Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata
comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto
di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la
Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di
rigetto, per espressa previsione normativa, trova
applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza
di parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento
che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di
demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza
della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato
nella nota della Soprintendenza di Napoli e Provincia n.
14402 del 27.08.2012, con la conseguenza che
l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di
adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art.
10-bis
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi, ai
fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente dei
lavori nel reato previsto
dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere
l'interesse o il suo
consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero
dimostrare che egli non sia
stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente,
per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del
terreno non abbia
commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario
non committente vada
esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè,
che dagli atti emerga che
lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato
nelle condizioni di impedirne
l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura
indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del
suolo, interesse specifico ad edificare la nuova
costruzione,
rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il
proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo
durante l'effettuazione
dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale
vigilanza sull'esecuzione dei
lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria; il regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva,
di tutte quelle situazioni
e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano
trarsi elementi integrativi
della colpa e prove circa la compartecipazione, anche
morale, all'esecuzione delle
opere, tenendo presente pure la destinazione finale della
stessa.
Inoltre, la valutazione del comproprietario non committente
quale soggetto
responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di
legittimità della Suprema
Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non
contrasta né con la
disciplina in tema di valutazione della prova né con le
massime di esperienza.
---------------
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema
si è stabilmente
assestata nell'affermare che in tema di reati edilizi, ai
fini del disconoscimento del
concorso del proprietario del terreno non committente dei
lavori nel reato previsto
dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere
l'interesse o il suo
consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero
dimostrare che egli non sia
stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così
questa sez. 3, n. 33540 del
19.06.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme
sez. 4 n. 19714 del 03.02.2009, Izzo F., rv. 243961).
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente,
per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del
terreno non abbia
commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario
non committente vada
esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè,
che dagli atti emerga che
lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato
nelle condizioni di impedirne
l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura
indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del
suolo, interesse specifico ad edificare la nuova
costruzione,
rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il
proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo
durante l'effettuazione
dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale
vigilanza sull'esecuzione dei
lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria; il regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva,
di tutte quelle situazioni
e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano
trarsi elementi integrativi
della colpa e prove circa la compartecipazione, anche
morale, all'esecuzione delle
opere, tenendo presente pure la destinazione finale della
stessa (Sez. 3,
27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi;
10.08.2001, n. 31130,
Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536,
Mancuso;
28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo;
15.07.2005, n. 26121,
Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del
21/03/2013,
Rv. 257676; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv. 261522).
Inoltre, la valutazione del comproprietario non committente
quale soggetto
responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di
legittimità della Suprema
Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non
contrasta né con la
disciplina in tema di valutazione della prova né con le
massime di esperienza (sez.
3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, i
giudici del merito -con
motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici-
hanno ricondotto
all'imputata l'attività di edificazione illecita in oggetto
sui rilievi che essa era
"proprietaria esclusiva" del fondo oggetto dei lavori
abusivi, ne aveva la
disponibilità giuridica e di fatto, ed avesse sicuro
interesse all'esecuzione delle
opere.
Essa, inoltre, non ha dimostrato che non avesse avuto
piena conoscenza
dei lavori abusivi e che non fosse stata messa in condizione
di esprimere il suo
dissenso.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui
singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio
non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la
struttura razionale della decisione sia sorretta, come nel
caso in oggetto, da logico e coerente apparato argomentativo
e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la
rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa
ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito
della sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia edilizia, l'estinzione del reato
di costruzione abusiva per
prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera,
indipendentemente da una
espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una
sanzione
amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria
giustificazione nella
accessorietà alla sentenza di condanna.
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi
eseguiti in assenza
di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con
variazioni essenziali- (che
riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo
comma della legge n. 47
del 1985) prevede, infatti, testualmente che "per le opere
abusive di cui al
presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna
per il reato di cui all'art.
44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti
eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio
(non di una pena
accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale),
caratterizzata dalla natura
giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è
attribuita l'applicazione, la cui
catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova
ragione giuridica proprio
nella sua accessività alla "sentenza di condanna".
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come
presupposto
-diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47
del 1985, art. 19 ed
attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2,
per la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati-
la pronuncia di una
sentenza di condanna o ad
essa equiparata e non il mero accertamento della commissione
dell'abuso edilizio,
come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione.
---------------
5. Vanno,
inoltre, eliminati l'ordine di demolizione e la disposta
confisca, alla
stregua delle argomentazioni che seguono.
Con riferimento all'ordine di demolizione, va osservato che
questa Corte ha
affermato che, in materia edilizia, l'estinzione del reato
di costruzione abusiva per
prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera,
indipendentemente da una
espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una
sanzione
amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria
giustificazione nella
accessorietà alla sentenza di condanna
(Sez. 3, n.
10/2/2006, Cirillo, Rv. 233673;
Sez.3, n. 8409 del 30/11/2006, dep. 28/02/2007, Rv. 235952;
Sez. 3, n. 756 del
02/12/2010, dep. 14/01/2011, Rv. 249154; Sez. 3, n. 50441 del
27/10/2015
Rv. 265616).
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi
eseguiti in assenza
di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con
variazioni essenziali- (che
riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo
comma della legge n. 47
del 1985) prevede, infatti, testualmente che "per le opere
abusive di cui al
presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna
per il reato di cui all'art.
44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non
sia stata altrimenti
eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio
(non di una pena
accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale),
caratterizzata dalla natura
giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è
attribuita l'applicazione, la cui
catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova
ragione giuridica proprio
nella sua accessività alla "sentenza di condanna"
(vedi, in
tal senso, Cass., Sez.
Unite, 24.07.1996, ric. Monterisi).
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come
presupposto
-diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47
del 1985, art. 19 ed
attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2,
per la confisca dei
terreni abusivamente lottizzati-
la pronuncia di una
sentenza di condanna o ad
essa equiparata e non il mero accertamento della commissione
dell'abuso edilizio,
come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione
(vedi Cass., Sez. 3
16.02.1998, n. 4100, ric. Maniscalco).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del
reato di costruzione
abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione
impartito con la sentenza
impugnata.
Con riferimento alla confisca, va osservato che questa Corte
ha affermato che
non può essere disposta la confisca dell'area adibita a
discarica abusiva, in caso di
estinzione del reato (nella specie, per prescrizione), né a
norma dell'art. 256,
comma terzo, d.lgs. n. 152 del 2006, né a norma dell'art.
240, comma secondo,
cod. pen.
(Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687; Sez. 3
n. 13741, 22.03.2013, non massimata).
Quanto al primo profilo, va rimarcato che il d.lgs. n. 152
del 2006, art. 256,
comma 3, stabilisce, infatti, che
unicamente alla sentenza di
condanna o alla
sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. consegue la
confisca dell'area sulla
quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà
dell'autore o del
compartecipe al reato.
Il tenore della disposizione richiamata è, quindi,
estremamente chiaro nello
stabilire che
la confisca è applicabile soltanto in caso di
condanna o applicazione
pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., tanto che la
sua perentorietà è stata
indicata tra le ragioni che consentono di escluderne
l'applicabilità con il decreto
penale di condanna
(Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343;
Sez. 3, n. 24659
del 19/03/2009, Rv. 244019).
Quanto al secondo profilo, questa Corte ha affermato che
un'area adibita a
discarica abusiva non rientra certamente tra le ipotesi di
cui all'art. 240, comma
2, cod. pen., sia perché la realizzazione e la gestione di
una discarica, se
debitamente autorizzata, è lecita, sia perché la
disposizione che la prevede
consente la soggezione a confisca obbligatoria solo se
l'area appartenga all'autore
o al compartecipe al reato
(Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687, cit.).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del reato di costruzione
abusiva per prescrizione travolge anche la confisca disposta
con la sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Né
può contestarsi la legittimità della sanzione pecuniaria se
la sua irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole
dalla realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che
il potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi
edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di
prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta
in essere e che le opere abusive non vengono legittimate per
effetto del mero decorso del tempo, in assenza di un
esplicito provvedimento che disponga in tal senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia
dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e
accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi
sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di
tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.
---------------
Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce
della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che l’irrogazione nei
confronti della società Casa di Cura Privata Ma./Vi. dei Pl.
S.p.A. della sanzione contestata è legittima e coerente con
le norme previste in materia edilizia di cui al d.P.R. n.
380/2001.
L’art. 36 dello stesso decreto, infatti, sancisce la
possibilità di ottenere, nel caso di interventi realizzati
in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso,
il permesso in sanatoria, sempre che l’intervento realizzato
sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
sia al tempo della realizzazione dello stesso che della
presentazione della domanda. Per gli interventi non in
regola, per i quali è comunque preclusa la demolizione,
l’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prescrive
l’applicazione di una sanzione pari al doppio del valore
venale della parte dell’opera priva dei necessari titoli
abilitativi edilizi.
Né può contestarsi la legittimità di tale sanzione se la sua
irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole dalla
realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che il
potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi
edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di
prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta
in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sent.
04.05.2012, n. 1592) e che le opere abusive non vengono
legittimate per effetto del mero decorso del tempo, in
assenza di un esplicito provvedimento che disponga in tal
senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia
dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e
accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi
sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di
tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.
Peraltro, nel caso di specie, deve osservarsi che è stata la
stessa ricorrente ad ammettere esplicitamente la non piena
conformità edilizia della struttura sanitaria, anche con
riferimento al terzo piano del fabbricato, avendo richiesto
il rilascio del permesso di costruire in parziale sanatoria
di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 09.06.2016 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione.
DOMANDA:
Si chiede di sapere quali siano i provvedimenti da
intraprendere per sanzionare l'inottemperanza ad una
ordinanza di demolizione a firma del funzionario
responsabile (titolare di posizione organizzativa) dell'area
urbanistica.
RISPOSTA:
L’art. 17 del d.l. 133/2014, al fine di imprimere impulso
alle attività di vigilanza urbanistico-edilizia e alla
semplificazione delle procedure volte alla irrogazione delle
sanzioni ripristinatorie conseguenti all’accertamento di
reati legati all’abusivismo edilizio, ha integrato il comma
4 dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 con ulteriori tre commi,
prevedendo, in particolare, una sanzione amministrativa
pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro
da comminarsi a carico del responsabile dell’abuso che
risulti inadempiente, decorso il termine perentorio di
novanta giorni dall’ingiunzioni stabilito per provvedere
alla demolizione o alla rimessa in pristino dello stato dei
luoghi.
La quantificazione della sanzione, di competenza del
dirigente, trova una compiuta disciplina generale nell’art.
11 della legge n. 689/1981, “Modifiche al sistema penale”,
secondo cui: “Nella determinazione della sanzione
amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite
minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle
sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità
della violazione, all'opera svolta dall'agente per
l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della
violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue
condizioni economiche”.
Tuttavia, nulla vieta, come negli altri casi di sanzioni
amministrative pecuniarie di competenza degli enti locali,
fissate dalla legge tra un limite minimo e un limite
massimo, il consiglio, con atto regolamentare, stabilisca
criteri ai quali il dirigente debba attenersi per la
determinazione della sanzione.
Si ritiene invece che non possa essere modificata la
disposizione prevista dalla norma che stabilisce la misura
massima in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli
edifici di cui al comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. 380/2001,
ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico
elevato o molto elevato.
L’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria non
deve far ritardare, da parte del responsabile, l’adozione
degli altri atti, previsti dalla normativa, tesi al
ripristino della situazione precedente all’abuso:
l’acquisizione dell’area, l’immissione in possesso, la
trascrizione nei registri immobiliari e l’eventuale
demolizione dell’opera acquisita
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può sostenersi che le opere eseguite (da considerare
unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione
della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la
sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere
necessitanti del previo permesso di costruire, perché
comportano una permanente e significativa trasformazione del
territorio.
Invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente
prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in
muratura necessita del permesso di costruire, non essendo
sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una
D.I.A./S.C.I.A..
---------------
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno presentato istanza di
permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta
rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del
silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma
8, del d.P.R. n. 380/2001);
---------------
L’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere,
ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere
con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio,
trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto
distinti.
Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la
P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio
edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e
che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della
compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione
della demolizione irrogata dal Comune per la verificata
mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua
sostituzione con la sanzione pecuniaria.
---------------
Per giurisprudenza consolidata, l’ordinanza di demolizione
rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che
può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione,
ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta
descrizione delle opere abusive, nella constatazione della
loro esecuzione in mancanza del necessario titolo
abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma
applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto
tipico del provvedimento;
Ancora di recente si è precisato che per i provvedimenti di
ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è
necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla
descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione
oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o
della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il
provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera,
essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto
alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la
P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per
il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare
che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli
abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato.
----------------
Richiede un ulteriore approfondimento la questione del
rapporto tra procedimento di rilascio del parere di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia
delle opere eseguite.
Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti,
si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo
paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione
pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse,
prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica
manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione
dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per
l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,
dell’ordinanza del Comune di Fondi n. 31 del 09.03.2015,
notificata il 17.03.2015, recante ingiunzione di demolire
le opere abusive ivi descritte, realizzate in loc. Torre
Canneto;
...
1. I sigg.ri Gi.Ma. e Pa.Lu. espongono
di essere proprietari di un fondo rustico in Fondi, loc.
Torre Canneto, ubicato in zona soggetta a vincolo
paesaggistico, e di aver richiesto al Comune di Fondi il
rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di
una recinzione di detto fondo.
1.1. In data 06.08.2013 il Comune rilasciava il nulla
osta paesaggistico per la realizzazione della recinzione con
muretto e rete soprastante su un solo lato (dalla parte di
via L. Cristini), mentre per gli altri confini veniva
autorizzata la messa in opera di paletti e rete metallica.
1.2. Gli esponenti in data 21.03.2014 comunicavano
all’Amministrazione comunale l’inizio di lavori di
manutenzione ordinaria, costituiti dalla sistemazione del
giardino e dalla realizzazione del muro di cinta con
cancello, e di seguito davano corso ai lavori.
1.3. In particolare, procedevano a realizzare la recinzione
con cordolo in muratura per tutti i lati del lotto, nonché
ad appoggiare sul terreno piastre precompresse da giardino
(senza stabilità alcuna) ed a porre cancelli di entrata.
1.4. Con ordinanza n. 71 del 31.03.2014 la P.A.
ingiungeva l’immediata sospensione dei lavori, cui faceva
poi seguito l’ordinanza n. 31 del 09.03.2015, recante
ingiunzione di demolizione delle opere eseguite (recinzione
in muratura e paletti di ferro del terreno; al suo interno,
pavimentazione in marmette prefabbricate di circa mq. 130,
delimitata con cigli; due tratti di delimitazione dell’area,
con all’interno parziale posa di brecciame), in quanto
abusive.
...
3.3. Va premesso che, come già osservato in sede cautelare, è
indiscutibile la difformità delle opere eseguite rispetto ai
titoli vantati dai ricorrenti: questi, infatti, da un lato
hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 10.01.2013, ma ad oggi siffatto permesso non risulta
rilasciato e, nonostante ciò, le opere sono state ugualmente
realizzate.
Dall’altro, hanno ottenuto dal Comune di Fondi
l’autorizzazione paesaggistica n. 365 del 06.08.2013, che
però riguarda la realizzazione di un cordolo e del muro di
recinzione solo dal lato di via L. Cristini, mentre per gli
altri confini della proprietà consente soltanto la messa in
opera di paletti e rete.
In terzo luogo, hanno presentato il
21.03.2014 comunicazione di inizio lavori di
“manutenzione ordinaria”, ma è evidente che i lavori
effettivamente eseguiti –per come descritti nella stessa
comunicazione (riparazione della corte nel giardino;
sostituzione del mattonato appoggiato senza malta
cementizia, né leganti; realizzazione di muro di cinta con
cancello)– esorbitano dalla manutenzione ordinaria.
3.4. Ciò premesso, le doglianze dedotte dai ricorrenti si
rivelano destituite di fondamento giuridico, per le seguenti
ragioni:
- non può sostenersi che le opere eseguite (da considerare
unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione
della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la
sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere
necessitanti del previo permesso di costruire, perché
comportano una permanente e significativa trasformazione del
territorio;
- ed invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente
prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in
muratura necessita del permesso di costruire, non essendo
sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una
D.I.A./S.C.I.A. (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 25.09.2013, n. 2017; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Lazio, Roma, Sez. II,
11.09.2009, n. 8644);
- nel caso di specie, come detto, i ricorrenti hanno
presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad
oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile
la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto
di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v.
art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
- nessuna censura (di contraddittorietà o altro) può essere
avanzata nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata ai ricorrenti dal Comune di Fondi nel 2013, che
“copre” la costruzione della recinzione in cordolo e
muratura soltanto dal lato di via L. Cristini, non avendo
detta autorizzazione formato oggetto di impugnativa da parte
dei ricorrenti;
- l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere,
ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere
con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio,
trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto
distinti. Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti
che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio
edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e
che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della
compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione
della demolizione irrogata dal Comune per la verificata
mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua
sostituzione con la sanzione pecuniaria;
- per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1100; TAR
Puglia, Bari, Sez. III, 06.06.2013, n. 956; TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302),
l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e
rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata
e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già
solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella
constatazione della loro esecuzione in mancanza del
necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione
della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento;
- ancora di recente si è precisato (C.d.S., Sez. V, 11.07.2014, n. 3568) che per i provvedimenti di ingiunzione
di demolizione di opere edilizie non è necessaria una
specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione
dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva,
la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico sottese alla demolizione, o della
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione
dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il
provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato
con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera,
essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto
alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la
P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per
il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa
Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che
l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi
edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
08.09.2015, n. 603; id., 11.12.2013, n. 963).
4. Richiede un ulteriore approfondimento la questione del
rapporto tra procedimento di rilascio del parere di
compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia
delle opere eseguite. Ciò, in ragione del rilascio da parte
della Regione Lazio, con determinazione n. 400597 del 29.01.2016, del parere positivo circa la compatibilità
delle opere stesse sotto il profilo paesaggistico.
4.1. L’assunto del Collegio poc’anzi illustrato –secondo
cui i due procedimenti in questione sono e devono restare
distinti ed autonomi– trova conferma, anzitutto, nel dato
normativo di riferimento e cioè nello stesso art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004, nonché, in secondo luogo, nella
determinazione della Regione Lazio del 29.01.2016, ora
citata.
4.2. Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004,
infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il
profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una
sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di
esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione
paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude
la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n.
380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto
edilizio.
In questo senso è, poi, decisiva la determinazione
della Regione Lazio n. 400597 del 29.01.2016, la quale,
nell’accertare la compatibilità dal lato paesaggistico delle
opere, al par. 2 del dispositivo recita: “la presente
determinazione è rilasciata ai soli fini paesaggistici. Il
Comune dovrà accertare, nella propria competenza,
l’ammissibilità o meno del progetto in ordine alle vigenti
norme urbanistiche ed edilizie e a vincoli di altra natura,
nonché alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali
e sovra comunali”.
4.3. Alla luce di quanto appena visto, non può perciò
ammettersi una ricaduta del parere favorevole della Regione
(e di quello altrettanto favorevole emesso dalla
Soprintendenza) sulla qualificazione dell’intervento sotto
l’aspetto edilizio: qualificazione che resta rimessa in via
esclusiva alla sfera di attribuzioni del Comune e che, nel
caso di specie, appare corretta e condivisibile, visto che
le opere eseguite non possono certo ritenersi dei semplici
lavori di manutenzione ordinaria rispetto a quanto
autorizzato nel 2013.
Dal punto di vista edilizio, appare
evidente l’abuso commesso dai ricorrenti, i quali hanno
eseguito opere che incidono sull’assetto del territorio,
senza alcun titolo edilizio ed anzi in contrasto con
l’autorizzazione del 2013: il richiamo, nell’ordinanza
impugnata, alla possibilità di chiedere una sanatoria
(evidentemente riferito alla sanatoria ex art. 36 del d.P.R.
n. 380/2001), lungi dal denotare un’ulteriore incongruità
del provvedimento, come lamentato dai ricorrenti, è invece
del tutto coerente con la normativa di settore, poiché
l’ottenimento della sanatoria edilizia ex art. 36 cit.
precluderebbe i successivi sviluppi del procedimento
sanzionatorio, ed in particolare l’acquisizione gratuita.
5. In definitiva, pertanto, il ricorso è nel suo complesso
infondato e da respingere (TAR Lazio-Latina,
sentenza 18.05.2016 n. 317 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di sospensione dei lavori edili in
corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27 comma
3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo
cautelare, in quanto destinato ad evitare che la
prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno
urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere
segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la
caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45
giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun
provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in
questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di
emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di
quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera
giuridica del destinatario con conseguente assorbimento
dell'ordine di sospensione dei lavori.
---------------
Il Collegio deve innanzitutto esaminare le questioni di
inammissibilità/improcedibilità del ricorso per carenza di
interesse in relazione all’ordine di sospensione dei lavori
ed al diniego di autorizzazione alla somministrazione di
alimenti e bevande, rilevate d’ufficio, ai sensi dell’art.
73, comma 3, c.p.a., all’udienza di discussione del
23.03.2016.
In relazione all’ordinanza di sospensione dei lavori n.
07/2012, prot. n. 1345, emessa dal Comune di Caserta in data
21.02.2012, si osserva che la costante giurisprudenza
amministrativa, condivisa dal Collegio, ha sempre
interpretato in termini categorici la disposizione di cui
all'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 pervenendo
al convincimento per cui (ex aliis, cfr. TAR Calabria
Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) “il potere di
sospensione dei lavori edili in corso, attribuito
all'Autorità comunale dall'art. 27 comma 3, D.P.R. n. 380
del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto
destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti
definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre,
nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio,
è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la
lesione della sfera giuridica del destinatario con
conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei
lavori” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014,
n. 3115, TAR Milano, Sez. II, 20.01.2015, n. 218, TAR
Campania, Napoli, VIII, 26.02.2016, n. 1080)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.05.2016 n. 2282
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la
demolizione di un manufatto abusivo, quand’anche sia
trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della
commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela
l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore contra legem.
Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di
tutela alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può
dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un
certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a
notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi
dell’abuso non sanabile.
---------------
L'ordine di demolizione, come i provvedimenti sanzionatori
in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai
legittimare (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che
segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione,
emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e
dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo”).
---------------
L'interesse pubblico alla tutela della disciplina
urbanistica non è negoziabile in ragione di un preteso
affidamento individuale: la presenza di un manufatto abusivo
non esaurisce infatti i suoi effetti, bilateralmente, nella
sfera giuridica del destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda erga omnes l’intera
collettività circostante.
Sicché, quand’anche l’asserito affidamento individuale
davvero sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di
effetti utili al fine superiore dell’esigenza generale di
ripristinare l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano.
---------------
5. Con il secondo motivo gli appellanti deducono la
violazione del principio dell’affidamento perché la
fattispecie riguarda un preteso abuso, risalente
pacificamente a data anteriore al 1967, non eseguito dagli
appellanti e concernente un manufatto accessorio di modeste
dimensioni.
Il motivo non può trovare accoglimento alla luce della
consolidata giurisprudenza, in particolare della recente
pronuncia della Sezione (Cons. Stato, VI, 11.12.2013, n.
5943; 05.01.2015, n. 13) secondo la quale non sussiste
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento
col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto
abusivo, quand’anche sia trascorso un lungo periodo di tempo
tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data
dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché
l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si
concretizza in una volontaria attività del costruttore
contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un
affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso
edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo
abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando
solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti
repressivi dell’abuso non sanabile.
Ed è da ribadire, con la giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V,
11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti
giurisprudenziali aggiuntivi), che l'ordine di demolizione,
come i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare (conf. Cons.
Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere
dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera
dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo” (Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n.
4880).
Più ancora vale rilevare che l'interesse pubblico alla
tutela della disciplina urbanistica non è negoziabile in
ragione di un preteso affidamento individuale: la presenza
di un manufatto abusivo none esaurisce infatti i suoi
effetti, bilateralmente, nella sfera giuridica del
destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda
erga omnes l’intera collettività circostante. Sicché,
quand’anche l’asserito affidamento individuale davvero
sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di effetti utili
al fine superiore dell’esigenza generale di ripristinare
l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano (cfr. Cons.
Stato, VI, 28.01.2013, n. 498; 04.03.2013, n. 1268;
29.01.2015, n. 406)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.05.2016 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA: Il
carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il
decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei
confronti degli abusi stessi, con la conseguenza che in tali
circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo
affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere
abusive.
Da quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare
in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla
sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un lungo
lasso di tempo per l'adozione dei contestati provvedimenti
non risulta una circostanza adeguata al fine di inficiare la
loro legittimità, con la conseguenza che la censura in esame
risulta priva di pregio.
---------------
10. Con l'ottavo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto
l'illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e
falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990,
sotto altro profilo, nonché violazione del principio
dell'affidamento del privato cittadino.
Secondo il ricorrente, infatti, il provvedimento de quo
sarebbe stato adottato dal Comune a distanza di oltre sei
anni dalla presentazione dell'istanza dell’08.06.2007, prot.
n. 10058, concernente il permesso di costruire in sanatoria:
operando in tal modo, quindi, l'Amministrazione comunale
avrebbe violato l'affidamento che si sarebbe ingenerato nel
ricorrente in ragione del decorso di un lungo lasso di tempo
dalla presentazione della succitata istanza.
Anche detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base alla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “il
carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il
decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei
confronti degli abusi stessi...” (Cons. di Stato, Sez.
VI, 18.09.2013, n. 4651), con la conseguenza che in tali
circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo
affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere
abusive (Cons. di Stato, Sez. VI, 20.06.2013, n. 3667): da
quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare in
capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla
sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un
lungo lasso di tempo per l'adozione dei contestati
provvedimenti non risulta una circostanza adeguata al fine
di inficiare la loro legittimità, con la conseguenza che la
censura in esame risulta priva di pregio
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 21.04.2016 n. 962 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio - Criteri per l'identificazione del
committente dei lavori - Assenza di titoli formali -
Disponibilità del bene.
In tema di violazioni edilizie costituenti reato,
il committente deve identificarsi in colui che ha la
materiale disponibilità del bene oggetto dell’intervento
abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere
con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato.
In altri termini, la paternità, esclusiva o in concorso con
altri, dell’opera ben può essere attribuita anche a colui
che, pur in assenza di titoli formali astrattamente
legittimanti un potere decisionale, abbia, anche solo di
fatto, la disponibilità del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una
veste già di per sé implicante la disponibilità formale del
bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l’attribuibilità
al medesimo dei lavori comporta, in capo all’accusa, un
onere probatorio di minore portata perché in qualche modo
coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi
tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia
fornita la prova degli elementi fattuali univocamente
indicativi, in contrasto con l’apparente formale estraneità
del soggetto, della disponibilità di fatto del bene
coinvolto.
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del
coniuge mero comproprietario e non committente, si è
affermato che la responsabilità per l’abuso edilizio può
essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria
della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione
del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda
di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo, dall’interesse specifico ad edificare la
nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra
terzo e proprietario, dalla presenza di quest’ultimo “in
loco” e dallo svolgimento di attività di vigilanza
nell’esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei
coniugi.
---------------
Questa Corte ha in più occasioni affermato che in tema di
violazioni edilizie costituenti reato, il committente
deve identificarsi in colui che ha la materiale
disponibilità del bene oggetto dell'intervento abusivo,
anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo
stesso un rapporto giuridicamente qualificato (Sez. 3, n.
43608 del 15/09/2015, Rosati, Rv. 265159); in altri termini,
la paternità, esclusiva o in concorso con altri, dell'opera
ben può essere attribuita anche a colui che, pur in assenza
di titoli formali astrattamente legittimanti un potere
decisionale, abbia, anche solo di fatto, la disponibilità
del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una
veste già di per sé implicante la disponibilità formale del
bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l'attribuibilità
al medesimo dei lavori comporta, in capo all'accusa, un
onere probatorio di minore portata perché in qualche modo
coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi
tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia
fornita la prova degli elementi fattuali univocamente
indicativi, in contrasto con l'apparente formale estraneità
del soggetto, della disponibilità di fatto del bene
coinvolto (nella fattispecie, del fondo sul quale i
manufatti sono stati edificati).
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del
coniuge mero comproprietario e non committente, si è
affermato che la responsabilità per l'abuso edilizio può
essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria
della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione
del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda
di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la
nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra
terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo "in
loco" e dallo svolgimento di attività di vigilanza
nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei
coniugi (tra le altre, Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014,
Langella e altro, Rv. 261522) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.04.2016 n. 16163). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso edilizio e dolo.
Premesso che il dolo caratterizzante il
reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va
rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da
elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento dell'agente, giacché la
condotta illecita deve essere posta in essere al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
---------------
2. Con un secondo motivo lamenta l'illogicità della
motivazione della sentenza con riferimento all'eccepita
mancanza del dolo intenzionale; segnatamente la sentenza non
ha fatto sul punto alcun riferimento a quanto sollevato con
l'atto di appello.
Aggiunge come da un lato la attività del tecnico comunale al
momento dell'approvazione del progetto sia meramente
cartolare e dall'altro la sentenza abbia trascurato di
considerare le conclusioni della sentenza del Tar che ha
ritenuto assente ogni violazione della normativa urbanistica
da parte dell'imputato. Non è stata raggiunta alcuna prova
circa le pretese scorrette modalità delle verifiche condotte
dall'imputato.
Anche l'affermazione dei benefici economici ricavati
dall'impresa edilizia destinataria del provvedimento sarebbe
erronea posto che anzi è stata applicata la sanzione
prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo:
premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di
ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la
prova dello stesso deve essere ricavata da elementi
ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento dell'agente
(Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280),
giacché la condotta illecita deve essere posta in
essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un
danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto
per sé o per altri
(Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri ed altri, Rv.
258893).
La sentenza si è sul punto limitata a richiamare la "tutt'altro
che trascurabile entità delle violazioni commesse" e "i
rilevanti benefici economici procurati all'impresa edilizia",
tra i quali quelli relativi agli oneri di urbanizzazione,
senza chiarire perché tali aspetti, lungi dall'essere
compatibili con un dolo anche solo generico, dovrebbero
essere univocamente indicativi dello scopo di favorire
l'impresa costruttrice, sui cui eventuali legami o rapporti
con l'imputato nulla è dato sapere.
La sentenza andrebbe dunque annullata con rinvio per nuova
motivazione sul punto; sennonché la prescrizione del reato,
nelle more intervenuta per decorso del termine scaduto in
data 13/09/2014 (anche a volere, come contestato dal
ricorrente, considerare la data di consumazione del
13/03/2007 indicata in imputazione) osta all'annullamento
posto che il conseguente rinvio all'esame del giudice di
merito è incompatibile con l'obbligo di immediata
declaratoria di proscioglimento stabilito dall'art. 129
c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 23260 del 29/04/2015, Gori, Rv.
263668); sicché la sentenza impugnata deve essere, da un
lato, annullata senza rinvio per essere il reato (unico
residuato già all'esito del giudizio di primo grado) estinto
appunto per prescrizione e, dall'altro, quanto alle
statuizioni civili adottate (nella specie la condanna
dell'imputato, confermata in appello, al risarcimento dei
danni in favore della costituita parte civile), annullata
con rinvio ai fini civili al giudice civile competente per
valore in grado d'appello (da ultimo, Sez. 5, n. 594 del
16/11/2011, Perrone, Rv. 252665; Sez. 5, n. 15015 del
23/02/2012, P.G. e p.c. in proc. Genovese, Rv. 252487)
(tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.04.2016 n. 15895). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusivismo con prescrizione limitata.
Edilizia. Per le Sezioni unite, se il Comune
non risponde in 60 giorni il conteggio riparte.
Più difficile la
prescrizione dei reati urbanistici, per la
sentenza 13.04.2016 n. 15427
delle Sezz. unite penali della Corte di Cassazione (tratta
da www.lexambiente.it)).
Concludendo una vicenda di condoni edilizi nati dalla legge
47/1985 (cioè con procedure più volte prorogate fino al 31.12.1993), i giudici hanno cristallizzato due princìpi
sulla prescrizione quinquennale:
-
se si presenta al Comune istanza di accertamento di
conformità (articolo 36, Dpr 380/2001), il processo è
sospeso e quindi il quinquennio non decorre;
-
la prescrizione ricomincia a decorrere se il Comune non si
pronuncia entro 60 giorni.
È quindi inutile che l’imputato o il difensore chiedano al
giudice di mantenere a lungo sospeso il processo, sperando
nel fluire del quinquennio in attesa che l’ente si pronunci.
Per meglio comprendere l’utilità della sentenza, giova
ricordare che la condanna penale è un serio rischio per chi
costruisce abusivamente, sia per le conseguenze
professionali su imprese e tecnici sia perché gli articoli
31 e 44 del Dpr 380 prevedono che il giudice penale ordini
la demolizione delle opere, se non ha già provveduto il
sindaco.
Per frenare le macchine sanzionatorie amministrativa
(comunale) e giudiziaria (penale), gli autori degli abusi
ricorrevano a procedure intricate, chiedendo la sanatoria
(possibile fino a tutto il 1993) o un "accertamento di
conformità” nel caso in cui l’abuso risultasse genericamente
sanabile: in tale situazione, per ragioni che la Cassazione
ha più volte definito “imperscrutabili”, i procedimenti
amministrativi si arenavano e non rispettavano i corretti
tempi di decisione (60 giorni dall’istanza di accertamento).
Così, facendo leva sull’inerzia dei Comuni, gli imputati
ottenevano lunghe sospensioni dei processi, che si
concludevano quando gli enti si pronunciavano
sfavorevolmente.
Ma anche in caso di provvedimento sfavorevole gli imputati
ottenevano vantaggi, perché con poca lealtà, chiedevano
comunque di calcolare a loro favore gli anni passati in
attesa del provvedimento. Tutto ciò rendeva agevole
accumulare i cinque anni entro i quali si consuma il potere
sanzionatorio penale (compreso, quindi, il potere del
giudice di disporre la demolizione). In sostanza, attraverso
labirinti penali ed amministrativi, si generava una
sostanziale impunità.
Con la sentenza di ieri, la prescrizione penale resta di
cinque anni, ma non subisce più interruzioni chieste per
mera strategia processuale: l’imputato potrà far valere,
come periodo valido ai fini del quinquennio, solo i primi 60
giorni dall’istanza di accertamento di conformità. Tutti gli
altri periodi di sospensione del processo, ottenuti con poca
trasparenza, non gli saranno utili ai fini del calcolo e
quindi non danneggeranno il potere d’intervento della
magistratura penale.
Non potendo intervenire sulla durata della prescrizione (una
modifica normativa non potrebbe essere retroattiva), la
Cassazione snellisce quindi il procedimento, restituendo
linearità e tempi definiti ai poteri giudiziari e
all’operato dei Comuni (articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanatoria e prescrizione del reato urbanistico.
Il periodo di sospensione del processo disposto dal giudice
nelle ipotesi di presentazione di istanza per la concessione
in sanatoria, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, deve
essere considerato ai fini del computo dei termini di
prescrizione del reato edilizio, e, in caso di successive
istanze di rinvio del processo dinanzi al giudice penale ed
all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio
della concessione edilizia in sanatoria, si applicano le
disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, par. 3), del
codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze
del privato.
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1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle
Sezioni
Unite sono le seguenti:
- "se la sospensione del processo, prevista nel caso di
presentazione della
istanza di 'accertamento di conformità', ex art. 36 d.P.R.
n. 380 del 2001 (già
art. 13 legge n. 47 del 1985), debba essere considerata ai
fini del computo dei
termini di prescrizione del reato edilizio";
- "se, in caso di sospensione del processo disposta su
richiesta dell'imputato
o del suo difensore oltre il termine previsto per la
formazione del silenzio-rifiuto
ex art. 36 d.P.R. cit., operi la sospensione del corso della
prescrizione a norma
dell'art. 159, primo comma, n. 3, cod. pen.".
2. Occorre preliminarmente richiamare l'attenzione sulle
differenze
intercorrenti tra la disciplina del "condono edilizio", di
cui alle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724, e 24.11.2003,
n. 326
(quest'ultima di conversione, con modificazioni, del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269), e quella della "sanatoria" conseguente ad
accertamento di
conformità, disciplinata dall'art. 36 del Testo Unico
dell'edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), specificamente riguardante la questione
sottoposta all'attenzione
delle Sezioni Unite.
Come è noto, con la legge 28.02.1985, n. 47, si è
individuata, per la
prima volta, una disciplina organica dell'attività edilizia,
sulla quale era in
precedenza intervenuta la legge 28.01.1977, n. 10,
operandosi una
consistente revisione della normativa previgente.
L'entrata in vigore della legge n. 47/1985 venne accompagnata
dalla
previsione del primo condono edilizio, che aveva lo scopo di
dare un netto taglio
al passato, recuperando le opere abusive fino ad allora
realizzate.
Tale scelta legislativa, venne poi replicata, per ragioni di
razionalizzazione
della finanza pubblica, con la legge 23.12.1994, n.
724, e,
successivamente, con la legge 24.11.2003, n. 326, la
quale convertiva,
con modificazioni, il decreto-legge 30.09.2003, n.
269.
La legge n. 724/1994 e la successiva legge n. 326/2003, pur
prevedendo,
per la definizione degli illeciti edilizi presi in
considerazione, requisiti e formalità
differenti, fanno comunque riferimento alle disposizioni di
cui ai capi IV e V della
legge n. 47 del 1985, alle quali hanno anche apportato
modifiche.
3. Come si rileva, dunque, dalla lettura delle menzionate
disposizioni, il condono edilizio si caratterizza per l'efficacia limitata
nel tempo, poiché è
finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi
edilizi realizzati entro un
limite temporale individuato dalla norma.
Il suo effetto estintivo, inoltre, consegue al pagamento di
un'oblazione,
formalizzato attraverso l'attestazione, da parte
dell'autorità comunale, della
congruità di quanto corrisposto a tale titolo.
Esso opera, peraltro, anche con riferimento ad interventi in
contrasto con gli
strumenti urbanistici e produce effetti estintivi anche
verso reati conseguenti alla
violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in
cemento armato.
La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R. n.
380/2001 (e, in
precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47 del 1985)
opera,
al contrario, su un
piano del tutto diverso, in quanto destinata, in via
generale, al recupero degli
interventi abusivi previo accertamento della conformità
degli stessi agli strumenti
urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica
della sussistenza di altri
requisiti di legge specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36, la sanatoria può essere
ottenuta quando
l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli
strumenti urbanistici
generali e di attuazione approvati o non in contrasto con
quelli adottati, tanto al
momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento
della presentazione
della domanda, che può avvenire fino alla scadenza dei
termini di cui agli articoli
31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino
all'irrogazione
delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile
del competente
ufficio comunale deve pronunciarsi -con adeguata
motivazione- entro sessanta
giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende
respinta. L'istanza è
subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di
oblazione, secondo
le modalità descritte nello stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il
rilascio della
sanatoria «estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche
vigenti», con esclusione, quindi, di altri reati
eventualmente concorrenti.
4. Si tratta, dunque, di istituti che hanno finalità ed
ambito di applicazione
del tutto differenti e che non possono essere confusi, come
ha già rilevato la
giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 6331 del
20/12/2007, dep. 2008,
Latteri, Rv. 238822; Sez. 3, n. 10307 del 28/09/1988, Serra, Rv. 179501; Sez. 3,
n. 9797 del 22/06/1987, Scarcella, Rv. 176643),
riconoscendo,
tra l'altro, la
specialità della disciplina del condono edilizio rispetto a
quella della sanatoria
conseguente all'accertamento di conformità (Sez. 3, n. 23996
del 12/5/2011, De
Crescenzo, Rv. 250607).
A conclusioni analoghe è peraltro pervenuta anche la
giurisprudenza
amministrativa, rilevando l'antiteticità dei presupposti dei
due procedimenti di
sanatoria, per il fatto che il condono edilizio concerne il
perdono ex lege per la
realizzazione, senza titolo abilitativo, di un manufatto in
contrasto con le
prescrizioni urbanistiche, comportante una violazione
sostanziale, mentre la sanatoria riguarda l'accertamento postumo della conformità
dell'intervento
edilizio realizzato senza permesso di costruire agli
strumenti urbanistici e
riguarda una violazione formale (così, Cons. Stato, sez. 6,
n. 466 del
02/02/2015).
5. Entrambe le procedure, tuttavia, presuppongono periodi di
sospensione,
diversamente disciplinati, che assumono specifico rilievo
riguardo al computo del
termine massimo di prescrizione del reato.
In particolare, per ciò che concerne il condono edilizio,
sono state
individuate due distinte cause di sospensione del processo.
La prima, prevista dall'art. 44 legge n. 47/1985, definita
"automatica", in
quanto applicabile a tutti i procedimenti in cui risulti
contestato un reato
urbanistico o commessa una violazione di detta normativa,
indipendentemente
dalla presentazione o meno di una domanda di condono e
quantificata in 223
giorni.
Detta quantificazione veniva effettuata dalle Sezioni Unite
(sent. n. 1283 del
03/12/1996, dep. 1997, Sellitto, Rv. 206849), chiamate a
risolvere il contrasto
venutosi a creare in ordine al calcolo dei termini
complessivi di sospensione del
decorso della prescrizione in conseguenza della mancata
conversione di vari
decreti legge, succedutisi nel tempo prima della
approvazione della legge n.
724/1994.
La seconda causa di sospensione, prevista dall'art. 38 della
stessa legge,
indicata come "obbligatoria" -ma subordinata
all'accertamento di determinati
presupposti, quali la presentazione di una domanda di
condono relativa
all'immobile abusivo oggetto del processo realizzato nei
limiti temporali stabiliti
ed il versamento della prima rata di oblazione
autodeterminata- che non può
superare i due anni.
Sull'applicabilità in concreto delle sospensioni previste
dalle disposizioni sul condono edilizio si contrapponevano, tuttavia, opposti
indirizzi giurisprudenziali,
in quanto, secondo un primo orientamento, maggioritario,
tanto la sospensione
"automatica", quanto quella "obbligatoria" erano applicabili
a tutti i procedimenti
riguardanti i reati edilizi indicati agli artt. 38, comma 2,
legge n. 47/1985 e 39,
comma 8, legge n. 724/1994; e ciò indipendentemente dall'epoca
di commissione
degli illeciti (considerato il requisito temporale previsto
per la condonabilità delle
opere) e dall'effettiva sospensione disposta con
provvedimento del giudice.
L'altro indirizzo, invece, escludeva l'applicabilità della
sospensione ai reati la
cui consumazione risultava, sulla base della contestazione e
degli atti del
procedimento, proseguita dopo il 31.12.1993, data
individuata dalla legge
n. 724/1994 quale termine ultimo per il completamento delle
opere, che ne
consentiva la condonabilità.
Le Sezioni Unite (sent. n. 22 del 24/11/1999, Sadini, Rv.
214792), chiamate
a risolvere il contrasto, hanno ritenuto preferibile
quest'ultimo indirizzo
interpretativo, sulla base del dato letterale dell'art. 39,
comma 1, legge n.
724/1994, il quale richiama, tra l'altro, il capo IV della
legge n. 47/1985 -nel
quale sono compresi gli artt. 44 e 38, che riguardano le due
ipotesi di
sospensione dei procedimenti penali e che fanno, a loro
volta, riferimento agli
artt. 35 e 31, concernenti la presentazione della domanda di
condono-
osservando come esso non sembri consentire una
interpretazione diversa da
quella secondo la quale la data del 31.12.1993
costituisce uno dei
presupposti per la condonabilità e per la sospensione dei
procedimenti penali.
Veniva ulteriormente rilevato che l'inesistenza di detto
presupposto
impediva non soltanto il condono delle opere abusive, ma
anche la sospensione
del procedimento penale e ciò indipendentemente dal fatto
che il giudice avesse
disposto o negato la sospensione del procedimento,
dovendosi, nel primo caso,
ritenere la sospensione inesistente per assenza, appunto,
del suo fondamentale
presupposto.
Analoga lettura delle richiamate disposizioni veniva
successivamente offerta
dalla Terza Sezione penale (Sez. 3, n. 21679 del 06/04/2004, Paparusso, Rv.
229319. V. anche Sez. 3, n. 47342 del 15/11/2007,
Maffongelli, Rv. 238619;
nonché Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino, Rv. 236270,
non massimata sul punto), osservandosi che, mentre l'art. 31
legge n. 47/1985, nella sua
formulazione testuale, prevedeva una serie di requisiti
esclusivamente in
relazione alla possibilità di conseguire la concessione o la
autorizzazione in
sanatoria, l'art. 32, comma 25, decreto legge n. 269/2003,
poi convertito dalla
legge n. 326/2003 (come già l'art. 39 legge n. 724/1994),
subordinava
l'applicazione degli interi capi 4 e 5 della legge n.
47/1985 all'esistenza di
determinati requisiti di condonabilità dell'opera.
6. Conseguentemente, l'art. 44 legge n. 47/1985 veniva
ritenuto applicabile
nei soli casi di oggettiva presenza di detti requisiti, in
assenza dei quali era
esclusa anche l'applicabilità dell'art. 39 della legge
medesima (il quale prevede
l'estinzione dei reati conseguente alla mera effettuazione
dell'oblazione, «qualora
le opere non possano conseguire la sanatoria»), osservandosi
che risulterebbe
incongruo argomentare che la sospensione possa essere
comunque finalizzata a
conseguire il beneficio già previsto da tale ultima norma.
Va anche ricordato che, in relazione al difetto dei
requisiti di condonabilità,
la possibilità di sospensione del processo era stata esclusa
in caso di richiesta di
condono presentata per violazioni edilizie relative a nuove
costruzioni non
residenziali, in quanto l'art. 32 legge n. 326/2003 limita
l'applicabilità del condono
edilizio alle sole nuove costruzioni residenziali (Sez. 3,
n. 8067 del 19/01/2007,
Zenti, Rv. 236084; Sez. 3, n. 14436 del 17/02/2004, Longo, Rv. 227959; Sez.
3, n. 3358 del 18/11/2003, dep. 2004, Gentile, Rv. 227178);
in relazione a
interventi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
rientranti tra quelli esclusi
dal condono dall'art. 32, comma 26, lett. a), legge n.
326/2003 (Sez. 3, n. 9670
del 26/01/2011, Rizzo, Rv. 249606; Sez. 3, n. 38113 del
03/10/2006, De Giorgi,
Rv. 235033; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci, Rv.
231315 ed altre
conformi) o, più in generale, in caso di presentazione di
domanda di sanatoria
strumentale o dilatoria e inerente a un fabbricato non
ultimato entro il termine
stabilito (Sez. 3, n. 5452 del 17/03/1999, Somma G, Rv.
213369).
La
sospensione è stata inoltre esclusa anche con riferimento al
c.d. "condono
paesaggistico" di cui all'art. 37 legge n. 308/2004,
mancando una espressa
previsione normativa ed in assenza di qualsivoglia
correlazione con le
disposizioni in tema di condono edilizio (Sez. 3, n. 16471
del 17/02/2010,
Giardina, Rv. 246759, non rnassimata sul punto; Sez. 3, n.
32529 del
19/04/2006, Martella, Rv. 234934).
Si è chiarito, inoltre, che la sospensione riguarda soltanto
la fase del giudizio
e non anche quella delle indagini preliminari (Sez. 3, n.
48986 del 09/11/2004,
Cerasoli, Rv. 230475).
In altre decisioni si è poi affermato che l'omessa
sospensione del
procedimento da parte del giudice non può essere dedotta
quale vizio della
decisione eventualmente presa, non determinandosi alcuna
nullità, stante
l'assenza di una previsione di legge in tal senso (Sez. 3,
n. 19235 del
15/02/2005, Benzo, Rv. 231848; Sez. 3, n. 7847 del
27/05/1998, Todesco, Rv.
211354; Sez. 3, n. 11422 del 29/09/1997, Onolfo, Rv. 210101
ed altre
conformi), osservandosi, tra l'altro, che la sospensione del
processo opera
indipendentemente dalla pronuncia del giudice, avente natura
meramente
dichiarativa, purché sussistano i presupposti di legge e può
essere accertata
anche in sede di giudizio finale (Sez. 3, n. 3871 del
22/10/2010, dep. 2011, Pisa,
Rv. 249151, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 22921 del
06/04/2006,
Guercio, Rv. 234475; Sez. 3, n. 6054 del 12/03/1999,
Bartaloni, Rv. 213763 ed
altre conformi)
Inoltre, qualora applicata, la sospensione deve riguardare
l'intero
procedimento quando il giudice di merito, riconoscendo il
vincolo della
continuazione, abbia proceduto unitariamente per varie
ipotesi di reato, delle
quali alcune soltanto siano divenute estinguibili a seguito
di condono (v. per
tutte Sez. U, n. 9080 del 09/06/1995, Luongo, Rv. 201861).
La possibilità di sospendere il procedimento a seguito della
presentazione
della domanda di condono edilizio (nella specie, ai sensi
della legge n. 326/2003) è
stata anche esclusa in caso di inammissibilità del ricorso
per cassazione per
manifesta infondatezza dei motivi, sul presupposto che la
sospensione deve
essere disposta con riferimento ai procedimenti in corso,
mentre, impedendo
l'inammissibilità del ricorso la formazione di un valido
rapporto di impugnazione,
non può ritenersi che tale condizione si sia verificata
(Sez. 3, n. 35084 del
25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, non massimata sul punto;
Sez. 3, n. 9536 del
20/01/2004, Mancuso, Rv. 227404; Sez. 3, n. 979 del
27/11/2003, dep. 2004,
Nappo, Rv. 227950; Sez. 3, n. 5309 del 13/11/2003, dep.2004, Sciaccovelli, Rv.
227556).
7. Alla luce di quanto affermato dalla sentenza Sadini delle
Sezioni Unite, si
è ricavato -considerando la formulazione "speculare"
dell'art. 32, comma 25,
d.l. n. 269/2003 rispetto all'art. 39 legge n. 724/1994,
preso in esame nella
menzionata decisione- un ulteriore principio generale,
secondo il quale il
giudice, già prima di sospendere il processo in forza
dell'art. 44 legge n.
47/1985, deve effettuare un controllo in ordine alla
sussistenza dei requisiti
richiesti per la concedibilità in astratto del condono,
perché, diversamente
opinandosi, si allungherebbero «inevitabilmente ed
inutilmente i tempi del
processo» e, nel caso in cui il giudice sospenda il processo
in assenza dei presupposti di legge, la sospensione deve
ritenersi inesistente (Sez. 3, n. 9670
del 26/01/2011, Rizzo, cit.; Sez. 3, n. 563 del 17/11/2005,
dep. 2006, Martinico,
Rv. 233011; Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv.
229652, cit.; Sez. 3,
n. 3350 del 13/11/2003, dep. 2004, Lasí, Rv. 227217).
L'ambito del controllo relativo alle condizioni legittimanti
l'accesso alla
procedura di sanatoria riguarda, secondo altra pronuncia, la
data di esecuzione
delle opere; lo stato di ultimazione delle stesse secondo la
nozione fornita
dall'art. 31 della legge n. 47/1985; il rispetto dei limiti
volumetrici; eventuali
esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla
sanatoria, nonché la
tempestività della presentazione, da parte di soggetti
legittimati, di una
domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate
nel capo di
imputazione (Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Termíniello,
Rv. 237824; Sez. 3,
n. 28517 del 29/05/2007, Marzano, Rv. 237140, non massímata
sul punto).
Il successivo accertamento dell'inesistenza dei presupposti
per l'applicazione
del condono, tuttavia, non determina inevitabilmente
l'inesistenza della
sospensione, perché, a tal fine, deve ovviamente prendersi
in considerazione la
situazione prospettatasi al giudice nel momento in cui ha
pronunciato la relativa
ordinanza.
Sempre tenendo conto di quanto affermato nella sentenza
Sadíní, si è del
tutto correttamente rilevato come, in tale pronuncia, venga
affermato che, in
tema di condono edilizio, le cause di sospensione del
processo penale sono
soltanto quelle previste dalla legge, che richiedono
determinati presupposti, in
difetto dei quali la sospensione eventualmente disposta non
può produrre
risultati efficaci.
Ciò implica, tuttavia, che l'inesistenza di una valida causa
di sospensione
risulti dagli atti processuali o dalla stessa contestazione
del reato e sia,
conseguentemente, immediatamente rilevabile dal giudice,
perché, altrimenti, il
successivo accertamento della inesistenza dei requisiti per
l'applicazione della
causa estintiva della contravvenzione non farebbe venir meno
la correttezza
dell'iniziale ordinanza sospensiva (e, quindi, gli effetti
ad essa connessi, della
conseguente sospensione della prescrizione), avendo il
giudice proceduto nella
esatta osservanza di quanto previsto dalla legge (Sez. 3, n.
8536 del
18/05/2000, Zarbo, Rv. 217754; conf. Sez. 3, n. 29253 del
24/06/2005, Di
Maio, Rv. 231951).
È di tutta evidenza che le argomentazioni sviluppate nelle
richiamate
decisioni assumono particolare rilievo per ciò che concerne
il computo dei termini
di prescrizione, sulla decorrenza dei quali incide, in
maniera significativa, la
sospensione del procedimento.
8. Per ciò che riguarda, invece, il diverso istituto della
sanatoria
conseguente ad accertamento di conformità, va osservato come
il già
menzionato art. 45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisca, al comma 1,
che l'azione penale
relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non
siano stati esauriti i
procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta
di sanatoria il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
deve pronunciarsi
entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda,
poiché, decorso tale
termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato
orientamento, una
ipotesi di silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 17954 del
26/02/2008, Termini, Rv. 240234;
Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez.
3, n. 16706 del
18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3, n. 10640 del
30/01/2003, Petrillo, Rv.
224353), al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di
diniego.
Pur verificandosi tale evenienza, tuttavia,
l'Amministrazione non perde il
potere di provvedere, in quanto il silenzio-rigetto è
esplicitamente previsto al
solo fine di consentire all'interessato di adire il giudice
(ex plurimis Sez. 3, n.
17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240233. V. anche Sez. 3,
n. 11604 del
11/11/1993, Schiavazzi, Rv. 196069; Sez. 3, n. 16245 del
10/10/1989, Allegrini,
Rv. 182627), sebbene l'eventuale instaurazione di un
procedimento
amministrativo avviato mediante ricorso avverso il diniego
di sanatoria non
comporti alcuna estensione della durata della sospensione
fino alla sua
definizione (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, Rv.
265085; Sez. 3, n.
24245 del 24/03/2010, Chiarello, Rv. 247692; Sez. 3, n.
48523 del 18/11/2009,
Righetti, Rv. 245418, non massimata sul punto; Sez. 6, n.
4614 del 13/01/1994,
Cammariere, Rv. 197767; Sez. 3, n. 12779 del 02/12/1991,
Leggio, Rv.
188743), come rilevato anche dalla Corte costituzionale nel
dichiarare la
manifesta infondatezza della questione di legittimità
dell'art. 22, primo comma,
della legge 28.02.1985, n. 47 (ord. n. 247 del 2000,
la quale richiama
anche la sentenza n. 85 del 1998 e l'ordinanza n. 309 del
1998).
Il provvedimento con il quale il giudice dispone la
sospensione richiede,
peraltro, il previo accertamento della effettiva sussistenza
dei presupposti
necessari per il conseguimento della sanatoria e, inoltre,
la mancata sospensione
-in assenza di espressa previsione normativa e non
configurandosi pregiudizi al
diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere
l'esistenza o la
sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di
giudizio- non
determina alcuna nullità (Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005,
Pescara, cit.).
La sospensione, inoltre, non opera con riferimento ai reati
esclusi dagli
effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione
in sanatoria,
diversamente da quanto previsto in materia di condono (Sez.
3, n. 50 del
07/11/1997, dep. 1998, Casà, Rv. 209662).
9. Il richiamo, effettuato espressamente dall'art. 45 d.P.R.
n. 380/2001 all'art.
36 dello stesso decreto, il quale prevede, all'ultimo comma,
il termine di
sessanta giorni entro il quale il dirigente o il
responsabile del competente ufficio
comunale deve pronunciarsi sulla domanda di sanatoria,
limita -evidentemente- la durata della sospensione a tale determinato lasso
temporale. In tal senso si
è, peraltro, più volte espressa anche la Corte
costituzionale (ordd. nn. 304 e 201
del 1990; n. 423 del 1989).
Sebbene in precedenza (Sez. U, n. 10849 del 01/10/1991,
Mapelli, Rv.
188579) si sia affermato che, in mancanza di impugnazione,
la sospensione del
procedimento, ai sensi dell'allora vigente art. 22 legge n.
47/1985, anche se
disposta fuori dei limiti consentiti, produce i suoi effetti
propri, tra cui la
sospensione del corso della prescrizione, in una successiva
pronuncia delle
Sezioni Unite (n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv.
190245), si è osservato
come la sospensione dipenda direttamente dalla richiesta del
titolo abilitativo in
sanatoria e la sua durata corrisponda al tempo stabilito
dalla legge per la
definizione del procedimento, cioè per sessanta giorni dalla
richiesta, con la
conseguenza che il provvedimento del giudice, avente natura
meramente
dichiarativa, non può svolgere alcun ruolo preclusivo,
cosicché non potrà
assumere rilievo una sospensione disposta in mancanza delle
condizioni stabilite,
né un periodo di sospensione superiore a quello fissato
dalla legge.
A tali principi si sono adeguate successive pronunce, le
quali hanno
considerato limitato il periodo di sospensione a soli
sessanta giorni (Sez. 3, n.
16706 del 18/02/2004, Brilla, cit.; Sez. 3, n. 10640 del
30/01/2003, Petrillo, Rv.
224353; Sez. 3, n. 2220 del 26/01/1999, Sasso, Rv. 212717),
evidenziando
anche la preclusione, per il giudice penale, a sindacare la
legittimità del
provvedimento della competente autorità amministrativa di
diniego di rilascio del
permesso di costruire in sanatoria (Sez. 3, n. 36902 del
13/05/2015, Milito, cit.;
Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, cit.).
10. Anche riguardo alla disciplina della sanatoria per
accertamento di
conformità, come già osservato con riferimento al condono
edilizio, la prevista
sospensione assume rilievo determinante ai fini del calcolo
dei termini di
prescrizione del reato e proprio con riferimento ad essa è
stato rilevato il
contrasto che ha portato alla rimessione della questione
alle Sezioni Unite.
Si è infatti ritenuta, in una prima pronuncia (Sez. F, n.
34938 del
09/08/2013 Bombaci, Rv. 256714), l'illegittimità
dell'ordinanza di sospensione
dei termini di prescrizione per un tempo superiore alla
durata della procedura
amministrativa per la definizione della sanatoria e
conseguente al differimento
del procedimento penale, disposto su richiesta della difesa
proprio in ragione
della pendenza della procedura medesima.
La sospensione è stata infatti considerata in contrasto con
il disposto degli
artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, con il
limite temporale massimo
di sessanta giorni fissato dalla legge per la definizione
del procedimento
finalizzato al rilascio del titolo abilitativo sanante,
trascorso il quale la domanda
si intende respinta.
A tale indirizzo interpretativo si è successivamente
contrapposta altra
decisione (Sez. 3, n. 41349 del 28/05/2014, Zappalorti, Rv.
260753), nella
quale, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della
difesa e giustificato
dalla pendenza del procedimento amministrativo,
successivamente non
perfezionatosi, di sanatoria edilizia di un immobile
abusivo, l'operatività della
sospensione ai fini del computo dei termini di prescrizione
è stata estesa per
l'intera durata del differimento.
Dichiarando di non condividere il diverso orientamento
espresso dalla
menzionata sentenza Bombaci, la Terza Sezione ricorda come
le Sezioni Unite
(n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509),
sostanzialmente
anticipando quanto poi espressamente stabilito dal
legislatore con le modifiche
apportate, nel 2005, all'art. 159 cod. pen., abbiano
affermato che «oggi il
processo vive prevalentemente delle iniziative non solo
istruttorie delle parti
anche private, che hanno il potere di contribuire
autonomamente a determinare
tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le
parti non hanno più solo
poteri limitativi dell'autorità del giudice, ma condividono
con il giudice la
responsabilità dell'andamento del processo. E debbono
assumersi
conseguentemente gli oneri connessi all'esercizio dei loro
poteri».
La sentenza Zappalorti
ritiene, dunque, del tutto incongrua
un'interpretazione della norma «che consenta alla stessa
parte che ha chiesto ed
ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei
presupposti legittimanti, di
lamentare la correlata considerazione della sospensione
della prescrizione
proprio da tale rinvio derivante» (analoghe considerazioni
erano state svolte, in
precedenza, in Sez. 3, n. 26409 del 08/05/2013, C., Rv.
255579), pur
distinguendo le diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato
invece disposto per
impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza
di sanatoria e oltre
il sessantesimo giorno dall'avvio del relativo procedimento
amministrativo, sia disposto d'ufficio dal giudice, in
mancanza di richiesta di parte, riconoscendo, in
tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli
sessanta giorni.
11. Tale ultimo indirizzo interpretativo risulta pienamente
condivisibile.
Invero, la sentenza Bombaci, pur partendo da un presupposto
corretto e,
cioè, che la sospensione ex lege del procedimento, in
pendenza della domanda di
sanatoria, è limitato, come si è precisato in precedenza, a
soli sessanta giorni,
giunge a conclusioni errate laddove sembra fondare la
riconosciuta illegittimità
del differimento oltre il sessantesimo giorno sul
presupposto che la decorrenza di
detto termine comporti il silenzio-rigetto, considerando
quindi ogni ulteriore
rinvio (e la conseguente sospensione dei termini di
prescrizione), anche se
espressamente richiesto al giudice, come ingiustificato.
Una simile affermazione non tiene conto del fatto che,
nonostante il decorso
del termine ed il significativo silenzio
dell'amministrazione competente, questa
non perde il potere di rilasciare comunque, in presenza dei
presupposti di legge,
il permesso di costruire in sanatoria, cosicché una
eventuale richiesta di rinvio in
previsione dell'accoglimento della domanda già presentata
risulterebbe
pienamente giustificato, considerato, peraltro, i
vantaggiosi effetti per l'imputato
che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.
Al contrario, del tutto irragionevoli risulterebbero le
conseguenze di una
diversa lettura delle disposizioni richiamate che
considerino non superabile, in
ogni caso, il termine di sospensione di sessanta giorni.
Invero, detto termine di definizione del procedimento
amministrativo di
sanatoria non viene, in pratica, quasi mai rispettato per
diverse ragioni, e gli
effetti, decisamente negativi per il richiedente,
conseguenti al fatto che dopo il
decorso del temine la domanda si intende rifiutata, sono
sostanzialmente
compensati dalla più volte ricordata possibilità, per
l'amministrazione
competente, di rilasciare comunque la sanatoria anche oltre
il sessantesimo
giorno dalla presentazione della richiesta.
Ebbene, accedendo all'orientamento secondo il quale ogni
ulteriore
sospensione del procedimento, comunque disposta, sarebbe
illegittima, si
verrebbe a configurare una singolare situazione, nella
quale, al fine di evitare il
decorso dei termini di prescrizione, il giudice si vedrebbe
costretto a proseguire
comunque nella trattazione del processo, anche in presenza
di una espressa
richiesta in tale senso della parte.
Ciò detto, va chiarito che devono comunque tenersi distinte
l'ipotesi della
sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e
45 d.P.R. n. 380/2001
e quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza
di parte.
Nel primo caso, infatti, vanno applicati i principi,
richiamati in precedenza e
sviluppati con riferimento tanto alla disciplina del condono
che a quella sulla
sanatoria per accertamento di conformità, i quali
presuppongono, ai fini della
legittimità della sospensione, la previa verifica, da parte
del giudice, della
oggettiva sussistenza dei presupposti di legge.
L'analisi effettuata dalla giurisprudenza è stata
particolarmente
approfondita, come si è visto, riguardo alla più ampia
casistica sviluppatasi in
relazione al condono, sebbene conclusioni non dissimili
siano state tratte anche
con riferimento alla sanatoria per accertamento di
conformità.
Ne consegue che, a fronte di una situazione, risultante
chiaramente dagli
atti o dall'imputazione, che evidenzi, pacificamente e senza
necessità di specifici
accertamenti, l'assenza dei requisiti per l'accoglimento
della domanda, come, ad
esempio, in caso di plateale contrasto delle opere con le
previsioni degli
strumenti urbanistici, la sospensione, per il periodo di
sessanta giorni indicato
dalla legge per la definizione del procedimento
amministrativo (o per quello,
superiore, eventualmente indicato nel provvedimento che la
dispone), non potrà
operare e, se disposta comunque dal giudice, autonomamente e
senza richiesta
di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei
termini di prescrizione.
Per contro, avranno in ogni caso effetti sospensivi del
corso della
sospensione i rinvii disposti in accoglimento di una
richiesta dell'imputato o del
suo difensore, dovendosi al riguardo condividere le
osservazioni svolte dalla
citata sentenza Zappalorti.
Ricorda infatti tale pronuncia che la giurisprudenza
formatasi in tema teneva
necessariamente conto di quanto stabilito dall'art. 159 cod. pen. prima degli
interventi modificativi ad opera della legge 05.12.2005, n. 251 («Il corso
della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione
a procedere o di
questione deferita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui
la sospensione del
procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è
imposta da una
particolare disposizione di legge»), la quale, con l'art. 6,
ne ha sostituito il testo
che, come è noto, stabilisce ora, al primo comma, n. 3, che
il corso della
prescrizione rimane, tra l'altro, sospeso in caso di
sospensione del procedimento
o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti
e dei difensori,
ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore,
disponendo che, nella
prima ipotesi, l'udienza non può essere differita oltre il
sessantesimo giorno
successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento,
dovendosi avere
riguardo, in caso contrario, al tempo dell'impedimento
aumentato di sessanta
giorni.
La disposizione è stata sempre interpretata nel senso che il
rinvio
dell'udienza, accordato su richiesta del difensore,
determina la sospensione dei termini di prescrizione del
reato, ritenendosi, peraltro, manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 159
cod. pen., sollevata per
contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non indica
il termine massimo di
sospensione della prescrizione conseguente alla richiesta
della difesa
dell'imputato di un differimento dell'udienza, osservandosi
che la previsione di
rinvii del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata
al soddisfacimento di
esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento
e tiene conto della
libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, sicché è
stato ritenuto logico, in
tal caso, contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario
derivante dal
soddisfacimento di esigenze di parte, rimettendo alla sua
determinazione la
durata del rinvio in modo da tener conto delle esigenze
dell'ufficio medesimo
(Sez. 3, n. 45968 del 27/10/2011, Diso, Rv. 251629).
Si è inoltre osservato (Sez. 3, n. 29885 del 15/04/2015, Vuolo, Rv 264433)
come, in tali casi, la durata del differimento sia
discrezionalmente determinata
dal giudice in considerazione delle esigenze organizzative
dell'ufficio giudiziario,
dei diritti e delle facoltà delle parti coinvolte nel
processo, nonché dei principi
costituzionali di ragionevole durata del processo e di
efficienza della
giurisdizione, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite
(n. 4909 del
18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262914) con riferimento
a tutti i casi in cui
il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio
della udienza, pur in
mancanza delle condizioni che integrano un legittimo
impedimento per
concorrente impegno professionale del difensore.
12. In caso di rinvio su richiesta dell'imputato o del suo
difensore, dunque,
ai fini della sospensione dei termini di prescrizione
operano i principi generali
stabiliti dal codice di rito, i quali, peraltro, avranno
effetto, a differenza di quanto
avviene con riguardo alla sospensione prevista dal combinato
disposto degli artt.
36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, anche con riferimento ai reati
eventualmente
concorrenti con la contravvenzione di cui all'art. 44 del
medesimo decreto.
13. Ne consegue che ai quesiti posti in apertura della
presente parte motiva,
al § 1, deve rispondersi affermativamente.
...
15. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con
riferimento al
secondo e al terzo motivo di ricorso, perché le opere, come
descritte nel capo di
imputazione, necessitavano, per essere eseguite, del
preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Si tratta di un intervento edilizio che deve essere
unitariamente considerato,
diversamente da quanto affermato in ricorso, ove viene
effettuata la disamina
delle singole opere al fine di sostenere la soggezione delle
stesse ad un diverso
regime autorizzatorio, ponendosi così in contrasto con il
principio, ripetutamente
affermato, secondo il quale il regime dei titoli abilitativi
edilizi non può essere
eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria
finale nelle singole opere
che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di
forme di controllo
preventivo più limitate per la loro più modesta incisività
sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel
suo complesso, senza
che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli
componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su
preesistente opera abusiva
(Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473; Sez.
3, n. 15442 del
26/11/2014, dep. 2015, Prevosto, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618
del 17/11/2011,
dep.2012, Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010,
Tulipani, non
massimata, ed altre conformi).
Corretta risulta pertanto la soluzione adottata dalla Corte
territoriale, la
quale ha puntualmente analizzato la natura e consistenza
dell'intervento
realizzato, qualificando correttamente la condotta oggetto
di contestazione, con
motivazione adeguata, del tutto immune da salti logici o
manifeste contraddizioni, che il ricorso denuncia senza
ulteriori specificazioni, evidenziando,
così, un'assoluta genericità (Corte
di Cassazione, Sezz. Unite penali,
sentenza 13.04.2016 n. 15427 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione e autorizzazione a lottizzare postuma.
L'eventuale autorizzazione a lottizzare,
concessa "in sanatoria", non estingue il reato di
lottizzazione abusiva, non essendo espressamente prevista
dalla legge come causa estintiva di tale reato.
Qualora essa intervenga il giudice non può, tuttavia,
disporre la confisca, perché l'autorità amministrativa
competente, riconoscendo ex post la conformità della
lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti
sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno
lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando
implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del
Comune.
Allo stesso modo la successiva approvazione di un piano di
recupero urbanistico non può configurare un'ipotesi di
sanatoria della lottizzazione.
---------------
1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata
denunciata
violazione di legge in relazione agli artt. 36, 44 e 45 d.P.R. 380/2001 e 2
l.
241/1990, per l'omessa sospensione del processo nonostante
l'approvazione da
parte del Comune di Genova di un aggiornamento del Piano
Urbanistico
Comunale e di una convenzione urbanistica con la società
proprietaria del
fabbricato, in attuazione della quale è in corso il rilascio
del titolo di
legittimazione delle opere che ne consentirebbe il
mantenimento (rilasciato
successivamente al deposito del ricorso e di cui è stato
dato atto con i motivi
aggiunti), giova ricordare che l'eventuale autorizzazione a
lottizzare, concessa
"in sanatoria", non estingue il reato di lottizzazione
abusiva, non essendo espressamente prevista dalla legge come
causa estintiva di tale reato (Sez. 3, n.
23154 del 18/05/2006, Scalici, Rv. 234476; conf. Sez. 3, n.
4373 del
13/12/2013, Franco, Rv. 258921; Sez. 3, n. 43591 del
18/02/2015, Di Stefano,
Rv. 265153).
Qualora essa intervenga (ma ciò è oggetto degli
ulteriori rilievi
formulati dai ricorrenti con il quarto motivo e con i motivi
aggiunti a proposito
della confisca) il giudice non può, tuttavia, disporre la
confisca, perché l'autorità
amministrativa competente, riconoscendo ex post la
conformità della
lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti
sul territorio, ha inteso
evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla
disponibilità dei proprietari,
rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio
indisponibile del Comune.
Allo stesso modo -secondo la giurisprudenza di questa Corte-
la successiva
approvazione di un piano di recupero urbanistico non può
configurare un'ipotesi
di sanatoria della lottizzazione (vedi Cass., Sez. 3,
05.12.2001, Venuti).
Ne consegue, sotto il profilo della incidenza sulla
sussistenza della
lottizzazione abusiva, l'irrilevanza dell'aggiornamento del
Piano Urbanistico
Comunale e della stipula della convenzione urbanistica tra
il Comune e la
proprietaria dell'edificio, inidonei, per le ragioni
anzidette, anche nella ipotesi di
rilascio di valido e legittimo titolo di legittimazione
delle opere, ad estinguere il
reato di lottizzazione abusiva, con la conseguente
insussistenza di ragioni di
sorta per disporre la sospensione del processo in attesa del
rilascio di permesso
di costruire in sanatoria.
2. Soccorrono le medesime considerazioni in ordine al
secondo motivo di
ricorso, mediante il quale è stata denunciata violazione di
legge in relazione
all'art. 30 d.P.R. 380/2001, per l'omessa considerazione da
parte della Corte
d'appello del complesso iter amministrativo relativo alla
pianificazione urbanistica
dell'area nella quale si trova il fabbricato oggetto della
lottizzazione abusiva
contestata ai ricorrenti.
Costoro, infatti, in considerazione della innovazione dello
strumento
urbanistico direttivo nell'anno 2000, con la esclusione
della destinazione
direzionale dell'area nella quale si trova il fabbricato
oggetto dell'intervento
edilizio e la previsione quale destinazione caratterizzante
di tale area di quella
residenziale (con la conseguente richiesta da parte della
società proprietaria del
fabbricato di un nuovo titolo autorizzativo per conformarsi
a tale destinazione, in
ordine alla quale il Comune di Genova non si era determinato
nonostante il
decorso del termine di cui all'art. 2 l. 241/1990), hanno
prospettato l'insussistenza
della contestata lottizzazione abusiva, per essere stato
realizzato il manufatto
solamente nella sua struttura essenziale e con la sola
prefigurazione in vista del
suo adeguamento, anche sotto il profilo concessorio, alle
nuove destinazioni
residenziali previste dal Piano Urbanistico Comunale
vigente.
Risulta, tuttavia, assorbente, il dato, già evidenziato,
della radicale
difformità tra la concessione edilizia rilasciata alla
proprietaria, la S.r.l. Ba.
San Giuliano, dal Comune di Genova, n. 550 del 03/12/1991,
che prevedeva la
realizzazione di un fabbricato a destinazione direzionale di
quattro piani
(compreso il piano autorimessa seminterrato) su un'area
della superficie di 926
metri quadrati, con altezza di metri 15,15 e volume totale
di metri cubi 8492, e
quanto effettivamente realizzato dagli imputati, e cioè una
modifica di
destinazione d'uso del fabbricato e varianti in corso
d'opera mai assentite (tra
cui: la realizzazione del fabbricato ad una quota d'imposta
inferiore di circa m.
2,60; il frazionamento dell'edificio in undici unità
immobiliari; il rimodellamento
della sagoma dell'edificio con riduzione della superficie
lorda da mq. 2392 a mq.
1927 e la contestuale variazione dei prospetti; la
realizzazione di una rampa
elicoidale per l'accesso alla rimessa al piano seminterrato;
la diversa
realizzazione delle sistemazioni esterne circostanti il
fabbricato con inserimento
di due piscine; la realizzazione di un locale fuori terra in
calcestruzzo armato
della superficie di 10 mq.; la mancata realizzazione del
parcheggio pubblico
previsto quale opera in convenzione; la trasformazione della
pista provvisionale
di accesso al cantiere in viale carrabile posto a servizio
del fabbricato): una così
rilevante discrepanza determina la verificazione di una
lottizzazione abusiva, per
la totale difformità di quanto realizzato rispetto al piano
di lottizzazione,
irrilevante rimanendo, alla stregua dei principi ricordati,
l'eventuale
autorizzazione a lottizzare emessa successivamente, così
come l'approvazione di
un nuovo piano urbanistico-comunale, cui le opere abusive
sarebbero
astrattamente conformi, giacché ciò non determina comunque
una sanatoria
della lottizzazione abusiva o l'estinzione del reato, che
non sono contemplate
dall'art. 30 d.P.R. 380/2001.
Manifestamente infondato risulta poi il profilo della
censura fondato sul
rilievo che non sarebbe qualificabile come lottizzazione
abusiva l'intervento
edilizio realizzato dagli imputati, in quanto avente ad
oggetto un fabbricato e non
un terreno, giacché ricorre il reato di lottizzazione
abusiva fisica o materiale
quando l'intervento, per le sue dimensioni o
caratteristiche, sia idoneo a
pregiudicare la riserva pubblica di programmazione
territoriale (Sez. 3, n. 9446
del 21/01/2010, Lorefice, Rv. 246340), consista esso nella
realizzazione di un
nuovo fabbricato o nella suddivisione in lotti di un terreno
in vista della
realizzazione di nuove costruzioni, e tale idoneità a
pregiudicare la
programmazione territoriale di quanto realizzato dagli
imputati non è in alcun
modo stato oggetto di censura.
3. Per le medesime considerazioni risulta manifestamente
infondato anche il
terzo motivo di ricorso, mediante il quale è stata
prospettata errata applicazione degli artt. 30 e 44 d.P.R.
380/2001, per la ritenuta sussistenza dell'elemento
soggettivo del reato di lottizzazione abusiva in capo a
tutti gli imputati
nonostante l'incertezza della situazione in ordine alla
validità del piano di
lottizzazione a causa della sua sopravvenuta incompatibilità
con gli strumenti
urbanistici.
Va ricordato che è stato chiarito, quanto all'elemento
soggettivo del reato di
lottizzazione abusiva, che "non è ravvisabile alcuna
eccezione al principio
generale stabilito per le contravvenzioni dall'art. 42, 4°
comma, cod. pen.,
restando ovviamente esclusi i casi di errore scusabile sulle
norme integratici del
precetto penale e quelli in cui possa trovare applicazione
l'art. 5 cod. pen.
secondo l'interpretazione fornita dalla pronuncia n.
364/1988 della Corte
Costituzionale. Conseguentemente va ammessa anche la
cooperazione colposa
nella realizzazione del reato e diviene irrilevante
l'eventuale eterogeneità
dell'elemento soggettivo accertato in capo ai diversi
concorrenti" (così Sez. 3, n.
36940 del 11/05/2005, Stiffi, Rv. 232189; conf. Sez. 3, n.
38799 del
16/09/2015, De Paola, Rv. 264718).
Ora, nella vicenda in esame, i ricorrenti hanno intrapreso
sulla base del
piano di lottizzazione e della concessione edilizia del
1991, che contemplavano la
realizzazione di un fabbricato indiviso con destinazione
direzionale articolato su
quattro piani, una ristrutturazione con mutamento della
destinazione,
realizzando anche tutte le anzidette varianti in corso
d'opera mai assentite, in
assenza di risposta da parte del Comune di Genova circa la
variante riduttiva
della suddetta concessione edilizia ed in difformità
dall'originario piano di
lottizzazione e dalla concessione edilizia ottenuta: tutto
ciò comporta
l'irrilevanza, sotto il profilo della consapevolezza di
realizzare un'opera del tutto
difforme dal piano di lottizzazione e dalla concessione, dei
sopravvenuti
mutamenti degli strumenti urbanistici e delle altre vicende
amministrative e
giurisdizionali, soprattutto in considerazione della
importanza dell'opera e della
veste qualificata dei ricorrenti (quale evidenziata dalla
Corte d'appello), che non
potevano non rappresentarsi (sia pure nel quadro di
incertezza derivante dalle
pronunce dei giudici amministrativi, dalla imposizione del
vincolo storico
ambientale e del nuovo Piano Urbanistico Comunale) di dare
corso alla
realizzazione di un'opera illegittima, stante la persistente
palese e rilevante
difformità della stessa rispetto al piano di lottizzazione
ed alla concessione, in
ordine ai quali non erano intervenute modifiche di sorta da
parte degli organi
comunali.
4. Per quanto riguarda, infine, le censure relative al
mantenimento della
confisca, nonostante l'approvazione della variante del Piano
Urbanistico
Comunale e la stipula di convenzione attuativa e, da ultimo,
il rilascio (in data 24.02.2015) di permesso di
costruire al fine di ripristinare l'iniziale
destinazione d'uso del fabbricato con finalità direzionale,
oggetto del quarto
motivo e dei motivi aggiunti, va ribadito che
il
provvedimento di confisca delle
aree impartito con la sentenza di condanna per i reati di
lottizzazione abusiva e
di costruzione abusiva su area illecitamente lottizzata non
è automaticamente
caducato per effetto del successivo rilascio di permesso a
costruire in sanatoria,
in quanto il giudice dell'esecuzione penale ha il dovere di
controllare la legittimità
di tale provvedimento e, in particolare, la sussistenza dei
requisiti per il rilascio
del titolo abilitativo (così Sez. 3, n. 12350 del
02/10/2013, Pandiani, Rv.
259890).
E' solo per effetto di un legittimo rilascio della
concessione in sanatoria
per condono che è possibile rivisitare la questione
riguardante la confisca dei
manufatti abusivamente realizzati a seguito di lottizzazione
abusiva e dunque
confiscati, in quanto il titolo abilitativo sopravvenuto
legittima soltanto l'opera
edilizia come tale, ma non si estende alla possibilità di
rivedere la questione
riguardante la lottizzazione, perché la concessione non ha
una funzione
strumentale urbanistica di pianificazione dell'uso del
territorio (Sez. 3,
21.04.1989, n. 6160, Greco, Rv. 181117), e dunque, ferma
restando la
sussistenza della lottizzazione abusiva, per poter escludere
la confisca occorrerà
verificare la legittimità del permesso di costruire ed anche
la sua compatibilità e
coerenza con gli strumenti di pianificazione del territorio.
Ora, nella specie, occorrerà verificare, in sede esecutiva,
essendo una tale
indagine preclusa in questa sede, la legittimità del
rilascio del suddetto permesso
di costruire (avente lo scopo di consentire il ripristino
della iniziale destinazione
d'uso direzionale del fabbricato), tenendo conto dei
mutamenti frattanto
apportati allo stato dei luoghi ed all'edificio, onde
accertare la compatibilità di
tale permesso con lo stato di fatto e la sua congruenza
rispetto al suo scopo ed
agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, e
solo all'esito di una tale
indagine potranno essere esclusi i presupposti per mantenere
la confisca, per
effetto ed in conseguenza della legittima sanatoria delle
opere e della loro
compatibilità con gli strumenti urbanistici.
Ne consegue la manifesta infondatezza anche di tali motivi
di ricorso, non
potendo allo stato essere esclusi i presupposti di detta
confisca (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.04.2016 n. 15404). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione
di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase
del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida
e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001
) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non
può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista
di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Con il secondo motivo di ricorso si contesta il merito sia
dell’ordine di demolizione sia del diniego di sanatoria: lo
stesso è, in parte, inammissibile e, in parte,
infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte
in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in
quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei
termini, sicché il ricorrente non può tardivamente
rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del
diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via
derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un
nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo
lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi
procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse,
potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni
non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
---------------
L’ordine di demolizione è atto dovuto e non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso
dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella
specie, non può giammai legittimare.
----------------
... per l'annullamento del provvedimento del 13.02.2010 prot.
616 a firma del responsabile dell'ufficio tecnico del Comune
di Campodipietra con il quale il Comune ha respinto la
richiesta di sanatoria, nonché di ogni atto prodromico o
consequenziale, compresa l'ordinanza di demolizione del
05.11.2008 prot. 5148;
...
Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 38/2001 a mente del
quale: <<Quando la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente
o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale>>.
In sostanza, secondo il ricorrente, il Comune non avrebbe
considerato che la demolizione parziale delle opere difformi
comporterebbe pregiudizio anche delle porzioni di esso
regolarmente assentite, in quanto queste sarebbero
strutturalmente compenetrate con le prime.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile, in quanto esso
non può che riferirsi all’ordine di demolizione che,
tuttavia, parte ricorrente non ha impugnato nei termini (il
provvedimento in questione è del 05.11.2008, mentre il
ricorso è stato notificato, come detto, in data 16.04.2010),
con la conseguenza che ogni doglianza non può che appuntarsi
sul diniego di sanatoria, essendo il ricorrente decaduto
dalla possibilità di far valere in via diretta eventuali
vizi del provvedimento molitorio.
Né l’addotto vizio dell’ordine di demolizione potrebbe
essere invocato come causa di illegittimità del successivo
diniego di sanatoria, in quanto la denunciata violazione
riguarda le modalità di reazione al rilevato abuso ovvero un
profilo specificamente riguardante l’ordine di demolizione
non suscettibile di riverberarsi sul diniego che, come si
preciserà ulteriormente con riguardo al secondo motivo,
costituisce il risultato di un procedimento autonomo.
Quand’anche poi si ipotizzasse l’ammissibilità di una tale
censura, essa sarebbe comunque infondata, atteso che secondo
la giurisprudenza, anche di questo Tribunale, <<L'ingiunzione
di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase
del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida
e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001
) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso;
pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non
può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista
di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001>> (cfr.
ex multis: TAR Molise, 04.12.2015, n. 455; da ultimo
anche TAR Lazio 4 febbraio 2016, sez. I-quater, n. 1677).
Con il secondo motivo di ricorso, il sig. -OMISSIS-
contesta il merito sia dell’ordine di demolizione sia del
diniego di sanatoria, rilevando, con riferimento al primo,
che le violazioni contestate al sig. -OMISSIS- (1. modifica
sostanziale dei prospetti, con diversa imostazione delle
falde; 2. modifica del corpo scala che non risulta dai
prospetti; 3. realizzazione di un porticato con pilastri in
muratura e copertura in legno; 4. due piccoli locali
destinati a deposito) non integrerebbero abusi, mentre, con
riferimento al secondo, che la motivazione di esso non
sarebbe coincidente con quella dell’ordinanza demolitoria,
evidenziando quindi un’illegittima contraddittorietà.
Il motivo, nelle due censure in cui si articola è, in parte,
inammissibile e, in parte, infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte
in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in
quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei
termini, sicché il ricorrente non può tardivamente
rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del
diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via
derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un
nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo
lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi
procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse,
potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni
non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
Con specifico riferimento alle violazioni rilevate con il
provvedimento di diniego, poi, il ricorrente nemmeno le
contesta nella loro oggettiva sussistenza, limitandosi a
negare che le stesse costituiscano violazioni della
normativa edilizia, non avvedendosi che le rilevate
difformità attengono alle altezze, alla distanza dalle altre
costruzioni, alla volumetria e al lotto minimo integrando
violazioni tipiche e anche gravi della normativa edilizia.
Né parte ricorrente contesta la circostanza, rilevata nel
provvedimento di diniego di sanatoria, che le opere
realizzate fossero difformi sia alla disciplina edilizia
vigente al momento in cui esse sono state realizzate sia a
quella in vigore quando è stata proposta la domanda di
sanatoria, in violazione del c.d. principio della doppia
conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001. Tale
disposizione prevede che: <<In caso di interventi
realizzati in assenza di permesso di costruire, o in
difformità da esso….il responsabile dell’abuso, o l’attuale
proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda>>.
Nel caso di specie è stata, invece, accertata la sussistenza
di difformità edilizie tanto al tempo della loro
realizzazione quanto a quella della proposizione
dell’istanza di condono, con la conseguenza che il diniego
di condono costituiva un atto dovuto (ex multis: TAR
Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239).
Con riguardo a tale ultimo profilo, e si giunge così allo
scrutinio del terzo motivo di censura, la valutazione
demandata agli organi comunali sulla sanatoria edilizia non
presuppone, come sostiene parte ricorrente, la comparazione
di ipotetici interessi antagonisti e, cioè, tra l'interesse
pubblico primario all'ordinato sviluppo del territorio con
quello secondario del privato alla regolarizzazione edilizia
del manufatto abusivo, essendo piuttosto intesa
all'obiettivo riscontro della conformità dell'opera con la
disciplina legale.
Tali considerazioni valgono, ovviamente, anche per l’ordine
di demolizione che è atto dovuto e che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di questo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso
dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella
specie, non può giammai legittimare (cfr. ex multis
da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 17.03.2016, n.
1454).
Peraltro, a quanto appena rilevato si aggiunge nella
fattispecie che il sig. -OMISSIS- non ha mai provveduto ad
integrare la documentazione dell’istanza di sanatoria,
sebbene il Comune ne abbia a più riprese sollecitato l’invio
per poter procedere al riesame dei provvedimenti impugnati,
secondo quanto prescritto dall’ordinanza cautelare n.
143/2010 di questo Tribunale, con ciò sottraendosi ad un
onere fissato nel suo stesso interesse.
In definitiva il ricorso deve essere respinto
(TAR Molise,
sentenza 08.04.2016 n. 171 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Domanda di condono edilizio ai sensi della Legge
n. 47 del 1985 – Risposta a richiesta di parere in merito
all'applicazione dell'art. 32 della Legge n. 47 del 1985
(Regione Emilia
Romagna,
nota 05.04.2016 n. 239384 di prot.).
---------------
In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita
agli atti di questo Ufficio con il --------, con la quale si
pongono alcuni quesiti in merito alla applicazione dell'art.
32 della Legge n. 47 del 1985, si rileva quanto segue.
(...continua). |
URBANISTICA:
Parere in merito alla divisione ereditaria di edifici
ricadenti in zona agricola come causa di esclusione della
lottizzazione abusiva – Comune di Cisterna di Latina
(Regione Lazio,
parere 05.04.2016 n. 176009 di prot.). |
marzo 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il più recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di
Stato, l’istanza di accertamento di conformità non incide
sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione in
precedenza emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione
materiale, con la conseguenza che la medesima ordinanza può
essere portata ad esecuzione in caso di rigetto
dell’istanza, dopo la maturazione del relativo termine di
adempimento che riprende a decorrere dalla conoscenza del
diniego.
---------------
4. RITENUTA, per contro, l’infondatezza dell’eccezione di
improcedibilità dell’appello nella sua interezza, sollevata
dall’appellato Comune di Bolzano sotto il profilo che la
mera presentazione di istanza di sanatoria per i vari abusi
contestati, successivamente all’impugnazione dell’ordinanza
di demolizione e ripristino, renderebbe quest’ultima
inefficace e, quindi, improcedibile l’impugnazione per
sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, secondo il più
recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di Stato,
l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla
legittimità dell’ordinanza di demolizione in precedenza
emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione materiale,
con la conseguenza che la medesima ordinanza può essere
portata ad esecuzione in caso di rigetto dell’istanza, dopo
la maturazione del relativo termine di adempimento che
riprende a decorrere dalla conoscenza del diniego (v., ex
plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 02.02.2015, n. 466)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.03.2016 n. 1204 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interpretazione art. 34 DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 23.03.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: La
valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione
complessiva e non atomistica degli interventi posti in
essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto
urbanistico deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio.
---------------
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta
delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo
organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente
destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto
essere qualificata come nuova opera per consistenza e
funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della
volumetria e della superficie utile commerciale.
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo
all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in
esame:
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a
prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie
definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor),
è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva
leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi
distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la
luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di
protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in
soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza
creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è
installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti
e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o
solaio, che si viene invece a concretizzare con una
copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo
comporta lo snaturamento dei caratteri propri della
pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà
dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di
costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare
bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo
della sua funzione.
---------------
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è
qualificabile come nuova opera assoggettata al previo
rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era
incompatibile con la destinazione agricola dell’area
prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera
l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto
correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con
un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario
ed autorizzato dei luoghi.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Abano
Terme, a firma del Dirigente del V Settore 17.06.1999 prot.
n. 16032, con cui si ordina alla Società ricorrente,
relativamente al fabbricato ad uso commerciale-residenziale
in Abano Terme, via ... n. 46, di demolire le opere
pretestamente abusive entro il termine di 90 giorni.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Le censure proposte, che possono essere valutate
unitariamente, si fondano sull’erroneo presupposto che
l’abuso edilizio dovrebbe essere considerato come
consistente nella mera apposizione di un telo di nylon, come
tale qualificabile come opera amovibile, non soggetta al
previo rilascio di un titolo edilizio, o tutt’al più
qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria
non sanzionabile con un’ordinanza di demolizione,
irrilevante da un punto di vista urbanistico ed inoltre non
soggetta al previo rilascio di un’autorizzazione
paesaggistica perché costituente un intervento edilizio
minore.
Tale ordine di idee non può essere condiviso.
Come è noto la valutazione degli abusi edilizi presuppone
una visione complessiva e non atomistica degli interventi
posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato
all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2012 n. 3330; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.06.2014,
n. 2985).
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta
delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo
organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente
destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto
essere qualificata come nuova opera per consistenza e
funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della
volumetria e della superficie utile commerciale (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo
all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in
esame (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n.
5265):
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a
prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie
definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor),
è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva
leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi
distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la
luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di
protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in
soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza
creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è
installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti
e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o
solaio, che si viene invece a concretizzare con una
copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo
comporta lo snaturamento dei caratteri propri della
pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà
dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di
costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare
bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo
della sua funzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è
qualificabile come nuova opera assoggettata al previo
rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era
incompatibile con la destinazione agricola dell’area
prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera
l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto
correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con
un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario
ed autorizzato dei luoghi.
Il ricorso in definitiva deve essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 22.03.2016 n. 297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di interventi edilizi del tutto priva di
titolo comporta una consapevole deviazione dalle regole che
governano l’uso del territorio, sicché sul semplice decorso
del tempo non può fondarsi alcun affidamento.
Stante la natura permanente dell’illecito edilizio e
l’interesse pubblico alla repressione di esso, la
giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può
configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione
dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o
comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa
effettivamente e attendibilmente trarre fonte.
----------------
7c. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la
violazione di varie norme e principi, nonché eccesso di
potere sotto diversi profili, in sostanza dolendosi della
mancanza di una motivazione esaustiva circa il (preteso)
affidamento ingenerato dal lungo periodo di inerzia del
Comune di Lucca.
In realtà, come più volte sottolineato, gli abusi constatati
dal Nucleo di Polizia edilizia nel 2009 risalgono (per
ammissione dei ricorrenti stessi e dei periti da loro
incaricati) al periodo 2001–2004, sicché manca in radice
l’elemento tempo.
Quanto all’affidamento, la realizzazione di interventi
edilizi del tutto priva di titolo comporta una consapevole
deviazione dalle regole che governano l’uso del territorio,
sicché sul semplice decorso del tempo non può fondarsi alcun
affidamento. Stante la natura permanente dell’illecito
edilizio e l’interesse pubblico alla repressione di esso, la
giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può
configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione
dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o
comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa
effettivamente e attendibilmente trarre fonte (Consiglio di
Stato, IV, 13.06.2013, n. 3182)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Effetto acquisitivo del manufatto abusivo.
L’effetto acquisitivo si ricollega
automaticamente al decorso infruttuoso del termine di
novanta giorni entro il quale le opere abusive devono essere
demolite. Tuttavia, tale effetto, ai sensi dell’art. 31
T.U.ED., presuppone che l’area da acquisire sia stata
individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di
acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di
un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per
presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi
all’interessato di verificare il rispetto dei limiti
dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma
terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che
il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo
il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quella abusiva.
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita
non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita e su
tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con
l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con
opportune osservazioni e/o produzioni documentali
all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato
da discrezionalità tecnica.
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da
acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la
scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i
costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure
abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime.
----------------
8b. Con la seconda e la terza censura dei motivi aggiunti in
esame si deducono i vizi di violazione del giudicato
cautelare formatosi sull’ordinanza di questo Tar n. 79/2013
e di violazione delle disposizioni in materia di
acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale.
Come si è già avuto modo di esporre, con la predetta
ordinanza è stata respinta l’istanza cautelare sulla base
della considerazione che il danno grave e irreparabile
(collegato all’acquisizione dell’area) sarebbe derivato,
eventualmente, da successivi atti dell’amministrazione, non
già dall’ordinanza demolitoria che non specificava l’area da
acquisire.
I ricorrenti sostengono che la nota d’avvio del procedimento
di acquisizione –in cui il Comune di Lucca afferma di essere
già proprietario dell’area in quanto il termine assegnato
per ottemperare all’ingiunzione di demolizione è decorso
infruttuosamente– viola il giudicato cautelare (l’ordinanza
più volte richiamata non è stata impugnata) e pertanto deve
considerarsi nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge
n. 241/1990.
Inoltre, le disposizioni che regolano l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e
dell’area sarebbero state violate per mancata individuazione
dell’area stessa.
Il Comune resistente osserva, in contrario, che la proprietà
dell’area di sedime dell’opera abusiva viene automaticamente
acquisita per il semplice decorso dei novanta giorni
assegnati per l’esecuzione dell’ingiunzione di demolizione
dell’opera stessa; l’atto dell’amministrazione volto a
quantificare la misura dell’area ha carattere soltanto
ricognitivo e dichiarativo e l’unica contestazione possibile
in tale fase riguarda la misura dell’area acquisita.
Con riguardo alla violazione del giudicato cautelare si
osserva che l’ordinanza n. 79/2013 ha rilevato soltanto
l’assenza del pregiudizio grave e irreparabile, essendo
questo da ricollegare a successive determinazioni
dell’amministrazione volte a individuare l’area da acquisire
e ad accertare l’inottemperanza all’ingiunzione di
demolizione. Tuttavia, una valutazione complessiva del
secondo e del terzo motivo di ricorso induce a ritenere
illegittimo l’operato dell’amministrazione per le ragioni
che saranno subito esposte.
È infatti indubbiamente da condividere la tesi secondo cui
l’effetto acquisitivo si ricollega automaticamente al
decorso infruttuoso del termine di novanta giorni entro il
quale le opere abusive devono essere demolite. Tuttavia,
tale effetto, ai sensi dell’art. 31 T.U.ED., presuppone che
l’area da acquisire sia stata individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di
acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di
un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per
presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi
all’interessato di verificare il rispetto dei limiti
dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma
terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che
il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo
il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quella abusiva (TAR
Piemonte, I, n. 107/2013).
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita
non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita e su
tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con
l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con
opportune osservazioni e/o produzioni documentali
all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato
da discrezionalità tecnica (TAR Lazio-Roma, I, 04.04.2001,
n. 2918).
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da
acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la
scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i
costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure
abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime
(in tal senso, TAR Lecce, sez. III, 03.02.2010, n. 435; TAR
Piemonte, sent. su menzionata).
È chiaro che nel caso in esame nulla di tutto ciò è
accaduto. E quindi, se è senz’altro vero che l’ordinanza di
demolizione è legittima anche in mancanza di individuazione
dell’area da acquisire e che l’accertamento
dell’inottemperanza ha carattere meramente ricognitivo, è
altrettanto vero che presupposto dell’automatico effetto
acquisitivo è la regolarità del procedimento, anche sotto il
profilo partecipativo.
In altri termini, il destinatario della sanzione demolitoria
deve essere posto nelle condizioni di scegliere a ragion
veduta fra l’ottemperanza e l’inottemperanza
all’ingiunzione, con piena consapevolezza delle conseguenze
dell’una e dell’altra opzione; ed è evidente che tale
consapevolezza non può ravvisarsi nelle situazioni in cui
l’individuazione dell’area da acquisire non sia avvenuta né
al momento dell’ordinanza di demolizione né successivamente.
In conclusione, la nota impugnata è illegittima per le
assorbenti ragioni testé indicate e va di conseguenza
annullata
(tratto da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ente
ha determinato di respingere l’istanza di accertamento di
conformità, di cui si discute, non per ragioni sostanziali,
attinenti cioè alla eventuale non sanabilità, sotto il
profilo urbanistico, degli interventi realizzati, ma
unicamente per ragioni formali, rappresentate, nello
specifico, dalla dedotta carenza degli elaborati progettuali
e della documentazioni tecnico amministrativa, allegati alla
medesima istanza.
Un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e
comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti,
l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da
parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di
sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai
ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal
protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al
diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto
ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere
che la carenza documentale, nell’ottica della leale,
reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n.
241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di
improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la
pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al
soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione
della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli
atti regolamentari o generali della medesima
amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o
l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con
esclusivo riferimento alla incompletezza della
documentazione depositata dall’istante, trattandosi di
circostanza che può legittimare solo una richiesta di
integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a
pronunciare sulla domanda”.
---------------
... per l'annullamento provvedimento prot. n. 45796 del
21/11/2014 con cui il responsabile dell'area V del Comune di
Capaccio ha disposto l'archiviazione dell'istanza di
accertamento di conformità prot. n. 44940/14 del 17.11.2014;
- di ogni atto connesso e per l’accertamento dell’obbligo
della P.A. di provvedere all’esame della pratica edilizia prot. n. 44940 del 17.11.2014 e sul connesso accertamento di
compatibilità paesaggistica nonché per la declaratoria di
illegittimità del silenzio serbato sull’istanza prot. n. 772
del 12.01.2015 con la quale il ricorrente ha chiesto
l’annullamento in autotutela dell’impugnato provvedimento di
archiviazione e sull’istanza prot. n. 44187 del 25.10.2010.
...
5.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento, alla stregua
delle considerazioni che seguono.
In pratica, l’ente si sarebbe determinato a respingere
l’istanza di accertamento di conformità, di cui si discute,
non per ragioni sostanziali, attinenti cioè alla eventuale
non sanabilità, sotto il profilo urbanistico, degli
interventi realizzati, ma unicamente per ragioni formali,
rappresentate, nello specifico, dalla dedotta carenza degli
elaborati progettuali e della documentazioni tecnico
amministrativa, allegati alla medesima istanza.
Ma un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e
comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti,
l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da
parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di
sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai
ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal
protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al
diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto
ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere
che la carenza documentale, nell’ottica della leale,
reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n.
241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di
improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la
pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al
soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione
della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli
atti regolamentari o generali della medesima
amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o
l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con
esclusivo riferimento alla incompletezza della
documentazione depositata dall’istante, trattandosi di
circostanza che può legittimare solo una richiesta di
integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a
pronunciare sulla domanda” (ex multis TAR Campania-Napoli, sez. IV,
05.08.2009, n. 4730).
6.- Le rassegnate conclusioni devono ritenersi satisfattive
della pretesa azionata in giudizio con plurime domande,
atteso che l’amministrazione è onerata a conformarsi a
quanto statuito in sentenza
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.03.2016 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
procedimento penale per costruzioni prive di concessione o
assistite da concessione illegittima, la violazione anche di
norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà
in tema di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni
legittima i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile,
essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che
dà luogo all'azione di risarcimento del medesimo.
---------------
Il titolare del permesso di
costruire, il committente e il costruttore
sono responsabili della conformità delle opere alla
normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché,
unitamente al direttore dei lavori, a quelle del
permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo
(art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a
carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di
garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura
anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n.
380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo
abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti
urbanistici.
A maggior ragione non lo è in caso di
intervento realizzato direttamente in base a denunzia di
inizio di attività, atto non pubblico
proveniente dal privato e non dalla pubblica
amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni
che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel
caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione
del programma progettuale ed è dunque riconducibile
all'ideazione del committente.
---------------
2. Il ricorso è inammissibile perché generico, proposto per
motivi non consentiti dalla legge e manifestamente
infondato.
3. L'imputato risponde del reato di cui agli artt. 40, cpv.,
110, cod. pen., 44, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380
perché, quale proprietario committente, in concorso con due
pubblici ufficiali del Comune di Castiglione della Pescaia
(che avevano archiviato il procedimento amministrativo
finalizzato all'accertamento dell'abuso edilizio, così
concorrendo alla sua realizzazione), con i progettisti, i
direttori dei lavori e il titolare dell'impresa esecutrice
degli stessi, aveva ristrutturato, mediante soprelevazione e
suddivisione di due unità immobiliari, il villino di sua
proprietà, sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico,
in assenza di valido titolo edilizio essendo illegittima la
D.I.A. perché in contrasto con la normativa in materia di
distanze tra fabbricati (art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 e 26
delle N.T.A. del P.R.G.), posto che la soprelevazione era
stata realizzata ad una distanza inferiore a 10 metri
rispetto al fabbricato adiacente.
3.1. Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato come,
in realtà, l'intervento edilizio dovesse piuttosto
qualificarsi alla stregua di una vera e propria nuova
costruzione (in considerazione della realizzazione di un
piano in più nel quale ospitare un nuovo appartamento, della
costruzione di cantine e di un terrazzo, della radicale
variazione della sagoma), attenendosi alla rubrica, aveva
comunque evidenziato che il «manufatto presentava una
ovvia imponenza con muro parapetto, pilastri orizzontali e
verticali» ed una loggia certamente computabile ai fini
delle distanze alla luce sia degli strumenti urbanistici del
2007, che del PRG del 2009 secondo il quale non dovevano
essere computati ai fini delle distanze solo gli elementi
decorativi, i balconcini, le pergole e i porticati (e ciò a
prescindere dal fatto che l'opera, realizzata in epoca
precedente al 2009, non era comunque conforme nemmeno alle
definizioni del nuovo PRG).
3.2. In sede di appello l'imputato si è a lungo soffermato
sulla natura dell'intervento (ristrutturazione) e sulle sue
caratteristiche oggettive, oltre che su altri temi, alcuni
dei quali del tutto superflui alla luce degli odierni motivi
di ricorso.
In alcun modo, però, era stato devoluto alla Corte
territoriale il tema, esclusivamente fattuale, della natura
della "loggia" realizzata a seguito della
soprelevazione e della sua attitudine a incidere sul calcolo
delle distanze, oggetto del secondo motivo di ricorso.
E' pur vero che la sentenza impugnata affronta il tema
ricostruendo il fatto (la descrizione della "loggia")
e interpretando le norme ad esso applicabili, ma è
altrettanto vero che il ricorrente, negletto il secondo
argomento -indubbiamente più acconcio a questa fase di
legittimità- si avventura nella diversa ricostruzione del
fatto attraverso ampi, quanto inammissibili richiami alle
prove raccolte nella fase di merito.
3.3. Gli altri vizi denunziati con il primo motivo di
ricorso, altro non sono se non la riedizione, per molti
versi alla lettera, dei corrispondenti motivi di appello,
affastellati in modo generico e confuso (si eccepisce, per
esempio, la illegittimità della costituzione della parte
civile, sotto lo stesso capitolo dedicato alla insussistenza
dell'elemento psicologico del reato), senza alcuna
considerazione per gli argomenti spesi nella sentenza
impugnata per confutarli.
3.4. E' sufficiente ribadire che, come anche ricordato dalla
Corte di appello, nel procedimento penale
per costruzioni prive di concessione o assistite da
concessione illegittima, la violazione anche di norme
civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema
di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni legittima
i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile, essendo
in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo
all'azione di risarcimento del medesimo
(Sez. 3, n. 5190 del 15/03/1991, De Bigontina, Rv. 187094;
Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009, Vespa, Rv. 245270; Sez. 3,
n. 21222 del 04/04/2008, Chianese, Rv. 240044).
3.5. Inoltre, il titolare del permesso di
costruire, il committente e il costruttore sono responsabili
della conformità delle opere alla normativa urbanistica,
alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei
lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a
carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di
garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura
anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n.
380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo
abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti
urbanistici (Sez.
3, n. 27261 del 08/06/2010, Caleprico, Rv. 248070).
A maggior ragione non lo è in caso di
intervento realizzato direttamente in base a denunzia di
inizio di attività, atto non pubblico
(Sez. 3, n. 41480 del 24/09/2013, Zecca, Rv. 257690)
proveniente dal privato e non dalla pubblica
amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni
che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel
caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione
del programma progettuale ed è dunque riconducibile
all'ideazione del committente.
3.6. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.03.2016 n. 10106). |
EDILIZIA PRIVATA:
La demolizione non è una sanzione.
Cassazione. I giudici italiani in contrasto con la Corte
dei diritti dell’uomo.
Un modesto
intervento abusivo nell’isola d’Ischia è l’occasione per
delimitare i confini tra la Corte di cassazione e la Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Con la
sentenza 10.03.2016 n. 9949
(tratta da www.lexambiente.it) la III Sez. penale della
Corte di Cassazione utilizza un banale abuso edilizio per
rivendicare la generica possibilità che la magistratura
penale possa disporre la demolizione di opere illegittime.
Demolizione e confisca possono infatti essere disposte dal
giudice penale anche senza una sentenza di condanna.
Spesso accade che i reati urbanistici, in quanto
contravvenzioni (e non delitti) si prescrivano in termini
brevi (4 anni, che diventano 5 se nei quattro anni inizia un
procedimento penale). Il giudice penale, quindi, deve
dichiarare estinto il reato, ma può sempre disporre la
demolizione o la confisca (in caso di lottizzazione)
dell’immobile abusivo.
Queste sanzioni, tuttavia, sembrano
contrastare con la Convenzione sui diritti dell’uomo che,
nell’articolo 7 e nell’articolo 1 del Protocollo n. 1
consentono pene afflittive solo se vi è una condanna penale.
Se il reato è prescritto, osservano i giudici europei, non
vi è condanna penale e, in conseguenza, non è possibile che
il giudice penale intervenga sugli immobili. Avviene così
che, tutte le volte che un magistrato penale ha disposto la
confisca di immobili abusivi, i costruttori hanno utilizzato
la scappatoia della prescrizione per sottrarsi
all’eliminazione del bene. Un diverso potere sanzionatorio
spetta ai Comuni, ma è nota l’inerzia di tali enti.
L’antagonismo tra l’autorità giudiziaria italiana e la Corte
europea dei diritti dell’uomo è giunto a livelli
incandescenti: la nostra Corte costituzionale nel marzo 2015
(sentenza 49) ha sottolineato che il giudice penale può
confiscare immobili abusivi anche in presenza di reati
prescritti, qualora la responsabilità penale sia stata
accertata in tutti i suoi elementi (e quindi anche se manca
una sentenza di condanna). In senso opposto, si è espressa
la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo
sui ricorsi 19029/2011, 34163/2007 e 1828/2006.
I giudici nazionali, e in particolare la Cassazione (anche
in questa sentenza), puntano ora sulla natura amministrativa
della confisca, che quindi potrebbe avvenire anche senza una
condanna penale. La confisca, secondo i giudici nazionali, è
impermeabile a tutte le vicende estintive del reato e della
pena: si confisca anche in caso di amnistia ed indulto, e
finanche se muore il reo (dopo una sentenza irrevocabile).
Di fatto, quindi, i giudici penali intendono difendere a
spada tratta l’assetto del territorio, compensando i brevi
termini dell’estinzione del reato con la possibilità di
confiscare o demolire l’immobile abusivo anche quando il
reato è prescritto.
Ma altrettanto intransigente è la Corte
dei diritti dell’uomo che non entra nel merito della
pesantezza della sanzione penale, perché richiede che
l’eliminazione dell’immobile sia la conseguenza di un
accertamento effettivo, avvenuto con sentenza. L’abuso
nell’isola d’Ischia sarà quindi demolito a meno che i
giudici di Strasburgo non intervengano sul governo centrale (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
In tema di reati edilizi, e
specificamente in materia di ripristino o demolizione dello
stato dei luoghi anteriore alla realizzazione del fabbricato
abusivo, l’ordine di demolizione previsto dall’art. 31,
ultimo comma, d.P.R. n. 380/2001 costituisce atto dovuto,
espressivo di un potere autonomo e non meramente suppletivo
del giudice penale.
Esso pertanto, ferma restando l’esigenza di coordinamento in
fase esecutiva, non si pone in rapporto alternativo con
l’ordine omologo impartito dalla pubblica amministrazione.
---------------
4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Invero, il ricorso censura l'omessa dichiarazione della
prescrizione, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., dell'ordine
di demolizione, in quanto sanzione 'sostanzialmente
penale', alla luce di una interpretazione 'convenzionalmente'
conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto
isolata, di un giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza
del 03/11/2014, Delorier), che ha dichiarato l'estinzione
per decorso del tempo dell'ordine di demolizione, sul
presupposto che si trattasse non già di una sanzione
amministrativa, bensì di una vera e propria "pena",
nella declinazione 'sostanzialistica' fornita dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso,
dunque, anche all'ordine di demolizione sarebbe applicabile
l'art. 173 cod. pen. sulla prescrizione delle pene.
4.1. Ebbene, anche qualora si volesse accedere a tale
ricostruzione, la censura proposta sarebbe palesemente
infondata, in quanto non sarebbe decorso neppure il termine
di cinque anni previsto per la prescrizione delle pene
(principali).
Invero, se il dies a quo va individuato nella
irrevocabilità della condanna (artt. 172, comma 3, e 173,
comma 3, cod. pen.), che nella fattispecie è intervenuta il
20/04/2009, non risulta decorso il preteso termine di
prescrizione dell'ordine di demolizione, in quanto
l'ingiunzione è stata notificata il 13/01/2012.
4.2. In ogni caso, va evidenziato che la tesi della natura 'sostanzialmente
penale' dell'ordine di demolizione, oltre ad essere,
come si dirà, frutto di una applicazione del diritto
eurounitario eccentrica rispetto al sistema costituzionale
delle fonti, è infondata.
Al riguardo, la giurisprudenza di
legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno
costantemente ribadito la natura amministrativa della
demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente
amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale,
esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al
quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere
coordinato nella fase di esecuzione
(ex multis, Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep.
2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n. 37906 del 22/05/2012,
Mascia, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994,
Sorrentino Rv. 198511; si vedano anche Sez. U, n. 15 del
19/06/1996, RM. in proc. Monter); in tale
quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione della
sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art. 173
cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene
principali, e comunque non alle sanzioni amministrative
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736;
Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670);
ed altresì è stata negata l'estinzione per la
prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative,
stabilita dall'art. 28 l. 24.11.1981, n. 689, in quanto
riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva ("il
diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"), mentre
l'ordine di demolizione integra una sanzione 'ripristinatoria',
che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio
(Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv.
227176).
Ebbene, la tesi della natura
intrinsecamente penale della demolizione risulta fondata su
una serie di indici 'diagnostici' della "materia
penale", ovvero la pertinenzialità rispetto ad un
fatto-reato, la natura penale dell'organo giurisdizionale
che la adotta, l'indubbia gravità della sanzione e
l'evidente finalità repressiva; sulla base di tali indici si
afferma la natura penale, facendone poi discendere una
disinvolta operazione di applicazione analogica dell'art.
173 cod. pen..
4.3. Nel solco di quanto già evidenziato da questa Corte di
Cassazione (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, non
ancora massimata), nel sindacato di legittimità
dell'ordinanza del Tribunale di Asti, il quadro normativo
che disciplina la demolizione delle opere abusive esclude,
innanzitutto, che ricorra l'indice, indiziante la natura
penale della misura, della pertinenzialità rispetto ad un
fatto reato; invero, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001
disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta
dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia
attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul
solo presupposto della presenza sul territorio di un
immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una
finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario
assetto del territorio.
L'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla
demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità
amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione
d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista
l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e,
comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio
del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno',
a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica
deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione
venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se
ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica, e non solipsistica, della
disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare,
rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur
quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur
integrando un potere autonomo e non alternativo a quello
dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione
deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia
stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine
'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera
abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con
l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile
soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa,
senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa,
e non penale, delle misure, e senza che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può essere disposta immediatamente,
senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può
affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di
demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice
penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti
amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del
21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando
il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali
vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono
applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del
02/12/2010 (dep.2011), D'Avino, Rv. 249309; resta
eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di
applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di
estinzione del reato conseguente al decorso del termine di
cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n.
18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291; non è estinto
dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della
sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/1/2011, Baldinucci e
altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la
cui emissione è demandata (anche) al giudice penale
all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al
fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del
procedimento di esecuzione della demolizione.
Del resto, anche la dottrina più consapevole ha sottolineato
la differente finalità e natura delle misure amministrative
previste a salvaguardia dell'assetto del territorio: la
demolizione, infatti, è connotata da una finalità ripristinatoria, l'acquisizione gratuita del bene e
dell'area di sedime e le sanzioni pecuniarie alternative
alla demolizione hanno una finalità riparatoria
dell'interesse pubblico leso, le sanzioni pecuniarie
previste in caso di inottemperanza all'ingiunzione a
demolire sono connotate da una finalità punitiva.
Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della
demolizione, che non può conseguire automaticamente
dall'incidenza della misura sul bene. In tal senso, non
sembra ricorrere neppure l'ulteriore 'indice diagnostico'
della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo
pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia
dell'assetto del territorio, mediante il ripristino dello
status quo ante (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015,
Formisano, Rv. 264736: "In materia di reati concernenti le
violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto
abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di
carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione
stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né
alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del
1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con
finalità punitiva"); che non ricorra una finalità
repressiva, del resto, è confermato altresì dalla
possibilità di revoca della demolizione, allorquando gli
interessi pubblici sottesi alla tutela del territorio siano
diversamente ponderati dall'autorità amministrativa,
divenendo incompatibili con l'esecuzione della misura ripristinatoria. L'attitudine di un interesse pubblico a
paralizzare l'esecuzione della sanzione, dunque, sembra
escluderne la asserita finalità repressiva.
4.4. L'altro profilo di perplessità che suscita
l'interpretazione (asseritamente) conforme alla
giurisprudenza 'eurounitaria' riguarda l'applicazione
analogica della norma sulla prescrizione delle pene, che
appare addirittura disinvolta.
4.4.1. L'applicazione analogica viene infatti fondata sulla
sostanziale obliterazione ermeneutica dell'art. 14 delle
Preleggi, sul rilievo che, poiché tale norma non può
riferirsi a previsioni di favore, non occorre il presupposto
dell'eadem ratio.
La delimitazione del divieto di analogia appare innanzitutto
arbitraria, oltre che immotivatamente assertiva.
Se è vero, infatti, che il divieto di analogia in materia
penale è considerato, dalla dottrina più attenta, relativo,
concernente soltanto le norme penali sfavorevoli, nondimeno
l'art. 14 Preleggi impedisce l'integrazione della norma
mediante il procedimento analogico nei casi di norme
eccezionali.
Al riguardo, la dottrina penalistica più accorta ritiene che
il ricorso al procedimento analogico sia precluso rispetto
alle cause di non punibilità (denominate anche "limiti
istituzionali della punibilità") fondate su specifiche
ragioni politico-criminali o su situazioni specifiche: in
tal senso, l'analogia non sarebbe consentita rispetto alle
immunità, alle cause di estinzione del reato e della pena, e
alle cause speciali di non punibilità (ad es., il rapporto
di famiglia rilevante ex art. 649 cod. pen.).
Già tale rilievo impedirebbe, dunque, l'applicazione
analogica di una causa di esclusione della pena come la
prescrizione disciplinata dall'art. 173 cod. pen..
4.4.2. Ma, in ogni caso, ciò che impedisce tale disinvolta
operazione interpretativa è la carenza dei due presupposti
dell'analogia, alla stregua della tradizionale e condivisa
teoria generale del diritto: l'esistenza di una lacuna
normativa e l'eadem ratio.
L'applicazione analogica, infatti, presuppone la carenza di
un à norma nella indispensabile disciplina di una materia o
di un caso (per riprendere la formula dell'art. 14 Prel.),
che altrimenti la scelta di riempire un preteso vuoto
normativo sarebbe rimesso all'esclusivo arbitrio
giurisdizionale, con conseguente compromissione delle
prerogative riservate al potere legislativo e del principio
di divisione dei poteri dello Stato.
Nel caso di specie, non sembra scorgersi una lacuna
normativa, non potendo ritenersi indefettibile la previsione
di una causa estintiva della sanzione amministrativa della
demolizione in conseguenza del decorso del tempo.
L'opzione di individuare una lacuna normativa, dunque, è del
tutto arbitraria, e rimessa alle personali e soggettive
scelte dell'interprete.
Del resto, l'assenza di una causa di estinzione è comune
alla demolizione e ad altre sanzioni amministrative, e
sarebbe irragionevole, e comunque arbitraria,
un'applicazione analogica della prescrizione alla prima e
non alle altre; anche perché mentre la prescrizione (del
reato e della pena) in materia penale è legata alla tutela
di interessi individuali (libertà personale e dignità umana)
ed alla progressiva erosione dell'attitudine risocializzante
della pena, in ragione del decorso del tempo (tempori
cedere), nella materia lato sensu amministrativa il
legislatore ragionevolmente può decidere di non dare
rilevanza, in una o più fattispecie sanzionatorie, al
decorso del tempo quale causa estintiva, in ragione della
prevalenza di interessi pubblicistici oggetto di
privilegiata considerazione normativa (nel caso di specie,
la prevalenza è attribuita al ripristino dell'assetto del
territorio).
Inoltre, manca anche l'eadem ratio, l'elemento di
identità fra il "caso" previsto ed il "caso" non
disciplinato, sulla quale la tesi della natura
intrinsecamente penale della demolizione sorvola.
L'art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l'"estinzione
delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del
tempo" (così come, analogamente, l'art. 172 cod. pen.
disciplina la prescrizione delle pene della reclusione e
della multa); la causa di estinzione, dunque, è limitata
alle sole pene principali, non è una norma 'di favore'
generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene
accessorie. A conferma, peraltro, della natura eccezionale
della disposizione, già solo per tale motivo insuscettibile
di applicazione analogica.
Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella
declinazione 'soggettiva', bensì costituzionale, di parità
di trattamento di situazioni analoghe) e ancorato a criteri
oggettivi, dunque, per applicare analogicamente la
prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle
pene accessorie -la cui natura penale, peraltro, oltre ad
essere normativamente sancita, non è revocabile in dubbio-
ovvero agli effetti penali della condanna.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un
lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono,
infatti, di individuare un elemento di identità tra i due
"casi" che consenta un'applicazione analogica della norma
sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le
pene 'principali' hanno una natura lato sensu 'repressiva',
ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai
sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha
una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue
finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le
esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del
tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla
tutela collettiva di un bene pubblico (Sez. 3, n. 43006 del
10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, Sentenza n. 16537
del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque,
deve negarsi innanzitutto la natura intrinsecamente penale
della demolizione, ed in secondo luogo la legittimità di un
procedimento analogico, in assenza dei due presupposti della
lacuna normativa e dell'eadem ratio.
4.5. Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia
legis, secondo i canoni interpretativi tradizionalmente
desunti dall'art. 14 Prel., si deve prendere in
considerazione l'ipotesi che l'operazione 'interpretativa' a
fondamento dell'applicazione analogica della prescrizione
alla sanzione della demolizione sia in realtà frutto di una
analogia iuris, nella quale si è proceduto alla (invero
arbitraria) formulazione ed applicazione di principi
generali dell'ordinamento, secondo i canoni desunti
dall'art. 12 Prel..
E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe
frutto di una soggettiva ed arbitraria opzione politica
dell'interprete, in assenza di una inequivocabile lacuna
normativa.
Innanzitutto l'analogia iuris presupporrebbe la necessità di
risolvere un "caso dubbio" -e non sembra il caso
dell'estinzione della sanzione della demolizione-; in
secondo luogo imporrebbe l'individuazione di un principio
generale applicabile al 'caso dubbio': e non sembra che
l'estinzione di una sanzione amministrativa (ma neppure
penale) per il decorso del tempo possa plausibilmente
integrare un principio generale dell'ordinamento, sia
nazionale che sovranazionale.
Va al riguardo sempre rammentato che l'integrazione
dell'ordinamento è solo residuale e succedanea
all'interpretazione, e, se il caso non è dubbio, non è
necessario ricorrere all'applicazione dei principi, in
quanto è sufficiente l'applicazione della disposizione
scritta.
4.6. Particolarmente attuale appare il monito, espresso
anche da consapevole dottrina, che il diritto 'eurounitario',
ed in particolare il diritto proveniente dalla
giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo, non venga
adoperato dall'interprete alla stregua di un diritto à la
carte, dal quale scegliere l'ingrediente ermeneutico
ritenuto più adatto ad un'operazione di precomprensione
interpretativa.
Il distorto utilizzo della giurisprudenza casistica delle
Corti europee, infatti, può condurre, come nel caso
dell'applicazione analogica della prescrizione alla
demolizione, a compiere una "disanalogia", con la quale si
universalizza arbitrariamente la portata di un principio
affermato in un determinato contesto. In realtà, il
principale ostacolo al procedimento analogico adoperato
nell'applicazione della prescrizione alla demolizione
risiede nel limite 'logico' del tenore lessicale della
disposizione di cui all'art. 173 cod. pen.; una norma
dall'univoco significato letterale, che non consente esiti
ermeneutici contra legem, e che impedisce la (sovente
malintesa) interpretazione conforme.
Per impedire forme di "normazione mascherata", infatti, il
nostro sistema costituzionale delle fonti, come interpretato
nel diritto vivente della Corte costituzionale, ha chiarito,
fin dalle c.d. "sentenze gemelle" (n. 348 e 349 del 2007),
che il diritto CEDU non è direttamente applicabile; il
giudice comune, infatti, ha la sola alternativa di esperire
una interpretazione "convenzionalmente conforme" della norma
nazionale, ove percorribile, ovvero proporre una questione
di legittimità costituzionale, adoperando il diritto CEDU
quale parametro interposto di legittimità, ai sensi
dell'art. 117 Cost. (Corte Cost. n. 80 del 2011).
Ebbene, nel caso di specie, poiché la norma sulla
prescrizione delle pene non appare suscettibile né di
applicazione analogica, né tanto meno di interpretazione
'convenzionalmente conforme', a tanto ostandovi l'univoco
tenore lessicale (che limita la prescrizione alle pene
'principali'), il giudice comune, ove avesse avuto un
fondato dubbio di costituzionalità della norma, per l'omessa
previsione di una causa estintiva della demolizione, in
virtù della ritenuta natura penale della stessa, avrebbe
potuto percorrere l'unica strada della proposizione di una
questione di costituzionalità.
5. Va dunque riaffermato il seguente principio di diritto: "la
demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal
giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non
sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione
amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente dall'essere stato o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e
non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173
cod. pen.". |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lottizzazione senza condono.
Il condono copre le opere edilizie contro legge e non anche
la lottizzazione abusiva. È così che se il reato è
prescritto ma la confisca risulta confermata, il comune
ordina al proprietario di consegnargli l'immobile: la
sanatoria delle opere, infatti, è compatibile con la misura
ablativa penale ma soltanto con l'eventuale autorizzazione a
lottizzare concessa in sanatoria l'ente locale può
rinunciare ad acquisire le aree al patrimonio indisponibile
comunale.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.03.2016 n. 668, pubblicata
dal TAR Sicilia-Palermo, Sez. II.
L'amministrazione si convince a non
demolire i fabbricati. È evidente che l'autorizzazione a
lottizzare in sanatoria non può estinguere il reato, ma
dimostra soltanto ex post la conformità della lottizzazione
agli strumenti urbanistici.
E nella specie non conta che sia
intervenuta nelle more la concessione in sanatoria per le
opere edilizie realizzate sui singoli lotti: il titolo
abilitativo che è sopravvenuto, infatti, legittima soltanto
il manufatto interessato, ma non comporta alcuna valutazione
di conformità di tutta la lottizzazione rispetto alle scelte
generali di pianificazione urbanistica; la revocabilità del
provvedimento ablatorio consegue invece soltanto
all'adozione di un provvedimento esplicito che «legittima»
la lottizzazione, emesso dall'autorità amministrativa
competente.
Nel nostro caso il comune rispetta l'articolo 19 della legge
47/1985 che vincola l'ente ad acquisire al proprio
patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione
edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, benché
oggetto di condono
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2016).
---------------
MASSIMA
Nel merito, re melius perpensa rispetto alla fase
cautelare, ritiene però il Collegio che il ricorso sia
infondato.
Invero, per come emerge da un più attento esame della
documentazione in atti, nel caso di specie il reato
contestato ai ricorrenti era quello di lottizzazione abusiva
e non di mera costruzione di opere abusive.
La confisca disposta dal giudice penale è quindi
disciplinata dall’art. 19 l. n. 47/1985, applicabile
ratione temporis, a norma del quale: “La sentenza
definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata
lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni
abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente
costruite. Per effetto della confisca i terreni sono
acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del
Comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione
abusiva. La sentenza definitiva è titolo per la immediata
trascrizione nei registri immobiliari.”
Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, che
il Collegio ritiene di condividere:
- in tema di lottizzazione abusiva, la
sanatoria per condono edilizio delle costruzioni abusive
eseguite non è incompatibile con il provvedimento di
confisca delle aree lottizzate, esplicando influenza a tali
effetti solo l'eventuale autorizzazione a lottizzare
concessa in sanatoria. Invero, solo questa, pur non
estinguendo il reato di lottizzazione abusiva, dimostra ex
post la conformità della lottizzazione agli strumenti
urbanistici e la volontà dell'amministrazione di rinunciare
all’acquisizione delle aree al patrimonio indisponibile
comunale;
- il rilascio della concessione in sanatoria per le opere
edilizie realizzate sui singoli lotti non è incompatibile
con la confisca del terreno lottizzato, poiché il titolo
abilitante sopravvenuto legittima soltanto l'opera edilizia
che ne costituisce l'oggetto, ma non comporta alcuna
valutazione di conformità di tutta la lottizzazione alle
scelte generali di pianificazione urbanistica;
- la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue solo
all'adozione di un provvedimento esplicito da parte della
competente Autorità amministrativa autorizzatorio della
lottizzazione
(cfr., in termini, da ultimo, Cass. pen. 29/10/2015, n.
43591).
Nel caso di specie risulta che il Comune ha concesso la
sanatoria per le opere abusive, ma non per la lottizzazione.
Segue da ciò che l’Amministrazione ha operato legittimamente
in base al disposto di cui all’art. 19 l. n. 47/1985 che lo
vincolava ad acquisire al proprio patrimonio le opere
realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di
lottizzazione abusiva, ancorché oggetto di sanatoria.
Il ricorso va quindi rigettato. |
febbraio 2016 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione da parte del ricorrente della
domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il
venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso
l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in
funzione della repressione dell'abuso edilizio.
Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta
istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio
della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del
ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in
caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel
contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di
diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui
essa è stata richiesta.
---------------
Il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive
determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di
sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche
nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i
provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in
cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel
procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso
all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine
di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso
interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di
quel procedimento.
Tale semplice considerazione induce a disattendere
l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in
materia di abusivismo edilizio, la presentazione
dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio originario,
quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione
originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione,
ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure
ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in
caso di eventuale rigetto della sanatoria.
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro
autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza
dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la
presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in
caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera,
conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla
formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe
luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente
realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto
confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento
contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso
avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito
dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente
confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto
dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo,
l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria
–ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente
l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della
vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà),
producendo una nuova situazione di fatto, della quale il
Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori
determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza,
sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di
quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa;
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula
ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di
acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché
delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria
edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati
legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in
caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria,
il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione,
né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe
ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di
reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire
l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della
domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il
procedimento non è definito, ma una volta negata la
sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare,
dell’ordinanza n. 2 del 27.11.2014 (prot. n. 3864),
notificata in data 18.12.2014, con la quale il Comune di
Busso ha ordinato al ricorrente la demolizione di un
manufatto realizzato nella parte retrostante il fabbricato
di civile abitazione, contenente un serbatoio di acqua
potabile avente struttura portante in muratura di mattoni e
soprastante terrazzo.
...
Il ricorso è improcedibile.
La presentazione da parte del ricorrente della domanda di
rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno
dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso
l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in
funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto
conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e
considerato che, da un lato, il rilascio della
sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del
ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in
caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel
contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di
diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui
essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III,
02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n.
735; Tar Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Nel caso di specie, poi, il ricorrente ha prodotto il parere
positivo espresso dalla Regione nell’ambito del procedimento
di autorizzazione paesaggistica ex art. 167 d.lgs. n.
42/2004.
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto,
nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti
all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto,
anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a
reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e
ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in
cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel
procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso
all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine
di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso
interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di
quel procedimento.
Tale semplice considerazione, come di recente rilevato da
questo Tribunale in un caso analogo (sentenza 20.11.2015, n.
441), induce a disattendere l’orientamento
giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di
abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi
dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non
costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non
determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione
originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione,
ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure
ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in
caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato
VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro
autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza
dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la
presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in
caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera,
conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla
formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe
luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente
realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto
confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento
contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso
avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito
dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto
meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del
manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità
affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio
negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di
sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica
strutturalmente l’interesse del ricorrente alla
conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio
o il manufatto di proprietà), producendo una nuova
situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener
conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale
istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di
rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: TAR Umbria
Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e
postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della
demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di
sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della
sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere
adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi
propri; in caso di concessione del permesso di costruire in
sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la
demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe
ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di
reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire
l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della
domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il
procedimento non è definito, ma una volta negata la
sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
In conclusione, il ricorso è da ritenersi improcedibile (TAR
Molise,
sentenza 26.02.2016 n. 105 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
ragioni che militano per l’orientamento che depone per
l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale
demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia,
sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente
confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto
dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo,
l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria
–ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente
l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della
vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà),
producendo una nuova situazione di fatto, della quale il
Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori
determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza,
sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di
quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale
comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa;
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula
ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di
acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché
delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria
edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati
legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in
caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria,
il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione,
né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice
amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità
del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una
nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori
successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un
paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine
di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia
divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un
provvedimento incontestabile, almeno per i profili
riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente
accertata e non più ovviabile.
---------------
... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) l’ordinanza di
demolizione di opere abusive prot. n. 2/2015, emessa dal
Comune di Rocchetta al Volturno in data 08.01.2015,
notificata al ricorrente in data 16.02.2015, con la quale è
stata ordinata la demolizione delle dette opere a propria
cura e spese; 2) ogni atto presupposto, connesso e
conseguente;
...
III - La presentazione da parte del ricorrente della domanda di sanatoria
edilizia comporta il venir meno dell'interesse alla
decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e
tutti gli atti intervenuti, in funzione della repressione
dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria
pronuncia del Comune su detta istanza, e considerato che, da
un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente
l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si
produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi
l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale
provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei
limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania
Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I,
07.04.2015 n. 735; T.a.r. Liguria Genova II, 03.09.2014 n.
1334).
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener
conto, nelle successive determinazioni, delle vicende
conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché
sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di
sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori,
demolitori e ripristinatori.
Tale semplice considerazione induce a disattendere
l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in
materia di abusivismo edilizio, la presentazione
dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio originario,
quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione
originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione,
ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure
ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in
caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato
VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la
menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere
la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso,
anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria
edilizia è che, in caso di riesame negativo circa
l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di
sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un
provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna
modificazione sostanziale della preesistente realtà
giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo
del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento
contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso
avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito
dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il
rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente
confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto
dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo,
l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi
decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi
compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente
l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della
vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà),
producendo una nuova situazione di fatto, della quale il
Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori
determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera
provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: Tar Umbria Perugia I,
04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori
provvedimenti di esecuzione della demolizione e di
acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché
delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria
edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati
legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in
caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria,
il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione,
né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva
la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che
la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso
l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di
ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al
diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di
abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione
fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto
incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento
incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza
del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più
ovviabile (TAR Molise,
sentenza 26.02.2016 n. 86 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti repressivi di abusi edilizi commessi per di più in area
vincolata, attesa la loro natura di atto dovuto, si
configurano come “espressioni di attività vincolata non
condizionata a specifica motivazione che nella fattispecie è
in re ipsa”.
---------------
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può
non tenersi conto che l'intervento (abusivo) ricade in zona
tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del
Parco.
Infatti, secondo il principio "tempus regit actum",
riguardante la successione delle leggi nel tempo, la
legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va
verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente
rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della
sua approvazione".
La corretta applicazione del principio tempus regit actum,
comporta, quindi, che legittimamente l'amministrazione abbia
tenuto conto delle modifiche normative intervenute sia
successivamente al momento della realizzazione delle opere,
sia durante l'iter procedimentale successivo all'istanza,
non potendo, al contrario, considerare l'assetto
'cristallizzato' alla data cui risale l'intervento o a
quello dell'atto che ha dato avvio all'iter procedimentale.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal sig. Ma.Pi. avverso ordinanza di demolizione di
opere e manufatti abusivi e di ripristino dello stato dei
luoghi adottate dal Direttore del Parco Regionale della
Valle del Lambro - Istanza di sospensiva.
...
Il Ministero riferente nella relazione istruttoria del
29.01.2015 richiamata in epigrafe respinge le censure
avanzate dal ricorrente ritenendole infondate e sottolinea
preliminarmente che il provvedimento sanzionatorio impugnato
costituisce atto dovuto nell’esercizio del potere-dovere di
repressione di un abuso edilizio realizzato in zona
vincolata e che a norma dell’art. 167 del codice dei beni
culturali e del paesaggio (decreto legislativo n. 42/2004)
in caso di violazione dello stesso codice il trasgressore è
sempre obbligato al ripristino dello stato dei luoghi, come
nel caso di specie, nel quale l’ordinanza del direttore del
Parco regionale della Valle del Lambro è stata adottata
proprio in applicazione di detta norma.
Lo stesso Dicastero ritiene poi non condivisibili le censure
concernenti la mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento e di carenza motivazione dedotte nel gravame e
a tal proposito richiama molteplici pronunce del Consiglio
di Stato (ex multis Sezione VI sent. n. 1682 del
26.03.2013, Sez. IV sent. n. 734 del 17.02.2014) nonché il
parere n. 3772/2933-2006 del 09.04.2008, con il quale questa
Sezione ha avuto modo di affermare che gli atti repressivi
di abusi edilizi commessi per di più in area vincolata,
attesa la loro natura di atto dovuto, si configurano come “espressioni
di attività vincolata non condizionata a specifica
motivazione che nella fattispecie è in re ipsa”.
Soggiunge l’Amministrazione altresì testualmente quanto
segue: “contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente,
non può non tenersi conto che l'intervento ricade in zona
tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del
Parco. Infatti, secondo il principio "tempus regit actum",
riguardante la successione delle leggi nel tempo, la
legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va
verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente
rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della
sua approvazione" (Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n.
1900; 12.10.2011, n. 5515; sez. IV, 09.02.2012, n. 693).
''La corretta applicazione del principio tempus regit
actum, comporta, quindi, che legittimamente
l'amministrazione abbia tenuto conto delle modifiche
normative intervenute sia successivamente al momento della
realizzazione delle opere, sia durante l'iter procedimentale
successivo all'istanza, non potendo, al contrario,
considerare l'assetto 'cristallizzato' alla data cui risale
l'intervento o a quello dell'atto che ha dato avvio all'iter
procedimentale" (Cons. Stato, sez. II, 18.01.2012, n.
3708/2011)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche a voler prescindere dal rilievo che
l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe,
comunque, venir meno la necessità di acquisire
preventivamente i titoli abilitativi normativamente
richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento
edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la
già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad
opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in
fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano
giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa
ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la
legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni
non deturpino esteriormente l'ambito protetto”.
---------------
L’art. 9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del
D.P.R. 380/2001) stabilisce che per gli interventi di
ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione
la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia
possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente
il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché
irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria”.
---------------
La contestata ordinanza di demolizione costituisce atto
necessario della procedura sanzionatoria, ossia un atto
dovuto e rigidamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, e consequenziale all'accertata abusività
della costruzione, motivo per cui non deve essere
necessariamente preceduta dall'avviso dell'avvio del
procedimento, e non esige una specifica e puntuale
motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività
dell'opera edilizia, e ciò anche senza considerare che
l'atto impugnato è esaustivamente motivato, perché ha
indicato tutti i presupposti di fatto su cui si fonda,
oltre, sia pure genericamente, la normativa applicata.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto da RI.Do., RI.Ma., RI.Ar.,
RI.Ma., per l’annullamento, previa sospensiva,
dell’ordinanza del Comune di San Sebastiano al Vesuvio (NA)
n. 39 del 01.06.2010, con cui è stata ingiunta ai ricorrenti,
in qualità di proprietari del terreno, la demolizione delle
opere abusive rilevate presso tale terreno, nonché (con
ulteriore ricorso straordinario) del verbale di accertamento
di ottemperanza all’ordinanza di demolizione impugnata,
elevata dalla Polizia Municipale dello stesso Comune, prot.
n. 1372 del 14.10.2010 .
...
Analogamente, risulta priva di pregio la censura con la
quale i ricorrenti hanno lamentato la circostanza che il
manufatto in esame ricadrebbe in un'area già caratterizzata
da molteplici insediamenti abitativi.
Infatti -anche a voler prescindere dal rilievo che
l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe,
comunque, venir meno la necessità di acquisire
preventivamente i titoli abilitativi normativamente
richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento
edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la
già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad
opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in
fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano
giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa
ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la
legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni
non deturpino esteriormente l'ambito protetto” (Cons. Stato,
Sez. VI, 06.05.2013, n. 2410).
Con riferimento alla asserita sproporzione della sanzione
demolitoria (che, secondo i ricorrenti, rappresenterebbe un
onere eccessivo rispetto alla possibilità di applicare una
sanzione pecuniara), anche in tale direzione le censure
degli interessati si palesano infondate, giacché “l’art.
9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del D.P.R.
380/2001) stabilisce che per gli interventi di
ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione
la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia
possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente
il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché
irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria” (Consiglio
di Stato, Sez. II, 01.06.1994, n. 541, vds. anche Sez.
II, 17.04.2013 n. 2192/2011).
Non appare fondata, inoltre, l’asserita carenza
motivazionale, atteso che la contestata ordinanza di
demolizione costituisce atto necessario della procedura
sanzionatoria, ossia un atto dovuto e rigidamente vincolato,
non implicante valutazioni discrezionali, e consequenziale
all'accertata abusività della costruzione, motivo per cui
non deve essere necessariamente preceduta dall'avviso
dell'avvio del procedimento, e non esige una specifica e
puntuale motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività
dell'opera edilizia (Cons. di Stato, Sez. VI, 24.09.2010, n. 7129), e ciò anche senza considerare che l'atto
impugnato è esaustivamente motivato, perché ha indicato
tutti i presupposti di fatto su cui si fonda, oltre, sia
pure genericamente, la normativa applicata
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 25.02.2016 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
37, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che
“resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in
relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e
dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”, e
da tale norma discende che, poiché la denuncia di inizio
attività è utilizzabile solo per gli interventi che siano
conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente, soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza
o difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi
alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione
la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con
la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione
della demolizione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento comunale 20.07.2006
n. 16/06 di rimozione di interventi eseguiti in assenza di
permesso di costruire e rimessa in pristino dello stato dei
luoghi, nonché di ogni altro atto presupposto o conseguente,
in particolare del diniego di autorizzazione delle opere
eseguite in variante di cui al permesso di costruire prot.
n. 7110 notificato il 13/07/2006.
...
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase
cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere
respinto.
Nel caso all’esame con deliberazione consiliare n. 2 del
21.02.2005, è stato introdotto l’art. 4.32 delle norme
tecniche di attuazione che ha disciplinato le dimensioni,
l’altezza e le modalità costruttive delle strutture
pompeiane, prescrivendo la necessità del mantenimento della
struttura orizzontale e non inclinata delle travi superiori.
La struttura realizzata in difformità di quanto assentito
non è piana ed ha altezze superiori rispetto a quelle
ammesse dallo strumento urbanistico.
Pertanto anche a voler qualificare la medesima come
pertinenziale, nondimeno deve trovare applicazione la
sanzione della demolizione, in quanto l’art. 37, comma 6,
del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che “resta comunque
salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione
all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di
cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di
conformità di cui all'articolo 36”, e da tale norma
discende che, poiché la denuncia di inizio attività è
utilizzabile solo per gli interventi che siano conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente,
soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o
difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi
alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione
la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con
la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione
della demolizione (ex pluribus cfr. Tar Veneto, Sez.
II, 14.03.2012, n. 371).
Parimenti priva di fondamento è la censura di violazione
dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, di cui al
secondo motivo, in quanto il diniego di sanatoria dà conto
nella motivazione delle ragioni del mancato accoglimento
delle osservazioni presentate, quando afferma che l’art. 22,
comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 241, contrariamente a quanto
preteso dai ricorrenti, presuppone necessariamente la
conformità agli strumenti urbanistici.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 25.02.2016 n. 211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
ius receptum l'affermazione secondo cui non sussiste obbligo
per l’amministrazione di provvedere alla comunicazione
prevista dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di
irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, poiché il
procedimento sanzionatorio non prevede la possibilità di
valutazioni discrezionali ma si risolve in un mero
accertamento tecnico sull’esistenza delle opere abusivamente
realizzate.
---------------
Non
può aver rilievo la circostanza che le opere abusive in
questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto
[...] il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad
ingenerare un legittimo affidamento del privato.
Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed
edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo,
atteso che la legge non lo sottopone a termini di
prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di
illiceità permanente, ossia una situazione di fatto
attualmente contra jus.
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta
alla tutela del territorio provvede alla repressione degli
illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica
richiedono alcuna particolare motivazione volta ad
evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che
impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi
ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio
imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi
edilizi si connota come un preciso obbligo
dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo.
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato
l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed
averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non
può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato
dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che
rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in
presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati
dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum
jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conseguenza che se
l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione
non emana un atto «a distanza di tempo» dall’abuso, ma
reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente e
non esercita alcuna discrezionalità.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 5
del 04.06.2007.
...
Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
Con il primo motivo parte ricorrente deduce l'omessa
comunicazione di avvio del procedimento da parte
dell'amministrazione comunale intimata.
La doglianza non è meritevole di pregio.
Costituisce ius receptum l'affermazione, condivisa
dal Collegio, secondo cui non sussiste obbligo per
l’amministrazione di provvedere alla comunicazione prevista
dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di irrogazione di
sanzioni per abusi edilizi, poiché il procedimento
sanzionatorio non prevede la possibilità di valutazioni
discrezionali ma si risolve in un mero accertamento tecnico
sull’esistenza delle opere abusivamente realizzate (cfr.,
tra le tante, da ultimo, C.G.A., SS.RR., n. 47 del 2016).
Nel caso di specie, peraltro, parte ricorrente non ha
offerto elementi significativi in ragione dei quali poter
ritenere che ove la pretesa partecipativa si fosse
realizzata il provvedimento avrebbe potuto avere un diverso
contenuto dispositivo.
Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la
violazione del principio del legittimo affidamento
asseritamente ingenerato dall'amministrazione sul rilievo
che l'immobile, al momento dell'adozione del provvedimento,
risultava (in tesi) costruito da oltre vent'anni, oltreché
destinato a civile abitazione e sottoposto agli adempimenti
fiscali e catastali previsti dalla legge.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio di dover aderire, in continuità con la
giurisprudenza della Sezione, alla tesi secondo cui «non
può aver rilievo la circostanza che le opere in questione
sono state realizzate da parecchi anni, in quanto [...] il
mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare
un legittimo affidamento del privato. Il potere di irrogare
sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può
essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo
sottopone a termini di prescrizione o di decadenza,
riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia
una situazione di fatto attualmente contra jus (cfr., tra le
diverse C.G.A., SS.RR. n. 1225 del 2015 e giurisprudenza
amministrativa ivi richiamata). Né i provvedimenti
attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del
territorio provvede alla repressione degli illeciti
amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono
alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le
specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di
dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a
comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto
al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si
connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la
quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr.
C.G.A., Sezioni riunite, 29.11.2011, n. 1701; 29.01.2013, n.
1039/12)».
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato
l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed
averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non
può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato
dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che
rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in
presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati
dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare
secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore
conseguenza che se l’Autorità emana un provvedimento
repressivo di demolizione non emana un atto «a distanza
di tempo» dall’abuso, ma reprime una situazione
antigiuridica ancora sussistente (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. IV, 16.04.2010, n. 2160) e non esercita alcuna
discrezionalità (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 26.05.2015,
n. 608/14).
Da ultimo, la censura involgente la statuizione del
provvedimento inerente alla futura acquisizione
dell'immobile è del tutto generica e comunque infondata
considerato che l'amministrazione si è limitata a richiamare
la fonte attributiva del potere di acquisizione gratuita,
subordinando la stessa alla notificazione dell'accertamento
inottemperanza all'ingiunzione demolitoria.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve
essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 23.02.2016 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comune che, nell'esercizio della propria attività
istituzionale in materia edilizia, richiede alla competente
Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del
Territorio) le valutazioni degli incrementi del valore
venale degli immobili, al fine di poter procedere alla
liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli
abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di
procedimenti per l'accertamento di conformità, è tenuto a
rifondere alla stessa i relativi costi sostenuti di perizia.
---------------
Non può il Comune validamente
sostenere che l’onerosità del servizio potrebbe recare un
eventuale depotenziamento dell'attività di controllo e
vigilanza degli Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono
all’opportunità politica delle scelte operate dal
legislatore, potendosi validamente sostenere anche il
contrario, ossia che la gratuità dei servizi in commento
comporterebbero il depotenziamento delle agenzie fiscali.
---------------
Ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica, proposto dal
COMUNE DI SANT’OLCESE, in persona del Sindaco pro-tempore
Sig. An.Ca., per l'annullamento delle note prot. n.
14343/2013/1991/2013 del 19/02/2013; prot. n. 2850.13 del
11/03/2013; prot. n. 2850/13/3842 del 03/04/2013; prot. n.
3842/13/6872 del 13/06/2013; prot. n. 2407/2013/2652-13;
prot. n. 2924/2013/3009; prot. n. 3841; prot. n.
5832/13/6890; e di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
consequenziale, compresa in parte qua, della
Convenzione triennale per gli esercizi 2012-2014
sottoscritta il 30.07.2012 tra l'Agenzia delle Entrate ed il
Ministero dell'Economia e delle Finanze.
...
Premesso:
Il Comune di Sant’Olcese, nell'esercizio della propria
attività istituzionale in materia edilizia, richiede
ordinariamente alla competente Agenzia delle Entrate (quale
incorporante dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater
del D.L. 06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di
conversione 07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli
incrementi del valore venale degli immobili, al fine di
poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie
previste per gli abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta
nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di
conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R
06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R.
Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con note di analogo contenuto, l’Ufficio Provinciale della
predetta Agenzia dava riscontro a diverse richieste
(riferite a distinti interventi edilizi), richiamando il
disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art. 64, comma 3-bis
(comma aggiunto dall'art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16,
convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44),
ai sensi del quale "…l'Agenzia del territorio è
competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare
e tecnico-estimative richieste dalle Amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse
strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante
accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della
legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali
accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella
Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione
triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e
l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la
necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici
accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei
costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel
considerare tale attività istruttoria una funzione
istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un
simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare
gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013,
comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad
espletare le attività valutative richieste, nelle more del
perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro
corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo
del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le
direttive in materia, emanate dalla competente Direzione
Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi
Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione
per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe,
insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio
gravame ai seguenti motivi di diritto:
1. violazione e/o falsa applicazione del disposto dell'art. 64,
comma 3-bis, del D.Lgs. n. 300 del 1999; violazione
dell'art. 23 della Costituzione; violazione del principio di
riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali
imposte.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia,
tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini
dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni
edilizie o procedimenti di accertamento di conformità,
rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali
attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n.
380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss.
della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale
evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle
prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni,
come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione
Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del
03.05.2011.
Il disposto di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del
D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferito
alle sole attività ulteriori rispetto a quelle,
istituzionali, già previste da anteriori disposizioni
normative… Diversamente, da un punto di vista
logico-sistematico la disposizione in questione risulterebbe
del tutto inutile. In secondo luogo, la previsione di legge
in esame non predetermina alcun criterio, né alcun limite o
controllo, idonei a circoscrivere l'ambito di
discrezionalità dell’Amministrazione statale nel commisurare
l'importo asseritamente dovuto e, ancor prima, la sfera di
applicazione della ritenuta onerosità delle prestazioni in
materia di valutazioni immobiliari. Ed anzi, la stessa
entità degli oneri ..., fissata in virtù di una semplice
convenzione tra Ministero dell’Economia e Agenzia del
Territorio, costituisce implicita dimostrazione
dell’assoluta discrezionalità -al limite dell’arbitrio- in
base alla quale l'imposizione in esame potrebbe essere
determinata".
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della
suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la
necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in
cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di
attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come
l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse
della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime
ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio
della "riserva di legge".
2. violazione dell'art. 97 della Costituzione; violazione del
principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa;
eccesso di potere; contraddittorietà; manifesta esosità;
assenza di causa.
Le pretese avanzate dall’Agenzia delle Entrate
contrasterebbero con il principio di ragionevolezza, poiché
subordinano il rilascio di atti concernenti attività
istituzionali al previo pagamento di “indebite somme di
denaro”. Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del
TAR Liguria (sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004),
con la quale i giudici amministrativi si sono espressi in
materia di provvedimenti tariffari in relazione a
prestazioni rese dalla ASL nell'ambito di procedimenti di
competenza del Comune, resi nell'interesse di singoli o
della collettività.
Lamenta, inoltre, la "manifesta esosità" delle
pretese economiche, affermando come, "nonostante la loro
qualificazione in termini di mero rimborso-costi, la
consistenza degli importi richiesti da parte dell’Agenzia
-oltre 400 euro al giorno per persona- è tale da comportare
che detti emolumenti debbano necessariamente intendersi come
vere e proprie retribuzioni (per quanto eccessivamente
sproporzionate) dell'attività svolta".
3. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all'art.
8, comma 1, del D.Lgs. n. 300 del 1999.
Il comportamento dell’Agenzia non sarebbe in linea con la
menzionata disposizione, ove si fa riferimento alle Agenzie
quali strutture che svolgono attività di interesse
nazionale, al servizio delle Amministrazioni pubbliche.
4. Violazione delle disposizioni in materia di vigilanza
urbanistica e di controllo dell'abusivismo edilizio.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente lamenta
il fatto che sottoporre "ad oneri particolarmente gravosi
per le Amministrazioni comunali l'attività di irrogazione
delle sanzioni in materia di abusivismo edilizio ha come
riflesso immediato il depotenziamento - e lo svilimento -
dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali".
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui
al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art.
64 del D.Lgs. n.300/1999) avrebbe una portata più ampia di
quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive
l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle
sole attività "non rientranti nella normale attività
istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta
modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più
generale intervento, che ha eliminato la possibilità per
l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale",
facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a
favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per
il carattere di generalità con il quale ha inteso
regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme
la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove
competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere
generale ed istituzionale della nuova previsione normativa
non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi
nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore
quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione
del principio di specialità. Pertanto, continua il
Ministero, laddove previgenti norme espressamente dispongano
che le valutazioni estimative dell'Agenzia vengono svolte
gratuitamente, queste continueranno a dispiegare i propri
effetti (come accade, ad esempio, per le attività in favore
del concessionario della riscossione in relazione ai beni
oggetto di incanto). Con riferimento all'ipotesi di cui
trattasi, invece, non si rinvengono pregresse previsioni
normative, che espressamente prevedano la gratuità del
servizio.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità
della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene
osservato come il principio di riserva di legge, di cui
all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve
contenere criteri e indicazioni per la determinazione
dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la
convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il
rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che
l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio
della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in
data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il
Ministero richiama i provvedimenti che hanno condotto
all’individuazione, in seno alla predetta Convezione, dei
criteri di determinazione dei costi da chiedere a rimborso.
Precisa, in merito, che la quantificazione dei costi è
effettuata sulla base di due fattori: il “costo standard
per giorno-uomo” e il numero di “giorni-uomo”
necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende
dal grado di complessità della valutazione e, per questo,
stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro
423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale,
considerando le voci di costo che ragionevolmente sono
necessarie per garantire lo svolgimento "normale"
dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto
sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e
immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella
propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera
indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali
voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì,
spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di
ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe
ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato
costo standard.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il
Ministero giudica generica ed apodittica la doglianza
relativa alla presunta inosservanza del citato articolo 8.
Inoltre, rammenta come, nel sistema di riforma delineato dal
D.Lgs. n. 300/1999, alle agenzie fiscali è stata riservata
una disciplina specifica, nell’ambito della quale l’art. 10
dello stesso decreto legislativo prevede che "le agenzie
fiscali sono disciplinate, anche in deroga agli articoli 8 e
9, dalle disposizioni del Capo II del Titolo V del presente
decreto ...".
Infine, in ordine all’ultima censura, viene rilevato
“come l'attività di controllo e di vigilanza demandata
dall'ordinamento non possa subire depotenziamenti o
svilimenti a causa delle modalità fissate dal medesimo
ordinamento per giungere alla repressione degli illeciti ed
alla correlata irrogazione delle sanzioni”.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente tenta di delimitare l’alveo di
applicazione del comma 3-bis dell’art. 64, D.Lgs. n.
300/19999, ai soli corrispettivi dovuti per l'erogazione di
servizi resi non nell'interesse della collettività ma di
singoli, escludendo quelli connessi alle attività
istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su cui si
controverte, concernenti la valutazione immobiliare e
tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001,
n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n.
16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni
pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero
dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività
dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L.
02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge
26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis,
è quello di limitare l'onerosità degli interventi
dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia
eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente
trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre
Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di
attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che
imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della
citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente
orientata della stessa, nel rispetto del principio della
riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza
richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno
predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a
quantificare la misura della prestazione patrimoniale
imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità
dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità
dell'importo dovuto. Il citato comma 3-bis, invece, non
predeterminerebbe alcun criterio, lasciando al potere
discrezionale dell’Amministrazione la possibilità di
determinare unilateralmente il livello di imposizione, il
cui concreto esercizio, sempre secondo il ragionamento della
parte ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto
sì che fosse impossibile commisurare la prestazione
pecuniaria alla quantità e qualità del servizio reso
dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in commento,
offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte
avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente
infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa
Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare, non è in dubbio che le
prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate
(ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus
delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva
relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione.
Trattasi di prestazioni che (analogamente alle tariffe
richieste da talune Amministrazioni per le attività di
consulenza e supporto tecnico nei confronti dei privati e
degli enti locali
– vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n.
1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza
della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua
volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono
determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui
adozione non concorre la volontà della controparte, la quale
si limita ad avvalersi di un servizio normativamente
riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in
contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria",
quando questa è istituita da un atto di autorità
(sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del
soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia
concorso (sent.
27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella
giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto
alle fattispecie originariamente determinate, allorché
vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le
tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella
suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto
in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la
richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia
correlata ad un atto privato. Quando si
tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica"
e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni
della vita", la determinazione delle tariffe deve
assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è
meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di
scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno
essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi
unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a
questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario
della prestazione viene ad identificare come obbligatorie
anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano
connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di
monopolio.
Sicché, quel che viene in considerazione
sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale
corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto
(sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso
di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti
dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato
a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione
obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia",
è necessario verificare se tale parametro rispetti il
principio della riserva relativa di legge, la quale non
esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da
cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti
e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita
"in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994,
e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve
ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa
indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli
sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità
della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano
desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero
dalla composizione e dal funzionamento degli organi
competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e
n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad
evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie, dalla citata norma
emergono, non solo l'espressa compiuta identificazione dei
soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché
dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e
controlli sufficienti a impedire che il potere di
imposizione sconfini nell'arbitrio.
È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il
rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui
determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa
norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata
competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività
nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata
ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella
valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano
motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti
dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta
ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata
Convenzione ministeriale, che si è occupata della
determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della
Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche
il secondo ordine di censure, non essendo richiesto all’ente
impositore una particolare motivazione in ordine alla
quantificazione dell’importo a rimborso, essendo
sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che siano stati
compiutamente indicati i costi, che direttamente o
indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle
attività richieste.
Peraltro, l’importo a rimborso, nella fase transitoria,
ossia in attesa della stipula dei menzionati accordi, non
può essere giudicato irragionevolmente oneroso, dal momento
che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici territoriali una
soglia massima commisurata al 50% della sanzione.
Assolutamente infondate appaiono il terzo e quarto
motivo di diritto.
In particolare, l'art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 300/1999,
ritenuto essere stato asseritamente violato, può, invero,
essere derogato per espressa previsione dell’art. 10, ove è
specificato che “le agenzie fiscali sono disciplinate,
anche in deroga agli articoli 8 e 9, dalle disposizioni del
Capo II del Titolo V del presente decreto legislativo ed
alla loro istituzione si provvede secondo le modalità e nei
termini ivi previsti”.
Con riferimento all’ultimo motivo di diritto,
non può il Comune validamente sostenere che
l’onerosità del servizio potrebbe recare un eventuale
depotenziamento dell'attività di controllo e vigilanza degli
Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono
all’opportunità politica delle scelte operate dal
legislatore, potendosi validamente
sostenere anche il contrario, ossia che la gratuità dei
servizi in commento comporterebbero il depotenziamento delle
agenzie fiscali.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba
essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 03.02.2016 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
spese conseguenti alle richieste
comunali alla competente Agenzia delle Entrate (quale
incorporante dell'Agenzia del Territorio) circa le
valutazioni degli incrementi del valore venale degli
immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle
sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero
l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità, sono in capo
all'Amministrazione comunale stessa.
---------------
Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del
"rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", la menzionata
pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato la
quale non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo
chiaramente finalizzata al ristoro degli oneri sopportati
dall’Agenzia.
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica,
integrato da motivi aggiunti, proposto dal COMUNE DI GENOVA,
in persona del Sindaco Prof. Ma.Do., per l'annullamento,
quanto al ricorso principale:
1. delle note dell'Ufficio Provinciale di Genova
dell’Agenzia delle Entrate, in materia di valutazioni
immobiliari effettuate dalla citata Agenzia nel contesto
delle "attività sanzionatorie" esercitate dal Comune
di Genova in materia di abusi edilizi (in particolare, delle
note prot. n. 1437/13/1837-13 del 15/02/2013; prot. n.
1440/13/1835-13 del 15/02/2013; prot. n. 1442/13/1825/2013
del 15/02/2013; prot. n. 1474/13/1916/2013 del 18/02/2013;
prot. n. 2205/13/2826 del 02/04/2013; prot. n. 1474/3915 del
03/04/2013; prot. n. 3825/13/5942 del 24/5/2013; prot. n.
3823/13/5943 del 24/05/2013);
2. degli atti connessi e, in particolare, per l'annullamento
in parte qua della "Convenzione Triennale per gli
Esercizi 2012/2014", stipulata tra il Ministero
dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia del Territorio;
quanto ai relativi motivi aggiunti:
3. delle "note di addebito" notificate dall'Agenzia
delle entrate, Direzione Centrale Amministrazione,
Pianificazione e Controllo (in particolare, delle note prot.
n. 24249 del 18/06/2013; prot. n. 26484 e n. 26487 del
04/07/2013; prot. n. 32196 del 05/09/2013; prot. n. 33322,
n. 33304, n. 33320 e n. 33305 del 18/09/2013);
4. delle ulteriori comunicazioni dell'Agenzia delle entrate,
Ufficio Provinciale di Genova, Settore Gestione Banche Dati
e Servizi (in particolare, delle note prot. n. 4461/13/7783
del 05/07/2013; prot. n. 3877/13/7799 e n. 7209/13/7789 del
08/07/2013; prot. n. 8391/13/8615 del 30/07/2013; prot. n.
8575/13/8796 del 02/08/2013; prot. n. 5945/2013/9440 del
26/08/2013; prot. n. 6395/13/9394 e n. 7211/2013/9444 del
26/08/2013; prot. n. 74749/13/9966 del 12/09/2013; prot. n.
7724/10393 del 25/09/2013; prot. n. 8389/13/10505, n.
8390/13/10493 e n. 10097/13/10511 del 27/09/2013; prot. n.
6439/13/10729 del 02/10/2013; prot. n. 8387/13/10751 del
03/10/2013; prot. n. 8034/2013/10828 del 04/10/2013; prot.
n. 10727/13/11091, n. 10580/2013/11104 e n. 9742/2013/11101
del 10/10/2013).
...
Premesso:
Il Comune di Genova, nell'esercizio della propria attività
istituzionale in materia edilizia, richiede ordinariamente
alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante
dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater del D.L.
06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di conversione
07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli incrementi del
valore venale degli immobili, al fine di poter procedere
alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli
abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di
procedimenti per l'accertamento di conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R
06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R.
Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con una serie di note di analogo contenuto, l’Ufficio
Provinciale della predetta Agenzia dava riscontro a diverse
richieste (riferite a distinti interventi edilizi),
richiamando il disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art.
64, comma 3-bis (comma aggiunto dall'art. 6 del D.L.
02.03.2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla Legge
26.04.2012, n. 44), ai sensi del quale "…l'Agenzia del
territorio è competente a svolgere le attività di
valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle
Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad
esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate
mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15
della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni.
Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella
Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione
triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e
l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la
necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici
accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei
costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel
considerare tale attività istruttoria una funzione
istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un
simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare
gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013,
comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad
espletare le attività valutative richieste, nelle more del
perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro
corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo
del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le
direttive in materia, emanate dalla competente Direzione
Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi
Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione
per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe,
insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio
gravame ai seguenti motivi di diritto:
1. violazione o falsa applicazione art. 23 della Costituzione;
violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis,
D.Lgs. 30/07/1999, n. 300.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia,
tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini
dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni
edilizie o procedimenti di accertamento di conformità,
rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali
attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n.
380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss.
della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale
evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle
prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni,
come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione
Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del
03.05.2011.
La previsione di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del
D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferita
alle sole attività ulteriori rispetto a quelle già previste
da precedenti norme di legge e, quindi, non rientranti nella
normale attività istituzionale dell'Agenzia. Ciò per almeno
due ordini di ragioni:
- una prima ragione è di ordine logico-sistematico
giacché, in caso contrario, il citato art. 3-bis [rectius
comma 3-bis], nella parte in cui attribuisce la competenza
alle valutazioni immobiliari e tecnico-estimative, sarebbe
stato introdotto nell'art. 64 D.Lgs. n. 300/1999 del tutto
inutilmente, trattandosi di previsioni già contemplate da
precedenti norme di legge;
- la seconda ragione deve essere invece individuata
nella necessità di fornire un’interpretazione dell'art. 64,
comma 3-bis, che sia conforme a Costituzione.
A tale ultimo proposito, il Comune rammenta come le norme di
legge, che contemplano l’imposizione di prestazioni
patrimoniali, al fine di soddisfare il principio della
riserva di legge ex art. 23 Costituzione, devono contenere
un minimo di elementi necessari alla determinazione delle
prestazioni. La norma in commento, invece, non predetermina
alcun criterio, costituendo “implicita dimostrazione
dell'assoluta discrezionalità con la quale l'imposizione in
esame può essere determinata”.
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della
suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la
necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in
cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di
attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come
l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse
della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime
ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio
della "riserva di legge".
Nell’ipotesi in cui non si ritenesse corretta
l'interpretazione del sopra citato comma 3-bis dell'art. 64
D.Lgs. n. 300/1999, viene chiesto di sollevare preliminare
questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale
della suddetta norma, per la prospettata violazione
dell'art. 23 della Costituzione e del principio della
riserva relativa di legge.
2. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis,
D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo; violazione del
principio di ragionevolezza, violazione art. 3 della
Costituzione.
Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del TAR Liguria
(sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004), con la
quale i giudici amministrativi si sono espressi in materia
di provvedimenti tariffari in relazione a prestazioni rese
dalla ASL nell'ambito di procedimenti di competenza del
Comune, resi nell'interesse di singoli o della collettività.
In particolare, viene richiamato il principio, espresso in
tale pronuncia, secondo il quale le prestazioni rese
dall'ente pubblico nell'interesse di un privato devono far
carico al privato istante, in quanto beneficiario
dell'attività. Il Comune sostiene che "quand'anche il
pagamento debba intendersi dovuto, non si vede la ragione
per cui non si debba fare applicazione del principio
individuato dalla richiamata sentenza: l'eventuale costo
della prestazione ... dovrebbe al più far carico unicamente
allo stesso privato ... in quanto beneficiario
dell'attività, mentre appare del tutto ingiustificato porre
l'onere in questione in capo al Comune".
Inoltre, secondo l'ente locale, "sia nell’ipotesi in cui
l'onere venisse posto in capo al Comune sia allorché venisse
posto in capo al privato, la sanzione pecuniaria
predeterminata per legge verrebbe comunque irragionevolmente
modificata dall'obbligo di pagare un’ulteriore somma … non
determinata per legge ma lasciata all'arbitrio
dell'Amministrazione finanziaria”.
Anche in questo caso viene chiesto di sollevare preliminare
questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale
della citata norma, per la prospettata violazione:
- del principio di ragionevolezza e dell'art. 3 della
Costituzione (laddove dalla sua interpretazione se ne
dovesse ricavare come facente capo al Comune e non al
privato l’onere di rifondere l’Agenzia dei costi sostenuti
per l’attività in esame);
- dell’art. 23 della Costituzione e del correlato principio
di determinatezza della sanzione.
3. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis,
D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo.
Gli atti gravati violerebbero tale norma, poiché l'Agenzia
ha chiesto il rimborso dei costi anche in assenza della
stipula dell'accordo, che, invero, e a norma di legge,
dovrebbe costituire il presupposto per esercitare la citata
pretesa economica.
4. Irragionevolezza e contraddittorietà intrinseca dell'art. 64,
comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999; violazione dell'art. 3
della Costituzione; violazione del principio di leale
collaborazione tra Enti pubblici; violazione art. 118 della
Costituzione; illegittimità parziale della Convenzione
triennale per gli esercizi 2012-2014 stipulata.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente
censura, in primo luogo, la contraddittorietà della norma,
che, da una parte, stabilisce che l'attività svolta
dall'Agenzia in favore dei Comuni debba essere regolata
mediante accordi da stipulare con le singole Amministrazioni
locali e, dall'altro, rimanda, per la determinazione dei
costi, alla stipula di una Convenzione tra Agenzia e
Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Il sistema delineato costituirebbe, inoltre, una violazione
del principio di leale collaborazione tra enti, come
ricavabile dall’art. 118 della Costituzione, poiché
determina un’immotivata riduzione delle risorse attribuite
ai Comuni per lo svolgimento delle attività di vigilanza in
materia edilizia.
Si duole, poi, del fatto che la "determinazione dei costi
contenuti nella Convenzione Triennale stipulata tra M.E.F.
ed Agenzia ... è priva di qualsiasi motivazione e di
qualsiasi collegamento a qualsiasi dato oggettivo certo. Si
tratta invero della determinazione di un importo che appare
elevato e sproporzionato e che sembra andare bel oltre la
semplice individuazione dei costi sostenuti, rappresentando
piuttosto un vero prezzo che l'Amministrazione Finanziaria
pretende, così come potrebbe pretendere un qualsiasi
operatore privato, trasformando di fatto l’attività svolta
in una vera e propria attività commerciale, avente un
effetto lucrativo ...".
In merito, il Comune conclude evidenziando che, se potesse
rivolgersi al mercato per una simile attività, otterrebbe
prezzi più vantaggiosi, considerando l’onerosità dei
parametri individuati in sede di Convenzione M.E.F.-
Agenzia, laddove è previsto che il "costo standard per
giorno-uomo" è pari a 423,00 euro (da moltiplicare per i
''giorni-uomo di prodotto richiesto").
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui
al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art.
64 del D.Lgs. n. 300/1999) avrebbe una portata più ampia di
quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive
l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle
sole attività "non rientranti nella normale attività
istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta
modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più
generale intervento, che ha eliminato la possibilità per
l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale",
facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a
favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per
il carattere di generalità con il quale ha inteso
regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme
la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove
competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere
generale ed istituzionale della nuova previsione normativa
non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi
nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore
quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione
del principio di specialità.
Pertanto, continua il Ministero, laddove previgenti norme
espressamente dispongano che le valutazioni estimative
dell'Agenzia vengono svolte gratuitamente, queste
continueranno a dispiegare i propri effetti (come accade, ad
esempio, per le attività in favore del concessionario della
riscossione in relazione ai beni oggetto di incanto). Con
riferimento all'ipotesi di cui trattasi, invece, non si
rinvengono pregresse previsioni normative, che espressamente
prevedano la gratuità del servizio.
In tale ottica, privo di pregio sarebbe il richiamo della
nota prot. n. 27110 del 03.05.2011, che faceva riferimento
alla gratuità delle prestazioni valutative eseguite
nell'ambito degli abusi edilizi, giacché la stessa era stata
emanata in epoca precedente rispetto alla novella operata
dal D.L. n. 16/2012.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità
della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene
osservato come il principio di riserva di legge, di cui
all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve
contenere criteri e indicazioni per la determinazione
dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la
convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il
rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che
l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio
della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in
data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il
Ministero giudica inconferente il richiamo alla citata
sentenza del TAR Liguria, poiché quest’ultima fa riferimento
ad attività effettuate su istanza di un privato. La
questione in esame, invece, prescinderebbe da istanze del
privato.
Né sarebbe corretta l'osservazione del Comune, secondo cui "la
sanzione pecuniaria predeterminata per legge verrebbe
modificata”, in quanto la somma da versare per
l'espletamento dell'attività valutativa non ha rilevanza
sanzionatoria, rivestendo la funzione di ristorare
l'Amministrazione finanziaria dei costi sostenuti.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il
Ministero puntualizza che gli accordi, cui fa riferimento il
più volte citato comma 3-bis, sono funzionali alla
regolamentazione delle attività da svolgere e non alla
determinazione dei costi da rimborsare all'Agenzia, che è,
invece, rimessa (dalla medesima disposizione) alla
Convenzione M.E.F. – Agenzia. Per questo motivo, nella
corrispondenza intercorsa con l'ente locale, l’Agenzia
avrebbe legittimamente preteso il rimborso dei costi, pur in
assenza dell'accordo con l’ente locale.
Per quanto riguarda, infine, il quarto ordine di
doglianze, il Ministero richiama i provvedimenti che
hanno condotto all’individuazione, in seno alla predetta
Convezione, dei criteri di determinazione dei costi da
chiedere a rimborso. Precisa, in merito, che la
quantificazione dei costi è effettuata sulla base di due
fattori: il “costo standard per giorno-uomo” e il
numero di “giorni-uomo” necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende
dal grado di complessità della valutazione ed per questo
stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro
423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale,
considerando le voci di costo che ragionevolmente sono
necessarie per garantire lo svolgimento "normale"
dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto
sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e
immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella
propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera
indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali
voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì,
spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di
ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe
ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato
costo standard.
Con nota prot. n. 37495 in data 29.10.2013 il Comune di
Genova ha trasmesso all’Agenzia delle Entrate ricorso per
motivi aggiunti avverso gli atti, in epigrafe indicati,
concernenti note di addebito dell’Agenzia e comunicazioni,
sopraggiunte in data successiva alla proposizione del
ricorso. Con tale atto l’ente locale non introduce elementi
sostanziali di novità rispetto al ricorso straordinario
principale. L’Ufficio finanziario ha provveduto a
trasmettere a questo Consiglio di Stato i menzionati motivi
aggiunti, rimettendosi alle eccezioni già formulate nella
relazione con la quale è stato chiesto il parere a questo
Consiglio di Stato.
Con nota prot. n. 257224 in data 11.08.2015 il Comune di
Genova ha inviato a questo Consiglio di Stato (e per
conoscenza all'Agenzia delle Entrate e al Ministero
dell'Economia e delle Finanze) le proprie repliche alla
relazione ministeriale, alle quali non sono seguite
osservazioni da parte del Ministero riferente.
In esse, con riferimento al primo motivo di diritto, viene
evidenziato come non risulti contestato dalla richiamata
relazione la natura di prestazione patrimoniale "imposta"
(soggetta a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23
della Costituzione) delle prestazioni economiche richieste
dall'Agenzia delle Entrate, in costanza del fatto che le
stesse sono somme richieste in ragione di attività
istituzionale obbligatoria. Tali, importi, pertanto,
sarebbero stati ingiunti in violazione del sopra richiamato
principio costituzionale, in costanza di una norma di legge
(art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999) che non
predetermina alcun criterio, né alcun limite in ordine alla
discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare
l'entità dell'importo dovuto. Del tutto inconferenti,
inoltre, sarebbero le argomentazioni del Ministero
concernenti la successione delle leggi nel tempo, rispetto
al dedotto vizio di violazione dell'art. 23 della
Costituzione.
In merito alle eccezioni ministeriali relative al secondo
motivo di diritto (riguardante l’attinenza al caso di specie
della citata sentenza del Tar Liguria), sottolinea, fra
l’altro, come il procedimento di "sanatoria" richieda
necessariamente l'istanza del privato. Simili considerazioni
vengono effettuate anche per quanto concerne i procedimenti
sanzionatori, avviati in seguito ad attività illecite di
singoli privati.
Nel ribadire quanto, nella sostanza, già dedotto nel ricorso
principale, con riferimento al terzo motivo di diritto,
evidenzia, in ordine al quarto motivo di doglianza, che il
Ministero ha omesso di contestarne il merito, peraltro,
introducendo ex post un apparato motivazionale teso a
dimostrare le modalità di determinazione della tariffa
applicata.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente, con articolate argomentazioni,
tenta di delimitare l’alveo di applicazione del comma 3-bis
dell’art. 64, D.Lgs. n. 300/1999, ai soli corrispettivi
dovuti per l'erogazione di servizi resi non nell'interesse
della collettività ma di singoli, escludendo quelli connessi
alle attività istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su
cui si controverte, concernenti la valutazione immobiliare e
tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001,
n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n.
16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni
pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero
dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per
l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività
dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L.
02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge
26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis,
è quello di limitare l'onerosità degli interventi
dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia
eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente
trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre
Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di
attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che
imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
A sostegno dell’impostazione ermeneutica formulata dal
ricorrente, quest’ultimo rammenta che, prima dell’intervento
normativo in parola, la stessa Agenzia aveva fornito
indicazione in tal senso nella citata nota prot. n. 27110
del 03.05.2011.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della
citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente
orientata della stessa, nel rispetto del principio della
riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza
richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno
predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a
quantificare la misura della prestazione patrimoniale
imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità
dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità
dell'importo dovuto.
Il citato comma 3-bis, invece, non predeterminerebbe alcun
criterio, lasciando al potere discrezionale
dell’Amministrazione la possibilità di determinare
unilateralmente il livello di imposizione, il cui concreto
esercizio, sempre secondo il ragionamento della parte
ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto sì che
fosse impossibile commisurare la prestazione pecuniaria alla
quantità e qualità del servizio reso dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in commento,
offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte
avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente
infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa
Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare, non è in dubbio che le
prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate
(ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus
delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva
relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione.
Trattasi di prestazioni che (analogamente
alle tariffe richieste da talune Amministrazioni per le
attività di consulenza e supporto tecnico nei confronti dei
privati e degli enti locali
– vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n.
1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza
della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua
volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono
determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui
adozione non concorre la volontà della controparte, la quale
si limita ad avvalersi di un servizio normativamente
riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in
contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria"
quando questa è istituita da un atto di autorità
(sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del
soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia
concorso (sent.
27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella
giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto
alle fattispecie originariamente determinate, allorché
vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le
tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella
suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto
in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la
richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia
correlata ad un atto privato. Quando si
tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica"
e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni
della vita", la determinazione delle tariffe deve
assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è
meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di
scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno
essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi
unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a
questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario
della prestazione viene ad identificare come obbligatorie
anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano
connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di
monopolio.
Sicché, quel che viene in considerazione
sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale
corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto
(sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso
di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti
dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato
a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione
obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti
dall'Agenzia",
è necessario verificare se tale parametro rispetti il
principio della riserva relativa di legge, la quale non
esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da
cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti
e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita
"in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994,
e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve
ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa
indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli
sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità
della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano
desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero
dalla composizione e dal funzionamento degli organi
competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e
n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad
evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie, dalla citata norma
emergono non solo l'espressa compiuta identificazione dei
soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché
dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e
controlli sufficienti a impedire che il potere di
imposizione sconfini nell'arbitrio.
È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il
rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui
determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa
norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata
competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività
nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata
ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella
valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano
motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti
dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta
ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata
Convenzione ministeriale, che si è occupata della
determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della
Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Alla luce di quanto sopra, deriva, quindi, che risulta
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla parte ricorrente, in ordine
alla pretesa violazione dell’art. 23 della Costituzione ad
opera dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche
il secondo ordine di censure e la conseguente questione di
costituzionalità.
Come evidenziato, non assume alcun rilievo,
ai fini dell’osservanza dell'art. 23 della Costituzione, la
circostanza che una norma imponga determinate prestazioni
economiche ad un privato o a un soggetto pubblico.
Ciò premesso, il ragionamento del ricorrente appare
contraddittorio nella parte in cui, con riferimento al
primo motivo di diritto insiste sull’attività
istituzionale dell’Agenzia in quanto svolta verso altro ente
pubblico nell’interesse della collettività, salvo poi
affermare che, laddove il pagamento dovesse intendersi
dovuto, l'eventuale costo della prestazione “dovrebbe al
più far carico unicamente allo stesso privato”,
contraddicendosi nuovamente nel momento in cui ammette che
tali valutazioni sono finalizzate, fra l’altro,
all’applicazione di sanzioni o quando si afferma che le
stesse incidono sulle risorse pubbliche a disposizione del
Comune, richiamando nuovamente la circostanza che l’attività
posta in essere dall’Agenzia è un’attività istituzionale
resa nell'interesse della collettività.
Del tutto fuorviante, appare quindi, l’asserita violazione
del principio della determinatezza della sanzione, poiché,
come osservato, a prescindere dal surrettizio e
contraddittorio ragionamento sviluppato dal ricorrente,
la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e
non sul privato e non ha alcuna valenza sanzionatoria,
essendo chiaramente finalizzato al ristoro degli oneri
sopportati dall’Agenzia.
Con riferimento al terzo motivo di diritto, con il
quale il ricorrente si duole della circostanza che l'Agenzia
ha chiesto il rimborso dei costi senza aspettare che fossero
stipulati i prescritti accordi, è sufficiente constatare che
la citata norma rimette la determinazione dei costi da
rimborsare all'Agenzia alla Convenzione M.E.F. – Agenzia in
ragione dei servizi richiesti. Gli accordi, di cui viene
fatta menzione, sempre nella stessa norma, sono preordinati,
ai sensi dell’art. 15 della Legge n. 241/1990, a “disciplinare
lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse
comune”, che, pur rilevando nella fase attuativa, non
incidono sulla legittimità della pretesa economica in
ragione del presupposto individuato dalla norma.
Il fatto, poi, che la norma contempli espressamente la
necessità che si formalizzino tali intese tra l’Agenzia e
l’ente che richiede i servizi, contrariamente a quanto
sostiene il ricorrente nel quarto motivo, appare
proprio finalizzato a dare la massima attuazione al
principio di leale collaborazione tra enti.
Né tale principio può in qualche modo essere posto in
discussione in ordine alla determinazione del quantum
debeatur, atteso il principio dell’“obbligatorietà”
delle prestazioni patrimoniali imposte. Né, ancora, all’ente
impositore si richiede una particolare motivazione in ordine
alla quantificazione dell’importo da chiedere a rimborso,
essendo sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che
siano stati compiutamente indicati i costi, che direttamente
o indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle
attività richieste.
Peraltro, l’importo richiesto a rimborso, nella fase
transitoria, ossia in attesa della stipula dei menzionati
accordi, non può essere giudicato irragionevolmente oneroso,
dal momento che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici
territoriali una soglia massima commisurata al 50% della
sanzione.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba
essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 03.02.2016 n. 224 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
disattesa la censura laddove la ricorrente si duole della
violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento,
la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7
della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come
già ripetutamente affermato dalla Sezione e dal giudice
d'appello, dalla ineluttabilità della sanzione repressiva
comminata dal Comune, anche a cagione dell'assenza di
specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai
presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il
fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul
piano decisionale si poneva all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
---------------
In primo luogo, va disattesa la censura articolata con il
quarto motivo con il quale la ricorrente si duole della
violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento,
la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7
della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come
già ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., tra le
tante, sentenze n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d'appello (cfr. Cons. Stato,
sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità
della sanzione repressiva comminata dal Comune di Pozzuoli,
anche a cagione dell'assenza -come di seguito meglio
evidenziato- di specifici e rilevanti profili di
contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto
che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché
alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva
all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In secondo luogo, deve osservarsi che con il provvedimento
impugnato il Comune di Pozzuoli ha contestato alla
ricorrente di aver eseguito in assenza di alcun titolo in
area paesaggisticamente vincolata una palazzina di due piani
della superficie di 100 mq. con antistante tettoia di 30 mq.
oltre a un altro manufatto in muratura della superficie di
20 mq. e ne ha ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27
del D.P.R. n. 380 del 2001
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato,
e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo edilizio che la
legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi
di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il
provvedimento di demolizione.
---------------
Risulta legittima la disciplina di settore applicata (id est
art. 27 DPR 380/2001) la quale sanziona con la demolizione
la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità e siffatta misura resta applicabile sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di
interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle
sole zone di inedificabilità assoluta.
In altri termini, non è richiesto un supplemento di
motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria.
Resta poi fermo (cfr. censura con la quale parte ricorrente
lamenta che l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3
anni dalla realizzazione dell’intervento) che non è
“configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto”: e ciò, ancora
una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida,
come qui accade, su di un territorio particolarmente
protetto in cui la presenza dell’interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa.
---------------
Con il primo motivo la ricorrente lamenta che per
l’intervento edilizio realizzato non sarebbe stato
necessario il permesso di costruire bensì la sola DIA
trattandosi di un intervento di risanamento conservativo e/o
ristrutturazione edilizia di un preesistente vetusto comodo
rurale con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto
adottare la misura rispristinatoria.
Segnatamente, si
sarebbe trattato di un intervento di parziale demolizione e
ricostruzione del preesistente manufatto senza determinare
alcun aumento dell’originario volume.
Il motivo non può essere accolto.
Parte ricorrente non ha fornito alcun elemento probatorio
dal quale possa trarsi la conclusione della affermata
legittima preesistenza dei manufatti in questione (ossia del
fatto che essi risalgano al periodo nel quale per realizzare
nuove opere non era necessario munirsi preventivamente del
titolo edilizio e di quello paesaggistico).
In argomento la giurisprudenza ha affermato che l'onere di
fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio incombe sull'interessato, e non
sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia
non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Il Comune di Pozzuoli avendo, dunque, rilevato l’esistenza
di un’intera palazzina di due piani con annessa tettoia
oltre a un manufatto in muratura di 20 mq. ne ha
legittimante ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27
del D.P.R. n. 380. Si tratta, infatti, di opere soggette a
permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli
articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 oltre che
all’autorizzazione paesaggistica, stante l’idoneità, per
caratteristiche e dimensioni, a concretare una significativa
trasformazione dello stato dei luoghi in zona
paesaggisticamente vincolata.
Da quanto precede deriva che l’intervento realizzato non può
essere, come vorrebbe la ricorrente, derubricato da
intervento di nuova costruzione a intervento di risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia con conseguente
mitigazione del trattamento sanzionatorio che avrebbe dovuto
esaurirsi, al più, nell'applicazione delle misure di cui
all'articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001.
Viceversa, risulta legittima la disciplina di settore
applicata (id est art. 27 del medesimo testo unico) la quale
sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di
nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate,
a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta
applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta
esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia
limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar
Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del
07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già
evidenziate emergenze, ben lumeggiate nel provvedimento
impugnato, un supplemento di motivazione: nel modello legale
di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa"
l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria. Resta poi fermo (cfr.
censura con la quale parte ricorrente lamenta che
l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3 anni dalla
realizzazione dell’intervento) che non è “configurabile
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente, che il tempo non può
legittimare in via di fatto” (cfr. Cons. Stato sezione
quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta
sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013, n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del
07.06.2012): e ciò, ancora una volta, soprattutto ove
l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un
territorio particolarmente protetto in cui la presenza
dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi
è (e resta) in re ipsa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le sanzioni ripristinatorie e demolitorie hanno
carattere reale e prescindono pertanto dalla responsabilità
del proprietario o dell’occupante l’immobile, sicché
l’estraneità agli abusi edilizi assume rilievo sotto altro
profilo (ad esempio, è esclusa a carico del proprietario
incolpevole l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio
comunale).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al
proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia
quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né
all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede
civile per la tutela della propria posizione nei confronti
del proprietario o di altri soggetti.
---------------
1.4 Nel quarto mezzo di gravame, l’esponente evidenzia di
non avere mai realizzato opere edilizie all’intero del
locale di via ... e di occupare soltanto il piano terra
dell’immobile, non avendo invece la disponibilità del primo
e del secondo piano.
Sul punto, preme però rilevare che, come insegna costante
giurisprudenza, le sanzioni ripristinatorie e demolitorie
hanno carattere reale e prescindono pertanto dalla
responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile
(cfr., fra le più recenti, Cassazione Penale, sez. III,
15.12.2015, n. 49331), sicché l’estraneità agli abusi
edilizi assume rilievo sotto altro profilo (ad esempio, è
esclusa a carico del proprietario incolpevole l’acquisizione
gratuita del bene al patrimonio comunale, cfr. Corte
Costituzionale n. 345/1991).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al
proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia
quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né
all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede
civile per la tutela della propria posizione nei confronti
del proprietario o di altri soggetti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: OGGETTO: Interpretazione disposto di cui all'art. 5, comma 8, L.R. 31/2014 - rateizzazione monetizzazione aree a standard (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 05.02.2016). |
gennaio 2016 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
realizzazione, senza titolo edilizio, di un locale esterno
(sostanzialmente un ampliamento del bar) mediante
tensostruttura posta davanti al parcheggio.
La predetta tensostruttura è costituita da profilati di
alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete
esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di
serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura
costituita da una tenda scorrevole in materiale
impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq.
L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a
3.30 metri (lato bar).
(a) le tensostrutture, comprese quelle
dotate di tende retrattili, sono utilizzate normalmente per
creare locali protetti all’esterno degli edifici in
muratura, o in aree dove non possono essere realizzati
edifici in muratura. Lo scopo è di consentire lo svolgimento
di attività lavorative, o di attività comunque diverse dalla
semplice residenza.
Per struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si
prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente
amovibili, e anzi sono appositamente progettate per
agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le
tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di
equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione
preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR
06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come
ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni,
occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex
art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai
singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere
considerata pertinenza minore quando il volume della stessa
sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti
conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile.
Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti
dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o
dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova
costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e
sanzionatorio più favorevole.
Nello specifico, questa condizione non risulta dimostrata,
ma sul punto potranno essere svolti approfondimenti a cura
degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato
come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5,
del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una
volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle
costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati
nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto
non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una
diversa destinazione d’uso.
Persa la funzione di ambiente di lavoro (nello specifico,
per cessazione dell’attività del bar, o per trasformazione
in esercizio pubblico di altro tipo), la tensostruttura deve
essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il
momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi
funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che
rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire,
come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura
di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR
380/2001.
Qualora non vengano superati i limiti delle pertinenze
minori, e sia regolato l’uso delle tende retrattili per
contenere l’impatto dell’involucro, è invece applicabile la
disciplina sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37,
comma 1, del DPR 380/2001;
---------------
(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi
applicabile la procedura di accertamento di compatibilità
paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non
sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di
nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è
visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono
né permanenti né trasformabili, e dunque non sono
urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in
muratura.
Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto quelle
riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico,
peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono
pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la
tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in
muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione
paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al
precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in
tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in
un’opera diversa e urbanisticamente nuova.
---------------
... per l'annullamento:
(a) nel ricorso introduttivo: - dell’ordinanza del
responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del 28.03.2013, con la
quale è stata ingiunta la demolizione di una tensostruttura
realizzata mediante profilati in alluminio, dotata di
serramenti in alluminio e vetro, e coperta da una tenda
scorrevole in materiale impermeabile;
(b) nei motivi aggiunti:
- del provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot.
n. 5636 del 17.04.2014, con il quale è stato negato
l’accertamento di compatibilità paesistica;
- dell’ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 24
del 02.05.2014, con la quale è stata nuovamente ingiunta la
demolizione dell’opera abusiva;
...
1. Il ricorrente Se.Pa., titolare del pubblico esercizio
denominato “Bar Colibrì”, situato in via Brescia nel
Comune di Rodengo Saiano, ha realizzato senza titolo
edilizio un locale esterno (sostanzialmente un ampliamento
del bar) mediante tensostruttura posta davanti al
parcheggio.
2. La predetta tensostruttura è costituita da profilati di
alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete
esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di
serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura
costituita da una tenda scorrevole in materiale
impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq.
L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a
3.30 metri (lato bar).
3. L’area è classificata tra gli ambiti residenziali
consolidati a media densità edificatoria, ed è sottoposta a
vincolo ambientale.
4. Il Comune, qualificando l’opera abusiva come nuova
costruzione (veranda), ne ha ingiunto la demolizione con
ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del
28.03.2013.
5. In seguito, il Comune, con provvedimento del responsabile
dell’Area Tecnica del 17.04.2014, ha negato l’accertamento
di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 4, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42, rilevando la formazione di nuova
superficie e volumetria utile.
La Soprintendenza, preventivamente interpellata, aveva in un
primo momento dato parere di compatibilità favorevole
(19.12.2013), ma poi, su richiesta degli uffici comunali, si
è pronunciata nuovamente (31.01.2014), e ha precisato che
formazione di nuova superficie e volumetria utile è un
ostacolo insuperabile alla sanatoria paesistica, rimettendo
sul punto ogni valutazione al Comune.
6. Confermando la qualificazione dell’opera abusiva come
nuova costruzione, il Comune, con ordinanza del responsabile
dell’Area Tecnica n. 24 del 02.05.2014, ha ribadito la
necessità della demolizione.
7. Contro questi provvedimenti il ricorrente ha presentato
impugnazione con atto notificato il 30.05.2013 e depositato
il 14.06.2013, integrato da successivi motivi aggiunti. Le
censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) travisamento, in quanto la tensostruttura, per le
caratteristiche strutturali e funzionali, non dovrebbe
essere qualificata come nuova costruzione, ma come semplice
opera di copertura, priva di volumetria, essendo le tende
retrattili;
(ii) contraddittorietà, in quanto è stata esclusa la
compatibilità paesistica nonostante il parere favorevole
della Soprintendenza, che nel primo pronunciamento non aveva
rilevato alcun sostanziale pregiudizio per i valori
paesistici tutelati.
8. Il Comune si è costituito, chiedendo la reiezione del
ricorso.
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) le tensostrutture, comprese quelle dotate di tende
retrattili, sono utilizzate normalmente per creare locali
protetti all’esterno degli edifici in muratura, o in aree
dove non possono essere realizzati edifici in muratura. Lo
scopo è di consentire lo svolgimento di attività lavorative,
o di attività comunque diverse dalla semplice residenza. Per
struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si
prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente
amovibili, e anzi sono appositamente progettate per
agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le
tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di
equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione
preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR
06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come
ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni,
occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex
art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai
singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere
considerata pertinenza minore quando il volume della stessa
sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti
conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile.
Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti
dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o
dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova
costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e
sanzionatorio più favorevole. Nello specifico, questa
condizione non risulta dimostrata, ma sul punto potranno
essere svolti approfondimenti a cura degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato
come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5,
del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una
volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle
costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati
nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto
non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una
diversa destinazione d’uso. Persa la funzione di ambiente di
lavoro (nello specifico, per cessazione dell’attività del
bar, o per trasformazione in esercizio pubblico di altro
tipo), la tensostruttura deve essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il
momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi
funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che
rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire,
come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura
di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR
380/2001 (per una fattispecie relativa ai tunnel-serra v.
TAR Brescia Sez. I 17.06.2015 n. 852). Qualora non vengano
superati i limiti delle pertinenze minori, e sia regolato
l’uso delle tende retrattili per contenere l’impatto
dell’involucro, è invece applicabile la disciplina
sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37, comma 1,
del DPR 380/2001 (v. TAR Brescia Sez. I 04.06.2014 n. 600);
(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi
applicabile la procedura di accertamento di compatibilità
paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non
sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di
nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è
visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono
né permanenti né trasformabili, e dunque non sono
urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in
muratura. Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto
quelle riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico,
peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono
pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la
tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in
muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione
paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al
precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in
tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in
un’opera diversa e urbanisticamente nuova.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto nei limiti sopra
evidenziati.
11. La pronuncia determina l’annullamento degli atti
impugnati, e vincola il Comune a riesaminare la posizione
del ricorrente nel rispetto delle indicazioni esposte ai
punti precedenti. Il termine ragionevole per tale
adempimento è fissato in novanta giorni dal deposito della
presente sentenza.
12. La complessità delle valutazioni in materia di abusi
edilizi e la particolarità dei problemi posti
dall’edificazione tramite tensostrutture consentono la
compensazione delle spese di giudizio.
13. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione
ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n.
115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.01.2016 n. 159 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Tipi di sanatoria edilizia ordinaria ex DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
si tratti di interventi edilizi eseguiti in area
assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985
e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R.
n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra
interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero
in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che
la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti
gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
---------------
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della
natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto:
l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non
deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata
tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si
ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso,
di cui peraltro l'interessato non può non essere a
conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di
controllo.
---------------
Per le opere residue, il ricorso è invece destituito di
fondamento.
Non convince il primo mezzo di gravame, ove si lamenta che
il Comune ha omesso di qualificare gli abusi commessi in
termini di totale difformità o variazioni essenziali
rispetto alla concessione edilizia n. 125/1990, in quanto
“Laddove si tratti di interventi edilizi eseguiti in area
assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985
e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R.
n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra
interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero
in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che
la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti
gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali”
(cfr. TAR Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 640).
Nemmeno convince il terzo mezzo di gravame, col quale si
lamenta la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento, in quanto “L'ordine di demolizione conseguente
all'accertamento della natura abusiva delle opere
realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi,
è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in
quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione
di avvio del procedimento, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura
vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 14.05.2015, n. 2411)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.01.2016 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Premesso
che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha natura e funzioni
identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l.
29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha implicato un rinvio
mobile alla disciplina del procedimento di gestione del
vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale
indispensabile per la positiva conclusione del procedimento
di condono”, deve ritenersi applicabile l'art. 146 d.lvo n.
42/2004 “in relazione a tutte le istanze (formulate in ogni
tempo e che ancora non avevano dato luogo a un accoglimento
o a un rigetto) volte ad ottenere una autorizzazione
paesaggistica, per opere già realizzate o ancora da
realizzare (…).
Né si ravvisa l'incompatibilità della disciplina dell'art.
146 d.lgs. n. 42 del 2004 con l'istituto del condono
edilizio (…) sotto il profilo che il comma 4 dell'art. 146
vieta (salve le ipotesi eccezionali di cui al successivo
art. 167, commi 4 e 5) il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica postuma, in quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di
concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale
l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto
procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del
2004 deve essere interpretata in via sistematica, in
coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio,
il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità
dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo
sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione
paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno
basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato
dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di
sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo.
---------------
Con l’istanza in ordine alla quale si è formato il
silenzio-inadempimento lamentato con il ricorso in esame, la
parte ricorrente chiedeva al Comune di Montecorvino Pugliano
di porre in essere le azioni necessarie a garantire la
validità del provvedimento di concessione in sanatoria n.
02/03 del 25.03.1986, essendo stata omessa l’acquisizione
del preventivo atto di assenso paesaggistico.
L’amministrazione comunale intimata, senza contestare nel
merito le deduzioni attoree, evidenzia l’opportunità che “la
soluzione venga trovata congiuntamente con la Soprintendenza
per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Salerno e
Avellino”, anch’essa parte del giudizio, sollecitando il
Tribunale all’adozione di una pronuncia di tipo propulsivo
nei confronti di tutte le amministrazioni coinvolte.
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che il ricorso sia
meritevole di accoglimento: invero, l’incertezza delle
modalità procedimentali da osservare al fine di dare
riscontro all’istanza di parte ricorrente, intesa ad attuare
la regolarizzazione della concessione edilizia in sanatoria
n. 02/03 del 25.03.1986, emessa in carenza del relativo e
necessario titolo paesaggistico, non esimeva
l’amministrazione comunale dall’attivarsi tempestivamente in
tal senso, potendo rilevare esclusivamente ai fini del
regolamento delle spese di giudizio.
Deve quindi ordinarsi al Comune intimato di attivare il
procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in ordine alle opere de quibus, previa
acquisizione del parere obbligatorio e vincolante della
competente Soprintendenza, nel rispetto delle indicazioni
interpretative fornite dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. VI, n. 4492 dell’11.09.2013), secondo cui,
premesso che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha
natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica
ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha
implicato un rinvio mobile alla disciplina del procedimento
di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase
procedimentale indispensabile per la positiva conclusione
del procedimento di condono”, deve ritenersi applicabile
l'art. 146 d.lvo n. 42/2004 “in relazione a tutte le
istanze (formulate in ogni tempo e che ancora non avevano
dato luogo a un accoglimento o a un rigetto) volte ad
ottenere una autorizzazione paesaggistica, per opere già
realizzate o ancora da realizzare (…) Né si ravvisa
l'incompatibilità della disciplina dell'art. 146 d.lgs. n.
42 del 2004 con l'istituto del condono edilizio (…) sotto il
profilo che il comma 4 dell'art. 146 vieta (salve le ipotesi
eccezionali di cui al successivo art. 167, commi 4 e 5) il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica postuma, in
quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di
concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale
l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto
procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del
2004 deve essere interpretata in via sistematica, in
coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio,
il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità
dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo
sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione
paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno
basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato
dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di
sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo”
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 12.01.2016 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono, il comune deve approfondire.
Il Cds sul rifiuto per un'installazione tardiva.
Non basta accertare che un termoconvettore è stato
installato tardivamente per rigettare la richiesta di
condono edilizio. Per rifiutare il beneficio occorrono
infatti indicazioni più precise sull'effettiva abitabilità
del manufatto prima del 31.12.1993.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 11.01.2016 n. 54.
Un utente ha trasformato abusivamente una cantina in un
monolocale presentando domanda di condono edilizio e
dichiarando che tutti i lavori sono stati effettuati prima
del 31.12.1993. Il comune ha rigettato la richiesta
evidenziando carenze documentali e indicazioni verbali
generiche di alcuni vicini di casa. Ma anche accertando che
successivamente a quella data l'interessato avrebbe
installato nell'abitazione un termoconvettore.
I giudici di palazzo Spada hanno censurato questa decisione.
Dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio,
specifica il collegio, risulta evidente che l'immobile in
questione aveva una propria autonomia strutturale già alla
data del 31.12.1993. Non è sufficiente il successivo
sopralluogo dei vigili che nel 1995 hanno riscontrato il
montaggio in corso di un termoconvettore per inficiare
questa dichiarazione, prosegue la sentenza.
La questione avrebbe dovuto essere meglio approfondita
eventualmente acquisendo agli atti specifiche dichiarazioni
di testimoni in grado di chiarire definitivamente se il
locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993
(articolo ItaliaOggi del
19.01.2016).
---------------
MASSIMA
5. Nel merito, l’appello è fondato.
Dall’esame del provvedimento impugnato e dalla
documentazione fotografica prodotta in giudizio, risulta che
l’immobile in questione –alla data del 31.12.1993- aveva una
propria autonomia strutturale.
I lavori eseguiti nel corso del 1995 hanno riguardato la
separazione dell’impianto idraulico e di quello di
riscaldamento, rispetto a quelli già esistenti nell’unità
immobiliare principale rimasta in proprietà dell’attuale
appellante e non venduta, a differenza dell’immobile in
questione.
Il diniego di condono ha attribuito rilevanza decisiva agli
esposti dei condomini (il primo dell’11.08.1995), i quali
hanno lamentato il fatto che erano allora in corso i lavori
di allacciamento dell’acqua e del gas, mentre la relazione
di data 28.10.1995 della polizia municipale di Torrile si dà
atto dello svolgimento di lavori idraulici relativi al
montaggio di un termoconvettore.
Ritiene al riguardo la Sezione che l’istruttoria posta a
base del diniego non risulta adeguata,
come dedotto dall’appellante.
Gli accertamenti specifici posti in essere dal Comune hanno
riguardato infatti unicamente il montaggio –dopo la data del
31.12.1993- del termoconvettore, i cui lavori di per sé sono
compatibili con una precedente destinazione dell’immobile ad
abitazione.
Gli esposti dei vicini, oggettivamente rilevanti e da
valutare del corso del procedimento, non sono stati oggetto
di un esame in relazione alla preesistente situazione di
fatto.
In presenza della dichiarazione posta a base della istanza
di condono e di risultanze di per sé inevitabilmente
equivoche (perché si trattava di ricostruire quale fosse la
situazione alla data del 31.12.1993), il Comune non avrebbe
dovuto interpretare acriticamente il contenuto degli esposti
nel senso più sfavorevole al richiedente, ma avrebbe dovuto
chiedere ai sottoscrittori dell’esposto se alla data del
31.12.1993 il locale in questione fosse destinato a cantina
o ad abitazione.
Il vizio di cui è affetto l’atto impugnato in primo grado è
di inadeguata istruttoria, sicché –in sede di esecuzione
della presente sentenza– il Comune dovrà rinnovare il
procedimento:
a) con l’acquisizione in loco, ove sia possibile, delle
dichiarazioni di coloro che erano a conoscenza delle
circostanze (non solo di coloro che hanno sottoscritto
l’esposto, ma se del caso anche di altri proprietari o
residenti nell’edificio), allo scopo di chiarire se il
locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993;
b) verificando comunque se il medesimo locale –oltre che ‘abitato’-
era ‘abitabile’, e cioè se a quella data vi era
quanto meno un servizio igienico e quant’altro vada
considerato indispensabile perché vi fosse tale abitabilità.
In considerazione del fatto che è comunque onere del
richiedente dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti
dalla legge per il condono (anche perché è del tutto logico
che egli e non l’Amministrazione sia in possesso di elementi
oggettivi circa l’ultimazione delle opere), in sede di
rinnovazione del procedimento l’Amministrazione dovrà
consentire all’interessato la produzione di ulteriori
elementi (quali fatture, bollette, ricevute, ecc.) volti a
ricostruire i fatti effettivamente accaduti e, in sede di
conclusione del procedimento, dovrà complessivamente
valutare l’esito dell’istruttoria.
6. Per le suesposte considerazioni, l’appello va accolto e,
in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo
grado va accolto, con il conseguente annullamento dell’atto
impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune. |
dicembre 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In merito al provvedimento sanzionatorio della
realizzazione del manufatto abusivamente realizzato, è
infondato l’asserito vizio concernente il difetto di
motivazione laddove, nel provvedimento di rigetto della
domanda di condono, l’ente comunale afferma che essa non può
essere accolta in quanto “l’aumento di altezza di una parte
del piano sottotetto ha comportato l’alterazione sostanziale
del profilo altimetrico originario, non consentito dalle
norme del vigente Piano di Recupero”, richiamando, l’atto in
questione, le valutazioni svolte dall’ufficio tecnico
comunale.
Dunque, ingiungendosi, nell’ordinanza di demolizione, la
rimozione della maggiore altezza della parte di sottotetto,
deve concludersi che la motivazione è conforme ai parametri
di adeguatezza necessari per consentire l’esercizio del
diritto di difesa e il controllo giurisdizionale avendo, la
P.A., chiaramente indicato le ragioni poste a fondamento
degli atti censurati.
----------------
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si
applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui sia
oggettivamente impossibile procedere alla demolizione».
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
---------------
3.3.– Con il terzo motivo sia assume che erroneamente
l’amministrazione e la sentenza impugnata avrebbero ritenuto
che l’intervento contestato non sarebbe consentito dagli
strumenti urbanistici.
In relazione all’asserito contrasto con il piano di
recupero, si deduce che sarebbe mancata una adeguata
istruttoria e che il sottotetto avrebbe subito rispetto
all’iniziale concessione edilizia n. 13 del 19998 una «ininfluente
modifica del grado di inclinazione del solaio».
In relazione alla mancata applicazione di quanto previsto,
per le zone BE, dal superiore piano regolatore generale, si
rileva che questo, consentendo le «ricostruzioni previa
demolizione» ricomprenderebbe, contrariamente a quanto
erroneamente ritenuto dal primo giudice, anche gli
interventi di «ristrutturazione» e che, comunque,
l’intervento in questione sarebbe consistito in una vera e
propria ricostruzione integrale previa demolizione
dell’esistente.
Il motivo non è fondato.
In relazione al piano di recupero, l’art. 27 per la zona A5
nella quale ricade il fabbricato («edifici compatibili
con i caratteri originari in particolari condizioni di
degrado») ammette gli interventi di ristrutturazione
edilizia «nei limiti di cui al precedente art. 10
‘soffitte e sottotetti’ purché ciò non comporti
l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario»
e l’art. 10 dispone che «è prescritta la conservazione
delle caratteristiche degli edifici preesistenti da demolire
parzialmente o totalmente per quanto riguarda (…) l’altezza
di imposta della copertura».
Nella fattispecie in esame risulta, invece, provata «l’alterazione
sostanziale del profilo altimetrico originario». Sul
punto, l’appellante, nonostante si tratti di elementi nella
sua disponibilità, si limita genericamente ad affermare che
il sottotetto ha un subito «una ininfluente modifica del
grado di inclinazione del solaio».
In relazione al piano regolatore generale, gli appellanti
non hanno dimostrato, pur vendendo ancora una volta in
rilievo elementi nella loro disponibilità, che, in effetti,
l’intervento in questione si sia risolto in una «demolizione
e ricostruzione».
3.4.– Con il quarto motivo, si deduce che il primo giudice
avrebbe erroneamente applicato le risultanze della
verificazione disposta al fine di stabilire se la
demolizione delle opere abusive avrebbe comportato
pregiudizio per le parti del manufatto conformi a legge. Sul
punto, si afferma che il verificatore avrebbe accertato la
fattibilità tecnologica ma, per la mancata conoscenza delle
strutture del manufatto, non sarebbe stato in grado di
accertare se effettivamente la disposta demolizione
recherebbe pregiudizio alle parti rimanente dell’edificio.
Il motivo non è fondato.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si
applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui
sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione».
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (Cons.
Stato, sez. VI, 09.04.2013, n. 1912).
Nella fattispecie in esame, il verificatore, nominato in
primo grado, ha ritenuto di non potere fornire una risposta
al quesito perché si è in presenza di «un’opera da
demolire della quale non è ben noto lo stato di integrità,
non si conoscono i materiali e le relative caratteristiche,
non si conoscono esattamente le fasi costruttive e gli
schemi strutturali che ne hanno caratterizzato
l’edificazione».
A tale proposito, il verificatore ha valutato criticamente
l’apporto conoscitivo fornito dalle perizie di parte che
hanno fornito elementi di natura «empirica» e non «analitica».
La verificazione disposta in primo grado non è, pertanto,
riuscita a pervenire a risultati univoci per l’assenza di
dati conoscitivi che sarebbe stato onere dell’appellante
fornire.
In definitiva, in presenza di un elemento che deve essere
provato dal privato non si può dedurre un vizio della
verificazione tecnica per censurare la sentenza e l’operato
della pubblica amministrazione. Sarebbe stato onere
dell’appellante, si ribadisce, dimostrare l’esistenza del
pregiudizio alle parti dell’edificio non abusive anche
mediante la messa a disposizione dei dati necessari al
verificatore (massima
tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 28.12.2015 n. 5846 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È illegittimo disporre l'acquisizione gratuita,
o, in ipotesi, effettuare questo materiale intervento
comunale, in danno di chi non è responsabile dell'abuso e
nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di
demolizione. Essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale una misura prevista per l'ipotesi di inottemperanza
all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque
un'inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste
conseguenze.
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di
conoscenza, che presuppone la previa notifica del
provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di
inottemperanza.
---------------
La presentazione dell'istanza di sanatoria dell'abuso
edilizio determina l’obbligo dell’amministrazione di
procedere prioritariamente all’esame della domanda di
condono, paralizzando il corso dei procedimenti per
l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione
dell’istanza di sanatoria.
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene
sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa
è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando
un nuovo termine per l’ottemperanza da parte
dell’interessato.
---------------
... per l'annullamento della determina dirigenziale n.
63026/14 del 29.04.2014 notificata il 07.05.2014 con la
quale il Comune di Cercola ha dichiarato l'accertamento di
inottemperanza all'ordinanza di demolizione n. 39 del 2005 e
disposto l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere realizzate;
...
2.1. Deve il
Collegio confermare la delibazione di fondatezza del ricorso
già tratteggiata nella sede monitoria, in accoglimento del
primo mezzo di gravame, con il quale il ricorrente deduce
illegittimità della disposta ed impugnata acquisizione
gratuita al patrimonio delle opere da lui realizzate,
sostenendo che la presupposta ordinanza di demolizione n.
39/2005 è stata notificata solo alla comproprietaria signora
Silvestro Raffaella, sua moglie, ma non anche a lui.
Ritiene al riguardo che l’omessa notifica del provvedimento
di demolizione rende inapplicabile nei confronti dei
comproprietari pretermessi la sanzione acquisitiva.
2.2. La doglianza è fondata, rispondendo ad ovvi principi di
tutela del diritto di difesa e di partecipazione
procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell’irrogazione della sanzione dell’acquisizione al
patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano
ricevuto regolare notifica dell’ordinanza di demolizione,
l’inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l’irrogazione della sanzione acquisitiva.
Il Consiglio di Stato ha di recente suggellato
l’orientamento che deponeva nei tratteggiati sensi (TAR
Campania–Napoli, Sez. IV, 30.01.2014 n. 711; TAR Lazio–Roma,
Sez. I–quater, n. 1788/2011; TAR Sicilia-Palermo, Sez. II
11.11.2014 n. 2783) avendo ribadito che “È illegittimo
disporre l'acquisizione gratuita, o, in ipotesi, effettuare
questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è
responsabile dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la
notifica dell'ordine di demolizione. Essendo l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale una misura prevista per
l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione,
essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a
patirne le pur giuste conseguenze” (Consiglio di Stato,
Sez. VI, 15.04.2015 n. 1927 ).
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di
conoscenza, che presuppone la previa notifica del
provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di
inottemperanza.
In punto di fatto deve il Collegio valutare, ex artt. 64, co.
4, c.p.a. e 116 c.p.c., l’inerzia del Comune che non ha
ottemperato all’ordine istruttorio disposto con ordinanza n.
4420/2015 (debitamente notificata al Comune a cura del
ricorrente in data 21-23/09/2015), non depositando copia
dell’ordinanza demolitoria così come notificata, nonché la
ulteriore documentazione relativa alla domanda di condono
prot. n. 18219/04.
Ragion per cui va ritenuta provata la dedotta circostanza
della omessa notifica dell’ordinanza di demolizione al
comproprietario ricorrente.
Il mancato adempimento da parte del Comune degli incombenti
istruttori disposti con riferimento alla pendenza
dell’istanza di condono induce a dar credito alle
allegazioni del ricorrente anche riguardo alle censure con
le quali si deduce la violazione degli artt. 38 e 44 della
legge n. 47 del 1985 che contemplerebbero la sospensione dei
procedimenti sanzionatori in pendenza della definizione
delle domande di condono.
Al riguardo è da osservare che per il manufatto in questione
risulta presentata domanda di condono in base alla legge n.
326 del 2003.
Orbene, per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della legge n.
47 del 1985, richiamati dall’art. 32, co. 25, del
decreto-legge n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza
di sanatoria dell'abuso edilizio determina l’obbligo
dell’amministrazione di procedere prioritariamente all’esame
della domanda di condono, paralizzando il corso dei
procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino
alla definizione dell’istanza di sanatoria (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 03/05/2005, n. 2137).
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene
sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa
è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando
un nuovo termine per l’ottemperanza da parte
dell’interessato (cfr. Cons. St., sez. VI, 11/09/2013, n.
4496).
Sancisce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione
adottata in pendenza dell’esame della domanda di condono la
costante giurisprudenza d’appello (Consiglio di Stato, Sez.
V, 23.06.2014 n. 3143; Consiglio di Stato, Sez. V,
24.04.2013 n. 2280; Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012
n. 5553), seguita anche dalla Sezione in numerosissimi casi
(cfr. ex multis, TAR Campania–Napoli, Sez. III,
14.08.2013, n. 4122; TAR Campania–Napoli, Sez. III,
09.02.2013 n. 843).
Sulla medesima scia si sono infatti poste la Sezione ed il
Tribunale (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 07.12.2010, n.
27066, ID, 13.07.2010, n. 16690; TAR Campania-Napoli, Sez.
VI, 26.08.2010 , n. 17238) e più di recente TAR
Campania-Napoli, Sez. III 07.09.2012, n. 3786) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.12.2015 n. 5876 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione delle opere abusive e di ripristino dello
stato dei luoghi ha carattere essenzialmente reale, per cui
esso deve essere disposto nei confronti di tutti i soggetti
che vantano attualmente un diritto reale sul bene, nella
qualità di eredi o aventi causa dell’originario
proprietario, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione dell’illecito, che peraltro ha natura
permanente, tant’è che il manufatto abusivo continua ad
arrecare pregiudizio ai valori tutelati dalle misure
repressive fino alla sua rimozione.
L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto
qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia
senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per
cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei
presupposti di fatto e di diritto che impongono
l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione
richieda una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico o una comparazione con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure
ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che
non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo.
---------------
Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini
sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in
totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso
di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente
la demolizione delle opere abusive, dagli interventi
eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34
contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla
demolizione, qualora essa non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in
totale difformità quelli che comportano la realizzazione di
un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero
l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte
di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale,
per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a
vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti
mutamento della destinazione d'uso implicante variazione
degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della
localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero
violazione non procedurali delle norme in materia di
edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è
chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto,
da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento
della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e
modificando la sagoma dell’edificio.
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura
repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
L’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità
urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero
difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo.
---------------
La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione
impugnata e neppure ne determina la definitiva inefficacia,
limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli
effetti fino alla definizione, espressa o tacita,
dell'istanza.
---------------
...
per l'annullamento
dell’ordinanza dirigenziale n. 91 del 09/06/2009, concernente
l’eliminazione delle opere abusive realizzate relative al
tetto del fabbricato sito in Via ... n. 11, in
difformità del permesso di costruire n. 51/04; nonché degli
atti connessi.
...
1. Nel merito i ricorrenti deducono che:
- i lavori sarebbero stati realizzati dal dante causa, per
cui i ricorrenti sarebbero estranei all’abuso;
- mancherebbe una adeguata istruttoria ed una congrua
motivazione; l’abuso, consistente in una maggiore altezza
del sottotetto, non sarebbe di tale gravità da giustificare
la demolizione;
- sarebbe stata presentata istanza per accertamento di
conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
l’intervento, realizzato in zona E agricola, sarebbe
conforme allo strumento urbanistico;
- il disposto ripristino dello stato dei luoghi
configgerebbe con l’interesse pubblico, oltre che con quello
privato dei ricorrenti.
1.1. L'ordine di demolizione delle opere abusive e di
ripristino dello stato dei luoghi ha carattere
essenzialmente reale, per cui esso deve essere disposto nei
confronti di tutti i soggetti che vantano attualmente un
diritto reale sul bene, nella qualità di eredi o aventi
causa dell’originario proprietario, anche se si tratti di
soggetti estranei alla commissione dell’illecito, che
peraltro ha natura permanente, tant’è che il manufatto
abusivo continua ad arrecare pregiudizio ai valori tutelati
dalle misure repressive fino alla sua rimozione (cfr. Cons.
St., sez. VI, 15/04/2015, n. 1927).
1.2. L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto
qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia
senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per
cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei
presupposti di fatto e di diritto che impongono
l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione
richieda una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico o una comparazione con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure
ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che
non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo
(cfr. Cons. St., sez. VI, 05/01/2015, n. 13).
1.3. Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini
sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in
totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso
di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente
la demolizione delle opere abusive, dagli interventi
eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34
contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla
demolizione, qualora essa non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in
totale difformità quelli che comportano la realizzazione di
un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero
l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte
di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale,
per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a
vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti
mutamento della destinazione d'uso implicante variazione
degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della
localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero
violazione non procedurali delle norme in materia di
edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è
chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto,
da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento
della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e
modificando la sagoma dell’edificio (cfr. TAR Campania, sez.
II, 04/02/2013, n. 699).
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura
repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
1.4. E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di
demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del
manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o
dalla difformità) del titolo abilitativo (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 26/08/2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare
tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità
urbanistica e, se del caso, della compatibilità
paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base
all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt.
146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in
caso di interventi in aree vincolate.
Sennonché nella specie non risulta che l’istanza di
sanatoria sia stata accolta; né risulta che sia stato
tempestivamente e ritualmente impugnato il diniego sia pure
tacito, mentre semmai emerge che la creazione di superfici
utili o volumi è ostativa al rilascio della compatibilità
paesaggistica ai sensi dell’art. 167, co. 4, del d.lgs. n.
42 del 2004.
Giova infine soggiungere che la presentazione dell’istanza
di accertamento di conformità non incide sulla legittimità
della ordinanza di demolizione impugnata e neppure ne
determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente
a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell'istanza (cfr. Cons.
St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
2. In conclusione l’impugnativa va quindi respinta. Non vi è
luogo ad una pronuncia sulle spese attesa la mancata
costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.12.2015 n. 5866 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Tutela del paesaggio e interventi in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale.
La giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in
un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato
integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non
riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera
autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi
di totale difformità di lavori dal provvedimento
abilitativo, per cui è
configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello
di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità
esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area
diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche
se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito
dello stesso lotto.
Lo spostamento da un luogo ad un altro
determina, invero, una vera e propria alterazione della
costruzione autorizzata, che integra un'opera
sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non
legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità
comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del
DPR 380/2001, si considera in "totale difformità"
l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e
sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato
realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente
diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche,
plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione.
E non può essere revocato in dubbio che
opere "spostate", in modo significativo (tra i nove
ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato
integrino una difformità totale, e come tali debbano
considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate"
dal provvedimento originario (esse invero risultano
sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse
alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
---------------
Per di più, nel caso di specie, risultando l'area
sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la
distinzione tra "totale difformità" e "parziale
difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo
paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004,
possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli
derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di
questa Corte, secondo
cui, in tema di tutela del paesaggio, anche
a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n.
42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al
Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi
decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi
atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la
compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
---------------
Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha
ribadito, infatti, che in presenza di
interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai
fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R.
06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli
interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali.
E, dall'altro, che occorresse, per
l'intervento "diverso", nuova autorizzazione
paesaggistica.
---------------
2.1. Risulta
pacificamente in punto di fatto (non venendo neppure
sostanzialmente contestato dai ricorrenti) che le opere
erano state posizionate in modo diverso rispetto a quanto
previsto in progetto.
Il Tribunale ha dato atto che i consulenti, dopo aver
eseguito le coordinate dei sei aerogeneratori, come
risultanti dalle tavole tecniche, avevano proceduto a
localizzare le opere in corso di realizzazione con sistema
di rilevazione satellitare. E, attraverso tale ineccepibile
metodo operativo, che trovava peraltro conforto nei rilievi
effettuati dall'ausiliario forestale, dott. Cr., si era
accertato una indiscutibile divergenza tra il dato delle
coordinate di progetto con quello delle opere in corso.
Risultava, infatti, uno spostamento significativo delle
opere, oscillante tra i 9 metri ed i 28 metri, rispetto a
quanto era stato autorizzato con il progetto.
Sulla base di tale accertamento, ineccepibilmente il
Tribunale ha ritenuto che fosse configurabile il fumus
del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001 (pag.
15 ord.).
La giurisprudenza di questa Corte,
a partire da quella più datata, ha
costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in
un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato
integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non
riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera
autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi
di totale difformità di lavori dal provvedimento
abilitativo (Cass.
sez. 3 n. 5224 del 20/03/1981), per cui è
configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello
di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità
esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area
diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche
se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito
dello stesso lotto
(Cass. sez. 3 n. 3178 del 27/01/1982).
Lo spostamento da un luogo ad un altro
determina, invero, una vera e propria alterazione della
costruzione autorizzata, che integra un'opera
sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non
legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità
comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del
DPR 380/2001, si considera in "totale difformità"
l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e
sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato
realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente
diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche,
plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione
(Cass. sez. 3 n. 40541 del 18/06/2014).
E non può essere revocato in dubbio che
opere "spostate", in modo significativo (tra i nove
ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato
integrino una difformità totale, e come tali debbano
considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate"
dal provvedimento originario (esse invero risultano
sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse
alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
Ha già osservato il Tribunale, inoltre, che contrariamente
all'assunto difensivo l'intervento non può considerarsi di "variante
di tipo non sostanziale" neppure ai sensi e per gli
effetti della disciplina speciale prevista dal D.L.vo
03.03.2011 n. 28, in quanto l'art. 5, comma 3, esclude dalle
categorie degli interventi sostanziali, oltre quelli che non
comportano variazioni delle dimensioni fisiche degli
apparecchi, della volumetria delle strutture, quelli che non
comportano "variazioni dell'area destinata ad ospitare
gli impianti stessi".
2.2. Per di più, nel caso di specie, risultando l'area
sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la
distinzione tra "totale difformità" e "parziale
difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo
paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004,
possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli
derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di
questa Corte (cfr. Sez. 3 n. 41078 del 20/09/2007), secondo
cui, in tema di tutela del paesaggio, anche
a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n.
42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al
Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi
decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi
atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la
compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
In applicazione di tale principio si è ritenuto che il Piano
Urbanistico Territoriale Tematico della Regione Puglia,
riconducibile alla categoria dei piani urbanistico
territoriali con specifica considerazione dei valori
paesistici ed ambientali, costituisca un intervento di
pianificazione a carattere generale efficace su tutto il
territorio regionale, non limitato alle aree ed ai beni
elencati dall'art. 82, quinto comma, DPR n. 616 del 1977
ovvero alle aree già sottoposte ad uno specifico vincolo
paesistico.
Il PUTT/P, quindi, oltre gli effetti di direttiva nei
confronti della pianificazione comunale, produce anche
effetti diretti nei confronti dei privati, con vincoli
generali e particolari, purché pertinenti alla specifica
tematica del piano stesso ed estende la sua portata, oltre
che ai beni vincolati, anche a zone non soggette al regime
di tutela paesistica, ma ugualmente ritenute meritevoli di
considerazione in quanto espressione della più generale
potestà urbanistica regionale in materia
paesaggistico-ambientale.
Il Tribunale ha accertato che l'impianto in corso di
realizzazione insistesse in ATE di Tipo C, e che all'interno
di tale ambito gli interventi di trasformazione fossero
ammessi solo se compatibili con la qualificazione
paesaggistica.
Del resto in data 17/05/2010 la stessa Regione Puglia non
esprimeva parere favorevole (salvo poi a modificarlo
inopinatamente dopo pochi mesi) per gli aerogeneratori 1, 2,
3, 4, 5, in quanto collocati in ATE di Tipo C e in contrasto
con i relativi indirizzi di tutela (2.02) del PUTT.
Da tutto ciò consegue, da un lato, che, a seguito dello
spostamento dell'ubicazione dell'opera, comunque si rendesse
necessario nuovo permesso di costruire (da conseguire con
ricorso alla procedura dell'autorizzazione unica).
Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha
ribadito, infatti, che in presenza di
interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai
fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R.
06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli
interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali
(Cass. sez. 3 n. 37169 del 06/05/2014; sez. 3 n. 1486 di
03/12/2013 ed in precedenza Sez. 3 n. 16392 del 17/02/2010).
E, dall'altro, che occorresse, per
l'intervento "diverso", nuova autorizzazione
paesaggistica.
Perfino gli interventi eseguibili mediante dia (ora scia)
necessitano, infatti, del preventivo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo (cfr. ex multis
Cass. pen. sez. 3 n. 8739 del 21.01.2010), configurandosi in
mancanza il reato di cui all'art. 181 D.L.gs. n. 42 del 2004
(Cass. pen. sez. 3 n. 15929 del 12.01.2006).
Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che fosse
configurabile il fumus sia del reato di cui all'art.
44, lett. c), DPR 380/2001, sia del reato di cui
all'art. 181 D.L.vo 42/2004 (tratto da www.lexambiente.it
- Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
17.12.2015 n. 49669). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire.
Si è in presenza di "varianti
essenziali" al permesso di costruire (e non già in presenza
di un'ipotesi di "difformità totale") laddove le prime sono
caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il
progetto edificatorio originario rispetto ai parametri
indicati dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate
da un consistente, nei termini e
nelle percentuali individuate dalla legge regionale, aumento
della superficie utile lorda e della cubatura assentite, e
dal regolamento edilizio.
---------------
In materia urbanistica, la nozione di variazione essenziale
dal permesso di costruire costituisce una tipologia di abuso
intermedia tra la difformità totale e quella parziale,
sanzionata dall'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
Pertanto non rileva nella fattispecie la novella ex art. 17,
comma 1, lett. n) decreto-legge 12.09.2014, n. 133,
convertito in legge 11.11.2014, n. 164 che, tra l'altro,
nell'affermare che il mutamento della destinazione d'uso
all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito, fa salve, in ogni caso, le diverse previsioni da
parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici
comunali, pacificamente disattese nel caso di specie e la
cui violazione trova presidio proprio nella fattispecie ex
art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 che
punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti
edilizi nonché dalla normativa urbanistica statale e
regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n. 380 del
2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
----------------
2. L'inammissibilità del primo motivo di ricorso deriva dal
fatto che esso è del tutto disarticolato rispetto alle
ragioni della decisione.
Il tribunale non ha infatti ritenuto che gli abusi fossero
consistiti in una modificazione della destinazione d'uso
tale da determinare un'ipotesi di difformità totale ma
esclusivamente in una "variazione essenziale" al
permesso di costruire e alle successive varianti, avendo
affermato che sono state disattese le norme, di cui
all'articolo 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e di cui all'articolo
6 L.R. Piemonte n. 56 del 1977 e successive modifiche in
quanto dagli interventi è derivato un aumento di entità
superiore al 5% della superficie utile lorda e della
volumetria, oltre ad essere state disattese le previsioni di
cui all'articolo 20, comma 2, lett. d), del regolamento
edilizio (al piano interrato -destinato a locale di
sgombero/cantina/deposito- erano stati realizzati locali con
caratteristica di finiture di civile abitazione ed in
particolare un locale taverna dotato di forno pizza, tavolo
frigorifero, cronotermostato ed un locale camera arredata
con letto matrimoniale addossato alla parete ed un locale
sauna-idromassaggio attrezzato con vasca idromassaggio e
sauna, oltre a un locale deposito, ufficio, relax e locale
tecnico ospitante gli impianti tecnologici) nonché
dell'articolo 20, comma 2, lett. e) del regolamento edilizio
(al primo piano (sottotetto) si constatava l'accorpamento di
tutta la manica di "sottotetto non accessibile" alla
camera e al bagno con conseguente incremento di superficie
utile lorda ed inoltre l'incremento dell'altezza del colmo
della falda di copertura al lato nordovest con maggiore
altezza interna dei locali in misura eccedente il progetto
autorizzato).
Il tribunale ha osservato che si è, nel
caso di specie, in presenza di "varianti essenziali"
al permesso di costruire (e non già in presenza di
un'ipotesi di "difformità totale") caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati
dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate da un
consistente, nei
termini e nelle percentuali individuate dalla legge
regionale, aumento della superficie utile
lorda e della cubatura assentite, e dal regolamento
edilizio.
Nel pervenire a tale conclusione, il tribunale si è attenuto
alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale,
in materia urbanistica, la nozione di
variazione essenziale dal permesso di costruire costituisce
una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e
quella parziale, sanzionata dall'art. 44, lett. a), del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(Sez. 3, n. 41167 del 17/04/2012, Ingrosso, Rv. 253599).
Pertanto non rileva nella fattispecie la
novella ex art. 17, comma 1, lett. n), decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164
che, tra l'altro, nell'affermare che il mutamento della
destinazione d'uso all'interno della stessa categoria
funzionale è sempre consentito, fa salve, in ogni caso, le
diverse previsioni da parte delle leggi regionali e degli
strumenti urbanistici comunali, pacificamente disattese nel
caso di specie e la cui violazione trova presidio proprio
nella fattispecie ex art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n.
380 del 2001 che punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle
norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai
regolamenti edilizi nonché dalla normativa urbanistica
statale e regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n.
380 del 2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
Né, in presenza di una definizione del processo con il rito
abbreviato e dunque allo stato degli atti, la ricorrente può
reclamare il mancato accesso -peraltro del tutto discutibile
in considerazione dei risultati probatori conseguiti come in
precedenza segnalati e del tutto sottovalutati con
l'articolazione della doglianza- ad alternative istruttorie
o a sospensioni del processo in attesa di una sanatoria o di
una regolarizzazione degli abusi
(tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.12.2015 n. 49583). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione del manufatto abusivo non
è una “pena” ma una sanzione amministrativa e dunque non è
soggetto alla prescrizione.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal
giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, qualora non
sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione
amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente dall’essere stato o meno
quest’ultimo l’autore dell’abuso.
Per tali sue caratteristiche la demolizione non può
ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen.
(massima tratta da
http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.12.2015 n. 49331). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione non si prescrive.
L’ordine di
demolizione del manufatto abusivo è una sanzione
amministrativa e non si prescrive.
Cassazione. La rimozione dell’abuso edilizio è una sanzione
amministrativa che ha scopo di tutelare il territorio.
Con la
sentenza 15.12.2015 n. 49331,
la Corte di Cassazione ricorda che l’ordine di demolizione
anche, se arriva dal giudice penale, non ha finalità
punitive. L’intervento non può dunque essere considerato una
sanzione penale, nel senso indicato dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, ma ha il solo scopo di
tutelare il territorio riportando i luoghi nello stato in
cui erano prima dell’abuso.
La Suprema corte accoglie il ricorso del Pm contro
l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato
estinto per «decorso del tempo» l’ordine di demolizione di
alcuni immobili abusivi. Alla base della scelta la
convinzione che l’atto, qualificato come pena secondo i
principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, fosse ormai prescritto come indicato
dall’articolo 173 del codice penale che prevede l’estinzione
delle pene, dell’arresto e dell’ammenda dopo 5 anni. Una
conclusione che parte da premesse sbagliate.
Il Procuratore
della Repubblica chiede alla Cassazione di annullare
un’ordinanza adottata senza tenere conto che l’ordine di
demolizione, come affermato anche dalla dottrina, é una
sanzione amministrativa di tipo ablatorio, accessoria alla
sentenza di condanna impartita dal giudice penale. Il Pm nel
suo ricorso sottolinea le differenze esistenti tra l’ordine
di demolizione e la confisca, applicabile in caso di
lottizzazione abusiva: distinguo che sottraggono la prima
alla prescrizione.
l ricorso è fondato su solide ragioni. Per la Suprema corte
il Tribunale si è concentrato, sbagliandone
l’interpretazione sulla giurisprudenza di Strasburgo, senza
considerare la vigente disciplina urbanistica (Dpr 380/2001)
che regola la procedura di demolizione degli immobili
abusivi. Nel mirino finisce il solo immobile “irregolare”
che può essere demolito d’ufficio a prescindere
dall’accertamento delle responsabilità. L’ordine di
demolizione come sanzione amministrativa non presuppone,
infatti, la sussistenza di un danno né un elemento
psicologico del responsabile dell’abuso ed è applicabile,
anche in caso di violazioni incolpevoli, tanto alle persone
fisiche come a quelle giuridiche e agli enti di fatto e in
alcuni casi persino “trasmissibile” agli eredi del
responsabile o a chi acquista la disponibilità del bene.
Il provvedimento finalizzato alla demolizione ha una sua
autonomia rispetto a quanto avviene in sede di processo
penale tanto è vero -sottolinea la Cassazione- che neppure
il sequestro penale dell’immobile è di ostacolo alla sua
“distruzione”. Una lettura che non si pone in contrasto con
le norme Cedu: per l’interpretazione di Strasburgo la
demolizione, a differenza della confisca, non è una pena
(sentenza 20.01.2009 caso Sud Fondi contro Italia) (articolo Il Sole 24 Ore del
16.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
3. Nel concentrare, infatti, l'attenzione sull'analisi
della giurisprudenza della Corte EDU, il Tribunale ha del
tutto omesso di considerare nel suo complesso l'articolata
procedura relativa alla demolizione degli immobili abusivi
delineata dalla vigente disciplina urbanistica.
L'art. 27 del d.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al
responsabile del competente ufficio comunale il potere
dovere di vigilare, anche secondo le modalità stabilite
dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale, al fine di
assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il medesimo articolo, al comma 2, stabilisce che il
dirigente o il responsabile dell'ufficio tecnico comunale, «quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o
da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di
cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi".
Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al
R.D. 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni
disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle
aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora
d.lgs. n. 42 del 2004), il dirigente provvede alla
demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa
comunicazione alle amministrazioni competenti le quali
possono eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa.
Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati
monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge
o dichiarati di interesse particolarmente importante ai
sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490 (ora articoli 13 e 14 del d.lgs. n. 42
del 2004) o su beni di interesse archeologico, nonché per le
opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo
o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del Titolo Il del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490 (ora Parte Terza del d.lgs. n. 42 del
2004), il Soprintendente, su richiesta della regione, del
comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero
decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento
dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi
delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56
dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662.
Si tratta, in tali casi, della c.d. demolizione d'ufficio,
la quale non è preceduta da alcuna attività procedimentale
finalizzata all'individuazione di soggetti responsabili o
alla irrogazione di sanzioni, in quanto la norma
attribuisce, al responsabile dell'ufficio tecnico ed agli
altri soggetti indicati, la possibilità di diretta azione
per la demolizione del manufatto abusivo durante tutto il
corso della sua esecuzione ed in tutti i casi di contrasto
con la disciplina urbanistica e gli strumenti urbanistici,
da eseguirsi con le modalità indicate dall'art. 41 d.P.R.
380/2001.
Al di fuori delle ipotesi sopra ricordate, l'art. 27, comma
3, d.P.R. 380/2001 stabilisce che, «qualora sia
constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su
denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione
dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da
adottare e notificare entro quarantacinque giorni
dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi
quindici giorni dalla notifica il dirigente o il
responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può
procedere al sequestro del cantiere».
li successivo comma 4 dispone, inoltre, che «gli
ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi
in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il
permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto
cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta
violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata
comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo
regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il
quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere
e dispone gli atti conseguenti».
Per le opere eseguite da amministrazioni statali provvede
l'art. 28 d.P.R. 380/2001, imponendo al responsabile del
competente ufficio comunale, qualora ricorrano le ipotesi di
cui all'articolo 27, di informare immediatamente la regione
e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, al
quale compete, d'intesa con il presidente della giunta
regionale, la adozione dei provvedimenti previsti dal
richiamato articolo 27.
4. Le disposizioni in precedenza ricordate prevedono,
dunque, un immediato intervento demolitorio, effettuato
d'ufficio sul solo presupposto della presenza sul territorio
di un immobile abusivo, perché eseguito in assenza di titolo
abilitativo o in difformità dalle norme urbanistiche o dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, che prescinde da
qualsivoglia accertamento di responsabilità, riguarda
esclusivamente l'immobile ed ha, quale unico scopo, la sua
eliminazione ed il ripristino dell'originario stato del
territorio.
A ciò si aggiunge, per gli interventi diversi da quelli
soggetti a demolizione d'ufficio, la possibilità di
interventi cautelari urgenti di cui all'art. 27, comma 3, e
la particolare procedura di segnalazione dell'abuso da parte
della polizia giudiziaria di cui all'art. 27, comma 4, che
vede distinti gli obblighi di segnalazione all'autorità
giudiziaria ed a quella amministrativa per l'adozione dei
provvedimenti di competenza di quest'ultima.
Il successivo art. 31 d.P.R. 380/2001 disciplina, inoltre,
l'ingiunzione alla demolizione delle opere eseguite in
assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali, disposizioni applicabili, secondo
quanto disposto dal comma 9-bis del medesimo articolo, anche
agli interventi eseguiti in base a d.i.a. sostitutiva del
permesso di costruire ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R.
380/2001.
Accertata l'esecuzione di tali interventi, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale deve ingiungere
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o
la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che, in
caso di inottemperanza , viene acquisita di diritto, ai
sensi del successivo comma 3 (il comma 4 stabilisce,
inoltre, che l'accertamento dell'inottemperanza alla
ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3,
previa notifica all'interessato, costituisce titolo per
l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente).
I successivi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, introdotti dalla
legge 164/2014, prevedono anche, in caso di accertata
inottemperanza, l'irrogazione di una sanzione amministrativa
pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro,
salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da
norme vigenti, la quale, in caso di abusi realizzati sulle
aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.
Le
regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo
delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma
4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili
qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione.
I proventi delle sanzioni spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico La mancata o
tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte
salve le responsabilità penali, costituisce elemento di
valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente.
L'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del comune
ha, quale finalità, la demolizione a spese dei responsabili
dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si
dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e
sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi
urbanistici o ambientali.
Il comma 8 dell'art. 31 individua i poteri sostitutivi del
competente organo regionale in caso di inerzia.
L'art. 31, al comma 9, infine, dispone che, per le opere
abusive cui esso si riferisce, «il giudice, con la
sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44,
ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia
stata altrimenti eseguita».
5. Come si evince dal complesso delle disposizioni appena
richiamate, la disciplina urbanistica individua la
demolizione dell'abuso edilizio come un'attività avente
finalità ripristinatorie dell'originario assetto del
territorio imposta all'autorità amministrativa, che deve
provvedervi direttamente nei casi previsti dall'art. 27,
comma 2, o attraverso la procedura di ingiunzione.
Si tratta, come osservato anche dalla più attenta dottrina,
di sanzioni amministrative che prescindono dalla sussistenza
di un danno e dall'elemento psicologico del responsabile, in
quanto applicabili anche in caso di violazioni incolpevoli,
sono rivolte non solo alle persone fisiche, ma anche alle
persone giuridiche ed agli enti di fatto e sono generalmente
trasmissibili nei confronti degli eredi del responsabile
(v., ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del
30.05.2011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino
nella disponibilità del bene (v., ad es. Consiglio di Stato,
Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4,
n. 6554 del 24.12.2008. V. anche n. Cass. Sez. 3, n. 48925
del 22/10/2009, Viesti, Rv. 245918).
La particolarità della demolizione ha portato, sempre in
dottrina, anche a dubitare della riconducibilità della
stessa nel novero delle sanzioni amministrative propriamente
dette ed ha indotto ad operare anche una condivisibile
distinzione tra natura «ripristinatoria» della
demolizione, natura «riparatoria» dell'interesse
pubblico leso dell'acquisizione gratuita e delle sanzioni
pecuniarie alternative alla demolizione e natura «punitiva»
delle sanzioni pecuniarie aggiuntive alla riduzione in
pristino, nonché quelle conseguenti all'inottemperanza
all'ingiunzione a demolire.
6. Va altresì rilevato che, considerato il complesso delle
disposizioni sopra richiamate, i provvedimenti finalizzati
alla demolizione dell'immobile abusivo adottati
dall'autorità amministrativa risultano completamente
autonomi rispetto alle eventuali statuizioni del giudice
penale e, più in generale, alle vicende del processo penale,
tanto è vero che si è affermato, ad esempio, come il
sequestro penale dell'immobile non sia ostativo alla
demolizione (v., ad es,. Consiglio di Stato Sez. 6, n. 3626
del 09.07.2013; Sez. 4, n. 1260 del 06.03.2012. V. anche
Cass. Sez. 3, n. 17188 del 24/03/2010, Marinelli, Rv.
247152; Sez. 3, n. 9186 del 14/01/2009, RM. in proc. Mancini
e altro, Rv. 243098)
7. Per ciò che concerne, in particolare, la demolizione
ordinata dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R., 380/2001, va rilevato, in primo luogo, che la
disposizione si pone in continuità normativa con il
previgente art. 7 della legge 47/1985 (Sez. 3, n. 32211 del
29/05/2003, Di Bartolo, Rv. 225548) e costituisce atto
dovuto del giudice penale, esplicazione di un potere
autonomo e non alternativo al quello dell'autorità
amministrativa, con il quale può essere coordinato nella
fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013
(dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez.3, n. 37906 del
22/05/2012, Mascia ed altro, non massimata; Sez. 6, n. 6337
del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511 ed altre prec. conf.
Ma si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in
proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996
(dep. 1997), Luongo, Rv. 206659).
La disposizione, inoltre, si pone come norma di chiusura del
complesso sistema sanzionatorio amministrativo in precedenza
descritto (cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308
del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di
Gennaro, Rv. 185699).
Quanto alla sua natura, va osservato che trattasi di una
sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio ed ha carattere reale.
Per tali ragioni, l'ordine di demolizione impartito dal
giudice può essere revocato dallo stesso giudice che lo ha
emesso quando risulti incompatibile con un provvedimento
adottato dall'autorità amministrativa, indipendentemente dal
passaggio in giudicato della sentenza (Sez. 3, n. 47402 del
21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972; Sez. 3, n. 3456 del
21/11/2012 (dep.2013), Oliva, Rv. 254426; Sez. 3, n. 25212
del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050 Sez. 3, n. 73 del
30/04/1992, Rizzo, Rv. 190604; Sez. 3, n. 3895 del
12/02/1990, Migno, Rv. 183768), ad esso non sono applicabili
l'amnistia e l'indulto (Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep.
2011), D'Avino, Rv. 249309; Sez. 3, n. 6579 del 01/04/1994,
Galotta ed altri, Rv. 198063; Sez. F, n. 14665 del
30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699, cit.).
Il giudice può inoltre emettere l'ordine di demolizione
anche nell'ipotesi dell'applicazione della pena ai sensi
dell'art. 444 cod. proc. pen. indipendentemente dall'accordo
delle parti ed esso resta eseguibile indipendentemente dal
decorso del termine previsto dall'art. 445, comma secondo,
cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 18533 del 23/3/2011, Abbate, Rv.
250291), dovendosi escludere la sua natura di pena
accessoria (Sez. 3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv.
240539; Sez. 6, n. 2880 del 10/06/2002 (dep. 2003), Gobbi,
Rv. 223716; Sez. 3, n. 64 del 14/1/1998, P.M. in proc.
Corrado F, Rv. 210128 ed altre prec. conf.),
il che
determina anche la inapplicabilità della sospensione
condizionale della pena (Sez. 3, n. 34297 del 05/07/2007,
Moretti, Rv. 237220; Sez. 3, n. 36555 del 09/07/2002,
Prencipe, Rv. 222485; Sez. 3, n. 2294 del 18/06/1999, Neri
F, Rv. 215070 ed altre prec. conf.).
In caso di omessa statuizione da parte del primo giudice,
l'ordine può essere impartito dal giudice dell'appello (Sez.
5, n. 13812 del 11/11/1999, Giovannella F ed altro, Rv.
214608) o direttamente dalla Corte di cassazione (Sez. 3, n.
18509 del 15/1/2015, RG. in proc. Gioffrè, Rv. 263557; Sez.
3, n. 1365 del 18/09/1992, P.M. in proc. Marchese, Rv.
192057).
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non
impedisce, come si è accennato in precedenza, la demolizione
(Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802; Sez.
3, n. 801 del 2/12/2010 (dep. 2011), Giustino e altri, Rv.
249129; Sez. 3, n. 45301 del 7/10/2009, Roscetti, Rv. 245213
ed altre prec. conf.), così come la sua locazione (Sez. 3,
n. 37051 del 08/07/2003, Moressa, Rv. 226319)
e l'ordine demolitorio non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
alla irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 3861 del
18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317; Sez. 3, n. 3720
del 24/11/1999 (dep. 2000), Barbadoro G, Rv. 215601).
La sua efficacia, poi, si estende all'intero manufatto,
comprensivo di aggiunte o modifiche successive all'esercizio
dell'azione penale e/o alla condanna per il reato edilizio
(Sez. 3, n. 38947 del 9/7/2013, Amore, Rv. 256431; Sez. 3,
n. 21797 del 27/4/2011, Apuzzo, Rv. 250389 ed altre prec.
conf.). Esso opera anche in caso di avvenuta acquisizione
dell'immobile al patrimonio comunale (Sez. 3, n. 26149 del
09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, Sentenza n. 37120
del 08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321).
8. La natura dell'ordine di demolizione impartito dal
giudice è stata presa in considerazione anche con
riferimento alla questione oggetto del presente
procedimento, concernente la eventuale estinzione dello
stesso per il decorso del tempo.
Si è così stabilito che l'ordine impartito dal giudice, che
configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela
del territorio, non è soggetto alla prescrizione
quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative
dall'art. 28 della l. 689/1981, che riguarda le sanzioni
pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 16537 del
18/02/2003, Filippi, Rv. 227176) e, stante la sua natura di
sanzione amministrativa, non si estingue neppure per il
decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3,
n. 36387 del 7/7/2015, Formisano, non ancora massimata; Sez.
3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336;
Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670),
atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole
pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv. 226573).
9. I principi in precedenza menzionati sono pienamente
condivisi dal Collegio, che ad essi intende dare continuità.
Essi non si pongono, inoltre, in contrasto con la
giurisprudenza della Corte EDU che il provvedimento
impugnato richiama.
Va a tale proposito rilevato come questa Corte abbia già
avuto modo di affermare la compatibilità dell'ordine di
demolizione e del sequestro eseguiti dopo la cessione a
terzi del manufatto abusivo con le norme CEDU, come
interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009,
nel caso Sud Fondi c/ Italia (Sez. 3, n. 48925 del
22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918. Nello stesso senso,
Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403).
Si è in quell'occasione precisato che proprio considerando
le argomentazioni sviluppate dalla Corte di Strasburgo
poteva ricavarsi che la demolizione, a differenza della
confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi
dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla
riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua
essenza a punire per impedire la reiterazione di
trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Si osservava, inoltre, che la sentenza «nel mentre ha
ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla
norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione
di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la
confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di
qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto
giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di
demolizione delle opere abusive incompatibili con le
disposizioni degli strumenti urbanistici eventualmente
accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli
abilitativi illegittimi. Sembra quindi confermato che la
invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha
escluso un sequestro o un ordine di demolizione dell'opera
contrastante con le norme urbanistiche nei confronti di
chiunque ne sia in possesso, anche qualora si tratti di
terzo acquirente estraneo al reato, ma ha addirittura
implicitamente ritenuto che una tale sanzione
ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo
scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una
ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi
e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai
ricorrenti».
10. Tali considerazioni vanno qui ribadite, ricordando anche
come autorevole dottrina abbia recentemente ricordato, nel
commentare la «sentenza Varvara» (Corte EDU Varvara c.
Italia, del 29/10/2013) e la lettura datane dalla Corte
Costituzionale (sent. 49/2015), che le sentenze della Corte
europea non vanno interpretate ricorrendo all'apparato
concettuale e linguistico proprio del diritto interno, in
quanto la Corte, quando non utilizza termini che richiamano
espressamente il significato che essi hanno nel diritto
nazionale, utilizza nozioni definite «autonome»,
rilevando anche come un diverso approccio potrebbe portare a
incomprensioni o distorsioni foriere di gravi conseguenze.
11. Alla luce delle considerazioni sopra svolte deve dunque
pervenirsi alla conclusione che l'ordine di demolizione
dell'immobile abusivo impartito dal giudice penale ai sensi
dell'art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, diversamente da quanto
sostenuto nell'impugnato provvedimento, non ha affatto
natura di sanzione penale nel senso individuato dalla
normativa CEDU, ostandovi non soltanto la qualificazione
giuridica attribuitagli attraverso l'analisi
giurisprudenziale, dianzi ricordata, ma anche il fatto che
la demolizione imposta dal giudice, come si è più volte
rilevato in precedenza, non ha finalità punitive.
L'intervento del giudice penale si colloca, come pure si è
detto, a chiusura di una complessa procedura amministrativa
finalizzata al ripristino delle originario assetto del
territorio alterato dall'intervento edilizio abusivo,
nell'ambito del quale viene considerato il solo oggetto del
provvedimento (l'immobile da abbattere), prescindendo del
tutto dall'individuazione di responsabilità soggettive,
tanto che la demolizione si effettua anche in caso di
alienazione del manufatto abusivo a terzi estranei al reato,
i quali potranno poi far valere in altra sede le proprie
ragioni.
L'intervento del giudice penale, inoltre, non è
neppure scontato, dato che egli provvede ad impartire
l'ordine di demolizione se la stessa ancora non sia stata
altrimenti eseguita.
12. Va conseguentemente affermato il seguente principio di
diritto: la demolizione del manufatto
abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi
dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti
eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve
ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico
leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha
carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in
rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o
meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e
non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173
cod. pen.. |
EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio e sanatoria ordinaria: diversità di
presupposti e finalità.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui
sussiste il principio di “doppia conformità”) e l’istituto
straordinario del condono edilizio operano, infatti, su
presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da
apposite normative che non possono, evidentemente,
sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione
(anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono
escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo
le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che
riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide
sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione
del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella
prevista.
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Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed
assorbenti le argomentazioni difensive con cui l’appellante
sottolineava come la nuova configurazione del manufatto (in
posizione rialzata rispetto al progetto originariamente
assentito) fosse stata già oggetto di sanatoria, con
successiva richiesta di condono edilizio solo per estinguere
il reato paesaggistico.
Dette argomentazioni appaiono ragionevoli e non smentite
dalla documentazione in atti, in cui si rinvengono
certificato di assenza di danno ambientale (rectius:
paesaggistico) in data 06.02.2003, concessione edilizia in
sanatoria n. 2.653/1 del 26.03.2003, per “innalzamento
quota d’imposta di fabbricato” e permesso di costruire
in variante n. 2653/3 del 04.05.2004.
In tale contesto la domanda di condono edilizio, depositata
il 04.03.2004, appare plausibilmente riconducibile
all’intento enunciato dall’appellante, o a finalità
tuzioristiche in rapporto ad eventuali iniziative
dell’Amministrazione in via di autotutela (in effetti
annunciate il 31.03.2003, ma della cui eventuale conclusione
non si ha notizia).
L’atto di condono edilizio del 09.10.2006, in effetti, non
poteva validamente riferirsi solo alle fondamenta e al piano
interrato, posto che –come rilevato nella sentenza
appellata– l’art. 32, comma 25, del decreto-legge
30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n.
326, circoscrive l’oggetto della sanatoria alle “opere
abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003”:
circostanza, quest’ultima, non sussistente nel caso di
specie.
Sotto il profilo in questione, pertanto, le conclusioni
della medesima sentenza, nella parte riferita
all’annullamento del condono edilizio, sono condivisibili,
mentre non può dirsi altrettanto per l’affermazione, secondo
cui tutti gli atti antecedenti al condono sarebbero stati
assorbiti da quest’ultimo, il cui “travolgimento
determinerebbe il venir meno dell’unico titolo legittimante
l’intervento avversato”.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui sussiste il
principio di “doppia conformità”) e l’istituto
straordinario del condono edilizio operano, infatti, su
presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da
apposite normative che non possono, evidentemente,
sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione
(anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono
escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo
le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che
riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide
sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione
del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella
prevista.
E’ vero che detta sanatoria e le successive varianti erano
state oggetto del ricorso introduttivo e dei primi motivi
aggiunti del controinteressato, signor Se.Sa.; ma tali
argomentazioni difensive non sono state riproposte in
appello, mentre l’improcedibilità risulta sostanzialmente
contestata dall’appellante, che sottolinea le differenti
sequenze procedimentali della sanatoria e del condono
edilizio, con conseguente sopravvivenza della prima
all’annullamento del secondo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.12.2015 n. 5624 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Specie
in tema di misure pecuniarie, solo un provvedimento
favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria può sortire
l’effetto di porre nel nulla, indistintamente, gli atti
sanzionatori in precedenza adottati in relazione all’abuso,
mentre, per converso, un suo diniego non comporta l’onere
per il comune di riattivare un procedimento sanzionatorio
ormai completamente definito.
----------------
- Rilevato che la ricorrente impugna una cartella
esattoriale emessa dal concessionario per la riscossione del
comune di Lamezia Terme con riferimento ad
un’ordinanza-ingiunzione per il pagamento di una sanzione
edilizia notificata il 17.12.2012 e non impugnata,
formulando censure sia sul merito della pretesa, sia sulla
ritualità formale della cartella;
- Ritenuto che, in materia edilizia, la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo consente allo stesso
una cognizione limitata alla sola legittimità
dell’iscrizione a ruolo, per la mancanza del titolo
legittimante o per l’esistenza di fatti estintivi
sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, senza
possibilità di vagliare eventuali vizi dell’esecuzione, che
devono essere fatti valere con l’opposizione agli atti
esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c., da attivarsi nel caso
in cui si contesti la ritualità formale della cartella
esattoriale o si adducano vizi di forma del procedimento di
esecuzione esattoriale, compresi quelli strettamente
inerenti alla notifica della cartella o riguardanti i
successivi avvisi di mora (cfr. Cass. civ, Sez. II,
22.02.2010 n. 4139; TAR Marche 17.05.2010 n. 389);
- Considerato che la parte ricorrente, nella parte
ammissibile del gravame, sostiene che gli effetti
dell’ordinanza ingiunzione sono venuti a meno in seguito
alle due SCIA in sanatoria, da lei presentate al comune di
Lamezia Terme in data 27.04.2012 ed in data 18.11.2012 e da
questo mai decise;
- Ritenuto che, specie in tema di misure pecuniarie, solo un
provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria
può sortire l’effetto di porre nel nulla, indistintamente,
gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione
all’abuso, mentre, per converso, un suo diniego non comporta
l’onere per il comune di riattivare un procedimento
sanzionatorio ormai completamente definito (cfr. TAR
Sardegna, Sez. II, 18.04.2013 n. 335)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 10.12.2015 n. 1865 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In relazione ai lavori eseguiti su manufatti
originariamente abusivi che non siano stati sanati, né
condonati (ed anche se illegittimamente sanati o condonati),
sono configurabili le fattispecie di illecito previste
dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in quanto gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nello loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente.
---------------
Nondimeno i primi due motivi di gravame non hanno alcun
fondamento e tanto anche sotto altro e concorrente profilo.
Se anche, come sostiene il ricorrente attraverso uno dei
profili della doglianza, egli ha eseguito lavori in
relazione ad una preesistente veranda, anch'essa abusiva,
l'illecito edilizio deve comunque ritenersi ampiamente
sussistente, avendo questa Corte reiteratamente affermato il
principio secondo il quale, in relazione ai
lavori eseguiti su manufatti originariamente abusivi che non
siano stati sanati, né condonati (ed anche se
illegittimamente sanati o condonati), sono configurabili le
fattispecie di illecito previste dall'art. 44 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, in quanto gli interventi ulteriori (sia
pure riconducibili, nello loro oggettività, alle categorie
della manutenzione straordinaria, del restauro e/o
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera
principale alla quale ineriscono strutturalmente
(Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano, Rv. 234472; Sez.
3, n. 1810 del 02/12/2008, dep. 19/01/2009, P.M. in proc.
Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014,
Stewart ed altro Rv. 259665; Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014
Rossignoli ed altri, Rv. 261330) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.12.2015 n. 48221 - tratto da
www.lexambiente.it). |
novembre 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA:
In tema di inadempimento del contratto di
appalto, le disposizioni speciali di cui agli articoli 1667,
1668 e 1669 del Cc, integrano, senza escluderne
l’applicazione, i principi generali in materia di
inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che,
nel caso in cui l’opera sia stata realizzata in violazione
delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il
committente, convenuto per pagamento del prezzo, può, al
fine di paralizzare la pretesa avversaria, opporre le
difformità e i vizi dell’opera, in virtù del principio
inadimplenti non est adimplendum, richiamato dal secondo
periodo dell’ultimo comma dell’articolo 1667 del Cc, anche
quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la
domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.
---------------
1.= Con l'unico
motivo di ricorso Sa.Cr.Gi. e Sa.Cr.Ro. denunciano la
violazione di norma di diritto in relazione all'art. 1460
cc. (art. 360 n. 3 cpc.).
Secondo i ricorrenti, avrebbe errato il Tribunale di
Cagliari laddove ha affermato che l'art. 1460 cc non poteva
trovare applicazione alla fattispecie oggetto del giudizio
perché i committenti di un'opera, convenuti in giudizio per
il pagamento del saldo del prezzo pattuito, possono
legittimamente sollevare l'eccezione di inadempimento ex
art. 1460 cc. nel caso in cui l'opera sia stata realizzata
in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole
tecniche e risulti non perfettamente funzionante anche
qualora non si siano avvalsi della garanzia per difformità e
vizi dell'opera di cui all'art. 2226 cc o siano decaduti per
non aver denunciato tempestivamente le difformità e i vizi
medesimi ovvero l'azione sia prescritta.
1.1.= Il motivo è infondato.
Questa Corte ha ripetutamente precisato che
in tema di inadempimento del contratto di appalto,
le disposizioni speciali di cui agli artt. 1667, 1668 e 1669
cod. civ. integrano -senza escluderne l'applicazione- i
principi generali in materia di inadempimento delle
obbligazioni, con la conseguenza che, nel caso in cui
l'opera sia stata realizzata in violazione delle
prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il
committente, convenuto per il pagamento del prezzo, può -al
fine di paralizzare la pretesa avversaria- opporre le
difformità e i vizi, dell'opera, in virtù del principio "inadimplenti
non est adimplendum", richiamato dal secondo periodo
dell'ultimo comma dell'art. 1667 cod. civ., anche quando non
abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di
garanzia o la stessa sia prescritta
(Cass. n. 4446 del 20/03/2012).
Tuttavia, è opportuno evidenziare che
l'art. 1667 cc., ma lo stesso vale per la normativa di cui
all'art. 2226 cc., specifica che il committente convenuto
per il pagamento può sempre far valere la garanzia purché le
difformità o i vizi siano stati denunziati entro (otto
giorni e/o) sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano
decorsi i due anni dalla consegna. Ciò significa che il
committente convenuto per il pagamento del corrispettivo non
ha possibilità di opporre le difformità e i vizi dell'opera,
in virtù del principio "inadimplenti non est adimplendum",
se i vizi o le difformità non siano stati denunciati nei
tempi previsti.
D'altra parte, se così non fosse, verrebbe
vanificata la portata dell'art. 2226 cc. e/o dell'art. 1667
cc, cioè, la necessità di una tempestiva denuncia dei vizi e
delle difformità da parte del committente, perché sarebbe
facilmente superabile.
Ora, la decisione impugnata si è uniformata, correttamente,
a questi principi.
Come è stato affermato:
a) gli opponenti non hanno mai contestato che gli impianti
di riscaldamento commessi al Meloni fossero stati
effettivamente dallo stesso installati nelle abitazione di
loro proprietà;
b) gli opponenti non hanno fornito in giudizio compiuta
dimostrazione dell'avvenuto inoltro di tempestiva denuncia
entro il termine di otto giorni dalla scoperta del vizio,
relativo ad un mal funzionamento della caldaia, denunciato,
come sembra, con lettera del 20.10.2004 e, cioè, quasi un
anno dopo l'avvenuta consegna dell'opera.
Sicché, alla luce delle emergenze istruttorie ed, in
particolare, considerata l'irrimediabile tardività della
denuncia dei vizi da parte dei committenti, odierni
ricorrenti, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto
che nel caso concreto non potesse trovare applicazione la
normativa di cui all'art. 1460 cc..
In definitiva, il ricorso va rigettato e i ricorrenti, in
ragione del principio di soccombenza ex art. 91 cpc,
condannati in solido al pagamento delle spese del presente
giudizio di cassazione che vengono liquidate con il
dispositivo.
Il Collegio, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del DPR
115 del 2002 da atto che sussistono i presupposti per il
versamento da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso principale a norma del comma i-bis dello stesso art.
13 (massima tratta
da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI
civile,
sentenza 30.11.2015 n. 24400). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla sanabilità di
interventi realizzati su opere abusive, sulle quali penda
procedimento di condono, questo Tribunale ha avuto modo di
chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di
demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in
presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa
assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle
lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali
pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di
assoggettamento della medesima sanzione prevista per
l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile
per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione
condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria
responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di
domanda di condono edilizio solo al decorso del termine
dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del
proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata
ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato
dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle
opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in
aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che
siano stati espressi i pareri delle competenti
amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi,
non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza
far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi
aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o
parere favorevole, che sia)”.
---------------
La seconda questione attiene alla sanabilità di interventi
realizzati su opere abusive, sulle quali penda procedimento
di condono.
Al riguardo, questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di
demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in
presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa
assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle
lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la
possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali
pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di
assoggettamento della medesima sanzione prevista per
l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile
per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria
responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di
domanda di condono edilizio solo al decorso del termine
dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del
proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata
ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato
dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle
opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in
aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che
siano stati espressi i pareri delle competenti
amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi,
non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza
far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi
aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o
parere favorevole, che sia)” (TAR Campania, Napoli, VI,
sent. 24017/2010).
Le considerazioni sopra riportate sorreggono dunque la
legittimità della determinazione, soprintendentizia prima e
comunale poi, di non sanare opere realizzate su un manufatto
allo stato attuale non legittimo
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.11.2015 n. 2530 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, la Cassazione chiarisce quando un reato
urbanistico è penale.
La consistenza dell'intervento abusivo è solo uno dei
parametri.
La consistenza dell'intervento abusivo
-tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche
costruttive- costituisce solo uno dei parametri di
valutazione ai fini dell'applicazione dell'articolo 131-bis
del Codice penale per le violazioni urbanistiche e
paesaggistiche.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con
la
sentenza 27.11.2015 n. 47039.
GLI ALTRI ELEMENTI DA CONSIDERARE.
“Riguardo agli aspetti urbanistici –sottolinea la
Cassazione- assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad
esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento”.
Per la suprema Corte “Indice sintomatico della non
particolare tenuità del fatto è, inoltre, (...) la
contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate,
mediante la realizzazione dell'opera, anche altre
disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi
(si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone
sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del
paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione
delle aree demaniali)” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Asti, con sentenza del 13/04/2015 ha
dichiarato non doversi procedere nei confronti di Al.DE. per
essere il reato a lui ascritto non punibile per particolare
tenuità.
Il predetto era chiamato a rispondere del reato di cui agli
artt. 181 d.lgs. 42/2004 e 44, lett. c), d.P.R. 380/2001,
per aver eseguito, in assenza del permesso di costruire e
dell'autorizzazione paesaggistica, su terreno di proprietà
comunale, una tettoia poggiante su un immobile di proprietà
di Pi.LA. ed oggetto di ordine di demolizione e su tre
pilastri in legno di cm. 20x20 imbullonati nella
pavimentazione, con copertura di onduline, con occupazione
di circa m. 5,15 per 6,00, con altezza di intradosso
centrale di m. 3,50 circa e di intradosso laterale di m.
2,83 circa, nonché di una tettoia poggiante sull'immobile e
cinque pilastri in legno di cm. 10x10 imbullonati, con
occupazione di m. 4,50x6,00 circa, altezza di intradosso
interno m. 2,45, altezza di intradosso esterno m. 2,05 circa
(in Carmagnola, nel febbraio 2013, accertamento in sede di
sopralluogo il 25/07/2013).
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti,
deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, ai sensi
dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un unico motivo di ricorso lamenta l'inosservanza e
l'erronea applicazione della legge penale ed il vizio di
motivazione, rilevando, in primo luogo, che il giudice del
merito avrebbe pronunciato sentenza ai sensi dell'art. 469
cod. proc. pen. nonostante la motivata opposizione del
Pubblico Ministero, ritenendo erroneamente non riferibile al
comma 1-bis della menzionata disposizione codicistica la
previsione di cui al primo comma, che subordina la pronuncia
della sentenza predibattimentale alla non opposizione delle
parti.
Per tali ragioni, rileva, emettendo sentenza
predibattimentale nonostante l'opposizione di una delle
parti, il Tribunale sarebbe incorso in una nullità di cui
all'art. 178 cod. proc. pen..
Rileva, poi, che la sentenza sarebbe caratterizzata da una
non corretta valutazione dei presupposti di applicabilità
dell'art. 131-bis cod. pen., che sarebbero mancanti in
considerazione della natura e consistenza dell'opera
realizzata e della abitualità del comportamento desumibile
dalla permanenza della condotta posta in essere.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
19. Per ciò che concerne, in particolare,
le violazioni urbanistiche e paesaggistiche,
che qui interessano, deve ritenersi che la
consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di
intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive)
costituisce solo uno dei parametri di valutazione.
Riguardo agli aspetti urbanistici, in
particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali,
ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Indice sintomatico della non particolare
tenuità del fatto è, inoltre,
come si è accennato in precedenza, la
contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate,
mediante la realizzazione dell'opera, anche altre
disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi
(si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone
sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del
paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione
delle aree demaniali).
20. Date tali premesse, deve rilevarsi come la valutazione
operata dal giudice del merito nel riconoscere la
particolare tenuità del fatto risulta limitata e parziale,
in quanto si sofferma, come rilevato anche in ricorso,
esclusivamente sulle caratteristiche costruttive e
dimensionali delle opere e sulla loro destinazione. La
verifica effettuata, inoltre, tralascia completamente di
considerare alcuni dati fattuali individuabili dalla mera
lettura dell'imputazione, la cui sussistenza non viene posta
in discussione e rispetto ai quali la motivazione della
sentenza impugnata si pone palesemente in contraddizione.
21. Sebbene assuma aspetto decisivo, ai fini del giudizio di
particolare tenuità della condotta, per le ragioni dianzi
dette, la contestuale violazione della disciplina
urbanistica e paesaggistica, per il fatto che la
contestazione dell'art. 181 d.lgs. 42/2004 sia stata del
tutto ignorata, va anche rilevato che, a fronte della
positiva valutazione sulla non particolare modificazione del
territorio e sulla destinazione dell'intervento, nulla si
dice sul fatto che, nell'imputazione, viene precisato che le
opere sono state eseguite su area di proprietà comunale, né
si considera che l'imputazione medesima specifica che le
tettoie sono state realizzate in adiacenza di immobile (di
proprietà di altro soggetto) oggetto di ordine di
demolizione e, pertanto, verosimilmente abusivo.
Si tratta, anche in questo caso, di un dato non
indifferente, che avrebbe dovuto essere oggetto di specifica
valutazione, atteso che, secondo la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve, in
generale, ritenersi preclusa ogni possibilità di intervento
su immobili abusivi non condonati o sanati, perché essi,
anche quando siano riconducibili, nella loro oggettività,
alle categorie della manutenzione straordinaria, del
restauro e/o risanamento conservativo, della
ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di
illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente
(Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014, Rossignoli e altri, Rv.
261330; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014, Stewart e altro, Rv.
259665; Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.M. in
proc. Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006,
Rossi, Rv. 235382; Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano,
Rv. 234472). Una simile condotta, pertanto,
si risolverebbe in un ulteriore aggravamento di un abuso
preesistente.
22. In ricorso viene, infine, correttamente censurata anche
la errata qualificazione delle opere realizzate come
precarie, come evidenzia il riferimento del giudice del
merito alla loro «provvisorietà», dedotta sulla base
delle caratteristiche costruttive, essendo tali, invece,
quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e
temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità (cfr. art. 6 d.P.R. 380/2001), ciò in quanto
tale precarietà risulta esclusa dalla stabile destinazione
alle esigenze abitative
riconosciuta dal Tribunale e stigmatizzata dal ricorrente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.11.2015 n. 47039). |
URBANISTICA: In
base all'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 “Si
ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti, che per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti, è
configurata una tipologia di abusivismo di particolare
gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori:
mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione
di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da
far supporre “la destinazione a scopo edificatorio”,
mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto
territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra
descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione
c.d. “materiale”, o anche solo “negoziale”
e tali da giustificare l’adozione di severe misure
repressive
(art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di
cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che,
“ove non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta
ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile
del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva
–figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta
disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere abusive)– non deve confondersi con
l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento
edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la
disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite
nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca
casistica giurisprudenziale, una
lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in
presenza della preordinata trasformazione di una porzione di
territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita
maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la
consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o
integrazione della necessaria rete di opere di
urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la
prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di
complessi ad uso commerciale o direzionale– previa
suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce
dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento
–programmato o in corso di realizzazione– ma alle finalità
ed alle conseguenze dello stesso, in termini di “peso
insediativo” sul territorio. Per tale ragione, potendo la
sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si
richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi
ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a
prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente
incompatibile sia con quello esistente che con quello
previsto dagli strumenti urbanistici.
La norma di riferimento, sopra riportata,
per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse
urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante
la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di
un’ampia porzione di territorio (“di terreni”),
non esclude in sé che la lottizzazione possa
avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente
preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in
una situazione, che rende oggettivamente più difficile la
configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30
del d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed
assorbenti, nel caso di specie, le censure riferite ad
omessa puntuale individuazione dei presupposti della
lottizzazione abusiva, quali desumibili dal citato art. 30
del d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla citata norma “Si ha
lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando
vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti, che per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti, è configurata
una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base
alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di
opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più
o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre “la
destinazione a scopo edificatorio”, mediante opere
concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale
preesistente: situazioni, quelle sopra descritte,
corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. “materiale”,
o anche solo “negoziale” e tali da
giustificare l’adozione di severe misure repressive
(art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di
cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, “ove
non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta
ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio
disponibile del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva
–figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta
disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere abusive)– non deve confondersi con
l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento
edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la
disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite
nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca
casistica giurisprudenziale, una
lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in
presenza della preordinata trasformazione di una porzione di
territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita
maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la
consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o
integrazione della necessaria rete di opere di
urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la
prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di
complessi ad uso commerciale o direzionale– previa
suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce dunque
non tanto alla materiale entità dell’intervento –programmato
o in corso di realizzazione– ma alle finalità ed alle
conseguenze dello stesso, in termini di “peso insediativo”
sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione
intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che
l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci,
ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un
perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia
con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti
urbanistici (cfr.
in senso sostanzialmente conforme, tra le tante, Cons.
Stato, VI, 29.01.2015, n. 410; 07.08.2015, n. 3911,
26.05.2015, n. 2649).
La norma di riferimento, sopra riportata,
per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse
urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante
la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di
un’ampia porzione di territorio (“di terreni”),
non esclude in sé che la lottizzazione possa avere
luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente
preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in
una situazione, che rende oggettivamente più difficile la
configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nella situazione in esame non è contestata la preesistenza
di due immobili, su cui risulta effettuata una
ristrutturazione con mutamento di destinazione d’uso, con
nuove opere di urbanizzazione che appaiono, tuttavia,
limitate alla realizzazione di parcheggi (oltre
all’ammodernamento di altre infrastrutture già esistenti),
in un contesto che già sotto tale profilo non avalla, con la
necessaria consistenza di elementi indiziari, l’ipotesi
lottizzatoria, non emergendo la finalità caratteristica di
sottoporre a nuova edificazione terreni non urbanizzati,
corrispondenti a porzioni di un certo rilievo del
territorio.
La stessa Amministrazione, con la prima ordinanza di
sospensione dei lavori n. 396 del 05.05.2009, preannunciava
ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 (comunicazione di
avvio del procedimento) l’adozione di “provvedimenti
sanzionatori” e –non senza intrinseca contraddittorietà–
ingiungeva la demolizione di quanto realizzato, senza però
contestare la lottizzazione. Il giudice di primo grado
interpretava quindi l’atto in questione come mero ordine di
sospensione dei lavori, ormai privo di efficacia.
La misura tipica, di cui all’art. 30 del T.U., veniva quindi
emessa con l’impugnata ordinanza n. 30 del 25.01.2010, cui
faceva seguito la mera ricognizione di intervenuta
acquisizione dell’area, con atto n. 36057 del 24.06.2010.
Nella citata ordinanza n. 30 del 2010, in particolare,
appaiono recepite le conseguenze di un’ipotesi di reato
(lottizzazione abusiva) emersa in sede penale, ma che in via
amministrativa non appare suffragata da nuovi accertamenti,
in quanto la descrizione dell’intervento coincide con
quella, già in precedenza formulata per la sospensione dei
lavori.
Non modifica sostanzialmente tale stato di fatto la generica
enunciazione secondo cui –sulla base di non meglio precisati
“approfondimenti e valutazioni tecniche”– le opere
realizzate sarebbero apparse “riconducibili ad opere di
urbanizzazione che per la loro entità, o, in altri termini,
per le loro caratteristiche dimensionali e funzionali”
avrebbero comportato “uno stravolgimento dei luoghi,
finalizzato allo svolgimento di attività incompatibili con
la normativa vigente”; tali opere pertanto, “nella
loro complessità”, avrebbero determinato una “trasformazione
edilizia ed urbanistica tale, da configurare una
lottizzazione abusiva”.
La motivazione così sintetizzata, in effetti, appare in
buona parte tautologica e tale da non evidenziare i concreti
elementi in base ai quali le edificazioni preesistenti, con
l’aggiunta di parcheggi e nella nuova dimensione
direzionale, avrebbero tanto profondamente modificato
l’assetto del territorio da essere equiparabili
all’introduzione di un nuovo insediamento in area non ancora
urbanizzata (come avrebbe potuto ritenersi, ad esempio, in
presenza di un centro direzionale o commerciale di
consistenti dimensioni, realizzato in località inedificata,
o interessata in precedenza da sporadiche costruzioni
rurali, con esigenze infrastrutturali del tutto diverse).
Molto meno incisiva, rispetto a quella in astratto
descritta, è la situazione sottoposta a giudizio, in cui non
è contestato che i fabbricati, resi oggetto di mutamento di
destinazione d’uso, fossero già in precedenza estranei
all’uso agricolo dei terreni, così come non è contestato che
gli stessi non siano stati radicalmente trasformati,
rispetto all’originaria consistenza e che fossero già
serviti –tranne per quanto riguarda i parcheggi– da opere di
urbanizzazione primaria.
In tale contesto –pur restando salvi i provvedimenti che
l’Amministrazione è tenuta ad adottare, in presenza di opere
edilizie sprovviste dei necessari titoli abilitativi e non
assentibili– il Collegio ritiene che non siano stati
adeguatamente rappresentati i presupposti della
lottizzazione abusiva, con conseguente illegittimità dei
provvedimenti impugnati e con assorbimento di ogni ulteriore
motivo di gravame.
L’appello può dunque essere accolto, con le conseguenze
precisate in dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.11.2015 n. 5328 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può configurarsi come elemento meramente
accessorio dell'edificio, la realizzazione di una canna
fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in
quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò
comportando una modifica del prospetto e della sagoma del
fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento
nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui
all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi
elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di
costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello
stesso D.P.R.”.
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato
anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in
cotto.
Né peraltro, la costruzione di canne
fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella
disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che
le stesse producono una modifica dei prospetti
dell’edificio.
---------------
Non appare rilevante, in favore del
ricorrente, il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso
ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è
subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti
giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso
di un significativo intervallo temporale tra la
realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e
sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche
che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera
ragionevolmente certa la colpevole inerzia
dell’amministrazione.
Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal
ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta
nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul
piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei
suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza
dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche
implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in
occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di
altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di
specie, non può sostenersi essersi verificata.
---------------
L’attribuzione all’opera (abusiva)
contestata di un nome diverso da quello in concreto
pertinente, non è da sola sufficiente per compromettere la
legittimità dell’atto sanzionatorio, soprattutto laddove, al
di là del profilo nominalistico, l’amministrazione ne
individui esattamente la collocazione, la consistenza, i
materiali e le caratteristiche. Nel caso specifico, non vi
sono dubbi né contestazioni sull’esatta identificazione di
questi elementi.
----------------
La consistenza e la natura dei due
manufatti difformi dalla licenza di costruzione non possono
che risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione
all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi
preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i
soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del
ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono
obiettivamente destituite di fondamento.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 28.11.2012
del Dirigente del settore, notificata il successivo 6
dicembre, con cui si intima la demolizione di opere
asseritamente abusive.
...
6.- I tre motivi di censura possono essere trattati
congiuntamente, in relazione agli evidenti profili di
connessione argomentativa negli stessi presenti.
6.1.- Va, in primo luogo, smentita la premessa dalla quale
poi generano le molteplici censure a vario titolo sollevate
dal ricorrente, ossia le modeste dimensioni della canna
fumaria.
Come rilevato dal sopralluogo dell’U.T.C., condotto in data
19.05.2012 –che si ritiene opportuno riportare
integralmente- risultano i seguenti manufatti: “A margine
dell'ala del piano seminterrato posta in aggetto alla
facciata est del fabbricato per civile abitazione
strutturato su quattro livelli, risulta ubicata una canna
fumaria che si eleva per circa ml. 3,00 sul terrazzo a
livello del piano rialzato, distante dalla facciata circa mt.
4,10. Su tale facciata risultano esposte ad altezza
superiore rispetto alla sommità della canna fumaria ed in
direzione della stessa, una finestra appartenente al primo
piano ed un'altra appartenente al secondo piano. I piani
seminterrato e rialzato costituiscono l'appartamento abitato
dal sig. De Si. come sopra generalizzato.
La suddetta canna fumaria, rivestita con scaglie di pietra,
si erge, come già accennato, a margine del terrazzo lato est
del piano rialzato incastonata nel parapetto che delimita il
terrazzo; ai lati della canna fumaria si elevano sul
parapetto, due pilastrini rivestiti con mattoncini di cotto
di altezza circa mt. 1,50 mentre altri due risultano
posizionati ai margini ed in aderenza alla parete
retrostante; sulla sommità dei suddetti pilastrini e nella
parte alta della canna fumaria risulta ancorata tramite
traverse, una tettoia di legno lamellare reticolare priva di
copertura, costituente ingombro di superficie circa mq. 20.”.
Quanto sopra lascia intendere che l’opera, per la superficie
che occupa e per l’altezza che sviluppa non può essere
minimizzata. In ogni caso, a prescindere dalle dimensioni,
la stessa è conseguente ad una evidente intervento in
difformità ad una licenza di costruzione.
6.2.- E’ quindi applicabile, al caso di specie,
quell’orientamento giurisprudenziale (Tar Venezia, sez. II,
825/2013) secondo cui “non può
configurarsi come elemento meramente accessorio
dell'edificio, la realizzazione di una canna fumaria, che,
pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata
in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze
non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica
del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce,
riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di
ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett.
d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate
mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti,
assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.”
(cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 4005/2012).
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato
anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in
cotto.
6.3.- Né peraltro, la costruzione di canne
fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella
disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che
le stesse producono una modifica dei prospetti
dell’edificio.
Ciò è tanto più rilevante sotto il profilo urbanistico ove
si consideri che il comune di Trecase è incluso nell’ambito
del Piano Territoriale Paesistico dell’area Vesuvio, di cui
al decreto ministeriale 14.12.1995, redatto ai sensi
dell'art. 1-bis della legge 08.08.1985 n. 431.
Nello specifico, come emerge dalla stessa relazione peritale
di parte, la proprietà del ricorrente ricade in zona R.U.A.
(Recupero Urbanistico-Edilizio Restauro
Paesistico-Ambientale), con possibilità di interventi di
ristrutturazione edilizia e di adeguamento
igienico-sanitario e tecnologico delle unità abitative.
Quest’ultima circostanza, tuttavia, non è comunque idonea a
superare l’esigenza, anche ai fini del rispetto dei vincoli
paesaggistico-ambientali, di ottenere il preventivo
nullaosta, laddove, com’è accaduto, si verifichino
alterazioni prospettiche e volumetriche rispetto al
preesistente stato dei luoghi.
6.4.- Né, in favore del ricorrente, appare
rilevante il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso
ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è
subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti
giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso
di un significativo intervallo temporale tra la
realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e
sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche
che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera
ragionevolmente certa la colpevole inerzia
dell’amministrazione.
Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal
ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta
nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul
piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei
suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza
dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche
implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in
occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di
altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di
specie, non può sostenersi essersi verificata
(TAR Umbria, Perugia, sez. I, 21.01.2010, n. 23).
6.5.- Non risolutiva appare poi la censura relativa
all’erronea qualificazione che il comune avrebbe formulato
sull’altro manufatto, indicato erroneamente come “tettoia”,
in luogo del più appropriato “pergola pompeiana”.
L’attribuzione all’opera contestata di un
nome diverso da quello in concreto pertinente, non è da sola
sufficiente per compromettere la legittimità dell’atto
sanzionatorio, soprattutto laddove, al di là del profilo
nominalistico, l’amministrazione ne individui esattamente la
collocazione, la consistenza, i materiali e le
caratteristiche. Nel caso specifico, non vi sono dubbi né
contestazioni sull’esatta identificazione di questi
elementi.
Sicché la censura non può essere seguita.
7.- Infine, con il quarto motivo il ricorrente censura, in
via subordinata, la violazione dell’art. 12 Legge n. 47/1985
e dell’art. 34 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere per
difetto di motivazione, lo sviamento nella forma sintomatica
dell’ingiustizia manifesta.
Nell’ipotesi in cui si ritenga che le opere realizzate siano
comunque soggette al controllo dell’amministrazione
comunale, il ricorrente si duole del fatto che quest’ultima
non avrebbe comunque valutato l’incidenza della disposta
demolizione sull’intera struttura né avrebbe in alcun modo
esaminato l’eventualità di applicare, in luogo della più
invasiva misura demolitoria, una sanzione pecuniaria, come
espressamente contemplato dall’art. 12 L. n. 47/1985,
recepito dall’art. 34 d.p.r. 380/2001.
La censura non può essere presa in considerazione.
Come appurato in esito all’esame delle precedenti censure,
la consistenza e la natura dei due manufatti
difformi dalla licenza di costruzione non possono che
risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione
all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi
preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i
soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del
ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono
obiettivamente destituite di fondamento.
8.- Per quanto sopra, il ricorso va respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 23.11.2015 n. 5424 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusi edilizi e della data certa di commissione
degli stessi, la presentazione di
dichiarazioni sostitutive di atto notorio non sono
sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari
inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad
altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza
dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale
consistenza.
---------------
Benché in giurisprudenza non manchino sul punto diversi
indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce
all’orientamento già affermato in diverse pronunce della
Sezione secondo il quale la qualità di utilizzatore di un
immobile realizzato abusivamente in assenza di titolo
abilitativo sul demanio o sul patrimonio di enti pubblici, è
sufficiente ad individuarlo come destinatario dell’ordine di
ripristino senza che vi sia la necessità di accertare chi ha
concretamente realizzato l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non
presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo
integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né
è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo
ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente
alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione
l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione”.
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR
06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di
sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella
peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la
costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di
un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli
abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del
territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione
possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi
abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono
stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente
dall’averli realizzati.
---------------
Sono infondate le censure di cui al secondo motivo, con le
quali i ricorrenti lamentano la mancata considerazione del
lungo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso,
il formarsi di un legittimo affidamento a causa della
tolleranza da parte dell’Amministrazione che non è
intervenuta prima a reprimere gli abusi nonostante ne fosse
a conoscenza ed il difetto di motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è
stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380,
essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti
pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati
configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato,
rispetto al quale non può assumere rilevanza
l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione
dei manufatti, e non è configurabile un affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
---------------
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura di cui al primo motivo con la quale i ricorrenti
lamentano la violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001,
n. 380, perché l’ordine di demolizione non è stato rivolto
nei confronti degli autori degli abusi, ma nei loro
confronti che sono gli assegnatari degli alloggi, non può
essere condivisa.
In primo luogo va osservato che non è stata data una prova
certa circa la data della commissione degli abusi, dato che
sono state allegate solo delle dichiarazioni sostitutive di
atto notorio prodotte dagli stessi interessati che non sono
sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari
inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad
altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza
dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale
consistenza.
In secondo luogo, benché in giurisprudenza non manchino sul
punto diversi indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce
all’orientamento già affermato in diverse pronunce della
Sezione (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 30.01.2014, n. 121;
id. 15.02.2013, n. 222), secondo il quale la qualità
di utilizzatore di un immobile realizzato abusivamente in
assenza di titolo abilitativo sul demanio o sul patrimonio
di enti pubblici, è sufficiente ad individuarlo come
destinatario dell’ordine di ripristino senza che vi sia la
necessità di accertare chi ha concretamente realizzato
l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non
presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo
integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né
è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento
illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le
conseguenze della violazione edilizia, attraverso la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente
alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione
l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che
abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente
realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell’ordine di demolizione” (in tali termini, con
riferimento alla disciplina di cui all’art. 35, cfr. Tar
Campania, Napoli, Sez. VIII, 31.07.2012, n. 3710; id. 24.07.2012, n. 3567).
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR
06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di
sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella
peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la
costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di
un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli
abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del
territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione
possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi
abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono
stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente
dall’averli realizzati.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte.
Sono parimenti infondate le censure di cui al secondo
motivo, con le quali i ricorrenti lamentano la mancata
considerazione del lungo lasso di tempo decorso dalla
realizzazione dell’abuso, il formarsi di un legittimo
affidamento a causa della tolleranza da parte
dell’Amministrazione che non è intervenuta prima a reprimere
gli abusi nonostante ne fosse a conoscenza ed il difetto di
motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è
stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380,
essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti
pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati
configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato,
rispetto al quale non può assumere rilevanza
l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione
dei manufatti, e non è configurabile un affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto
(cfr. Tar Liguria, 05.06.2014, n. 873).
Inoltre l’assunto secondo il quale l’Amministrazione avrebbe
tollerato l’abuso nonostante fosse a conoscenza dello stesso
è priva di riscontri.
Infatti non sono significativi, al fine di comprovare tale
evenienza, né la circostanza che dei dipendenti dell’ente
gestore delle unità abitative di edilizia residenziale
pubblica siano transitati attraverso lo scoperto
condominiale in occasione dei rinnovi dei contratti, perché
è verosimile, come controdedotto dal Comune, che gli stessi
non fossero consapevoli dell’abusività dei manufatti, emersa
solo in tempi recenti, né la circostanza che uno dei
contratti, quello della Sig.ra Si.Br., menzioni,
quale oggetto della locazione, anche il garage, atteso che,
come chiarito dal difensore del Comune in sede di
trattazione orale, per il rinnovo dei contratti sono
utilizzati dei moduli prestampati che recano anche
l’indicazione del garage.
Per tutti gli altri contratti tale indicazione è stata
cancellata con un tratto di penna, mentre solo per un errore
materiale la medesima non è stata cancellata nel contratto
della Sig.ra Si.Br..
Fermo restando che la menzione del garage nel contratto è
comunque inidonea a sanare il carattere abusivo delle opere,
è evidente che essendo dovuta ad un errore, non è neppure
idonea a comprovare la consapevolezza e la tolleranza delle
stesse.
Pertanto in un contesto nel quale la menzione del garage è
dovuta ad un errore, tale circostanza risulta inidonea a
comprovare la consapevolezza e la tolleranza dell’opera
abusiva da parte del Comune, fermo restando che un’eventuale
menzione del garage nel contratto anche se voluta non
potrebbe comunque sanare il carattere abusivo delle opere.
Ciò premesso, tenuto conto che il mero trascorrere del tempo
non può sanare l’abusività dei manufatti, che non è
ravvisabile un affidamento incolpevole meritevole di tutela
in capo ai ricorrenti, e che il Comune ha accertato che i
garage realizzati limitano gli spazi scoperti comuni del
condominio da parte degli altri assegnatari degli alloggi di
edilizia residenziale pubblica non sufficientemente ampi per
consentire che ogni unità abitativa sia munita di garage,
circostanza quest’ultima che rende comunque prevalente
l’interesse pubblico alla demolizione rispetto a quello
privato di chi utilizza i manufatti abusivi, il ricorso deve
essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.11.2015 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono edilizio esclusiva di stato. La Consulta:
i criteri li fissa il governo.
In tema di condono edilizio «straordinario» spettano alla
legislazione statale e non a quella regionale, le scelte di
principio sul versante della sanatoria amministrativa, la
decisione sul se disporre, nell'intero territorio nazionale,
di un condono straordinario e l'individuazione delle
volumetrie massime condonabili.
Questo è il principio espresso dalla Corte Costituzionale
con la
sentenza 19.11.2015 n. 233 di in merito
alla legittimità costituzionale sollevate dal presidente del
consiglio dei ministri degli articoli 25, 26 e 27 della
legge n. 65/2014 della Regione Toscana.
Ricordano i giudici
della corte costituzionale che si è in presenza di una
normativa riferibile ad opere e interventi edilizi,
esplicitamente qualificati, dalla stessa legge regionale
Toscana, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente
alla materia «governo del territorio» nel cui ambito alle
regioni spetta l'adozione di una disciplina legislativa di
dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato.
In particolare, per tali opere e
interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina
generale dettata dagli articoli 196, 199, 200 e 206 della
citata legge regionale l'applicazione di sole sanzioni
amministrative pecuniarie, per le ipotesi in cui la
valutazione discrezionale dell'autorità comunale competente
per territorio conduca ad escludere la persistenza di un
interesse attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur
disponendo che il versamento delle somme corrispondenti alle
sanzioni amministrative pecuniarie (differenziate a seconda
dell'epoca di realizzazione e ultimazione delle opere e
degli interventi edilizi, e ricadenti all'esterno della perimetrazione
dei centri abitati) «non determina la legittimazione
dell'abuso»
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle
Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della
sanatoria»
oppure, ancora, di
«allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto
stabilito dalla legge dello Stato».
A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa
regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria
straordinaria per il solo territorio regionale.
---------------
SENTENZA
...
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 25,
26, 27, 207 e 208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio),
promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con
ricorso notificato il 9-15.01.2015, depositato in
cancelleria il 13.01.2015 ed iscritto al n. 3 del
registro ricorsi 2015.
...
1.2.– Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del
Consiglio dei ministri censura gli artt. 207 e 208 della
legge della Regione Toscana n. 65 del 2014.
Le norme censurate disciplinano le conseguenze di opere ed
interventi edilizi eseguiti ed ultimati, in assenza di
titolo abilitativo o in difformità dal medesimo,
rispettivamente in data anteriore al 01.09.1967,
ossia al momento dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.942, n. 1150), o in data anteriore al
17.03.1985, corrispondente all’entrata in vigore della
legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo
dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e
sanatoria delle opere edilizie), sul primo condono edilizio.
In particolare, il citato art. 207 differenzia la disciplina
a seconda della collocazione degli immobili. Se essi
ricadono all’interno della perimetrazione dei centri abitati
(come definita all’epoca della realizzazione della
condotta), si prevede che il Comune possa valutare la
persistenza dell’interesse pubblico al ripristino della
legalità urbanistica violata mediante rimessione in
pristino: in caso di esito positivo di tale scrutinio, è
disposta l’applicazione delle sanzioni, ripristinatorie e
pecuniarie, di cui agli artt. 196, 199, 200 e 206 della
medesima legge regionale; in caso di valutazione negativa in
ordine alla persistenza dell’interesse pubblico, si prevede
esclusivamente l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in
misura ridotta per le opere e gli interventi conformi agli
strumenti urbanistici comunali attualmente vigenti, e con la
possibilità di consentire, con apposito piano operativo,
ulteriori interventi su tali immobili.
Se, invece, gli immobili ricadono all’esterno della
perimetrazione dei centri abitati (sempre come definita
all’epoca della realizzazione dell’opera), si prevede che
siano considerati «consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
L’art. 208, per le opere e gli interventi edilizi anteriori
al 17.03.1985, detta una disciplina analoga a quella
innanzi descritta, ma differenziando le sanzioni pecuniarie
a seconda che le opere o gli interventi siano stati
realizzati in assenza o in difformità dal titolo
abilitativo, ed escludendo, questa volta, distinzioni tra
manufatti ricadenti o non all’interno della perimetrazione
dei centri abitati.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene, in primo
luogo, che tali disposizioni, in quanto limitanti
l’applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 196, 199,
200 e 206 della legge regionale impugnata alle sole opere
per le quali sia ritenuto persistente l’interesse pubblico
alla rimessione in pristino e, se anteriori al 01.09.1967, solo se ricadenti all’interno del perimetro del centro
abitato, si porrebbero in contrasto con gli artt. 27, 31,
33, 34 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di edilizia – Testo
A), che configurano l’esercizio del potere comunale di
vigilanza e repressione degli abusi edilizi come un obbligo
e non come una facoltà, senza che sia necessario accertare
la ricorrenza attuale di ragioni di pubblico interesse e
senza prevedere alcun termine di decadenza o di prescrizione
per l’esercizio dei poteri repressivi comunali.
Di qui la prospettata violazione dell’art. 117, terzo comma,
Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi
fondamentali nella materia del governo del territorio.
Considerati i descritti effetti conservativi legati
all’irrogazione di mere sanzioni pecuniarie, la medesima
norma costituzionale sarebbe stata violata, a giudizio
dell’Avvocatura generale dello Stato, anche per
l’introduzione di una «surrettizia forma di condono», con
conseguente invasione della competenza legislativa statale,
essendo sottratta alla potestà legislativa regionale
qualsiasi forma di sanatoria straordinaria delle opere
abusive.
Per tale ragione, le norme censurate interferirebbero con le
disposizioni in materia di sanzioni civili e penali previste
dal testo unico sull’edilizia in tema di reati edilizi, e
violerebbero così anche l’art. 117, secondo comma, lettera
s) (rectius: lettera l), Cost., che riserva alla potestà
legislativa esclusiva statale la materia «ordinamento civile
e penale».
...
3.– Il secondo motivo di ricorso è fondato, poiché gli
impugnati artt. 207 e 208 della legge regionale n. 65 del
2014 sono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.– È opportuno sottolineare preliminarmente che il tenore
letterale delle disposizioni impugnate consente agevolmente
di definire l’oggetto dell’intervento legislativo regionale
e l’ambito materiale cui questo risulta ascrivibile.
Infatti, le rubriche delle due disposizioni, e, in
particolare, i commi 1 e 4 dell’art. 207 ed il comma 1
dell’art. 208 fanno esplicito riferimento a «sanzioni ed
opere per interventi edilizi abusivi», e ad opere ed
interventi edilizi eseguiti ed ultimati «in assenza di
titolo abilitativo o in difformità dal medesimo».
Si è in presenza di una normativa riferibile ad opere e
interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla stessa
legge regionale, come «abusivi», e quindi di un intervento
afferente alla materia «governo del territorio» di cui
all’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis e da ultimo,
sentenze n. 272 e n. 102 del 2013), nel cui ambito alle
Regioni spetta l’adozione di una disciplina legislativa di
dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato (sentenze n. 167 del 2014 e n. 401
del 2007).
In particolare, per tali opere ed interventi, viene
prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli
artt. 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale
(delineata sulla falsariga di quella prevista in generale
dalle norme statali del testo unico sull’edilizia),
l’applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie,
per le ipotesi in cui la valutazione discrezionale
dell’autorità comunale competente per territorio conduca ad
escludere la persistenza di un interesse attuale al
ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle somme corrispondenti
alle sanzioni amministrative pecuniarie –differenziate a
seconda dell’epoca di realizzazione ed ultimazione delle
opere e degli interventi edilizi, con esclusione di quelli
anteriori al 01.09.1967 e ricadenti all’esterno della perimetrazione dei centri abitati– «non determina la
legittimazione dell’abuso» (comma 3 di entrambi gli
articoli), le norme impugnate producono due evidenti effetti
sostanziali.
Il primo di essi consiste −in considerazione
dell’esclusione della sanzione demolitoria (e della
succedanea acquisizione gratuita delle aree al patrimonio
comunale, in caso di inadempimento dell’ordine di
demolizione), in generale prevista per gli immobili abusivi
dal testo unico sull’edilizia e dalle corrispondenti norme
della stessa legge della Regione Toscana− nella
conservazione, in mano privata, del patrimonio edilizio
esistente.
Il secondo effetto, di non minore portata, consiste nella
possibilità di eseguire ulteriori interventi edilizi –sotto
forma di «demolizione e ricostruzione, mutamento della
destinazione d’uso, aumento del numero delle unità
immobiliari, incremento di superficie utile lorda o di
volume» (attività rispettivamente previste dai commi 7 e 6
degli artt. 207 e 208)– previa emanazione di appositi piani
operativi, che diventano addirittura superflui per gli
immobili ultimati al di fuori dei centri urbani e prima del
01.09.1967. Anzi, il comma 4 dell’art. 207 si spinge
a definire tali ultimi manufatti quali «consistenze
legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
La combinazione di queste due conseguenze produce, per tutti
gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti tipici di un
«condono edilizio straordinario», che si differenzia, in
quanto tale, dall’istituto a carattere generale e permanente
del «permesso di costruire in sanatoria», disciplinato dagli
artt. 36 e 45 del testo unico sull’edilizia.
In tema di condono edilizio “straordinario”, la
giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che spettano alla
legislazione statale, oltre ai profili penalistici
(integralmente sottratti al legislatore regionale: sentenze
n. 49 del 2006, n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004),
le scelte
di principio sul versante della sanatoria amministrativa, in
particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum:
la decisione sul se disporre, nell’intero territorio
nazionale, un condono straordinario, e quindi la previsione
di un titolo abilitativo edilizio straordinario; quella
relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria;
infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili
(nello stesso senso, sentenze n. 225 del 2012 e n. 70 del
2005).
Nel rispetto di tali scelte di principio, competono alla
legislazione regionale l’articolazione e la specificazione
delle disposizioni dettate dal legislatore statale (sentenze
n. 225 del 2012, n. 49 del 2006 e n. 196 del 2004).
Ne consegue che le norme impugnate si pongono in contrasto
con i consolidati princìpi espressi dalla giurisprudenza
costituzionale in materia.
Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle
Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della
sanatoria» (sentenza n. 290 del 2009)
oppure, ancora, di
«allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto
stabilito dalla legge dello Stato» (sentenza n. 117 del
2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa
regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria
straordinaria per il solo territorio regionale.
Il che è appunto quanto si verifica in applicazione delle
norme impugnate.
Esse producono un effetto di sanatoria amministrativa
straordinaria di immobili abusivi, non solo senza alcuna
limitazione volumetrica, ma anche al di là delle modalità e,
soprattutto, dei tempi disciplinati dalle precedenti
normative statali.
Il riferimento, in particolare, è alla legge n. 47 del 1985,
la cui efficacia è stata estesa dall’art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), cui ha fatto seguito l’art. 32 del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269 (Disposizioni
urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24.11.2003, n. 326, pure contenente misure di regolarizzazione di
immobili abusivi.
In applicazione di tali norme statali, ben sarebbe stato
possibile procedere, nei tempi e nei modi da quelle
previsti, alla sanatoria delle stesse opere e degli stessi
interventi edilizi oggetto della disciplina censurata.
Sicché, consentirlo invece ora, alla luce delle disposizioni
regionali impugnate, significa introdurre un nuovo condono
extra ordinem, al di fuori di qualsiasi previa e necessaria
cornice di principio disciplinata dalla legge statale.
3.2.– Il contrasto delle norme impugnate con i principi che
governano il riparto di competenze in materia di condono
edilizio “straordinario” non è attenuato dalla
subordinazione degli effetti sostanziali, da queste
prodotti, alla valutazione discrezionale, che le stesse
disposizioni demandano all’amministrazione comunale
competente per territorio, in ordine alla sussistenza di un
perdurante interesse pubblico alla rimessione in pristino.
La difesa regionale sostiene che, nel corso degli ultimi
anni, la rigidità della disciplina statale concernente la
repressione degli abusi edilizi sarebbe stata «attenuata
dalle previsioni interpretative giurisprudenziali dei
giudici amministrativi». Questi ultimi avrebbero seguito il
principio secondo cui anche le sanzioni edilizie devono
essere applicate previa comparazione e valutazione di
prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata rispetto all’affidamento del privato.
Sicché, qualora sia trascorso un lungo lasso di tempo tra
realizzazione e accertamento dell’abuso, l’irrogazione delle
sanzioni sarebbe subordinata ad una motivazione specifica
sulla sussistenza di un pubblico interesse attuale alla
eliminazione dell’opera.
Il legislatore regionale, per parte sua, avrebbe appunto
dettato norme conformi a tale principio, discendente
dall’interpretazione giurisprudenziale ritenuta «ormai
pacifica» della legge nazionale.
Tale argomento è privo di pregio.
Innanzitutto, l’affermazione relativa alla sussistenza di un
“diritto vivente”, nei termini prospettati dalla
difesa regionale, è smentita dalla constatazione della
coesistenza (se non proprio della prevalenza), nella
giurisprudenza amministrativa, di un opposto orientamento,
secondo cui l’interesse del privato al mantenimento
dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto
all’interesse pubblico all’osservanza della normativa
urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio.
Secondo tale indirizzo, non sussiste alcuna necessità di
motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia
ordinata la demolizione di un manufatto, anche quando sia
trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della
commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione. Ciò perché la repressione
degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente
vincolata, non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione (in questi termini, ex plurimis,
Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 05.01.2015, n.
13; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 30.12.2014,
n. 6423; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza
01.10.2014, n. 4878; Consiglio di Stato, sezione sesta,
sentenza 28.01.2013, n. 496).
Ma, quand’anche una diversa opzione ermeneutica potesse
considerarsi talmente affermata da costituire approdo
“pacifico” nella giurisprudenza amministrativa, è assorbente
il rilievo per cui un suo eventuale riconoscimento normativo
non potrebbe essere rimesso al legislatore regionale, ma
solo a quello statale. In relazione a scelte così delicate
in materia edilizia, valgono evidenti esigenze di uniforme
trattamento sull’intero territorio nazionale (analogamente,
sentenza n. 164 del 2012), e solo la legge statale può
ovviamente assicurarle.
Per queste ragioni, le questioni di legittimità
costituzionale promosse avverso gli artt. 207 e 208 della
legge della Regione Toscana n. 65 del 2014 sono fondate, per
violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..
L’accoglimento del ricorso sotto il profilo descritto
determina l’assorbimento delle altre censure mosse alle
norme impugnate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 207 e
208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65
(Norme per il governo del territorio)
(Corte Costituzionale,
sentenza 19.11.2015 n. 233). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di
iniziare i lavori ha il dovere di controllare che siano
state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 dispone che: <<Il titolare del permesso
di costruire, il committente e il costruttore sono
responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo, della conformità delle opere
alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché,
unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e
alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono,
altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l'esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto
della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità
i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione
legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che,
attraverso la propria opera, abbia concorso alla
realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori
(ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il
manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare
la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge
e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza laddove:
“Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art.
29, anche l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore,
è responsabile della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al
direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità
esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato
che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera,
prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che
siano state richieste e rilasciate le prescritte
autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore
trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistica-edilizia".
---------------
... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del
Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008,
nei confronti della Società ricorrente nonché degli
ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale
diniego di condono.
...
1.- Con l’impugnato provvedimento sono state respinte tre
domande di condono edilizio del 15/11/2014 ed è stata
ingiunta “la demolizione dell’intero fabbricato composto
da 4 piani oltre il terrapieno, delle ulteriori tettoie e
gazebi realizzati sui terrazzi e dei garage lungo Via C.,
realizzati in totale difformità dall’autorizzazione n. 81/99
ed in assenza di permesso di costruire e di nulla osta
BB.AA., sopra dettagliatamente descritti, sull’area sita
alla Via C. n. 102, individuati in catasto al foglio di
mappa n. 21 particella n. 308, 792 e 793”.
L’ingiunzione di demolizione è stata formulata (oltre che
nei confronti dei committenti dei lavori e comproprietari
del bene) anche nei riguardi della Società ricorrente, “nella
qualità di impresa esecutrice” (ed, altresì, dei
direttori dei lavori).
1.1- Ciò posto, deve essere disattesa la censura con cui la
Società ricorrente sostiene che non poteva essere
considerata destinataria dell’ordine di demolizione.
Si fa leva sulla considerazione secondo cui il T.U. edilizia
pone in rilievo la figura del “costruttore”, senza
ulteriore specificazione e non potendo ricomprendervi
l’imprenditore nel campo dell’edilizia, che va più
propriamente definito appaltatore (si afferma quindi che,
per “costruttore”, deve intendersi il soggetto che
prometta in vendita un immobile da costruire, secondo
l’accezione adoperata dall’art. 1, primo comma, lett. b),
del d.lgs. n. 122/2005).
La tesi è priva di pregio.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
dispone che: <<Il titolare del permesso di costruire, il
committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e
per gli effetti delle norme contenute nel presente capo,
della conformità delle opere alla normativa urbanistica,
alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei
lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al
pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle
spese per l'esecuzione in danno, in caso di demolizione
delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di
non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto
della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità
i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione
legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che,
attraverso la propria opera, abbia concorso alla
realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori
(ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il
manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare
la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge
e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza [cfr., di
recente, Cass. pen., Sez. III, 22.04.2015 n. 16802: “Secondo
quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche
l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è
responsabile della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al
direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità
esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato
che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera,
prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che
siano state richieste e rilasciate le prescritte
autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore
trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistica-edilizia (così Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004
(dep. 2005), Cima, Rv. 230663)”].
Nella specie, non è contestato che la Società ricorrente
avesse assunto l’incarico di eseguire i lavori, portandoli a
compimento, in virtù della comunicazione d’inizio lavori
prot. n. 18652 del 14/12/2000, richiamata nel provvedimento
impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' consolidata in giurisprudenza l’affermazione
per cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma
rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi
la conservazione di una situazione “contra legem”.
---------------
... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del
Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008,
nei confronti della Società ricorrente nonché degli
ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale
diniego di condono.
...
1.2- Anche le ulteriori censure vanno respinte.
Giova premettere che il ricorso promosso da alcuni dei
proprietari avverso lo stesso provvedimento è stato respinto
da questa Sezione con sentenza del 21.07.2015 n. 3829.
Alla stregua di quanto già statuito in quella pronuncia,
vanno disattesi i rilievi critici formulati dalla ricorrente
in ordine all’applicazione, nella specie, dell’art. 31 del
D.P.R. n. 380/2001.
L’accertamento compiuto dal Comune ha infatti verificato
che: “Dal confronto dei grafici e dei rilievi fotografici
allegati all’autorizzazione 81/99, con un esame visivo
dell’attuale stato dei luoghi si rileva una totale
difformità del fabbricato realizzato rispetto alla predetta
autorizzazione edilizia” (cfr. pag. 2 del
provvedimento).
Nello stesso provvedimento sono di seguito descritte le
modifiche apportate, riguardanti:
- i prospetti di via C. e via Suor L.R. (che presentano,
rispettivamente, 4 piani oltre il terrapieno e 3 livelli
fuori terra), da cui “è rilevabile la modifica delle
quote dei solai d’interpiano”;
- un ulteriore piano in ampliamento al vano preesistente in
copertura e un aumento di superficie e volume al lato sud al
secondo impalcato;
- l’aumento di unità abitative;
- un manufatto in c.a. lungo via C. con quattro aperture,
adibito presumibilmente a deposito/garage;
- la completa modifica dei prospetti e della sagoma in
conseguenza delle variazioni delle quote dei solai e
dell’ulteriore piano realizzato in copertura;
- la presenza di tettoie in legno e ferro su vari lati;
- la sistemazione dell’area di pertinenza e di quella
adiacente, con percorsi pavimentati, scale di collegamento
tra le quote e arredo giardino per le unità abitative.
Risulta da ciò palese la realizzazione di un organismo
totalmente diverso dal fabbricato preesistente (per il quale
era stata rilasciata l’autorizzazione n. 81/99, per
interventi di manutenzione straordinaria e restauro
conservativo), tenendo conto che:
- l’edificio era “composto da terrapieno di altezza 3.00
mt, piano terra e primo piano, nonché un vano di circa 30
mq. sul lato nord ovest prospiciente via Capodivilla al
piano secondo” (cfr. il provvedimento impugnato);
- i lavori di cui alla citata autorizzazione n. 81/99
consistevano “principalmente nella demolizione e
ricostruzione dei solai, senza modifiche dei prospetti,
senza aumenti di volumetrie, superficie e numero delle unità
immobiliari” (cfr. ancora il provvedimento impugnato).
La veridicità dell’accertamento (debitamente effettuato
dall’U.T.C., dotato di specifiche competenze) non è scalfita
dalle deduzioni della parte ricorrente, mostrandosi aderente
alla realtà delle cose ed immune dai vizi di legittimità
dedotti la ricostruzione dei presupposti di fatto, compiuta
dal Comune resistente ed ampiamente illustrata nella congrua
motivazione che correda il provvedimento impugnato.
In particolare, si palesa l’avvenuta realizzazione di due
sopraelevazioni a fini residenziali, di mq. 138 e mq. 135,
con incremento dunque dei volumi e variazione della sagoma e
dei prospetti, visibili dall’esterno ai fini della verifica
della difformità.
Ciò giustifica l’ingiunzione di demolizione delle opere
abusivamente realizzate, concernente l’intero fabbricato che
si connota quale un organismo edilizio integralmente diverso
dal precedente, assoggettato perciò nella sua interezza alla
sanzione demolitoria, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001 (che riunisce nell’unica disposizione le
fattispecie dell’assenza del permesso di costruire e della
totale difformità dal titolo rilasciato).
Quanto all’asserito difetto di motivazione in ordine
all’interesse pubblico e alla rilevanza del decorso del
tempo, è consolidata in giurisprudenza l’affermazione per
cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma
rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi
la conservazione di una situazione “contra legem”
(cfr., per tutte, Cons. Stato – Sez. V, 28.04.2014 n. 2196).
2.- Conclusivamente, il ricorso va dunque respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di un’opera
edilizia abusiva, il provvedimento di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale della struttura discende dal fatto
stesso che non vi è stata la demolizione di quanto
costruito, né occorre un’ulteriore motivazione al riguardo,
dal momento che le ragioni di interesse pubblico perseguite
attraverso l’acquisizione non solo sono in re ipsa, ma sono
proprio quelle desumibili dalla perdurante esistenza del
manufatto, a seguito della mancata esecuzione dell’ordine di
demolizione.
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto,
non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità
in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati.
---------------
FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di
accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di
demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi
realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce
s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di
acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato
l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai
medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività
del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda
cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
Va preliminarmente affermata la natura di atto dovuto dei
provvedimenti impugnati col ricorso introduttivo del
giudizio.
Ed infatti, nel caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione di un’opera edilizia abusiva, il provvedimento
di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della
struttura discende dal fatto stesso che non vi è stata la
demolizione di quanto costruito, né occorre un’ulteriore
motivazione al riguardo, dal momento che le ragioni di
interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione non
solo sono in re ipsa, ma sono proprio quelle desumibili
dalla perdurante esistenza del manufatto, a seguito della
mancata esecuzione dell’ordine di demolizione (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 11.07.2014 n. 3565).
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto,
non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità
in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati.
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è misura
eccezionale, alternativa alla demolizione, che si applica
solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con la
precisazione che la detta impossibilità può essere rilevata
d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma comunque in
una fase successiva all’ingiunzione, a carattere
diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione,
quest’ultimo da emettere sulla base di specifici
accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad
intervenire nella fase esecutiva.
---------------
FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di
accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di
demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi
realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce
s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di
acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato
l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai
medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività
del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda
cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
...
Sono invece fondati i motivi aggiunti.
Risulta che il ricorrente, con atto del 29.04.2010,
antecedente all’adozione dell’ordine di demolizione del
26.07.2010, ha chiesto la conversione della sanzione demolitoria in quella pecuniaria, osservando che la
demolizione avrebbe compromesso la stabilità del fabbricato.
Orbene, in tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è
misura eccezionale, alternativa alla demolizione, che si
applica solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con
la precisazione che la detta impossibilità può essere
rilevata d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma
comunque in una fase successiva all’ingiunzione, a carattere
diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione,
quest’ultimo da emettere sulla base di specifici
accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad
intervenire nella fase esecutiva (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 16.05.2014 n. 2718)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, tutelato l’interesse dei vicini.
Consiglio di Stato. I confinanti sono sempre legittimati a
ricorrere per impugnare il permesso violato senza necessità
di provare un danno specifico.
La
demolizione, con ripristino della legittimità edilizia,
costituisce la sanzione normale e prioritaria, di carattere
vincolato, nei confronti degli abusi edilizi, pertanto il
proprietario di un immobile confinante è sempre legittimato
a ricorrere per impugnare il permesso edilizio violato,
senza necessità di provare un danno specifico, essendo
titolare di un interesse legittimo al rispetto del corretto
assetto urbanistico e ambientale.
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con la
sentenza 17.11.2015 n. 5226, ha
ribadito la legittimazione processuale dei proprietari
confinanti nei procedimenti riguardanti i permessi di
costruire assentiti nella medesima zona, non solo a
impugnarne la legittimità o regolarità, ma altresì nel caso
in cui la concreta realizzazione dell’opera possa sfociare
in un abuso edilizio, sollecitando l’amministrazione
competente ad adottare la sanzione della demolizione e
dell’acquisizione dell’area.
Il caso deciso dai giudici amministrativi trae origine dalla
contestazione di un abuso edilizio, da parte dell’ufficio
tecnico e dalla polizia municipale di un Comune lombardo,
per la realizzazione di lavori in parziale difformità dal
titolo edilizio concesso per la ristrutturazione di un
fabbricato e il recupero del sottotetto a fini abitativi, a
fronte del quale l’ente locale ha adottato due ordinanze di
demolizione successive, la prima totale, la seconda
parziale, con applicazione della sanzione pecuniaria.
Verso le due le ordinanze sono stati depositati opposti
ricorsi, poi riuniti, davanti al Tar della Lombardia, da
parte dei proprietari dell’immobile, verso quella di
demolizione totale, nonché da parte del proprietario di un
fabbricato contiguo in qualità di controinteressato,
all’esito dei quali il tribunale amministrativo regionale ha
statuito respingendo il primo e accogliendo il secondo.
I giudici di Palazzo Spada, nel confermare la legittimità
della sentenza di primo grado, hanno ribadito come, pur
essendo l’amministrazione comunale titolare del potere
amministrativo di reprimere gli illeciti urbanistici, i
proprietari di immobili confinanti o limitrofi con quelli
interessati da un permesso di costruzione sono titolari di
un interesse legittimo oppositivo, tutelato
dall’ordinamento, a fronte di titoli edilizi incidenti sul
proprio diritto di proprietà, modificando le condizioni
dell’area, nonché l’assetto edilizio, urbanistico e
ambientale della zona, senza necessità, ai fini della
legittimazione processuale, di provare di aver subito un
danno specifico, in quanto il danno verso la collettività è
insito nella violazione stessa.
Come nel caso deciso, non solo spetta la legittimazione a
impugnare il permesso di costruire riconosciuta a coloro che
presentano uno stabile collegamento, bensì il terzo
confinante ha un interesse attivo processuale, a che
l’amministrazione disponga correttamente del potere di
repressione degli illeciti urbanistici, giungendo fino alla
completa eliminazione del fabbricato abusivo che lede il
proprio interesse al corretto assetto urbanistico ed
ambientale dei luoghi, oltre all’acquisizione dell’area al
patrimonio dell’ente.
Inoltre, prosegue il ragionamento della decisione in esame,
statuito che il confinante ricorre per la tutela del proprio
specifico interesse di proprietario nella medesima area in
cui sono stati compiuti gli abusi, non per l’interesse
generale al rispetto della legalità, la sanzione della
demolizione costituisce la conseguenza principale e normale,
quindi di carattere vincolato, all’accertamento dell’abuso
edilizio, senza necessità che l’ente locale fornisca
giustificazione in base una particolare motivazione.
Al
contrario, sottolinea il Collegio sancendo l’illegittimità
della seconda ordinanza comunale che ha sostituito
l’ingiunzione di demolizione totale delle opere con quella
di demolizione parziale, con aggiunta della sanzione
pecuniaria, è quando l’amministrazione adotta una misura
sanzionatoria diversa, rispetto al pieno ripristino
dell’ordine edilizio violato, a fronte dell’accertamento
dell’abuso, che si richiede l’espletamento di un’istruttoria
idonea e approfondita, sostenuta da una motivazione congrua (articolo Il Sole 24 Ore del
09.12.2015).
---------------
MASSIMA
2. Come detto in narrativa, sono state impugnate in
primo grado -da diverse parti, espressione di posizioni
sostanziali e processuali divergenti- due ordinanze di
demolizione (l’una totale, l’altra parziale, con
applicazione della sanzione pecuniaria) adottate dal Comune
di Borno per opere realizzate in difformità dal permesso di
costruire.
3. La società interveniente ha formulato due eccezioni
preliminari, che il Collegio ritiene entrambe infondate.
3.1 Quanto all’eccezione di inammissibilità del ricorso
introduttivo n. 135/2007, in linea di principio,
i proprietari di immobili in zone confinanti o
limitrofe con quelle interessate da un permesso di
costruzione sono sempre legittimati a impugnare i titoli
edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono
pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono
modificare l'assetto edilizio, urbanistico e ambientale
della zona. Né è necessaria la prova di un danno specifico,
perché il danno a tutti i membri di quella collettività è
insito nella violazione edilizia
(da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493,
ove riferimenti ulteriori). |
EDILIZIA PRIVATA:
La condotta colposa
del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza
all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie
concesse dagli strumenti
urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a
tecnici qualificati e che
non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad
esempio, l'erronea
convinzione che un determinato intervento non necessiti di
specifico titolo
abilitativo.
---------------
7. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il secondo
motivo di ricorso.
Va a tale proposito ricordato come questa Corte abbia già
specificato (Sez. 3,
n. 23998 del 12/05/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che
la condotta colposa
del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza
all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie
concesse dagli strumenti
urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a
tecnici qualificati e che
non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad
esempio, l'erronea
convinzione che un determinato intervento non necessiti di
specifico titolo
abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del
02/05/1988, Rurali, Rv.
178593).
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità
dell'errore sulla legge penale
non si configura quando l'agente svolge una attività in uno
specifico settore,
rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza
sulla normativa esistente
(Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez.
3, n. 1797 del
16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384).
Tale onere di informazione non può ritenersi superato per la
sola esistenza
dei provvedimenti amministrativi, menzionati dai ricorrenti,
in presenza di un
consolidato indirizzo giurisprudenziale che escludeva, come
si è visto, la possibilità di ristrutturazione dei ruderi e
che la Corte territoriale ha giustamente
posto in evidenza, unitamente all'inosservanza del
richiamato onere di
informazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' notorio che, se per il
lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta alla
vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento nel
privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione
dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un
onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato.
---------------
Sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di
repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno
confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il
quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di
vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto
alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e
diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio
non represso nell’area limitrofa alla sua propriet, onde
egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di
tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a
seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a., che segue
il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss..
Come rettamente ha precisato il TAR, il soggetto così
legittimato può pretendere l’esercizio di tali poteri
vincolati e doverosi (donde l’incomparabilità di tal pretesa
alle vicende dell’autotutela spontanea) e la relativa
definizione mercé un provvedimento espresso, anche magari
esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte
dell'istante.
Quindi, il silenzio serbato dalla P.A. integra gli estremi
del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in sede
giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della
vicinitas con la funzione non discrezionale della vigilanza
edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie in esame
dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto, non così
legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A. stessa, ma
proprio per questo non ha titolo per rendere coercibile
l’omesso esercizio di tal funzione.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Campania–Salerno,
sez. II, n. 2237/2014, resa tra le parti e concernente il
silenzio serbato dal Comune intimato sull’istanza del sig.
An.Vi. per l’adozione di atti di verifica sulla legittimità
di opere edilizie;
...
- Considerato altresì che, nel merito, l’appello non ha
pregio e va disatteso, con la doverosa premessa che lo
specifico oggetto del contendere è l’inerzia procedimentale
(silenzio) del Comune intimato sull’istanza del sig. A.Vi. e
NON la concreta legittimità dell’attività edilizia
dell’appellante, argomento, questo, che il Collegio non può
trattare, neppure incidenter tantum, sia per il
divieto di cui all’art. 30, c. 2, I per., c.p.a. (il potere
amministrativo sul punto o non è stato ancora esercitato o
non è nella cognizione del Giudice d’appello), sia perché,
quand’anche si volesse entrare nel merito della fondatezza
della pretesa azionata con il rito del silenzio, già dal
contenuto stesso dell’istanza del 01.07.2014 s’evince la
permanenza, in capo a detto Comune, della necessità di
adempimenti istruttori di esso per l’esatta definizione del
procedimento invocato e, dunque, l’inibizione posta al
riguardo dal successivo art. 31, c. 3, onde scolora ogni
deduzione dell’appellante sulla richiesta dell’“annullamento”
d’alcunché);
- Considerato ancora che la dedotta “definitività”
del titolo edilizio in capo all’appellante, se è intesa con
riferimento al lungo tempo trascorso dal relativo rilascio,
di per sé sola non inibisce l’invocata attivazione del
procedimento comunale preordinato all’accertamento
dell’esistenza -o meno- di abusi edilizi, essendo notorio
(cfr., p.es., Cons. St., IV, 04.03.2014 n. 1016) che, se per
il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta
alla vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento
nel privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione
dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un
onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato;
- Considerato pure che, se tal “definitività” si vuol
intendere a guisa di decadenza dall’impugnazione del titolo,
anche questo dato è inopponibile all’istanza d’attivazione
dei poteri di vigilanza edilizia, stante l’evidente diversa
qualità degli interessi protetti implicati nell’una vicenda
rispetto all’altra, nonché la non sovrapponibilità, né
tampoco la coincidenza dell’interesse del privato ad
impugnare a quello pubblico connesso ai e garantito dai
predetti poteri vincolati di vigilanza, proprio per questo
non essendo qui applicabile il principio per cui l’uso
strumentale della formazione del silenzio non rimette in
termini il privato decaduto dall’azione impugnatoria;
- Considerato che erronea s’appalesa tutta la ricostruzione
del procedimento di vigilanza edilizia, che l’appellante
tenta con le categorie dell’autotutela spontanea -in
particolare con riguardo alla natura discrezionale
dell’attivazione dei procedimenti amministrativi di secondo
grado-;
- Considerato infatti che sussiste l'obbligo del Comune di
provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi
realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tal aspetto che s’invera
nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione
differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti
(nocivi) immediati e diretti della commissione
dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area
limitrofa alla sua proprietà (arg. ex Cons. St., IV,
29.04.2014 n. 2228), onde egli è titolare d’un interesse
legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e,
quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai
sensi dell’art. 31 c.p.a. (cfr. così Cons. St., IV,
02.02.2011 n. 744; id., VI, 17.01.2014 n. 233), che segue il
rito di cui ai successivi artt. 112 e ss.;
- Considerato di conseguenza che, come rettamente ha
precisato il TAR, il soggetto così legittimato può
pretendere l’esercizio di tali poteri vincolati e doverosi
(donde l’incomparabilità di tal pretesa alle vicende
dell’autotutela spontanea) e la relativa definizione mercé
un provvedimento espresso, anche magari esplicitando
l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'istante;
- Considerato, quindi che il silenzio serbato dalla P.A.,
come nella specie è accaduto con l’istanza del sig. A.Vi.,
integra gli estremi del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in
sede giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della
vicinitas con la funzione non discrezionale della
vigilanza edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie
in esame dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto,
non così legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A.
stessa, ma proprio per questo non ha titolo per rendere
coercibile l’omesso esercizio di tal funzione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.11.2015 n. 5087 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 36 del Dpr 380/2001, al comma 3, prevede
che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria
il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro
sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende
rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa
giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli
artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato
dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di
conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del
2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e
quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che però possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali,
i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
----------------
Secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai
sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto
dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in
precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato
per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di
sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la
formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della
parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera
presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli
effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione
resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
---------------
La censura è infondata.
L’art. 36 del Dpr 06.06.2001, n. 380, al comma 3,
prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo
condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio
serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di
conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del
2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e
quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che però possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali,
i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>
(TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644).
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
Pertanto, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo
dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento
espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della
correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta
istanza, valutato come significativo (nonostante, per
definizione, risulti privo di motivazione), la tesi della
ricorrente per la quale la presentazione di una istanza di
sanatoria paralizzerebbe il potere repressivo del Comune
sino alla definizione della predetta istanza non è
condivisibile.
Sul punto, secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai
sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto
dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in
precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato
per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di
sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la
formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della
parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera
presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli
effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione
resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Pertanto le argomentazioni di parte ricorrente nel senso da
ultimo precisato, non tengono conto che, ai sensi dell’art.
36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine
di settanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità, si forma il silenzio-diniego ed,
in tal caso, è onere del ricorrente impugnare tale silenzio
-che a tutti gli effetti costituisce un provvedimento
tacito- a pena di inammissibilità o improcedibilità del
ricorso proposto avverso i successivi provvedimenti
repressivi adottati dall’Autorità comunale (ordinanza di
demolizione e/o l’atto di acquisizione al patrimonio
comunale, a seconda dello stato di avanzamento del
procedimento).
D’altronde, nella fattispecie in esame, l’affermazione della
ricorrente secondo cui l’istanza di autorizzazione in
sanatoria per i lavori oggetto dell’impugnato provvedimento
demolitorio e del successivo accertamento, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 36 e 37, D.P.R. 380/2001
sarebbe meritevole di accoglimento (con il conseguente
diritto ad ottenere il permesso di costruire in sanatoria),
in considerazione del fatto che l’immobile insisterebbe in
una zona completamente mutata da un punto di vista
urbanistico e sarebbe risalente nel tempo risulta poi stata
smentita per tabulas dai sopravvenuti provvedimenti
di diniego, dalla ricorrente ritualmente impugnati con i
primi ed i secondi motivi aggiunti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di abusi edilizi l’ordine di
demolizione è atto vincolato il quale non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto.
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia
abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non connotato da discrezionalità tecnica, ma
integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine
di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare.
---------------
Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini
della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento
consolidato di questa Sezione in tema di attività
sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso
del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che
non può confidare sul mantenimento di una situazione
contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una
specifica motivazione né la valutazione sull’interesse
pubblico, che “in re ipsa”.
Ed una siffatta impostazione trova il conforto di pacifica
giurisprudenza per la quale:
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto
più quanto riferita alla repressione di abusi su beni
vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato;
- In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto
vincolato il quale non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto
più quanto riferita alla repressione di abusi su beni
vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato.
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli
abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della
disciplina esistente al momento dell’adozione del
provvedimento sanzionatorio e secondo condivisa
giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude il potere
di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in
materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale
potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue
che l’accertamento dell’illecito amministrativo e
l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche
a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso,
senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti
sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni
consolidate.
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito,
emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione
dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative
della commessa trasgressione, rincara la lesione
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che,
perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare
ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo
tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
---------------
Anche tale
censura è infondata.
In proposito, secondo pacifica e condivisa giurisprudenza:
<<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è
atto vincolato il quale non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I,
06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione
di opere abusive, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini
della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento
consolidato di questa Sezione in tema di attività
sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso
del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che
non può confidare sul mantenimento di una situazione
contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una
specifica motivazione né la valutazione sull’interesse
pubblico, che “in re ipsa” (cfr. TAR Campania, sez. III,
03.02.2015, n. 634); ed una siffatta impostazione trova il
conforto di pacifica giurisprudenza per la quale: <<La
norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più
quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati,
non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in
quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745); ed, ancora: <<In materia di abusi edilizi
l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che
il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR
Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480;
TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); <<La
norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più
quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati,
non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in
quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli
abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della
disciplina esistente al momento dell’adozione del
provvedimento sanzionatorio (cfr. TAR Piemonte, sez. I,
22.03.2013, n. 354; TAR Veneto n. 1068 del 2013) e secondo
condivisa giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude
il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune
in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di
tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne
consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e
l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche
a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso,
senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti
sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni
consolidate (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045).
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito,
emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione
dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative
della commessa trasgressione, rincara la lesione
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che,
perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare
ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo
tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
Nella fattispecie, poi, alle stregua di quanto rilevato
nella precedente censura, la valutazione della c.d. doppia
conformità urbanistica richiesta dall’art. 36, D.P.R. n. 380
del 2001 -contrariamente a quanto infondatamente dedotto-
non può dirsi essere stato omessa dall’Amministrazione
atteso che il provvedimento di tacito diniego dell’istanza
di sanatoria, pur risultando, per espressa volontà
legislativa di per sé privo di motivazione, è impugnabile
non per difetto di motivazione, bensì unicamente per il suo
contenuto di rigetto (Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI,
08.06.2004, n. 9278), circostanza questa puntualmente
avveratasi nel caso di specie atteso che i sopravvenuti
provvedimenti espressi di diniego sono stati impugnati dalla
ricorrente con i motivi aggiunti di cui appresso.
Inoltre il su riferito carattere vincolato caratterizzante
il potere di irrogazione delle sanzioni in materia
urbanistico-edilizie esclude che, in ogni caso, possa
trovare ingresso qualsivoglia censura di disparità di
trattamento per circostanza dell’identità dell’intervento
edilizio in questione rispetto agli altri realizzati nei
fondi limitrofi e che, però, non sarebbero stati oggetto di
alcun provvedimento sanzionatorio da parte
dell’Amministrazione comunale intimante; invero il parametro
di riferimento per valutare la legittimità dell’attività
repressiva posta in essere dall’Autorità urbanistica resta
sempre e soltanto l’ordinamento senza che possa ammettersi
il paragone o il confronto con altri casi apparentemente
analoghi in relazione ai quali l’atteggiamento della
predetta Autorità possa essere apparso più blando o
tollerante.
Altrettanto ininfluente ai fine della sussistenza
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso si
rivela la dedotta circostanza che la costruzione sarebbe
stata effettuata svariati anni prima e sarebbe stata
destinata a salvaguardare per preservare, il piano
sottostante la stessa dalle intemperie, causa di
infiltrazioni continue, atteso che nel nostro ordinamento
non ha alcuna cittadinanza il c.d. “abuso di necessità”,
apprestando un meccanismo di tutela “oggettivo” che,
prescinde cioè dai motivi particolari per i quali è stato
commesso l’abuso dovendosi apprestare un sistema
sanzionatorio a presidio di beni e valori di assoluto
rilievo primario
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato
il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non
devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del
1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto
destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero
fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura
vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica
motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è
in re ipsa.
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura
urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza
di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento.
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento,
trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi
all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza
delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime.
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal
contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e
la partecipazione procedimentale degli interessati.
---------------
In una prospettiva sostanzialistica che valga ad impedire
che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento diventi
un mero adempimento burocratico in grado soltanto di
ritardare il corso dell’azione amministrativa, il privato
non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di
avvio del procedimento, ma deve anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbero
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione.
---------------
Anche tale
censura è infondata
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente da cui
il Collegio non ha motivo per discostarsene rileva che: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un
mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di
demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento e la
partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
D’altronde, in una prospettiva sostanzialistica che valga ad
impedire che l’obbligo di comunicare l’avvio del
procedimento diventi un mero adempimento burocratico in
grado soltanto di ritardare il corso dell’azione
amministrativa, il privato non può limitarsi a dolersi della
mancata comunicazione di avvio del procedimento, ma deve
anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi
conoscitivi che avrebbero introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C.di S., sez. V,
02.04.2009, n. 2737)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Deve ribadirsi che il nostro ordinamento non
conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a
mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi
particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono
suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini
della irrogazione della sanzione urbanistica.
---------------
La censura è infondata.
Con un primo profilo di censura parte ricorrente deduce che,
dovendo la costruzione salvaguardare il piano sottostante
dalle intemperie, causa infiltrazioni continue e l’edificio
sarebbe stato realizzato per scopi di abitazione primaria e
non per fini speculativi.
Tuttavia, deve ribadirsi che il nostro ordinamento non
conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a
mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi
particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono
suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini
della irrogazione della sanzione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La veranda del furbo non blocca il progetto.
Chi rispetta le norme edilizie non può essere penalizzato
per colpa dei furbi. Così, se il vicino ha realizzato una
veranda abusiva e il comune non l'ha contestata, l'ufficio
tecnico dell'ente non può invece bloccare i lavori del
progetto confinante conforme alle norme statali e locali per
il mancato rispetto delle distanze minime tra i fabbricati:
altrimenti il risultato sarebbe far arretrare la costruzione
di chi ha diritto a edificare soltanto per la presenza del
manufatto contro legge e dunque capovolgendo «ogni ordinario
criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle
lecite e quelle illecite».
È quanto emerge dalla
sentenza 05.11.2015 n. 5164, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il comune ha evidentemente chiuso un occhio sull'opera
contro legge costruita dal vicino e ora non può dichiarare
illegittimo dell'altro corpo di fabbrica e deciderne la
demolizione perché troppo prossimo alla veranda abusiva.
Spese di giudizio compensate per la peculiarità della
questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
---------------
MASSIMA
3. Alla luce di quanto esposto, deve ritenersi che non
risulta smentito agli atti del giudizio che lo stato dei
luoghi differisce da quello rappresentato solo limitatamente
all’edificio di altro proprietario e che comunque le verande
insistenti su tale diversa proprietà non sono strutturate ai
fini portanti, ma risultano ricavate dalla chiusura parziale
delle balconate esistenti con vetro e alluminio
preverniciato e sono state determinate dall’UTC
dell’Amministrazione come aventi carattere provvisorio
ovvero temporaneo.
Ora, se il Comune non aveva contestato l’abusività di tali
verande, non poteva poi censurare la parte del corpo di
fabbrica per cui è controversia per mancato rispetto delle
distanze da alcune verande abusive, tanto più che l’edificio
realizzato da parte ricorrente risulta eseguito in
conformità ai Permessi di costruire rilasciati e le distanze
tra gli edifici sono rispettate in ragione sia della
temporaneità delle verande, sia del fatto che le mensole
balcone per la esiguità della larghezza non concorrono alla
determinazione delle distanze.
3.1 Ove si aderisse al non condivisibile assunto che la
distanza legale debba essere misurata tenendo conto anche
delle opere abusive confinanti, quale, appunto, la veranda
citata, si perverrebbe al risultato aberrante che, a causa
dell’illecito ampliamento dell’edificio in proprietà altrui,
parte ricorrente si vedrebbe costretta ad arretrare il
proprio manufatto rispetto alla sua legittima ubicazione
originaria.
La Società ricorrente si era in ogni caso munita
dell’Autorizzazione sismica del 06/05/2014, ma comunque il
Collegio ritiene di dover aderire all’orientamento in base
al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda
del confinante di edificare sul proprio suolo, non può
essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione
giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il
capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario
criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle
lecite e quelle illecite
(Cons. Stato, IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR
Campania, Napoli, IV, 21.07.2005, n. 10142).
3.2 I provvedimenti impugnati devono, dunque, reputarsi
illegittimi, posto che
la presenza di un manufatto abusivo non può essere di
ostacolo al ius aedificandi di chi ha presentato un
progetto in conformità delle norme locali e statali
(TAR Abruzzo, L’Aquila, 17.02.2004, n. 138), in disparte le
già accennate contraddizioni che hanno inficiato l’operato
del Comune sì da integrare il denunciato vizio del difetto
di istruttoria.
La Sezione ritiene, dunque, di dover aderire
all’orientamento in base al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda
del confinante di edificare sul proprio suolo, non può
essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione
giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il
capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario
criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle
lecite e quelle illecite
(Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR
Campania, n. 10142 del 2005; n. 8720 del 2010 confermata dal
Cons. Stato n. 3968 del 2015).
4. Alla luce di quanto sopra deve ritenersi che il ricorso
in esame vada accolto con conseguente annullamento dei
provvedimenti oggetto di impugnazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
La disposta misura repressivo-ripistinatoria
perde la propria efficacia in seguito alla presentazione
dell’istanza di sanatoria.
Nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui,
successivamente all’emissione di un’ordinanza di
demolizione, e prima della proposizione del ricorso
giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli
abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab
origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad
ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento
repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente
inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di
accertamento di conformità obbliga, infatti,
l’amministrazione comunale a riattivare comunque il
procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata
insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex
art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il
diniego oppostogli.
---------------
Come evidenziato retro, in narrativa, sub n. 4, dopo
l’emissione del provvedimento repressivo-ripristinatorio, e
prima dell’esperimento dell’impugnazione, Gr.Lu. e Gr.An., in data 28.01.2014 (prot. n. 3095),
hanno rassegnato al Comune di Aversa domanda di sanatoria ex
art. 37 del d.p.r. n. 380/2001.
Al riguardo, il Collegio ritiene di dover aderire al
consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la
disposta misura repressivo-ripistinatoria perde la propria
efficacia in seguito alla presentazione dell’istanza di
sanatoria (cfr., ex multis, Const. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646;
07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n. 1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n. 172; TAR Campania, Napoli, sez. VI,
05.03.2008,
n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n.
3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n.
5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV,
26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315;
07.11.2008, n. 19352;
sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211;
sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n. 1519; Salerno, sez. I,
23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258;
04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte,
Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n.
885; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche,
Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691).
Ed invero, nella specie, la richiesta di riesame
dell’abusività degli interventi eseguiti ha comportato la
formazione di un nuovo provvedimento espresso di rigetto, il
quale è valso comunque a superare la precedente ingiunzione
a demolire, cosicché l’amministrazione comunale è rimasta
obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con
l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere.
Ciò posto, nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame–
in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di
demolizione, e prima della proposizione del ricorso
giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli
abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab
origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad
ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente
inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di
accertamento di conformità obbliga, infatti,
l’amministrazione comunale a riattivare comunque il
procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata
insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex
art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il
diniego oppostogli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 05.06.2009, n. 3105; sez. III, 18.06.2009,
n. 3354; sez. VII, 02.07.2009, n. 3673; 09.07.2009, n.
3829; sez. IV, 15.11.2013 n. 5114; sez. VIII, 09.01.2014, n. 63;
07.02.2014, n. 883; 14.05.2014, n. 2668; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1455;
09.04.2009, n. 605; TAR Piemonte, Torino,
sez. I, 16.04.2014, n. 617; TAR Emilia Romagna, Parma, 09.07.2014, n. 274; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
05.08.2014, n. 2132; TAR Liguria, Genova, sez. II, 03.09.2014, n. 1336; TAR Umbria, Perugia,
03.12.2014, n. 590)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per consolidata
giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo
edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere
complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua
disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere
controversie circa i diritti reali su di esso vantati da
terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo,
quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di
legittimazione formalmente idoneo.
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a
integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità
dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali
fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza,
dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai
terzi controinteressati.
---------------
I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come,
appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia
richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto
richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente
confliggente posizione di qualificata disponibilità
dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo
che questi, sulla base di detta posizione, ove
incontroversa, abbiano manifestato il proprio dissenso.
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al
pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare
domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario
dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp.
artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma
1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione
non solo in presenza di una domanda avanzata dal
proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui
l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda
avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una
volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle
relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva
(afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia
dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa,
cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente).
E tanto è coerente con la diversa ottica dei due
procedimenti: l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del
d.p.r. n. 380/2001, presuppone necessariamente la verifica
della posizione giuridica che consente la legittima
esplicazione del ius aedificandi e, come tale, sottende un
rapporto qualificato di disponibilità con l’immobile;
l’altro, disciplinato dai successivi artt. 36 e 37,
presuppone, invece, un abuso commesso e, quindi, ben può
riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un
collegamento soggettivamente qualificato non già con
l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con
la possibilità di sanarne gli effetti.
---------------
6. Osserva,
innanzitutto, il Collegio che, in sede di presentazione
della domanda di sanatoria ex art. 37 del d.p.r. n.
380/2001, prot. n. 3095, del 28.01.2014, Gr.Lu.
e Gr.An. hanno allegato, oltre alla planimetria
catastale, quale titolo di proprietà, copia del testamento
pubblico dell’11.02.1999, rep. n. 34, col quale Ma.An. ha lasciato loro in legato “la porzione
della casa colonica sita in Aversa con ingresso dal viale
Kennedy, n. 39/A, costituita da un appartamento al piano
terra e da un appartamento al primo piano, individuata in
catasto al foglio 5, particella 707, sub 6 e 7, con la
proprietà esclusiva della corte annessa attualmente
recintata”.
Ebbene, a fronte del titolo di legittimazione esibitogli,
avente per oggetto l’immobile attinto dalle opere contestate
(cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), il resistente Comune
di Aversa ha esorbitato dai propri poteri istruttori, avendo
svolto, in assenza di formali e specifiche contestazioni da
parte dei terzi controinteressati (non rinvenibili ex actis),
ulteriori e autonome indagini circa la sussistenza di
diritti vantati da questi ultimi (sul punto, cfr. Cons.
Stato, sez. V, 15.03.2001, n. 1507; TAR Trentino Alto
Adige, Trento, 04.11.2003, n. 376; TAR Piemonte,
Torino, sez. I, 16.12.2003, n. 1801; 24.03.2004, n.
500) ed avendo annesso rilievo indebitamente preclusivo ad
una controversa civilistica con i medesimi insorta (sul
punto, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.04.2002, n. 199; TAR Campania, Salerno, sez. II, 17.11.2003, n. 1536).
In questo senso, giova rammentare che, per consolidata
giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo
edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere
complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua
disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere
controversie circa i diritti reali su di esso vantati da
terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo,
quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di
legittimazione formalmente idoneo (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. V, 07.07.2005, n. 3730; 07.09.2007, n.
4703; 07.09.2009, n. 5223; 24.03.2011, n. 1770;
sez. IV, 22.11.2013, n. 5563; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 28.04.2010, n. 1168; TAR Piemonte, Torino, sez.
I, 15.06.2010, n. 2841; TAR Campania, Napoli, sez. II,
18.11.2008, n. 19795; sez. VI, 03.12.2010, n.
26792; sez. VIII, 16.12.2010, n. 27527; sez. II, 31.07.2012, n. 3666; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 25.01.2012, n. 32; TAR Abruzzo, Pescara,
09.02.2012,
n. 52; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 26.03.2012, n.
328; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 27.09.2012, n.
1569; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 24.04.2013, n.
1150).
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a
integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità
dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali
fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza,
dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai
terzi controinteressati (nel caso in esame –come detto–
neppure attivatisi, se non nella presente sede processuale);
certezza che, all’evidenza, non sussiste in pendenza di un
contenzioso civile non ancora definito (cfr. TAR Sicilia,
Catania, sez. I, 15.09.2011, n. 2220), quale quello
evocato nella gravata nota del 18.12.2014, prot. n.
2949.
7. I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come,
appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia
richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto
richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente
confliggente posizione di qualificata disponibilità
dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo
che questi, sulla base di detta posizione, ove incontroversa
–e non è tale il caso di Ma.An. e di Ma.Al.–, abbiano manifestato il proprio dissenso –e
neppure tale è il caso di Ma.An. e di Ma.Al.– (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 17.02.2012, n. 358).
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al
pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare
domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario
dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp.
artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma
1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione
non solo in presenza di una domanda avanzata dal
proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui
l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda
avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una
volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle
relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva
(afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia
dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa,
cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente). E tanto
è coerente con la diversa ottica dei due procedimenti:
l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del d.p.r. n.
380/2001, presuppone necessariamente la verifica della
posizione giuridica che consente la legittima esplicazione
del ius aedificandi e, come tale, sottende un rapporto
qualificato di disponibilità con l’immobile; l’altro,
disciplinato dai successivi artt. 36 e 37, presuppone,
invece, un abuso commesso e, quindi, ben può riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un
collegamento soggettivamente qualificato non già con
l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con
la possibilità di sanarne gli effetti (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 196; TAR Puglia,
Bari, sez. III, 09.07.2011, n. 1057; Lecce, sez. III, 25.09.2014, n. 2409; TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.03.2013, n. 486; 28.05.2014, n. 800; 26.02.2015, n. 235)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e
rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella
sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti
partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla
disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini
del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei
luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di
interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva
statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive;
tanto più che, in relazione ad una simile tipologia
provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies
della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità
dell’atto adottato in violazione delle norme su
procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato.
---------------
La gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane
affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse
privato al mantenimento in loco della res, in quanto
costituisce –come già evidenziato– atto dovuto e
rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse
pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e,
stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene
meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di
ingenerare affidamenti.
---------------
L'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emessa
nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se
non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi
–come accennato– di illecito permanente sanzionato in via
ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o
della colpa del soggetto interessato.
---------------
Il
procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile
non interferisce con l’esercizio del potere di repressione
degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno
è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre
l’altro è volto a sanzionare l’attività
urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di
agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata
sanzione demolitoria.
---------------
1.5. Privo di pregio si rivela anche l’ulteriore profilo di
censura volto a denunciare la mancata instaurazione del
contraddittorio procedimentale previamente all’adozione
della misura repressivo-ripristinatoria.
Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di
atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non
implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in
meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto
di fatto rientrante nella sfera di controllo
dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di
quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina
tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la
preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene,
in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n.
5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II,
03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV,
22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859;
08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900;
Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679;
sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n.
16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008,
n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474;
04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV,
18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR
Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige,
Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso,
20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I,
20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR
Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto,
Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605;
TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
2. I superiori approdi –quanto, precipuamente, al mancato
consolidamento degli effetti della d.i.a. presentata per
interventi esulanti dal relativo regime abilitativo e,
quindi, quanto alla diretta irrogabilità della sanzione
reale, senza l’intermediazione delle garanzie
dell’autotutela, operanti in esito al prodursi degli effetti
anzidetti (cfr. art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990)–
inducono a ripudiare anche il motivo di impugnazione inteso
a denunciare l’omessa ponderazione tra l’interesse pubblico
al ripristino dello stato dei luoghi e il confliggente
affidamento dei privati (non responsabili dell’abuso) nella
conservazione delle opere eseguite.
Al riguardo, occorre rimarcare che la gravata misura
repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla
ponderazione discrezionale dell’interesse privato al
mantenimento in loco della res, in quanto costituisce
–come già evidenziato– atto dovuto e rigorosamente
vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede
in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il
carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il
mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare
affidamenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV,
04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n.
17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII,
05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce,
sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR
Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio,
Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova,
sez. I, 21.03.2011, n. 432).
Tale conclusione neppure resta menomata dalla dedotta
circostanza che i ricorrenti non sarebbero responsabili
dell’abuso contestato (avendo acquistato da terzi l’immobile
già nelle condizioni emerse in sede di accertamento).
L'ordinanza di demolizione può, infatti, legittimamente
essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera
abusiva, anche se non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito
permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere
dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto
interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina,
06.08.2009, n. 780; TAR Campania, Napoli, sez. II,
15.12.2009, n. 8704; sez. IV, 09.04.2010, n. 1890; sez. III,
23.04.2010, n. 2106; sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
3. I nominati in epigrafe non possono, poi, fondatamente
dolersi del fatto che le unità immobiliari abusivamente
adibite ad appartamenti residenziali avrebbero, dapprima,
conseguito l’autorizzazione di abitabilità ed usabilità,
prot. n. 99, dell’11.02.2008 e, poi, contraddittoriamente,
formato oggetto della gravata misura
repressivo-ripristinatoria.
Rileva, in questo senso, il Collegio che il procedimento
volto ad attestare l’agibilità di un immobile non
interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli
illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno
è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre
l’altro è volto a sanzionare l’attività
urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di
agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata
sanzione demolitoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Frazionamento e predisposizione di un terreno
agricolo alla realizzazione di edifici aventi natura e
destinazione residenziale - Reato di lottizzazione abusiva -
Configurabilità - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e
la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione
di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in
quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente
connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo
del fondo ed incompatibile con l'originaria vocazione
dell'area (Sez. 3, n. 15605 del 31/03/2011 - dep.
19/04/2011, Manco e altri, Rv. 250151, che, peraltro, ha
specificato come il mero possesso della qualifica di
imprenditore o bracciante agricolo non sarebbe, di per sé,
sufficiente ad escludere il reato).
Lottizzazione abusiva - Sentenza di
proscioglimento per prescrizione del reato - Confisca del
bene lottizzato.
In tema di lottizzazione abusiva, il giudice, anche quando
pronuncia sentenza di proscioglimento per prescrizione del
reato, può disporre, sulla base di adeguata motivazione
sull'attribuibilità del fatto all'imputato, la confisca del
bene lottizzato, atteso quanto affermato dalla Corte
Costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, anche
considerata la pronuncia della Corte EDU del 29.10.2013 nel
caso Varvara c/Italia: Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015 -
dep. 22/04/2015, Boezi e altri, Rv. 263585; Sez. 4, n. 31239
del 23/06/2015 - dep. 17/07/2015, Giallombardo, Rv. 264337) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi o urbanistici - Sequestro
preventivo di manufatto abusivo - Valutazione del giudice
degli effetti pregiudizievoli del reato.
In tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che,
al fine di disporre il sequestro preventivo di manufatto
abusivo, il giudice di merito ha il dovere di compiere in
ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa
pertinente al reato possa agevolare o protrarre le
conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri
reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un
reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o
una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con
riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a.
in relazione a costruzioni non assistite da concessione
edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici)
ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca
un elemento neutro sotto il profilo dell'offensività (Sez.
U, n. 12878 del 29/01/2003 - dep. 20/03/2003, P.M. in proc.
Innocenti, Rv. 223722).
Reati edilizi o urbanistici - Opere
edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo - Limiti
all'uso e godimento dell'opera abusiva - Sequestro disposto
per la violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
- Requisito del periculum - Confiscabilità ex art. 44, c. 2, d.P.R. n. 380/2001 - 146 e 181, D.Lgs. n. 42 del 2004 -
Finalità residenziali vietate dallo strumento urbanistico in
zona a vocazione agricola - Fattispecie: uso esclusivamente
residenziale di un manufatto realizzabile solo per finalità
agricole.
In materia di reati edilizi o urbanistici, non rileva il
successivo utilizzo dell'immobile ai fini abitativi, laddove
si consideri che il sequestro è stato disposto per la
violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001
(sotto il duplice profilo della configurabilità
dell'illecito lottizzatorio che della totale difformità
degli interventi edilizi rispetto al titolo abilitativo,
dovendosi qui ribadire che in materia edilizia è
ipotizzabile il sequestro preventivo anche dell'immobile
abusivamente costruito e già ultimato, atteso che le
esigenze cautelari ravvisabili sono sia il paventato aumento
del carico urbanistico sia le ulteriori conseguenze dovute
all'uso ed al godimento dell'opera abusiva al di fuori di
ogni controllo prescritto in funzione della tutela degli
interessi pubblici coinvolti, come ben descritto dal
tribunale del riesame nel caso di specie: Sez. 3, n. 9058
del 22/01/2003 - dep. 26/02/2003, P.M. in proc. Sferratore
L., Rv. 224173).
Quanto, infine, al requisito del periculum, deve, in
particolare osservarsi come la natura permanente del reato
previsto dall'art. 44, comma primo, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, legittima il sequestro preventivo delle
opere edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo anche
nel caso di ultimazione dei lavori, in quanto l'esecuzione
di interventi edilizi in zona vincolata ne protrae nel tempo
e ne aggrava le conseguenze, determinando e radicando il
danno all'ambiente ed al quadro paesaggistico che il vincolo
ambientale mira a salvaguardare (Sez. 3, n. 30932 del
19/05/2009 - dep. 24/07/2009, Tortora, Rv. 245207),
soprattutto in contesti, come quello sub iudice, nei quali
l'attività edilizia non si esaurisce in sé, ma comporta un
protrarsi dell'aggravio urbanistico tenuto conto del maggior
"consumo del territorio" derivante dall'utilizzo per fini
esclusivamente residenziali di un immobile che, per
destinazione originaria del programma di fabbricazione,
poteva essere utilizzato solo per finalità rurali.
E non v'è dubbio che l'utilizzo da parte del proprietario
lottizzatore abusivo di un immobile con finalità
residenziali vietate dallo strumento urbanistico, in zona a
vocazione agricola, determina un incremento del carico
urbanistico, concetto non normativamente definito che ha
come presupposto il rilievo che agli insediamenti umani ed
primari (abitazioni, uffici, opifici, negozi etc.) sono
correlati insediamenti secondari di servizi (gas, luce,
strade etc.) che devono essere calibrati sui primi.
Le opere
edilizie abusive possono comportare una sproporzione tra il
numero degli abitanti, o di coloro che svolgono una attività
sul territorio, e le strutture collettive originariamente
predisposte. Ora l'insediamento abusivamente introdotto
nella zona agricola dall'indagato deve considerarsi primario
e, di conseguenza, determina un aggravio, anche se non
apparentemente rilevante, del carico urbanistico.
Tanto premesso, non può certamente ritenersi inadeguata né
apparente, ai fini che qui rilevano agli effetti dell'art.
325 cod. proc. pen., la motivazione sul punto fornita dal
tribunale del riesame che, proprio all'esito di una
valutazione "in concreto" sull'eventuale ulteriore
pregiudizio all'assetto urbanistico del territorio,
discendente dall'uso dell'opera abusiva (nella specie, ad
uso esclusivamente residenziale di un manufatto realizzabile
solo per finalità agricole), ha ritenuto sussistere il
periculum, anche evidenziando la confiscabilità ex art.
44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a
www.ambientediritto.it). |
ottobre 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
corretta quantificazione della sanzione ex art. 37 DPR
380/2001 per l'esecuzione abusiva di opere di tombinamento
di un fosso.
Le opere eseguite (tombinamento di un
fosso in assenza di d.i.a.) contribuiscono oggettivamente ad
un miglioramento complessivo della fruibilità della villa
che si giova di una più ampia e meglio accessibile area
pertinenziale e, pertanto, la tesi dei ricorrenti secondo la
quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito
al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento
non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per
stimare il valore dell’incremento del valore della villa
appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una
recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive
di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un
altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati
precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare
dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere
pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il
Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di
stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo
delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che
il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza
possa ritenersi aumentato quantomeno in misura
corrispondente a quanto speso per i materiali e la
manodopera.
---------------
... per
l'annullamento del provvedimento comunale 13.07.2009 n. 7173
di applicazione sanzione pecuniaria riferita all’esecuzione
di opere di tombinamento di un fosso in assenza di d.i.a. ed
atti connessi.
...
I ricorrenti, proprietari di una villa sita nel Comune di
Loreggia, hanno effettuato, senza alcun titolo abilitativo,
il tombinamento di un fosso sul lato nord della proprietà
per una lunghezza di circa 180 m. mediante la posa di
tubazioni in calcestruzzo, pozzetti e il riempimento di
materiale vegetale.
Poiché le opere, stante il divieto di realizzare il
tombinamento o la chiusura di fossi prevista dalla
valutazione di compatibilità idraulica recepita dallo
strumento urbanistico, non sono state ritenute sanabili, il
Comune ha applicato la sanzione di cui all’art. 37, comma 1,
del DPR 06.06.2001, n. 380, che prevede una sanzione
pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile conseguente alla realizzazione degli
interventi stessi, quantificata in € 21.600,00.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti contestano la
correttezza della quantificazione dell’ammontare della
sanzione lamentando in via principale l’erroneità del
criterio adottato dal Comune che, anziché valutare
l’incremento di valore prima e dopo l’esecuzione dei lavori,
si è riferito al costo sostenuto per l’esecuzione delle
opere, e sostengono che pertanto il calcolo corretto
dell’aumento del valore venale dell’immobile non avrebbe
dovuto essere riferito all’incremento di valore della villa,
ma a quello relativo alla sola striscia di terreno
recuperata a seguito del tombinamento.
Secondo la loro prospettazione il Comune avrebbe dovuto
tener conto del solo valore della superficie del terreno
agricolo recuperato, applicando una sanzione finale di €
2.040,00.
In via subordinata, lamentano il difetto di istruttoria
deducendo che il Comune, senza effettuare una ricerca di
mercato, ha arbitrariamente valutato in € 10.800,00 il costo
dell’opera senza considerare gli effettivi costi sostenuti
ammontanti invece ad € 6.000,00,.
Si è costituito in giudizio il Comune replicando alle
censure proposte e concludendo per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza n. 1165 del 17.12.2009, è stata accolta la
domanda cautelare.
Alla pubblica udienza dell’08.10.2015, la causa è stata
trattenuta in decisione.
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase
cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere
respinto.
Le opere eseguite contribuiscono oggettivamente ad un
miglioramento complessivo della fruibilità della villa che
si giova di una più ampia e meglio accessibile area
pertinenziale e pertanto la tesi dei ricorrenti secondo la
quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito
al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento
non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per
stimare il valore dell’incremento del valore della villa
appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una
recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive
di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un
altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati
precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare
dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere
pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il
Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di
stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo
delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che
il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza
possa ritenersi aumentato quantomeno in misura
corrispondente a quanto speso per i materiali e la
manodopera.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte.
Parimenti infondata è anche la censura di cui al secondo
motivo, perché dalla documentazione versata in atti, e non
contestata dai ricorrenti, risulta che il Comune,
contrariamente a quanto dedotto, non si è determinato in
modo arbitrario nello stimare il costo delle opere, ma si è
riferito ad una somma inferiore a quella dei costi medi
rilevabili sul mercato, come comprovano i due preventivi di
spesa acquisiti dal Comune da due diverse ditte che,
calcolando analiticamente i lavori da eseguire e i materiali
da utilizzare, hanno quantificato in € 11.700,00, ed €
14.100,00, i costi complessivi necessari all’esecuzione del
tombinamento, e ciò è sufficiente a comprovare la non
arbitrarietà della stima e l’inattendibilità dei dati
forniti dai ricorrenti che si sono limitati a depositare in
giudizio una fattura priva dell’esposizione analitica dei
costi secondo la quale la spesa sostenuta è stata di €
6.000,00.
In definitiva il ricorso deve essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.10.2015 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine
di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (cfr. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che
segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione,
emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e
dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo”).
Segue da ciò che in questa materia non occorre il previo
invio della comunicazione di avvio del procedimento,
peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma
2, l. 07.08.1990, n. 241.
Su quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e
in termini generali, va ribadito che dalla natura dovuta del
potere repressivo degli abusi edilizi discende la non
necessità dell'invio dell’avviso di avvio del procedimento.
Va poi considerata l'innovazione apportata dalla legge
11.02.2005, n. 15 che, nel modificare la l. n. 241 del 1990,
ha introdotto l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone
che "non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per
mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'Amministrazione dimostri che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato".
---------------
Ai fini della verifica di legittimità dell’emanazione di un
ordine di rimozione di un immobile abusivo realizzato su
area demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto
sia sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo,
senza che necessiti l’accertamento su chi abbia
effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve
intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la
violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella
titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo
successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal
bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto
che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non
sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime
dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi,
restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di
rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si
identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito
l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente,
anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale
disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore,
deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad
altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che
impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe
alla situazione paradossale per cui le opere abusive
dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure
ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della
mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”.
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione
permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di
demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine
medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a
prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso
medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione
attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa,
che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo
accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere
abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il
soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità
materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzato (cfr. Cons. Stato, IV,
12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza di
demolizione di opere abusive realizzate su terreno
demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera,
indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non ai fini della
legittimità dell'ordine di demolizione….”).
La sentenza sul punto merita di essere confermata.
E difatti:
- sull’illegittimità derivata, è sufficiente rinviare alle
considerazioni sviluppate sulle censure relative al diniego
di condono (v. sopra, p. 7.1. ss.);
- sul X e il XII motivo, riproposti ed esaminabili in maniera
congiunta dato che riguardano, nella sostanza, vizi
d’insufficiente motivazione, in primo luogo occorre
precisare che l’ordine di rimozione delle opere abusive non
solo richiama in modo esplicito il diniego di condono
edilizio che ne costituisce il presupposto, ma consta di
diverse pagine, nelle quali viene ricostruito l'iter che ha
condotto l'Amministrazione a emanare il provvedimento in
contestazione, con l’indicazione delle ragioni per le quali
le opere in argomento sono state considerate illegittime,
dell'attività istruttoria svolta, delle caratteristiche del
chiosco e delle opere che compongono l'organismo edilizio da
considerarsi nel suo complesso e in modo unitario –cosa che
la sentenza non ha mancato di sottolineare (v. pag. 9)- e
delle sanzioni applicate con le disposizioni di riferimento.
E’ comunque il caso di ribadire, con la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V,
11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti
giurisprudenziali aggiuntivi), che “l'ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf.
Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il
carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in
mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo”);
- segue da ciò che in questa materia non occorre il previo
invio della comunicazione di avvio del procedimento,
peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma
2, l. 07.08.1990, n. 241 (cfr. motivo sub XIII, su ordine
di demolizione del battuto di cemento e asserita violazione
dei diritti partecipativi).
Su quest’ultima violazione
procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va
ribadito che dalla natura dovuta del potere repressivo degli
abusi edilizi discende la non necessità dell'invio
dell’avviso di avvio del procedimento (v., “ex multis”,
Cons. Stato, IV, 17.02.2014, n. 734, ed ivi,
indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
Va poi considerata
l'innovazione apportata dalla legge 11.02.2005, n. 15
che, nel modificare la l. n. 241 del 1990, ha introdotto
l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone che "non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione
dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In tema di applicazione del citato art. 21-octies, secondo
comma, alle ingiunzioni di demolizione, e di “dequotazione”
dei vizi formali del procedimento, che non incidono sul
contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se
quest’ultimo ha natura vincolata, v. Cons. Stato, IV, 13.03.2014, n. 1208, cui si rinvia anche ai sensi degli
articoli 74 e 88, comma secondo, lett. d), Cod. proc. amm..
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto compiute
sopra emerge che, anche in presenza di un formale avviso di
avvio del procedimento riferito al “battuto di cemento”, il
contenuto finale dell’ordinanza emanata, stante il carattere
unitario delle opere, da considerare nel loro complesso,
come è stato puntualmente rilevato in sentenza (v. fine pag.
14), non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato
in concreto adottato, tenuto conto della “modificazione del
territorio per l’innanzi inedificato” conseguente alla
realizzazione del “battuto di cemento” (v. sent. cit.),
eseguito per poter installare le opere abusive oggetto del
diniego di condono. Inoltre l’appellante non fornisce alcuna
indicazione sul contenuto specifico delle osservazioni,
pertinenti all’oggetto del procedimento, che avrebbe potuto
presentare al Comune a questo riguardo;
- sub XI (ingiunzione di rimozione non preceduta dal parere
della Commissione locale per il paesaggio), rilevato in via
preliminare che l’art. 2, lett. e), della legge regionale
Liguria 05.06.2009, n. 22 -Attuazione degli articoli 159,
comma 1, 148 e 146, comma 6, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio) e successive modifiche e integrazioni, prevede
che “le Commissioni esprimono pareri obbligatori in
relazione ai procedimenti… e) di irrogazione dei
provvedimenti sanzionatori di cui all’articolo 167 del
Codice”, ai fini del rigetto del motivo è decisivo
osservare, prima di tutto, che la non conformità edilizia
dell’opera costituisce ragione che sorregge in via autonoma
la sanzione urbanistica demolitoria, e in secondo luogo che
il cenno all’art. 167 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio contenuto nelle premesse dell’ordine di rimozione
è del tutto marginale alla luce dell’“impianto motivazionale
complessivo" sul quale si basa il provvedimento medesimo, il
quale si concreta in un ordine di demolizione senza che sia
contemplata, per converso, alcuna misura rivolta alla tutela
diretta di profili di carattere paesaggistico.
Infine, come
è stato ricordato sopra, al p. 7.2., cui si rinvia, la
Commissione locale per il paesaggio si era espressa –in
modo legittimo- in sede consultiva sull’istanza di condono:
di qui la condivisibilità di argomentazioni e statuizioni
della sentenza sul punto, sembrando evidente il carattere
“pleonastico e sovrabbondante” di un parere aggiuntivo della
Commissione.
7.5. Da tutte le considerazioni su esposte e a fronte della
legittimità dei provvedimenti impugnati non residua alcun
margine per accogliere la richiesta di risarcimento dei
danni, reiterata con l’appello.
8. Come si è accennato sopra, ai punti 2. e 4., il Comune
ha proposto appello in via incidentale contestando la
sentenza nella parte in cui, in accoglimento del motivo
aggiunto, ha disposto l’annullamento dell’ordine di
rimozione delle opere per cui è causa in quanto rivolto alla
signora El.Mi. quale legale rappresentante della
Ra. s.a.s., poiché “il sistema sia del testo unico
dell’edilizia sia della legge regionale 16/2008 contempl(a)
come unico destinatario dell’ordine di demolizione
dell’abuso realizzato su aree demaniali o di enti pubblici
il responsabile dell’abuso (art. 35 d.p.r. 380/2001 e art. 51
l.r. 16/2008) (sicché, secondo il Tribunaleamministrativo,)
accertata la sostanziale estraneità della ricorrente alla
realizzazione dell’abuso l’amministrazione non poteva
ingiungere la demolizione dell’opera nell’esercizio dei suoi
poteri di vigilanza e repressione dell’abusivismo edilizio…”
(v. pag. 15 sent.).
L’appello incidentale è fondato e va accolto.
Il motivo aggiunto proposto in primo grado andava respinto.
In modo legittimo l’ordine di rimozione risulta impartito
alla signora Mi., quale legale rappresentante della
Ra., vale a dire al soggetto che ha la disponibilità
materiale del manufatto abusivo e al quale spetta di
rimuovere l’opera, quantunque sia incontroverso che il
chiosco non sia stato materialmente realizzato dalla Mi..
L’appellata in via incidentale sostiene di non essere né
proprietaria, né responsabile dell’esecuzione dell’opera da
rimuovere realizzata, come detto, su area demaniale.
Ora, il Collegio non ignora che l’art. 31, comma secondo,
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia,
prevede che il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo,
ovvero con variazioni essenziali ingiunge “al proprietario e
al responsabile dell'abuso” la rimozione o la demolizione. La
norma si riferisce alle opere realizzate su area privata. E
che l’art. 35 del t.u. n. 380 del 2001, invece, nel
disciplinare il caso specifico degli interventi abusivi
realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti
pubblici, qualora sia accertata la realizzazione di
interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in
totale o parziale difformità dal medesimo, dispone che il
dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non
rinnovabile, ordina “al responsabile dell'abuso” la
demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone
comunicazione all'ente proprietario del suolo. In altre
parole al proprietario deve solo essere data comunicazione
dell’ordine.
Né s’ignora che la legge regionale della Liguria 06.06.2008, n. 16 (Disciplina dell'attività edilizia), all’art.
51, intitolato “interventi abusivi realizzati da privati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti pubblici”,
richiamato nelle premesse dell’ordine di rimozione, dispone
che “qualora sia accertata la realizzazione, da parte di
soggetti privati, di interventi in assenza di permesso di
costruire o di DIA obbligatoria o alternativa al permesso di
costruire, ovvero in totale o parziale difformità dai
medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato
o di Enti pubblici, il responsabile dello SUE ordina al
responsabile dell'abuso la demolizione o il ripristino dello
stato dei luoghi ai sensi dell'articolo 56, dandone
comunicazione all'ente proprietario del suolo”.
Il Collegio anzitutto rileva -coerentemente al costante
orientamento giurisprudenziale in tema di c.d. sanzioni
edilizie, e quale che sia il riferimento normativo tra i
testé ricordati- la natura reale delle misure ripristinatorie in questione, tese alla oggettiva
reintegrazione dell’ordine violato: dunque tali da
prescindere dall’imputazione soggettiva del comportamento di
realizzazione dell’abuso, e da seguire la titolarità del
bene anche nei passaggi successivi al momento della
realizzazione.
Ritiene coerentemente il Collegio che, ai fini della
verifica di legittimità dell’emanazione di un ordine di
rimozione di un immobile abusivo realizzato su area
demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto sia
sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo,
senza che necessiti l’accertamento su chi abbia
effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve
intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la
violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella
titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo
successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal
bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto
che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non
sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime
dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi,
restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di
rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si
identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito
l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente,
anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale
disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore,
deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine
violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad
altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che
impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si
perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere
abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della
mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”
(così il Comune, in modo condivisibile).
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione
permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di
demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine
medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a
prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso
medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione
attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa,
che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo
accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere
abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il
soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità
materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzato (conf. Cons. Stato, IV, 12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza
di demolizione di opere abusive realizzate su terreno
demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera,
indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non ai fini della
legittimità dell'ordine di demolizione….”).
Da ciò discende la riforma, in parte qua, della sentenza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.10.2015 n. 4880 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce variante essenziale del progetto edilizio
l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione.
Quanto all’unica motivazione di tale provvedimento
(qualifica di variante essenziale del progetto presentato),
appaiono fondate le argomentazioni esposte in primo grado
dall’appellante e riproposte in questa sede, trattandosi di
modifiche “riduttive” al progetto originario (si è
rinunciato a due unità immobiliari), laddove la semplice
“variazione della sagoma dell’edificio si appalesa del tutto
inidonea a … fondare la qualificazione di variante come …
essenziale”.
Non può non trascurarsi, del resto, che nella specie la
legge regionale abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il
concetto di “sagoma” nel novero delle modifiche che
determinano variazioni essenziali al progetto, così come non
vi include tutte quelle variazioni, come quelle di cui al
caso di specie, che finiscono per ridurre i parametri
edificatori originariamente assentiti al fine di alleggerire
il carico volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio
di dissesti del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione
dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il
titolo richiesto deve qualificarsi come variante non
essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670;
id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496,
secondo la quale “costituisce variante essenziale del
progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua
diminuzione”).
---------------
Quanto all’unica
motivazione di tale provvedimento (qualifica di variante
essenziale del progetto presentato), appaiono fondate le
argomentazioni esposte in primo grado dall’appellante e
riproposte in questa sede, trattandosi di modifiche “riduttive”
al progetto originario (Prestige ha rinunciato a due unità
immobiliari), laddove la semplice “variazione della
sagoma dell’edificio si appalesa del tutto inidonea a …
fondare la qualificazione di variante come … essenziale”
(cfr. Cons. St., sez. V, 30.07.2002, n. 4081; Cons. St.,
sez. VI, 12.11.2014, n. 5552).
Non può non trascurarsi, del resto, che, come fondatamente
rilevato dall’appellante, nella specie la legge regionale
abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il concetto di “sagoma”
nel novero delle modifiche che determinano variazioni
essenziali al progetto, così come non vi include tutte
quelle variazioni, come quelle di cui al caso di specie, che
finiscono per ridurre i parametri edificatori
originariamente assentiti al fine di alleggerire il carico
volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio di dissesti
del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione
dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il
titolo richiesto deve qualificarsi come variante non
essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670;
id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496,
secondo la quale “costituisce variante essenziale del
progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua
diminuzione”)
(Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.10.2015 n. 4823 -
link a www.giustizia-amministratva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
●
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
●
L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto;
●
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno
natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in
assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del
territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario e quindi non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del
procedimento;
●
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi
edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del
procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere
abusivo delle medesime;
●
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e
dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e
la partecipazione procedimentale degli interessati.
---------------
Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che,
non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei
procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in
ragione della natura vincolata della relativa attività
repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune
resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta
comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in
ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni
assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L.
07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto
provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto
dispositivo diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Le prime due censure con le quali è dedotta la violazione
degli artt. 7, 10 e ss., L. n. 241 del 1990 e succ. modif. e
int., la violazione del giusto procedimento, di correttezza
e di buon andamento dell’azione amministrativo, oltre
all’eccesso di potere per difetto di istruttoria, sì come
afferenti ad un unico iter logico-argomentativo, possono
trattarsi congiuntamente e sono entrambe infondate.
Al riguardo parti ricorrenti lamentano di essere stati
impediti nella effettiva esplicazione del diritto di
partecipazione procedimentale ed, in particolare della
possibilità di prendere visione degli atti del procedimento
e di presentare memorie scritte e documenti, ai sensi
dell’art. 10, L. n. 241/1990, per essere stata la
comunicazione di avvio del procedimento loro notificata il
27.04.2008 mentre l’ordinanza di demolizione sarebbe stata
emanata già il giorno seguente, senza neppure il rispetto
del termine, comunque incongruo (per la giurisprudenza non
potendo essere inferiore a dieci giorni), di giorni 7,
fissato nello stesso avviso dell’Autorità procedente.
La censura è infondata.
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente e
condivisa dal Collegio rileva che: <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII,
05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo
per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un
mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di
demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento e la
partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che,
non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei
procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in
ragione della natura vincolata della relativa attività
repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune
resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta
comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in
ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni
assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui
successivi atti procedimentali e sul provvedimento
definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L.
07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto
provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto
dispositivo diverso da quello in concreto adottato (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 20.10.2015 n. 4904 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nella situazione di parziale difformità delle
opere realizzate rispetto ai permessi di costruire in
precedenza rilasciati e quindi da considerare non presidiate
dal corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del
D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi
originariamente per la disporre una preventiva irrogazione
di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere
applicata, in alternativa alla riduzione in pristino
unicamente allorquando, in sede di esecuzione della
demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente
possibile eliminare le parti difformi della struttura senza
compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del
fabbricato.
---------------
►
In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”;
►
In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto
vincolato il quale non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
►
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività
edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica,
ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto,
l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare;
►
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato.
---------------
A prescindere che nessuna norma prevede che il provvedimento
di riduzione al pristino lo stato dei luoghi debba contenere
l’indicazione della data di realizzazione degli abusi, la
natura “permanente” dell’illecito urbanistico rende
irrilevante l’epoca della realizzazione degli stessi attesa
la sussistenza dell’interesse pubblico in re ipsa alla
reintegrazione dell’ordine urbanistico violato nel momento
in cui le violazioni vengono accertate dall’Autorità
urbanistica.
---------------
Con la quarta censura è dedotta la violazione di legge e
l’eccesso di potere (per manifesta ingiustizia,
contraddittorietà, illogicità), in quanto l’Amministrazione
procedente, nel considerare le opere parzialmente difformi
dai titoli abilitativi, non avrebbe tenuto conto di tutti
gli aspetti funzionali, pregiudizievoli per la restante
struttura (comunque ritenuta regolare e legittima), che
potrebbero scaturire dalla demolizione come sanzione
principale rispetto alla subordinata sanzione pecuniaria.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Invero, nella situazione di parziale difformità delle opere
realizzate rispetto ai permessi di costruire in precedenza
rilasciati e quindi da considerare non presidiate dal
corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del
D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi
originariamente per la disporre una preventiva irrogazione
di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere
applicata, in alternativa alla riduzione in pristino -come
peraltro implicitamente ammesso anche dai ricorrenti-
unicamente allorquando, in sede di esecuzione della
demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente
possibile eliminare le parti difformi della struttura senza
compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del
fabbricato.
...
Con la sesta censura si deduce la violazione di legge e
l’eccesso di potere per carenza di motivazione e di
istruttoria, atteso che, nell’emanazione dell’atto impugnato
l’Amministrazione procedente non avrebbe effettuato
un’adeguata comparazione tra sacrifici imposti ai privati
incisi e finalità di interesse pubblico perseguito dalla
medesima, non valutando l’esistenza di un pubblico interesse
concreto alla demolizione delle opere edilizie abusive, non
bastando il mero accertamento dell’abusività della
costruzione.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Secondo quanto in precedenza statuito da questa Sezione: <<In
tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> (TAR
Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634) ed una siffatta
impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la
quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di
demolizione è atto vincolato il quale non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che
il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR
Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR
Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione
di opere abusive, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V,
11.06.2013, n. 3235); infine: <<La norma di cui all’art.
27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla
repressione di abusi su beni vincolati, non appare
contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto
l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n.
4745).
...
Con l’ottava censura si deduce la violazione di legge,
l’eccesso di potere, il difetto di istruttoria e di
motivazione, non contenendo l’impugnata ordinanza di
demolizione l’indicazione circa l’epoca di costruzione degli
abusi riscontrati.
Tale censura non ha miglior sorte delle precedenti in
quanto, a prescindere che nessuna norma prevede che il
provvedimento di riduzione al pristino lo stato dei luoghi
debba contenere l’indicazione della data di realizzazione
degli abusi, la natura “permanente” dell’illecito
urbanistico rende irrilevante l’epoca della realizzazione
degli stessi attesa la sussistenza dell’interesse pubblico
in re ipsa alla reintegrazione dell’ordine
urbanistico violato nel momento in cui le violazioni vengono
accertate dall’Autorità urbanistica; nella fattispecie deve
altresì rilevarsi che le opere sono state ingiunte di
demolizione non in quanto prive di permesso di costruire, ma
in quanto realizzate in maniera (parzialmente) difforme
rispetto ai pregressi titoli abilitativi, per modo che la
datazione degli abusi è, in ogni caso, necessariamente da
collocare in epoca successiva al rilascio dei permessi di
costruire (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 20.10.2015 n. 4904 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ritiene che l’applicazione
della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale
e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica
a carico della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza
presentata a tal fine dalla parte privata ad essa
interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la
legalità violata, costituisce il contenuto che, in via
ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo
dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo
accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori
adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza
pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso
principio di buon andamento dell'azione amministrativa,
entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca
l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in
termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli
interessi pubblici cui è preposta.
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di
verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi
d’ufficio in una fase anteriore all'emissione dell'ordine di
demolizione. Si deve perciò ritenere che l'ordine di
demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica
di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e
comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la
fase esecutiva.
L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico- ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Con una prima
censura si sostiene la illegittimità dell’ordine di
demolizione, in relazione alla violazione dell’articolo 34
del d.p.r. 380 del 2001, in quanto il Comune avrebbe dovuto
comminare la sanzione pecuniaria in relazione al pregiudizio
che la demolizione apporterebbe alla parte conforme al
titolo edilizio.
Tale censura è infondata.
La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione
pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons. Stato,
sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013 ), e possa
essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico
della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza presentata
a tal fine dalla parte privata ad essa interessata. In altri
termini, ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la
legalità violata, costituisce il contenuto che, in via
ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo
dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo
accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori
adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza
pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso
principio di buon andamento dell'azione amministrativa,
entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca
l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in
termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli
interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del
2012).
Ne consegue che la parte pubblica non può essere
onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da
effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all'emissione
dell'ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che
l'ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di
una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece
segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse
durante la fase esecutiva (Tar Lazio I-quater n. 316 del
2014, 5277 del 2013; n. 762 del 2013).
L'ingiunzione di
demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del
procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso;
pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (Tar Lazio I-quater n. 3105 del 2012) .
Ne deriva l’infondatezza della censura relativa alla
violazione dell’articolo 34 del d.p.r. 380 del 2001, che
potrà essere eventualmente applicato dall’Amministrazione,
qualora ne ricorrano i presupposti, anche su istanza di
parte, nella fase esecutiva della demolizione
(TAR Lazio-Roma,
Sez. IV,
sentenza 14.10.2015 n. 11671 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico
opere consistenti in sbancamento del terreno, realizzazione
di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso», di un
riporto di terra e materiali di risulta e di muro di
contenimento in pietra abbisognano del
permesso di costruire, trattandosi di opere che, considerate
nel loro complesso, obiettivamente comportano una
trasformazione del territorio, quanto meno per ciò che
riguarda quelle non accessorie, quali i singoli edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, è
necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
---------------
La giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai
pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina
urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale
subordinata alla demolizione, che appare, peraltro,
giustificata dalla circostanza che la presenza sul
territorio di un manufatto abusivo rappresenta,
indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del
reato, da eliminare.
Analoghi principi sono stati affermati con
riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere
subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso
che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi,
in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze
dannose o pericolose e che la sanzione specifica della
rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del
bene offeso.
Si è ulteriormente specificato che la
subordinazione della sospensione condizionale della pena
alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita
dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del
comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato
l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a
quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
---------------
I principi appena richiamati, tuttavia, riguardano il
proprietario o comunque colui che materialmente dispone
delle opere e che, pertanto, può provvedere all'adempimento
della condizione apposta alla concessione del beneficio,
mentre per altri soggetti coinvolti, quali il direttore dei
lavori o gli esecutori materiali, la possibilità di
adempiere sarebbe necessariamente subordinata alla volontà
del proprietario.
Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha
infatti chiarito come il giudice, nel
disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei
lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001, non può subordinare il beneficio della sospensione
condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle
opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi
dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto
passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza del
21/11/2014 ha confermato la decisione con la quale, in data
27/11/2012, il Tribunale di Grosseto - Sezione Distaccata di
Orbetello aveva affermato la responsabilità penale di Em.FA.
e Do.TU. in ordine ai reati di cui agli artt. 44, lett. c),
d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, perché,
quali esecutori materiali, realizzavano (unitamente al
proprietario del terreno), in area sottoposta a vincolo
paesaggistico ed in assenza del permesso di costruire e
dell'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del
vincolo, opere consistenti in sbancamento del terreno,
realizzazione di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso»,
di un riporto di terra e materiali di risulta e di muro di
contenimento in pietra (Monte Argentario 11/10/2010).
Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente
ricorso per cassazione tramite il loro difensore di fiducia.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è solo in parte fondato.
Va rilevato, con riferimento al primo ed al
secondo motivo dì ricorso, che la sentenza impugnata è
immune da censure per ciò che riguarda la natura delle
opere, la necessità dei titoli abilitativi, che si è
accertato non essere stati richiesti e la datazione degli
interventi.
La mera descrizione degli interventi
contenuta nel capo di imputazione ne evidenzia la
assoggettabilità al permesso di costruire, trattandosi di
opere che, considerate nel loro complesso, obiettivamente
comportano una trasformazione del territorio, quanto meno
per ciò che riguarda quelle non accessorie, quali i singoli
edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, era
necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
Per ciò che concerne la loro datazione, la Corte del merito
ha rilevato che, all'atto dell'accertamento, le opere erano
in corso di esecuzione e che i due manufatti in muratura non
risultano preesistenti non essendo neppure censiti in
catasto, osservando anche che tale tesi difensiva era stata
prospettata solo nel giudizio di appello e non anche nel
corso del giudizio abbreviato.
A fronte di tali affermazioni, che non presentano cedimenti
logici o manifeste contraddizioni, i ricorrenti oppongono
generiche censure prive di ogni correlazione con la
decisione, cosicché i motivi di ricorso devono ritenersi
inammissibili per difetto di specificità.
2. A conclusioni diverse deve pervenirsi per ciò che
concerne il terzo motivo di ricorso.
Il Tribunale ha infatti subordinato il beneficio della
sospensione condizionale della pena, nei confronti di tutti
gli imputati, alla riduzione in pristino dei luoghi entro
novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza,
disponendo la restituzione delle opere in sequestro agli
aventi diritto al fine di consentire lo spontaneo
adempimento a quanto disposto.
La Corte territoriale ha confermato la statuizione sul
punto, respingendo le censure degli appellanti, rilevando
che la destinazione ad abitazione dei manufatti non assumeva
rilievo ai fini della riduzione in pristino, osservando
anche come il proprietario, sebbene destinatario di un
ordine di demolizione emesso dal Comune di Porto Santo
Stefano (n. 57/2010), non vi avesse comunque adempiuto e che
tale evenienza rafforzava l'esigenza di subordinare la
concessione del beneficio della sospensione condizionale
alla rimessione in pristino.
3. Ciò posto, occorre preliminarmente ricordare che
la giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai
pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina
urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale
subordinata alla demolizione, che appare, peraltro,
giustificata dalla circostanza che la presenza sul
territorio di un manufatto abusivo rappresenta,
indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del
reato, da eliminare
(cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep .2014), Russo, Rv.
258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466;
Sez. 3, n. 38071 del 19/9/2007, Terminiello, Rv. 237825;
Sez. 3, n. 18304 del 17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3,
n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000), Pagano, Rv. 216444).
Analoghi principi sono stati affermati con
riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere
subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso
che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi,
in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze
dannose o pericolose e che la sanzione specifica della
rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del
bene offeso (Sez.
3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca, Rv. 261164; Sez. 3, n.
38739 del 28/05/2004, Brignone, Rv. 229612; Sez. 3, n. 29667
del 14/06/2002, Arrostuto S, Rv. 222115; Sez. 3, n. 23766
del 23/03/2001, Capraro A, Rv. 219930).
Si è ulteriormente specificato che la
subordinazione della sospensione condizionale della pena
alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita
dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del
comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato
l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a
quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato
(cfr. Sez. 3, n. 4444 del 12/01/2012, Seoni, Rv. 251972. V.
anche Sez. 3, n. 26149 del 9/6/2005, Barbadoro, Rv. 231941;
Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito e altro, Rv.
226321).
4. I principi appena richiamati, tuttavia,
riguardano il proprietario o comunque colui che
materialmente dispone delle opere e che, pertanto, può
provvedere all'adempimento della condizione apposta alla
concessione del beneficio, mentre per altri soggetti
coinvolti, quali il direttore dei lavori o gli esecutori
materiali, la possibilità di adempiere sarebbe
necessariamente subordinata alla volontà del proprietario.
Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha
infatti chiarito come il giudice, nel
disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei
lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001, non può subordinare il beneficio della sospensione
condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle
opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi
dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto
passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione
(Sez. 3, n. 17991 del 21/01/2014, Ciccone e altri, Rv.
261497).
A tale principio, pienamente condiviso dal Collegio, deve
essere dunque data continuità, rilevando come, nel caso in
esame, la subordinazione della condizionale alla rimessione
in pristino sia stata erroneamente disposta nei confronti
dei ricorrenti.
Invero sebbene la decisione del giudice del merito risulti
corretta per ciò che concerne il proprietario del terreno
-il quale potrà comunque provvedervi, per quanto si è detto
in precedenza, anche a seguito dell'acquisizione ope
legis della proprietà dell'abuso e dell'area di sedime
all'amministrazione comunale in conseguenza
dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione (cfr. ex
pl. Sez. 3, n. 22237 del 22/4/2010, Gotti, Rv. 247653)- ma
non anche per soggetti diversi che, come nel caso di
ricorrenti, meri esecutori materiali, non dispongono
liberamente dell'area e dei manufatti abusivi
(Corte di Cassazione, Sez. III, penale,
sentenza 13.10.2015 n. 41051). |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'adozione
dell'ordinanza comunale di
demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi
deve qualificarsi controinteressato in senso sostanziale
il vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera
abusiva sanzionata, circostanza che nella fattispecie
concreta ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406
direttamente interessato alla rimozione della recinzione de
qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in
quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo.
Altresì, il soggetto medesimo riveste in concreto anche la
natura di controinteressato in senso formale, ovvero
agevolmente identificabile, essendo il mappale espressamente
indicato nella planimetria allegata al provvedimento
impugnato ed essendo, inoltre, richiamato nello stesso
ricorso.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione e
rimessa in pristino dello stato dei luoghi n. 72/2015, prot.
n. 4794, in data 06/05/2015 emessa dal Servizio Urbanistica
del Comune di Cassola, notificata l'11/05/2015.
...
- Considerato che l’eccezione di inammissibilità per mancata
instaurazione del contradditorio sollevata dal Comune di
Cassola è fondata, in quanto il ricorso non è stato
notificato ad alcun controinteressato, mentre, alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale (v. C.d.S., IV,
06.06.2011, n. 3380, V, 03.07.1995, n. 991), deve
qualificarsi controinteressato in senso sostanziale il
vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera abusiva
sanzionata, circostanza che nella fattispecie concreta
ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406
direttamente interessato alla rimozione della recinzione de
qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in
quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo;
- Rilevato, altresì, come il soggetto medesimo rivesta in
concreto anche la natura di controinteressato in senso
formale, ovvero agevolmente identificabile, essendo il
mappale espressamente indicato nella planimetria allegata al
provvedimento impugnato ed essendo, inoltre, richiamato
nello stesso ricorso;
- Ritenuto pertanto che il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile, mentre le spese di lite possono essere
compensate, tenuto conto di alcune oscillazioni
giurisprudenziali in materia
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 12.10.2015 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso
avverso l’ordinanza di demolizione proposto successivamente
alla presentazione dell’istanza di permesso a costruire in
sanatoria.
In materia edilizia, la presentazione
dell’istanza di sanatoria edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985
n. 47 (ora, art. 36 d.P.R. 06.06.2001 n. 380),
anteriormente/posteriormente all’impugnazione dell’ordinanza
di demolizione (o del provvedimento di irrogazione delle
altre sanzioni per abusi edilizi) produce l’effetto di
rendere inammissibile/improcedibile l’impugnazione stessa,
per carenza di interesse, in quanto dall’istanza consegue la
perdita di efficacia di tale ordinanza ed il riesame
dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne
la eventuale sanabilità, e comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di
accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
---------------
In pendenza del procedimento volto alla verifica della
sanabilità dell’opera abusiva, l’Amministrazione non può
adottare, né comunque porre in esecuzione, provvedimenti
sanzionatori demolitori, dovendo preventivamente
pronunziarsi sulla sanabilità dell’opera (mediante
accertamento di conformità urbanistica).
Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta
all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in
pendenza del predetto procedimento amministrativo (di
accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata
inammissibile.
--------------
È inammissibile l’impugnazione di un atto di avvio di un
procedimento di diniego, avendo esso carattere
endoprocedimentale ed essendo pertanto insuscettibile di
recare qualsivoglia pregiudizio al ricorrente.
---------------
- Rilevato che
nell’atto introduttivo del giudizio, notificato
all’Amministrazione resistente in data 10.07.2015, i
ricorrenti impugnavano l’ordinanza di demolizione
specificata in epigrafe, avverso la quale articolavano
censure di violazione di legge (art. 97 Cost. e 7 l.
47/1985, d.l.vo 42/2004, 20 d.P.R. 380/2001, 3 l. 241/1990),
nonché d’eccesso di potere, sotto plurime figure
sintomatiche, facendo altresì presente che, in data
07.07.2015, prot. 21845, la ricorrente Di Do.Cl., anche
nell’epigrafata qualità, aveva richiesto al Comune di
Pontecagnano Faiano permesso di costruire in sanatoria,
corredato della già rilasciata autorizzazione paesaggistica,
n. 112/2012 del 12.07.2012; nonché impugnavano –nei sensi di
cui in epigrafe– il verbale di sequestro preventivo,
dell’11.05.2015;
- Rilevato che si costituiva in giudizio il Comune di
Pontecagnano Faiano, concludendo per il rigetto del gravame,
perché infondato, nonché rappresentando che –quanto alla
sanatoria richiesta in data 07.07.2015– erano stati
comunicati ai ricorrenti, con atto prot. 29169
dell’11.09.2015, i motivi ostativi all’accoglimento della
medesima;
- Rilevato che, all’udienza in camera di consiglio del
23.09.2015, il ricorso era trattenuto in decisione;
- Rilevato che lo stesso può essere deciso con sentenza
breve, perché è chiaramente inammissibile, per carenza
originaria d’interesse ad agire, quanto all’impugnativa
dell’ordinanza di demolizione di cui sopra, laddove –quanto
all’impugnativa, per quanto tuzioristica, del verbale di
sequestro preventivo, redatto dal Comando di Polizia
Municipale di Pontecagnano Faiano, in data 11.05.2015–
inammissibile, per difetto di giurisdizione;
- Rilevato, in particolare, che tale conclusione, quanto
all’ordinanza di demolizione, discende dall’applicazione del
consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa,
espresso, da ultimo, nella massima seguente: “In materia
edilizia, la presentazione dell’istanza di sanatoria
edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 d.P.R.
06.06.2001 n. 380), anteriormente/posteriormente
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione (o del
provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per abusi
edilizi) produce l’effetto di rendere inammissibile/improcedibile
l’impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto
dall’istanza consegue la perdita di efficacia di tale
ordinanza ed il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure
al fine di verificarne la eventuale sanabilità, e comporta
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento,
esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che
vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell’impugnativa” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II,
02/02/2015, n. 325);
- Rilevato che tale conclusione non può essere revocata in
dubbio, sol perché il Comune di Pontecagnano Faiano ha
comunicato ai ricorrenti, ex art. 10-bis della l. 241/1990,
le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza di p. di
c. in sanatoria, atteso che trattasi d’atto
endoprocedimentale non lesivo, inidoneo, come tale, a far
cessare la pendenza della domanda in questione (cfr. le
ulteriori massime che seguono: “In pendenza del
procedimento volto alla verifica della sanabilità dell’opera
abusiva, l’Amministrazione non può adottare, né comunque
porre in esecuzione, provvedimenti sanzionatori demolitori,
dovendo preventivamente pronunziarsi sulla sanabilità
dell’opera (mediante accertamento di conformità
urbanistica). Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta
all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in
pendenza del predetto procedimento amministrativo (di
accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata
inammissibile” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II,
06/03/2015, n. 632); “È inammissibile l’impugnazione di
un atto di avvio di un procedimento di diniego, avendo esso
carattere endoprocedimentale ed essendo pertanto
insuscettibile di recare qualsivoglia pregiudizio al
ricorrente” (TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 07/07/2006,
n. 1735);
- Rilevato altresì –quanto al verbale di sequestro
preventivo di cui sopra– che la relativa impugnazione, sia
pur dichiaratamente tuzioristica (“per quanto possa
occorrere”) è, in ogni caso, inammissibile per difetto
di giurisdizione del G.A. (“La cognizione del verbale di
sequestro preventivo non rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo, essendo la stessa demandata a quella
del giudice penale, per cui, limitatamente, al medesimo, il
ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo” – TAR Lazio–Roma, Sez. I,
11/01/2013, n. 253), spettando la giurisdizione in materia
al G.O. penale, innanzi al quale la causa potrà essere
riassunta nel termine di cui all’art. 11 c.p.a.
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 09.10.2015 n. 2188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico
dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché
quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al
provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua
esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente
concorso alla perpetrazione dell’illecito.
Ne consegue che l’estraneità del proprietario agli abusi
edilizi, commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la
piena ed esclusiva disponibilità, non implica
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi
confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo
a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste
il bene.
2. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua
della motivazione che segue.
2.1. Col primo motivo è stata dedotta la violazione
dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, posto che il ricorrente
non sarebbe il “soggetto giuridicamente responsabile”
dei pretesi abusi edilizi, in quanto tale responsabilità
andrebbe ricondotta alla società Mu.Ri. S.r.l., intestataria
del permesso di costruire n. 146/2008, per effetto di
voltura disposta dal Comune resistente in data 03.07.2009.
2.2. La doglianza è infondata.
Invero, dagli atti di causa risulta che il ricorrente è
proprietario della superficie su cui insiste la parte
dell’immobile ritenuta abusiva, mentre la Mu.Ri. s.r.l. è
meramente comodataria di tale area. Orbene, l’ordine di
demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico
dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché
quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al
provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua
esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente
concorso alla perpetrazione dell’illecito. Ne consegue che
l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi, commessi
sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva
disponibilità, non implica l’illegittimità dell’ordinanza di
demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei
luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del
provvedimento repressivo a costituire titolo per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di
sedime sulla quale insiste il bene (cfr. TAR Campania, sez.
VIII, 26.04.2013, n. 2180; TAR Lazio, Latina, 01.09.2008, n.
1026; TAR Campania, sez. II, 19.10.2006, n. 8673)
(TAR Basilicata,
sentenza 07.10.2015 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mutamento di destinazione
d'uso del sottotetto.
In tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere
interne.
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette
"opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso, precisando che
l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di
realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della
destinazione d'uso richiede il permesso di costruire.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento
che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione,
individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole
destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'art. 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli
interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del
2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici"
dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie
edilizie (art. 3, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'arti. 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n.
380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso
l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione
configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R.
06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta
entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente.
In particolare, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è
caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce
mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario
il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto
integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del
2001.
----------------
In tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede,
idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della
legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito
un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in
conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di
legge ed omettendo di consultare il competente ufficio.
---------------
3.2. A prescindere, poi, dalla novità della doglianza sollevata dal Ma., il
tema centrale e risolutivo, al quale sfuggono i ricorrenti, è costituito dal
mutamento di destinazione d'uso del sottotetto in conseguenza dei lavori
abusivi eseguiti e delle difformità realizzate, in ordine alle quali, nella
loro storicità, non vi è neppure contestazione.
Questa Corte ha affermato che, in tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere
interne (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri,
Rv. 247919).
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette
"opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del
24/11/2011, Truppi, Rv. 251637), precisando che l'esecuzione di opere di
aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di
impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso
richiede il permesso di costruire (Sez. 3, n. 37862 del 16/06/2014, PMT in
proc. Duranti ed altri, non mass.).
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento
che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione,
individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole
destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli
interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del
2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici"
dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie
edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n.
380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso
l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione
configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di
modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv.
243101).
In particolare, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, la
trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua
naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della
destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del
permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di
reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 6581
del 19/12/2000, dep. 19/02/2001, Muccio, Rv. 218702; Sez. 3, n. 17359 del
08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
I ricorrenti obiettano come tale destinazione non si fosse in concreto
realizzata, in quanto non voluta, ma a parte l'istanza di sanatoria tendente
a regolarizzare il pregresso abuso, dimostrativa della perpetrazione di esso
ed anche della direzione finalistica della condotta, la destinazione della
soffitta ad uso abitativo è stata desunta dalla divisione del locale in
stanze mediante tre metrature, dall'inserimento di un bagno di grandi
dimensioni e munito addirittura vasca idromassaggio e di finiture di pregio,
inidonee per un locale di sgombero, dall'apertura di finestre che ne
aumentavano la luminosità, dalla modifica dell'impianto elettrico e di
quello idrico preesistenti, dall'inserimento addirittura di termosifoni per
il riscaldamento, dalla realizzazione di una scala di ampie dimensioni per
accedervi, sicché non si comprende cosa altro occorra per dedurre, sulla
base di massime di esperienze generalizzate, l'esecuzione di lavori diretti
ad assegnare all'immobile una destinazione d'uso diversa da quella
originaria.
Né poteva ipotizzarsi la presentazione di qualsiasi variante posto che, al
cospetto di una modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non sono
ammesse varianti stante la chiara preclusione in tal senso desumibile
dall'art. 22, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001.
I Giudici del merito hanno pertanto correttamente applicato la normativa
urbanistica pervenendo alla conclusione di ritenere ampiamente configurati i
reati ascritti anche con riferimento alle altre ipotesi di abuso edilizio
indicate nel capo di imputazione e tutte sostanzialmente finalizzate alla
modifica della destinazione d'uso del sottotetto, violazione già di per sé
autosufficiente per l'affermazione della responsabilità penale e compiuta
nell'esclusivo interesse della proprietaria dell'immobile, circostanza che
esclude, come sarà più chiaro in seguito, la sua buona fede.
3.2. I ricorrenti hanno eccepito che la responsabilità penale non poteva
essere affermata per difetto dell'elemento soggettivo del reato e la
proprietaria, committente dei lavori, ha in particolare sostenuto di aver
agito in assenza di colpa perché inconsapevole di commettere gli abusi,
avendola il direttore dei lavori sempre rassicurata in merito alla
esecuzione delle opere non previste nella Dia, dicendole che si trattava di
lavori legittimi e regolarizzabili mediante una variante finale, ma tale
asserzione non è stata convalidata dalla Corte territoriale che ha osservato
che l'imputata, se anche avesse agito fidandosi delle assicurazioni del
direttore dei lavori, aveva comunque l'onere di accertare, con la necessaria
diligenza, se davvero le opere difformi e non previste nella Dia, di cui
ella era ampiamente consapevole, stante la loro macroscopica diversità
rispetto al progetto allegato alla Dia stessa, fossero legittime e
assentibili.
Dalla testimonianza della figlia della ricorrente si è appreso infatti che
la Ra. chiedeva spiegazioni al direttore dei lavori circa le difformità
riscontrate sentendosi rispondere che in effetti si trattava di lavori non
regolari che però sarebbero stati regolarizzati in seguito.
L'imputata, di fronte alla palese violazione dell'atto abilitativo
presentato in Comune (violazioni apprese proprio dal direttore dei lavori),
aveva allora il dovere e la concreta possibilità di verificare la
correttezza di quanto veniva eseguito rivolgendosi direttamente ai tecnici
comunali preposti al controllo dell'attività edilizia.
La Corte distrettuale ha perciò ritenuto provato che l'imputata ha agito in
modo negligente anche se il coimputato l'aveva rassicurata ed il fatto che
quest'ultimo, a dibattimento, abbia confermato di aver tranquillizzato la Ra.
circa la regolarità della procedura che aveva deciso di intraprendere, cioè
eseguire delle opere non previste dalla Dia confidando di poterle
regolarizzare con una variante finale, non esonera la ricorrente da
responsabilità per colpa ed esclude che si sia potuto verificare, in capo ad
entrambi i ricorrenti, qualsiasi errore di fatto o errore sulla violazione
di norme extrapenali, essendo entrambi perfettamente consapevoli della
difformità dei lavori eseguiti rispetto alla Dia presentata.
Questa Corte ha stabilito che, in tema di reati urbanistici, non ricorrono
gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva
d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988),
quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del
necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea
interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di
consultare il competente ufficio (Sez. 3, n. 36852 del 10/06/2014, Messina,
Rv. 259950).
Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti erano consapevoli
dell'illegittimità dei lavori eseguiti e la Ra. ha inosservato l'obbligo di
richiedere un'adeguata informazione per conseguire la conoscenza della
legislazione vigente in materia
(Corte di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza
05.10.2015 n. 39907). |
settembre 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: CAPRI (Napoli) - demolizione di manufatti
abusivi - art. 27, comma 2, decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380 "Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia" - art. 167, decreto legislativo 22.01.2004 n. 42
"Codice dei beni culturali e del paesaggio" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 23.09.2015 n. 22200 di prot.).
---------------
La Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il comune e
la provincia di Napoli, con nota prot. 11941 del 30.07.2015,
chiede chiarimenti circa le competenze del Soprintendente in
merito all'esecuzione delle opere per il ripristino dello
stato dei luoghi che, ricadenti in ambito territoriale
tutelato ai fini paesaggistici, risultano essere stati
modificati o alterati per effetto di interventi abusivi non
sanati.
Espone in fatto l'avvenuta esecuzione di opere abusive ...
|
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione alternativa alla
demolizione, nella prassi frequentemente definita come
“sanatoria ex art. 34 dpr 380/2001”, è contemplata solo per
le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di
costruire, se la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
- la difformità solo parziale e non totale;
- il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in
caso di demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la
demolizione è ineludibile.
---------------
Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto
che anche a voler considerare corrette le misurazioni
dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte
ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte,
infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di
aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una
variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n.
380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, a norma degli
articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano
difformità totale del manufatto o variazioni
essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i
lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista
dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione,
destinazione, ubicazione, mentre si configura la
difformità parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della costruzione e si
concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non
incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della
“sanatoria” invocata (quando l’altezza realizzata superi di
più del 2% quella progettata,) irrilevante essendo che vi
sia pregiudizio in caso di demolizione.
---------------
... per l'annullamento:
- del diniego di sanatoria a firma del Dirigente del Settore
Urbanistica, Sezione Edilizia Privata ed Economica del
Comune di Corato, recante il prot. 11.21992 del 25.06.2014,
notificato alla ricorrente in data 30.06.2014 e con il quale
è stata rigettata in via definitiva l’istanza di sanatoria
inoltrata dalla Fe.Im. s.r.l., ai sensi e per gli effetti
dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. 380/2001, nonché
contestualmente, ai sensi e per gli effetti della L.R.
Puglia n. 33/2007 per il recupero ai fini abitativi del vano
sottotetto (cfr istanza presentata in data 3006 2014,
protocollata al n. 3673 ed identificata come pratica
edilizia n. 15/2014),
- ove lesivi degli interessi della società ricorrente, dei
seguenti atti presupposti e/o connessi, richiamati ob
relationem nel summenzionato provvedimento ancorché
trattasi di atti del tutto sconosciuti e mai notificati alla
Fe.Im. srl: a) ordinanza di demolizione dirigenziale n.
39/2012 del 27.03.2012; b) ordinanza dirigenziale n. 3
1/2012 del 26.03.2012;
- di ogni altro atto, connesso, presupposto e/o
consequenziale a quello impugnato, ancorché non conosciuto,
ivi compresi, ove occorra ed ove lesivi degli interessi del
ricorrente, le eventuali ulteriori relazioni istruttorie
endoprocedimentali, la proposta del responsabile del
procedimento con riserva, in ogni caso, di formulare in
merito ed ove necessario appositi motivi aggiunti;
- nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente,
con la consequenziale condanna del Comune di Corato, ad
ottenere ad ottenere il rilascio della sanatoria de qua,
conformemente a quanto richiesto con l’istanza/pratica
edilizia recante il n. 15/2014.
...
La società odierna ricorrente ha realizzato, sulla scorta
dei titoli edilizi rilasciatile in virtù di un piano di
lottizzazione regolarmente approvato, un fabbricato
destinato a civile abitazione composto da quattro unità
abitative (la ricorrente non precisa, in ricorso, quanti
piani fuori terra contempli il progetto, ma dagli allegati
grafici prodotti, verosimilmente si tratta di edificio ad un
piano f.t. e sottotetto –in progetto- non abitabile, sito in
v. ... n. 28, identificato al foglio 48, p.lla 717).
In sede di realizzazione del manufatto, il piano sottotetto
è stato edificato, per due delle unità immobiliari (interni
n. 36 en. 38 identificati, catastalmente dai subalterni 3 e
4) con maggiore altezza rispetto a quella di progetto (dalle
fotografie prodotte si evince chiaramente che il sottotetto
è già utilizzato a vani abitativi).
La società ha, pertanto, inoltrato una richiesta di “sanatoria”
(rectius: di applicazione di sanzione non demolitoria)
ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 2, del D.P.R.
n. 380/2001, ritenendo che le difformità realizzate fossero
lievi e assoggettabili alla normativa invocata.
Contestualmente, nell'istanza di che trattasi, ha anche
richiesto, ai sensi della L.R. n. 33/2007, cosi come
modificata dall'art. 1 della L.R. n. 38/2013, il recupero,
ai fini abitativi, del vano sottotetto; il tutto, comunque,
sempre previa definizione di sanatoria, ai sensi del
summenzionato art. 34, comma 2.
Con il provvedimento impugnato, il Comune ha negato
l’applicazione della sanzione pecuniaria e, conseguentemente
escluso la possibilità del recupero a fini abitativi del
sottotetto, in quanto, pacificamente, la normativa regionale
la esclude in caso di opere abusive.
...
Il ricorso non è fondato.
La questione su cui le parti controvertono va risolta
esclusivamente in punto di diritto.
Recita l’art. 34 cit., rubricato “Interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire”: “1.
Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità
dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e
spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo
fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del
responsabile dell'ufficio. Decorso tale termine sono rimossi
o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi
responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano
anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma
3, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione
certificata di inizio attività (1).
2-ter. Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non
si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza
di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2
per cento delle misure progettuali (2).”
In estrema sintesi la sanzione alternativa alla demolizione,
nella prassi frequentemente definita come “sanatoria ex
art. 34”, è contemplata solo per le opere realizzate in
parziale difformità dal permesso di costruire, se la
demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
- la difformità solo parziale e non totale;
- il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in caso di
demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la
demolizione è ineludibile.
Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto
che anche a voler considerare corrette le misurazioni
dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte
ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte,
infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di
aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una
variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n.
380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, (Cons. St. Sez.
IV, 27.11.1010, n. 8260; 10.04.2009, n. 2227, Sez. V,
21.03.2011, n. 1726), a norma degli articoli 31 e 32 DPR n.
380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o
variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella
prevista dall'atto di concessione per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si
configura la difformità parziale quando le modificazioni
incidano su elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e
quantitative non incidenti sulle strutture essenziali
dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della “sanatoria”
invocata (quando l’altezza realizzata superi di più del 2%
quella progettata,) irrilevante essendo che vi sia
pregiudizio in caso di demolizione.
Tale circostanza è tranciante e dirimente e non può che
porre fine al dibattito delle parti.
Risulta, infatti, del tutto irrilevante la motivazione
esposta nel provvedimento (che, pure, dà piena contezza di
tale elemento ostativo), atteso che il diniego impugnato ha
natura vincolata, sicché anche ai sensi dell’art. 21-ocites
l. n. 241/1990, l’atto impugnato è esente da ogni censura.
E’ peraltro, evidente che, risultando l’opera abusiva, non
potrà trovare applicazione la normativa regionale invocata
sul recupero dei sottotetti.
Del tutto irrilevante, infine, è l’eventuale sanatoria
concessa per analoghe costruzioni, la quale, ben lungi dal
fornire elemento a sostegno della illegittimità dell’atto
impugnato, può al più rivelare pregresse illegittimità
dell’operato dell’Ente su cui deve valutarsi l’esercizio dei
poteri di rimozione in autotutela
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 16.09.2015 n. 1251 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione del manufatto abusivo e acquisto del
bene per successione a causa di morte.
L'ordine
di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale
ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a
contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito
nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col
bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
perciò, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a
seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non
è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente.
Invero, se ne ricorresse la fattispecie, il
terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti
del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
---------------
L'ordine di demolizione impartito dal
giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, ha carattere
reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto
con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività può
essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione.
E nemmeno l'ordine di demolizione di un
immobile abusivo può essere revocato o sospeso in
conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca
successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario
riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova
al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità.
Parimenti, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è
impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul
bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia
ancora pendente il procedimento per il reato edilizio.
---------------
L'ordine di demolizione del manufatto
abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato
edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale
ma di sanzione amministrativa accessoria.
Pertanto nell'ipotesi di acquisto
dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia
nei confronti dell'erede del condannato, stante la
preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla
cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo
emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico,
alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del
condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto
afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale
della stessa.
--------------
Peraltro, nel ribadire che l'esecuzione di
un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile
abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta
cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei
confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto
che continui ad arrecare pregiudizio al territorio, questa
Corte ha già avuto modo di precisare che tale principio è
conforme alle norme CEDU.
---------------
1. Il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. E' stato precisato da questa Corte di legittimità che
l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso
dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione
amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto
essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono
in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o
personale di godimento, anche se si tratti di soggetti
estranei alla commissione del reato
(cfr. sez. 3 n. 42781 del 21.10.2009, Arrigoni, caso in cui
la Corte ha precisato in motivazione che, comunque, la
mancata condanna del terzo per concorso nell'abuso edilizio
non implica necessariamente una posizione di buona fede
rispetto ad esso).
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
perciò, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a
seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non
è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente
(sez. 3, n. 22853 del 29.3.2007, Coluzzi, rv. 236880,
occasione in cui la Corte ha ulteriormente precisato che
il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi
nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta
demolizione).
L'ordine di demolizione impartito dal
giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, infatti, ha
carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in
rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o
meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività
può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione
(sez. 3, n. 37120 dell'11.5.2005, Morelli, rv. 232175; conf.
sez. 3, n. 16035 del 26.2.2014, Attardi, rv. 259802).
E nemmeno l'ordine di demolizione di un
immobile abusivo può essere revocato o sospeso in
conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca
successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario
riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova
al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità
(cfr. sez. 3, n. 38941 del 09.07.2013, DE Martino, rv.
256383).
Parimenti, l'esecuzione dell'ordine di
demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è
impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul
bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia
ancora pendente il procedimento per il reato edilizio
(così sez. 3, n. 45301 del 7.10.2009, Roscetti, rv. 245213,
in un caso in cui era stata respinta la richiesta,
presentata dal correo non ancora giudicato, avente ad
oggetto la sospensione dell'ordine di demolizione impartito
con sentenza già divenuta irrevocabile nei confronti del
coimputato).
3. Nello specifico del caso che ci occupa il G.E. di Torre
Annunziata ha operato un buon governo del costante dictum
di questa Corte di legittimità secondo cui
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con
la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto
dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della
sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione
amministrativa accessoria
(cfr. ex multis sez. 3, n. 3861 del 18.01.2011,
Baldinucci ed altri, rv. 249317).
Pertanto nell'ipotesi di acquisto
dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia
nei confronti dell'erede del condannato, stante la
preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla
cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo
emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico,
alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del
condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto
afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale
della stessa (sez.
3, n. 3720 del 24.11.1999 dep. il 27.1.2000, Barbadoro, rv.
215601).
Peraltro, nel ribadire che l'esecuzione di
un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile
abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta
cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei
confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto
che continui ad arrecare pregiudizio al territorio questa
Corte ha già avuto modo di precisare,
diversamente da quanto opina il ricorrente,
che tale principio è conforme alle norme CEDU,
come interpretate dalla Corte Europea con sentenza
20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (cfr. sez. 3, n.
48925 del 22.10.2009, Viesti ed altri, rv. 245918).
Peraltro, in ogni caso, la circostanza che Re.An. fosse nel
possesso dell'immobile, rende la stessa soggetto passivo
legittimato a ricevere la notifica dell'ingiunzione alla
demolizione del manufatto abusivo originariamente di
proprietà del marito deceduto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 09.09.2015 n. 36383). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio non ignora che la
preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la
successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non
essersi l’amministrazione comunale preventivamente
pronunciata sulla domanda in parola, volta, in caso di suo
accoglimento, a privare le opere del loro carattere di
abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire
l'esercizio del potere repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità e coerenza
dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente
sanzionare ciò che potrebbe essere sanato: difatti, fermo
restando che, anche in caso di diniego della richiesta
sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi, l’esecuzione della misura
repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa
definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere,
ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle
opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il
mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e
determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per
poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a
nuovo titolo abilitativo edilizio.
---------------
L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da
adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione,
allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati, l’individuazione delle
violazioni accertate e della normativa applicata.
---------------
L’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri
accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di
fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato,
non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il
quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva
contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua
iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in
ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato.
---------------
In disparte il rilievo, di per sé dirimente, che le opere
riguardate dal provvedimento di demolizione impugnato
risultano compiutamente identificate nella loro
localizzazione territoriale e spaziale, il Collegio osserva
che la lamentata omissione dell’area di sedime gratuitamente
acquisibile al patrimonio comunale non costituisce causa di
illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo
indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento
dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale.
9. Venendo ora
a scrutinare i motivi di impugnazione avverso l’ordinanza di
demolizione n. 11 del 17.05.2011, priva di pregio si
rivela la censura secondo cui illegittimamente
l’amministrazione comunale intimata avrebbe avviato l’iter repressivo-ripristinatorio prima di aver definito il
procedimento di sanatoria instaurato con la domanda del 13.07.2010, prot. n. 7495.
Al riguardo, il Collegio non ignora che la preesistenza
della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva
irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi
l’amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla
domanda in parola, volta, in caso di suo accoglimento, a
privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in
caso di suo rigetto, a consentire l'esercizio del potere
repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità
e coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di
previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato:
difatti, fermo restando che, anche in caso di diniego della
richiesta sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una
nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi
termini per ottemperarvi, l’esecuzione della misura repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa
definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere,
ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle
opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il
mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e
determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per
poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a
nuovo titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 02.12.2005, n. 5851; 16.01.2007,
n. 226; 06.07.2009, n. 4335; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.05.2005, n. 3400; sez. I,
01.12.2005, n. 12727; 24.06.2005, n. 5254; 11.01.2006, n. 230;
08.06.2006, n. 4388; sez. II, 05.09.2007, n. 8575; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 14.06.2005, n. 3402; sez. III, 07.07.2008, n. 2056; 29.03.2010, n. 878; TAR Campania,
Napoli, sez. VI, 10.01.2006, n. 223; Salerno, sez. II,
04.05.2006, n. 597; Napoli, sez. IV, 02.10.2006, n.
8429; 06.12.2006, n. 10434: sez. VI, 28.03.2007, n.
312; sez. III, 21.05.2007, n. 5425; 06.06.2007, n.
5961; sez. IV, 08.10.2007, n. 9123; 21.03.2008, n.
1461; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; sez. IV, 03.04.2008, n. 2846; sez. VI, 30.04.2008, n. 3070 sez. VII,
07.05.2008, n. 3517; sez. IV, 06.03.2009, n. 1305; sez. VI, 13.07.2009; TAR Basilicata, Potenza,
03.03.2007,
n. 137; TAR Liguria, Genova, sez. I, 16.05.2007, n. 785;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 06.12.2007, n. 1937;
TAR Piemonte, Torino, sez. I, 17.12.2007, n. 3704).
10. Infondato
è pure l’ordine di doglianze in base al quale, in difetto di
motivazione, la misura demolitoria sarebbe stata irrogata
senza aver compiutamente valutato la tipologia di abuso
contestato, l’applicabilità della sanzione alternativa
pecuniaria (trattandosi asseritamente di opere eseguite in
parziale difformità dal progetto assentito) e le deduzioni
fornite dall’interessato in sede di contraddittorio
procedimentale, nonché senza aver individuato l’area di
sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
10.1. Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua
natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da
ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed
autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto,
nella specie, e a dispetto di quanto asserito da parte
ricorrente– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati (cfr. retro, in narrativa, sub
n. 2.2 e 2.5), l’individuazione delle violazioni accertate
(opere eseguite in totale difformità dalla d.i.a. del 11.06.2007, prot. n. 5418, nonché in assenza di permesso di
costruire) e della normativa applicata (art. 31, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001) (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez.
V, 30.05.2006, n. 3283; sez. VI, 25.08.2006, n.
4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI,
09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556;
sez. III, 05.06.2008, n. 5255; sez. IV, 08.07.2008,
n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV, 04.08.2008, n. 9720; sez. II,
07.10.2008, n. 13456; sez. IV,
29.09.2008, n. 11820 sez. VI, 27.10.2008, n.
18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564;
02.12.2008, n. 20794; sez. VI,
17.12.2008, n. 21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100; sez. IV,
06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009,
n. 1318; 09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez.
I, 13.03.2008, n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117;
06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
10.2. Ciò posto, giova, poi, chiarire che gli abusi
accertati a carico del D’A. si sono sostanziati
nell’ampliamento (per una volumetria complessivamente pari a
circa mc. 630,00) del manufatto preesistente, demolito e
ricostruito, il quale è risultato eseguito in totale
difformità dalla la d.i.a. del 11.06.2007, prot. n.
5418, e per il quale, stante la relativa natura e
consistenza, ossia trattandosi di intervento comportante la
creazione di un organismo edilizio integralmente diverso da
quello originario –anziché di parziali difformità, come,
invece, erroneamente inferito da parte ricorrente–, si
imponeva il preventivo rilascio di apposito permesso di
costruire (sul punto, cfr., TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
04.07.2013, n. 3427).
Ebbene, l’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, cui risulta
senz’altro riconducibile la fattispecie in esame (opere
eseguite in assenza di permesso di costruire), non contempla
l'irrogazione di una sanzione diversa da quella demolitoria
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n.
4899).
La sanzione alternativa pecuniaria è, infatti, prevista
unicamente per le diverse ipotesi di opere di
ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità
dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova
costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di
costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31
cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire.
“Il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali,
determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al
proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la
demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri
termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore,
non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla
sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere
repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per
il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua
rimozione (TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.01.2009,
n. 443; sez. VIII, 11.10.2011, n. 4645).
10.3. Con riguardo al profilo di censura incentrato
sull’omessa considerazione delle deduzioni fornite in sede
di contraddittorio procedimentale dall’interessato con nota
del 04.04.2011 (prot. n. 3035), è agevole obiettare che
l’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante
valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri
accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di
fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato,
non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il
quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei
procedimenti repressivi, contemplante la preventiva
contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua
iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in
ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez.
VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n.
5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI,
08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII,
09.05.2007, n.
4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV,
06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n.
16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367;
21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207;
sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n.
5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR
Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR
Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008,
n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
20.09.2008, n. 2651).
Si aggiunga che l'obbligo di motivazione ex art. 3 della l.
n. 241/1990 non avrebbe potuto tradursi –a discapito dei
principi di efficacia e celerità dell’agire amministrativo–
in un interminabile confronto dialettico e in una analitica
replica alle osservazioni del 04.04.2011 (prot. n. 3035)
(cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, 26.07.2004, n. 836; sez. I,
06.06.2007, n. 285; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste,
14.05.2005, n. 459; TAR Liguria, Genova, sez. II, 07.07.2005, n. 1022; TAR Sicilia, Palermo, sez. II,
07.04.2006, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.08.2006,
n. 6950; 14.09.2007, n. 8951), avendo esso per
oggetto i presupposti fattuali che, all’esito
dell’istruttoria procedimentale, avevano evidenziato, in
logica e insuperata antitesi alle anzidette osservazioni,
nonché in senso confermativo delle preannunciate
determinazioni, la legittimità della divisata irrogazione
della sanzione demolitoria.
10.4. Infine, il D’A. neppure può fondatamente
lamentare l’omessa individuazione dell’area di sedime
gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
Sul punto, in disparte, il rilievo, di per sé dirimente, che
le opere riguardate dal provvedimento impugnato risultano
compiutamente identificate nella loro localizzazione
territoriale e spaziale (cfr. retro, in narrativa, sub n.
2.2 e 2.5), il Collegio osserva che la lamentata omissione
non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo
atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R.
06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto
all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area
di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in
modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento.
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di
demolizione non all'autore, ma al proprietario e al
responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma
congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi
questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto
assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai
medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come
conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è
stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per
l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione
che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano
urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di
rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente
dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore
motivazione.
---------------
In materia di condono edilizio, la formazione del
silenzio-assenso presuppone l’esistenza di tutte le
condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con
l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può
formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una
situazione difforme da quella reale.
per la riforma
- quanto al ricorso n. 5148 del 2015,
della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n.
744/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego
condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al
patrimonio indisponibile del Comune;
- quanto al ricorso n. 5149 del 2015,
della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n.
745/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego
condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al
patrimonio indisponibile del Comune.
...
A) Un primo gruppo di doglianze si incentra sulla
incolpevolezza degli appellanti rispetto alla realizzazione
delle opere abusive e all’estraneità alle ordinanze di
demolizione, indirizzate, come si è detto, al padre Edmondo
e al fratello Salvatore.
Esse sono infondate.
Giova innanzitutto puntualizzare che le pronunce in sede
penale intervenute a carico degli attuali appellanti hanno
accertato la prosecuzione degli abusi edilizi per i quali
erano stati assolti per prescrizione il padre e il fratello,
e che per tale ragione in data 10.10.2014 l’Ufficio
esecuzioni penali e misure di sicurezza presso la Procura
della Repubblica di Cagliari ha incaricato, come si è
ricordato, il Sindaco di Cagliari di provvedere alla
demolizione del fabbricato abusivo e al ripristino dell’area
su cui esso insiste.
E’ quindi infondato il motivo di fondo sotteso all’intero
ricorso, volto a evidenziare la pretesa incolpevolezza degli
appellanti rispetto agli abusi edilizi commessi da altri: al
contrario, l’attività illecita si è protratta anche dopo il
passaggio della proprietà a loro favore.
In ogni caso, vale ricordare il principio consolidato in
giurisprudenza, condiviso dal Collegio, secondo il quale in
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo possa ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla
quale insiste il bene, quando risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 04.05.2015, n. 2211 e 30.03.2015, n. 1650).
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di
demolizione non all'autore, ma al proprietario e al
responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma
congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi
questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto
assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai
medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come
conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come
conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è
stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per
l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione
che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano
urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di
rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente
dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore
motivazione.
Nella fattispecie in esame, ben lungi dall’attivarsi per
ricondurre a legalità l’assetto edilizio, gli attuali
proprietari pretendono la salvezza incondizionata della
propria posizione e il mantenimento integrale dell’immobile
abusivo: le censure esaminate devono quindi essere respinte,
rendendo superflua ogni ulteriore indagini circa l’effettiva
conoscenza delle pregresse ordinanze da parte degli stessi
soggetti e circa la connessa posizione di buona fede e di
affidamento, quest’ultima clamorosamente smentita dalla
presentazione delle istanze di condono, attestanti una non
veritiera data di ultimazione del manufatto.
B) Quanto a quest’ultimo punto (la data di ultimazione dei
lavori, successiva al 01.10.1983), è sufficiente
richiamare il contenuto dei verbali di sopralluogo sopra
citati, dai quali emerge che fino al 09.01.1984 esisteva
solo una recinzione sul lotto poi interessato
dall’edificazione, poi attestata nell’aprile 1984.
Da tale
circostanza, neppure contestata dagli interessati, deriva
l’infondatezza delle censure attinenti alla formazione del
preteso silenzio-assenso, formazione che presuppone
l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti
dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso
non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia
indicato una situazione difforme da quella reale (per tutte,
Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876).
Ancora sul punto, è appena il caso di aggiungere che il
pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per
effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono
non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei
conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli
interessati di permanere nell’indebito godimento di un
immobile realizzato senza titolo.
C) Le considerazioni che precedono sono ampiamente
sufficienti ad evidenziare l’infondatezza dell’appello, dal
momento che i provvedimenti impugnati in primo grado si
manifestano correttamente motivati anche solo in base ad
esse.
Per completezza, il Collegio ritiene di aggiungere che anche
l’ulteriore censura, relativa alla pretesa inconferenza del
richiamo al Piano territoriale pesistico Molentargius Monte
Urpinu e alle connesse esigenze di tutela, pure richiamate
dal Comune nella motivazione dei provvedimenti di rigetto
delle istanze di condono, non è fondata.
Sostengono gli appellanti che alla data di presentazione
delle domande di condono (giugno 1986) il suddetto piano non
era ancora entrato in vigore, essendo stato pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale solo in data 24.12.1992.
La tesi non ha pregio poiché tale piano, approvato con
decreto regionale 12.01.1979, è stato pubblicato sul
Bollettino Ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS)
il 16.01.1979, e tale pubblicazione ne costituisce la
condizione di efficacia legale, avendo il dPR 22.05.1975, n. 480 trasferito alla Regione Sardegna le funzioni
relative all’adozione e all’approvazione dei piani
territoriali paesistici, con i connessi adempimenti e
conseguenze (cfr. Cass. civ. sez. I, 09.04.2015, n. 7139)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
agosto 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
condono non blocca i lavori. Consiglio di Stato. La
presentazione della domanda non impedisce altre modifiche
all’immobile.
Nell’attesa della definizione di una domanda di
condono edilizio, è possibile modificare l’immobile, purché
sia ancora percepibile l’iniziale abusività da sanare.
Lo sottolinea il
Consiglio di Stato -Sez. VI- con la
sentenza 14.08.2015 n. 3943, che esamina
un’ipotesi frequente, connessa alla lunga durata delle
pratiche di condono (nel caso deciso, pari a oltre 18 anni).
Mentre il Comune decide sull’esito della domanda di condono,
all’edificio iniziale possono aggiungersi altri abusi
edilizi: in questo caso, il Comune non può rifiutare di
pronunciarsi sulla domanda iniziale di condono affermando
solo che l’opera è stata modificata. Anche se i nuovi
interventi sono consistenti, tutte le volte che l’abuso
iniziale da sanare sia ancora leggibile, vi è l’onere per il
Comune di pronunciarsi in modo esplicito, salva l’adozione
di sanzioni per le modifiche successive alla domanda di
sanatoria.
Questa conclusione è stata adottata dai giudici
amministrativi prendendo atto della circostanza che manca
un’espressa norma che impedisca di modificare immobili sui
quali pende una domanda di sanatoria edilizia: in
conseguenza, la realizzazione di modifiche all’immobile
oggetto di domanda di sanatoria non può, da sola,
giustificare un diniego del condono.
Vi può essere un’archiviazione del condono solo nel caso in
cui le modifiche successive abbiano inciso in modo radicale
sui beni e cioè quando l’amministrazione non è più in grado
di valutare la sussistenza dei presupposti per la
concessione del condono. Le domande di sanatoria edilizia, a
cominciare da quella del febbraio 1985, possono ancora
riservare sorprese a distanza di decenni, quando la domanda
risulti incompleta e non sia possibile acquisire d’ufficio
dati ed elementi (articolo 9-bis, Dpr 380/2001).
In particolare, vi possono essere richieste anche a distanza
di decenni, quando vi siano vincoli di tutela o di
inedificabilità o quando manchino allegati essenziali alla
domanda di sanatoria (versamento dell’oblazione; descrizione
delle opere abusive; documentazione fotografica circa lo
stato dei lavori; certificato di residenza o di iscrizione
alla Camera di commercio per ottenere riduzioni; perizia
giurata per opere superiori a 450 metri cubi). In questi
casi, infatti, non opera il termine biennale di formazione
del silenzio-assenso (Consiglio di Stato, sentenza
5090/2013).
Nel caso esaminato dai giudici, nei 18 anni tra la data di
presentazione della domanda di condono e quella
dell’adozione del provvedimento di risposta da parte
dell’amministrazione, gli interessati avevano realizzato
altri interventi abusivi, cioè alcuni nuovi vani, soppalchi,
chiusura di balconi ed aumento unità immobiliari. Ma tali
opere, per la loro autonoma identificabilità, non potevano
impedire una valutazione di quelle originariamente oggetto
della domanda di condono.
Quindi l’amministrazione comunale dovrà da un lato
verificare se ci sono i presupposti per il condono delle
opere “originariamente” realizzate, dall’altro
accertare la natura degli interventi successivi ed applicare
in relazione ad essi le sanzioni demolitorie o pecuniarie
previste dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
possibilità (a certe condizioni) di realizzare ulteriori
opere edilizie successivamente alla presentazione
dell'istanza di condono edilizio, laddove l'istanza medesima
non sia stata ancora istruita e conclusa.
La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
incidenza di interventi realizzati su immobili
successivamente alla presentazione di domande di condono
edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano
o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi giorni
dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il
versamento della seconda rata dell'oblazione, il
presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in
sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le
opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la norma,
«l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento,
allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data
certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i
lavori non prima di trenta giorni dalla data della
notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i
presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di
completamento con assunzione del rischio da parte di chi li
effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa
fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda
di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma
nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di
sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di
divieto, la realizzazione di detti interventi non può da
sola giustificare il diniego del condono, occorrendo
verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni
oggetto del condono impedendo all’amministrazione di
valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza
dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile
tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà
esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni
previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli
interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione
della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i
presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero
all’applicazione delle sanzioni previste in caso di
accertata “autonoma” abusività.
1.– Le parti indicate in epigrafe, in data 18.01.1995, hanno
presentato al Comune di Afragola cinque domande di condono
edilizio, ai sensi della legge 23.12.2004, n. 724
(Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica),
tutte riferite al medesimo fabbricato, sito in Via ... ed aventi ad oggetto le seguenti opere: a) piano
terra destinato a locali commerciali e ad abitazione; b)
primo e secondo piano composto, ciascuno, da due
appartamenti per civile abitazione.
L’amministrazione comunale ha rigettato le suddette istanze
con provvedimento del 28.02.2011, prot. n. 822,
rilevando, in esito agli accertamenti istruttori disposti,
la sussistenza di uno stato di fatto diverso da quello
riferito nelle suddette istanze, conseguente all’esecuzione
di opere ulteriori, descritte nello stesso provvedimento.
L’amministrazione comunale, con ordinanza del 12.04.2011, prot. n. 84084, ha, conseguentemente, disposto la
demolizione dei manufatti ritenuti abusivi.
2.– Le parti interessate hanno impugnato detto provvedimento
innanzi al Tribunale amministrativo regionale della
Campania, facendo valere specifici vizi degli atti,
riproposti in sede di appello.
3.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 22.03.2013,
n. 1616, ha rigettato il ricorso, rilevando come gli
interventi aggiuntivi eseguiti, da valutare unitariamente,
abbiano determinato «un radicale stravolgimento del
fabbricato oggetto del condono».
4.– I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello
deducendo come: i) sarebbe stato necessario valutare
singolarmente le domande presentate; ii) le singole opere
realizzate non hanno la rilevanza indicata nella sentenza
impugnata e non avrebbero realizzato alcun aumento di
volumetria; iii) nessuna norma di legge vieta la
realizzazione di interventi successivamente alla
proposizione della domanda di condono; iv) sarebbe stata
omessa la comunicazione di avvio del procedimento.
...
6.– L’appello è fondato nei sensi di seguito indicati.
7.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
incidenza di interventi realizzati su immobili
successivamente alla presentazione di domande di condono
edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano
o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi
giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo
il versamento della seconda rata dell'oblazione, il
presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in
sanatoria può completare sotto la propria responsabilità»
le opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la
norma, «l’interessato notifica al Comune il proprio
intendimento, allegando perizia giurata ovvero
documentazione avente data certa in ordine allo stato dei
lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta
giorni dalla data della notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i
presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di
completamento con assunzione del rischio da parte di chi li
effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa
fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda
di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma
nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di
sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di
divieto, la realizzazione di detti interventi non può da
sola giustificare il diniego del condono, occorrendo
verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni
oggetto del condono impedendo all’amministrazione di
valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza
dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile
tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà
esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni
previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli
interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione
della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i
presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero
all’applicazione delle sanzioni previste in caso di
accertata “autonoma” abusività.
8.– Nella fattispecie in esame, dal provvedimento impugnato,
risulta quanto segue.
In relazione alla domanda di condono presentata da E.A. con riferimento al piano terra-rialzato è stato
riscontrata la realizzazione di: una cucina sull’area cortilizia del fabbricato; un vano, in adiacenza alla scala,
avente una superficie non residenziale di mq 26,41; due
soppalchi; «una superficie utile di mq 130 circa oltre
balconi per una superficie non residenziale di mq 17 circa».
In relazione alle domande di condono presentate da S.G. e S.M. con riferimento al primo piano, è
stata riscontrata la suddivisione della superficie tra tre
appartamenti e non tra due come era indicato nella domanda
di condono. Inoltre, è stato riscontrato un «incremento
di superficie utile» di circa mq 13,35 ottenuti «convertendo
porzioni di balconi in superficie utile».
In relazione alle domande di condono presentate da S.M. e M.M. con riferimento al secondo piano, sono
state svolte analoghe considerazioni a quelle effettuate con
riguardo al primo piano.
Da quanto esposto non risulta che gli interventi successivi,
singolarmente considerati, abbiano inciso in maniera così
radicale sugli immobili oggetto delle domande di condono da
rendere oggettivamente impossibile il loro esame.
In relazione alla prima domanda di condono, gli interventi
abusivi successivi (ad eccezione dei mq 130 di cui non è
stata dimostrata la mancata inclusione nella domanda stessa)
sono bene individuati e suscettibili di essere oggetto di
autonomo intervento sanzionatorio.
In relazione alle altre due domande indicate, risulta anche
in questo caso ben identificato un aumento di superficie per
“trasformazione” del balcone ed una ripartizione
delle superfici tra tre e non tra due appartamenti,
suscettibili anch’esse di divenire oggetto di un autonomo
potere sanzionatorio.
In definitiva, dagli atti del giudizio risulta che nel
periodo temporale, pari a diciotto anni, che va dalla data
di presentazione delle domande di condono a quello
dell’adozione del provvedimento di risposta da parte
dell’amministrazione, le parti hanno realizzato altri
interventi abusivi. Tali opere, per la loro autonoma
identificazione, non risulta che possano impedire una
valutazione di quelle originariamente oggetto della domanda
di condono.
L’amministrazione comunale dovrà, pertanto, da un lato,
verificare se sussistono i presupposti per il condono delle
opere “originariamente” realizzate, dall’altro,
accertare la natura degli interventi successivi posti in
essere dagli appellanti ed applicare in relazione ad essi le
sanzioni demolitorie o pecuniarie previste dalla legge
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.08.2015 n. 3943 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il prevalente orientamento giurisprudenziale, per potere
ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario
acquisire il parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito
della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso.
A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi.
Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è
necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera
abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di
carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa
sul principio tempus regit actum, principio che obbliga
l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico
vigente al momento di valutazione della la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo paesaggistico.
Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda
di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di
sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando
l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al
suddetto vincolo.
Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che
l’opera sia abusiva.
Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la
successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere
alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa
applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio tempus regit actum.
19. Si deve ora passare all’esame dei primi motivi aggiunti
con i quali sono stati impugnati il parere negativo
sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, rilasciato
dal Comune di Abbiategrasso, ed il provvedimento del
Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di
Milano, il quale ha dichiarato l’improcedibilità della
relativa istanza.
20. Il Collegio può omettere lo scrutinio delle eccezioni di
rito sollevate dall’Amministrazione resistente stante
l’infondatezza nel merito delle censure dedotte.
21. Con il primo motivo dei primi motivi aggiunti, il
ricorrente sostiene che, in realtà, le opere oggetto del
presente giudizio non necessiterebbero di autorizzazione
paesaggistica in quanto realizzate prima dell’introduzione
del vincolo. La domanda di accertamento di compatibilità
paesaggistica sarebbe stata, quindi, presentata a scopo
meramente cautelativo; per questa ragione, le Autorità
interessate, invece che pronunciarsi nel merito per
respingerla, avrebbero dovuto limitarsi a rilevare
l’inutilità della domanda stessa.
22. Ritiene il Collegio che il motivo sia infondato.
23. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale,
per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati
in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre
necessario acquisire il parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a
prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera
rispetto al vincolo stesso (cfr. Consiglio di Stato, ad.
plen., 22.07.1999 n. 20; id., sez. VI, 07.05.2015, n.
2297; id., 17.01.2014, n. 231).
24. A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi.
Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è
necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera
abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di
carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa
sul principio tempus regit actum, principio che obbliga
l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico
vigente al momento di valutazione della la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo paesaggistico.
25. Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda
di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona
assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di
sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando
l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al
suddetto vincolo.
26. Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che
l’opera sia abusiva.
27. Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la
successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere
alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa
applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio
tempus regit actum
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23
del 2004, relativamente agli aspetti paesaggistici –
Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna,
parere 04.08.2015 n. 558474 di prot.).
---------------
Con nota inviata il 16.06.2015, prot. n. 128924,
(acquisita agli atti del Servizio in data 16.06.2015, prot.
n. PG.2015.421736) il Comune di XXX pone un quesito in
merito all'applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23
del 2004, chiedendo se tale forma di sanatoria si debba
coordinare con l’istituto dell’accertamento di compatibilità
di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei
beni culturali e del paesaggio (da qui in avanti Codice).
In particolare, si chiede come procedere per la
regolarizzazione di opere, eseguite in parziale difformità
durante i lavori in attuazione di titoli abilitativi
rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge
28.01.1977, n. 10, in caso di vincolo paesaggistico
sopravvenuto.
Nella nota si fa riferimento al parere espresso da questi
Servizi regionali del 17.04.2012, prot. n. PG/2012/95795,
che qui si intende parzialmente rivisto. (... continua).
---------------
ATTENZIONE:
- col suddetto parere la Regione Emilia Romagna si
ravvede per quanto espresso con un precedente
pronunciamento e si allinea alla Regione Lombardia
ed alla Regione Piemonte:
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Sanatoria di interventi edilizio-urbanistici abusivi
realizzati prima dell’imposizione del vincolo
paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione
Emilia Romagna,
parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.). |
luglio 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: E'
sufficiente per il rigetto della sanatoria edilizia
l’esistenza del solo vincolo paesaggistico alla data
di valutazione della stessa.
...
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il
Veneto, sezione II, n. 1383/2013, resa tra le parti,
concernente demolizione opere abusive.
...
DIRITTO
7. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso per la
sussistenza di due vincoli: cimiteriale e paesaggistico.
8. Con il secondo motivo del ricorso in appello i
ricorrenti, per quel che è dato intendere, sostengono che il
vincolo paesaggistico sarebbe divenuto inefficace per il
decorso del tempo, ossia per il decorso quinquennio dalla
data di adozione (novembre 1999).
Ma i ricorrenti non indicano alcuna norma, o principio, in
base alla quale i vincoli di natura paesaggistica dovrebbero
essere equiparati ai vincoli urbanistici.
Ove, al contrario, con la censura in esame i ricorrenti
abbiano inteso sostenere l’inefficacia del vincolo, per
mancato completamento dell’iter procedimentale, è
sufficiente a confutare l’assunto il richiamo alla decisione
di questa Sezione, 21.03.2005, n. 121 (richiamata anche
dalla difesa del Comune di Monfumo), che il Collegio
condivide.
Richiamando anche la sentenza n. 262/1997 della Corte
costituzionale, la Sezione, infatti, ha affermato che:
<<- l’efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di
insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o
detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell’art.
2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939, l’elenco delle
località, predisposto dalla commissione ivi prevista e nel
quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato
nell’albo dei Comuni interessati;
- i beni immobili soggetti a vincoli paesistici per il loro
intrinseco valore “in virtù della loro localizzazione o
della loro inserzione in un complesso che ha in modo
essenziale le qualità indicate dalla legge costituiscono una
“categoria originalmente di interesse pubblico”; il che non
consente l’assimilabilità dei vincoli paesistici a quelli
urbanistici e determina la inconferenza di qualsiasi
richiamo o raffronto rispetto all’art. 2 della legge n. 1187
del 1968";
- nemmeno sul piano costituzionale si profila una esigenza
di inefficacia dei vincoli paesistici oltre un certo tempo
né si pone un problema di durata della misura cautelativa o
anticipatoria, né un profilo di indennizzabilità anch’esso
collegato alla durata, in quanto il legislatore ha
attribuito un effetto immediatamente vincolante per i
soggetti contemplati dall’art. 7 della legge n. 1497 del
1939 fin dal momento della ricognizione delle “qualità
connaturali secondo il regime proprio del bene”, cioè dalla
compilazione e pubblicazione dell’elenco con valore
costitutivo del regime giuridico dell’immobile da parte
delle commissioni al termine del primo sub procedimento (ciò
al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per
l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere
possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili
compresi nell’elenco delle bellezza di insieme e quindi
compromettere il paesaggio);
- pur non essendo previsto nella legge n. 1497 del 1939 un
termine di durata del vincolo o entro cui doveva concludersi
il procedimento, vi erano, peraltro, già nel sistema
amministrativo allora vigente, strumenti giuridici di tutela
delle posizioni dei soggetti interessati, quali, in primo
luogo, la diffida a provvedere e, di seguito, l’istituto
processuale del silenzio-rifiuto, con i conseguenti rimedi
della giustizia amministrativa fino al giudizio di
ottemperanza; tali rimedi risultano rafforzati con la legge
07.08.1990, n. 241 con cui è stato codificato il dovere
per la pubblica amministrazione di concludere i procedimenti
iniziati d’ufficio, come quello in esame, mediante
l’adozione di un provvedimento espresso>>.
9. Alla luce delle predette argomentazioni, il secondo
motivo di ricorso è pertanto infondato.
10. È principio giurisprudenziale recepito quello secondo
cui “ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia
legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente
a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di
interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente
avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a
rigetto della sua istanza” (Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2010, n. 7498; idem 31.03.2011, n. 1981).
11. Alla luce del predetto principio il ricorso in esame
deve essere respinto essendo sufficiente per il rigetto
della sanatoria l’esistenza del solo vincolo paesaggistico
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.07.2015 n. 3663 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'opera abusiva.
DOMANDA:
L'art. 31 del DPR 380/2001 al comma 4 sancisce, in caso di
inottemperanza entro i termini stabiliti, l'acquisizione di
diritto gratuita al patrimonio del comune del bene del'aerea
di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe.
La domanda che si rivolge è questa: l'acquisizione di quanto
sopra descritto è una procedura obbligatoria e necessaria al
fine di procedere alla demolizione del manufatto abusivo,
ovviamente sempre a spese dell'inadempiente? Quali sono i
presupposti per non ricorrere all'acquisizione gratuita del
bene e a chi compete tale decisione?
RISPOSTA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive, ai sensi dell'art. 31 DPR 380/2001, "avviene di
diritto e in automatico, non ha alcun carattere di
discrezionalità", avendo natura meramente dichiarativa,
ed è subordinata unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e del decorso del termine di legge per
la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che
opera automaticamente con riguardo non solo all'opera
abusiva e all'area di sedime, ma anche alle pertinenze
(Consiglio di Stato 2368/2014, TAR Salerno, sent.
1318/2014).
L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione di
demolizione al termine dei 90 giorni previsti, costituisce
titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione
gratuita nei registri immobiliari dell’area acquisita a
patrimonio comunale, previa notifica all’interessato. Il
verbale di accertamento di inottemperanza, di cui sopra, ha
carattere endoprocedimentale e meramente dichiarativo, in
quanto viene redatto automaticamente per effetto
dell’inottemperanza alla demolizione.
L’ordine di demolizione, che costituisce il presupposto per
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, può essere
impugnato davanti al giudice amministrativo. Quindi la
semplice scadenza dei 90 giorni per ottemperare alla
demolizione determina l’automatica applicazione della
sanzione amministrativa del trasferimento di proprietà al
Comune che, a sua volta, è presupposto necessario affinché
l’amministrazione possa provvedere alla demolizione. Non
esistono presupposti per non ricorrere all'acquisizione
gratuita del bene, salvo i casi in cui le opere siano state
realizzate solo in parziale difformità dal permesso di
costruire.
In tali fattispecie, è possibile non procedere alla
demolizione del manufatto laddove, dopo attenta analisi e
valutazione da parte della P.A., risulti che le parti
difformi non possano essere eliminate senza compromettere la
stabilità dell'edificio o delle parti conformi: è allora
possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria
(cd. “fiscalizzazione dell’abuso”), che rimane
pertanto assoggettata alla valutazione di natura
tecnico-edilizia- strutturale del dirigente o responsabile
dell'ufficio comunale preposto (art. 34 del D.P.R. 380/2001)
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito alla procedura da
seguire per il condono c.d. differito a seguito di procedure
immobiliari esecutive ai sensi dell'art. 40, comma 6, della
legge 47/1985 - Comune di Sutri (VT) (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 15.07.2015 n. 7278 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li
caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra
cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non
devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del
relativo procedimento.
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse
ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe
applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in
ambito provvedimentale vincolato e risultando che il
contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Secondo giurisprudenza l'ordinanza di demolizione di una
costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione.
---------------
Il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si
espresso nel senso che il provvedimento di demolizione di
una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora,
alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse.
3) Nel secondo motivo di ricorso parte ricorrente ha
lamentato la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, per
aver l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del
procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010,
n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse
ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe
applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies
della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito
provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto
dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
4) Privo di pregio è anche il terzo motivo di ricorso
incentrato sull’affermata circostanza che il provvedimento
gravato sarebbe stato adottato nei confronti del ricorrente
quale “probabile committente dei lavori”, in base quindi a
un mero giudizio probabilistico.
L’ordinanza di demolizione è stata rivolta contro il
ricorrente anche sulla base della non contestata circostanza
che lo stesso è proprietario dell’area e la qualità di
proprietario è sufficiente a radicare la legittimazione
passiva nei confronti dell’ordine di demolizione di opere
abusive.
Secondo giurisprudenza, infatti, l'ordinanza di demolizione
di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata
nei confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione (TAR Piemonte, I, 25.10.2006, n. 3836;
TAR Campania, Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR
Lazio, Roma, II, 02.05.2005, n. 3230; TAR Valle d'Aosta,
12.11.2003, n. 188).
5) Nel quarto motivo di ricorso parte ricorrente ha
lamentato il difetto di motivazione dell’atto gravato, in
quanto, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso
tra la realizzazione degli abusi (la struttura a suo dire
sarebbe stata inaugurata nel 2008) e l’adozione dell’ordine
di demolizione (del 30.03.2011), l’amministrazione avrebbe
dovuto indicare specifiche ragioni di interesse pubblico
alla rimozione degli abusi.
Il motivo è infondato.
In primo luogo parte ricorrente non ha dato prova della
risalenza delle opere.
In ogni caso, il Collegio aderisce a quel filone
giurisprudenziale che si espresso (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI,
04.10.2013,
n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di
una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora,
alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons.
Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV,
16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813;
Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato
Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V,
11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211) e non potendo l'interessato dolersi
del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n.
2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI,
21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV,
04.05.2012, n. 2592)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2015 n. 3489 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Per
consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di
non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò
sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi”, senza, quindi, che “di esso occorra farsi
carico in sede di adozione del provvedimento recante la
sanzione della demolizione” e fermo “che eventuali e
comprovati pregiudizi arrecati contra ius (nel caso in sede
di esecuzione di ufficio) a parti non ricomprese fra le
opere da demolirsi in puntuale esecuzione dei contenuti del
provvedimento qui al vaglio costituirebbero un danno
ingiusto risarcibile a mezzo dei rimedi all’uopo previsti”.
9d- Né, infine, può conferirsi utile rilievo alla (peraltro
mera) notazione (pag. 6 del ricorso) in ordine ad una
possibile compromissione statica delle parti legittime per
effetto degli imposti abbattimenti.
Ferma l’assoluta genericità della “notazione”, non
sostanziante nemmeno una formale denuncia, in ogni caso per
consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di
non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò
sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania, questa settima
sezione, n. 2191 del 17.04.2015, sesta sezione, sentenze
n. 1122 del 20.02.2014, 07.11.2013, n. 4489 e 05.06.2013, n. 2903,
09.10.2013, n. 4821, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291,
02.05.2012, n.
2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sezione seconda, 13.04.2011, n. 702), senza, quindi, che “di esso occorra farsi
carico in sede di adozione del provvedimento recante la
sanzione della demolizione” (in tali espressi sensi, da
ultimo, Tar Campania, questa Settima Sezione, n. 2191 del 17.04.2015 cit. e, Sezione Seconda, n. 233 del 15.01.2015) e fermo “che eventuali e comprovati pregiudizi
arrecati contra ius (nel caso in sede di esecuzione di
ufficio) a parti non ricomprese fra le opere da demolirsi in
puntuale esecuzione dei contenuti del provvedimento qui al
vaglio costituirebbero un danno ingiusto risarcibile a mezzo
dei rimedi all’uopo previsti” (Tar Campania, ancora questa
settima sezione, n. 2191 del 17.04.2015 e, sesta
sezione, n. 6678 del 17.12.2014)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 29.06.2015 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’orientamento giurisprudenziale in
tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché
costante nel ritenere che:
- Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura
urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza
di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento;
- L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi
non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del
procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere
abusivo delle medesime;
- Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
- L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
---------------
La giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che
possono andare a detrimento della celerità e speditezza
dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che:
<<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come
modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in
capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di
dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che
l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va
interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A.
di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a
dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche
quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi
conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il
ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la
norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà
gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che,
anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il
contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe
mutato>>.
---------------
Dalla abusività di opere edilizie scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura, non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”.
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto
più quanto riferita alla repressione di abusi su beni
vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato.
Con la prima censura è dedotta la violazione dell’art. 7, L.
07.08.1990, n. 241 e succ. mod.; L. 28.01.1977, n. 10; L.
28.02.1985, n. 47; L. 23.12.1994, n. 724; art. 97 Cost.).
Secondo parti ricorrenti, nella specie, la comunicazione da
loro ricevuta, non sarebbe adeguatamente motivata con
gravissimo pregiudizio, in quanto non messi in condizione di
contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione,
con riguardo al suo ambito di incidenza, alla concreta
eseguibilità del provvedimento demolitorio (contenente al
suo interno madornali errori che dimostrerebbero una totale
disinformazione) ed alle connesse valutazioni delle sanzioni
pecuniarie alternative.
La censura è infondata.
Al riguardo deve rammentarsi che l’orientamento
giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del
procedimento è pressoché costante nel ritenere che: <<Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di
numero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<Gli atti
sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto
vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere
preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione né la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n.
6425); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non
essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario
dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Pur con tali premesse, tuttavia, nella fattispecie in esame
il Comune -documentato dalla difesa resistente nella memoria
del 10.2.2014- ha ritenuto di dover comunicare ad entrambi
i ricorrenti l’avvio del procedimento (senza, però, che
questi ultimi abbiano presentare memorie), ma, alla stregua
della su riferita giurisprudenza, la censura è infondata
atteso che un’eventuale inadeguatezza della comunicazione
inviata, in ogni caso, non influisce sulla legittimità
dell’impugnata ordinanza.
Inoltre la giurisprudenza, onde evitare che inutili
formalismi che possono andare a detrimento della celerità e
speditezza dell’azione amministrativa è approdata al
convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241
del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale
ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato-
l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione
dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere
diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di
gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non
può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di
avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali
sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel
procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo
che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione
(che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A.
sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare
che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il
contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>> (C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
Orbene se, alla stregua di siffatta giurisprudenza,
dolendosi per la mancata comunicazione di avvio del
procedimento, il privato deve anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione, ciò a maggior ragione deve valere nel caso in
cui -come nella specie- la comunicazione in parola vi sia
stata (cfr. nota 21637 del 03.07.2013), ma il ricorrente
lamenta che essa non sarebbe adeguatamente motivata con
gravissimo pregiudizio nei suoi confronti, in quanto non
messo in condizione di contraddire sulla scelta
sanzionatoria dell’Amministrazione. Nella fattispecie, non
esplicitandosi lo specifico profilo di inadeguatezza della
comunicazione inviata, non si mette il giudice in condizione
di esaminare le ragioni per le quali la comunicazione de qua
non sarebbe funzionale allo scopo per il quale essa è
prevista.
---------------
Pertanto il
Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia
delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura, non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento
(cfr., per tutte, Cons. Stato - Sez. V, 28.04.2014, n.
2196).
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla
legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza
di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile,
previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza
tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è
irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento
riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento
di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre
richiesta una specifica motivazione né la valutazione
sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>> (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed,
ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del
2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su
beni vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR
Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non
occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi
dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono
richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo
presente che ciò che appare necessario è che al privato sia
data la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l'adozione dell'ordine in parola.
---------------
La sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio
comunale della struttura edilizia abusivamente realizzata e
della relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7,
terzo comma, L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero
organismo edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso
in cui l'abuso riguardi solo una parte dello stesso.
Pertanto, in detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si
verifica nei limiti delle parti abusive, con esclusione
delle altre parti dell'immobile e dell'area non interessate
dall'abuso.
9. L’appello principale è fondato nella misura in cui
evidenzia l’erroneità della sentenza di primo grado che ha
rilevato una lesione del diritto di partecipazione
procedimentale dei destinatari del provvedimento impugnato
che non risulta sussistente, né rilevante.
Occorre, al riguardo, rammentare l’orientamento di questo
Consiglio (Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470; Id., Sez.
II, 19.03.2008, n. 3702; Id., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049)
secondo il quale: “In tema di ordine di demolizione di
opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n.
241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato,
con riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che
appare necessario è che al privato sia data la possibilità
di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che
preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in
parola”.
---------------
10. L’appello incidentale proposto degli originari
ricorrenti è in parte inammissibile ed in parte fondato.
Sotto il primo profilo deve rilevarsi che il generico
richiamo ivi contenuto ai motivi non esaminati dal primo
giudice non è sufficiente a devolverne la cognizione al
giudice d’appello, essendo invece necessaria una loro
puntuale rappresentazione, sicché in questa parte l’appello
incidentale è inammissibile.
L’unica doglianza non esaminata dal TAR, che può essere
conosciuta dall’odierno giudicante è, quindi, quella
relativa alla denunciata illegittimità del provvedimento
impugnato nella parte in cui dispone di acquisire al
patrimonio del comune l’intero immobile e l’area di sedime.
La censura in questione deve ritenersi fondata: infatti, la
sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale
della struttura edilizia abusivamente realizzata e della
relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7 terzo comma
L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero organismo
edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso in cui
l'abuso riguardi solo una parte dello stesso; pertanto, in
detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si verifica nei
limiti delle parti abusive, con esclusione delle altre parti
dell'immobile e dell'area non interessate dall'abuso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.06.2015 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sottotetto
senza titolo, la sanzione è salatissima.
Sono dolori quando il comune scopre che dopo i lavori il
sottotetto è diventato utilizzabile senza titolo. Se i
locali sopra l'ultimo piano dell'edificio risultano di fatto
trasformati in una pertinenza degli appartamenti senza che
lo preveda il permesso di costruire scatta la sanzione
pecuniaria laddove risulta impossibile la demolizione
dell'opera. Ma la multa è salatissima perché viene
ragguagliata all'intera superficie del sottotetto: le opere
contro legge, infatti, imprimono all'area un cambio di
destinazione urbanistica non autorizzato rendendo fuorilegge
l'intero locale.
È quanto emerge dalla
sentenza 16.06.2015 n. 2980, pubblicata dalla IV
Sez. del Consiglio di stato.
Volumi utilizzabili.
Altro che 34 mila euro, come chiedeva: ne pagherà oltre 270
mila l'impresa edile che ha costruito un fabbricato più alto
di quanto assentito. Ormai abbattere lo stabile è
impossibile, perché il resto del manufatto è in regola:
dunque lo scontro con il comune è sul quantum della multa.
Parla chiaro l'articolo 34, comma 2, del testo unico
sull'edilizia: la sanzione deve essere calcolata sulla «parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire».
Secondo la società, la volumetria del sottotetto
regolarmente autorizzata non può essere considerata ai fini
del calcolo della sanzione: in fin dei conti si tratterebbe
solo dello sforamento dell'altezza dei locali. In realtà i
lavori hanno reso utilizzabile ai fini residenziali un
volume che non lo era sulla base dei titoli edilizi
rilasciati.
Ed è dunque il cambio di destinazione d'uso che legittima la
sanzione più grave
(articolo ItaliaOggi del 27.06.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di lavori abusivi tali da comportare
utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume
inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati e,
dunque, da imprimere a tutta la superficie utile una
destinazione urbanistica differente da quella assentita,
giustifica il procedimento di calcolo della sanzione
pecuniaria basato sull’integrale volume della predetta
superficie.
In tal senso, invero, a norma dell’art. 34, comma 2, D.P.R.
n. 380 del 2001, la sanzione va calcolata sulla parte
dell’opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire e quindi, nella descritta ipotesi, su tutta la
superficie (nella specie costituita da un sottotetto).
... per la riforma della sentenza del TAR Veneto, Sezione II,
n. 1355/2009, resa tra le parti, concernente irrogazione
sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione.
...
Conformemente a quanto eccepito dal comune resistente, il
primo motivo di gravame va dichiarato inammissibile, stante
il divieto di “nova” in appello, sancito dall’art.
104 del codice del processo amministrativo.
Ed invero, in primo grado, la ricorrente aveva lamentato,
per quanto qui rileva (secondo motivo, lett. c), che “All’interno
(del sottotetto) le altezze vanno da un minimo di 1,40/1,70
mt. a livello d’imposta della falda del tetto ad un massimo
nella parte centrale di mt. 3,30 (all. sez. dimostrativa).
La sua utilizzazione rimane come precedentemente quale
accessorio (ripostigli, lavanderia e stenditoio) del resto
in conformità ai progetti approvati.
L’ufficio invece e in modo contradditorio, ritenendo la
superficie del sottotetto utilizzabile sia pur come
accessorio in forza della variante urbanistica di cui alla
DOC n. 21/2006 assoggettava il sottotetto integralmente alla
sanzione degli abusi non sanabili. Ma se anche l’aumento
volumetrico derivato dalla sopraelevazione ha permesso
l’utilizzazione del sottotetto, l’ordinanza tuttavia
sanzionava l’intero volume, come se si fosse trattato di un
abuso non sanabile. Il tutto in violazione della variante
urbanistica di cui alla Doc. 21/2006 che invece riconosceva
in via di sanatoria quel volume.
La variante riconosceva dunque il volume non computato
urbanisticamente in sede di rilascio del permesso di
costruire, e ne consentiva perciò la sua utilizzazione.
Residuava il sopralzo tecnico di 0,77 cm secondo
l’ordinanza, di cm 0,55 per la ricorrente, salva l’ulteriore
riduzione ex L.R. 21/1996, soggetta alla sanzione
alternativa. Solo questa porzione al massimo è
assoggettabile a sanzione, contrariamente a quanto sancito
dall’ordinanza impugnata che va dunque annullata e intanto
sospesa”.
In appello è stato, invece, dedotto che la sanzione
pecuniaria avrebbe dovuto essere commisurata alla superficie
realizzata in esubero rispetto a quella assentita. E poiché
nel caso di specie l’abuso non ha comportato alcun
incremento di superficie, essendosi sostanziato unicamente
in una maggiore altezza, non avrebbe potuto essere applicata
alcuna sanzione.
E’ evidente, quindi, la diversità di causa petendi.
Il secondo motivo non merita accoglimento.
Ed invero, indipendentemente dalla circostanza che i titoli
edilizi rilasciati consentissero l’esecuzione di un
sottotetto con un’altezza, dalla quota del pavimento
all’imposta di falda, superiore a 60 cm., come sostiene
l’appellante, ciò che ai fini di causa ha carattere
assorbente, è che i detti titoli non consentivano l’accesso
al sottotetto dai piani sottostanti, come emerge
incontrovertibilmente dal fatto che l’istanza di sanatoria
della L., datata 20/07/2006, aveva ad oggetto anche “la
realizzazione di vani accessori ai sottostanti appartamenti,
mediante utilizzo del sottotetto”.
I lavori abusivamente realizzati hanno, dunque comportato,
l’utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume
inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati. In altre
parole, attraverso i lavori abusivamente eseguiti si è
impressa a tutto il sottotetto una destinazione urbanistica
differente da quella assentita.
Il che giustifica il procedimento di calcolo della sanzione
pecuniaria basato sull’integrale volume del sottotetto,
atteso che, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del D.P.R.
06/06/2001, n. 380, la sanzione va calcolata sulla “parte
dell'opera realizzata in difformità dal permesso di
costruire” e quindi, nella specie, giusta quanto
poc’anzi rilevato, su tutto il sottotetto.
L’appello va, in definitiva, respinto (massima
tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 16.06.2015 n. 2980 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’articolo
30, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse
fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo
la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza,
della c.d. lottizzazione abusiva “sostanziale” o “materiale”
o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione
di opere edilizie finalizzate alla trasformazione
urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in
violazione della normativa vigente nella zona, realizzando
quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto
della funzione pianificatoria dei Comuni”.
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata
giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una
lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul
territorio tale da comportare una nuova definizione
dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non
sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di
attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale
attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula
di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia
anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun
caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni
oggettive, si pone in contrasto con la destinazione
programmata del territorio comunale”.
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in
considerazione nel caso di specie, posto che le opere di
allacciamento che la ricorrente intende realizzare
riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del
Parco naturale regionale e classificate dallo strumento
urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei
quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi
insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra
le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la
lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...)
integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano
esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo
fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete
fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di
modeste dimensioni”.
Peraltro, la
giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una
lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo
edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con
il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione”.
---------------
Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i
summenzionati principi giurisprudenziali, l’operato del Comune
risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una
pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in
stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla
base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un
insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal
punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è
soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente
restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che
l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra
descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non
trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla
trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo
insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria
ad esso relativa.
---------------
Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la
lottizzazione abusiva si configura attraverso la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in
violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti
urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di
opere autorizzate.
10.2 Parimenti esente dalle censure allegate dalla
ricorrente è la valutazione compiuta dal Comune, il quale ha
ritenuto che la realizzazione di allacciamenti alle reti
idrica e fognaria dei fabbricati dismessi avrebbe dato luogo
a una lottizzazione abusiva.
Al riguardo, giova tenere presente che l’articolo 30, comma
1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse
fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo
la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od
edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza,
della c.d. lottizzazione abusiva “sostanziale” o “materiale”
o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione
di opere edilizie finalizzate alla trasformazione
urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in
violazione della normativa vigente nella zona, realizzando
quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto
della funzione pianificatoria dei Comuni” (così, tra le
ultime, TAR Toscana, Sez. III, 30.03.2015, n. 509; si
tratta di principio pacifico nella giurisprudenza della
Corte di Cassazione: cfr, ex multis, Cass. pen., Sez. III,
n. 38733 del 2012).
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata
giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una
lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul
territorio tale da comportare una nuova definizione
dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non
sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di
attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale
attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula
di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia
anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun
caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni
oggettive, si pone in contrasto con la destinazione
programmata del territorio comunale” (Cass. pen., Sez. III,
n. 38733 del 2012).
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in
considerazione nel caso di specie, posto che le opere di
allacciamento che la ricorrente intende realizzare
riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del
Parco naturale regionale e classificate dallo strumento
urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei
quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi
insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra
le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la
lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...)
integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano
esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo
fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete
fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di
modeste dimensioni” (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2004,
n. 20373; Id. 09.01.2013, n. 5870).
Peraltro, la
giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una
lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo
edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con
il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione” (Cass. pen., Sez. III, n. 27705 del
2011; Cons. Stato, Sez. V, 15.02.2001, n. 790).
Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i
summenzionati principi giurisprudenziali, che il Collegio
pienamente condivide, l’operato del Comune di Montevecchia
risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una
pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in
stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla
base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un
insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal
punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è
soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente
restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che
l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra
descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non
trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla
trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo
insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria
ad esso relativa.
La censura va quindi respinta.
10.3 Anche il riferimento, operato dalla ricorrente, alla
previsione dell’articolo 38, comma 1, delle NTA del PTC del
Parco naturale, vigente all’epoca del ricorso, non coglie
nel segno.
La suddetta disposizione, concernente le “Reti di
distribuzioni, impianti e infrastrutture” subordina al
previo espletamento delle procedure di cui all’articolo 14
delle stesse NTA (concernente la “dichiarazione di
compatibilità ambientale”), gli interventi aventi ad oggetto
“L’utilizzazione o l’attraversamento di terreni interessati
dal presente P.T.C. per la posa di linee e reti di servizi
pubblici, elettrodotti, oleodotti, gasdotti e simili, fatti
salvi gli allacciamenti alle singole utenze delle relative
centraline o cabine, nonché lo sviluppo, il potenziamento,
la modificazione di ubicazione o percorso di quelli
esistenti”.
Secondo la ricorrente, gli allacciamenti richiesti
rientrerebbero nella prevista esenzione dalle procedure di
compatibilità ambientale e, quindi, anche sotto tale profilo
il permesso sarebbe stato negato illegittimamente dal
Comune.
Al riguardo –in disparte ogni altra considerazione– è
sufficiente rilevare che la nota comunale impugnata non si
pone in contrasto con la suddetta disposizione del PTC, in
quanto è volta unicamente a evidenziare che, di fatto, la
realizzazione degli allacciamenti darebbe luogo a una
lottizzazione abusiva.
Si tratta di affermazione corretta, poiché il risultato –illecito– della realizzazione di una lottizzazione abusiva
ben può essere conseguito anche attraverso attività che,
considerate in sé, prescindendo dalla loro correlazione e
dal contesto fattuale, siano da ritenere consentite, e siano
state finanche autorizzate dalle amministrazioni competenti.
E invero, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la
lottizzazione abusiva si configura attraverso la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in
violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti
urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di
opere autorizzate (Cass. pen., Sez. III, 26.06.2009, n.
26586; v. anche Id., 24.09.2013, n. 41479)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.06.2015 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
generale la lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi
in cui venga posta in essere “qualsiasi attività che
oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una
urbanizzazione non prevista o diversa da quella
programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una
lottizzazione abusiva materiale quando vengano
realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche
per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa
invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando,
pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento
e della vendita in lotti di un'area, quando essi per
dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino
la loro destinazione a scopo edificatorio”.
6. Ciò premesso, è anzitutto infondato il primo motivo di
ricorso, che nega in radice l’esistenza della contestata
lottizzazione, nella forma definita di lottizzazione “cartolare”
(ricorso, p. 12 § 3 c).
In proposito, è sufficiente osservare che in generale la
lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi in cui
venga posta in essere “qualsiasi attività che
oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una
urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una
lottizzazione abusiva materiale quando vengano
realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche
per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa
invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando,
pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento
e della vendita in lotti di un'area, quando essi per
dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino
la loro destinazione a scopo edificatorio” (per tutto
ciò, molto puntualmente, la recente C.d.S. sez. IV
19.06.2014 n.3115)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In termini generali, il mero fatto che un abuso
perduri da lungo tempo non priva, di per sé,
l’amministrazione del potere di intervenire per sanzionarlo.
11. Infondato è
ancora il quinto motivo, fondato sulla presunta tolleranza
dell’abuso da parte del Comune. In termini generali,
infatti, il mero fatto che un abuso perduri da lungo tempo
non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di
intervenire per sanzionarlo: così per tutte, da ultimo,
C.d.S. sez. V 07.08.2014 n. 4213.
E’ poi appena il caso di ricordare che la sentenza di questo
TAR sez. I 28.04.2014 n. 448, citata a proprio favore dal
ricorrente (memoria 18.04.2015 p. 4 rigo dodicesimo), appare
in realtà non esattamente pertinente, poiché decide un caso
in cui non era accertata l’esistenza stessa dell’abuso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
maggio 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
IMPUGNAZIONE AL TAR DEL DINIEGO DEL CONDONO
EDILIZIO ED INSUFFICIENZA AD ESCLUDERE L’ESECUTIVITÀ
DELLA DEMOLIZIONE.
L’impugnazione davanti al TAR del provvedimento di diniego del condono
non è sufficiente per poter disporre la sospensione
dell’esecuzione
dell’ingiunzione a demolire, dovendo, in
ogni caso, l’interessato prospettare quali sono gli elementi
concreti sulla base dei quali possa ritenersi concretamente
probabile l’emanazione entro breve tempo
di un provvedimento amministrativo o giurisdizionale
contrario all’ordine di demolizione.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla idoneità e sufficienza
della mera impugnazione davanti al Giudice amministrativo
del provvedimento con cui l’amministrazione comunale
opponga il proprio diniego al rilascio del c.d. condono
edilizio.
La vicenda processuale segue all’impugnazione
del provvedimento del G.I.P. presso il Tribunale, in
funzione
di giudice dell’esecuzione, con la quale veniva rigettata
l’istanza
di revoca e/o sospensione dell’ordine di demolizione
delle opere abusive realizzate. Contro l’ordinanza proponeva
ricorso per cassazione l’interessato, in particolare
sostenendo
che il mancato accertamento da parte del giudice
sull’applicabilità in concreto delle norme sul condono
edilizio
e l’erronea affermazione di irrilevanza della prospettata
pendenza di un procedimento giurisdizionale amministrativo
avverso il diniego espresso dall’autorità amministrativa
alla domanda di condono edilizio.
La tesi è stata ritenuta manifestamente infondata dalla
Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di
cui
in massima, ha ricordato la sua consolidata giurisprudenza
secondo cui l’ordine di demolizione può essere revocato
esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con
atti amministrativi o giurisdizionali resi dall’autorità
competente
e che abbiano conferito all’immobile altra destinazione
o abbiano provveduto alla sua sanatoria (Cass. pen.,
Sez. III, n. 17066 del 04.04.2006 - dep. 18.05.2006,
S., in CED, n. 234321), mentre può essere sospeso solo
quando sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di
elementi
concreti, che, nell’arco di brevissimo tempo, sia
adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un
provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con
l’ordine di demolizione, non essendo sufficiente una mera
ed ipotetica possibilità che si potrebbe verificare in un
tempo
lontano ed incerto, e, in particolare la semplice pendenza
della procedura amministrativa o giurisdizionale (ex plurimis:
Cass. pen., Sez. III, n. 16686 del 05.03.2009 - dep.
20.04.2009, M., in CED, n. 243463).
Quanto, poi, alla
insufficienza
della mera impugnazione al TAR per giustificare
la sospensione dell’ingiunzione a demolire, la Cassazione,
già in precedenza, ha giudicato inidonea a tal fine la
semplice presentazione di un ricorso al TAR dopo oltre
dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza che
ebbe
a disporre l’ordine di demolizione (Cass. pen., Sez. III, n.
42978 del 17.10.2007 - dep. 21.11.2007, P., in
CED, n. 238145) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
ordinanza 27.05.2015 n. 22105 - Urbanistica e
appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
- “L'ordinanza di demolizione non deve essere
sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza
dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto
l'interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed
al ripristino della legalità è in re ipsa, non ravvisandosi
alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non
potendosi consentire l'utilizzo libero ed indiscriminato
delle facoltà edificatorie sul territorio, soltanto perché
le autorità preposte al controllo siano eventualmente
intervenute a reprimerle con ritardo”;
- “L'ordine di demolizione delle opere abusive non deve
essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241,
trattandosi di atto dovuto per il quale non sono richiesti
apporti partecipativi del soggetto destinatario; tale
ordine, infatti, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede
una specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico, anche di natura urbanistica e ambientale, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati”;
- l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria;
- “Nella motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria
e sufficiente l'analitica definizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
mentre non è necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in
caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la
specificazione intervenire nella successiva fase
dell'accertamento della medesima inottemperanza”.
II. Nemmeno fondate risultano le censure, per vizi propri,
sollevate avverso la susseguente ordinanza demolitoria, in
quanto:
- infondata è la censura di cui al quinto mezzo, in ordine
al preteso difetto motivazionale, atteso che, come da
consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale il
Collegio non ha motivo di discostarsi, “L'ordinanza di
demolizione non deve essere sorretta da una specifica
motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a
disporre la sanzione, in quanto l'interesse pubblico alla
repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della
legalità è in re ipsa, non ravvisandosi alcun affidamento
del privato meritevole di tutela, e non potendosi consentire
l'utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà
edificatorie sul territorio, soltanto perché le autorità
preposte al controllo siano eventualmente intervenute a
reprimerle con ritardo” (cfr. TAR Catania–Sicilia - sez.
I, 12.03.2015, n. 756);
- parimenti non persuade quanto dedotto col sesto mezzo, in
ordine alla pretesa obliterazione del principio del
contraddittorio, in quanto, come da convincente insegnamento
giurisprudenziale, “L'ordine di demolizione delle opere
abusive non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990
n. 241, trattandosi di atto dovuto per il quale non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
tale ordine, infatti, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica e
ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati” (cfr. TAR
Campobasso–Molise - sez. I, 27.03.2015, n. 141);
- nemmeno coglie nel segno il settimo mezzo, col quale si
denuncia la mancata indicazione delle norme urbanistiche
violate e la mancata qualificazione dell’abuso, in quanto,
come da costante insegnamento giurisprudenziale (TAR
Napoli–Campania - sez. VI, 12.03.2015, n. 1521), l’esercizio
del potere repressivo mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto può
ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria;
- è parimenti infondato l’ottavo ed ultimo motivo di
ricorso, circa la mancanza di indicazioni relative alla
successiva acquisizione, in quanto, come da preciso
insegnamento giurisprudenziale, “Nella motivazione
dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente
l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate,
in modo da consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la
descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di
sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al
patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta
ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella
successiva fase dell'accertamento della medesima
inottemperanza” (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI,
10.02.2015, n. 978)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittima
l’ordinanza di demolizione ancorché mancante
dell'indicazione dell’area di sedime da acquisire
gratuitamente al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza poiché, conformemente all’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la
predetta indicazione anche in un momento successivo.
Il settimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta
l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione per la mancata
indicazione dell’area di sedime da acquisire gratuitamente
al patrimonio comunale in caso di inottemperanza, deve
essere respinta, perché, conformemente all’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la
predetta indicazione anche in un momento successivo (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.01.2015,
n. 13; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.11.2013, n.
5593; Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 05.12.2014, n.
6381; Tar Lazio, Roma, Sez. I 19.06.2014, n. 6497)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'illegittimità dell'ordine di demolizione
laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle
ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella
fattispecie una variante essenziale, né tanto meno
sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo
trascorso (52 anni) e il conseguente affidamento
ingeneratosi in capo al privato.
La qualificazione delle riscontrate
difformità in termini di variante essenziale (e, dunque, di
abuso totale) risulta viziata da difetto di motivazione e di
istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio
licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e
l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore
superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa
mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in
una posizione leggermente diversa da quanto indicato in
linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45
metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in
considerazione del fatto che nel progetto approvato con la
licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che
vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo
presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la
qualificazione di tali difformità in termini di variante
essenziale e, dunque, di abuso totale.
Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti le
indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato
relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie
di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio
sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge
n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c),
d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva
rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del
presente giudizio.
---------------
A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale trascorso
dalla commissione del supposto abuso (risalente alla fine
degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di
demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche
quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza
di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime del permesso di costruire (non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo
sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso
dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il
protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla
vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una
posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso
tale approdo affermando che “l’ingiunzione di demolizione,
in quanto atto dovuto in presenza della constatata
realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o
in totale difformità da esso, è in linea di principio
sufficientemente motivata con l´affermazione dell´accertata
abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva
l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi
questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di
congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico
interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino
della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate
entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di
tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento
impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce
alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno
indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una
variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della
demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente
affidamento ingeneratosi in capo al privato.
5. L’appello merita accoglimento.
6. Il Comune di Bologna ha ravvisato nella fattispecie in
esame una ipotesi di variazione essenziale rispetto al
titolo edilizio, rilevando che l’edificio era stato
realizzato su un diverso mappale rispetto a quello di
progetto, oltre che con difformità rispetto al progetto
stesso. Muovendo da tale premessa, il Comune ha ritenuto che
le difformità riscontrate dessero luogo ad un abuso totale
e, di conseguenza, richiamando l’art. 31 d.P.R. n. 380 del
2011 e l’art. 40 l.r. n. 23 del 2004, ha ordinato la
demolizione dell’edificio.
7. La qualificazione delle riscontrate difformità in termini
di variante essenziale (e, dunque, di abuso totale) risulta,
tuttavia, viziata da difetto di motivazione e di
istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio
licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e
l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore
superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa
mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in
una posizione leggermente diversa da quanto indicato in
linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45
metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in
considerazione del fatto che nel progetto approvato con la
licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che
vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo
presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la
qualificazione di tali difformità in termini di variante
essenziale e, dunque, di abuso totale.
8. Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti
le indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato
relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie
di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio
sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge
n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c),
d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva
rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del
presente giudizio.
9. A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale
trascorso dalla commissione del supposto abuso (risalente
alla fine degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di
demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche
quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza
di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime del permesso di costruire (non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo
sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso
dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il
protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla
vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una
posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso
tale approdo (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013 n. 3847)
affermando che “l’ingiunzione di demolizione, in quanto
atto dovuto in presenza della constatata realizzazione
dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale
difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente
motivata con l´affermazione dell´accertata abusività
dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui,
per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione
preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla
quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che
indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia
dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare
il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate
entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di
tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento
impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce
alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno
indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una
variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della
demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente
affidamento ingeneratosi in capo al privato.
10. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
deve, pertanto, essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.05.2015 n. 2512 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla
domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come
nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con
vincoli d’inedificabilità assoluta.
Quanto al primo motivo, va ribadito che, così come ha avuto
occasione di affermare questo Tribunale in fattispecie
analoghe alla presente (fra le tante, sez. III, 30.07.2009
n. 1392; sez. III, 14.12.2005, n. 1593; sez. I, 10.12.2001,
n. 180) non può legittimamente formarsi il silenzio-assenso
sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere
che, come nel caso in esame, siano state realizzate in
contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta (cfr.,
altresì, C.G.A., 28.01.2002, n. 39).
Il 16° comma dell'art. 26 della legge regionale 10.08.1985,
n. 37, infatti, esclude espressamente che possa formarsi un
provvedimento implicito di silenzio-assenso sulle istanze di
condono "nei casi di insanabilità di cui al decimo comma"
dell'art. 23, e cioè nelle ipotesi in cui, appunto, le opere
abusivamente realizzate ricadano nella fascia di
inedificabilità assoluta dei 150 metri dalla battigia
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere
preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento,
trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati,
considerato, altresì, che i provvedimenti sanzionatori
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito
delle medesime.
Con riguardo al dedotto vizio di violazione delle garanzie
partecipative, è sufficiente richiamare, sul punto, la
consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale,
secondo cui i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del
procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e
vincolati, considerato, altresì, che i provvedimenti
sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul
carattere non assentito delle medesime (cfr. ex plurimis:
Cons. Stato, IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Sicilia, Palermo,
II, 06.06.2007, n. 1617; 27.03.2007, n. 979; III,
20.03.2006, n. 608; 20.04.2005, n. 577; Catania, III,
03.03.2003, n. 374; TAR Campania, IV, 12.02.2003, n. 797;
14.06.2002, n. 3499; 28.03.2001, n. 1404)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio, pur conoscendo quell’orientamento
espresso da una parte della giurisprudenza sulla specifica
questione della rilevanza del lunghissimo lasso di tempo
trascorso tra la commissione dell’abuso e l’esercizio del
potere repressivo che ravvisa un onere di congrua
motivazione -avuto riguardo anche alla entità e alla
tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di un pubblico
interesse diverso da quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato, aderisce al diverso indirizzo
giurisprudenziale maggioritario secondo cui il potere di
applicare misure repressive in materia urbanistica può
essere esercitato in ogni tempo e i relativi provvedimenti
non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine
all'interesse pubblico a disporre il ripristino della
situazione antecedente alla violazione, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso allo scopo di
ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche
nel caso in cui l'abuso sia commesso in data risalente, non
sussistendo alcun affidamento legittimo del contravventore a
vedere conservata una situazione di fatto contra jus che il
tempo non può consolidare, né legittimare l'interessato a
dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in
data antecedente i dovuti atti repressivi.
Quanto al quinto motivo, il Collegio, pur conoscendo
quell’orientamento espresso da una parte della
giurisprudenza sulla specifica questione della rilevanza del
lunghissimo lasso di tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e l’esercizio del potere repressivo che ravvisa
un onere di congrua motivazione -avuto riguardo anche alla
entità e alla tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di
un pubblico interesse diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato (v. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705), aderisce, anche rispetto al caso di
specie, al diverso indirizzo giurisprudenziale maggioritario
secondo cui il potere di applicare misure repressive in
materia urbanistica può essere esercitato in ogni tempo e i
relativi provvedimenti non necessitano di alcuna specifica
motivazione in ordine all'interesse pubblico a disporre il
ripristino della situazione antecedente alla violazione,
essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione
dell'abuso allo scopo di ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche nel caso in cui l'abuso sia
commesso in data risalente, non sussistendo alcun
affidamento legittimo del contravventore a vedere conservata
una situazione di fatto contra jus che il tempo non può
consolidare, né legittimare l'interessato a dolersi del
fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data
antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; V, 11.01.2011, n. 79; IV, 31.08.2010, n. 3955; IV,
01.10.2007, n. 5049 e n.
5050; V, 07.09.2009, n. 5229; IV, 10.12.2007, n.
6344; VI, 19.10.1995, n. 1162; V, 12.03.1996).
Ne consegue, anche, che, nel caso di specie, non è
configurabile la responsabilità ex art. 1218 c.c. in capo al
Comune intimato
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di
demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva,
non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12
comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R.
n. 380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola
sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione
non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
dell'intera stabilità del manufatto.
RITENUTO che il secondo ricorso per motivi aggiunti è
infondato.
Parte ricorrente, invero, reitera le stesse censure proposte
avverso il presupposto diniego di sanatoria, di cui è stato
già effettuato il vaglio con esito negativo.
Residua l’esame della censura specifica, di cui al secondo
motivo, con la quale si aggiunge che solo una porzione
dell’immobile in cui è inserita l’unità abitativa di
proprietà di parte ricorrente, ricadrebbe entro i 150 m
dalla battigia e che l’eventuale demolizione della parte non
sanabile pregiudicherebbe la staticità dell’edificio nella
sua interezza e, per tale ragione, sarebbe applicabile la
sanzione pecuniaria in alternativa a quella demolitoria.
Invero, secondo un consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di
demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva,
non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12
comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R. n.
380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola
sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione
non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
dell'intera stabilità del manufatto (per tutte TAR
Sicilia, Palermo, III, 11.06.2014, n. 1503).
Nella specie nessuna dimostrazione di tal fatta è stata
fornita dalla ricorrente, che si è limitata ad affermazioni
generiche
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di misure demolitorie il principio generale è che
non sia necessaria alcuna specifica motivazione
sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è
pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera
edilizia, costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire
manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita
di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione.
---------------
E' stata in giurisprudenza dibattuta la particolare
ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra
la commissione dell'abuso, il suo accertamento e l'adozione
della misura sanzionatoria e sul punto sono emersi diversi
orientamenti giurisprudenziali.
Il Collegio aderisce alla prevalente tesi che non richiede
alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico
indipendentemente dal passaggio del tempo dall'abuso o dal
suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio non
potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non
potendo l'interessato dolersi del fatto che
l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi.
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che
pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza:
di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito
permanente integrato dalla violazione dell'obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento
repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva poi che consentire la possibilità di non
sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di
un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione,
significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso
elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un
dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa
all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto
pressoché impossibile da sindacare nella presente sede
giurisdizionale, con intuibile possibilità di
strumentalizzazioni.
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in
zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo
assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in
via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un
interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza
sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa.
Altrettanto destituito di fondamento è il quarto e ultimo
motivo.
In materia di misure demolitorie il principio generale è che
non sia necessaria alcuna specifica motivazione
sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è
pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera
edilizia, costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire
manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis Cons.
Stato, VI, 28/06/2004, n. 4743; id., sez. V, 10/07/2003, n.
4107; TAR Napoli, Sez. IV, 04/02/2003, n. 617; 15/07/2003,
n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un
bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti
e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione
(Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n. 496; id. Sez. IV,
28/12/2012, n. 6702).
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza
dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un
notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso, il
suo accertamento e l'adozione della misura sanzionatoria e
sul punto sono emersi diversi orientamenti
giurisprudenziali.
Il Collegio, anche riguardo al caso di specie, aderisce alla
prevalente tesi che non richiede alcuna specifica
motivazione sull'interesse pubblico indipendentemente dal
passaggio del tempo dall'abuso o dal suo accertamento e il
provvedimento sanzionatorio non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare e non potendo
l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non
abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi
(Cons. Stato, Sez. VI, 21/10/2013, n. 5088; id., Sez. VI,
04/10/2013, n. 4907; Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n.
496; id., Sez. IV, 16/04/2012, n. 2185; id. Sez. IV,
28/12/2012, n. 6702, id., Sez. VI, 27/03/2012, n. 1813; id.,
Sez. IV, 27/10/2011, n. 5758; id., Sez. IV, 20/07/2011, n.
4403; id., Sez. V, 27/04/2011, dalla n. 2497 alla n. 2527;
id., Sez. V, 11/01/2011, n. 79; id., Sez. V, 09/02/2010, n.
628; TAR Milano Sez. II, 08/09/2011, n. 2183; TAR Lazio Sez.
I-quater, 23/06/2011, n. 5582; TAR Napoli Sez. III,
16/06/2011, n. 3211; id., Sez. VIII, 09/06/2011, n. 3029).
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che
pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza:
di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito
permanente integrato dalla violazione dell'obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento
repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento
(TAR Brescia, Sez. I, 22/02/2010, n. 860).
Si rileva poi che consentire la possibilità di non
sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di
un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione,
significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso
elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un
dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa
all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto
pressoché impossibile da sindacare nella presente sede
giurisdizionale, con intuibile possibilità di
strumentalizzazioni (TAR Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n.
2679).
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in
zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo
assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in
via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un
interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza
sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 05.05.2015 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'abuso edilizio commesso dall'inquilino e sulle
possibili conseguenze sul proprietario di casa.
In materia di abusi edilizi commessi da
persona diversa dal proprietario, costituisce principio
consolidato che la posizione del proprietario possa
ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R.
n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla
quale insiste il bene, quando risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario
stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendone
venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con
gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
--------------
Come ha già osservato questo Consesso, l’ordine di
demolizione è legittimamente, in caso di locazione,
notificato anche al proprietario il quale, fino a prova
contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso, almeno
dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza.
----------------
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e
ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche
nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento
dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato
momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario,
che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa
dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione
dominicale la circostanza della stipulazione del contratto
di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il
trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e
del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in
assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di
controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario
locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello
in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del
conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità
immobiliare locata (si pensi alla manutenzione
straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i
profili, di vigilanza sull’immobile.
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale
vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza
dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il
proprietario ne sia stato notiziato.
---------------
Essendo indubbio che a partire da una certa data o da un
certo momento i proprietari erano venuti ben a conoscenza
dell’abuso edilizio realizzato sula loro proprietà, secondo
i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la
materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio
commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto
sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico
dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione, come
effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve
provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere
palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può
convenire con la parte appellante), siano però anche idonee
a costringere il responsabile dell’attività illecita a
ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi
richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad
escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione
all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo
riacquisto della materiale disponibilità del bene, si
ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi
in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta
venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra
tante, si veda), al fine di evitare l’applicazione di una
norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede
che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di
sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un
comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative
comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto
con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con
manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o
almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso
(risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento
contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività
materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei
casi di locazione.
L’appello è infondato.
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario, costituisce principio consolidato che la
posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto
alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e,
segnatamente, rispetto all’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste
il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa
estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera
abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall’ordinamento.
La tesi svolta in appello evidenzia che il Comune era
consapevole di tale estraneità: l’amministrazione prima
aveva diffidato e ordinato il ripristino al solo conduttore
e solo successivamente, dopo tre mesi, si era rivolto anche
ai proprietari; l’amministrazione era ben quindi a
conoscenza della materiale indisponibilità dei proprietari,
che permane tuttora.
Viene citata anche la relazione del 17.01.2012, dalla
quale emergerebbe che, sulla base della segnalazione del
Maresciallo della stazione forestale di Aymavilles del 16.08.2007 e del contratto di locazione, “solo a seguito di
specifica richiesta dell’Ufficio, questa Amministrazione
comunale ha desunto che l’area oggetto di deposito era
locata e in disponibilità del predetto”.
I motivi di appello sono infondati, tenendo conto della
posizione che in ogni caso ricopre il proprietario non
autore dell’abuso edilizio e i suoi indiscutibili doveri,
quanto meno, in modo sicuramente pregnante, a partire dal
momento in cui sia venuto a conoscenza in modo formale della
realizzazione abusiva sul suo immobile.
L’art. 77 della legge regionale n. 11 del 16.04.1998,
mutuando la normativa nazionale del Testo unico
dell’edilizia sul punto (art. 31), prevede al secondo comma,
in continuità procedimentale con il primo comma che
disciplina l’ordine di demolizione e ripristino dell’abuso
edilizio, che “ove il responsabile dell’abuso non provveda
alla demolizione e, in ogni caso, al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni, l’immobile oggetto
dell’abuso e l’area di pertinenza dello stesso, determinata
sulla base delle norme urbanistiche vigenti, e comunque non
superiore a dieci volte l’area di sedime, sono acquisite
gratuitamente al patrimonio del Comune”.
Come ha già osservato questo Consesso (Cons. Stato, V, 26.02.2013, n. 1179), l’ordine di demolizione è
legittimamente, in caso di locazione, notificato anche al
proprietario il quale, fino a prova contraria, è quanto meno
corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia
venuto a conoscenza (in tal senso, anche Cons. Stato, V, 31.03.2010, n. 1878; VI, 10.12.2010, n. 8705).
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e
ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche
nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento
dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato
momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario,
che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa
dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione
dominicale la circostanza della stipulazione del contratto
di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il
trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e
del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in
assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di
controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario
locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello
in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del
conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità
immobiliare locata (si pensi alla manutenzione
straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i
profili, di vigilanza sull’immobile (così Cassazione civile,
sezione III, 27.07.2011, n. 16422).
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale
vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza
dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il
proprietario ne sia stato notiziato.
Il giudice di primo grado ha argomentato rilevando che, pur
potendosi dare per dimostrato e ammesso che la parte
proprietaria fosse del tutto estranea alla realizzazione
delle opere abusive e ignorasse del tutto l’abuso fino alla
data di comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio, a partire da quella data (23.06.2008) e
certamente a decorrere dalla successiva data del suo accesso
agli atti (05.08.2009), la stessa parte proprietaria
avrebbe dovuto attivarsi per la riduzione in pristino o
quanto meno, dissociarsi completamente dalla condotta della
parte conduttrice. Successivamente, in data 14.09.2009, avveniva il sopralluogo di verifica, con la presenza
del signor C.S. in rappresentanza dei proprietari,
che pertanto, a quel punto, erano pienamente a conoscenza di
tutte le circostanze fattuali.
Anche la relazione comunale citata dall’appello, risalente
al 17.01.2012, non può essere riportata a favore; con
essa, certamente il Comune non si riferisce al periodo della
stesura della relazione (anno 2012), essendo noto l’abuso ai
proprietari almeno dal 2009; in essa si fa riferimento
chiaramente a fatti accertati nel 2007 (epoca in cui era
verosimile che i proprietari fossero nella ignoranza
dell’abuso), mentre, come detto, è innegabile che
successivamente, non tanto con la comunicazione del 23.06.2008, ma certamente con l’accesso presentato e
esercitato in data 05.08.2009, poi con il sopralluogo del
14.09.2009, poi con l’ordinanza del 21.09.2009
notificata nei loro confronti, i proprietari erano oramai
venuti a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sulla
loro proprietà.
Essendo indubbio quindi, che a partire da una certa data o
da un certo momento, i proprietari erano venuti ben a
conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sula loro
proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza
che regolano la materia, il proprietario incolpevole di
abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire
all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico
dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione (come
prevede anche la legge regionale della Valle d’Aosta), come
effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve
provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere
palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può
convenire con la parte appellante), siano però anche idonee
a costringere il responsabile dell’attività illecita a
ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi
richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad
escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione
all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo
riacquisto della materiale disponibilità del bene, si
ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi
in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta
venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra
tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948),
al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera
abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano,
di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del
Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto
con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con
manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o
almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso
(risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento
contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività
materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei
casi di locazione.
Rispetto a tale necessaria attività di dissociazione, che il
primo giudice ha ritenuto insussistente tanto da relegarla
ad una mera intenzione di fatto rimasta inattuata, risulta
soltanto la mera dichiarazione, non documentata, peraltro,
da parte degli appellanti, risalente al 13.04.2012, con
cui essi dichiarano che “stanno formalizzando la risoluzione
del contratto di locazione de quo”.
Rispetto a tale motivo di rigetto del ricorso originario, in
realtà l’appello non deduce adeguatamente, al fine di
sostenere e dimostrare una maggiore e sufficiente attività
dissociativa.
Nel giudizio amministrativo, costituisce invece specifico
onere dell’appellante formulare una critica puntuale della
motivazione della sentenza appellata, posto che l’oggetto di
tale giudizio è costituito da quest’ultima e non dal
provvedimento gravato in primo grado, e che il suo
assolvimento esige la deduzione di specifici motivi ed
argomentazioni di contestazione della correttezza del
percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata
(per tale principio, Cons. Stato, IV, 13.12.2013,
n. 6005).
E’ infondato il motivo di appello con cui si lamenta la
omessa pronuncia per non avere il primo giudice esaminato e
trattato il vizio di eccesso di potere per difetto di
istruttoria: è evidente come la sentenza, nell’esaminare il
motivo con il quale si deduceva la estraneità dei
proprietari rispetto all’abuso in relazione a tutte le
circostanze fattuali, abbia esaminato tale censura sub
specie di vizio di violazione di legge (sulla base della
asserita violazione delle norme che stabiliscono la
responsabilità dell’autore dell’abuso), accertando i
medesimi fatti e le stesse censure (di asserito mancato
accertamento dei fatti a sostegno della istruttoria circa la
reale responsabilità dei proprietari inerti) riproposte poi
come vizio di eccesso di potere, riproposto in modo
ridondante, come ripetitivo del precedente, oltre che
infondato, è il motivo di omessa pronuncia.
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va
respinto, con conferma dell’appellata sentenza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.05.2015 n. 2211 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’onere
della prova circa la data di realizzazione di un immobile
abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso: secondo il
principio generale previsto dall'art. 2697 del codice
civile, infatti, <<chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento>>, e con riguardo alla data di realizzazione di
opere, si è affermato che è onere del privato fornire la
prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la
pubblica Amministrazione non può di solito materialmente
accertare quale fosse la situazione dell'intero suo
territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato
è normalmente in grado di esibire idonea documentazione
comprovante la conclusione dell’opera.
---------------
La giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di
richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire)
per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto
dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942
esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.
Elemento centrale del giudizio odierno consiste nello
stabilire se le opere indicate nell’istanza di Permesso di
costruire e, precedentemente, nell’ordine di demolizione n.
28 del 20.09.2010 costituiscano o meno manufatti abusivi,
realizzati, cioè, ex novo in violazione delle
disposizioni urbanistiche ovvero, come sostenuto dal
ricorrente, si tratti solo di parti dell’edificio
preesistenti oggetto di semplici interventi di manutenzione.
Ciò premesso, in linea di principio l’onere della prova
circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta
a chi ha commesso l'abuso (Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2012,
n. 478): secondo il principio generale previsto dall'art.
2697 del codice civile, infatti, <<chi vuol far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento>>, e con riguardo alla data
di realizzazione di opere, si è affermato che è onere del
privato fornire la prova sulla data di ultimazione
dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può di
solito materialmente accertare quale fosse la situazione
dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge,
mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante la conclusione dell’opera (cfr.
da ultimo TAR Molise, 13.03.2015, n. 107; TAR Lombardia
Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814; Consiglio di Stato,
sez. IV, 27.11.2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania,
sez. VIII – 02.07.2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez.
I – 08.04.2010, n. 1506; TAR Lombardia Brescia, Sez. II,
02.10.2013, n. 814).
Ritiene il Collegio che tale onere sia stato assolto nella
fattispecie con il deposito da parte della ricorrente in
data 02.01.2015 della Consulenza Tecnica d’Ufficio eseguita
nell’ambito del procedimento civile (contrassegnato dal
numero di RG 1111/2010) pendente innanzi al Tribunale di
Campobasso civile tra lo stesso sig. -OMISSIS- e la società
proprietaria di un terreno confinante, avente ad oggetto i
terreni e le opere su cui verte anche il presente giudizio.
La relazione preparata dal CTU incaricato dal Tribunale,
esamina dettagliatamente lo stato dei luoghi, confrontandoli
con le risultanze catastali ed evidenzia che queste ultime
non corrispondono perfettamente ai primi. Con particolare
riferimento alla particella catastale 564 (fg. 24) su cui in
particolare insisterebbero, secondo quanto rilevato
nell’ordinanza di demolizione n. 28/2010, gli ampliamenti
abusivamente realizzati per i quali è stato richiesto il
Permesso in sanatoria, la relazione premette che i rilievi
aerofotogrammetrici eseguiti nel 1963 testimoniano
l’esistenza, già a quel tempo, di una costruzione nella zona
in questione.
Ciò che più rileva, però, è la specifica considerazione del
consulente tecnico (contenuta alla pag. 12 della relazione
de 14.09.2014) secondo cui la contestazione effettuata in
quel giudizio in base alla quale sarebbero stati realizzati
sulla particella 564 interventi edilizi successivi alla
costruzione “non è stata riscontrata, in quanto,
dall’analisi del fabbricato, non risultano effettuati di
recente ampliamenti o opere rientranti nella straordinaria
manutenzione, ma solo opere, sia interne che esterne,
ordinaria manutenzione come riscontrato anche dal tecnico
comunale”.
Ne consegue che il presupposto dell’assenza di titoli
abilitativi per gli interventi realizzati sulla predetta
particella su cui si fonda l’ordine di demolizione e, per
quello che interessa nel presente giudizio, anche il gravato
diniego di rilascio del Permesso in sanatoria risultano
smentiti dalla ripetuta relazione di CTU, in modo
convincente e circostanziato evidenziando taluni elementi
fattuali (stile architettonico e materiali adoperati) che
depongono univocamente per la conclusione secondo cui gli
ultimi interventi edilizi sul fabbricato di proprietà del
ricorrente risalirebbero ad oltre 50 anni fa.
Ciò sottrae eventuali ampliamenti realizzati sul corpo di
fabbrica del ricorrente alla disciplina edilizia
autorizzativa introdotta a partire dalla l. n. 765/1967 e
dal conseguente obbligo di munirsi di eventuali titoli
abilitativi.
E infatti, la giurisprudenza consolidata evidenzia che
l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di
costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato
introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942
esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale
(TAR Umbria, Sez. I, 10 maggio 2013, n. 281; TAR Campania,
sez. VI, 15 settembre 2010, n. 17416; TAR Umbria, sez. I, 14
luglio 1981, n. 250)
(TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza di demolizione di opera abusiva
allorché il comune ne sia a conoscenza (per iscritto) da
oltre 10 anni e, nel frattempo, nulla ha fatto per
reprimerlo.
La struttura abusiva in questione esiste
da oltre 10 anni ed il Comune era pienamente
informato, come dimostrano le richieste, riferite
espressamente anche alla tenda parasole, rivolte al
ricorrente dallo stesso ente comunale di corrispondere il
pagamento dei canoni di concessione per l’occupazione del
suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un
affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale
che non può non confluire nella complessiva positiva
valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente
pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non
ravvisa motivi per discostarsi.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve
pertanto ritenere che l'ordine di demolizione si presenti
comunque illegittimo dal momento che esplicitamente postula
che per la sua realizzazione sia necessario il Permesso di
costruire, trattandosi, per quanto più sopra esposto, di
affermazione non corretta sul piano giuridico; né si può
considerare in senso contrario la circostanza che l’area in
questione è sottoposta a vincolo paesaggistico, atteso che
la semplice menzione della circostanza che l’area in
questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico non
costituisce un autonomo motivo dell’atto gravato tale da
giustificare da solo il provvedimento negativo.
Anzi, al contrario, il mero riferimento a tali circostanze,
in assenza di alcuna specificazione in ordine alla mancanza
di autorizzazione paesaggistica e alla deduzione di tale
circostanza come presupposto della misura sanzionatoria, non
è sufficiente a far considerare l’aspetto dell’assenza di
titolo paesaggistico quale motivazione della misura
sanzionatoria, che si concentra invece sul profilo della
necessità del permesso di costruire (cfr. TAR Campania, n.
6197/2014, cit.).
Alle considerazioni appena esposte, deve anche aggiungersi
l’ulteriore rilievo, già evidenziato in sede cautelare, che
la struttura in questione esiste da oltre 10 anni e che il
Comune era pienamente informato, come dimostrano le
richieste, riferite espressamente anche alla tenda parasole,
rivolte al ricorrente dallo stesso ente comunale di
corrispondere il pagamento dei canoni di concessione per
l’occupazione del suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un
affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale
che non può non confluire nella complessiva positiva
valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente
pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non
ravvisa motivi per discostarsi (cfr. TAR Molise 17.02.2014,
n. 114).
Per tutte le suesposte ragioni che assorbono ogni altro
profilo di doglianza il ricorso deve essere accolto e la
gravata ordinanza deve quindi essere annullata (TAR Molise,
sentenza 04.05.2015 n. 181 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
possibilità che il PRG inibisca la demolizione di un
fabbricato, ancorché lesionato dal sisma, avente
interesse storico riconosciuto dal medesimo strumento
urbanistico e
sulla possibilità che quest'ultimo obblighi la ricostruzione
dell'immobile illegittimamente demolito.
Nel merito deve riconoscersi che la demolizione non potesse
venire effettuata, nonostante le documentate lesioni
strutturali dell’immobile causate dal sisma.
Invero, non è contestato come l'immobile ricadesse in zona
classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme
tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed
edifici di interesse storico, architettonico e ambientale
diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1
– Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come
ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e
perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in scala
1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale
conservato è classificato di interesse storico”.
E costituisce d’altra parte fatto notorio –ai sensi e per
gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ.,
applicabile anche al processo amministrativo– la possibilità
di salvaguardare le strutture di immobili pericolanti con
diverse soluzioni progettuali, anche a carattere cautelativo
e provvisorio (tramite puntellamenti, in legno o metallo,
fasciature o cerchiature esterne), fino a veri e propri
interventi di stabile consolidamento, che nel caso di specie
avrebbero potuto essere concordati con l’Amministrazione, se
il privato interessato –benché preavvertito per le vie brevi
dell’illegittimità dell’iniziativa– non avesse anticipato un
intervento di integrale demolizione di una struttura, ancora
presente sull’area (non essendo controverso che gli eventi
sismici non avessero determinato il crollo totale
dell’edificio).
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo
motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo
dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero
fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso
applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che
tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il
successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso
con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
---------------
La legge regionale dispone:
- da un lato che "su motivata richiesta dell’interessato,
viene disposto che lo Sportello unico per l’edilizia possa
limitarsi ad irrogare una “sanzione pecuniaria pari al
doppio dell’aumento del valore dell’immobile, conseguente
alla realizzazione delle opere….qualora accerti, con
apposita relazione tecnica, l’impossibilità della
restituzione in pristino, a causa della compromissione del
bene tutelato”;
- dall'altro che "Qualora le opere abusive siano state
eseguite su immobili vincolati, in base alle previsioni
degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per
l’edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone,
acquisito il parere della Commissione per la qualità
architettonica ed il paesaggio, la restituzione in pristino
a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando
criteri e modalità, diretti a ricostituire l’originario
organismo edilizio ed irroga una sanzione pecuniaria da
2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi ogni apprezzamento sulla via più
opportuna da seguire è rimesso all’Amministrazione comunale.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella
parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n.
42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e
conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale,
con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per
eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una
somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione
di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non
sia possibile”.
Nella situazione in esame si segnalano, in effetti, cause di
forza maggiore, riconducibili ad eventi sismici verificatisi
nella Regione, ma non è controverso un conclusivo intervento
umano, che ha impedito ulteriori verifiche da parte dei
competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello
stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente
tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in
presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del Collegio, tale valutazione deve essere rimessa
al prudente apprezzamento dei predetti organi
amministrativi: un apprezzamento che –soprattutto con
riferimento ad immobili vincolati– ben potrebbe estendersi
dal “ripristino tipologico” (come definito dall’art. 34
N.T.A ed ammesso per tale categoria di beni), alla
fattispecie di ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma
1, lettera d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli
interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un
edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica”; la norma considera altresì
l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e
ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione
anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire
fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs.
n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di un fabbricato
non impedisce dunque, di per sé, la remissione in pristino,
anche intesa come integrale ricostruzione, ove siano note o
facilmente desumibili le caratteristiche tipologiche
dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in presenza di
edifici vincolati, la cui presenza sul territorio (anche con
identità diversa da quella originaria, ma fedelmente
riprodotta) sia comunque ritenuta significativa, nonché
idonea a garantire la persistenza dei valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale riguardo, come la
puntuale riproduzione di strutture, di per sé
irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta
ammissibile anche per un immobile di altissimo valore
artistico e storico, come il settecentesco teatro “La
Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli
anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale
ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della
restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art.
10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per
“opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra
cui non può non essere compresa la demolizione, ove non
previamente autorizzata) prevede che si imponga al
responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario
organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale
sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
Talché, il Collegio ritiene che la demolizione –benché
integrale e da qualunque evento causata– non sia
ontologicamente inconciliabile con la rimessa in pristino
dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo della
ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente
demoliti, purché di conosciute caratteristiche e
consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli
edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste
particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da
giustificare la riproduzione delle strutture originali, di
per sé non recuperabili.
... per la riforma della sentenza del TAR EMILIA
ROMAGNA–sezione staccata di Parma, sez. I, n. 374/2014, resa
tra le parti, concernente sanzione pecuniaria e ordine di
rimessa in pristino stato dei luoghi;
...
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per
l’Emilia Romagna, Parma, n. 374/14 del 22.10.2014 è stato
respinto il ricorso proposto avverso l’ordinanza n. 8 del
04.02.2013, con cui veniva irrogata una sanzione pecuniaria
di €. 20.000,00 e disposto il ripristino dello stato dei
luoghi, a seguito dell’avvenuta demolizione di un edificio
di interesse storico, parzialmente crollato a seguito di
eventi sismici.
Nella citata sentenza si ricostruiva la seguente cronologia
dei fatti:
- 13.06.2012, registrazione, nel protocollo del Comune di
Casalgrande, della comunicazione –depositata il giorno
precedente– di avvenuto, parziale crollo dell’edificio in
questione, del cui rudere si preannunciava la demolizione;
- 12.06.2012, diffida verbale del Responsabile del Servizio
Urbanistica ed edilizia privata del Comune a non effettuare
detta demolizione;
- 15.06.2012, diffida formale a non demolire, notificata il
successivo giorno 19;
- 21.06.2012, comunicazione di già avvenuta demolizione,
completata il precedente giorno 14;
- 09.10.2012, comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio e ripristinatorio;
- 04.02.2013, emissione dell’atto impugnato.
Nella medesima sentenza l’impugnazione dell’atto da ultimo
indicato era ritenuta manifestamente infondata, essendo la
demolizione di cui trattasi vietata dagli strumenti
urbanistici (art. 49, comma 7, NTA al PRG); la rimessa in
pristino, in presenza di opere abusive su immobili
vincolati, risultava inoltre prevista dall’art. 10 della
legge regionale n. 23 del 21.10.2004, che sarebbe stata
puntualmente applicata nel caso di specie.
La fedele
ricostruzione, infine, avrebbe dovuto ritenersi possibile,
oltre ad essere conforme al citato art. 49, comma 7, NTA.
...
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la legittimità, o
meno, della completa demolizione di un fabbricato –già
gravemente lesionato per eventi sismici– nonostante una
previa comunicazione del competente ufficio comunale di
inammissibilità di tale intervento, con riferimento alla
normativa di zona (classificata A2.1 –“ville e parchi”–
nel vigente piano regolatore generale - P.R.G.), nonché
all’interesse storico dell’edificio, riconosciuto dal
medesimo P.R.G..
Posto, inoltre, che detta demolizione
risultasse non consentita, deve ulteriormente essere
stabilito se, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, potesse
anche venire disposta la ricostruzione del fabbricato, pur
essendo lo stesso, ovviamente, non ripristinabile nella
propria autentica identità, ma solo riproducibile “nello
stesso luogo, con le stesse dimensioni (altezza, larghezza,
lunghezza) e analoghe caratteristiche formali e
architettoniche, relativamente alla parte esterna” con
“tecniche costruttive” e “materiali edilizi” rapportati
all’”edificio originario, salvo gli adeguamenti richiesti
dalla normativa di settore”, come si legge nell’impugnata
ordinanza n. 1684 del 04.02.2013, che recepiva in tal
modo il parere della Commissione per la qualità
architettonica e per il paesaggio.
In rapporto a quanto sopra deve essere esaminata, in via
preliminare, l’eccezione di inammissibilità, sollevata dal
Comune di Casalgrande, per omessa enunciazione di censure
avverso la sentenza appellata, come previsto dall’art. 101,
comma 1, cod. proc. amm. Detta eccezione (oltre a non
trovare concreto riscontro nell’atto di appello) risulta
comunque infondata, in quanto la citata norma del codice del
processo amministrativo –secondo cui “il ricorso in appello
deve contenere….le specifiche censure contro i capi della
sentenza gravata”– deve trovare lettura coordinata con
l’effetto devolutivo del gravame e con il principio di
sinteticità, di cui all’art. 3, comma 2, dello stesso
codice, nella misura in cui le censure avverso la sentenza
appellata si traducano in mere contestazioni, riferite alla
motivazione di quest’ultima: l’effetto devolutivo
dell’appello, che comporta integrale rivalutazione delle
questioni controverse, che vengano in tale sede riproposte,
implica infatti modifica o integrazione di detta motivazione
ove necessario (cfr. in tal senso Cons. St., sez. IV, 19.09.2012, n. 4974; Cons. St., sez. V, 17.09.2012, n. 4915; Cons. St., sez. VI,,
08.10.2013, n. 4934
e 22.07.2014, n. 3903; Cons. St., sez. III, 10.04.2012, n. 2057).
Va dunque precisato che l’inciso, contenuto
nell’art. 101, comma 1, c.p.a. non deve ritenersi impositivo
di tali censure anche in assenza di contestazioni,
propriamente riferibili al contenuto della sentenza stessa
(come nel caso di ravvisate ragioni di inammissibilità o
irricevibilità dell’impugnativa, la cui omessa contestazione
implicherebbe formazione di giudicato parziale), fermo
restando che i motivi di appello, riproduttivi delle censure
prospettate in primo grado, possono contenere in modo più o
meno esplicito argomentazioni –nella fattispecie ampiamente
presenti– contrarie a quelle espresse nella sentenza
appellata.
Nel merito –e con riferimento alla prima questione, in
precedenza prospettata– deve poi riconoscersi che la
demolizione non potesse venire effettuata, nonostante le
documentate lesioni strutturali dell’immobile.
Non è contestato, in effetti, che quest’ultimo ricadesse in
zona classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme
tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed
edifici di interesse storico, architettonico e ambientale
diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1
– Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come
ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in
scala 1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale
conservato è classificato di interesse storico”.
Nel provvedimento impugnato (ordinanza n. 1684/2013 cit.),
in effetti, si fa specifico richiamo alla “retinatura
grafica” apposta sull’edificio di cui trattasi “nella
cartografia di base dello strumento urbanistico comunale
vigente”; il valore storico dell’edificio era poi
sottolineato nella diffida a non operare la totale
demolizione del medesimo: diffida espressa con atto n. prot.
8642, trasmesso dal comune all’attuale appellante il 15.06.2012 e non reso oggetto di impugnativa. Nella
medesima diffida si invitava il dott. V. alla “messa
in sicurezza dell’area, al fine di salvaguardare
l’incolumità delle persone”, che potessero accedervi, nonché
alla “messa in sicurezza dell’edificio, al fine di evitare
nuovi crolli”.
Costituisce d’altra parte fatto notorio –ai
sensi e per gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc.
civ., applicabile anche al processo amministrativo– la
possibilità di salvaguardare le strutture di immobili
pericolanti con diverse soluzioni progettuali, anche a
carattere cautelativo e provvisorio (tramite puntellamenti,
in legno o metallo, fasciature o cerchiature esterne), fino
a veri e propri interventi di stabile consolidamento, che
nel caso di specie avrebbero potuto essere concordati con
l’Amministrazione, se il privato interessato –benché
preavvertito per le vie brevi dell’illegittimità
dell’iniziativa– non avesse anticipato un intervento di
integrale demolizione di una struttura, ancora presente
sull’area (non essendo controverso che gli eventi sismici
non avessero determinato il crollo totale dell’edificio).
Tale intervento non era consentito dal già citato art. 59
N.T.A., che nell’intera zona A2 ammette solo “manutenzione
ordinaria, straordinaria, restauro scientifico, restauro e
risanamento conservativo”, con limitata possibilità di
ristrutturazione edilizia, nel “rispetto dei caratteri
architettonici e ambientali del luogo”, nonché di quelli
dell’“edificio esistente”; negli edifici classificati di
interesse storico, inoltre, sono consentiti “interventi di
manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro scientifico,
restauro e risanamento conservativo, ripristino tipologico e
demolizione”.
Quanto al tipo di demolizione, cui da ultimo
la norma fa riferimento, deve ritenersi che la disposizione
sia riferita solo a superfetazioni o singole parti
pericolanti, in coordinamento logico con quanto prescritto
dall’art. 49, comma 7, delle medesime N.T.A,, secondo cui, in
zona A, “Nel caso di fabbricati parzialmente crollati è
possibile provvedere alla totale demolizione, senza
possibilità di recupero dei volumi e delle superfici
esistenti. Tale possibilità è limitata agli edifici
incongrui e non è consentita per i beni storici o per gli
edifici vincolati dal P.R.G.”.
Nella situazione in esame, la documentazione fotografica
prodotta mostra un edificio lesionato, ma ben identificabile
sotto il profilo strutturale, il cui valore storico si
afferma (senza puntuali contestazioni di controparte)
evidenziato da apposita retinatura grafica sulla cartografia
di base, come previsto dall’art. 59, comma 2 N.T.A.; nel
provvedimento impugnato, peraltro, il responsabile del
settore precisa di avere illustrato il significato di tale
retinatura al dott. V. nell’incontro in data 12.06.2012, ancora una volta senza che tale circostanza venga
smentita (con gli effetti, di cui all’art. 64, comma 2, cod.
proc. amm.).
Il citato dott. V., a sua volta, produce “quattro
schede, servite per la predisposizione del P.R.G.”, con
descrizione della proprietà di cui trattasi, il cui “valore
morfologico” risulta definito “nullo”, con possibilità di
effettuazione di qualsiasi intervento edilizio.
Dette
schede, tuttavia, non possono integrare né modificare le
norme di piano, già in precedenza ricordate, circa la natura
degli interventi effettuabili nell’area di cui trattasi,
fermo restando che il valore morfologico (ovvero
architettonico o artistico) appare indipendente
dall’affermato valore storico-testimoniale dell’edificio,
riconosciuto sul piano cartografico nei termini in
precedenza illustrati e ribadito, con parere in data 29.10.2012, dalla Commissione per la qualità
architettonica e per il paesaggio, che –previa approfondita
indagine– ha riconosciuto all’edificio demolito “un
interesse storico, in quanto testimone di un’architettura
destinata a sede di un’attività casearia, tipica del periodo
successivo alla seconda guerra mondiale”.
In tale contesto,
sembra appena il caso di sottolineare l’irrilevanza di
considerazioni puramente soggettive, esposte dalla difesa
dell’appellante, circa il “valore nullo” ed il carattere di
mera “superfetazione” dell’edificio demolito, in contrasto
con l’apprezzamento di merito dell’Autorità competente,
trasfuso nella disciplina urbanistica sia dell’area che dei
singoli edifici.
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo
motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo
dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero
fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso
applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che
tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il
successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso
con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
Gli altri motivi di gravame investono la possibilità –fattuale e giuridica– di procedere ad integrale
riedificazione di un edificio non più esistente, di cui non
sarebbero ipotizzabili la restituzione in pristino, né il
recupero dei valori tutelati, connessi all’identità
originaria.
A sostegno di tali argomentazioni, l’appellante richiama il
secondo comma dell’art. 10 della legge regionale dell’Emilia
Romagna n. 23 del 21.10.2004 (Vigilanza e controllo
dell’attività edilizia), nella parte in cui –su motivata
richiesta dell’interessato– viene disposto che lo Sportello
unico per l’edilizia possa limitarsi ad irrogare una
“sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore
dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle
opere….qualora accerti, con apposita relazione tecnica,
l’impossibilità della restituzione in pristino, a causa
della compromissione del bene tutelato”.
Il Comune
resistente, invece, richiama la prima parte del medesimo
comma, in cui è previsto quanto segue: “Qualora le opere
abusive siano state eseguite su immobili vincolati, in base
alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo
Sportello unico per l’edilizia ordina la sospensione dei
lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per
la qualità architettonica ed il paesaggio, la restituzione
in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso,
indicando criteri e modalità, diretti a ricostituire
l’originario organismo edilizio ed irroga una sanzione
pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi, come
è reso evidente dal testo delle norme richiamate, ogni
apprezzamento sulla via più opportuna da seguire è rimesso
all’Amministrazione, cui non è stato invece consentito, nel
caso di specie, di valutare direttamente la situazione di
fatto, conseguente ai danni provocati dal sisma, per
circostanze sopravvenute imputabili all’appellante.
La
stessa documentazione fotografica da quest’ultimo prodotta,
infatti, dimostra l’esistenza –prima dell’ultima
demolizione– di un edificio interessato da parziali crolli
e in apparenza pericolante, ma dai tratti identificativi
chiaramente ancora presenti, tali da rendere ipotizzabili
sia il consolidamento che la fedele riproduzione della
struttura. La disposizione normativa invocata
dall’appellante, d’altra parte, richiedeva “motivata
richiesta dell’interessato” (come sottolineato dal Comune
resistente), nonché “apposita relazione tecnica” dello
Sportello unico per l’edilizia: presupposti insussistenti
nel caso di specie e non più ipotizzabili, avendo
l’interessato operato, di propria iniziativa, la rimozione
delle strutture rimaste.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella
parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n.
42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e
conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale,
con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per
eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una
somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione
di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non
sia possibile”. Nella situazione in esame si segnalano, in
effetti, cause di forza maggiore, riconducibili ad eventi
sismici verificatisi nella Regione, ma non è controverso un
conclusivo intervento umano, che ha impedito ulteriori
verifiche da parte dei competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello
stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente
tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in
presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del
Collegio, tale valutazione deve essere rimessa al prudente
apprezzamento dei predetti organi amministrativi: un
apprezzamento che –soprattutto con riferimento ad immobili
vincolati– ben potrebbe estendersi dal “ripristino
tipologico” (come definito dall’art. 34 N.T.A ed ammesso per
tale categoria di beni), alla fattispecie di
ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma 1, lettera d),
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli
interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un
edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica”; la norma considera altresì
l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e
ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione
anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire
fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs.
n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di
un fabbricato non impedisce dunque, di per sé, la remissione
in pristino, anche intesa come integrale ricostruzione, ove
siano note o facilmente desumibili le caratteristiche
tipologiche dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in
presenza di edifici vincolati, la cui presenza sul
territorio (anche con identità diversa da quella originaria,
ma fedelmente riprodotta) sia comunque ritenuta
significativa, nonché idonea a garantire la persistenza dei
valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale
riguardo, come la puntuale riproduzione di strutture, di per
sé irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta
ammissibile anche per un immobile di altissimo valore
artistico e storico, come il settecentesco teatro “La
Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli
anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale
ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della
restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art.
10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per
“opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra
cui non può non essere compresa la demolizione, ove non
previamente autorizzata) prevede che si imponga al
responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario
organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale
sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
In contrario avviso rispetto a quanto sostenuto
dall’appellante, pertanto, il Collegio ritiene che la
demolizione –benché integrale e da qualunque evento causata– non sia ontologicamente inconciliabile con la rimessa in
pristino dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo
della ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente
demoliti, purché di conosciute caratteristiche e
consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli
edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste
particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da
giustificare la riproduzione delle strutture originali, di
per sé non recuperabili.
Anche il secondo e il terzo motivo
di gravame –riferiti ad accesso di potere e violazione di
legge (N.T.A. del P.R.G. –artt. 46 e 59–, art. 10, comma
2, L.reg. n. 23 del 2004; art. 160, comma 4, del d.lgs. n.
42 del 2004, già in precedenza esaminati)– non possono
quindi trovare accoglimento, sotto profili che sorreggono
adeguatamente la legittima emanazione del provvedimento
impugnato in primo grado, con assorbimento di ogni ulteriore
ragione difensiva e conclusivo rigetto dell’appello
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2015 n. 2139 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ingiustificata
inottemperanza all'ordine di demolizione dell'opera abusiva
ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro
90 giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa
dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e
dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza.
Ed invero, questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4,
DPR 380/2001- costituisce soltanto titolo necessario per
l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il
trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non
voglia spogliarsi del bene.
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, si osserva che l'art. 31,
d.P.R. n. 380 del 2001 prevede -con riguardo alle opere
realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale
difformità, ovvero con variazioni essenziali- un'articolata
disciplina volta alla demolizione delle stesse; in
particolare, l'autorità comunale ingiunge al proprietario ed
al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione
dell'intervento; viene quindi concesso un termine di 90
giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale il bene e
l'area di semine vengono acquisiti di diritto, e
gratuitamente, al patrimonio del Comune; l'opera acquisita
infine demolita con apposita ordinanza, salvo che con
deliberazione consiliare "non si dichiari l'esistenza di
prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non
contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali".
Lo stesso art. 31, inoltre, stabilisce che per le opere
abusive di cui al medesimo articolo, il Giudice, con la
sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina
la demolizione delle opere stesse se non sia stata
altrimenti eseguita.
Questo complessivo dato normativo è prevalentemente
interpretato nel senso che l'ingiustificata inottemperanza
all'ordine di demolizione dell'opera abusiva ed alla
rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro novanta
giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa
dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e
dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza (Sez. 3, n. 45705 del 26/10/2011,
Perticaroli, Rv. 251321; Sez. 3, n. 22237 del 22/04/2010,
Gotti, Rv. 247653; Sez. 3, n. 39075 del 21/05/2009, Bifulco,
Rv. 244891; Sez. 3, n. 1819 del 02/10/2008, dep. 19/01/2009,
Ercoli, Rv. 242254); ed invero, questa notifica -prevista
dall'art. 31, comma 4, cit.- costituisce soltanto titolo
necessario per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari, e deve esser disposta
allorquando, pur dopo il trasferimento di proprietà, il
responsabile dell'abuso non voglia spogliarsi del bene.
L'effetto ablatorio, quindi, si verifica ope legis,
alla scadenza del termine fissato per ottemperare
all'ingiunzione di demolire, e senza che lo stesso debba
esser previsto nella pronuncia di condanna; proprio come
avvenuto nel caso di specie, atteso che il Comune di Milazzo
ha emesso un'ordinanza ingiunzione di demolizione in data
14/10/2008, rimasta del tutto inattuata e poi indicata nel
provvedimento qui impugnato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17134). |
EDILIZIA PRIVATA:
I rilevamenti tratti da
Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in
assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione obiettiva
-ad una certa data- circa il presunto stato di fatto dei
luoghi.
Il Collegio, in conformità all’orientamento espresso da
questa Sezione, ritiene in primo luogo di sottolineare che i
prefati rilevamenti, tratti da Google Earth, non si
prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori
elementi, ad una valutazione positiva al fine di comprovare
il presupposto di fatto assunto a giustificativo del
provvedimento impugnato (e cioè che ad una certa data -e,
dunque, oltre il termine annuale normativamente stabilito ai
fini dell’efficacia del titolo edilizio- i lavori non erano
iniziati) e ciò, in particolare, tenuto conto:
● della
provenienza del suddetto rilevamento;
●
delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini
(come emerge dallo stesso sito –alla pagina:
https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it–
per
impostazione predefinita il software “visualizza le immagini
di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte potrebbero
essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide
rispetto a quelle più recenti”);
●
della genericità delle informazioni relative ai metodi di
esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si
osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio
non risultano essere tratte dalle versioni più evolute del
software, predisposte per scopi commerciali).
... per l'annullamento:
a) dell’ordinanza n. 6 del 17.04.2014, prot. n. 606, con la
quale l’amministrazione comunale di Arzano ha dichiarato la
decadenza di S.S., P.S., C.S. dal permesso di costruire n. 5
del 18.01.2012, avente ad oggetto lavori di ampliamento
volumetrico residenziale in sopraelevazione al terzo piano
ed ampliamento di un balcone al secondo piano del fabbricato
sito alla via ... n. 23;
b) dell’ordinanza n. 4 del 18.04.2014, con la quale
l’amministrazione comunale ha ingiunto a S.S., P.S., C.S. la
demolizione delle opere contestate;
...
1. Il ricorso merita accoglimento.
2. Come esposto nella narrativa in fatto e come emerge dalla
documentazione versata in atti, il provvedimento
dichiarativo gravato –adottato a breve distanza di tempo dal
provvedimento di revoca di precedente, analoga
determinazione– reca a proprio fondamento le evidenze tratte
da Google Earth, tali da comprovare, ad avviso
dell’amministrazione, che alla data del 19.06.2013 (e,
dunque, oltre il termine annuale normativamente stabilito ai
fini dell’efficacia del titolo edilizio), i lavori non erano
iniziati, risultando il lastrico solare di copertura del
fabbricato de quo integro.
2.1. Il Collegio, in conformità all’orientamento espresso da
questa Sezione (cfr. sentenza n. 6118 del 27.11.2014;
sentenza n. 5331 del 22.11.2013), ritiene, in primo luogo di
sottolineare che i prefati rilevamenti, tratti da Google
Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza
di ulteriori elementi, ad una valutazione positiva al fine
di comprovare il presupposto di fatto assunto a
giustificativo del provvedimento impugnato e ciò, in
particolare, tenuto conto della provenienza del suddetto
rilevamento, delle incertezze in merito alla risalenza delle
immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina:
https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per
impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte
potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono
più nitide rispetto a quelle più recenti”), della
genericità delle informazioni relative ai metodi di
esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si
osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio
non risultano essere tratte dalle versioni più evolute del
software, predisposte per scopi commerciali).
2.2. Nel caso che ne occupa, peraltro, dalla documentazione
prodotta dalla difesa di parte ricorrente emergono
specifiche circostanze (prescrizioni contenute nel titolo
edilizio (e, segnatamente, quella indicata al punto 10,
lett. a); presentazione in data 10.09.2012 della
comunicazione di inizio dei lavori; stipulazione in data
05.07.2012 del contratto di appalto avente ad oggetto la
esecuzione dell’intervento assentito; nomina del direttore
dei lavori; dichiarazione del direttore dei lavori e del
titolare dell’impresa appaltatrice in merito al tempestivo
inizio delle attività; fattura dell’impresa del 05.07.2012 e
relativo assegno di pagamento del corrispettivo; richiesta
del rilascio dell’autorizzazione sismica da parte del Genio
Civile) che, congiuntamente considerate e associate
all’operato complessivo dell’amministrazione avrebbero
richiesto una più approfondita ponderazione al fine di
verificare la sussistenza dell’effettiva volontà dei
titolari del titolo edilizio a realizzare quanto progettato.
2.3. Né al fine di addivenire a diverse conclusioni può
essere attribuito dirimente rilievo, contrariamente a quanto
dedotto dalla difesa dell’ente resistente, ai tempi di
conclusione del procedimento di rilascio dell’autorizzazione
sismica e ciò sia in quanto tale giustificativo si sostanzia
in una inammissibile integrazione postuma della motivazione
sia, soprattutto, alla luce delle comunicazioni intercorse
tra gli interessati e l’amministrazione; il riferimento è,
in particolare, alla nota inviata dagli interessati
all’amministrazione comunale in data 10.09.2012 (all. 2
delle produzioni documentali di parte ricorrente), con la
quale è stato espressamente attestato che i lavori avrebbero
avuto “inizio solo al rilascio dell’autorizzazione
sismica”, conformemente, peraltro, alle prescrizioni
indicate nel permesso di costruire.
2.4. In tale quadro, infatti, l’operato dell’amministrazione
non si ritiene conforme ai principi di correttezza e buona
fede cui deve essere costantemente ispirato l'esercizio
della funzione, ciò anche in considerazione della
complessiva attività svolta, incluse le determinazioni
assunte nell’esercizio del potere di autotutela decisoria.
3. Illegittimamente, dunque, l’amministrazione comunale ha
adottato il provvedimento dichiarativo della decadenza del
permesso di costruire gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.04.2015 n. 2380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241
del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso
quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso
edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto,
ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere
ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera
di controllo; né si configurano particolari esigenze o
conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale
dell’interessato.
L’abusività dell’intervento realizzato appalesa, inoltre, di
per sé l’infondatezza del I motivo di gravame.
Al di là del fatto, che, contrariamente a quanto affermato
dal ricorrente, risulta documentato che il medesimo ha
presenziato alle attività di controllo espletate dal
personale della Polizia Municipale e che può imputare solo
alla sua negligenza l’omessa (formale) conoscenza dell’avvio
del procedimento sanzionatorio, peraltro avviato con
tempestività dal Comune di Udine (vedi all. 2, 3 e 5 –
fascicolo doc. Comune), il Collegio ritiene che il vizio di
omessa comunicazione di avvio del procedimento non possa, in
ogni caso, inficiare la legittimità del provvedimento
impugnato.
Invero, pur avendo ritenuto in una recente pronuncia (TAR
FVG, I, 19.12.2014, n. 658) di poter trarre
dall’omesso invio di tale comunicazione argomenti a supporto
della fondatezza dell’impugnazione proposta avverso l’ordine
di demolizione di una pergotenda del tutto provvisoria e
aperta su tutti i lati, adibita a protezione stagionale
dalla pioggia e dal sole, questo Collegio ritiene che non
sussistono validi motivi (non essendo stati esplicitati
nemmeno nell’isolato revirement dianzi citato) per
abbandonare l’orientamento consolidato, a mente del quale
“l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve
essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990,
trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale
sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi
di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge
in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo; né si
configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla
partecipazione procedimentale dell’interessato” (C.d.S. n.
2196/2014 cit.; in termini TAR FVG, I, n. 339/2013 e n.
498/2012)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 22.04.2015 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Invero, il riesame dell'abusività dell'opera provocato
dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento
di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi.
---------------
Ed infatti, come più sopra già si è accennato, la
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del
2011), già fatto proprio anche da questa Sezione (cfr. sentt.
n. 813 del 2012, n. 758 del 2013 e n. 457 del 2014), il
riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di
sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento
di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 16.04.2015 n. 595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Le eventuali ravvisate illegittimità
costituzionali di norme di rango primario non
esonerano le amministrazioni dalla doverosa
applicazione delle stesse norme (fino a quando non
intervenga un’abrogazione o una dichiarazione di
illegittimità costituzionale), a meno che esse non
siano “disapplicabili” in ragione di un loro
manifesto contrasto con il diritto dell’Unione
europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle
amministrazioni, come al giudice, si impone comunque
il dovere di interpretare ogni disposizione
dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo
costituzionalmente orientato, sicché, tra più
opzioni interpretative legittimamente percorribili,
risulterà sempre preferibile quella più rispettosa
delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e
dei valori costituzionali che lo informano.
---------------
I nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 31
DPR 380/2001 (con i quali è stato inserito un
ulteriore meccanismo di deterrenza rispetto
all’inadempimento delle ingiunzioni a demolire)
debbono ritenersi automaticamente applicabili in
Sicilia.
---------------
Il Consiglio ritiene che la sanzione amministrativa
pecuniaria introdotta dal nuovo comma 4-bis
dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 sia
“aggiuntiva”, ossia che essa si cumuli con le “altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti”, sulla
base delle osservazioni e delle considerazioni di
seguito sviluppate.
Invero, va rilevato che nell’alveo semantico
dell’imprecisa locuzione “altre misure e sanzioni
previste da norme vigenti” potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non
pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere
non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).
La sanzione pecuniaria di
cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta,
all’evidenza, proprio al fine di incentivare la
compliance (ossia la spontanea attivazione) dei
privati rispetto all’ordine di demolizione,
attraverso una coazione indiretta rappresentata da
una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente
sul patrimonio dei responsabili degli abusi
eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere
di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare
che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non
si possa più far luogo all’acquisizione e alla
demolizione sarebbe una conclusione abrogans e
contrastante, non solo con la lettera della legge,
ma anche con la stessa, riferita politica
legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno,
ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto
di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del
principio di specialità sia stato perimetrato
direttamente dal Legislatore, segnatamente
attraverso il ricorso alla precisazione “salva
l’applicazione di altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere
inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta
comunque salva cioè applicabile”, posto che,
diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel
corto circuito logico al quale si è sopra accennato
(ossia, si finirebbe per azzerare una delle due
sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità
tra la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis
dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione
d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima,
l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti
edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più
convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi
qualificabile come “misura” e non come “sanzione”,
dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si
porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi,
correlati all’operare del principio di specialità
tra le sanzioni.
In conclusione, l’avviso del
Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al
comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le
sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso
reale) a tutte le altre sanzioni e misure
eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come
sopra definito, con la sola eccezione delle
eventuali previsioni che dovessero comminare una
sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di
cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale
residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è
giustificata dal termine “altre” contenuto
nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il
principio di specialità, qualora ne ricorressero in
concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato
che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto
italiano) e generica terminologia utilizzata dal
Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i
conditores iuris abbiano inteso far riferimento con
l’uso della locuzione “altre misure”),
deve ritenersi che nell’insieme delle
“altre misure” rientrino tutti gli effetti e gli
atti di natura penale, amministrativa o civile
correlati all’inottemperanza a un’ordinanza di
demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede
un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le
possibili fattispecie, spetterà alle singole
amministrazioni verificare di volta in volta
l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità
delle “altre misure” con la sanzione pecuniaria di
cui al comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico.
---------------
Questo Consiglio osserva
che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto
–almeno dal punto di vista giuridico–
un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese
necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma
consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione
(indiretta dei responsabili degli abusi dei quali
sia stata constata l’omessa demolizione) e di
repressione delle condotte omissive prese in
considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001
si limita ad indicare la destinazione esclusiva e
obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione
delle sanzioni, ma non influisce sul regime
giuridico della relativa dosimetria, che è quello
dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe
costituire un indice sintomatico di eccesso di
potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle
amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di
demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione
pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione
del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo
unico, ossia non si sta facendo riferimento alla
comminatoria della sanzione per il caso di constata
inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare
collocazione all’interno dell’ingiunzione a
demolire); piuttosto si intende richiamare e
stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in
rapporto alle spese necessarie per far fronte alla
demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base
delle relative voci riportate nel "prezzario unico
regionale per i lavori pubblici" vigente.
Contro la prima proposta, si osserva che la
sanzione è un dispositivo giuridico consistente in
una reazione dell’ordinamento a una condotta
antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da
ciò discende che la concreta misura
della sanzione da irrogare deve essere stabilita
sempre successivamente alla condotta e non può mai
essere predeterminata
(fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria
stabilita ex ante dalla legge in misura fissa),
pena il frontale contrasto con i
fondamentali principi della personalità e della
proporzionalità della sanzione, sui quali riposa
anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo
dell’art. 11, nella cui economia applicativa
l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione,
per la demolizione e la risistemazione dei luoghi,
può unicamente rilevare nei termini della
valutazione pro reo da effettuare, in relazione
all'opera eventualmente svolta dall'agente per
l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze
della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31
accolla ai responsabili le spese della demolizione
(ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista
della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno
ingiusta la duplicazione della relativa pretesa
dell’amministrazione, una prima volta in sede di
sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda
volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio)
avvenuta.
---------------
Questo
Consiglio osserva che la
demolizione (ex art. 31) non si configura come un
esito obbligato dell’acquisizione delle opere
edilizie abusive e della relativa area di sedime.
Lo stesso comma 5 dell’art. 31 prevede
difatti la possibilità della conservazione delle
opere in presenza di dichiarati interessi pubblici
non contrastanti con quelli urbanistici e
ambientali.
---------------
Può tranquillamente
affermarsi che la sanzione
di cui al comma
4-bis dell’art. 31 non possa
trovare applicazione ai casi previsti e disciplinati
dall’art. 34 del Testo unico. Sebbene, infatti,
anche quest’ultima previsione contempli un’ipotesi
di demolizione, nondimeno prevale il principio di
tassatività delle sanzioni amministrative, scolpito
dall’art. 1, secondo comma, della citata L. n.
689/1981, in base al quale: “Le leggi che prevedono
sanzioni amministrative si applicano soltanto nei
casi e per i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della
ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis dell’art. 31
e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa
la riferibilità della sanzione soltanto
all’evenienza di un’inottemperanza, del responsabile
dell’abuso, a un’ingiunzione a demolire relativa a
illeciti interventi edilizi eseguiti in assenza di
permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali.
La condotta sanzionata dalla
previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è di
natura omissiva, ossia concerne la mancata
demolizione, da parte del responsabile dell’abuso,
entro il termine finale fissato dalla legge, delle
opere in cui si siano concretati gli illeciti
interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si
colloca –sotto i profili logico, cronologico e
giuridico– prima della eventuale demolizione
eseguita d’ufficio dal comune (demolizione
contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma,
anche prima della notificazione all’interessato
dello stesso verbale di accertamento
dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto
legale dell’acquisizione delle opere, non demolite
spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi
prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del
combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5
dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della
L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle
opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico,
si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti,
i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma
4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al
patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle
opere; b) conservazione delle opere in ragione di
prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i
presupposti, concessione del diritto di abitazione
degli immobili al responsabile dell’abuso.
---------------
Questo Consiglio
reputa di dover spendere alcune
brevi, considerazioni anche sul tema dell’”autorità
competente” a irrogare la sanzione di cui al comma
4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta
autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune.
A tale conclusione si perviene sulla base delle
seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione
della previsione nell’ambito di una disposizione che
disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in
assenza di differenti indicazioni ricavabili dal
dato positivo, il principio di concentrazione delle
competenze amministrative, che risulterebbe
gravemente vulnerato qualora l’attività di
repressione degli illeciti edilizi di cui all’art.
31 del Testo unico fosse frammentata tra varie
autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la
L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli
artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi
addetti al controllo sull'osservanza delle
disposizioni per la cui violazione è prevista la
sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che
indica il prefetto quale autorità di competenza
residuale nelle sole materie di competenza statale),
conduce a ritenere che il potere di irrogare la
sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al
rilascio del permesso di costruire e, comunque,
incaricato della potestà di vigilanza sul corretto
uso del territorio comunale.
---------------
OGGETTO: Applicazione dell’art. 31 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, come integrato dall'art. 17,
lettera q-bis), del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164 - Sanzioni conseguenti alla
inottemperanza all'ordinanza di demolizione di opere
abusivamente eseguite - Proposta di circolare.
...
PREMESSO
A. – Con nota prot. n. 2324, del 02.02.2015, pervenuta il
03.02.2015 e recante in calce il “visto”
dell’Assessore, il Dirigente generale del
Dipartimento dell’urbanistica dell’Assessorato
regionale del territorio e dell’ambiente (nel
prosieguo: Assessorato) ha richiesto a questo
Consiglio di esprimere un parere sulla questione
succintamente descritta in oggetto e, in
particolare, sulle soluzioni offerte nella bozza di
circolare allegata alla predetta nota.
B. – Per una migliore intelligenza delle problematiche sottoposte
al vaglio di questo Consiglio giova riferire che:
- con il decreto-legge 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164, sono state emanate, tra l’altro,
misure urgenti anche relative al settore
dell'edilizia, con l'intento di favorire la ripresa
economica e delle attività produttive.
In particolare, l'art. 17 del citato decreto,
rubricato “Semplificazioni ed altre misure in
materia edilizia”, al comma 1, lettera q-bis)
–lettera aggiunta dalla legge di conversione- ha
introdotto talune integrazioni all'art. 31 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, d’ora in poi: Testo unico), relativo agli
“Interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni
essenziali”, intese ad incentivare le attività
di vigilanza urbanistico-edilizia e la
semplificazione delle procedure volte
all'irrogazione di sanzioni ripristinatorie, a
fronte della consumazione e dell’accertamento di
illeciti legati all'abusivismo edilizio;
- le interpolazioni incidenti sull’art. 31 del Testo
unico sono state operate con il metodo della “novellazione”
e sono consistite, nell’inserimento –dopo il comma
4– di tre ulteriori commi dal seguente tenore: “4-bis.
L'autorità competente, constatata l'inottemperanza,
irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di
importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva
l'applicazione di altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi
realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al
comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree
soggette a rischio idrogeologico elevato o molto
elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La
mancata o tardiva emanazione del provvedimento
sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali,
costituisce elemento di valutazione della
performance individuale nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente.
4-ter. I proventi delle sanzioni di cui al comma
4-bis spettano al comune e sono destinati
esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.
4-quater. Ferme restando le competenze delle regioni
a statuto speciale e delle province autonome di
Trento e di Bolzano, le regioni a statuto ordinario
possono aumentare l'importo delle sanzioni
amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e
stabilire che siano periodicamente reiterabili
qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di
demolizione.”;
- in conseguenza e per effetto delle riferite,
recenti modifiche legislative,
l’art. 31
–che, come sopra accennato, disciplina la procedura
dell’ingiunzione a demolire e delle conseguenze
dell’eventuale inottemperanza a detta ingiunzione,
nel caso di interventi edilizi eseguiti in assenza
di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali– si è
arricchito della previsione di una sanzione
amministrativa pecuniaria, di importo compreso tra
2.000 euro e 20.000 euro, da comminarsi a carico del
responsabile dell'abuso una volta decorso il temine
perentorio di novanta giorni dall'ingiunzione, per
il caso di “constatata … inottemperanza”
all’ordine di demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi.
C. – L’Assessorato richiedente, con la bozza di circolare in parola
–affermata l’appartenenza della materia
sanzionatoria all’esclusiva competenza legislativa
statale (con la conseguenza della diretta
applicabilità delle nuove disposizioni
nell’ordinamento regionale siciliano, senza
necessità di alcuna norma di recepimento)–, intende
rispondere all’esigenza di fornire chiarimenti in
ordine alle perplessità, rappresentate dal alcune
amministrazioni locali dell’Isola, circa la natura
della sanzione prevista dal nuovo comma 4-bis del su
richiamato art. 31 del Testo unico.
Più in dettaglio, nella ridetta
bozza di circolare, l’Assessorato
–oltre a richiamare le amministrazioni interessate a
una puntuale e tempestiva osservanza del sunnominato
art. 31, siccome novellato- ha
esposto le seguenti considerazioni:
1) la sanzione amministrativa
pecuniaria, prevista oggi dal comma 4-bis dell’art.
31, dovrebbe reputarsi aggiuntiva rispetto ad altre
sanzioni eventualmente stabilite, per la medesima
violazione, dall’ordinamento
(dovendosi interpretare in questo senso l’inciso
normativo "… salva l'applicazione di altre misure
e sanzioni previste da norme vigenti", contenuto
nel primo periodo del sunnominato comma 4-bis);
2) la sanzione in discorso
costituirebbe una sorta di anticipazione, a titolo
risarcitorio, delle spese necessarie al ripristino
dello stato dei luoghi; la nuova sanzione
pecuniaria, difatti, sarebbe stata introdotta al
fine di assicurare ai bilanci dei Comuni adeguate
risorse finanziarie per far fronte tempestivamente
alle demolizioni d'ufficio,
come si desumerebbe dal comma 4-ter che riserva i
proventi derivanti dalla sanzione "alla
demolizione e rimessione in pristino delle opere
abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree
destinate a verde pubblico";
3) alla demolizione, in caso di
inerzia del responsabile dell’abuso, dovranno
provvedere direttamente le amministrazioni locali,
con potere di rivalsa, per le spese sostenute, nei
confronti del contravventore rimasto inadempiente;
4) per ragioni di opportunità le
amministrazioni competenti dovrebbero aver cura di
evidenziare in seno all'ordinanza di demolizione,
oltre alle conseguenze (come l’acquisizione gratuita
delle opere e delle aree) derivanti dall’eventuale
inottemperanza all’ingiunzione entro il termine
previsto dalla legge, anche l'ammontare della
ulteriore sanzione pecuniaria da quantificare (fatti
salvi i casi previsti dall'art. 2, comma 27, del
Testo unico, per i quali si applicherà sempre la
misura massima) in forma presuntiva e da commisurare
alle spese necessarie per far fronte alla
demolizione e alla sistemazione dei luoghi, sulla
base delle relative voci riportate nel "prezzario
unico regionale per i lavori pubblici" vigente;
5) la previsione sanzionatoria in
argomento troverebbe applicazione anche con riguardo
alle fattispecie previste, rispettivamente, dal
comma 5 dello stesso art. 31 e dall'art. 4 della
L.R. 31.05.1994, n. 17 (diritto di abitazione), ma
non al caso degli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, di cui
all’art. 34 del Testo unico
(ferma restando, anche in quest’ultima ipotesi,
l'imputazione a carico del responsabile dell'abuso
delle spese di demolizione e di inottemperanza
all'ordinanza).
L’Assessorato ha chiesto di conoscere il parere di
questo Consiglio in ordine al riferito contenuto
della futura circolare.
CONSIDERATO
1. – In via preliminare questo Consiglio non può astenersi dal
richiamare l’attenzione dell’Assessorato sulla
necessità che le circolari amministrative, al pari
di tutti gli atti amministrativi, siano ben scritte,
correndosi altrimenti il rischio di insinuare, nei
destinatari, dubbi anche sulla attendibilità delle
soluzioni giuridiche proposte.
Affinché un qualunque testo di contenuto giuridico
possa ritenersi ben scritto occorre, tra l’altro,
eliminare -ovunque ricorrano- gli errori
grammaticali (nella fattispecie, “provincie”
in luogo di “province”, negli indirizzi
contenuti nell’incipit della circolare),
bisogna poi utilizzare un preciso lessico giuridico
(nella bozza l’uso dell’espressione “reati penali”,
invece di “reati”, sottintende un grave
errore concettuale, non conoscendo il nostro
ordinamento figure di reati “non penali”), si
deve controllare poi l’esattezza degli estremi delle
fonti normative citate (ad esempio, “art. 27,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001” al posto
dell’inesistente “art. 2, comma 27, del D.P.R.
380/2001”) e, infine, è indispensabile curare
gli aspetti formali e “protocollari”
dell’atto (nel caso in esame, balza agli occhi,
nell’elenco delle Autorità alle quali dovrebbe
essere indirizzata la futura circolare, l’errata
indicazione delle corrette denominazioni di “Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia”, per la
sede di Palermo, e di “Tribunale amministrativo
regionale per la Sicilia – Sezione staccata di
Catania”).
Non ultimo si richiama l’attenzione sul rispetto
delle disposizioni impartite con la circolare del
Presidente del Consiglio dei Ministri del
02.05.2001, n. 1088, recante la “Guida alla
redazione dei testi normativi”, pubblicata nella
G.U.R.I., Serie Generale, n. 101 del 03.05.2001,
S.O. n. 105.
2. – Esaurite le doverose (ma non irrilevanti) considerazioni in
ordine al drafting della bozza di circolare,
può passarsi ad esaminare il merito dei quesiti, non
senza previamente precisare in via generale che
questo Consiglio, rispettivamente, può e deve
esprimere il proprio parere su “affari” che
gli siano sottoposti dalla Regione siciliana e sui “regolamenti”
regionali, ma non anche sulle “circolari”.
Sennonché, all’insegna della leale collaborazione
che sempre ha ispirato i rapporti tra Regione
siciliana e questo Consiglio, si reputa di poter
considerare la bozza di circolare in discorso alla
stregua di un mero veicolo di questioni giuridiche
di interesse generale. In questa prospettiva
l’affare può essere, pertanto, esaminato.
3. – Seguendo un rigoroso ordine logico, la
prima questione da affrontare, sebbene non
prospettata dall’Assessorato, concerne l’effettiva
applicabilità, nell’ordinamento isolano, delle
disposizioni recate dal sunnominato art. 17 del D.L.
n. 133/2014. Sul punto, come sopra riferito,
l’Assessorato in sostanza ha mostrato di
ritenere
(nel primo paragrafo della circolare)
che la lett. q-bis) del ridetto art. 17
rechi previsioni afferenti, sia pur indirettamente,
alla materia penale e, quindi, come tali riservate
all’esclusiva competenza legislativa statale.
Al riguardo questo Consiglio
ritiene che l’argomentare dell’Assessorato non sia
condivisibile né convincente, apparendo al contrario
evidente che l’introduzione di una sanzione
amministrativa per una condotta che concerne un
posterius rispetto all’illecito costituito
dall’edificazione in assenza del permesso di
costruire (o in difformità o con variazione
essenziale rispetto a quest’ultimo) non giustifichi
affatto l’evocazione della riserva statale in
materia penale.
In proposito, è sufficiente
osservare che, nella più parte delle fattispecie di
illeciti edilizi, la normativa urbanistica di ogni
livello –da quella statale o regionale di rango
primario, passando per le prescrizioni contenute nei
piani e regolamenti comunali, fino a quanto sia
dettagliato nel singolo provvedimento concessorio
rilasciato al contravventore
(v. l’art. 44, comma 1, lett. a) e b), del Testo
unico, che punisce “l’inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità esecutive previste … dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e
dal permesso di costruire”, nonché la “esecuzione
dei lavori in totale difformità o assenza del
permesso” stesso)– costituisce
un c.d. “elemento integrativo” del precetto
penale, ossia un dato sostanzialmente esterno al
precetto sanzionatorio che quest’ultimo si limita a
presupporre e presidiare ab extra
(C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013, n. 206/11).
Non vale tuttavia indugiare su una diffusa
confutazione delle riferite tesi patrocinate
dall’Assessorato (in relazione alle quali difetta,
peraltro, una richiesta di parere) e occorre,
invece, verificare unicamente se possano ritenersi
vigenti, anche in Sicilia, in assenza di una norma
legislativa regionale di recepimento, le previsioni
di cui alla lett. q-bis) del ridetto art. 17 del
D.L. n. 133/2014.
Deve, invero, ritenersi che la soluzione di tale
questione, investendo un profilo pregiudiziale,
condizioni lo scrutinio delle altre espressamente
prospettate dall’Assessorato: risulterebbe, invero,
inutile affrontare l’esegesi di una disposizione
statale che fosse inapplicabile nell’Isola.
Al riguardo si impone di principiare dall’esame
della giurisprudenza di questo Consiglio che, in
sede giurisdizionale e consultiva, ha affermato
–diversamente da quanto opinato dall’Assessorato-
l’inapplicabilità, in sé, del Testo unico n. 380 del
2001 nel territorio siciliano. Occorre difatti
considerare che lo Statuto della Regione siciliana,
all’art. 14, attribuisce alla competenza legislativa
esclusiva della stessa Regione la materia “urbanistica”
(lett. f); nonché altresì anche le ulteriori materie
concernenti: “tutela del paesaggio; conservazione
delle antichità e delle opere artistiche” (lett.
n).
In tali ambiti, ai quali va ricondotta anche la
materia dell’edilizia (oltre a quella
dell’urbanistica), le leggi statali non si applicano
in Sicilia, se non in quanto siano richiamate –ed
eventualmente in tale sede anche modificate– da una
legge regionale (C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013,
n. 206/11, cit.).
Orbene, mentre non risulta ancora recepito
nell’ordinamento isolano il Testo unico, è stata
invece recepita la legge 28.02.1985, n. 47, mercé la
L.R. 10.08.1985, n. 37 (nuove norme in materia di
controllo dell’attività urbanistico-edilizia,
riordino urbanistico e sanatoria delle opere
abusive), il cui art. 1, comma 1, testualmente
recita: “La legge 28.02.1985, n. 47, … e
successive modifiche ed integrazioni, ad eccezione
degli articoli 3, 5, 23, 24, 25, 29 e 50, si applica
nella Regione siciliana con le sostituzioni,
modifiche ed integrazioni di cui alla presente legge”.
Questo Consiglio ha chiarito, in
più occasioni
(anche nel parere in ultimo citato, ma pure in
C.G.A., sez. giurisd., 25.05.2009, n. 488),
che la formula “successive modifiche ed
integrazioni” (o analoga) con cui il Legislatore
regionale opera, talora, il rinvio alla disciplina
statale di rango primario, costituisce un indice di
un’obiettivata volontà di effettuare un rinvio “mobile”
e “dinamico” alla fonte statale di volta in
volta menzionata; ossia un rinvio che si estende,
automaticamente, a tutte le modificazioni e
integrazioni future della disciplina evocata e,
pertanto, anche alle modifiche e integrazioni
sopravvenute all’introduzione del dispositivo
normativo di rinvio: ciò al fine di consentire un
continuo adeguamento dell’ordinamento regionale
all’evoluzione normativa in ambito statale,
attraverso una disciplina elastica e costantemente
raccordata con il contesto giuridico di riferimento.
D’altronde anche il rinvio “mobile” alla
legislazione statale (e il conseguente adeguamento “dinamico”
a essa della legislazione regionale che opera il
rinvio) è una valida modalità di esercizio delle
potestà normative regionali, dal momento che il
meccanismo di rinvio può essere in ogni momento
revocato (mediante successiva legge regionale).
Nel riferito quadro di principi va calata
l’ulteriore considerazione che nell’art. 31 del
Testo unico, nel quale sono stati interpolati i
nuovi commi introdotti dalla lett. q-bis)
sunnominata, è transitato tutto il contenuto
precettivo dell’art. 7 della legge n. 47/1985.
Ebbene, l’art. 7, fino all’originario settimo comma,
è stato recepito il Sicilia per effetto della
sunnominata L.R. n. 37/1985, il cui art. 3 ha
sostituito con tre commi l’originario comma ottavo
della legge n. 47/1985.
Si può quindi affermare che, in
relazione a quella parte della disciplina recata
dall’art. 7 -ossia alla dispositivo che va dal primo
al quinto comma e che più interessa l’oggetto della
richiesta di parere- l’art. 31 del Testo unico deve
reputarsi un mero aggiornamento dell’art. 7 della
legge n. 47/1985 e che, dunque, anche l’art. 31
(nella ridetta parte) è sicuramente applicabile in
Sicilia e che di siffatto articolo in parte qua
devono reputarsi applicabili anche le “successive
modifiche e integrazioni”.
Completa il ragionamento fin qui sviluppato
l’osservazione che la volontà esternata dal
Legislatore statale e la stessa tecnica utilizzata (id
est, quella della novellazione) evidenziano il
chiaro intento di intervenire sull’assetto normativo
dei primi commi dell’art. 31 e, segnatamente, sulla
disciplina del procedimento repressivo degli
interventi eseguiti in assenza di premesso di
costruire o in totale difformità o con variazioni
essenziali.
Da ciò discende conclusivamente che
pure i nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art.
31 (con i quali è stato inserito un ulteriore
meccanismo di deterrenza rispetto all’inadempimento
delle ingiunzioni a demolire) debbono ritenersi
automaticamente applicabili in Sicilia per effetto
di quel sistema di rinvio dinamico del quale si è
dato sopra conto.
Stante l’autonomia valutativa dell’Autorità
richiedente e la natura non vincolante del presente
parere, si rimette, quindi, all’Assessorato la
scelta in ordine alla conservazione –nel terzo
periodo del primo paragrafo della bozza di
circolare- delle (erronee, ad avviso di questo
Consiglio) motivazioni per le quali le nuove norme
statali sarebbero applicabili anche in Sicilia,
oppure alla riformulazione del paragrafo in
questione, attraverso il recepimento, sia pur in
forma sintetica (tramite, ad esempio, rinvio per
relationem al presente parere), degli argomenti
giuridici sopra spiegati.
4. - Con il quesito riportato sub C.1),
l’Assessorato ha chiesto, in sostanza, a questo
Consiglio di rendere un’interpretazione della
clausola normativa, riportata nel nuovo comma 4-bis
dell’art. 31 ("… salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti"):
in particolare, l’Assessorato si è interrogato sulla
natura “aggiuntiva”, o no, della sanzione
amministrativa ivi disciplinata, ossia delle sua
cumulabilità, o no, rispetto alle altre misure e
sanzioni previste dall’ordinamento.
Per rispondere ai dubbi esegetici prospettati
dall’Assessorato, occorre dapprima soffermare
l’attenzione sulla circostanza che la sanzione in
parola è stata espressamente definita dal
Legislatore come “amministrativa pecuniaria”.
Siffatta qualificazione, sul versante sistematico,
porta l’interprete a rinvenire nella L. 24.11.1981,
n. 689 il quadro dei principi generali della
relativa disciplina. Come si avrà modo di
argomentare nel prosieguo, tale inquadramento
sistematico dell’istituto consente di far luce su
alcune criticità segnalate dall’Autorità
richiedente.
Tanto premesso, va poi ulteriormente osservato come
la redazione normativa del nuovo comma 4-bis non
brilli obiettivamente per chiarezza. Le perplessità
manifestate dall’Assessorato poggiano, in effetti,
su un dato letterale obiettivamente opaco il cui
portato interpretativo è anfibologico: il vocabolo “salva”
potrebbe invero sorreggere due esegesi completamente
divergenti e tra loro incompatibili.
Più in dettaglio, il termine “salva” potrebbe
intendersi nel senso di “a meno che” (nei
termini, cioè, di una c.d. “clausola di riserva”)
e, quindi, significare che la sanzione non si
applichi laddove l’ordinamento preveda “altre
misure e sanzioni” (e in questa prospettiva la
sanzione sarebbe “alternativa”); oppure il
termine “salva” potrebbe voler dire “fatta
comunque applicabile”, sicché –oltre alla
sanzione amministrativa pecuniaria (che risulterebbe
pertanto “aggiuntiva”)- troverebbero
applicazione anche le “altre misure e sanzioni”.
Le incertezze si addenserebbero soprattutto attorno
a detto secondo approdo interpretativo, avendo
l’Assessorato ritenuto (si fa qui riferimento al
contenuto della surricordata nota, prot. n. 2324,
del 02.02.2015) che un eventuale cumulo della
demolizione coattiva, della sanzione amministrativa
pecuniaria e delle “altre misure e sanzioni”
finisca per dare luogo a un potenziale repressivo
non proporzionato per eccesso e, dunque, come tale,
in odore di illegittimità costituzionale, anche per
contrasto con ben noti principi, valevoli per tutto
il diritto punitivo (senza distinzione tra sanzioni
penali o amministrative) enunciati in sede europea.
A tal riguardo, pur non apparendo privi di
suggestione alcuni dei dubbi sollevati
dall’Assessorato, va tuttavia ricordato che,
ovviamente, le eventuali, ravvisate
illegittimità costituzionali di norme di rango
primario non esonerano le amministrazioni dalla
doverosa applicazione delle stesse norme (fino a
quando non intervenga un’abrogazione o una
dichiarazione di illegittimità costituzionale), a
meno che esse non siano “disapplicabili” in
ragione di un loro manifesto contrasto con il
diritto dell’Unione europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle
amministrazioni, come al giudice, si impone comunque
il dovere di interpretare ogni disposizione
dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo
costituzionalmente orientato, sicché, tra più
opzioni interpretative legittimamente percorribili,
risulterà sempre preferibile quella più rispettosa
delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e
dei valori costituzionali che lo informano.
Muovendo dalle coordinate esegetiche sopra
tratteggiate, il Consiglio ritiene
che la sanzione amministrativa pecuniaria introdotta
dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001 sia “aggiuntiva”, ossia che essa si
cumuli con le “altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti”, sulla base delle osservazioni
e delle considerazioni di seguito sviluppate.
Innanzitutto va rilevato che
nell’alveo semantico dell’imprecisa locuzione “altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti”
potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non
pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere
non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).
In via generale e in primo luogo i rapporti tra le
sanzioni indicate nelle precedenti lettere a) e b)
rinvengono una, non esaustiva, disciplina nell’art.
9 della su richiamata L. n. 689/1981, rubricato “Principio
di specialità”, i cui primi due commi
dispongono: “Quando uno stesso fatto è punito da
una disposizione penale e da una disposizione che
prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una
pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni
amministrative, si applica la disposizione speciale.
Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una
disposizione penale e da una disposizione regionale
o delle province autonome di Trento e di Bolzano che
preveda una sanzione amministrativa, si applica in
ogni caso la disposizione penale, salvo che
quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di
altre disposizioni penali.”.
Il fondamentale criterio applicativo del sunnominato
art. 9 –dedicato al c.d. “concorso apparente di
norme”– si basa, all’evidenza, sul concetto di “stesso
fatto”, in relazione al quale la giurisprudenza
ha avuto ripetute occasioni per affermare, anche in
tempi risalenti, che:
- il concorso apparente, previsto dall'art. 9, è
soggetto al principio di specialità, cioè
all'applicazione della disposizione di natura
speciale, e presuppone che le norme medesime
prendano in considerazione e puniscano lo "stesso
fatto", così che, in presenza di fattispecie che
presentino un elemento di diversità, ancorché
coincidenti in tutto od in parte con riguardo alla
condotta del trasgressore, si deve ravvisare un
concorso effettivo, non apparente, con applicazione
delle rispettive sanzioni (ovvero, se si tratti di
concorso formale, ai sensi dell'art. 8 della citata
legge, della sanzione per la violazione più grave
aumentata sino al triplo; v. Cass. civ., sez. I,
10.09.1991, n. 9494);
- lo “stesso fatto” ricorre allorquando il
medesimo accadimento concreto, inteso come evento
storicamente determinato, possa integrare il
contenuto descrittivo di diverse previsioni
legislative astratte a carattere sanzionatorio, con
la conseguenza che il concorso apparente è escluso
nel caso in cui i fatti ipotizzati dalla fattispecie
astratta siano diversi nella loro materialità, nella
loro oggettività giuridica, ovvero quando la norma
che regola un fatto contenga una clausola di riserva
o, infine, quando la norma che prevede una
fattispecie di illecito faccia riferimento solo
quoad poenam ad altra norma prevedente diversa
fattispecie (Cass. civ., sez. II, 16.02.2009, n.
3745).
Ebbene, soprattutto alla stregua dei principi
enunciati dal Supremo Collegio e da ultimo
richiamati, è possibile
ricostruire, in via sistematica, la trama delle
relazioni che legano la sanzione, il cui ambito di
applicazione costituisce oggetto della richiesta di
parere, alle altre previsioni sanzionatorie in
astratto applicabili.
Invero, generalizzando i suddetti principi, si
giunge alla conclusione secondo cui
la specialità di cui all’art. 9 della L. n.
689/1981 (si noti che la disposizione non distingue,
quanto alla sua applicabilità, tra sanzioni
amministrative pecuniarie e non pecuniarie) non
operi allorquando:
a) sia diverso il “fatto” da punire oppure
b) sia lo stesso ordinamento a precluderne in via
normativa gli effetti.
Sicuramente, nella fattispecie, non viene in rilievo
la prima causa ostativa all’operare del principio di
specialità. Non è seriamente controvertibile,
infatti, che la demolizione d’ufficio dei manufatti
acquisiti (in conseguenza dell’inottemperanza a un
ordine di demolizione) consista in una sanzione
amministrativa, ancorché non pecuniaria, dal momento
che siffatta demolizione mutua la natura del
relativo ed omologo ordine disposto dal giudice
penale a norma del comma 9 dell’art. 31 del Testo
unico (a proposito della quale la Corte di
cassazione ha avuto modo di affermare che si tratta
di sanzione amministrativa a carattere reale e a
contenuto ripristinatorio; v., tra le altre
decisioni, Cass. pen., sez. III, 21.10.2009, n.
47281); nemmeno può, del resto, obliterarsi la
circostanza, nel caso che occupa il Consiglio, il “fatto”
perseguito sia assai specifico e ben descritto dalla
legge; si tratta infatti dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire, constata
dall’amministrazione procedente.
Se, dunque, si facesse riferimento soltanto a tale
aspetto, non si ravviserebbe alcun ostacolo
all’applicazione del principio di specialità, con la
conseguenza di rendere comunque inapplicabile o il
comma 4-bis o il comma 5 dell’art. 31 del Testo
unico (a seconda delle valutazioni circa
l’individuazione della norma speciale tra le due
indicate).
Qualunque interprete non potrebbe, tuttavia, non
convenire sull’assurdità di una conclusione
siffatta, atteso che essa si porrebbe manifestamente
in contrasto sia con la lettera della legge (che
colloca, all’interno di un unico articolo, la
sanzione amministrativa pecuniaria e pure quella
amministrativa “ripristinatoria”) sia con la
fondamentale ratio di supporto del recente
intervento legislativo che, all’evidenza, è stata
quella di rafforzare -colpendo con la comminatoria
di una punizione di natura pecuniaria le inerzie dei
destinatari sanzionati- i presidi normativi a
garanzia dell’ottemperanza alle ingiunzioni a
demolire: la sanzione pecuniaria di
cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta,
all’evidenza, proprio al fine di incentivare la
compliance (ossia la spontanea attivazione) dei
privati rispetto all’ordine di demolizione,
attraverso una coazione indiretta rappresentata da
una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente
sul patrimonio dei responsabili degli abusi
eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere
di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare
che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non
si possa più far luogo all’acquisizione e alla
demolizione sarebbe una conclusione abrogans
e contrastante, non solo con la lettera della legge,
ma anche con la stessa, riferita politica
legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno,
ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto
di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del
principio di specialità sia stato perimetrato
direttamente dal Legislatore, segnatamente
attraverso il ricorso alla precisazione “salva
l’applicazione di altre misure e sanzioni previste
da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere
inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta
comunque salva cioè applicabile”, posto che,
diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel
corto circuito logico al quale si è sopra accennato
(ossia, si finirebbe per azzerare una delle due
sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità tra la
sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis
dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione
d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima,
l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti
edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più
convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi
qualificabile come “misura” e non come “sanzione”,
dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si
porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi,
correlati all’operare del principio di specialità
tra le sanzioni.
In conclusione, l’avviso del
Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al
comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le
sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso
reale) a tutte le altre sanzioni e misure
eventualmente previste per lo stesso “fatto”,
come sopra definito, con la sola eccezione delle
eventuali previsioni che dovessero comminare una
sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di
cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale
residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è
giustificata dal termine “altre” contenuto
nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il
principio di specialità, qualora ne ricorressero in
concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato
che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto
italiano) e generica terminologia utilizzata dal
Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i
conditores iuris abbiano inteso far
riferimento con l’uso della locuzione “altre
misure”), deve ritenersi che
nell’insieme delle “altre misure” rientrino
tutti gli effetti e gli atti di natura penale,
amministrativa o civile correlati all’inottemperanza
a un’ordinanza di demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede
un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le
possibili fattispecie, spetterà alle singole
amministrazioni verificare di volta in volta
l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità
delle “altre misure” con la sanzione
pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 del
Testo unico,
invocando semmai nei casi dubbi, per tramite
dell’Assessorato, un nuovo intervento consultivo di
questo Consiglio.
5. – I quesiti formulati sub C.2) e C.3) -la cui stretta
embricazione logica ne consente una trattazione
congiunta– intercettano essenzialmente problematiche
di dosimetria sanzionatoria. L’Assessorato ritiene
che la previsione punitiva in discorso consista in
una sorta di anticipazione, a titolo risarcitorio,
delle spese necessarie al ripristino dello stato dei
luoghi e tale finalismo normativo risulterebbe
evidente dalla circostanza che l’introduzione della
sanzione avrebbe lo scopo di fornire ai Comuni
adeguate risorse finanziarie per far fronte alle
demolizioni d'ufficio, come si desumerebbe dal
successivo comma 4-ter del medesimo art. 31.
Muovendo da tale premessa, l’Assessorato suggerisce
come opportuna l’indicazione, da parte delle
amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di
demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione
pecuniaria, da quantificare in forma presuntiva e da
commisurare alle spese necessarie per far fronte
alla demolizione e alla sistemazione dei luoghi,
sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario
unico regionale per i lavori pubblici" vigente.
Questo Consiglio dissente recisamente sia dalla
premessa sia dalle conclusioni del riferito
argomentare. Appare evidente come le considerazioni
sviluppate dall’Assessorato poggino su un’indebita
sovrapposizione di piani che, invece, dal punto di
vista giuridico, devono rimanere del tutto distinti.
Segnatamente l’Assessorato ritiene che lo scopo
della previsione della sanzione sia quello di
procurare entrate ai bilanci delle amministrazioni
comunali onde consentire loro di provvedere alle
esecuzioni d’ufficio delle demolizioni.
Orbene, questo Consiglio non esclude che quello
appena indicato possa esser stato l’obiettivo di
politica legislativa che abbia giustificato
l’introduzione della sanzione in esame, ma la
circostanza, quand’anche ipoteticamente rispondente
al vero, sarebbe in ogni caso poco rilevante, in
quanto –una volta entrate a far parte
dell’ordinamento giuridico- le disposizioni vivono
di vita propria, cioè dispongono in modo autonomo
rispetto alle finalità ipoteticamente avute di mira
dal Legislatore e pure spiegano gli effetti che sono
ad esse obiettivamente riconducibili sulla base
dell’applicazione delle regole che governano
l’interpretazione della legge.
Tanto chiarito, va osservato che
gli unici scopi, costituzionalmente legittimi, che
può avere una sanzione, amministrativa o penale,
sono quelli della retribuzione giuridica del
responsabile, nonché della prevenzione generale e
speciale (mentre la primaria finalità delle pene è
la rieducazione del condannato ex art. 27 Cost.). In
nessun caso la sanzione può trovare giustificazione
nell’esigenza di fronteggiare immediate finalità di
bilancio.
Sebbene la cronaca offra spesso esempi di improprio
utilizzo delle sanzioni per esigenze di copertura
dei disavanzi degli enti locali (specialmente nella
materia della circolazione stradale),
deve tuttavia ritenersi che applicare le
previsioni sanzionatorie per la soddisfazione di
dette esigenze non sia semplicemente inopportuno, ma
del tutto abnorme e in radicale contrasto con i
principi sui quali si fonda l’intero diritto
punitivo.
Ai bisogni finanziari di un ente pubblico deve
piuttosto provvedersi con il ricorso agli strumenti
predisposti a tal fine quali il procacciamento di
entrate tributarie o l’alienazione di cespiti
patrimoniali o il ricorso all’indebitamento, ove
consentito; l’uso per questo fine delle sanzioni
potrebbe ridurre, anzi, l’efficacia dissuasiva delle
medesime, posto che i destinatari di esse
percepirebbero il relativo esercizio del potere
repressivo come ingiusto e non proporzionato.
Ciò non significa, si badi bene, che non si possa
stabilire in via legislativa quale debba essere la
destinazione dei proventi delle sanzioni irrogate e
riscosse (siccome dispone, nel caso in esame, il
comma 4-ter del novellato art. 31) e, però, il alcun
modo siffatta destinazione può interferire,
all’inverso, sul regime legale di determinazione e
di quantificazione della sanzione.
Tale regime, nell’ordinamento italiano, trova
infatti una compiuta disciplina generale nell’art.
11 della citata L. n. 689/1981, rubricato “Criteri
per l'applicazione delle sanzioni amministrative
pecuniarie”, secondo cui: “Nella
determinazione della sanzione amministrativa
pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo
ed un limite massimo e nell'applicazione delle
sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla
gravità della violazione, all'opera svolta
dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle
conseguenze della violazione, nonché alla
personalità dello stesso e alle sue condizioni
economiche.”.
Riesaminate pertanto, alla stregua dei superiori
rilievi, le affermazioni contenute nella bozza di
circolare, questo Consiglio osserva
che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto
–almeno dal punto di vista giuridico–
un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese
necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma
consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione
(indiretta dei responsabili degli abusi dei quali
sia stata constata l’omessa demolizione) e di
repressione delle condotte omissive prese in
considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001
si limita ad indicare la destinazione esclusiva e
obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione
delle sanzioni, ma non influisce sul regime
giuridico della relativa dosimetria, che è quello
dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe
costituire un indice sintomatico di eccesso di
potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle
amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di
demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione
pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione
del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo
unico, ossia non si sta facendo riferimento alla
comminatoria della sanzione per il caso di constata
inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare
collocazione all’interno dell’ingiunzione a
demolire); piuttosto si intende richiamare e
stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in
rapporto alle spese necessarie per far fronte alla
demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base
delle relative voci riportate nel "prezzario
unico regionale per i lavori pubblici" vigente.
Contro la prima proposta, si osserva che la
sanzione è un dispositivo giuridico consistente in
una reazione dell’ordinamento a una condotta
antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da
ciò discende che la concreta misura
della sanzione da irrogare deve essere stabilita
sempre successivamente alla condotta e non può mai
essere predeterminata
(fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria
stabilita ex ante dalla legge in misura
fissa), pena il frontale contrasto
con i fondamentali principi della personalità e
della proporzionalità della sanzione, sui quali
riposa anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo
dell’art. 11, nella cui economia applicativa
l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione,
per la demolizione e la risistemazione dei luoghi,
può unicamente rilevare nei termini della
valutazione pro reo da effettuare, in relazione
all'opera eventualmente svolta dall'agente per
l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze
della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31
accolla ai responsabili le spese della demolizione
(ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista
della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno
ingiusta la duplicazione della relativa pretesa
dell’amministrazione, una prima volta in sede di
sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda
volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio)
avvenuta.
6. – L’ultima considerazione introduce al punto sub C.3), laddove
l’Assessorato ha ritenuto di dover chiarire che alla
demolizione, in caso di inerzia del responsabile
dell’abuso, dovranno provvedere direttamente le
amministrazioni locali, con potere di rivalsa, per
le spese sostenute, nei confronti del contravventore
rimasto inadempiente.
Sul punto questo Consiglio osserva unicamente che
la demolizione non si configura come un
esito obbligato dell’acquisizione delle opere
edilizie abusive e della relativa area di sedime
(v., infra, il §. 7). Lo stesso
comma 5 dell’art. 31 prevede difatti la possibilità
della conservazione delle opere in presenza di
dichiarati interessi pubblici non contrastanti con
quelli urbanistici e ambientali.
7. – Con il quesito sub C.5), l’Assessorato ha chiesto una conferma
in merito all’applicabilità della sanzione di cui al
comma 4-bis dell’art. 31 anche con riguardo:
a) alle fattispecie previste dal comma 5 dello
stesso art. 31;
b) alla fattispecie di cui all'art. 4 della legge
regionale 31.05.1994, n. 17.
L’Assessorato ha, poi, osservato che la medesima
sanzione non sarebbe invece applicabile al caso
degli interventi eseguiti in parziale difformità dal
permesso di costruire, di cui all’art. 34 del Testo
unico (ferma restando però l'imputazione a carico
del responsabile dell'abuso delle spese di
demolizione e di inottemperanza all'ordinanza).
Sovvertendo, per esigenze di economia motivazionale,
l’ordine delle questioni sollevate dall’Assessorato
può tranquillamente affermarsi che la
sanzione non possa trovare applicazione ai casi
previsti e disciplinati dall’art. 34 del Testo
unico. Sebbene, infatti, anche quest’ultima
previsione contempli un’ipotesi di demolizione,
nondimeno prevale il principio di tassatività delle
sanzioni amministrative, scolpito dall’art. 1,
secondo comma, della citata L. n. 689/1981, in base
al quale: “Le leggi che prevedono sanzioni
amministrative si applicano soltanto nei casi e per
i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della
ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis
dell’art. 31 e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa la
riferibilità della sanzione soltanto all’evenienza
di un’inottemperanza, del responsabile dell’abuso, a
un’ingiunzione a demolire relativa a illeciti
interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso
di costruire, in totale difformità o con variazioni
essenziali.
I quesiti di cui sub a) e b) impongono una risposta
affermativa nei termini di seguito specificati. Ed
invero, oltre a richiamare quanto sopra osservato
(v., supra, il §. 4), vale in aggiunta
ribadire che la condotta sanzionata
dalla previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è
di natura omissiva, ossia concerne la mancata
demolizione, da parte del responsabile dell’abuso,
entro il termine finale fissato dalla legge, delle
opere in cui si siano concretati gli illeciti
interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si
colloca –sotto i profili logico, cronologico e
giuridico– prima della eventuale demolizione
eseguita d’ufficio dal comune (demolizione
contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma,
anche prima della notificazione all’interessato
dello stesso verbale di accertamento
dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto
legale dell’acquisizione delle opere, non demolite
spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi
prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del
combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5
dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della
L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle
opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico,
si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti,
i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma
4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al
patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle
opere; b) conservazione delle opere in ragione di
prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i
presupposti, concessione del diritto di abitazione
degli immobili al responsabile dell’abuso.
8. – Infine, sebbene la questione non abbia costituito oggetto
della richiesta di parere, questo
Consiglio
-ritenendo di meglio assolvere in tal modo ai propri
compiti istituzionali di organo di consulenza
giuridico-amministrativa della Regione siciliana–
reputa di dover spendere alcune brevi,
considerazioni anche sul tema dell’”autorità
competente” a irrogare la sanzione di cui al
comma 4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta
autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune.
A tale conclusione si perviene sulla base delle
seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione
della previsione nell’ambito di una disposizione che
disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in
assenza di differenti indicazioni ricavabili dal
dato positivo, il principio di concentrazione delle
competenze amministrative, che risulterebbe
gravemente vulnerato qualora l’attività di
repressione degli illeciti edilizi di cui all’art.
31 del Testo unico fosse frammentata tra varie
autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la
L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli
artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi
addetti al controllo sull'osservanza delle
disposizioni per la cui violazione è prevista la
sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che
indica il prefetto quale autorità di competenza
residuale nelle sole materie di competenza statale),
conduce a ritenere che il potere di irrogare la
sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al
rilascio del permesso di costruire e, comunque,
incaricato della potestà di vigilanza sul corretto
uso del territorio comunale
(C.G.A.R.S.,
parere 15.04.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
marzo 2015 |
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
struttura -oggetto di istanza di sanatoria- costituita da
una grande tettoia con chiusure su più lati, realizzata con
componenti metallici che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e
strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a
sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi
attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad
un preesistente immobile contiguo, destinato ad
autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di
uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m.
5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo
stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in
“zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di
una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio
dell’attività di autolavaggio”.
La struttura oggetto della domanda di sanatoria
in commento è di rilevantissime dimensioni, presenta
chiusure per gran parte del perimetro (come ben evincibile
dalle foto in atti), ed è destinata a soddisfare non
esigenze temporanee o contingenti, bensì prolungate nel
tempo (essendo utilizzata per svolgere parte delle
operazioni dell’attività di autolavaggio già da tempo
esercitata nell’immobile adiacente).
La stessa non presenta alcun intrinseco carattere di
struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche,
bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e
parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi
(indipendentemente da quello attuale).
Conseguentemente, la realizzazione di detta struttura non
può essere ricondotta all’ambito della manutenzione
straordinaria, bensì, comportando una significativa
alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova
opera da assentire mediante rilascio di permesso di
costruire.
---------------
L’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza di sanatoria risulta comunque
superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990,
in quanto, posto che la valutazione sulla conformità
urbanistica a sanatoria dell’effettuato intervento è di tipo
vincolato e non discrezionale, nella specie risulta palese
che, anche se il detto onere procedimentale fosse stato
assolto, il contenuto del provvedimento conclusivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
- del provvedimento prot. n. 12862 del 29/10/2008 – rif.
Pratica n. 53/2008, con cui il responsabile dell’Ufficio
Tecnico del Comune di Capodrise ha respinto l’istanza
presentata dai ricorrenti in data 25.06.2008 – prot. n. 7847,
al fine di conseguire il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria per una tettoia annessa ad opificio artigianale
preesistente, ubicato in zona omogenea “B” – residenziale;
- di ogni altro atto ad esso preordinato, consequenziale o
connesso.
...
M.A.E. e P.M. impugnano con il
presente ricorso, articolato su due motivi, il provvedimento
del Comune di Capodrise, con il quale il responsabile
dell’Ufficio Tecnico, in “riferimento alla domanda
presentata…in data 25.06.2008 prot. n. 7847 con la quale si
richiedeva il permesso a costruire in conformità al testo
unico dell’edilizia D.P.R. n. 380 del 06.06.2001 e successive
modifiche ed integrazioni” ha espresso “diniego
all’accoglimento della richiesta” con la seguente
motivazione: “Trattasi di richiesta di permesso di costruire
in sanatoria richiesto ai sensi dell’art. 36 DPR 380/2001
relativo ad un opificio artigianale in zona omogenea di tipo
<B>, residenziale. In tale zona omogenea l’edificazione
risulta regolata dalla vigente strumentazione urbanistica
che non consente la realizzazione di capannoni ad uso
deposito o opifici artigianali”.
Dalla prodotta copia della relazione tecnica allegata alla
domanda ex art. 36 DPR 380/2001 (nonché dalle fotografie
nella stessa presenti), emerge che la struttura oggetto di
istanza di sanatoria è costituita da una grande tettoia con
chiusure su più lati, realizzata con componenti metallici
che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e
strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a
sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi
attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad
un preesistente immobile contiguo, destinato ad
autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di
uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m.
5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo
stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in
“zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di
una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio
dell’attività di autolavaggio”.
Ciò chiarito, può passarsi ad esaminare il secondo dei
motivi di ricorso articolati (con il quale sono dedotte
censure di tipo sostanziale), il quale è infondato e va
disatteso sulle seguenti considerazioni:
- che la struttura oggetto della domanda di sanatoria in
commento è di rilevantissime dimensioni, presenta chiusure
per gran parte del perimetro (come ben evincibile dalle foto
in atti), ed è destinata a soddisfare non esigenze
temporanee o contingenti, bensì prolungate nel tempo
(essendo utilizzata per svolgere parte delle operazioni
dell’attività di autolavaggio già da tempo esercitata
nell’immobile adiacente);
- che la stessa non presenta alcun intrinseco carattere di
struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche,
bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e
parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi
(indipendentemente da quello attuale);
- che, conseguentemente, la realizzazione di detta struttura
non può essere ricondotta all’ambito della manutenzione
straordinaria, bensì, comportando una significativa
alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova
opera da assentire mediante rilascio di permesso di
costruire (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 3939 del
19.07.2013; TAR Liguria n. 876 del 05.06.2014; TAR Campania-Napoli n. 142 del 10.01.2014; TAR Campania-Napoli n.
5853 del 18.12.2013; TAR Piemonte n. 1050 del 09.10.2013; TAR Campania-Napoli n. 4254 del 12.09.2013; TAR Campania-Salerno
n. 1376 del 21.06.2013; TAR Campania-Napoli n. 2924 del
05.06.2013);
- che la descritta tipologia di struttura, nonché la sua
destinazione ad attività artigianale, risultano in contrasto
con le prescrizioni urbanistico-edilizie di zona del vigente
PRG, ricadendo l’intervento in zona omogenea “B”
residenziale (ovvero in “zona ad espansione urbana”, come
con dicitura più generica affermato nella relazione tecnica
allegata all’istanza di sanatoria);
- che la presenza e vigenza di un PRG nel Comune di
Capodrise esclude l’applicabilità nel relativo territorio
della normativa richiamata dai ricorrenti (segnatamente il
punto 1.6 delle “Direttive – Parametri di pianificazione”
della L. Reg. Campania n. 14 del 20.03.1982 in tema di
localizzazione di “impianti produttivi”, trattandosi nella
specie di linee guida date agli enti locali per l’esercizio
delle loro competenze in materia urbanistica);
- che l’evidenziato contrasto con quanto previsto in PRG
neppure è superabile valutando la struttura in questione
come collegata ad una preesistente attività, essendo essa
comunque soggetta alle disposizioni in materia di nuove
opere;
- che la sussistenza del contrasto dell’effettuata
edificazione con le previsioni di PRG è sufficiente a
giustificare il diniego, per cui risulta non necessario
approfondire in questa sede l’ulteriore profilo riguardante
l’affermata carenza documentale della pratica di sanatoria.
Quanto, poi, al primo motivo di ricorso, basato su di una
censura di carattere prettamente formale, osserva il
Collegio che l’omissione della previa comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria
risulta comunque superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co.
2, L. 241/1990, in quanto, posto che la valutazione sulla
conformità urbanistica a sanatoria dell’effettuato
intervento è di tipo vincolato e non discrezionale, nella
specie risulta palese che, anche se il detto onere
procedimentale fosse stato assolto, il contenuto del
provvedimento conclusivo non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato.
Pertanto, il proposto ricorso va, in definitiva, in toto
respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.03.2015 n. 1870 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
capo alla P.A. vige l’obbligo di reprimere, in qualsiasi
momento, l’esecuzione di opere abusive, eseguite senza
titolo, che hanno carattere di illecito permanente,
corrispondendo alle stesse, sul piano urbanistico-edilizio,
un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere nei
confronti del proprietario, fatte salve le eventuali azioni
di rivalsa nei confronti degli esecutori materiali delle
opere abusive, sulla base dei rapporti interni intercorsi.
Inoltre, sia l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di
sedime, sia le sanzioni pecuniarie, previste in caso di
inottemperanza all’ordine di demolizione, possono lasciare
indenne il proprietario, che sia rimasto estraneo
all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo e che
non abbia la disponibilità delle stesse, ferma restando,
tuttavia, una presunzione di corresponsabilità a carico del
medesimo.
Il proprietario, infatti, nel rispetto dei doveri di
diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella
gestione dei beni immobiliari, di cui abbia la titolarità, è
tenuto ad adoperarsi, con i mezzi previsti dall’ordinamento,
per impedire la realizzazione di abusi edilizi, o per
agevolarne la rimozione, soprattutto dopo essere stato
preavvertito, dell’avvio del procedimento sanzionatorio.
I principi generali da applicare alla vicenda controversa,
in ogni caso, possono essere rinvenuti nell’art. 31, commi
2, 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia) e nell’art. 15, commi 1 e 3 della legge della
Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 (Vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia), che per quanto qui interessa hanno
carattere di lex specialis rispetto all’art. 6 della
legge 24.11.1981, n. 689 (modifiche al sistema penale).
Le citate norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non
all’”autore”, ma al “responsabile” dell’abuso,
quest’ultimo inteso come esecutore materiale, ma anche come
proprietario o come soggetto che abbia la disponibilità del
bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.
Sia la norma statale che quella regionale, infatti, indicano
espressamente come destinatari della sanzione demolitoria,
in forma non alternativa, sia il proprietario che il
responsabile: la prima, imponendo testualmente detta
sanzione “al proprietario e al responsabile dell’abuso”;
la seconda, disponendo la notifica dell’ingiunzione “al
responsabile dell’abuso nonché al proprietario, ove non
coincidente con il primo”; le ulteriori misure
(acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di
inottemperanza) non possono che riferirsi ai medesimi
soggetti obbligati.
Quanto sopra risulta giustificato dall’obbligo per
l’Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento
l’esecuzione di opere senza titolo, che hanno carattere di
illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio
(non anche della responsabilità penale) corrisponde
un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere appunto
nei confronti dei soggetti in precedenza indicati, fatte
salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, nei
confronti degli esecutori materiali delle opere (ove
diversi), sulla base dei rapporti interni intercorsi (cfr.
anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 08.06.1994, n.
614 e Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.07.1992, n. 229).
Per pacifica giurisprudenza, inoltre, sia l’acquisizione
gratuita del bene e dell’area di sedime, sia le sanzioni
pecuniarie, previste in caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione, possono lasciare indenne il proprietario, che
sia rimasto estraneo all’esecuzione delle opere prive di
titolo abilitativo –e che non abbia la disponibilità delle
stesse– ferma restando, tuttavia, una presunzione di
corresponsabilità a carico del medesimo. Detto proprietario
infatti –nel rispetto dei doveri di diligente
amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei
beni immobiliari, di cui abbia la titolarità– è tenuto ad
adoperarsi, con i mezzi previsti dall’ordinamento, per
impedire la realizzazione di abusi edilizi, o per agevolarne
la rimozione, soprattutto dopo essere stato preavvertito,
come nel caso di specie, dell’avvio del procedimento
sanzionatorio (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St.,
sez. V, 11.07.2014, n. 3565; Cons. St., sez. VI, 22.04.2014,
n. 2027 e 04.07.2014, n. 3409).
Tale presunzione di corresponsabilità trova fondamento
nell’art. 3 della citata legge n. 689 del 1981, in base al
quale “nelle violazioni, in cui è applicabile una
sanzione amministrativa, ciascuno è responsabile della
propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia
essa dolosa o colposa”, da intendere come presunzione
iuris tantum, a cui si connette l’onere della
dimostrazione di avere agito senza colpa per qualunque
soggetto che, in base alla legge, possa ritenersi
responsabile, anche per mera omissione di controllo (cfr. in
tal senso Cons. St., sez. VI, 29.03.2011, n. 1897,
19.04.2011, n. 2422, 21.06.2011, n. 3719 e 30.06.2011, n.
3895; Cons. St., sez. IV, 02.03.2012, n. 1203).
Le finalità di interesse pubblico di tutela del territorio,
in altre parole, impongono al proprietario di beni
immobiliari sia di non dare luogo a illegittime
trasformazioni del territorio stesso, sia di attivarsi
–ricorrendone i presupposti– per il ripristino della
legalità violata: sull’Amministrazione, pertanto, grava
soltanto l’onere di individuare sia i proprietari del bene,
sia (ove non coincidenti con i primi) gli altri soggetti da
ritenere responsabili (in quanto esecutori materiali
dell’abuso o titolari di altri diritti per la detenzione
dell’immobile interessato), con rituale comunicazione ai
medesimi dell’avvio del procedimento sanzionatorio.
Ciascuno dei soggetti coinvolti deve avere, poi, la
possibilità non solo di dissociarsi dalla condotta illecita,
ma anche di collaborare con l’Amministrazione, nei limiti
consentiti dalla situazione di fatto e di diritto esistente,
per agevolare la rimessa in pristino stato dei luoghi, solo
in tal caso potendosi escludere ogni ipotesi di
responsabilità nei confronti dell’Amministrazione stessa
(fermi restando, in ogni caso, i già ricordati diritti di
rivalsa, esercitabili nei rapporti interni).
In base alle argomentazioni svolte, i motivi di gravame
prospettati non possono che ritenersi privi di fondamento.
Il primo, poiché riferito alla ricordata legge
regionale n. 15 del 2008, che non può non trovare lettura
conforme ai principi in precedenza indicati, tenuto conto,
peraltro, della consistenza delle opere abusive: un
capannone in pannelli di lamiera di m. 16.50 x 7, con
altezza variabile da m. 3.30 a m. 3.60, adibito ad officina
e due baracche in lamiera utilizzate come magazzini,
difficilmente realizzabili a totale insaputa della
proprietà, in ogni caso investita degli obblighi di
vigilanza in precedenza indicati, anche in presenza di un
soggetto titolare di usufrutto (non certo abilitato ad
effettuare, contro la volontà dei proprietari, la rilevante
trasformazione dei luoghi sopra descritta).
Non è contestato d’altra parte (con gli effetti, di cui
all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.) che gli appellanti
non abbiano posto in essere alcun intervento –nei limiti
consentiti dall’ordinamento– per indurre o agevolare la
rimessa in pristino stato dei luoghi, anche dopo essere
stati destinatari di comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio.
Il secondo motivo di gravame, a sua volta, deve
ritenersi infondato in quanto riferito ad una norma della
legge n. 689 (art. 6), rispetto alla quale –come già in
precedenza esposto– costituiscono lex specialis, in
materia di abusi edilizi, l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del
2001 e l’art. 15 della stessa legge regionale n. 15 del
2008, riferiti specificamente ai proprietari di immobili,
interessati da opere abusive e non alle sanzioni
amministrative in genere.
Il terzo ordine di censure, infine, non appare
condivisibile, in quanto postula incostituzionalità della
citata legge regionale, per avere imposto una sanzione
pecuniaria, non ancora prevista dalla legge statale (che
tale sanzione prevede ora nell’art. 31, comma 4-bis, nel
testo introdotto con d.l. n. 133 del 12.09.2014).
Anche prima dell’introduzione della norma da ultimo citata,
deve comunque ritenersi che la Regione potesse –nel rispetto
del principio di legalità, di cui all’art. 1 della citata
legge n. 689 del 1981– imporre la sanzione di cui trattasi
con norma di rango primario, come nella fattispecie
avvenuto, rientrando il governo del territorio, a norma
dell’art. 117 della Costituzione, fra le materie oggetto di
legislazione concorrente, per le quali spetta alle Regioni
la potestà legislativa, nel rispetto dei principi
fondamentali della legislazione statale (principi, questi
ultimi, che possono essere ricondotti al già citato art. 3
della medesima legge n. 689)
(massima tratta da
http://renatodisa.com -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.03.2015 n. 1650 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al fine del calcolo della sanzione
di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 - ora art. 34
DPR 380/2001 (pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n.
392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in
difformità dalla concessione), allorché la difformità si
traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è
logico e congruo che il Comune ricorra all’applicazione
analogica del criterio di stima previsto della legge
28.02.1985, n. 47, relativamente al condono edilizio, che
nel caso di aumenti di volume non corrispondenti ad aumenti
di superficie, applica gli importi previsti sulla superficie
virtuale ottenuta dividendo la cubatura per 5 e
moltiplicandola per 3, sottolineando inoltre il vantaggio
dato da tale criterio, che consente una gradualità di tipo
lineare a seconda della quantità di volumetria abusivamente
realizzata, espressiva comunque di un aumento di valore
dell’immobile, e deve
conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di
proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie
convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume
abusivamente realizzato con l’aumento di altezza.
---------------
Altrettanto logico e congruo è che il Comune calcoli il dato mancante di
superficie attraverso la divisione del volume accertato per
l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta
del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici
residenziali aventi caratteristiche analoghe.
Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano il difetto di
motivazione e l’illegittimità dell’applicazione della
sanzione ragguagliata alla superficie virtuale, dato che si
tratta di una violazione che ha comportato un aumento di
volumetria senza aumento di superficie.
Le censure devono essere respinte.
Come sopra precisato, al provvedimento impugnato è allegata
una nota nella quale viene dato conto dell’approfondita
disamina svolta in merito alla problematica, e
all’inaccettabilità della pretesa del ricorrente di lasciare
senza sanzioni, dal punto di vista edilizio, un intervento
abusivo che abbia comportato la violazione delle altezze e
delle volumetrie assentibili rispetto ad un edificio sito in
centro storico, ove si debba accedere ad un’interpretazione
meramente letterale alla disposizione di cui all’art. 93,
comma 1, della legge regionale 27.06.1985, n. 61.
Tale norma infatti, ai fini di quantificare la sanzione
applicabile alle fattispecie nelle quali non può disporsi la
demolizione senza pregiudizio per le parti conformi, fa
riferimento al doppio del costo di produzione della parte
realizzata in difformità, determinato ai sensi della L. 27.07.1978, n. 392, e la norma da ultimo richiamata,
facendo riferimento alla superficie dell’edificio, secondo
il suo tenore letterale sarebbe inapplicabile alle
fattispecie di aumento di volume senza aumento di
superficie.
Esclusa la percorribilità dell’ipotesi di lasciare l’abuso
senza sanzione, il Comune accantona, perché sostanzialmente
ingiusta e priva di proporzionalità, anche l’altra soluzione
interpretativa astrattamente prospettabile, in base alla
quale la sanzione dovrebbe essere parametrata a tutta la
superficie del piano, dato che nel caso di specie l’abuso
non ha comportato la realizzazione di nuove superfici.
Per risolvere il problema posto dalla norma che fa
riferimento alle superfici, il Comune ricorre allora
all’applicazione analogica del criterio di stima previsto
della legge 28.02.1985, n. 47 (cfr. la prima nota alla
tabella allegata alla legge), relativamente al condono
edilizio, che nel caso di aumenti di volume non
corrispondenti ad aumenti di superficie, applica gli importi
previsti sulla superficie virtuale ottenuta dividendo la
cubatura per 5 e moltiplicandola per 3, sottolineando
inoltre il vantaggio dato da tale criterio, che consente una
gradualità di tipo lineare a seconda della quantità di
volumetria abusivamente realizzata, espressiva comunque di
un aumento di valore dell’immobile.
Orbene, il Collegio ritiene che la metodologia applicata con
il ricorso all’analogia al fine di stimare in termini di
superficie la violazione, sia corretta e conforme agli
orientamenti giurisprudenziali emersi sul punto, atteso che,
come è stato affermato “al fine del calcolo della sanzione
di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n.
392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in
difformità dalla concessione), allorché la difformità si
traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è
logico e congruo che il Comune calcoli il dato mancante di
superficie attraverso la divisione del volume accertato per
l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta
del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici
residenziali aventi caratteristiche analoghe” (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 08.10.2004, n. 5504) e deve
conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di
proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie
convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume
abusivamente realizzato con l’aumento di altezza” (cfr. Tar
Veneto, Sez. II, 22.04.2010, n. 2778)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.03.2015 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere edilizie abusive “realizzate in zona
sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in
totale difformità dalla concessione e, se costituenti
pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo
della concessione”; “fermo che in materia urbanistica, a
differenza che nella materia civilistica, possono costituire
pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo
significativo l'assetto del territorio, ove vi sia
alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo
n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa
acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”; il che
comporta che “quand’anche si ritenessero le opere
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa
autorizzazione paesistica”.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento
incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua
realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi
dall’autorizzazione paesaggistica.
Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata
(id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la
demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su
aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di
interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle
sole zone di inedificabilità assoluta.
---------------
Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello
legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa"
l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della
tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide,
in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che,
in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria.
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già
evidenziate emergenze un supplemento di motivazione: nel
modello legale di riferimento non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del
potere repressivo mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in
re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione.
3. Sotto il profilo ambientale, trattandosi di opere
realizzate in area dichiarata di notevole interesse pubblico
con d.m. 12.09.1957, la Sezione ha anche recentemente
osservato (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n. 1122 e
copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che le opere edilizie
abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo
paesistico, si considerano eseguite in totale difformità
dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”;
“fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella
materia civilistica, possono costituire pertinenza solo
manufatti inidonei ad alterare in modo significativo
l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione
dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del
2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica”; il che comporta che
“quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o
precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A.,
l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque,
doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa
autorizzazione paesistica”.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento
incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua
realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi
dall’autorizzazione paesaggistica. Risulta quindi legittima
la disciplina di settore applicata (id est art. 27
d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la
realizzazione senza titolo di nuove opere su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di
interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle
sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa
sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del
07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
4. Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel
modello legale di riferimento, non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del
potere repressivo mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in
re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza
della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che
elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa
non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque
che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa
sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già
evidenziate emergenze un supplemento di motivazione: nel
modello legale di riferimento non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del
potere repressivo mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in
re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La vincolatezza del provvedimento di demolizione
opera abusiva comporta che sia superflua e non dovuta una
puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla
demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente
evidenziare la violazione del regime vincolistico e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto.
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso
dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del
medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto”.
E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento
sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio
particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa"
5. Quanto alla dedotta carenza di motivazione sul preteso
affidamento in rapporto alla risalenza dell’opera, come si è
affermato in numerosissime occasioni, la vincolatezza del
provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una
puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla
demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente
evidenziare la violazione del regime vincolistico e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso
dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del
medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione
quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta
sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013 cit., n. 760 del
06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012).
E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento
sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio
particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa"
(cfr. la giurisprudenza della Sezione fin qui riportata e,
cfr. anche, per il principio generale, Cons. Stato, sezione
quinta, sentenza 06.03.2012, n. 1260)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione ex art. 27 d.P.R. 380/2001 di
immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela
paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale
circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio
del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova,
infatti, applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l.
241/1990.
6. Neppure è fondata la censura relativa all’omessa
comunicazione di avvio del procedimento. Infatti, l’ordine
di demolizione ex art. 27 d.P.R. 380/2001 di immobili
edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela
paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale
circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio
del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova,
infatti, applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990
(in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez.,
n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530;
TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar
Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili,
nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi
“la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione".
L’affermazione dei divisati postulati, infatti, non
significa negare in assoluto la possibilità di intervenire
su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma
solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima
sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò
deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero
segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora
applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva
legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n.
724 e art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326).
Procedura che deve essere seguita rigidamente anche per
quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza,
sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei
luoghi che al fine di evitare postumi (tentativi di)
disconoscimenti della circostanza per cui, come previsto
dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate,
avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella
piena consapevolezza –resa esplicita dal ricorso espresso
alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di
natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si
sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e
pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si
dovrà demolire anche le migliorie apportate.
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva
costituisce atto dovuto, che non può essere evitata
nell’assunto che per le opere realizzate non fosse
necessario il permesso di costruire o che avessero natura
pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei
lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono,
vale il diverso principio in forza del quale è la
prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che
sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra
opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con d.i.a.”.
---------------
Le opere oggetto della sanzione della demolizione ricadono
in zona vincolata, segnatamente trattandosi di opere
realizzate su area dichiarata di notevole interesse
pubblico.
Va allora osservato, trattandosi peraltro di arresti
giurisprudenziali consolidati nell’orientamento della
Sezione che:
- le opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo
paesistico sono soggette alla previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, il che comporta che,
quand’anche si ritenessero le opere realizzate senza titolo
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
d.i.a., l’applicazione della sanzione demolitoria sarebbe,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa
autorizzazione paesistica;
- la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente
sugli esterni non comporta affatto che per la sua
realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi
dall’autorizzazione paesaggistica.
---------------
In tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non
vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua
rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della
tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide,
in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che,
in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria.
Da quanto precede deriva che l’applicazione della sanzione
demolitoria era doverosa anche per come disposto dall’art.
32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui qualunque
intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo
paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione
essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser
demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art.
32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1,
effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico,
artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed
ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in
aree protette nazionali e regionali, sono considerati in
totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti
degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui
medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Quanto, poi, alla sussistenza, ai sensi dell’art. 33 del
citato d.P.R. (concernente gli interventi di
ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità) di un obbligo per il
Comune di verificare la possibilità tecnica del ripristino
prima dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria,
obbligo del cui adempimento l’ente avrebbe dovuto, a detta
di parte ricorrente, dare conto nel testo della motivazione
(cfr. terzo motivo), si osserva in prima battuta, che,
giusta quanto già sopra evidenziato, la fattispecie qui in
rilievo va sussunta sotto il combinato disposto degli
articolo 31 e 32 del d.p.r. 380/2001 (ovvero dell’articolo
27 del medesimo provvedimento normativo). Di poi, è
necessario soggiungere che la norma invocata individua,
comunque, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella
ripristinatoria, a conferma della gravità dell’abuso e della
previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo
stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la
possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di
esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione
pecuniaria.
Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così
che la sua assenza nell’ordinanza di demolizione (come pure
l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di
demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione
in pristino.
---------------
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in
presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n.
380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché
dallo stesso art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato”.
---------------
Infine, per quanto concerne la mancata indicazione
nell’ordinanza impugnata dell’area di sedime da acquisire in
caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione da parte
della ricorrente, si osserva che, come ripetutamente
affermato dalla sezione, fermo che l'acquisizione gratuita
al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della
relativa area di sedime costituisce, ex art. 31, comma 3,
d.P.R. 380 del 2001, effetto automatico della mancata
ottemperanza all'ordine di demolizione e non abbisogna di
previe specificazioni, necessarie solo per l’individuazione
della ulteriore (“nonché”) area “necessaria alla
realizzazione di opere analoghe…”, di cui alla restante
parte della previsione, l’individuazione di quest’ultima ben
può essere operata “con un successivo e separato atto”.
Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
Va, preliminarmente, ricordato il costante orientamento
della Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, ord. n. 2182 del 18.05.2011), dal quale non vi sono ragioni per discostarsi,
secondo cui “in presenza di manufatti abusivi non sanati né
condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili,
nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi
“la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania,
Napoli, questa VI Sez., ex multis, sentenze n. 1913
del 02.04.2014; 2910 del 05.06.2013, n. 2006 del 02.05.2012, n. 2624 del 11.05.2011, n. 1218 del 25.02.2011, n. 26788 del
03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811,
10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione
seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi,
Cass. Penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070). Per
ovviare alla inerzia dei Comuni nel definire risalenti
istanze di condono, esistono rapidi e agili strumenti di
tutela.
L’affermazione dei divisati postulati, infatti, non
significa negare in assoluto la possibilità di intervenire
su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma
solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima
sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò
deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero
segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora
applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva
legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n.
724 e art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326). Procedura che
deve essere seguita rigidamente anche per quanto attiene
alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di
conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che al
fine di evitare postumi (tentativi di) disconoscimenti della
circostanza per cui, come previsto dalla legge, l’esecuzione
delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria
responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza –resa
esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35
cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente
conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo
espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi,
cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche
le migliorie apportate (cfr. la giurisprudenza della
Sezione, già sopra riportata).
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva
costituisce atto dovuto, che non può essere evitata
nell’assunto che per le opere realizzate non fosse
necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei
lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono,
vale il diverso principio in forza del quale è la
prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che
sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra
opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con d.i.a.” (cfr. ex multis Tar Campania,
Napoli, VI sezione, 20/03/2014 n. 1606; 29.10.2013 n.
4817, VII sezione 14.01.2011, n. 160).
Deve ritenersi, quindi, che l’operato dell’amministrazione
si appalesa legittimo tenuto conto che alcuna procedura ex
art. 35 della legge 47/1985 risulta attivata.
In disparte quanto fin qui evidenziato, di per se stesso
assorbente, deve rilevarsi che le restanti censure formulate
in ricorso devono essere respinte anche sotto un distinto
profilo.
Va, infatti, evidenziato che le opere oggetto della sanzione
della demolizione ricadono in zona vincolata, segnatamente
trattandosi di opere realizzate su area dichiarata di
notevole interesse pubblico.
Va allora osservato, trattandosi peraltro di arresti
giurisprudenziali consolidati nell’orientamento della
Sezione (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n.
1122 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che:
- le opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo
paesistico sono soggette alla previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, il che comporta che,
quand’anche si ritenessero le opere realizzate senza titolo
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
d.i.a., l’applicazione della sanzione demolitoria sarebbe,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa
autorizzazione paesistica;
- la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente
sugli esterni non comporta affatto che per la sua
realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi
dall’autorizzazione paesaggistica.
Tutto quanto innanzi considerato consente di ritenere la
legittimità dell’avversata ordinanza quanto alla stessa
qualificazione di abusività delle opere nella stessa
elencate.
Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello
legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti
discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo
mediante applicazione della misura ripristinatoria
costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa"
l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della
tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide,
in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che,
in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria (Tar Campania-Napoli, sempre questa
sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
Da quanto precede deriva che l’applicazione della sanzione
demolitoria era doverosa anche per come disposto dall’art.
32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui qualunque
intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo
paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione
essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser
demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1,
effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico,
artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed
ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in
aree protette nazionali e regionali, sono considerati in
totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti
degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui
medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Quanto, poi, alla sussistenza, ai sensi dell’art. 33 del
citato d.P.R. (concernente gli interventi di
ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità) di un obbligo per il
Comune di verificare la possibilità tecnica del ripristino
prima dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria,
obbligo del cui adempimento l’ente avrebbe dovuto, a detta
di parte ricorrente, dare conto nel testo della motivazione
(cfr. terzo motivo), si osserva in prima battuta, che,
giusta quanto già sopra evidenziato, la fattispecie qui in
rilievo va sussunta sotto il combinato disposto degli
articolo 31 e 32 del d.p.r. 380/2001 (ovvero dell’articolo
27 del medesimo provvedimento normativo). Di poi, è
necessario soggiungere che la norma invocata individua,
comunque, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella
ripristinatoria, a conferma della gravità dell’abuso e della
previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo
stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la
possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di
esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione
pecuniaria.
Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così
che la sua assenza nell’ordinanza di demolizione (come pure
l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di
demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione
in pristino (cfr., ex multis, in relazione all’art. 33,
TAR Campania-Napoli, sez. IV, 12.12.2012, n. 5108
e, in relazione all’art. 34, TAR Campania, Napoli, sez. VII.
07.06.2012, n. 2712).
Da quanto precede deriva che la sanzione demolitoria, in
considerazione della visibile alterazione del paesaggio, era
doverosa.
Deve essere respinto anche il motivo con il quale parte
ricorrente lamenta l’omessa valutazione del danno ambientale
e della possibilità di applicare in via alternativa alla
demolizione l’indennità prevista dall’art. 167 del d.lgs. n.
42/2004.
Come già evidenziato dalla Sezione, l'ordine di ripristino
discende direttamente dall'applicazione della disciplina
edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di
sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a
tutela del paesaggio (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli,
questa sezione sesta, n. 5805 del 14.12.2011, n. 1770
del 07.04.2010; 26.06.2009, n. 3530 e 27.03.2007,
n. 2885); il che a dire, con convergenti locuzioni, “che
l’astratta attitudine sanante del procedimento ex art. 167
del d.lgs. n. 42 del 2004 si esaurisce nella conversione
della misura ripristinatoria in quella pecuniaria
limitatamente, però, agli illeciti che compromettono i
valori paesistico–ambientali. Di contro, nel caso di
specie, l’illecito in contestazione –per effetto della sua
intrinseca portata plurioffensiva– è stato elevato
nell’ambito di altro settore dell’ordinamento, quello che
disciplina l’attività edilizia, governato da disposizioni
autonome rispetto a quelle compendiate nel d.lgs. 42/2004”
(così Tar Campania, sempre questa sesta sezione, sentenza n.
5401 del 21.10.2014).
Parimenti infondate si rivelano, le ulteriori censure con
cui parte ricorrente lamenta l’inadeguatezza
dell’istruttoria condotta e l’insufficienza del corredo
motivazionale dell’atto impugnato anche con riguardo alla
valutazione della sanabilità dell’abuso.
Vale, infatti, ribadire che la realizzazione delle opere in
questione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di
per se stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di
vigilanza.
In altri termini, l’atto può ritenersi sufficientemente
motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso
accertato, presupposto giustificativo necessario e
sufficiente a fondare la spedizione della misura
sanzionatoria.
Non può condividersi, quindi, neanche la censura formulata
dal ricorrente mediante la quale si sostiene l’illegittimità
del provvedimento gravato per non avere il Comune valutato
la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 36 del d.P.R.
380/2001, prima di ordinarne la demolizione.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in
presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n.
380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché
dallo stesso art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli,
sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007
, n. 6552).
Infine, per quanto concerne la mancata indicazione
nell’ordinanza impugnata dell’area di sedime da acquisire in
caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione da parte
della ricorrente, si osserva che, come ripetutamente
affermato dalla sezione (cfr. tra le tante, sentenze n. 3492
del 04.07.2013, n. 6141 del 18.05.2011), fermo che
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime
costituisce, ex art. 31, comma 3, d.P.R. 380 del 2001,
effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di
demolizione e non abbisogna di previe specificazioni,
necessarie solo per l’individuazione della ulteriore
(“nonché”) area “necessaria alla realizzazione di opere
analoghe…”, di cui alla restante parte della previsione,
l’individuazione di quest’ultima ben può essere operata “con
un successivo e separato atto” (Tar Campania, questa sesta
sezione, 16.06.2011, n. 3194, 11.05.2011, n. 2624;
Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia,
Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 25.03.2015 n. 1734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di condono edilizio, il parere dell'ente
proprietario della strada (fascia di rispetto stradale) deve
far riferimento al "centro abitato" al momento in cui si
svolge l'istruttoria dell'istanza e non alla data di
esecuzione dell'abuso.
La valutazione richiesta dall’art. 32 della legge
n. 47 del 1985 all’Amministrazione preposta alla tutela del
vincolo, essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o
meno di un centro abitato conglobante l’immobile
interessato, deve necessariamente avere attinenza alle
concrete ed effettive coordinate di spazio e di tempo in cui
tale immobile è calato: per tali intendendosi le reali
condizioni dei luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole,
essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di
fatto del contesto del quale il manufatto fa parte,
esistenti al momento in cui si svolge il relativo
procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che
risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello
alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a dire alla sicurezza del traffico, è
finalizzata la qualificazione normativa delle norme sulla
circolazione stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959,
n. 393 per cui è centro abitato un insieme continuo di
edifici, strade ed aree delimitato, lungo le vie di accesso,
da apposito segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs.
30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato
s’identifica in un agglomerato di almeno venticinque
edifici, sebbene intervallati da strade, giardini od altro,
che spetta alla Giunta comunale individuare e delimitare.
Queste definizioni –per quanto qui occupa- possono invero
essere di ausilio per quanto concerne la caratterizzazione
di un centro abitato dal punto di vista materiale, non anche
per quanto concerne la sua identificazione formale
(cartello, individuazione ad opera della Giunta comunale).
I) I signori F.A.C. e P.T., eredi
del signor L.T., chiedono la riforma della
sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale
amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso proposto dal
de cuius avverso il parere negativo espresso dall’Anas con
nota del 06.04.2005 sull’istanza di sanatoria edilizia
straordinaria (c.d. condono) presentata in data 03.12.1986 ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47 di
un manufatto costruito abusivamente nel 1970, posto, secondo
il Tribunale amministrativo, a distanza di 23 metri dal
ciglio del Grande Raccordo Anulare.
Per ottenere l’esame
della domanda da parte del Comune il ricorrente in data 16
settembre ha chiesto all’Anas, ente preposto alla tutela del
vincolo stradale, il preliminare parere ex art. 32, quarto
comma, lett. c), della suddetta legge n. 47 del 1985.
Con la nota oggetto del ricorso di primo grado l’Anas ha
espresso parere negativo alla sanatoria, in quanto l’opera è
stata realizzata posteriormente al 13.04.1968 a distanza
non conforme a quanto stabilito dal decreto ministeriale 01.04.1968.
La sentenza ha rilevato che l’area su cui insiste la
costruzione risulta gravata dal vincolo di rispetto della
viabilità principale dell’autostrada Grande Raccordo Anulare
ed è successiva all’imposizione del relativo vincolo di
inedificabilità. Pertanto essa non è suscettibile di
sanatoria, dato che l’art. 32, quarto comma, lettera c),
della legge n. 47 del 1985 la consente solo per le opere
insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione […]
sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla
sicurezza del traffico.
II) Ha ricordato il primo giudice che la legge 21.05.1955, n. 463, di approvazione del Piano autostradale
nazionale, ha previsto che i tracciati delle quattro
autostrade che interessano il territorio della città di Roma
coincidano con l’inizio e con il termine del Grande Raccordo
Anulare, per evitare al traffico autostradale
l'attraversamento del centro cittadino. La legge 24.07.1961, n. 729, all’art. 13 ha autorizzato e finanziato la
realizzazione dei raccordi autostradali, prevedendone la
trasformazione in autostrade, poi effettuata per il Grande
Raccordo Anulare con decreto del ministro dei lavori
pubblici. Infine, nel 1962 è stato eseguito il primo
raddoppio di carreggiata nel tratto interessato.
Pertanto
legittimamente l’Anas ha escluso la sanabilità del
manufatto, realizzato su un’area già gravata da vincolo di inedificabilità, e non assumono valore contrario né
l’esistenza di altre costruzioni asseritamente autorizzate,
né l’inapplicabilità, in ragione della collocazione
dell’immobile, del decreto ministeriale 01.04.1968,
richiamato nel provvedimento impugnato. A quest’ultimo
riguardo la sentenza ha ritenuto non sufficiente la presenza
di un certo numero di edifici nell’area in questione per
ritenere l’esistenza di un centro abitato, e irrilevante la
più recente classificazione dovuta all’evoluzione dell’area
negli anni successivi.
III) La sentenza non può, sul punto appena evidenziato,
essere condivisa.
Giova premettere che il decreto ministeriale 01.04.1968
(Distanze minime a protezione del nastro stradale da
osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri
abitati, di cui all'art. 19 della legge 06.08.1967, n.
765), evocato dalla nota impugnata a preclusione della
sanatoria, prevede per le autostrade di qualunque tipo
(legge 07.02.1961, n. 59, art. 4) e per i raccordi
autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di
accesso fra le autostrade e la rete viaria della zona la
distanza minima di sessanta metri da osservarsi nella
edificazione a partire dal ciglio della strada e da
misurarsi in proiezione orizzontale (artt. 3 e 4: distanza
che comunque non risulterebbe rispettata neppure tenendo per
provata quella, pari a quaranta metri, di cui alla perizia
depositata in causa dagli appellanti).
Tale distanza, peraltro, deve essere osservata al di fuori
del perimetro dei centri abitati, come testualmente
precisano sia il decreto citato, sia l’art. 41-septies della
legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall’articolo 19
della legge 06.08.1967, n. 765, alla quale il citato
decreto ha dato attuazione.
La risposta all’istanza di condono richiesto dal ricorrente
sconta, pertanto, la collocazione del manufatto
(pacificamente realizzato, come si è detto, dopo
l’imposizione del vincolo autostradale e a distanza
inferiore a quella prescritta) all’interno del centro
abitato. Una tale effettiva collocazione conduce ad una
risposta positiva, essendo all’esterno operante la
preclusione per vincolo di inedificabilità imposto dal
citato decreto.
Il Collegio ritiene fondate le censure rivolte, sul punto,
avverso la sentenza impugnata dall’appellante.
IV) Deve, infatti, essere considerato che la valutazione
richiesta dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985
all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo,
essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o meno di
un centro abitato conglobante l’immobile interessato, deve
necessariamente avere attinenza alle concrete ed effettive
coordinate di spazio e di tempo in cui tale immobile è
calato: per tali intendendosi le reali condizioni dei
luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole,
essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di
fatto del contesto del quale il manufatto fa parte,
esistenti al momento in cui si svolge il relativo
procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che
risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello
alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a
dire alla sicurezza del traffico, è finalizzata la
qualificazione normativa delle norme sulla circolazione
stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959, n. 393 per
cui è centro abitato un insieme continuo di edifici, strade
ed aree delimitato, lungo le vie di accesso, da apposito
segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs. 30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato s’identifica in
un agglomerato di almeno venticinque edifici, sebbene
intervallati da strade, giardini od altro, che spetta alla
Giunta comunale individuare e delimitare. Queste definizioni
–per quanto qui occupa- possono invero essere di ausilio
per quanto concerne la caratterizzazione di un centro
abitato dal punto di vista materiale, non anche per quanto
concerne la sua identificazione formale (cartello,
individuazione ad opera della Giunta comunale).
Nella fattispecie in esame il certificato di destinazione
urbanistica rilasciato dal Comune di Roma il 21.01.2015, depositato in atti, attesta comunque che la
costruzione di cui trattasi è attualmente inserita nel
tessuto urbanistico ed edilizio all’interno del piano
particolareggiato 13/F “La Rustica”, approvato con
deliberazione della Giunta regionale del Lazio in data 13.11.1984, con tessuto prevalentemente residenziale
secondo il Piano regolatore generale approvato il 12.02.2008.
Una tale essenziale caratteristica del luogo,
non solo ormai nella sua realtà profondamente mutato
rispetto al tempo della realizzazione del manufatto, ma
anche assoggettato a una tale qualificazione formale,
avrebbe dovuto essere considerata dall’Anas. Questa invece,
prescindendo da una siffatta indagine, si è attestata sulla
mera collocazione formale dell’area al tempo
dell’intervento, allora esterna al qualificato centro
abitato.
Ne deriva l’illegittimità del parere impugnato, che esclude
l’ulteriore sviluppo del procedimento, dato che la regola di
cui l’Anas ha fatto applicazione non è coerente con la
concreta e attuale caratteristica dell’area, ora, come si è
detto, anche formalmente inglobata dal centro abitato e
fronteggiata da altre costruzioni limitrofe al bordo del
Grande Raccordo Anulare.
Quanto al prosieguo del procedimento di condono qui in
questione, resta integro il potere dell’Anas, in sede di
rinnovo del parere prescritto dall’art. 32, 4° comma, lett.
c), della legge n. 47 del 1985, di valutare la compatibilità
dell’immobile con le esigenze di sicurezza del traffico.
È poi il caso di evidenziare, per la certezza dei rapporti,
che ai fini dell’eventuale sanatoria edilizia ordinaria le
considerazioni precluse all’Anas (in quanto attinenti al
vincolo di cui è custode) potranno trovare espressione da
parte del Comune, la cui valutazione prettamente edilizia
non potrà prescindere dall’esaminare la cosiddetta doppia
conformità dell’opera abusivamente realizzata, in rispetto
alla regola introdotta dall’art. 13, primo comma, della
legge n. 47 del 1985, oggi art. 36, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
V) In conclusione l’appello è fondato e deve essere accolto,
con conseguente riforma della sentenza di primo grado e
annullamento del provvedimento oggetto del ricorso, salvi
gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.03.2015 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di permesso a costruire in sanatoria
per demolizione e ricostruzione con ampliamento in zona
vincolata. Invio parere (Regione Abruzzo,
nota 20.03.2015 n. 73745 prot.).
---------------
Si riscontra la richiesta di parere con cui codesto
Comune chiede di conoscere l'orientamento dello scrivente in
merito alla possibilità di applicare la disciplina della
sanatoria edilizia ex art. 36 del DPR 380/2001, quando sia
definitivamente decorso il termine di 90 giorni ivi
previsto, di seguito all'emanazione dell'ordinanza di
demolizione, per un manufatto realizzato in assenza di
permesso di costruire. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
corretta individuazione del soggetto cui rivolgere l’ordine
di demolizione opera abusiva e sulla verifica se la sanzione
ex art. 31 dpr 380/2001 (“se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune”) sia applicabile anche nei
confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso;
nonché sulla verifica, in caso di risposta affermativa,
quando il proprietario possa effettivamente considerarsi
estraneo all’abuso.
Si deve verificare, a questo punto, se
l’Amministrazione abbia correttamente individuato il
soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione dell'opera
abusivamente realizzata.
Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del
2001 che “Il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al
responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione…”.
Come si vede la norma è chiara nello stabilire che l’ordine
di demolizione va rivolto anche nei confronti del
proprietario.
Peraltro, la mancata individuazione del responsabile
materiale non può portare ad escludere che l’ordine vada
comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi,
anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario
finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto
dispositivo è la demolizione di un bene su cui egli vanta il
proprio diritto. Si vedrà difatti nel prosieguo che il
proprietario, anche se estraneo all’abuso, deve comunque
eseguire o subire la demolizione del bene.
Non è poi condivisibile l’argomentazione di parte ricorrente
che ritiene che il provvedimento sarebbe dovuto essere
rivolto contro il Parco Lombardo del Ticino. Queste Ente,
infatti, non vanta alcun diritto dominicale sull’area in
questione; né può ritenersi che ad esso possa essere
attribuita qualche responsabilità in ordine all’abuso
edilizio per non aver adeguatamente vigilato, essendo lo
stesso Ente deputato esclusivamente a tutelare i valori
ambientali del sito e non anche ad impedirne l’illecito
utilizzo da parte di terzi.
Il Comune, applicando la norma ed i principi illustrati, ha
quindi correttamente rivolto l’ordine di demolizione alla
società ricorrente, proprietaria dell’opera abusiva.
Peraltro, la natura vincolata dell’atto impugnato,
l’evidente natura abusiva del manufatto e la non contestata
titolarità dello stesso in capo alla ricorrente, inducono ad
escludere la rilevanza della mancata comunicazione
dell’avviso di avvio del procedimento nonché della mancata
comunicazione del preavviso di rigetto, giacché
-prescindendo da ogni altra considerazione- è applicabile
alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della
legge n. 241 del 1990, in base al quale non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato.
---------------
L'ordine di demolizione impugnato,
in applicazione del citato art. 31, secondo e terzo comma,
del d.P.R. n. 380 del 2001, non si limita ad
ordinare la demolizione, ma stabilisce anche che, in caso di
inottemperanza all’ordine impartito, il Comune provvederà ad
acquisire gratuitamente al proprio patrimonio il manufatto
abusivo e l’area di sedime sulla quale esso insiste
Stabilisce infatti il terzo comma del citato art. 31,
che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune”.
Per dare soluzione alla presente controversia il
Collegio deve farsi carico di verificare se tale sanzione
sia applicabile anche nei confronti del proprietario del
bene estraneo all’abuso; nonché di verificare, in caso di
risposta affermativa al primo quesito, quando il
proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo
all’abuso.
La risposta alla prima domanda è senz’altro negativa. In
tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale
con sentenza 15.07.1991, n. 345, riguardante l'art. 7,
terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in
materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie),
disposizione abrogata avente contenuto analogo a quello
dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001,
applicabile alla vicenda in esame.
In quella sentenza la Corte ha affermato che la sanzione
dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio
del comune “…si riferisce esclusivamente al responsabile
dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene
talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura
accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad
impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o
l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri
soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario
dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua
completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che,
essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento…”.
La Corte ha precisato ancora che se il proprietario non
è responsabile dell’abuso e non intende eseguire
direttamente la demolizione, dovrà essere il comune ad
intervenire con i propri mezzi per rimuovere l’opera.
La pronuncia è una sentenza interpretativa di rigetto
che, in quanto tale, non vincola il giudice comune. Va però
osservato che una interpretazione contraria a quella
suggerita dalla Corte dovrebbe portare a ritenere che l’art.
31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 sia contrastante
con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.
(in quanto colpisce con la medesima sanzione soggetti che
hanno tenuto comportamenti diversi); mentre, come noto, è
obbligo primario dell’interprete quello di cercare di dare
alla norma un significato conforme alla Costituzione (salva
la possibilità di sollevare nuovamente questione di
legittimità costituzionale; soluzione che nel caso di specie
il Collegio ritiene non necessario percorrere).
Può dunque darsi per assodato che il proprietario
estraneo all’abuso non possa essere colpito dalla sanzione
in argomento.
Si deve quindi stabilire, a questo punto, quando il
proprietario possa considerarsi effettivamente estraneo
all’abuso.
In proposito va osservato che la Corte Costituzionale ha
stabilito che il proprietario deve considerarsi responsabile
non solo quando questi sia l’autore materiale dell’abuso, ma
anche quando “…essendone venuto a conoscenza, non si sia
attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per
impedirlo…”.
Secondo un orientamento rigoroso l’estraneità del
proprietario si ha solo al ricorrere congiunto di tre
condizioni: a) il proprietario non sia l’autore dell’opera;
b) il proprietario non abbia la possibilità materiale e
giuridica di eseguire la demolizione (tipico è il caso di
area locata a terzi); c) il proprietario si sia attivato,
con i mezzi offerti dall’ordinamento, per impedire l’abuso e
per costringere l’autore a rimuoverlo.
In base a questa tesi, la disponibilità del bene e,
dunque, la possibilità materiale e giuridica di eseguire la
demolizione renderebbe il proprietario sempre compartecipe
dell’abuso; con la conseguenza che questi dovrebbe essere
sempre sanzionato con l’acquisizione gratuita dell’area di sedime qualora non ottemperi all’ordine di demolizione.
L’opinione muove dalla condivisibile preoccupazione di
evitare che l’acquirente dell’opera abusiva, pur
approfittando della stessa, si sottragga alla sanzione
opponendo la circostanza che autore dell’illecito è il suo
dante causa.
Il Collegio deve tuttavia rilevare che la Corte
Costituzionale non ha indicato una soluzione tanto rigorosa,
affermando solamente che il proprietario va considerato
responsabile dell’abuso esclusivamente quando questi ne sia
l’autore materiale ovvero quando “….essendone venuto a
conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti
dall'ordinamento per impedirlo…”. Peraltro, il caso che ha
dato occasione alla pronuncia riguardava proprio una
situazione in cui l'abuso era da imputare esclusivamente
alla condotta di un terzo detentore del bene che lo aveva
perpetrato ad insaputa del proprietario, il quale si trovava
nella materiale impossibilità di opporvisi, per essere
appunto il bene nella disponibilità giuridica esclusiva del
terzo, nella specie il conduttore di un rapporto locativo.
Sarebbe stato quindi agevole per la Corte affermare
esplicitamente che il proprietario deve considerarsi
estraneo solo quando non abbia la possibilità materiale e
giuridica di rimuovere l’abuso.
Peraltro, gli inconvenienti cui vuole ovviare la teoria più
rigorosa possono essere evitati anche in altro modo. Secondo
una condivisibile opinione della giurisprudenza, infatti,
l’acquirente del bene succede nella posizione del dante
causa in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, ivi
compresi quelli che derivano dall’abusiva trasformazione dei
suoli.
Ne consegue che, già per questa ragione, lo stesso
acquirente non può considerasi estraneo all’abuso realizzato
dal suo dante causa (secondo una parte della giurisprudenza,
peraltro, l’attuale proprietario potrebbe comunque sottrarsi
dalla responsabilità dimostrando che: a) non sia autore
dell'abuso; b) l'alienazione non sia avvenuta al solo fine
di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; c)
tra la realizzazione dell'abuso, il successivo acquisto e,
più ancora, l'esercizio da parte dell'autorità dei poteri
repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio).
Senza contare che se l’attuale proprietario approfitta
dell’opera abusiva, diviene anche per questo compartecipe
dell’abuso, avente, come noto, natura di illecito
permanente.
Per concludere sul punto, si può affermare che la
disponibilità materiale e giuridica del bene non costituisce
un elemento di per sé decisivo per addossare la
responsabilità dell’abuso al proprietario non autore
materiale dell’opera. Ciò che occorre invece a tal fine
accertare, applicando i principi espressi dalla Corte
Costituzionale, è se il proprietario (non autore materiale
dell’opera e non avente causa da esso), una volta venuto a
conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, si sia
attivato contro responsabile per impedire l’ultimazione
dell’opera abusiva e, comunque, per obbligarlo a rimuoverla.
Questo comportamento dimostra difatti l’intenzione del
proprietario stesso di non voler approfittare dell’attività
illecita compiuta da terzi e, dunque, denota la sua
estraneità alla stessa.
... per l'annullamento della nota prot. n.
81/duemilaquattordici/Reg. Ord./QS/vr del 03.06.2014,
notificata in data 05.06.2014, del Comune di Somma Lombardo,
Settore Pianificazione, con la quale si è ordinato
“ingiunzione di demolizione di opere abusive e ripristino
stato dei luoghi in frazione Case Nuove, mappale 21497
Sezione Censuaria Somma Lombardo” ovvero nello specifico “del manufatto in legno inserito in un piccolo nucleo di
piante di – Pino Strobo – comunque facente parte di una
vasta zona boschiva, edificato a palafitta ad un’altezza di
mt. 2 da terra e avente dimensioni di mt. 4,00 per 3,00";
...
32. Correttamente pertanto il Comune, constatata l’assenza
di qualsiasi titolo, ha qualificato l’opera come abusiva.
33. Si deve quindi verificare, a questo punto, se
l’Amministrazione abbia correttamente individuato il
soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione.
34. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380
del 2001 che “Il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in
assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al
responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione…”.
35. Come si vede la norma è chiara nello stabilire che
l’ordine di demolizione va rivolto anche nei confronti del
proprietario.
36. Peraltro, la mancata individuazione del responsabile
materiale non può portare ad escludere che l’ordine vada
comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi,
anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario
finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto
dispositivo è la demolizione di un bene su cui egli vanta il
proprio diritto (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VII, 17.09.2012, n. 1814). Si vedrà difatti nel prosieguo che
il proprietario, anche se estraneo all’abuso, deve comunque
eseguire o subire la demolizione del bene.
37. Non è poi condivisibile l’argomentazione di parte
ricorrente che ritiene che il provvedimento sarebbe dovuto
essere rivolto contro il Parco Lombardo del Ticino. Queste
Ente, infatti, non vanta alcun diritto dominicale sull’area
in questione; né può ritenersi che ad esso possa essere
attribuita qualche responsabilità in ordine all’abuso
edilizio per non aver adeguatamente vigilato, essendo lo
stesso Ente deputato esclusivamente a tutelare i valori
ambientali del sito e non anche ad impedirne l’illecito
utilizzo da parte di terzi.
38. Il Comune di Somma Lombardo, applicando la norma ed i
principi illustrati, ha quindi correttamente rivolto
l’ordine di demolizione alla società ricorrente,
proprietaria dell’opera abusiva.
39. Peraltro, la natura vincolata dell’atto impugnato,
l’evidente natura abusiva del manufatto e la non contestata
titolarità dello stesso in capo alla ricorrente, inducono ad
escludere la rilevanza della mancata comunicazione
dell’avviso di avvio del procedimento nonché della mancata
comunicazione del preavviso di rigetto, giacché -prescindendo da ogni altra considerazione- è applicabile
alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della
legge n. 241 del 1990, in base al quale non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato.
40. Per la stessa ragione non sono condivisibili le
doglianze che lamentano il difetto motivazionale ed il
difetto di istruttoria, avendo l’Amministrazione basato la
propria decisione sull’indiscutibile presupposto del
carattere abusivo dell’opera, ed avendo la stessa dato conto
dei presupposti fattuali che l’hanno indotta ad adottare
l’atto.
41. A questo punto si deve osservare che il provvedimento
impugnato, in applicazione del citato art. 31, secondo e
terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, non si limita ad
ordinare la demolizione, ma stabilisce anche che, in caso di
inottemperanza all’ordine impartito, il Comune provvederà ad
acquisire gratuitamente al proprio patrimonio il manufatto
abusivo e l’area di sedime sulla quale esso insiste
42. Stabilisce infatti il terzo comma del citato art. 31,
che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune”.
43. Per dare soluzione alla presente controversia il
Collegio deve farsi carico di verificare se tale sanzione
sia applicabile anche nei confronti del proprietario del
bene estraneo all’abuso; nonché di verificare, in caso di
risposta affermativa al primo quesito, quando il
proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo
all’abuso.
44. La risposta alla prima domanda è senz’altro negativa. In
tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale
con sentenza 15.07.1991, n. 345, riguardante l'art. 7,
terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in
materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie),
disposizione abrogata avente contenuto analogo a quello
dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001,
applicabile alla vicenda in esame.
45. In quella sentenza la Corte ha affermato che la sanzione
dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio
del comune “…si riferisce esclusivamente al responsabile
dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene
talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura
accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad
impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o
l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri
soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario
dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua
completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che,
essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento…”.
46. La Corte ha precisato ancora che se il proprietario non
è responsabile dell’abuso e non intende eseguire
direttamente la demolizione, dovrà essere il comune ad
intervenire con i propri mezzi per rimuovere l’opera.
47. La pronuncia è una sentenza interpretativa di rigetto
che, in quanto tale, non vincola il giudice comune. Va però
osservato che una interpretazione contraria a quella
suggerita dalla Corte dovrebbe portare a ritenere che l’art.
31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 sia contrastante
con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.
(in quanto colpisce con la medesima sanzione soggetti che
hanno tenuto comportamenti diversi); mentre, come noto, è
obbligo primario dell’interprete quello di cercare di dare
alla norma un significato conforme alla Costituzione (salva
la possibilità di sollevare nuovamente questione di
legittimità costituzionale; soluzione che nel caso di specie
il Collegio ritiene non necessario percorrere).
48. Può dunque darsi per assodato che il proprietario
estraneo all’abuso non possa essere colpito dalla sanzione
in argomento.
49. Si deve quindi stabilire, a questo punto, quando il
proprietario possa considerarsi effettivamente estraneo
all’abuso.
50. In proposito va osservato che la Corte Costituzionale ha
stabilito che il proprietario deve considerarsi responsabile
non solo quando questi sia l’autore materiale dell’abuso, ma
anche quando “…essendone venuto a conoscenza, non si sia
attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per
impedirlo…”.
51. Secondo un orientamento rigoroso l’estraneità del
proprietario si ha solo al ricorrere congiunto di tre
condizioni: a) il proprietario non sia l’autore dell’opera;
b) il proprietario non abbia la possibilità materiale e
giuridica di eseguire la demolizione (tipico è il caso di
area locata a terzi); c) il proprietario si sia attivato,
con i mezzi offerti dall’ordinamento, per impedire l’abuso e
per costringere l’autore a rimuoverlo.
52. In base a questa tesi, la disponibilità del bene e,
dunque, la possibilità materiale e giuridica di eseguire la
demolizione renderebbe il proprietario sempre compartecipe
dell’abuso; con la conseguenza che questi dovrebbe essere
sempre sanzionato con l’acquisizione gratuita dell’area di
sedime qualora non ottemperi all’ordine di demolizione.
L’opinione muove dalla condivisibile preoccupazione di
evitare che l’acquirente dell’opera abusiva, pur
approfittando della stessa, si sottragga alla sanzione
opponendo la circostanza che autore dell’illecito è il suo
dante causa.
53. Il Collegio deve tuttavia rilevare che la Corte
Costituzionale non ha indicato una soluzione tanto rigorosa,
affermando solamente che il proprietario va considerato
responsabile dell’abuso esclusivamente quando questi ne sia
l’autore materiale ovvero quando “….essendone venuto a
conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti
dall'ordinamento per impedirlo…”. Peraltro, il caso che ha
dato occasione alla pronuncia riguardava proprio una
situazione in cui l'abuso era da imputare esclusivamente
alla condotta di un terzo detentore del bene che lo aveva
perpetrato ad insaputa del proprietario, il quale si trovava
nella materiale impossibilità di opporvisi, per essere
appunto il bene nella disponibilità giuridica esclusiva del
terzo, nella specie il conduttore di un rapporto locativo.
Sarebbe stato quindi agevole per la Corte affermare
esplicitamente che il proprietario deve considerarsi
estraneo solo quando non abbia la possibilità materiale e
giuridica di rimuovere l’abuso.
54. Peraltro, gli inconvenienti cui vuole ovviare la teoria
più rigorosa possono essere evitati anche in altro modo.
Secondo una condivisibile opinione della giurisprudenza,
infatti, l’acquirente del bene succede nella posizione del
dante causa in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi,
ivi compresi quelli che derivano dall’abusiva trasformazione
dei suoli (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n.
2781; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 13.08.2013, n.
1619; TAR Lombardia Milano, sez. IV, sent. 31.05.2010, n. 1721).
55. Ne consegue che, già per questa ragione, lo stesso
acquirente non può considerasi estraneo all’abuso realizzato
dal suo dante causa (secondo una parte della giurisprudenza,
peraltro, l’attuale proprietario potrebbe comunque sottrarsi
dalla responsabilità dimostrando che: a) non sia autore
dell'abuso; b) l'alienazione non sia avvenuta al solo fine
di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; c)
tra la realizzazione dell'abuso, il successivo acquisto e,
più ancora, l'esercizio da parte dell'autorità dei poteri
repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio. Cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1016).
56. Senza contare che se l’attuale proprietario approfitta
dell’opera abusiva, diviene anche per questo compartecipe
dell’abuso, avente, come noto, natura di illecito
permanente.
57. Per concludere sul punto, si può affermare che la
disponibilità materiale e giuridica del bene non costituisce
un elemento di per sé decisivo per addossare la
responsabilità dell’abuso al proprietario non autore
materiale dell’opera. Ciò che occorre invece a tal fine
accertare, applicando i principi espressi dalla Corte
Costituzionale, è se il proprietario (non autore materiale
dell’opera e non avente causa da esso), una volta venuto a
conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, si sia
attivato contro responsabile per impedire l’ultimazione
dell’opera abusiva e, comunque, per obbligarlo a rimuoverla.
Questo comportamento dimostra difatti l’intenzione del
proprietario stesso di non voler approfittare dell’attività
illecita compiuta da terzi e, dunque, denota la sua
estraneità alla stessa.
58. Applicando questi principi al caso concreto, si deve
escludere che la ricorrente possa considerarsi responsabile
dell’abuso.
59. Si deve difatti rilevare che il manufatto di cui è causa
è stato realizzato da ignoti in un luogo isolato,
difficilmente accessibile e molto lontano dall’abitazione
del legale rappresentate della società (l’abitazione si
trova ad un chilometro di distanza).
60. Inoltre, essendo l’area di cui è causa inserita nel
Parco Lombardo del Ticino, non è possibile dotarla di
recinzione giusto il divieto in tal senso disposto dall’art.
7 del Piano di Coordinamento del Parco.
61. Il proprietario non era quindi nella condizione di
impedire il perpetrarsi dell’illecito; inoltre questi, una
volta venutone a conoscenza, si è subito attivato
denunciando l’accaduto alle Forze dell’Ordine e chiedendo a
queste di scoprire l’identità degli autori al fine di poter
agire contro di essi per ottenere la rimozione di un’opera
ritenuta dannosa.
62. Si deve pertanto ritenere che, nel caso concreto,
ricorrano quelle speciali e straordinarie circostanze che
dimostrano l’estraneità del proprietario all’abuso.
63. Per queste ragioni il Comune -fermo il suo potere di
intervenire direttamente in caso di mancata ottemperanza
all’ordine di demolizione- non può applicare la sanzione
dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime; ne consegue
che il provvedimento impugnato, nella parte in cui prevede
l’applicabilità di tale sanzione, è illegittimo (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 16.03.2015 n. 728 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2015 |
 |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 29 (Responsabilità del titolare del
permesso di costruire, del committente, del costruttore e
del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per
le opere subordinate a denuncia di inizio attività), comma
1, ultima parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che
l’autore dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per
l'esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere
realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili
dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di
questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di
effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi
(nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale)
andati a vuoto per ragioni comunque imputabili
all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a
effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così
ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per
l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per
siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur
se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo
accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa
non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo
danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in
presenza, da parte dell’interessato, di un implicito
riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre
che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di
rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire
spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale
a configurare questa situazione.
---------------
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori
di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e
vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non
richiede un’autonoma comunicazione di inizio del
procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241.
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che
l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o
del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei
responsabili dell'abuso.
2. L’appello è infondato nel merito.
L’art. 29 (Responsabilità del titolare del permesso di
costruire, del committente, del costruttore e del direttore
dei lavori, nonché anche del progettista per le opere
subordinate a denuncia di inizio attività), comma 1, ultima
parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che l’autore
dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per l'esecuzione
in danno in caso di demolizione delle opere realizzate,
salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di
questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di
effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi
(nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale)
andati a vuoto per ragioni comunque imputabili
all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a
effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così
ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per
l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per
siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur
se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo
accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa
non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo
danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in
presenza, da parte dell’interessato, di un implicito
riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre
che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di
rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire
spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale
a configurare questa situazione.
E’ infondato anche il motivo di appello con cui l’appellante
deduce la duplicazione di contratti del Comune con i due
contraenti, perché il secondo appaltatore Icomes ha
provveduto a demolire nell’anno 2011 le opere abusive,
mentre l’appaltatore Ati Edil Soccavo era intervenuto nei
due precedenti episodi del giugno e del luglio 2010, non
portati a compimento.
Non ha rilievo la circostanza che l’effettivo contratto tra
il Comune e l’appaltatore Ati Edil Soccavo fosse di alcuni
giorni successivo al primo intervento in quanto, come
dedotto dall’amministrazione comunale, già prima vi era
stata una consegna urgente dei lavori e riserva e successiva
stipulazione del contratto.
Allo stesso modo, non rileva la presenza eventuale di
un’altra impresa ai tentativi andati a vuoto, se ciò non ha
determinato –o non si dimostra che abbia determinato– una
duplicazione effettiva dei costi in relazione allo specifico
intervento.
E’ infondata anche la censura di appello che contesta la
corretta quantificazione, sostenendo che, nel rapporto tra
la effettiva demolizione (circa euro 28.000) e i tentativi
andati a vuoto (circa 10.000 euro) vi sarebbe una
sproporzione non giustificata.
Il Collegio osserva che talune delle voci della nota
relativa all’intervento di demolizione (smaltimento dei
rifiuti e altro) non possono essere contenute nelle note
relative agli interventi inutili. Tuttavia, è evidente che
le spese sostenute dall’appaltatore, e dovute a sua volta
dal Comune, comprendessero i costi vivi sostenuti in quelle
giornate, certo inferiori al reale intervento di
demolizione, ma non per questo indifferenti.
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori
di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e
vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non
richiede un’autonoma comunicazione di inizio del
procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241 (tra
varie, Cons. Stato, IV, 27.07.2011, n. 4506).
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che
l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o
del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei
responsabili dell'abuso (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.02.2015 n. 715 -
link a www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nei procedimenti preordinati all’emanazione di
ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova
applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter
procedimentale in ragione della natura vincolata del potere
repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile
quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto
dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della
stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della
legge 11.02.2005 n. 15.
---------------
3.3. Le ulteriori censure dedotte in appello non possono
essere accolte, poiché:
- quanto alle garanzie partecipative non vi è motivo per
discostarsi dalla concorde giurisprudenza, per la quale “nei
procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia
apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi
legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n.
241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge
11.02.2005 n. 15” (Cons. Stato, Sez. IV, 06.02.2013, n.
666; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011, n. 3398);
ciò che nella specie è altresì avvalorato dalla
considerazione che, secondo la ricorrente, la partecipazione
al procedimento di cui si tratta sarebbe stata utile per
prospettare la rilevanza delle intervenute domande di
condono che, per quanto sopra considerato, non può essere
ritenuta;
- per la stessa ragione non hanno rilievo l’asserzione del
vizio di ultrapetizione della sentenza, la censura,
riproposta nel presente grado, sull’interesse
all’impugnazione del verbale di accertamento
dell’inottemperanza e la ribadita ritualità della
presentazione dei motivi aggiunti ai sensi dell’art. 43 cod.
proc. amm., in quanto motivi basati sulla non accolta
deduzione del vizio della mancata considerazione delle
domande di condono;
- non sussiste, di conseguenza, neppure l’asserito difetto
di istruttoria e di motivazione dei provvedimenti
repressivi, riscontrandosi anche che l’impugnata ordinanza
di demolizione è basata sugli accertamenti della Polizia
municipale e sulla connessa relazione tecnica di
sopralluogo, nonché recante la compiuta descrizione delle
opere abusive
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
gennaio 2015 |
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