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dossier ABUSI EDILIZI
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---> per il dossier ABUSI EDILIZI sino al 2012 cliccare qui
dicembre 2024

EDILIZIA PRIVATA: N. Durante, Lo stato legittimo dell’immobile (dicembre 2024 - tratto da tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Il presupposto fondamentale di ogni intervento edilizio è la coincidenza dello stato di fatto dell’immobile o dell’unità immobiliare, con lo stato legittimo.
Lo stato legittimo non è un titolo, ma una condizione permanente dell’immobile (Cons. Stato n. 8339/2023), disciplinata dall’art. 9-bis, d.P.R. n. 380/2001, recentemente modificato col decreto legge n. 69 del 2024, c.d. “Salva Casa”, convertito dalla legge n. 105 del 2024.
Ciascun immobile e ciascuna unità immobiliare hanno un proprio stato di fatto, corrispondente al fabbricato com’esso è in natura, ed un proprio stato legittimo (o stato di diritto), corrispondente a come il fabbricato dev’essere in base ai titoli presupposti. (...continua).

settembre 2024

EDILIZIA PRIVATAL’edificio abusivo va distrutto. La sua demolizione è un atto di ripristino. Non è una pena. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo chiude definitivamente la querelle.
L’ordine di demolizione di una costruzione illegale, previsto dalla legge italiana, ha natura di ripristino e non punitiva. In sostanza, non è una pena, ma il restauro della situazione ambientale precedente l’abuso.

Lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, con la decisione 12.09.2024 n. 35780/18, pubblicata il 16.09.2024.
La vicenda.
Si tratta di un caso di un magazzino costruito senza permesso, come confermato dai tribunali italiani. Per questo, il proprietario era stato condannato e non poteva ragionevolmente fare affidamento sulla legalità della costruzione.
La Corte, esaminando il quadro normativo nazionale sui permessi di costruzione, la regolarizzazione e i condoni, e valutando il rapporto tra regolamenti edilizi e procedimenti penali, osserva che l'ordine di demolizione era stato emesso ai sensi dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47 del 1985 (incorporato nell'art. 31, comma 9, del Testo Unico dell'Edilizia).
La sentenza
Testualmente, si legge: «(…) La Corte rileva che, secondo la pertinente giurisprudenza interna (…), nell'ambito della risposta complessiva del sistema interno alle violazioni edilizie, l'ordine di demolizione emesso con una condanna è identico nell'oggetto e nella natura all'ordine di demolizione emesso dall'autorità amministrativa, che ha il diritto di ordinare la demolizione di costruzioni non autorizzate, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale».
Infatti, lo scopo di un ordine di demolizione è proprio quello di ripristinare il sito al suo stato precedente, e tali ordini, secondo la Corte, non possono essere soggetti a prescrizione. Ciò é necessario per garantire l'efficacia delle norme edilizie e dissuadere altri potenziali trasgressori. E il tempo trascorso non può modificare questa conclusione.
La forza della pronuncia
La Corte sottolinea, inoltre, che un ordine di demolizione é mantenuto anche se l'edificio non appartiene più all'autore del reato (ad esempio a enti giuridici, successori o terzi). Evidenzia, ancora la Corte, che l'ordine di demolizione viene mantenuto in caso di morte dell'autore del reato o di estinzione del reato dopo la condanna, per ragioni diverse dalla concessione di un permesso retroattivo o dall'amnistia.
Più precisamente: «A parere della Corte tali circostanze sono sintomatiche della natura riparativa degli ordini di demolizione, che sembrano volti a rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla punizione dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto dell'interesse pubblico all'ordinato utilizzo di terreno violato da costruzioni abusive o illegali allo scopo di riportare il terreno alla sua condizione originaria».
Nessuna scappatoia
E non rileva quanto il ricorrente lamenta e cioè che la demolizione del magazzino costituirebbe un’ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà ai sensi dell’articolo 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione sui Diritti dell’Uomo, che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno potrà essere privato dei suoi beni se non nell'interesse pubblico e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».
Infatti tali disposizioni: «(…) Non pregiudicano tuttavia in alcun modo il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per controllare l'uso dei beni in conformità con l'interesse generale o per garantire il pagamento di tasse o altri contributi o sanzioni» (articolo ItaliaOggi del 24.09.2024).
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DECISIONE

I FATTI
1. Il ricorrente, il signor Ce.Lo., è un cittadino italiano nato nel 1946 e residente a Balestrate, Palermo. È stato rappresentato dinanzi alla Corte dalla signora S. Sp., avvocato esercente a Palermo.

2. I fatti del caso, come esposti dal ricorrente, possono essere riassunti come segue.

  1. La condanna del ricorrente per il reato di abuso edilizio e l'amnistia edilizia concessa dal comune

3. Nel marzo 1995 gli ufficiali della polizia municipale di Partinico effettuarono un'ispezione su un terreno di proprietà del ricorrente e constatarono che su di esso era stato costruito un magazzino di 200 metri quadrati.

4. Successivamente gli ufficiali hanno accertato che l'edificio era stato costruito senza permesso di costruire.

5. Il 30.03.1995 il ricorrente ha presentato istanza di condono edilizio ai sensi dell'articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (vedi paragrafo 33 infra), dichiarando, tra l'altro, che la costruzione abusiva era stata ultimata dopo il 15.03.1985, vale a dire tra novembre e dicembre 1993. Ha presentato la documentazione pertinente e ha pagato l'oblazione come richiesto dalla normativa pertinente (vedi paragrafi 30 e seguenti infra).

6. Il 03.10.1997 il pretore di Palermo, sezione distaccata di Partinico, ha dichiarato il ricorrente colpevole, tra l'altro, del reato di abuso edilizio di cui all'articolo 20, lettera b), della legge 28.02.1985, n. 47 (vedi paragrafo 21 infra). Il pretore ha accertato che egli aveva edificato il magazzino senza permesso di costruire e che, contrariamente a quanto dichiarato ai fini dell'ottenimento del condono edilizio, la costruzione era stata effettivamente ultimata dopo il 1993. Per tale motivo, egli non poteva beneficiare del condono edilizio poiché, ai sensi della normativa pertinente (vedi paragrafo 33 infra), tale misura poteva essere concessa solo se l'abuso edilizio era stato ultimato prima del 31.12.1993 (vedi paragrafo 31 infra).

7. Il giudice ha condannato il ricorrente a una pena complessiva sospesa di due mesi di detenzione (arresto) e a una multa (ammendadi 8.000.000 di lire italiane (circa 4.130 euro). Inoltre, il giudice ha ordinato la demolizione della costruzione abusiva ai sensi dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 di seguito).

8. Il 19.10.1998 il Comune di Partinico accolse il condono edilizio richiesto dal ricorrente. In data imprecisata la costruzione venne trascritta nel catasto. 

9. Il ricorrente ha proposto ricorso contro la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di Palermo, chiedendo l'estinzione del reato di abuso edilizio, in quanto era stata concessa una sanatoria edilizia (cfr. paragrafi 29-33 infra).

10. L'08.03.1999 la Corte d'appello di Palermo ridusse l'importo della multa, ma confermò la condanna del ricorrente e l'ordine di demolizione. La corte ritenne "irrilevante" l'amnistia concessa dal comune, in quanto non sussistevano le condizioni rilevanti richieste dalla legge (vedi paragrafo 33 infra). Di conseguenza, il magazzino non poteva essere regolarizzato. La corte stabilì inoltre che, in caso di condanna per il reato di edilizia abusiva ai sensi dell'articolo 20(b) della legge n. 47 del 1985, il giudice era tenuto a ordinare la demolizione della costruzione ai sensi dell'articolo 7(9) di tale legge.

11. Il 30.01.2001, su richiesta del ricorrente, il comune di Partinico ha rilasciato un certificato di agibilità (cfrparagrafo 34 infra) per il magazzino. Il ricorrente utilizzava il magazzino nell'ambito di attività agricole.

12. In una data non specificata, la condanna del ricorrente divenne definitiva.

  1. Esecuzione dell'ordine di demolizione e procedimento di revisione (incidente di esecuzione )

13. Il 25.11.2015 il sostituto procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo ha notificato al ricorrente un'ingiunzione demolire emessa dalla Corte d'appello di Palermo l'08.03.1999. In particolare, gli è stato intimato di demolire il magazzino abusivo entro novanta giorni. Il pubblico ministero lo ha inoltre avvisato che, se non si fosse conformato volontariamente, le autorità avrebbero eseguito l'ingiunzione a sue spese.

14. Il 24.02.2016 gli ufficiali della polizia municipale effettuarono un'ulteriore ispezione del terreno del ricorrente e constatarono che la costruzione non era stata demolita. 

15. Il 22.06.2016 il ricorrente ha depositato presso la Corte d'appello di Palermo una richiesta di revisione dell'ordinanza esecutiva.
Basandosi su una sentenza del Tribunale di Asti del 03.11.2014 che affermava la natura "penale" degli ordini di demolizione (vedi paragrafo 53 infra), ha chiesto al tribunale di sospendere l'esecuzione dell'ordinanza di demolizione. Ha sostenuto che erano trascorsi più di dieci anni dalla sua condanna e che l'ordinanza di demolizione, che poteva essere considerata una pena, era pertanto prescritta ai sensi dell'articolo 173 del codice penale (vedi paragrafo 38 infra). Sottolineando che l'ordinanza di demolizione era stata eseguita sedici anni dopo la sua emissione e che nel frattempo il comune aveva concesso un condono edilizio, il ricorrente ha sostenuto che non vi era più un interesse pubblico nella demolizione e che le azioni del comune erano state incoerenti con la sentenza (in particolare il rilascio di un certificato di agibilità, vedi paragrafo 11 sopra).

16. Il 30.08.2016 la Corte d'appello di Palermo, in qualità di giudice dell'esecuzione, ha rigettato la domanda del ricorrente.
La Corte ha innanzitutto ribadito che il condono edilizio non avrebbe potuto essere concesso in assenza dei presupposti richiesti dalla legge. In secondo luogo, richiamando una sentenza della Corte di cassazione (n. 49331 del 2015, v. infra, paragrafi 44 e ss.), ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione, più che una sanzione, costituisse una misura riparatoria volta a riportare il sito o la costruzione alle condizioni precedenti. In quanto tale, essa usciva dall'ambito di applicazione dell'articolo 7 della Convenzione e, di conseguenza, dal termine di prescrizione di cui all'articolo 173 del codice penale.
Infine, la Corte d'appello ha osservato che il certificato di agibilità, in considerazione della sua diversa funzione (v. infra, paragrafo 34), era irrilevante rispetto alla normativa edilizia o urbanistica.
 

17. Il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, ribadendo le sue argomentazioni e aggiungendo che la Corte d'appello non aveva ritenuto che il lungo lasso di tempo trascorso dalla sua condanna, unitamente alla condotta del comune, avesse fatto sorgere un legittimo affidamento sulla legittimità del magazzino, che doveva essere soppesato con l'assenza di un attuale interesse pubblico alla sua demolizione. 

18. Con ordinanza n. 2781 del 20.01.2017, depositata in cancelleria il 23.01.2018, la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso del ricorrente, accogliendo la motivazione del giudice di merito e affermando che la sentenza di abuso edilizio era divenuta definitiva, nonostante l'amnistia concessa dal Comune.

19. Al momento in cui il ricorso è stato depositato presso la Corte, il magazzino non era ancora stato demolito. Il ricorrente sembra aver continuato a utilizzarlo in relazione ad attività agricole. Ad oggi, non ha informato la Corte di eventuali cambiamenti nella situazione.

QUADRO GIURIDICO E PRASSI RILEVANTI

  1. Quadro giuridico rilevante

    1. Considerazioni preliminari

20. All'epoca dei fatti, il quadro legislativo italiano rilevante era costituito principalmente dalle disposizioni della legge n. 47 del 28.02.1985 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie ).
Il decreto presidenziale n. 380 del 06.06.2001 (
Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – “Testo unico delle leggi edilizie”) ha codificato le disposizioni esistenti in materia di urbanistica e regolamentazione edilizia, tra cui la maggior parte delle disposizioni della legge n.
47 del 1985 (vedi GIEMSrl e altri contro Italia (merito) [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 105, 28.06.2018).
Per la maggior parte, le disposizioni rilevanti della legge n. 47 del 1985 sono state incorporate nel Testo unico delle leggi edilizie senza modifiche; qualora siano state apportate modifiche, queste sono indicate nelle note a piè di pagina dei relativi articoli.
 

  1. Legge 28.02.1985, n. 47 e Testo Unico delle Leggi sull'Edilizia (D.P.R. 06.06.2001, n. 380)

21. L'articolo 4 della legge n. 47 del 1985, nelle parti pertinenti recepito con lieve modifica nell'articolo 27 del Testo Unico delle Costruzioni [1], ha designato il sindaco quale autorità incaricata di vigilare sulle attività urbanistiche ed edilizie nel territorio comunale per garantirne la conformità alle leggi e ai regolamenti, alle disposizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità di costruzione stabilite nei permessi di costruire.
22. Le parti rilevanti dell'articolo 7 della legge n. 47 del 1985, recepite senza modifiche nell'articolo 31 del Testo Unico delle Costruzioni [2], disponendo quanto segue:

   “1. Sono considerati interventi edilizi eseguiti in violazione del permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un fabbricato totalmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di destinazione d'uso da quello oggetto del permesso stesso, ovvero la realizzazione di volumi edificabili eccedenti i limiti indicati nel progetto e che costituiscano un fabbricato o parte di esso separatamente individuabile ed utilizzabile.  
   2. 
Il sindaco, accertato l'esecuzione di lavori edilizi senza permesso di costruire, in violazione dell'autorizzazione o con variazioni essenziali da quanto previsto dal permesso, ne ordina la demolizione.  
   3. 
Se il responsabile della costruzione abusiva non procede alla demolizione o al ripristino del sito entro novanta giorni dal provvedimento di demolizione, la costruzione e l'area di sedime ... sono acquisite senza indennizzo dal comune ... 
   4. La mancata ottemperanza all'ordine di demolizione entro il termine stabilito nel comma precedente costituisce motivo di presa di possesso [dell'immobile] e di trascrizione nel registro immobiliare, che deve essere effettuata gratuitamente. 
   5. Il sindaco ordina la demolizione dell'opera edilizia incorporata a spese del responsabile, a meno che una deliberazione del consiglio comunale non dichiari l'esistenza di un prevalente interesse pubblico e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. 
   ...
   8. Se [il sindaco] non provvede ... il capo della Giunta regionale ... adotta i provvedimenti richiesti, dandone contestuale comunicazione all'autorità giudiziaria competente per l'esercizio dell'azione penale. 
   ...

23. La parte rilevante dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985, che è stata incorporata senza modifiche nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico sull'edilizia, prevedeva quanto segue:

   “In caso di condanna per il reato di cui all'articolo 20 della presente legge relativamente all'opera abusiva di cui al presente articolo, il giudice ordina la demolizione dell'opera se non è stata ancora eseguita diversamente.

24. L'articolo 17 della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche nell'articolo 46 del Testo Unico dell'edilizia, nelle parti rilevanti prevedeva che i contratti di compravendita aventi ad oggetto edifici o parti di edifici realizzati dopo il 17.03.1985 erano nulli se non menzionavano gli estremi del relativo permesso di costruire o del condono.

25. L'articolo 20, lettera b), della legge n. 47 del 1985, convertito senza modifiche nell'articolo 44, lettera b), del Testo unico dell'edilizia, prevedeva la punizione per chi eseguiva lavori edilizi senza o in violazione del permesso di costruire con l'arresto fino a due mesi con la multa da lire 10.000.000 (5.164 euro) a lire 100.000.000 (51.645 euro).

  1. Regolarizzazione abusivismo edilizio

26. In base al diritto interno, l'abusivismo edilizio può essere regolarizzato mediante il rilascio di un permesso /concessione in sanatoria o di un condono edilizio .  

27. Il rilascio dell'autorizzazione retroattiva è disciplinato dall'articolo 36 del Testo Unico delle Costruzioni, che recepisce, con modificazioni [3], articolo 13 della legge n. 47 del 1985, vigente all'epoca dei fatti.

28. L'autorizzazione retroattiva è concessa per sanare le violazioni “formali”, vale a dire i lavori edili che, pur essendo realizzati in assenza o in violazione del permesso di costruire, sono conformi alle norme edilizie vigenti al momento della costruzione e al momento della presentazione della domanda di doppia conformità.

29. Ai sensi dell'articolo 22(1) della legge n. 47 del 1985, recepito con modificazioni nell'articolo 45 del Testo Unico sull'edilizia, la prosecuzione dei reati edilizi è sospesa fino al completamento delle procedure di regolarizzazione. Ai sensi dell'articolo 22(3) della legge n. 47 del 1985, il rilascio dell'autorizzazione retroattiva estingue le contravvenzioni previste dalle norme urbanistiche applicabili. 

30. I condoni edilizi sono misure di natura eccezionale introdotte da specifiche leggi nazionali. A differenza dell'autorizzazione retroattiva, la concessione del condono non è subordinata alla conformità dell'opera edilizia alle norme in materia e può pertanto essere concessa per regolarizzare violazioni "sostanziali", purché siano rispettate le condizioni stabilite dalla legge di condono pertinente e venga versata una tassa di condono (oblazione ). Inoltre, i condoni edilizi sono misure temporanee in quanto si applicano solo alle opere edili completate prima di una certa data. 

31. La prima sanatoria edilizia fu introdotta dall'articolo 31 della legge n. 47 del 1985, che prevedeva che i proprietari di opere edilizie realizzate senza o in violazione di un permesso di costruire potessero presentare domanda di sanatoria a condizione, tra l'altro, che i lavori fossero stati ultimati prima di una certa data (01.10.1983).

32. L'articolo 38(2) della legge n. 47 del 1985 prevedeva che il reato di costruzione abusiva punibile ai sensi dell'articolo 20 della legge e qualsiasi altro reato connesso fosse estinto (vedere paragrafo 21 sopra) a condizione che la richiesta di amnistia ai sensi dell'articolo 31 della legge fosse presentata entro il termine perentorio e che fosse pagata la relativa tassa.

33. La seconda amnistia edilizia [4] è stato introdotto dall'art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724, che ha stabilito le condizioni alle quali le costruzioni abusive completate prima del 31.12.1993 potevano beneficiare di una sanatoria. Se tali condizioni fossero state soddisfatte, si sarebbero potute applicare le disposizioni degli artt. 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, e la sanatoria avrebbe avuto i medesimi effetti (tra cui l'estinzione dei reati edilizi).

  1. Certificate of fitness for use (certificato di agibilità)

34. Ai sensi dell'articolo 220 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 [5] e l'articolo 107 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico degli enti locali), i governatori dei comuni possono rilasciare certificati di agibilità per gli edifici ad uso non residenziale, a condizione che siano rispettate le relative condizioni di sicurezza degli edifici.

  1. Revisione di un ordine di esecuzione

35. L'articolo 665 del codice di procedura penale contiene disposizioni relative alle funzioni del giudice dell'esecuzione .  

36 . Ai sensi dell'articolo 666 § 1 del codice di procedura penale, che disciplina il procedimento in questione (incidente di esecuzione ), il giudice dell'esecuzione agisce su richiesta del pubblico ministero, dell'interessato o del suo rappresentante.  

37. La validità o l'esecutività di una condanna possono essere contestate mediante opposizione all'esecuzione ai sensi dell'articolo 670 § 1 del codice di procedura penale (“Questioni sul titolo esecutivo” ). Se l'opposizione è accolta, il giudice dell'esecuzione sospende l'esecuzione della sentenza e ordina i successivi provvedimenti necessari.

  1. Altre disposizioni nazionali rilevanti

38 . Le parti rilevanti dell'articolo 173 del codice penale (“Estinzione delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo) recitano come segue:

   “1. Le pene dell’arresto e dell’ammenda si estinguono dopo un periodo di cinque anni .  
   2. Se alla sanzione pecuniaria si aggiunge la detenzione, ai fini dell'estinzione di entrambe le pene si terrà conto solo della scadenza del termine stabilito per la detenzione.
   3. Il punto di partenza è determinato ai sensi dell'[articolo 172 § 3].
 

39. Ai sensi dell'articolo 172 § 3 del codice penale, il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui la condanna è divenuta definitiva o dalla data in cui il condannato è evaso dalla pena dopo la sua esecuzione.

  1. Pratica nazionale rilevante

    1. Giurisprudenza della Corte Costituzionale

40. Con ordinanza n. 33 del 18.01.1990, la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 nella parte in cui richiedeva l'emissione di un ordine di demolizione nell'ambito di un procedimento penale quando l'ordine di demolizione non era ancora stato eseguito con ordine del comune (vedi paragrafo 23 sopra). Sebbene la Corte abbia ritenuto la questione manifestamente infondata, ha ritenuto che l'ordine di demolizione fosse un provvedimento amministrativo emesso dal giudice in sostituzione dell'amministrazione locale quando quest'ultima non vi aveva provveduto. 

41. Con ordinanza n. 56 del 09.03.1998, la Corte costituzionale ha ribadito che l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice penale con condanna per il reato di abusivismo edilizio ha una «funzione integrativa» nell'assicurare l'efficacia delle sanzioni amministrative non ancora eseguite dall'autorità amministrativa, e che si tratta di una sanzione amministrativa e non di una pena accessoria o di una sanzione penale atipica, secondo la consolidata giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di cassazione.
A tale riguardo, la Corte costituzionale ha inoltre ritenuto che l'ordinanza di demolizione dovesse essere revocata qualora risultasse incompatibile con una diversa decisione adottata dall'amministrazione; a tal fine, essa poteva essere riesaminata in sede esecutiva (cfr. infra, paragrafo 48).
  

  1. Giurisprudenza della Corte di Cassazione

           (a)  Giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di Cassazione

42. La Corte plenaria di Cassazione, nella sentenza n. 15 del 24.07.1996, ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione emessa dal giudice ai sensi dell'art. 7, comma 9, della legge n. 47 del 1985 (cfr supra, paragrafo 23) avesse una finalità risarcitoria direttamente collegata all'esigenza di estirpare le conseguenze del reato di abuso edilizio. Ha poi precisato che l'ordinanza di demolizione, pur essendo un provvedimento amministrativo, faceva anche parte della pena. Pertanto, quando faceva parte di una pena penale, l'esecuzione era affidata al pubblico ministero, che poteva presentare richiesta al giudice dell'esecuzione. 

43 . In proposito, la Corte di Cassazione (anche nelle sentenze n. 8409 del 28.02.2007; n. 37836 del 28.07.2017 e 10.10.2022 n. 38104) ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione può essere pronunciata dal giudice solo in caso di condanna, mentre non può essere emessa in caso di archiviazione del procedimento per prescrizione del reato. In ogni caso, l'amministrazione comunale resta libera di adottare i provvedimenti opportuni nell'ambito del suo compito di garantire la conformità degli interventi edilizi alle norme edilizie (ai sensi degli articoli 4 e 7 della legge n. 47 del 1985, recepiti negli articoli 27 e 31 del Testo Unico delle Costruzioni, v. paragrafi 21 e 22 sopra). 

44. Con sentenza n. 49332 del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier, la Corte di cassazione ha annullato la sentenza del tribunale di Asti del 03.11.2014 (cfr. paragrafi 15 supra e 53 infra), con cui tale tribunale aveva ritenuto che gli ordini di demolizione costituivano una sanzione penale ai sensi dell'articolo 6 § 1 e dell'articolo 7 della Convenzione e, in quanto tali, rientravano nell'ambito di applicazione dell'articolo 173 del codice penale, che prevedeva la prescrizione delle pene qualificate come penali nel diritto interno (cfr. paragrafo 38 supra). 

45. La Corte di cassazione ha esaminato in dettaglio le disposizioni di legge che disciplinano gli ordini di demolizione, anche alla luce della giurisprudenza pertinente della Corte (in particolare Engel e altri c. Paesi Bassi, 08.06.1976, serie A n. 22, e Öztürk c. Germania, 21.02.1984, serie A n. 73).
Ha osservato che la demolizione era una risposta obbligatoria alle violazioni più gravi delle norme edilizie; una volta accertato che era stata realizzata una costruzione abusiva, la demolizione doveva essere eseguita nei confronti di qualsiasi soggetto connesso alla costruzione (
in rem), indipendentemente dalla responsabilità personale del suo proprietario e dall'avvio di un procedimento penale nei suoi confronti; di conseguenza, poteva essere eseguita anche nei confronti di persone giuridiche e aventi causa del responsabile della costruzione.
Inoltre, un ordine di demolizione aveva la stessa natura, indipendentemente dall'autorità che lo emetteva, il comune o il giudice a seguito di una condanna; entrambi potevano emettere tali ordini in modo indipendente, poiché il coordinamento era garantito nella fase di esecuzione (vedere paragrafi 22-23 sopra).
 

46. ​​Per tali motivi, la Corte di cassazione ha concluso che i provvedimenti di demolizione costituiscono una misura di natura reale e di carattere ripristinatorio, volta a riportare un sito alle sue condizioni originarie; essi non costituiscono pertanto una sanzione e non sono soggetti a prescrizione.

47. Nella sentenza n. 41475 del 04.10.2016, la Corte di cassazione ha ribadito le proprie conclusioni sulla qualificazione degli ordini di demolizione come misura riparatoria, sottolineando che la normativa rilevante (vale a dire l'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985, recepito nell'art. 31 § 9 del Testo unico sull'edilizia, vedi paragrafo 23 che precede) imponeva al giudice di emettere un ordine di demolizione se non era già stato eseguito altrimenti, vale a dire dal comune.
A parere della Corte di cassazione, ciò ha confermato l'identità di tali ordini, che conservavano la loro natura riparatoria anche quando erano disposti a seguito di una condanna per il reato di abuso edilizio (vedi paragrafo 21 che precede).

48 . La Corte di Cassazione ha costantemente osservato che, mentre il giudice ha il diritto di accertare autonomamente gli elementi costitutivi del reato di abusivismo edilizio (che può comportare una valutazione di legittimità del permesso di costruire, del nulla osta retroattivo o dell'amnistia concessi dall'amministrazione), la demolizione non può essere ordinata o mantenuta quando è incompatibile con i provvedimenti adottati dall'amministrazione.
In tal caso, anche dopo che la condanna sia passata in giudicato, l'ordinanza può essere revocata mediante richiesta di revisione del provvedimento esecutivo (cfr., 
tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 47402 del 18.11.2014; n. 42699 del 07.07.2015; e 10.12.2018 n. 55028, v. paragrafo 36 sopra).
Inoltre, l'esecuzione di un ordine di demolizione può essere sospesa, a determinate condizioni, se è stata presentata all'amministrazione una richiesta di autorizzazione retroattiva o di amnistia dopo la condanna (vedere, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione n. 16686 del 20.04.2009 e n. 35201 del 22.08.2016).
Pertanto, il coordinamento tra giurisdizione penale e autorità amministrativa è sempre assicurato nella fase esecutiva e il giudice dell'esecuzione è chiamato a valutare la compatibilità dell'ordine di demolizione con le decisioni dell'amministrazione, al fine di stabilire se e con quali mezzi l'ordine possa essere eseguito (vedere, 
tra le altre, la sentenza della Corte di Cassazione n. 702 del 14.02.2000).

49 . Inoltre, la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che l'ordinanza di demolizione prevista dall'art. 7(9) della legge n. 47 del 1985 (cfr. paragrafo 23 che precede), essendo misura riparativa reale identica per oggetto e natura ad un ordine di demolizione emesso da un'autorità amministrativa, sopravvive all'estinzione del reato (per cause diverse dal rilascio del nulla osta retroattivo o dall'amnistia, cfr. paragrafi 29 e 32 che precede) di abusivismo edilizio, nonché alla morte del condannato, poiché riguarda esclusivamente l'esistenza di abusivismo edilizio ed è diretta contro il bene e non contro la persona (in rem ) (cfr., tra le altre, sentenze della Corte di Cassazione n. 2674 del 18.09.2000; n. 7228 del 25.02.2011; n. 18533 dell'11.05.2011; e n. 41475 del 04.10.2016). 

50. In altri termini, secondo la Corte di Cassazione, l'ordinanza di demolizione, sia essa emanata dai giudici di giurisdizione penale o dall'autorità amministrativa, ha come finalità la rimozione di edifici abusivi e abusivi (vale a dire, di edifici realizzati senza autorizzazione o avvalendosi di un'autorizzazione che gli stessi giudici di giurisdizione penale, nella loro autonoma valutazione, ritengono invalida; v. par. 48 che precede), autonoma rispetto alla punizione dell'autore del reato, in quanto risponde all'interesse pubblico all'uso ordinato del suolo (v. sentenza della Corte di Cassazione n. 51044 del 03.10.2019). 

51. A seguito della citata sentenza Delorier, la giurisprudenza della Corte di cassazione è stata costante e ormai consolidata nel respingere l'applicazione della prescrizione delle pene all'ordinanza di demolizione, data la sua natura riparatoria (cfr., tra le altre, sentenze della Corte di cassazione n. 9949 del 20.01.2016; n. 35052 del 10.03.2016; n. 51044 del 09.11.2018; n. 11916 del 21.11.2018; n. 3979 del 28.01.2019; e n. 21198 del 18.05.2023).

           (b)  Giurisprudenza delle Sezioni civili della Corte di Cassazione

52. Con sentenza 22.03.2019 n. 8230, la Corte plenaria di Cassazione è intervenuta sulla questione, ampiamente dibattuta nella giurisprudenza interna, della validità dei contratti di compravendita relativi a costruzioni abusive.
La Corte ha affermato che, ai sensi della normativa interna in materia (v. supra, paragrafo 24), tale validità non è subordinata alla conformità della costruzione al permesso di costruire, ma solo all’esplicita menzione del permesso di costruire o della sanatoria nell’atto notarile di trasferimento inter vivos del titolo

Secondo 
la Corte di Cassazione, tale requisito costituisce solo uno degli strumenti scelti dal legislatore per contrastare la proliferazione di costruzioni abusive, atteso che l’interesse pubblico all’uso ordinato e sicuro del suolo nel rispetto delle norme edilizie è soddisfatto dalle altre misure previste in ambito amministrativo e penale e, nei casi più gravi, dalla misura riparatoria della demolizione.

  1. Altre pratiche nazionali rilevanti

53. Con sentenza del 03.11.2014, il Tribunale di Asti, in qualità di giudice dell'esecuzione, ha accolto un'opposizione avverso l'esecuzione di un ordine di demolizione emesso a seguito di una condanna per il reato di edilizia abusiva.
Il tribunale ha confermato che gli ordini di demolizione, nonostante la loro qualificazione nel diritto interno come misura riparatoria sulla base dei criteri stabiliti nella sentenza 
Engel e altri (citata sopra), costituivano una pena ai sensi della Convenzione a causa del loro scopo repressivo, della loro severità e della loro connessione con un reato penale.
Pertanto, secondo il tribunale, gli ordini di demolizione rientravano nell'ambito di applicazione della normativa sull'estinzione delle pene, incluso l'articolo 173 del codice penale sulla prescrizione (vedere paragrafo 38 sopra).
 

54. Tale decisione è stata poi annullata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 49332 del 15.12.2015, nota come sentenza Delorier, v. paragrafi 44 e ss. sopra). 

RECLAMI

55. Invocando l'articolo 7 della Convenzione, il ricorrente lamentava la violazione del principio di legalità, poiché l'ordine di demolizione del suo magazzino, che a suo avviso equivaleva a una sanzione, non poteva essere eseguito dopo la scadenza del termine di prescrizione rilevante. 

56. Ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, egli si è lamentato del fatto che il tribunale interno abbia qualificato l'ordinanza di demolizione come misura riparatrice anziché come sanzione. 

57. Infine, ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, egli ha sostenuto che l'esecuzione dell'ordine di demolizione avrebbe costituito un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà. 

LA LEGGE

  1. Presunta violazione dell'articolo 7 della Convenzione

58. Il ricorrente ha sostenuto che, alla luce dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, i giudici nazionali avrebbero dovuto concludere che l'ordine di demolizione previsto dall'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 sopra) equivaleva a una sanzione. A suo avviso, la loro omissione aveva comportato una violazione del principio di legalità –in quanto impediva l'applicazione dell'articolo 173 del Codice penale relativo all'estinzione delle pene per decorso del tempo (vedere paragrafo 38 sopra)– e del principio di proporzionalità delle pene. Egli si è basato sull'articolo 7 della Convenzione, che recita come segue:    

   “1. Nessuno può essere ritenuto colpevole di alcun reato penale per un atto o un’omissione che non costituisse reato ai sensi del diritto nazionale o internazionale al momento in cui è stato commesso. Né può essere imposta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.”

59. Il ricorrente ha sottolineato che l'ordinanza di demolizione in questione è stata emessa a seguito di una condanna per il reato penale di costruzione abusiva, che non poteva essere mantenuta se tale reato fosse stato dichiarato prescritto (vedere paragrafo 43 sopra) e, per quanto riguarda la sua gravità, che comportava una radicale privazione di proprietà. Egli si è basato, in particolare, sulle conclusioni della Corte nella causa Hamer c. Belgio, n. 21861/03, § 60, CEDU 2007 ‑ V (estratti).  

60. La Corte ribadisce che il concetto di “punizione” o “pena” come stabilito dall’articolo 7 § 1 della Convenzione ha una portata autonoma.
Per rendere effettiva la protezione offerta da questa disposizione, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare autonomamente se una particolare misura costituisca in sostanza una “pena” ai sensi di questa disposizione (vedi 
Welch c. Regno Unito, 09.02.1995, § 27, serie A n. 307 ‑ A; Del Río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 81, CEDU 2013; e GIEMSrl e altri c. Italia 
(merito) [GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 210, 28.06.2018).
La formulazione della seconda frase dell'articolo 7 § 1 indica che il punto di partenza in qualsiasi valutazione dell'esistenza di una sanzione è se la misura in questione sia imposta a seguito di una condanna per un "reato penale". Altri fattori che possono essere presi in considerazione come rilevanti a questo proposito sono la natura e lo scopo della misura in questione; la sua caratterizzazione ai sensi del diritto nazionale; le procedure coinvolte nell'elaborazione e nell'attuazione della misura; e la sua severità (vedi 
Welch, § 28; Del Río Prada, § 82; e GIEMSrl e altri (meriti), § 211, tutti citati sopra).
Tuttavia, la severità della misura non è di per sé decisiva, poiché molte misure non penali di natura preventiva possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (vedi 
Del Río Prada, cit., § 82, e i riferimenti ivi contenuti, e Rola c. Slovenia, nn. 12096/14 e 39335/16, § 66, 04.06.2019).
 

61. La Corte osserva di aver generalmente ritenuto che l'esistenza di una condanna per un reato penale fosse solo uno dei criteri da prendere in considerazione (vedi Saliba c. Malta (dec.), n. 4251/02, 23.11.2004, e Berland c. Francia, n. 42875/10, § 42, 03.09.2015), e che non potesse essere ritenuta decisiva per stabilire la natura della misura (vedi Valico Srl c. Italia (dec.), n. 70074/01, CEDU 2006 ‑ III, e Balsamo c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, § 60, 08.10.2019).
La Corte ha raramente considerato questo fattore come decisivo per dichiarare l'inapplicabilità dell'articolo 7 (vedi 
Yildirim c. Italia (dec.), n. 38602/02, CEDU 2003 ‑ IV, e Bowler International Unit c. Francia, n. 1946/06, § 67, 23.07.2009).

62. Passando al caso di specie, la Corte rileva anzitutto che al ricorrente è stato ordinato di demolire il suo magazzino ai sensi dell'articolo (9) della legge n. 47 del 1985 (recepito nell'articolo 31 § 9 del Testo Unico sull'edilizia), che autorizza il giudice penale ad emettere tale ordine in caso di condanna per il reato di edilizia abusiva (vedere paragrafo 23 sopra).
Poiché la demolizione non può essere ordinata quando il reato è prescritto, poiché richiede una “condanna” (vedere paragrafo 43 sopra), la Corte ritiene che vi sia, in effetti, un nesso tra la misura in questione e la commissione di un reato (vedere, nel contesto dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, 
Hamer, sopra citato, § 54; vedere anche, mutatis mutandis, Ulemek c. Serbia (dec.), n. 41680/13, § 48, 02.02.2021).
Allo stesso tempo, la Corte rileva che, secondo la pertinente giurisprudenza interna (vedere paragrafo 43 sopra), nell'ambito della risposta complessiva del sistema interno alle violazioni edilizie (vedere paragrafo 41 sopra), l'ordine di demolizione emesso a seguito di una condanna è identico per oggetto e natura all'ordine di demolizione emesso dall'autorità amministrativa, che ha il diritto di ordinare la demolizione di costruzioni abusive, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale (vedere paragrafi 22 e 43 sopra).
 

63. Poiché l'irrogazione della misura impugnata a seguito di condanna per un reato non è di per sé decisiva per stabilire la natura della misura (vedi GIEMSrl e altri (merito), § 215, e Balsamo, § 60, entrambe citate sopra), la Corte esaminerà gli altri criteri rilevanti (vedi paragrafo 61 sopra). 

64. Per quanto riguarda la qualificazione degli ordini di demolizione ai sensi del diritto nazionale, la Corte riconosce che, diversamente dalla causa Hamer (citata sopra) invocata dal ricorrente, la classificazione di tali ordini come misura riparatoria è unanime tra i giudici nazionali, che sono giunti a tale conclusione alla luce dei criteri elaborati nella giurisprudenza della Corte (vedere paragrafi 46-50 sopra e confrontare il paragrafo 53 sopra; confrontare e contrapporre Hamer, § 57, e GIEMSrl e altri (merito), §§ 121 e 223, entrambi citati sopra).

65 . Quanto alla natura e allo scopo degli ordini di demolizione, la Corte ritiene che la misura sia chiaramente volta a ripristinare un sito alle sue condizioni originali, rendendo i lavori di costruzione conformi alle norme edilizie, indipendentemente dal fatto che venga imposta una sanzione anche nei confronti di coloro che sono accusati del reato di costruzione abusiva. A questo proposito, essa attribuisce innanzitutto importanza al fatto che la demolizione, essendo una misura in rem, è ordinata anche se l'edificio non appartiene all'autore del reato (ad esempio a persone giuridiche, successori in proprietà o terzi, vedere paragrafo 45 sopra).
In secondo luogo, essa rileva che, secondo la prassi nazionale, un ordine di demolizione è mantenuto in caso di morte dell'autore o di estinzione del reato dopo la condanna, per motivi diversi dalla concessione di un permesso retroattivo o di un'amnistia (vedere paragrafo 49 sopra).
La Corte ritiene che tali circostanze siano sintomatiche della natura riparatoria degli ordini di demolizione, che sembrano concepiti per rimuovere le costruzioni abusive indipendentemente dalla punizione dell'autore del reato, al fine di garantire il rispetto dell'interesse pubblico all'uso ordinato del suolo violato da edifici abusivi o illegali mediante il ripristino del suolo alle sue condizioni originarie (vedere 
Saliba e, mutatis mutandis, Ulemek, § 53, entrambi citati sopra; confrontare The J. Paul Getty Trust e altri contro Italia, n. 35271/19, § 314, 02.05.2024; confrontare e contrapporre Valico Srl GIEMSrl e altri (merito), § 224, entrambi citati sopra).
 

66. Quanto alle procedure di adozione e di esecuzione degli ordini di demolizione, la Corte ha già rilevato che l'ordine di demolizione contestato è stato emesso dai giudici di giurisdizione penale. Tuttavia, ha ripetutamente affermato che ciò non può essere di per sé decisivo, poiché è una caratteristica comune di diversi ordinamenti giuridici nazionali che i giudici penali adottino decisioni di natura non punitiva, come, ad esempio, misure di riparazione civile per la vittima del fatto criminoso (vedi Balsamo, cit., § 63).
A questo proposito, la Corte rileva ancora una volta il fatto che l'amministrazione ha il diritto di emettere un ordine di demolizione di identico contenuto, indipendentemente dal fatto che sia stato avviato o concluso un procedimento penale (vedi paragrafi 22 e 43 sopra), cosicché il giudice penale ordinerà la demolizione finché non sarà già stata eseguita dall'amministrazione (vedi ordinanza della Corte costituzionale n. 33 del 18.01.1990, paragrafo 40 sopra; vedi anche paragrafo 
45 sopra).
 

La Corte osserva inoltre che, mentre i tribunali penali e il comune hanno in abstracto il diritto di agire indipendentemente l'uno dall'altro, la concessione di un'amnistia o di un'autorizzazione retroattiva da parte dell'autorità amministrativa è presa in considerazione dai tribunali penali, che agiscono in qualità di tribunali esecutivi, i quali possono in tal caso, a condizione che tali misure siano state adottate legalmente, revocare l'ordine di demolizione o sospenderne l'esecuzione dopo che la condanna è divenuta definitiva (vedere paragrafo 48 sopra).

67 . Quanto, infine, alla severità degli ordini di demolizione, la Corte ribadisce che tale fattore non è di per sé decisivo, poiché numerose misure non penali possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata (cfr.  Welch, § 32; Del Río Prada, § 82; e Balsamo, § 64, tutti citati sopra). La Corte ritiene che, sebbene un ordine di demolizione sia una misura che può avere un impatto sulla persona interessata (a seconda delle caratteristiche e della natura della costruzione non autorizzata), la sua severità non è tale da suggerire che debba essere caratterizzata come una sanzione.
L'oggetto di tale ordine è, infatti, limitato a lavori (o parte di essi) che sono stati eretti senza o in violazione di un permesso di costruire (vedere, 
mutatis mutandis, Ulemek, § 56; confrontare e contrapporre GIEMSrl e altri (meriti), § 227, entrambi citati sopra) e, come misura volta a garantire il rispetto delle normative edilizie in modo da ristabilire lo stato di diritto e consentire l'uso ordinato e sicuro del suolo (interessi a cui la Corte ha ripetutamente attribuito un'importanza significativa; confrontare, inter alia,
  Saliba c. Malta, n. 4251/02, § 44, 08.11.2005, e Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, n. 46577/15, § 51, 21.04.2016), la Corte ritiene che la rimozione degli edifici illegali e abusivi rappresenti una risposta necessaria e appropriata (vedere, mutatis mutandis, Balsamo,
citato sopra, § 64).

68. Alla luce di quanto precede, avendo preso atto e soppesato ciascuna delle caratteristiche della misura contestata, la Corte ritiene che esse siano sintomatiche della sua natura prevalentemente riparatoria; a questo proposito, il presente caso differisce da Hamer (citato sopra, §§ 54-60).
La Corte conclude pertanto che l'ordine di demolizione in questione non costituiva una "sanzione" ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione (vedere, 
mutatis mutandis, Saliba (dec.), citato sopra; confrontare e contrapporre Hamer,
citato sopra, § 60). Tale disposizione non è pertanto applicabile nel presente caso.

69. Ne consegue che il presente ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell'articolo 35 § 3 e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4. 

  1. Presunta violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione

70. Il ricorrente lamentava che, alla luce della giurisprudenza della Corte che stabilisce i criteri per valutare l'esistenza di un'accusa penale (in particolare, Engel e altri, citati sopra), la qualificazione da parte del tribunale nazionale dell'ordine di demolizione nel suo caso come misura riparatrice aveva comportato una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. La parte rilevante di tale disposizione recita come segue:  

   “Nella determinazione di ... qualsiasi accusa penale rivolta contro di lui, ognuno ha diritto a un'equa ... udienza ... da parte di [un] ... tribunale ...”.

71 . Occorre osservare in via preliminare che il ricorrente ha contestato l'interpretazione data dal tribunale nazionale dell'ordinanza di demolizione come misura riparatoria in quanto tale, sostenendo che essa era incompatibile con la giurisprudenza della Corte.  

72. A questo proposito, la Corte, riferendosi alle sue conclusioni di cui sopra ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione (vedere paragrafo 68 sopra), ribadisce che non è suo compito occuparsi di presunti errori di diritto o di fatto commessi dai giudici nazionali, a meno che e nella misura in cui possano aver violato i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione (vedere, tra molte altre autorità, Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2) [GC], n. 19867/12, § 83, 11.07.2017).  

73. La Corte ritiene pertanto che, anche supponendo che l'articolo 6 sia applicabile al procedimento di cui al capo civile, il ricorrente non ha dedotto alcuna privazione delle garanzie di un giusto processo sancite dall'articolo 6 a seguito dell'interpretazione adottata dal tribunale nazionale. 

74. Ne consegue che il ricorso ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione è manifestamente infondato e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 § 4. 

  1. Presunta violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

75. Il ricorrente lamentava che la demolizione del magazzino avrebbe costituito un'ingerenza sproporzionata nei suoi diritti di proprietà ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, che recita come segue:   

   “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al pacifico godimento dei suoi beni. Nessuno può essere privato dei suoi beni se non per causa di pubblico interesse e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
   Le disposizioni precedenti non pregiudicano tuttavia in alcun modo il diritto di uno Stato di applicare le leggi che ritiene necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per garantire il pagamento delle imposte o di altri contributi o sanzioni
".

76 . Egli sosteneva che i tribunali nazionali non avevano considerato che l'ordine di demolizione del suo magazzino era stato eseguito anni dopo la condanna su cui si basava e che il comune gli aveva concesso l'amnistia (vedere paragrafo 8 sopra) e un certificato di idoneità all'uso (vedere paragrafo 11 sopra). Questi fattori, a suo avviso, avevano dato origine a un'aspettativa legittima che avrebbe dovuto essere soppesata rispetto a qualsiasi interesse pubblico concorrente nell'eseguire la demolizione.   

77. La Corte rileva che il magazzino costruito dal ricorrente è stato dichiarato costruzione abusiva dai tribunali nazionali (vedere paragrafo 10 sopra). La Corte riconosce che è stato dibattuto a livello nazionale se gli edifici abusivi potessero essere oggetto di diritti di proprietà e potessero quindi essere validamente trasferiti e acquistati (vedere paragrafo 52 sopra). 

78. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte ritiene che non sia necessario affrontare specificamente la questione se il magazzino del ricorrente potesse essere considerato un “bene” ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (vedere, tra le altre, Beyeler c. Italia [GC], n. 33202/96, § 100, CEDU 2000-I; Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 124, CEDU 2004-XII; e Hamer, cit., § 75), dato che, anche supponendo che così fosse, il presente ricorso è in ogni caso inammissibile per le seguenti ragioni.    

79. La Corte rileva innanzitutto che al momento della presentazione del presente ricorso il magazzino del ricorrente non era ancora stato demolito e che, a tutt'oggi, la Corte non è stata informata del contrario (vedere paragrafo 19 sopra). La demolizione pianificata, che mira a garantire il rispetto delle norme edilizie, costituisce un controllo dell'uso dei beni (vedere Ivanova e Cherkezov, citata sopra, § 69).
Essa deve pertanto essere esaminata alla luce del secondo paragrafo dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (vedere 
Saliba, citata sopra, § 35; Zhidov e altri contro Russia, nn. 54490/10 e altri 3, § 96, 16.10.2018; confrontare Depalle contro Francia [GC], n. 34044/02, § 79, CEDU 2010, e Hamer, citata sopra, § 77).
 

80. La Corte osserva che l'ordinanza di demolizione contestata è stata emessa ai sensi dell'articolo 7(9) della legge n. 47 del 1985 (vedere paragrafo 23 sopra) e che, di conseguenza, il pubblico ministero ha agito in vista della sua esecuzione, che non era soggetta a prescrizione (vedere paragrafi 13 e 46 sopra). L'ingerenza era quindi conforme alla legge. 

81. La Corte ribadisce che lo scopo di un ordine di demolizione è quello di ripristinare il sito alle sue condizioni originali, garantendo così l'uso ordinato e sicuro del terreno nel rispetto delle norme edilizie (vedere paragrafo 65 sopra). Essa non ha quindi dubbi sulla legittimità dello scopo perseguito dal provvedimento contestato, che è chiaramente "conforme all'interesse generale" (vedere Saliba, § 44, e Ivanova e Cherkezov, § 71, entrambi citati sopra).

82. Quanto alla questione se l'obiettivo perseguito possa essere considerato proporzionato all'ingerenza causata dalla demolizione forzata pianificata del magazzino (vedere, tra molte altre autorità, Depalle, § 83, e Beyeler, § 114, entrambe citate sopra), la Corte ribadisce che nel campo delle normative edilizie e urbanistiche, lo Stato gode di un ampio margine di apprezzamento, in particolare nella scelta dei mezzi di esecuzione e nell'accertamento se le conseguenze dell'esecuzione sarebbero giustificate (vedere Saliba, § 45; Hamer, § 78; e Ivanova e Cherkezov, § 73; tutte citate sopra).
Ribadisce inoltre che l'articolo 1 del Protocollo n. 1 non presuppone in tali casi la disponibilità di una procedura che richieda una valutazione individualizzata della necessità di ciascuna misura di attuazione delle norme di pianificazione pertinenti. Non è contrario a quest'ultimo che il legislatore stabilisca categorie ampie e generali piuttosto che prevedere uno schema in base al quale la proporzionalità di una misura di attuazione debba essere esaminata caso per caso (vedi 
Ivanova e Cherkezov, cit., § 74).
 

83. La Corte rileva anzitutto che il ricorrente non ha contestato che la costruzione del magazzino, da lui consapevolmente realizzata senza permesso di costruire, fosse abusiva.

84. A questo proposito, la Corte rileva che subito dopo l'ispezione del terreno del ricorrente che ha portato la polizia municipale a scoprire il magazzino, è stato avviato un procedimento penale nei suoi confronti per il reato di costruzione abusiva (vedere paragrafi 3 e 6 sopra; in contrasto con Hamer, citato sopra, § 83).
Rileva inoltre che i tribunali di giurisdizione penale hanno preso in considerazione le sue argomentazioni in merito al fatto che il comune gli aveva concesso un'amnistia; tuttavia, hanno ordinato che il magazzino fosse demolito dopo aver constatato che egli non poteva beneficiarne (vedere paragrafo 6 sopra).
Quanto al rilascio di un certificato di idoneità all'uso, che si riferisce alla questione separata della sicurezza dell'edificio (vedere paragrafo 34 sopra), i tribunali nazionali hanno ritenuto tale certificato irrilevante rispetto alle normative edilizie (vedere paragrafo 16 sopra).
   

La Corte ritiene pertanto che, a seguito della sua condanna, il ricorrente non potesse ragionevolmente fare affidamento sulla legalità del magazzino (vedere, mutatis mutandisDepalle, § 86; Hamer, § 85; e Zhidov e altri, § 106, tutti citati sopra).

85. Infatti, nonostante l'ordinanza di demolizione, il ricorrente stesso non ha adottato alcuna iniziativa per ottemperarvi, continuando invece a trarre beneficio per molti anni da una costruzione che avrebbe dovuto essere demolita (cfr. Vagnola spa & Madat Srl c. Italia (dec.), n. 7653/04, 12.01.2010).

86. In tale contesto, la Corte ritiene quindi che l'iniziativa delle autorità di far rispettare l'ordinanza di demolizione in questione fosse necessaria per ripristinare la situazione a quella che sarebbe stata se non fossero stati ignorati i requisiti di legge. In questo modo, le autorità garantiscono l'efficacia delle normative edilizie e scoraggiano altri potenziali trasgressori (vedi Salibacit., § 46, e Tiryakioglu c. Turchia (dec.), n. 24404/02, 13.05.2008). 

87. Secondo la Corte, il fatto che sia trascorso un certo periodo di tempo prima dell'esecuzione dell'ordine di demolizione da parte del pubblico ministero non può portare a una conclusione diversa. Infatti, secondo il diritto interno, gli ordini di demolizione non sono soggetti a prescrizione (vedere paragrafo 46 sopra) e non vi è nulla nella condotta delle autorità successiva alla condanna che suggerisca che l'ordine di demolizione emesso dal giudice abbia perso la sua validità e che il magazzino del ricorrente non sarebbe stato demolito (confronta Hamer, citato sopra, § 85).  

88. In tali circostanze, la Corte conclude che il ricorrente non sopporterebbe un onere eccessivo a seguito dell'esecuzione dell'ordine di demolizione del suo magazzino (vedi Tiryakioglucitato sopra, e Galena Vraniskoska c. "Ex Repubblica jugoslava di Macedonia " (dec.), n. 30844/06, 12.04.2011).

89. Ne consegue che il presente ricorso è manifestamente infondato e deve essere respinto ai sensi dell'articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Per queste ragioni la Corte, all’unanimità, Dichiara la domanda inammissibile.
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[1] L'unica modifica introdotta dal Testo Unico sull'edilizia è che l'autorità preposta alla vigilanza sull'urbanistica e sull'edilizia non è più il sindaco, ma il dirigente o il responsabile dell'ufficio comunale competente.

[2] L'articolo 31 del Testo Unico delle Costruzioni è stato poi modificato dal decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (convertito dalla legge 11.11.2014, n. 164 ed entrato in vigore il 13.09.2014), che ha introdotto i commi 4- bis, 4-ter e 4-quater, prevedendo che in caso di inosservanza dell'ordine di demolizione è irrogata anche una sanzione pecuniaria.  

[3] Ai sensi dell'articolo 36 del Testo Unico sull'edilizia, l'autorizzazione retroattiva può essere rilasciata se l'opera edilizia abusiva è conforme non solo alle norme edilizie, ma anche a quelle urbanistiche.

[4] La terza sanatoria edilizia è stata introdotta dall'articolo 35 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326.  

[5] Abrogato dall'art. 136 del Testo Unico delle Costruzioni con efficacia dal 30.06.2003. La disciplina legislativa del certificato di agibilità (relativo agli edifici residenziali e non residenziali) è ora integralmente prevista dall'art. 24 del Testo Unico delle Costruzioni (Agibilità ).

maggio 2024
EDILIZIA PRIVATA: L. Marzano, RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA - ABUSI EDILIZI: TIPOLOGIE, CONSEGUENZE E RIMEDI (10.05.2024 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). 
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Premessa.
   §1.
Inquadramento normativo. §1.1. Lo stato legittimo dell’immobile. §1.1.1. Ricostruzione dell’istituto. §1.2. Nozione di variazione essenziale. §1.3. L’abuso edilizio.
   §2.
L’ordine di sospensione dei lavori. §2.1. Natura ed efficacia dell’ordinanza di sospensione. §2.1.1. La giurisprudenza amministrativa. §2.2.2. La giurisprudenza penale. §2.1.3. Punti di convergenza e profili di contrasto.
   §3.
L’ordine di demolizione. §3.1. Il fattore tempo: affidamento e onere motivazionale. §3.2. L’incidenza del fattore tempo nel diverso caso di annullamento d’ufficio del titolo. §3.3. Natura vincolata dell’ordine di demolizione. §3.4. Ordine di demolizione delle opere realizzate in forza di permesso di costruire decaduto.
   §4.
Inottemperanza all’ordine di demolizione. §4.1. Il quadro normativo. §4.2. I principi espressi dall’Adunanza plenaria. §4.2.1. Prima fase: attività possibili nei 90 giorni dall’intimazione. §4.2.2. Seconda fase: conseguenze dell’inutile decorso dei 90 giorni. §4.2.3. Terza fase: immissione in possesso. §4.2.4. Quarta fase: le sorti dell’immobile acquisito. §4.3. La sanzione pecuniaria ex art 31, comma 4-bis t.u. edilizia. §4.4. Destinatari dell’ordine di demolizione. §4.5. Notifica del verbale di inottemperanza.
   §5.
Acquisizione al patrimonio pubblico. §5.1. Immobile sottoposto a sequestro. §5.2. Soggetti passivi del provvedimento di acquisizione. §5.2.1. Omessa notifica agli eredi. §5.3. Individuazione dell’area di sedime. §5.4. Ordine di sgombero di bene acquisito al patrimonio pubblico.
   §6.
Fiscalizzazione dell’abuso. §6.1. Inquadramento normativo. § 6.2. La giurisprudenza amministrativa. §6.2.1. Ipotesi di permesso di costruire annullato. §6.2.2. Ipotesi di opere eseguite in parziale difformità. §6.2.3. Ipotesi di opere eseguite in parziale difformità. §6.2.4. Tipologia dell’immobile. §6.2.5. Rapporto tra le diverse fattispecie di fiscalizzazione. §6.3. Gli approdi dell’Adunanza plenaria. §6.4. La giurisprudenza penale.
   §7.
Accertamento di conformità. §7.1. La doppia conformità. §7.2. I principi espressi dalla Corte costituzionale. §7.3. Termine entro il quale si può proporre istanza. §7.4. Soggetti legittimati a presentare l’istanza. §7.5. L’onere della prova. §7.6. Immobili situati in area vincolata. §7.7. Le sorti del bene abusivo oggetto di procedura esecutiva. §7.8. Interventi ulteriori su immobili abusivi.
   §8.
Il rilascio del titolo in sanatoria. §8.1. Il silenzio sulla domanda di accertamento di conformità. §8.2. Il silenzio nel procedimento per il rilascio del permesso di costruire. §8.3. Il silenzio nei procedimenti di condono edilizio. § 8.4. Effetti della presentazione della domanda di sanatoria: differenze fra accertamento di conformità e condono. §8.5. Il regime della sospensione legale.
   §9.
Aspetti processuali. §9.1. La tutela del terzo. §9.2. Controinteressati e legittimazione. §9.3. Rapporti fra vicende del giudizio penale e provvedimento amministrativo. §9.4. Contestazione in giudizio dell’abusività delle opere.
   §10.
Conclusioni. §10.1. Aspetti sostanziali. § 10.2. Aspetti processuali.
marzo 2024

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: Costituisce dato affatto ricevuto quello in virtù del quale “L’adozione dell'ordinanza di demolizione di opere sine titulo rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia riferimento alla competenza del Sindaco in materia”, a nulla potendo per certo rilevare la assenza di disposizioni attuative in tal senso dello statuto comunale ovvero di matrice regolamentare, discendendo tale attribuzione direttamente dalla legge, e ciò già con l’art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020, consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente deducendo:
...
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Va in primo luogo scrutinato il primo mezzo che, in ossequio all’indefettibile ordo quaestionum (CdS, a.p. 5/15) che connota il processo amministrativo ed a prescindere da una eventuale volontà di graduazione della parte ricorrente (volontà peraltro, nella fattispecie, non mai disvelatasi), assume carattere preliminare, ponendo questioni di incompetenza e di mancato esercizio del potere da parte dell’organo competente a rendere un parere, che nel caso che ne occupa dovrebbe individuarsi nella commissione edilizia.
2.1.1. Il mezzo non è fondato.
2.1.2. E, invero, costituisce dato affatto ricevuto quello in virtù del quale “L’adozione dell'ordinanza di demolizione di opere sine titulo rientra nella competenza del dirigente comunale ovvero, nei Comuni sprovvisti della qualifica, in quella dei responsabili degli uffici e servizi, dovendo ritenersi implicitamente abrogata ogni disposizione che faccia riferimento alla competenza del Sindaco in materia”, a nulla potendo per certo rilevare la assenza di disposizioni attuative in tal senso dello statuto comunale ovvero di matrice regolamentare, discendendo tale attribuzione direttamente dalla legge, e ciò già con l’art. 2, comma 12, l. 16.06.1998 n. 191 (TAR Campania, IV, 04.07.2019, n. 3700; Id. VI, 01.02.2019, n. 537; Id., id., 06.03.2018, n. 1416) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2024 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione, giusta l’inveterato insegnamento per cui l’omessa, puntuale, indicazione dell'area suscettibile di essere acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai vale a minare la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione.
La ingiunzione a demolire -indirizzata al trasgressore, ovvero al proprietario dell’area- è direttamente finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni.
La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, della relativa area di sedime e dell'area di pertinenza urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza discendente ex lege ed ex post dalla inottemperanza all’ordine impartito; la puntuale individuazione e delimitazione della effettiva latitudine di tale effetto legale di ablazione, indi, ben può essere oggetto di successive certazioni ad opra della Autorità.
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Costituisce dato pacifico quello in forza del quale ai fini dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento.
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Nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu intesa può affliggere il gravato provvedimento di ingiunzione a demolire trattandosi di atto che -certando la esistenza di un illecito edilizio, ed irrogando la relativa sanzione- necessita di giustificazione, più che di motivazione, consistente:
   - nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione delle opere e degli interventi edilizi;
   - nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli necessitanti di un titolo abilitativo;
   - nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza del prescritto provvedimento abilitante.
Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale i provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto espressione di actio vincolata nel contenuto, non abbisognano di specifica motivazione -intesa come estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto, all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est della certazione della esistenza di attività edilizia realizzata in dispregio delle regole.
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... per l'annullamento dell’ordinanza del 05.10.2020 del Comune di Pozzuoli, notificata in data 12.10.2020, avente ad oggetto ingiunzione di demolizione.
...
1. La ricorrente è proprietaria di un immobile sito in Pozzuoli, alla via ... n. 58.
1.1. Con la ordinanza impugnata, del 05.10.2020, il Comune di Pozzuoli ingiungeva la demolizione delle opere abusive ivi acclarate con relazione tecnica dell’11.07.2020, consistenti nella realizzazione di una piscina con i conseguenti volumi interrati, in difetto di titolo edilizio.
1.2. Avverso detto provvedimento insorgeva parte ricorrente avanti questo TAR, a mezzi di gravame essenzialmente deducendo:
...
2.3. Anche il quarto mezzo non è fondato.
2.3.1. L’omessa o imprecisa indicazione di un'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione, giusta l’inveterato insegnamento per cui l’omessa, puntuale, indicazione dell'area suscettibile di essere acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, non mai vale a minare la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione (ex pluribus, Tar Campania, VI, 02.02.2021, n. 697; TAR Lombardia, II, 03.01.2023, n. 54).
2.3.2. La ingiunzione a demolire -indirizzata al trasgressore, ovvero al proprietario dell’area- è direttamente finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di 90 giorni.
2.3.3. La acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, della relativa area di sedime e dell'area di pertinenza urbanistica, costituisce –invero- una conseguenza discendente ex lege ed ex post dalla inottemperanza all’ordine impartito; la puntuale individuazione e delimitazione della effettiva latitudine di tale effetto legale di ablazione, indi, ben può essere oggetto di successive certazioni ad opra della Autorità (TAR Campania, VI, 18.07.2023, n. 4380).
2.3.4. Tutt’affatto irrilevanti, di poi, si appalesano gli adombrati dubbi di costituzionalità della norma che ne occupa, di poi, giusta la pluriennale giurisprudenza formatasi in subiecta materia.
2.4. Anche il quinto mezzo, con cui si veicolano censure afferenti alla asserita violazione delle prerogative di partecipazione procedimentale spettanti alla ricorrenti, non è fondato, atteso che, siccome si è avuto modo di illustrare supra in sede di negativo scrutinio dei motivi “afferenti al merito”, il contenuto dispositivo dell’impugnato provvedimento non avrebbe potuto essere diverso.
2.4.1. La certazione giudiziale della legittimità della azione provvedimentale quivi censurata rende irrilevante la (asserita) pretermissione procedimentale, attesa la inidoneità di un qualsiasi apporto collaborativo a determinare una differente conclusione della vicenda (TAR Campania, VI, 20.07.2020, n. 3210; TAR Lombardia, I, 26.09.2018, n. 2145).
2.4.2. La ricaduta patologica di tale lamentata violazione “formale e/o procedimentale” è quindi sterilizzata dall’applicazione dell’art. 21-octies della legge 241/1990, norma che ben si attaglia anche alla omessa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla adozione della ingiunzione a demolire.
2.4.3. D’altra parte, costituisce dato pacifico quello in forza del quale ai fini dell’adozione di provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi, stante la natura vincolata degli stessi, non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento (TAR Campania, VI, 10.08.2020, n. 3560; CdS, VI, 12.05.2020, n. 2980; CdS, VI, 11.03.2019, n. 1621).
2.5. Quanto alla ultima censura di carenza motivazionale, è sufficiente il rilevare, sul punto, che nessun vizio di natura motivazionale stricto sensu intesa può affliggere il gravato provvedimento di ingiunzione a demolire trattandosi di atto che -certando la esistenza di un illecito edilizio, ed irrogando la relativa sanzione- necessita di giustificazione, più che di motivazione (TAR Campania, VI, 31.05.2023, n. 3329), consistente:
   - nell’acclaramento dei fatti, id est della realizzazione delle opere e degli interventi edilizi;
   - nella sussumibilità di tali interventi nel novero di quelli necessitanti di un titolo abilitativo;
   - nella certazione della loro realizzazione, di contro, in assenza del prescritto provvedimento abilitante (TAR Campania, VI, 18.07.2023, n. 4380).
2.5.1. Di qui il consolidato insegnamento a mente del quale i provvedimenti repressivi di abusi edilizi, in quanto espressione di actio vincolata nel contenuto, non abbisognano di specifica motivazione -intesa come estrinsecazione della scelta della preminenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico infranto, all’esito di una ponderazione dei contrapposti interessi in giuoco- bensì di un supporto giustificativo, id est della certazione della esistenza di attività edilizia realizzata in dispregio delle regole (TAR Campania, VI, 10.08.2020, n, 3560, cit.; Id., id., 22.05.2020, n. 1939) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2024 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Su alcune questioni in tema di parere paesaggistico e poteri della Soprintendenza in materia di condono edilizio nella Regione Siciliana.
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Edilizia e urbanistica – Condono – Sicilia - Parere paesaggistico – Atto endoprocedimentale – Provvedimento finale - Competenza – Comune – Soprintendenza – Poteri repressivi – Insussistenza.
A differenza dell’ordinario regime previsto dagli artt. 146 e 167 del d.lgs. n. 42/2004, il parere reso dall’ente di tutela del vincolo paesaggistico nei procedimenti di rilascio del titolo edilizio in sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, conv., con mod, dalla l. 24.11.2003, n. 326), seppure obbligatorio e vincolante, costituisce un atto endoprocedimentale della procedura ex art. 35 della l. n. 47/1985 destinato a concludersi con il provvedimento del Comune, unica autorità procedente e competente a definire il procedimento. (1).
Confermata integralmente da C.g.a., sez. giur., 20.09.2024, n. 715
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Edilizia e urbanistica - condono edilizio - Sicilia - comune - rilascio - beni culturali, paesaggistici e ambientali - soprintendenza - poteri repressivi - annullamento - concessione in sanatoria - necessità.
Nei procedimenti di rilascio del titolo edilizio in sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, conv., con mod., dalla l. 24.11.2003, n. 326), l’ente di tutela del vincolo paesaggistico è privo dei poteri ripristinatori e repressivi ex art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004. (2).
Sentenza integralmente confermata da C.g.a., sez. giur., 20.09.2024, n. 715
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   (1) Conformi: C.g.a., sez. giur., 17.07.2023, n. 443, Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n. 2195.
        Difformi: Non risultano specifici precedenti difformi
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.03.2024 n. 978 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il ricorso è fondato e va accolto.
Al fine di chiarire il percorso logico-giuridico della presente decisione, occorre necessariamente ripercorrere brevemente la disciplina del regime di sanatoria delle opere abusive delineato dall’art. 31 e ss. della l. n. 47/1985 e della pertinente normativa regionale siciliana, onde comprendere le differenze con il fisiologico procedimento di rilascio del titolo edilizio in presenza di vincoli paesaggistici e di accertamento di conformità postumo previsto dall’art. 13 della l. n. 47/1985 e oggi dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001.
Nel sistema delineato dal d.lgs. n. 42/2004, secondo quanto previsto dall’art. 146, commi 1 e 4, l’autorizzazione paesaggistica è individuata espressamente quale atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio.
Invero, nel predetto d.lgs. n. 42/2004 si prevede che ogni intervento edilizio suscettibile di recare pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione (nozione afferente alla previa valutazione della rilevanza paesaggistica dell’intervento così come delineata dall’art. 149) su immobili e aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla legge, ai sensi degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157, nell’ambito di aree sottoposte a vincolo ai sensi dell’art. 146, comma 4, debba essere previamente autorizzato dalla regione su parere vincolante della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali, quale organo periferico del competente Ministero.
In tali casi, pertanto, l’omessa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica –che l’art. 146, comma 4, delinea come atto autonomo– rende puramente inefficace il titolo edilizio eventualmente rilasciato, con la conseguenza che ex art. 167, comma 1 (ai sensi del quale “in caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4”), l’ente di tutela non è privato del potere repressivo (anzi è espressamente previsto in suo favore), paralizzabile solo con l’eventuale accertamento postumo di compatibilità paesaggistica ex artt. art. 167, commi 4 e 5 del medesimo d.lgs. n. 42/2004 e 17 del d.P.R. n. 31/2017, al cui effettivo rilascio –su istanza dell’interessato– consegue il riacquisto dell’efficacia del titolo edilizio, potendosi così predicare la legittimità ex tunc dell’intervento edilizio eseguito (Cons. Stato, sez. VI, n. 7701/2022).
Giova evidenziare che il procedimento delineato dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica da parte della regione concretizza una forma di cogestione (Cons. Stato, sez. VI, 23.07.2018, n. 4466) del vincolo da parte delle autorità nazionali e regionali e in cui la valenza vincolante del parere reso dalla Soprintendenza rispetto all’autorizzazione regionale cessa nel caso del mancato rispetto del termine endoprocedimentale di cui al comma 9 del predetto art. 146.
La stessa forma di cogestione –anche se con tempistiche procedurali differenti e con i limiti ivi stabiliti– è prevista per il rilascio dell’autorizzazione in sanatoria ex art. 167, comma 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004.
Quanto fin qui brevemente esposto in relazione al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica preventiva e in sanatoria e al delineato sistema di cogestione del vincolo non è replicabile nell’ordinamento siciliano, giacché
«la Regione Siciliana gode di potestà legislativa primaria in materia di «tutela del paesaggio» e che, nel suo esercizio, essa ha stabilito che tutte le attribuzioni degli organi centrali e periferici dello Stato nella materia –attribuzioni trasferite alla Regione dall’art. 1 del d.P.R. 30.08.1975, n. 637 (Norme di attuazione dello statuto della regione siciliana in materia di tutela del paesaggio e di antichità e belle arti)– sono esercitate dall’Assessorato regionale dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione (art. 3 della legge della Regione Siciliana 01.08.1977, n. 80, recante «Norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali ed ambientali nel territorio della Regione siciliana»), ora denominato Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, di cui sono organi periferici le «Soprintendenze per i beni culturali ed ambientali» istituite su base provinciale (a loro volta passate alle dipendenze della Regione in base a quanto previsto dall’art. 3 del citato d.P.R. n. 637 del 1975).
La stessa legislazione siciliana affida poi alle soprintendenze il rilascio o il diniego dell’autorizzazione paesaggistica (art. 46, comma 1, della legge della Regione Siciliana 28.12.2004, n. 17, recante «Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2005»). […] L’attribuzione del potere decisorio alla soprintendenza è evidentemente incompatibile con la previa acquisizione del suo parere, il quale resta assorbito nella decisione finale
.» (Corte cost., 22.07.2021, n. 160).
Nella Regione Siciliana, pertanto, a prescindere dalla terminologia utilizzata negli atti (parere, nulla-osta, ecc.), in ragione del sistema di competenze ut supra delineato, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, nonché del provvedimento di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 sono procedimentalmente semplificati, giacché rientranti nell’esclusiva competenza della Soprintendenza.
Ciò posto, nel diverso ambito dei procedimenti di sanatoria ex art. 32 della l. n. 47/1985, il parere delle amministrazioni preposte alla tutela dal vincolo (tra cui è ricompreso anche il vincolo paesaggistico ex d.lgs. n. 42/2004) non costituisce un provvedimento autonomo rispetto al titolo edilizio così come previsto per l’art. 146, del d.lgs. n. 42/2004, ma integra la fase endoprocedimentale di gestione del vincolo paesaggistico costituente un mero segmento (seppure obbligatorio con effetti vincolanti) del procedimento ex art. 35 della l. n. 47/1985, la cui definizione è riservata esclusivamente all’autorità comunale, la quale però non può statuire sull’istanza di sanatoria avendo riguardo alla sola destinazione urbanistica dell'area, come ricavabile dalle pertinenti previsioni del P.R.G., essendo obbligata a tenere conto anche delle esigenze afferenti al vincolo ivi esistente così come enucleate dall'Amministrazione preposta alla sua tutela nel relativo parere (Cons. Stato, Sez. VI, 10.04.2020, n. 2369).
La valenza obbligatoria e vincolante di tale parere emerge dal tenore delle pertinenti disposizioni di legge che, utilizzando il verbo “subordinare”, enuncia l’inscindibile correlazione tra il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo e il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso (art. 32, comma 1, della l. n. 47/1985 e art. 23 della l.r. n. 37/1985).
È sul punto chiaro l’insegnamento di Cons. Stato, sez. IV, 07.12.2016, n. 5162 secondo cui «Il rilascio del titolo abitativo edilizio in sanatoria, per le opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, è subordinato al parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso, ex art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, con un rinvio mobile alla disciplina del “procedimento di gestione del vincolo paesaggistico”, costituente una “fase indispensabile” per la positiva conclusione del “procedimento di condono”, inteso quale strumento riservato allo Stato, ad estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario da tutelare».
Alla natura di atto endoprocedimentale (seppur vincolante) del parere paesaggistico reso in sede di condono edilizio –a differenza che nel fisiologico procedimento ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004– consegue la facoltà (ma non l’onere) per il privato di impugnarlo stante la sua idoneità a costituire un arresto procedimentale altrimenti non superabile dell’iter del condono che deve, però, necessariamente concludersi con il provvedimento dell’autorità comunale, quale atto “finale”, senza diversamente potersi prospettare l’ipotesi di conseguimento del titolo seppur ancora non efficace in assenza del parere dell’ente preposto alla tutela paesaggistica.
Ne deriva «che ogni eventuale procedimento sanzionatorio può essere avviato solo successivamente all’adozione del provvedimento terminale del procedimento di sanatoria edilizia: nell’un caso (accoglimento dell’istanza) non vi è luogo ad alcun provvedimento sanzionatorio in quanto la accordata sanatoria crea “ora per allora” un titolo abilitante che rende l’opera conforme ai parametri edilizi ed urbanistici; nell’opposto caso, invece, l’eventuale provvedimento di diniego della concessione del titolo abilitante in sanatoria determina –ipso facto– l’obbligo […] di attivare il procedimento sanzionatorio finalizzato alla eliminazione dell’abuso.» (C.G.A.R.S., Adunanza delle sezioni riunite, 04.09.2012, n. 1540).
Tale sistema volto a garantire nelle more del procedimento l’integrità del manufatto condonabile non è derogabile neppure richiamando i poteri sanzionatori previsti dall’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. 42/2004 (Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n. 2195).
Le suddette coordinate interpretative –che il Collegio condivide e che intende interamente richiamare– consentono di ritenere il parere dell’ente di tutela quale mero atto endoprocedimentale la cui omissione si riflette esclusivamente sulla legittimità del provvedimento finale di condono, che dispiega pienamente la propria efficacia.
In tale contesto, invero, le eventuali violazioni sulle modalità di acquisizione di tale parere più volte modificate, sia in ambito nazionale (prevedendosi originariamente, nel caso di inerzia dell’ente di tutela il silenzio-diniego e, successivamente, con la modifica dell’art. 32, comma 1, della l. n. 47/1985 da parte dell’art. 2, comma 39, della l. 23.12.1996, n. 662 –a decorrere dal 01.11.1997– il silenzio-assenso, meccanismo di favor per il privato nuovamente modificato dall’art. 32, comma 43, del d.l. 30.09.2003, n. 269, conv. in L. 24.11.2003, n. 326, che ha previsto il meccanismo meno favorevole del silenzio-rifiuto) sia in ambito regionale (con la previsione del silenzio-assenso introdotto dall’art. 17, comma 6, della l.r. n. 4/2003 la cui vigenza –per un orientamento giurisprudenziale che assimila tale fattispecie con quella prevista dall’art. 46 della l.r. n. 17/2004 [oggetto della sentenza della Corte cost., 15.07.2021, n. 155]– è cessata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 7, comma 1, della l.r. n. 5/2011 e, pertanto a far data dal 16.04.2011 [C.G.A.R.S., sez. giur., 05.05.2023, n. 322) si riflettono unicamente sulla legittimità della concessione edilizia in sanatoria rilasciata dal Comune.
Ne deriva, pertanto, che, ove sussistenti tutti i presupposti, l’esercizio del potere di autotutela ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990, nel caso in cui il parere sia stato omesso o travisato, può essere solo sollecitato dall’ente di tutela al Comune.
In altre parole, a fronte del potere altamente condizionante rispetto all’esito del procedimento di condono attribuito agli enti di tutela ex art. 32 della l. n. 47/1985, l’ordinamento ha precluso l’esercizio dei poteri repressivi che sono, di norma, ad essi attribuiti negli ordinari procedimenti di rilascio dei titoli edilizi o di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Svolta tale ampia premessa, nell’esaminare la fattispecie all’esame del Collegio deve rilevarsi come il provvedimento impugnato emesso dalla Soprintendenza di -OMISSIS- sia sostanzialmente motivato per relationem alla circolare prot. -OMISSIS- dell’Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana che, invero, si è limitata a sintetizzare gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 252/2022, così come già ricostruiti della giurisprudenza amministrativa secondo cui:
   - il c.d. terzo condono, in Sicilia, è regolato dall’art. 24 della l.r. 05.11.2004, n. 15, il cui comma 1 stabilisce che dalla «data di entrata in vigore della presente legge è consentita la presentazione dell'istanza per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, convertito con legge 24.11.2003, n. 326 e successive modificazioni e integrazioni».
   - l’art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge 30.09.2003, n. 269, convertito, con modificazioni, in legge 24.11.2003, n. 326, stabilisce che, fermo quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria qualora “siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
   - secondo consolidata e condivisa giurisprudenza (cfr., Cons. Stato, sez. I, 18.01.2023, n. 90; Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2022, n. 8781), sono insanabili, ai sensi della suddetta disposizione, le opere abusive realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli (tra cui quello idrogeologico, ambientale e paesistico), a meno che non ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: che si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo (e non necessariamente che comporti l’inedificabilità assoluta); che, pur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illeciti di cui ai nn. 4, 5, e 6 dell’allegato 1 al decreto legge 30.09.2003, n. 269 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria); che ci sia il parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo.
   - la sentenza della Corte costituzionale, 19.12.2022, n. 252 –nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Sic. 29.07.2021, n. 19 (“1. L’articolo 24 della legge regionale 05.11.2004, n. 15 si interpreta nel senso che sono recepiti i termini e le forme di presentazione delle istanze presentate ai sensi dell'articolo 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, e pertanto resta ferma l'ammissibilità delle istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge vigente”), nonché, in via conseguenziale, degli artt. 1, comma 2, e 2 della medesima legge reg. Sic. 29.07.2021, n. 19– ha chiarito che:
      i) il citato art. 24 della legge reg. Sic. 05.11.2004, n. 15 richiama espressamente l’art. 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, come convertito, nella sua integralità; di conseguenza, tale rinvio riguarda non solo i termini e le forme della richiesta di concessione in sanatoria, ma anche i limiti entro i quali questa deve essere rilasciata, tra cui quello previsto dal citato comma 27, lettera d), dell’art. 32, che attribuisce «carattere ostativo alla sanatoria anche in presenza di vincoli che non comportino l’inedificabilità assoluta»;
      ii) in tal senso, si è espressa ripetutamente, tra l’altro, la Corte di cassazione penale, chiarendo che la legge reg. Sicilia 10.08.1985, n. 37, nel recepire il primo condono edilizio, che ammetteva la sanatoria in presenza di vincoli relativi, non può prevalere sulla normativa statale sopravvenuta che disciplina, in ogni suo aspetto, il terzo condono edilizio e che è anch’essa recepita dalla citata legge reg. Sic. 05.11.2004, n. 15, mentre non pare condivisibile il diverso avviso del C.G.A.R.S., Adunanza del 31.01.2012, parere n. 291 del 2010, secondo cui, nell’ambito della Regione Siciliana, dovrebbe continuare ad applicarsi la disciplina attuativa del primo condono edilizio, prevista dalla legge 28.02.1985, n. 47, preclusiva della sanatoria solo a fronte di vincoli di inedificabilità assoluta;
      iii) deve dunque escludersi che l’applicabilità del condono edilizio in presenza di vincoli relativi possa rientrare «tra le possibili varianti di senso del testo originario» dell’art. 24 della legge reg. Sic. 05.11.2004, n. 15;
      iv) assurgono a norme di grande riforma economico-sociale le previsioni statali relative alla determinazione massima dei fenomeni condonabili, cui devono senz’altro ricondursi quelle che individuano le tipologie di opere insuscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 32 del decreto legge 30.09.2003, n. 269, come convertito, incluso il limite di cui alla lettera d).
La possibilità di condonare le opere realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico solo nelle ipotesi contemplate all’art. 32, commi 26 e 27, lett. d), del d.l. n. 269/2003 (così come interpretato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 252/2022) non implica la deroga alle predette regole in ordine alla valenza endoprocedimentale del parere paesaggistico (giacché l’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003 conv. in l. n. 326/2003, richiama “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall'articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni nonché dal presente articolo” e pertanto anche l’art. 44 già citato) e alla preclusione del potere repressivo attribuito all’ente di tutela, non potendosi ritenere la nullità (e non già la mera annullabilità) della concessione edilizia rilasciata.
Non è infatti invocabile ex art. 21-septies della l. n. 241/1990 un difetto assoluto di attribuzione in capo all’ente comunale di rilasciare il titolo in sanatoria con riferimento ad un fabbricato insistente in zona paesaggistica.
E invero, l’art. 32 del d.l. n. 269/2003, conv. in l. n. 326/2003 –seppure con limiti e presupposti dettati dalla Corte cost. n. 252/2022 più stringenti di quelli dettati dal C.G.A.R.S., Adunanza del 31.01.2012, parere n. 291 del 2010– consente la definizione di procedimenti di sanatoria ex d.l. n. 269/2003, anche in presenza di un vincolo paesaggistico, sicché, anche per tale tipologia di condono, deve affermarsi l’impossibilità e la preclusione per gli enti di tutela di adottare provvedimenti costituenti esplicitazione di forme di autotutela esecutiva non mediate dal previo annullamento del titolo in sanatoria (peraltro nel caso di specie, sollecitato dalla Soprintendenza intimata con la nota n. 428 del 10.01.2024).
D’altronde, la circolare assessoriale in esame non impone alle Soprintendenze di esercitare i poteri ex art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004, limitandosi a indicare gli effetti della sentenza della Corte cost. n. 252/2022 sulle statuizioni di propria competenza con riferimento al segmento endoprocedimentale di cui all’art. 32 del d.l. n. 269/2003.
Ciò posto, pertanto, i primi quattro motivi di ricorso, afferendo a profili di violazione di garanzie procedimentali non rilevanti nel procedimento in esame, devono essere rigettati.
Allo stesso modo, anche il quinto motivo di ricorso in ordine all’intervenuta formazione del silenzio-assenso sulla richiesta di nulla-osta paesaggistico non assume rilevanza nel presente giudizio, che, per quanto fin qui esposto, ha ad oggetto la legittimità dell’esercizio dei poteri di autotutela esecutiva da parte dell’ente di tutela.
Il ricorso è meritevole di accoglimento con riferimento al sesto motivo di ricorso nella parte in cui si denuncia la contraddittorietà tra il disposto del provvedimento impugnato e l’intervenuto rilascio della concessione edilizia in sanatoria, giacché il sistema ut supra delineato assegna al Comune, quale ente preposto al rilascio del permesso di costruire e alla vigilanza sul corretto uso del territorio comunale, il potere di ricevere le domande di condono, istruire i procedimenti e sanzionare gli abusi edilizi non sanabili (Cons. Stato, sez. VI, 01.03.2023, n. 2195).
In conclusione può affermarsi che:
   1) “
a differenza dell’ordinario regime previsto dagli artt. 146 e 167 del d.lgs. n. 42/2004, il parere reso dall’ente di tutela del vincolo paesaggistico nei procedimenti di rilascio del titolo edilizio in sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, conv., con mod., dalla l. 24.11.2003, n. 326), seppure obbligatorio e vincolante, costituisce un atto endoprocedimentale della procedura ex art. 35 della l. n. 47/1985 destinato a concludersi con il provvedimento del Comune, unica autorità procedente e competente a definire il procedimento”;
   2) “
nei procedimenti di rilascio del titolo edilizio in sanatoria ai sensi dei capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 (così come riproposti dall’art. 39 dalla l. 23.12.1994, n. 724 e dall’art. 32 del d.l. 30.09.2003, n. 269, conv., con mod., dalla l. 24.11.2003, n. 326), l’ente di tutela del vincolo paesaggistico è privo dei poteri ripristinatori e repressivi ex art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004”.
Alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso deve essere accolto, e, per l’effetto il provvedimento impugnato va annullato (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.03.2024 n. 978 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2024

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: direttive di intervento in materia edilizio-urbanistica (D.P.R. 380/2001), vincoli paesaggistici e storico-architettonici (D.Lgs 42/2004 e L. 22/2022) e aree protette (L. 394/1991) (PROCURA della Repubblica di Bergamo, nota 24.01.2024 n. 218 di prot.).
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Sommario
   1. Premessa - 2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della comunicazione di notizia di reato - 3. Attività d’indagine d’iniziativa - 4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero - 5. Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine - 6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico - 7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 - 8. La comunicazione di avvio del procedimento - 9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. 42/2004 - 10. Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi - 11. La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR - 12. Conclusioni

1. Premessa
   La gestione delle comunicazioni di notizia di reato attinenti agli ambiti richiamati all’oggetto crea, a volte, disguidi.
   Vengono, infatti, periodicamente riscontrate problematiche inerenti allo svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria e agli accertamenti tecnici, nonché relative alle modalità di inoltro delle comunicazioni di notizia di reato.
   In particolare, continuano a pervenire, a volte da parte della Polizia Locale a volte da parte dell’Ufficio Tecnico, isolate ordinanze di sospensione lavori o di demolizione o isolati permessi a costruire in sanatoria, comunicazioni prive addirittura delle complete generalità dei soggetti denunciati, senza l’indicazione del numero di procedimento a cui fanno riferimento, in assenza di qualsivoglia atto di indagine o, comunque, in mancanza di una comunicazione di notizia di reato completa, ossia redatta con i contenuti espressamente indicati all’art. 347 c.p.p..
   Ciò comporta la moltiplicazione dei fascicoli inerenti al medesimo fatto-reato e, soprattutto, una dispersione di energie e risorse perché, in mancanza delle necessarie indagini, che il Magistrato sarà costretto a disporre, non sarà possibile definire celermente il procedimento, con fondato rischio di prescrizione del reato e, quindi, di vanificazione del lavoro di tutti.
   Lo scopo di questa direttiva è, quindi, quello di regolamentare il flusso delle c.n.r. ed evitare che pervengano alla Procura della Repubblica segnalazioni incomplete o improprie, ovvero la duplicazione delle stesse.
   Pertanto, la presente direttiva viene trasmessa a tutti gli Enti e Organi competenti negli ambiti di cui all’oggetto.
   La presente direttiva fa, ovviamente, principale riferimento al Comune e ai suoi Organi e Uffici. Ognuno degli altri Enti in indirizzo individuerà i propri paralleli Organi e Uffici competenti.
   La necessità di ultimare le indagini entro tempi prestabiliti, di approfondirle attraverso eventuali consulenze tecniche, i brevissimi tempi di prescrizione del reato e l’aggravio di lavoro per la Segreteria del Magistrato che la circolazione della corrispondenza comporta, impongono l’adozione di precise regole di carattere generale.
   Pertanto, ritengo utile inoltrare la presente direttiva anche alle Autorità territorialmente competenti in ordine ai Comuni attribuiti alla giurisdizione della Procura della Repubblica di Bergamo.
   La presente direttiva viene emessa ai sensi del D.Lgs. 20.02.2006 n. 106.

2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della comunicazione di notizia di reato
   La comunicazione della notizia di reato (di seguito denominata CNR) deve pervenire alla Procura della Repubblica esclusivamente da parte di un organo di polizia giudiziaria, completa anche di ogni atto investigativo utile: pertanto, in ambito comunale, procederà unicamente la Polizia Locale e a essa si rivolgerà, quindi, il personale degli Uffici Tecnici ai sensi dell’art. 331, commi 1 e 2, c.p.p..
   Le CNR e i seguiti devono essere caricati sul Portale NdR.
   Il personale degli Uffici Tecnici comunali è tenuto a collaborare e a fornire alla Polizia Locale tutti i dati tecnici, le informazioni e la documentazione di cui dispone: in particolare, stilerà un’apposita relazione contenente la descrizione tecnica e la qualificazione urbanistico-edilizia delle opere abusive, la loro conformità agli strumenti urbanistici e la loro eventuale sanabilità, l’indicazione circa l’eventuale titolo abilitativo che avrebbero richiesto per essere regolarmente eseguite, la zonizzazione dell’area nella quale sono state realizzate e la presenza di eventuali vincoli ambientali, paesaggistici, storico-architettonici, l’identificazione catastale delle predette aree e della relativa proprietà, la presenza in Comune di eventuali precedenti pratiche ecc. Fornirà, altresì, il certificato di destinazione urbanistica dei mappali sui quali insistono gli abusi. In caso di rifiuto o ritardo nella collaborazione da parte del personale degli Uffici Tecnici comunali la Polizia Locale procederà alla nomina dello stesso quale ausiliario di p.g. ex art. 348, comma 4, c.p.p. e comunicherà tempestivamente dette omissioni al Pubblico Ministero per le valutazioni di sua competenza in ordine alla eventuale responsabilità penale.
   La CNR deve pervenire completa, in ogni sua parte, dei dati essenziali successivamente indicati. Qualora non sia possibile inoltrarla da subito completa di tutti i dati essenziali verrà inviata una prima comunicazione alla quale dovrà seguire, nel più breve tempo possibile, la documentazione completa. Nel seguito dovrà, in tal caso, essere sempre chiaramente indicato, in grassetto e nella parte alta della prima pagina, che si tratta di “SEGUITO” e il numero del procedimento penale (ricavabile anche tramite il numero di NDR).
   La CNR deve pervenire all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, ai sensi dell’art. 347 c.p.p.. La locuzione utilizzata dal legislatore consente, in termini generali, di posticipare il deposito di qualche giorno, a volte di qualche settimana, rispetto alla data di acquisizione della notitia criminis, a seconda della complessità degli accertamenti da compiere. Mai, però, giustifica il deposito con mesi o, addirittura, anni di ritardo. Richiamo l’attenzione sulla possibile rilevanza penale e disciplinare in caso di omessa o ritardata denuncia ex artt. 361 c.p. e 16 e ss. disp. att. c.p.p..
   In caso di atti urgenti che richiedono convalida da parte del Pubblico Ministero i relativi verbali, corredati della relativa CNR, devono essere trasmessi alla Procura della Repubblica entro 48 ore dal compimento dell’atto medesimo a mezzo APU.
   Il documento che contiene la CNR non potrà ordinariamente essere utilizzato dal Giudice nel dibattimento, cosicché le notizie rilevanti dovranno essere trasfuse anche nel verbale di sopralluogo che, quale atto irripetibile ex artt. 354 c.p.p. e 113 disp. att. c.p.p., ha invece ingresso nel fascicolo del dibattimento e può essere preso in considerazione dal Giudice.
   È necessario numerare le pagine che compongono il fascicolo ed evitare di allegare fotografie in bianco e nero che, spesso, non sono in grado di assolvere al loro compito (ossia di consentire, al Pubblico Ministero prima e al Giudice poi, di apprezzare la reale consistenza degli abusi accertati).
   Non devono pervenire alla Procura della Repubblica CNR relative ad abusi edilizi non penalmente rilevanti poiché, per esempio, puniti con mera sanzione amministrativa.
   Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a più abusi commessi da soggetti diversi, a meno che si tratti di un unico cantiere.
   Elementi essenziali della CNR sono i seguenti:

a) Indicazione delle generalità dei responsabili
   Costoro sono, di regola, individuabili, ai sensi dell’art. 29 D.P.R. 380/2001, nel committente, nel titolare del titolo abilitativo (qualora rilasciato), nel progettista, nel costruttore e nel direttore dei lavori (se esistenti). Altri soggetti possono, ovviamente, concorrere nel reato secondo i principi generali del diritto penale (ad esempio, il proprietario del terreno, se non dimostra la propria estraneità ai fatti).
   Tali soggetti vanno tutti identificati compiutamente e, se trattasi di persone giuridiche, va individuato e generalizzato il legale rappresentante pro-tempore (riferito all’epoca del commissi delicti), acquisendo la documentazione relativa alla posizione assunta all’interno dell’ente (visura CCIAA), nonché eventuali deleghe di responsabilità ad altri soggetti (procure notarili, scritture private ecc.). A carico di tutti i soggetti indicati si procederà con redazione del verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore di fiducia o designazione del difensore d’ufficio, informazioni sul diritto alla difesa.

b) Breve descrizione dell’abuso accertato
   Va tenuto presente che il Pubblico Ministero deve fornire una esauriente descrizione dei lavori abusivi nel capo di imputazione.
   Ciò non è possibile qualora gli stessi vengano indicati in CNR con frasi generiche tipo “ampliamento ala ovest di manufatto preesistente come riportato in colore rosso nell’allegata planimetria”, ovvero “realizzazione di più manufatti in tempi diversi su area di proprietà”.
   È, pertanto, necessario che la descrizione riportata nella CNR sia sintetica ma esauriente, ad esempio “realizzazione di un manufatto in muratura con copertura in legno di m. 2,00x 3,00 x 2,50 h massima”, oppure “demolizione e ricostruzione di preesistente edificio ad uso abitazione di mc complessivi 650”, oppure “modifica della destinazione d’uso di manufatto da stalla ad abitazione mediante esecuzione di opere consistenti in variazione del distributivo interno e suddivisione in due piani in contrasto con lo strumento urbanistico e mediante corresponsione di oneri di urbanizzazione in misura inferiore al dovuto (€ 3.000 in luogo di € 15.000)”, o altre simili.
   Se si tratta di più violazioni esse andranno indicate con numerazione progressiva, in modo tale da essere facilmente individuate.

c) Altre informazioni sull’abuso
   Va specificato, previo accertamento da effettuarsi dal personale dei competenti Uffici Tecnici comunali, se le opere denunciate come abusive siano state eseguite in assenza di permesso di costruire (o di altro titolo abilitativo), ovvero in variazione essenziale o difformità totale dallo stesso (indicandone gli estremi) nonché, nel caso, quale eventuale titolo abilitativo avrebbero richiesto per essere regolarmente realizzate.
   È importante, inoltre, specificare se le opere realizzate rientrino tra quelle sottoposte alla normativa in materia di strutture in conglomerato cementizio armato, indicando in modo specifico eventuali violazioni.

d) Indicazione della presenza di vincoli
   Tale informazione è di particolare importanza in quanto rende possibile l’esatta qualificazione giuridica del fatto denunciato. I vincoli che assumono rilevanza sono quelli paesaggistici e storico-architettonici la cui inosservanza costituisce violazione anche del D.Lgs. 42/2004.
   È essenziale indicare anche gli estremi del vincolo, tenendo presente che il semplice riferimento alla legge, senza ulteriore precisazione, non ha alcuna utilità. Vanno, quindi, indicati gli estremi esatti dell’atto d’imposizione del vincolo (Decreto Ministeriale, disposizione di legge con articolo e comma ecc.).
   Evidenzio che taluni abusi realizzati in area vincolata configurano delitto e non contravvenzione secondo quanto disposto dall’articolo 181, comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004, con evidenti conseguenze ed è, quindi, indispensabile che le relazioni degli Uffici Tecnici comunali, allegate alla CNR, contengano esplicite indicazioni circa la sussistenza di tali fattispecie (per esempio quantificazione della cubatura illecita ecc.). Inoltre, segnalo che sono stati recentemente introdotti nel codice penale, con L. 09.03.2022 n. 22, gli artt. 518-duodecies e 518-terdecies, aventi rispettivamente ad oggetto “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici” e “Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”.
   Va, altresì, segnalata la presenza di eventuali ulteriori e diversi vincoli, quale quello ambientale ai sensi della legge sulle aree naturali protette (Legge 394/1991). Il vincolo ambientale e quello paesaggistico sono tra loro diversi e i rispettivi reati previsti in caso di violazione concorrono tra loro e con quelli edilizi.

e) Classificazione urbanistica dell’area e compatibilità dell’intervento con la stessa
   Anche tale informazione è essenziale per la qualificazione giuridica del fatto. Occorre indicare la destinazione urbanistica dell’area ove insiste l’abuso e la conformità di quanto realizzato con la normativa urbanistica e con gli strumenti urbanistici locali.
   Tale particolare, giova ricordarlo, serve anche per verificare le eventuali illegittimità e illiceità di titoli abilitativi (anche in sanatoria) eventualmente rilasciati dalla struttura comunale.

f) Data e luogo del fatto
   Il luogo ove insiste l’abuso va indicato con gli estremi del foglio e del mappale catastale o, in mancanza, con via e numero civico, ovvero con ogni altra indicazione utile all’individuazione del luogo del commesso reato.
   La data di consumazione del reato coincide con quella di sospensione effettiva dei lavori, ovvero di ultimazione degli stessi.
   A tale proposito giova ricordare che, per costante giurisprudenza, l’ultimazione dei lavori coincide con il completamento dell’intero manufatto in ogni sua parte, ivi comprese le finiture, gli infissi, la tinteggiatura ecc. Non è, pertanto, sufficiente la copertura del fabbricato al grezzo.
   Ricordo, inoltre, che la data di ultimazione dei lavori è cosa diversa dalla data di accertamento del fatto.
   L’accertamento della data di ultimazione dei lavori, indispensabile anche ai fini del calcolo dell’eventuale prescrizione del reato, andrà eseguito attraverso l’acquisizione di dichiarazioni di eventuali persone informate sui fatti (vicini, esponenti ecc.) ex art. 351 c.p.p. (che, in quanto tali, hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità), l’acquisizione di pregressi rilievi fotografici o aerofotogrammetrici, l’acquisizione di contratti di forniture, la pregressa conoscenza diretta dei luoghi da parte degli operanti o del personale tecnico comunale ecc.
   In nessun caso può considerarsi sufficiente la mera dichiarazione degli indagati (che, in quanto tali, non hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità).

g) Persone in grado di riferire
   Vanno indicati tutti i possibili soggetti informati sui fatti. Quando si tratta del personale di polizia giudiziaria che ha proceduto all’accertamento lo stesso non va indicato genericamente con espressioni tipo “i verbalizzanti”, ma occorre inserire nome, cognome e qualifica.
   Per gli altri soggetti indicare, oltre al nome cognome e indirizzo, anche l’eventuale qualifica come, ad esempio, “ausiliario di p.g.”, “tecnico comunale”, “denunciante” ecc.

3. Attività d’indagine d’iniziativa
   L’attività d’indagine d’iniziativa non può essere limitata ai soli interventi espletati a seguito di denuncia di privati ma deve essere il risultato di un effettivo, costante e capillare controllo del territorio di competenza.
   Infatti, il combinato disposto degli artt. 27, 31 e 33 D.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale e alla polizia giudiziaria (quindi anche alla Polizia Locale), nonché al personale dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, precisi e penetranti poteri (e doveri) di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, cautelari e di repressione degli abusi.
   Analoghi poteri-doveri sono attribuiti a detto personale comunale in materia di conglomerati cementizi armati dagli artt. 68, 69 e 70 D.P.R. 380/2001, mentre gli artt. 27, 29 e 30 L. 394/1991 attribuiscono analoghi poteri-doveri al personale dell’Ente Gestore dell’area protetta in caso di violazioni commesse all’interno di parchi regionali.
   L’esecuzione, sin da subito, di un’accurata attività di accertamento e indagine renderà superfluo l’invio di delega da parte del Pubblico Ministero, accelerando notevolmente i tempi del procedimento.
   Per il compimento di singoli atti si rinvia, pertanto, al successivo capitolo 5.

4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero
   Come sopra già indicato, la CNR dovrà possibilmente pervenire, sin da subito, completa in ogni sua parte (compresi gli allegati) e, qualora ciò non fosse possibile, dovrà pervenire quanto prima (e, comunque, senza ritardo) un apposito seguito.
   La delega d’indagine dovrà, pertanto e d’ora in poi, costituire un evento eccezionale e riguardare accertamenti specifici che verranno indicati direttamente dal Pubblico Ministero.
   Evidenzio che gli atti d’indagine delegati devono essere eseguiti rispettando scrupolosamente le modalità indicate in delega. Non va, tuttavia, dimenticato che, nell’ambito dell’attività delegata, è sempre possibile per il personale di polizia giudiziaria procedere al compimento di atti d’iniziativa che si rendano necessari per l’accertamento dei fatti e la prosecuzione delle indagini.
   Qualora la delega riguardi un fatto già oggetto d’indagine indirizzata al medesimo Comando nell’ambito di altro procedimento penale, si sospenderanno gli accertamenti comunicando che, per i fatti per i quali si procede, è in corso altro procedimento penale (del quale si indicherà il numero di registro generale e il nome del Magistrato assegnatario). Tale indicazione è essenziale per una rapida eventuale unione dei procedimenti.
   Qualora pervenga un sollecito o una richiesta già evasi, è opportuno non limitarsi a indicare semplicemente che si è già risposto, ma è necessario inviare nuovamente quantomeno il frontespizio della precedente segnalazione.
   Va tenuto presente che il numero del procedimento (RGNR) è il mezzo più rapido ed efficace per l’individuazione del fascicolo, mentre l’indicazione di altri dati (nome indagato, numero di protocollo della segnalazione ecc.) rende la ricerca da parte della Segreteria lunga e complessa.
   Se viene indicato in delega un termine per l’espletamento delle indagini lo stesso deve essere tassativamente rispettato, salvo motivata richiesta di proroga al Magistrato delegante, che deve essere depositata con congruo anticipo per evitare che, nel frattempo, scada il termine per le indagini preliminari. Ricordo che la scadenza del termine massimo per l’espletamento delle indagini, in mancanza di una motivata e tempestiva richiesta di proroga al G.I.P. da parte del P.M., impedisce al Pubblico Ministero medesimo l’utile compimento di altre indagini.
   È estremamente importante che in tutta la corrispondenza intrattenuta con l’ufficio del Pubblico Ministero si indichino in modo bene visibile:
      1) il numero del procedimento (RGNR)
      2) il nome del Magistrato assegnatario
      3) ogni altro elemento utile per l’individuazione della precedente corrispondenza.

   Gli accertamenti delegati alla Polizia Locale non possono essere dalla stessa “subdelegati” agli Uffici Tecnici comunali, perché i relativi addetti non rivestono la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria e possono, pertanto, solo essere sentiti a verbale come persone informate sui fatti ex art. 351 c.p.p., ovvero nominati ausiliari di p.g. ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
   La Polizia Locale non potrà trasmettere la delega d’indagine all’Ufficio Tecnico perché la stessa potrebbe contenere l’indicazione di ulteriori indagini coperte da segreto istruttorio che non devono essere portate a conoscenza di soggetti diversi da quelli appartenenti alla polizia giudiziaria.
   Di conseguenza, la Polizia Locale inoltrerà all’Ufficio Tecnico comunale una propria richiesta che faccia riferimento all’ordine d’indagine della Procura della Repubblica e che conterrà in virgolettato unicamente lo stralcio degli accertamenti che devono essere condotti direttamente all’Ufficio Tecnico.

5 Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine
   Quanto segue rappresenta una sintesi dell’attività di indagine da eseguire in via ordinaria. E’ ovvio che il personale di polizia giudiziaria potrà sempre predisporre ogni ulteriore accorgimento e iniziativa idonei all’accertamento dei fatti.
   Le disposizioni di seguito elencate andranno integrate con quanto già sopra indicato al precedente capitolo:

a) acquisizione documentazione
   Tale attività è fondamentale per l’accertamento dei fatti e per l’individuazione dell’abuso. Essa riguarderà tutta la documentazione esistente presso il Comune o altri Enti e relativa all’abuso edilizio (pratica edilizia, sanatoria se richiesta, rilievi, pareri, verbali ecc.). Se non diversamente ordinato dalla Procura della Repubblica potrà essere effettuata in copia. L’attività di acquisizione dovrà essere formalizzata con apposito verbale.
   Le copie acquisite saranno accompagnate da un indice e, comunque, numerate e saranno allegate al verbale di acquisizione.
   In caso di rifiuto o ritardo nel fornire la suddetta documentazione da parte di soggetti pubblici o privati, ne verrà data immediata notizia al Pubblico Ministero procedente, il quale potrà emettere, secondo i casi, Decreto di esibizione ex art. 256 cod. proc. pen., o di perquisizione e sequestro ex art. 252 c.p.p..

b) accertamento sui luoghi
  
È uno degli accertamenti più importanti perché irripetibile ex art. 354 c.p.p..
   Il verbale delle operazioni compiute avrà ingresso nel fascicolo del dibattimento e potrà essere letto e utilizzato dal Giudice. Grazie al contenuto di questo atto, il Giudice potrà rendersi conto di ciò di cui si discuterà nel dibattimento. E’ necessario che tale atto contenga tutti gli elementi essenziali per l’individuazione dei fatti.
   L’accertamento non avverrà esclusivamente con la descrizione a verbale di quanto verificato: saranno, invece, eseguiti rilievi fotografici e, se necessario, planimetrici dei luoghi, avvalendosi eventualmente di ausiliari di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
   I soggetti nominati ausiliari di p.g. non potranno rifiutarsi di prestare la propria opera. In caso di rifiuto andranno denunciati ex art. 366 cod. pen. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).
   Nell’ambito dell’attività edilizia gravitano spesso altre fattispecie di reato quali evasione fiscale (in alcune circostanze), inquinamenti ambientali, lavoro in nero (in alcune circostanze), violazioni alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Raccomando, pertanto, interventi di controllo sinergici con le forze specialistiche [ad esempio, Guardia di Finanza (per le violazioni fiscali e tributarie), Nucleo Ispettorato Lavoro dei CC, Ispettorato Nazionale del Lavoro e PSAL della ATS (per la sicurezza e la regolarità del lavoro), ARPA e servizi ispettivi degli Enti Parco (per le violazioni ambientali ecc.)].

c) documentazione fotografica
   Continuano a pervenire fotografie in bianco e nero, o singole immagini, che non consentono, per dimensioni e caratteristiche, di avere una cognizione completa dell’abuso.
   Le fotografie dovranno, al contrario, essere a colori e in numero adeguato per consentire al Pubblico Ministero e al Giudice di valutare la consistenza dell’abuso. Andranno munite di didascalia.
   I rilievi fotografici e tecnici andranno allegati al verbale di sopralluogo del quale dovranno costituire parte integrante. Ne consegue che, qualora per comodità di lettura e per facilitare la comprensione si ritenga opportuno alternare parti di testo della CNR a fotografie, queste ultime dovranno necessariamente essere allegate in ulteriore copia a colori munite di didascalia anche al verbale di sopralluogo.
   Per la predisposizione del fascicolo fotografico si tengano presenti i criteri utilizzati normalmente per la documentazione degli incidenti stradali.

d) Accesso ai luoghi
   I sopralluoghi dovranno necessariamente essere espletati congiuntamente da personale della Polizia Locale e da quello dell’Ufficio Tecnico comunale: solo così sarà possibile, infatti, giungere a una CNR completa sia degli atti investigativi (verbale di identificazione, verbale di sequestro, verbale di sopralluogo, verbale di sommarie informazioni testimoniali, verbale di spontanee dichiarazioni da indagato ecc.), sia di quelli tecnici (rilievi tecnici, relazione inerente la qualificazione edilizio-urbanistica delle opere abusive, identificazione catastale, ordinanza di sospensione dei lavori, ordinanza di demolizione, permesso a costruire in sanatoria ecc.).
   Capita che venga impedito al personale ispettivo di accedere ai luoghi per accertare compiutamente l’abuso. In tal caso dovrà essere interpellato il Magistrato assegnatario del procedimento o, in mancanza, assenza o impedimento, quello di turno, che valuterà se emettere Decreto di ispezione di cose e luoghi ex artt. 244 e 246 c.p.p. al fine di consentire l’accesso ai luoghi, anche con autorizzazione alla rimozione degli ostacoli fissi.
   Va, in ogni caso, evidenziato che tali comportamenti, potendo astrattamente concretizzare, in talune circostanze, ipotesi delittuose di violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale ex artt. 336 e 337 cod. pen., ovvero di impedimento del controllo ex art. 452-septies c.p., dovranno essere tempestivamente denunciati alla Procura della Repubblica.

e) Accertamento della proprietà dell’area ove insiste l’abuso
  
Si tratta di un dato essenziale che dovrà essere sempre acquisito, allegando anche l’atto di proprietà o altra idonea documentazione (visura presso la Conservatoria dei registri immobiliari ecc.). Non sono ammissibili le semplici dichiarazioni dei soggetti presenti sul posto.

d) Qualificazione dei luoghi, vincoli ecc.
   Andrà accertata la destinazione urbanistica dei luoghi oggetto di abuso allegando il relativo certificato di destinazione urbanistica che attesti la destinazione d’uso, sia alla data di realizzazione dell’abuso, sia con riguardo alla data del relativo accertamento. Verrà verificato anche se le opere eseguite siano o meno conformi alla normativa urbanistica e agli strumenti urbanistici locali. Ciò dovrà avvenire attraverso idonea dichiarazione scritta da parte del responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale.
   Gli eventuali vincoli (paesaggistici, ambientali, storico-architettonici, idrogeologici ecc.) se non indicati nel dettaglio nel certificato di destinazione urbanistica andranno indicati in modo completo con gli estremi (articolo, comma e dati completi della legge di riferimento) nella relazione del personale dell’Ufficio Tecnico comunale. In caso di vincolo imposto con provvedimento ministeriale o con altro provvedimento amministrativo andrà allegata copia dello stesso.

e) Identificazione soggetti responsabili
  
Oltre a quanto ho già detto al precedente punto 2.21 a), aggiungo che sarà necessario allegare il certificato anagrafico degli indagati (la cui reperibilità, da parte della Polizia Locale, appare agevole anche attraverso subdelega ad altri comandi territorialmente competenti per la residenza degli indagati), perché ciò rende meno frequenti gli errori di trascrizione e accelera i tempi di registrazione del fascicolo.
   L’assuntore dei lavori potrà essere inizialmente identificato anche attraverso la targa dei mezzi utilizzati per l’esecuzione dei lavori, ovvero tramite la documentazione contabile o di altro tipo in possesso del committente.
   Non è accettabile che, in molte CNR, venga omessa l’individuazione di tutti i responsabili degli abusi e ciò anche in piccoli comuni ove l’acquisizione di tali informazioni è estremamente facile.
   Nelle more di redazione del verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni sul diritto alla difesa ricordo che, nel caso di mancata nomina del difensore di fiducia da parte dell’indagato, è consigliabile per la p.g. procedere alla nomina del difensore d’ufficio, che dovrà essere necessariamente individuato in quello indicato dall’Ordine degli Avvocati del Foro di Bergamo (anche se nominato da un organo di p.g. avente sede altrove).
   Al verbale di identificazione dovrà essere allegata fotocopia di un valido documento di riconoscimento dell’indagato.
   Si richiama l’attenzione degli operanti circa la corretta e completa compilazione di detti verbali evitando, per esempio, parziali indicazioni dell’esatto domicilio eletto o dell’esatto nominativo del difensore nominato (per esempio, eleggo domicilio in via Rossi n. 5 senza indicare la località, ovvero nomino difensore di fiducia lo studio legale Rossi senza indicare l’esatto nominativo del difensore), che comporterebbero la nullità dell’atto medesimo.

f) Accertamento provvedimenti adottati dall’Autorità comunale
   La vigente legislazione urbanistica contempla alcuni provvedimenti, di regola di competenza dell’Autorità comunale (ad esempio, ordinanze di sospensione lavori o di demolizione), la cui emissione da parte della stessa Autorità costituisce, in presenza dei prescritti presupposti, un obbligo e non una facoltà.
   Basti pensare, a tale proposito, che l’eventuale mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta l’acquisizione dell’immobile abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
   Occorrerà, pertanto, verificare quali provvedimenti siano stati adottati dalle competenti Autorità, allegandone copia munita della relativa relata di notifica.
   Qualora l’abuso non sia ancora noto alle predette Autorità ne verrà data alla stessa specifica informativa da parte della Polizia Locale e prova dell’avvenuta consegna verrà allegata agli atti della CNR.
   L’ordinanza di sospensione dei lavori prevista dagli artt. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001, 167 D.Lgs. 42/2004 e 29 L. 394/1991 non va emessa, come spesso accade, esclusivamente allorquando le opere abusive sono in corso di realizzazione all’atto del sopralluogo; al contrario, andrà sempre emessa (e tempestivamente notificata) in tutti i casi in cui le opere abusive non siano già integralmente completate.
   Ricordo che, di regola, la sequenza dei provvedimenti che devono essere emessi dall’Autorità comunale, a norma dell’articolo 27 D.P.R. 380/2001, è la seguente:
      a) ordinanza di sospensione lavori e relativa notifica;
      b) verifica circa l’ottemperanza di detta ordinanza con apposito verbale;
      c) comunicazione alla Procura della Repubblica circa l’eventuale inottemperanza in ordine al reato ex art. 44, lett. b), D.P.R. 380/2001 e valutazione sulla opportunità di procedere con sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p..
      d) ordinanza di demolizione e ripristino e relativa notifica;
      e) verifica circa l’ottemperanza all’ordinanza con apposito verbale;
      f) notifica dell’eventuale verbale di inottemperanza;
      g) applicazione, in caso di inottemperanza, della sanzione amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 (nei casi di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso di costruire);
      h) acquisizione al patrimonio del Comune del fabbricato e dell’area di sedime e successiva demolizione d’ufficio a cura del Comune e spese del responsabile dell’abuso (nei casi di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso di costruire);
      i) esecuzione d’ufficio della demolizione a cura del Comune e a spese del responsabile dell’abuso medesimo nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso nei casi di cui agli artt. 33, comma 1, e 34, comma 1, D.P.R. 380/2001.

   Occorrerà, pertanto, verificare che l’Autorità comunale abbia effettivamente adempiuto ai doveri impostigli dalla vigente normativa urbanistica.
   Non è, in nessun caso, consentito inserire nella segnalazione che “il provvedimento è in corso di redazione” o altre diciture simili. Il provvedimento deve essere acquisito completo delle relate di notifica.

g) Verifica dell’agibilità
   Sebbene l’articolo 221 R.D. 1265/1934 comprenda violazioni depenalizzate, la presenza o meno dell’agibilità andrà verificata e segnalata alla competente Autorità comunale per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e per gli altri adempimenti di competenza.

h) Accertamento della data di ultimazione lavori
   La data da accertare è quella effettiva di ultimazione lavori. Detto accertamento potrà essere effettuato acquisendo ogni documento (fatture, scontrini etc.) relativo all’acquisto dei materiali e recante data certa.
   Dovranno, inoltre, essere sentiti a verbale ex art. 351 c.p.p., quali persone informate sui fatti, i vicini, gli esponenti ecc. (non i soggetti da sottoporre a indagine le cui dichiarazioni non sono utilizzabili) sulla data di ultimazione delle opere.
   Si potrà anche verificare se vi siano contratti di fornitura (acqua, luce, gas ecc.) recanti data certa e, nel caso, acquisirne copia.
   Si dovrà sempre procedere, quando disponibili, alla verifica e all’acquisizione di copia a colori dei rilievi aerofotogrammetrici presso il Comune o la Regione.

i) Illecita attivazione di utenze
   L’art. 48 D.P.R. 380/2001 vieta la fornitura di acqua, energia elettrica e gas per gli immobili abusivi. Nel caso in cui ciò avvenga, il responsabile del servizio è passibile di sanzione amministrativa.
   In caso d’immobile abusivamente realizzato sarà, quindi, opportuno verificare se e a quale titolo siano stati stipulati eventuali contratti di utenza per acqua, energia elettrica, gas, al fine di accertare eventuali responsabilità di altri soggetti che hanno agevolato l’utilizzazione del manufatto abusivo.
   Frequentemente i responsabili degli abusi stipulano contratti per l’erogazione di energia elettrica dichiarando falsamente (in violazione dell’art. 483 cod. pen. – falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) che la fornitura erogata viene utilizzata per “irrigazione”, “sollevamento acqua”, “apertura cancello elettrico”, “cantiere” ecc.
   Sarà, pertanto, essenziale accertare se l’immobile abusivo sia fornito di acqua, luce, gas acquisendo, in caso positivo, copia del contratto, al fine di consentire la successiva valutazione in sede penale della condotta dei soggetti fornitori, nonché quella relativa alle false dichiarazioni rese al fine di ottenere le forniture.

l) Esecuzione dei sequestri
   Qualora l’organo di vigilanza accerti l’esecuzione di opere abusive ovvero, a maggior ragione, la prosecuzione dei lavori illeciti nonostante l’ordine di sospensione degli stessi, lo stesso organo di vigilanza:
      1. non potrà limitarsi a depositare una mera comunicazione alla Procura della Repubblica;
      2. dovrà invece valutare, secondo un prudente apprezzamento circa la sussistenza di concreti pericoli per il bene giuridico tutelato (ambiente, assetto urbanistico ecc.) l’eventuale adozione del provvedimento di sequestro preventivo in via d’urgenza ex art. 321, 3-bis c.p.p.; in tal caso, è consigliabile contattare il P.M. di turno per le sue determinazioni.

   Il sequestro effettuato dalla P.G. rappresenta un atto particolarmente delicato e importante nella complessiva attività d’indagine. Con esso si impedisce la prosecuzione dell’intervento abusivo (sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p.) e si assicurano al processo elementi di rilievo sotto il profilo probatorio (sequestro probatorio ex art. 354 c.p.p.).
   Il sequestro può riguardare non solo il singolo manufatto abusivo, ma anche l’area dove esso insiste, il cantiere e le relative attrezzature.
   Il sequestro preventivo, inoltre, può essere effettuato, secondo un orientamento ormai costante della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, anche sulle opere già ultimate (poiché le conseguenze che tale misura tende ad evitare sono ulteriori rispetto alla fattispecie tipica già realizzata e, in materia urbanistica, l'esistenza di una costruzione abusiva può aggravare il cd. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze del reato).
   Qualora si proceda a sequestro (d’iniziativa, ovvero su ordine dell’A.G.) delle opere abusive e del cantiere, lo stesso andrà effettuato rendendo effettivamente inaccessibili i luoghi, apponendo sigilli e cartelli visibili recanti gli estremi del provvedimento. Ove possibile ci si dovrà, dunque, assicurare che ogni via di accesso all’area e al fabbricato in sequestro sia fisicamente impedita apponendo, se necessario, ostacoli fissi (reti, travi ecc.).
   Si è notato come talvolta si faccia, ancora, ricorso all’anomala figura del “sequestro senza sigilli”, inteso come apposizione solo virtuale del vincolo sul bene sequestrato che viene, in realtà, lasciato nella disponibilità dell’indagato o del detentore, specie nel caso in cui l’immobile abusivo sia utilizzato.
   Tale figura è del tutto sconosciuta al codice di procedura penale (la Suprema Corte di Cassazione ha, da tempo, espressamente escluso, con riferimento al sequestro preventivo, la possibilità che lo stesso sia sottoposto a termini o condizioni quali, ad esempio, la “facoltà d’uso” finalizzata alla eliminazione della situazione che ha determinato l’apposizione del vincolo) e si risolve in un atto del tutto privo di efficacia, in quanto consente comunque la piena utilizzazione del manufatto abusivo.
   Dovrà quindi curarsi che, all’atto del sequestro, il manufatto non sia in nessun caso accessibile o altrimenti utilizzabile e sia, pertanto, libero da persone.
   Dovrà, inoltre, assicurarsi una successiva vigilanza al fine di verificare l’integrità dei sigilli e che permangano le condizioni di conservazione del bene assicurate al momento del sequestro.
   Ricordo, inoltre, che la violazione di sigilli, se commessa dal custode (che va sempre nominato sin dall’esecuzione del sequestro) consente, ai sensi dell’art. 349, comma 2, cod. pen. e in presenza dei presupposti di legge, l’arresto in flagranza.
   Il sequestro (d’iniziativa o disposto dall’ A.G.) dovrà essere tempestivamente eseguito, così come ogni verifica in merito ad abusi in corso di esecuzione. L’eventuale omissione o il ritardo nell’esecuzione può configurare gravi ipotesi di reato.

m) Esecuzione di dissequestri
   Anche i provvedimenti di restituzione delle cose sequestrate andranno immediatamente eseguiti.
   Evidenzio, però, che il relativo provvedimento dovrà pervenire direttamente dall’Autorità che l’ha emesso (P.M. o Giudice) nelle forme previste.
   Non è in nessun caso ammissibile procedere all’esecuzione di dissequestri sulla base di provvedimenti esibiti in copia dall’indagato o dal suo difensore né, tanto meno, su richiesta verbale.
   Detti provvedimenti dovranno pervenire dalla Segreteria del P.M. o dalla Cancelleria del Giudice nelle forme di legge.
   Se la restituzione è disposta nei confronti dell’ ”avente diritto” e lo stesso non sia compiutamente indicato, dovrà accertarsi chi sia tale soggetto, potendosi lo stesso individuare in persona diversa dall’indagato, come nel caso in cui si sia perfezionata l’acquisizione automatica dell’immobile al patrimonio del Comune a seguito d’inottemperanza all’ordinanza di demolizione.
   In caso di dubbio andrà interpellato per iscritto l’Ufficio che ha emesso il provvedimento.

n) Procedura di acquisizione
   La procedura di acquisizione degli immobili e delle relative aree di sedime è obbligatoria e dovrà essere portata a termine nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore.
   Tale procedura dovrà essere avviata dal competente funzionario comunale con le cadenze che vengono qui di seguito sinteticamente ricordate:

      − emissione ordinanza di demolizione ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 e relativa tempestiva notifica. L’ordinanza dovrà contenere tutti gli estremi per l’identificazione dell’abuso (compresi foglio e mappale), nonché l’area di sedime acquisibile in caso di inottemperanza,
      − verifica (attraverso sopralluogo della Polizia Locale) dell’ottemperanza all’ordinanza con redazione del relativo verbale,
      − in caso d’inottemperanza, il relativo verbale (che dovrà contenere gli estremi catastali dell’immobile) dovrà essere notificato ai soggetti interessati,
      − l’accertata inottemperanza determina ope legis l’automatico passaggio della proprietà dell’abuso e dell’area di sedime all’Amministrazione comunale nei termini indicati dall’articolo 31 D.P.R. 380/2001
,
      − il trasferimento di proprietà dovrà essere rapidamente trascritto.

   Ciò posto, si è rilevata spesso una resistenza da parte dei competenti Uffici comunali a effettuare la trascrizione o a porre in essere regolarmente e tempestivamente la procedura di cui sopra.
   È, pertanto, opportuno che il personale di Polizia Locale sia reso edotto del fatto che:
      − l’eventuale omissione o rifiuto da parte del personale competente a procedere potrà configurare, a seconda dei casi, i reati di favoreggiamento, abuso d’ufficio e/o di omissione o rifiuto di atti d’ufficio, in ordine ai quali vi è l’obbligo di tempestiva comunicazione a questa A.G.,
      − il ricorso innanzi al Giudice amministrativo non sospende la procedura di acquisizione, se non nel caso in cui venga emessa Ordinanza cautelare di sospensiva.

   Questa Procura della Repubblica provvederà a segnalare alla competente Procura Regionale della Corte dei Conti omissioni o ritardi che possano comportare danno erariale.


6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico
   L’art. 20, comma 13, D.P.R. 380/2001 punisce penalmente chiunque dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti previsti al comma 1 del medesimo articolo nell’ambito del procedimento per il rilascio del permesso di costruire.
   L’art. 29, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere realizzate nell’ambito di segnalazione certificata di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del cod. pen. Ne consegue che, in caso di false dichiarazioni, viene integrato il reato ex art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità).
   L’art. 19, comma 6, L. 241/1990 punisce penalmente chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o presupposti indicati al comma 1° della medesima legge.
   È sempre previsto l’obbligo d’informativa, da parte del responsabile del procedimento, al competente Ordine Professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. All’informativa può provvedere ovviamente anche la Polizia Locale, quale organo di polizia giudiziaria.
   Restano fermi i restanti reati di falso previsti nel Libro II Titolo VII Capo III (della falsità in atti) del cod. pen.
   È necessario, quindi, che si proceda al controllo sulla veridicità delle dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni (e relativi allegati) inserite dalle parti nelle pratiche e si provveda a segnalare tempestivamente a questa Procura della Repubblica gli eventuali reati, nonché a darne immediata informativa al competente Ordine Professionale qualora l’autore del reato sia un professionista.

7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
   L’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 prevede che: … “Il Segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.
   Tale norma ha la finalità di consentire il complessivo monitoraggio sul territorio della giurisdizione del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
   Gli elenchi di cui all’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 non sostituiscono, pertanto, l’obbligo di CNR previsto dall’art. 347 c.p.p.. Né, al contrario, il deposito della CNR da parte degli operanti fa venir meno l’obbligo di trasmissione dei suddetti elenchi mensili da parte del Segretario comunale.
   Tali elenchi dovranno essere mensilmente trasmessi, solo se positivi (ossia solo se vi sono abusi da segnalare), unicamente a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo: (da indicare).
   Tali elenchi non verranno iscritti in alcun registro del S.I.C.P. (Sistema Informativo della Cognizione Penale) e verranno direttamente trasmessi al Procuratore.
   L’elenco mensile deve contenere unicamente i dati relativi all’abuso (identificazione del luogo, sintetica descrizione della tipologia dell’abuso ecc.) e ai soggetti responsabili dello stesso (complete generalità). Al contrario, non deve contenere allegati (ordinanze, rapporti ecc.).
   È necessario che nell’elenco mensile venga inserita, per ogni abuso, un’apposita voce “CNR della Polizia Locale n…. inoltrata in Procura il …”, ovvero “CNR in fase di redazione da parte della Polizia Locale e di prossimo inoltro in Procura”. In tale ultimo caso sarà onere del Comune (attraverso il Segretario comunale, ovvero la Polizia Locale) trasmettere tempestivamente alla Procura apposita integrazione all’elenco mensile con la quale si darà atto dell’avvenuto deposito della relativa CNR mancante.
   Gli elenchi mensili conterranno sia gli abusi che assumono rilevanza penale, sia quelli che costituiscono meri illeciti amministrativi, poiché la norma di riferimento non prevede distinzioni.
   È necessario, però, che nell’elenco mensile venga inserita un’ulteriore apposita voce che indichi esplicitamente se si tratta di abuso avente carattere penale o solo amministrativo.

8. La comunicazione di avvio del procedimento
   L’art. 7 Legge 241/1990 inerente alla comunicazione di avvio del procedimento dispone che … “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari”.
   Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 23.01.2012, n. 282; VI Sez., 24.09.2010, n. 7129; VI Sez., 30.05.2011, n. 3223; VI Sez., 24.05.2013, n. 2873; V Sez., 09.09.2013, n. 4470, VI Sez., 08.05.2014) l’adozione di misure repressive edilizie non è assoggettata all’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, attesa la natura vincolata del provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione dell’interessato non può arrecare alcuna utilità.
   Particolare rigore deve essere posto con riguardo ad accertamenti connessi alle opere in corso di esecuzione, sia nel caso di ordinaria attività di vigilanza, che nel caso di attivazione a seguito di segnalazione di parte.
   In tali casi, al fine di evitare il concretizzarsi di ipotesi penalmente rilevanti a carico del funzionario comunale firmatario del provvedimento di avvio del procedimento (per esempio, di favoreggiamento del potenziale destinatario del provvedimento sanzionatorio che ben potrebbe, se preventivamente informato, eliminare l’abuso prima dell’accertamento, ovvero aggravare il reato con il completamento funzionale delle opere e la potenziale fruibilità delle stesse, con conseguente vantaggio patrimoniale), l’avvio del procedimento è tassativamente vietato.
   Al contrario, non si ravvisano particolari criticità connesse all’eventuale emanazione della comunicazione di avvio del procedimento per ciò che concerne le opere illecite pacificamente già ultimate anche nelle loro rifiniture. Detta prassi è, infatti, utilizzata da molti comuni, soprattutto per la difficoltà a risalire a documentazione giacente presso l’archivio storico e, conseguentemente, per evitare di procedere con la notifica di provvedimenti demolitori riguardanti manufatti regolarmente assentiti, con conseguente necessità di un successivo provvedimento in autotutela. Quanto sopra, ovviamente, fermo restando il rispetto del termine perentorio di cui all’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
   Nel caso di emissione della comunicazione di avvio del procedimento occorrerà, pertanto, indicare un termine perentorio alla controparte per presentare memorie o scritti difensivi utili al procedimento instaurato.
L’utilizzo di detta procedura non può, in nessun caso, portare a una dilazione dei 30 giorni previsti dall’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001
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   In generale corre l’obbligo per il Comune di intervenire senza indugio con i controlli e i successivi provvedimenti ripristinatori degli interventi realizzati in assenza di titolo abilitativo.
   La facoltà di presentare istanza di sanatoria, nei casi previsti dalla legge, è in capo infatti all’avente titolo. Non sono, pertanto, giustificati ritardi nell’azione repressiva al fine di agevolare i privati nella presentazione di eventuali istanze di sanatoria.

9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. 42/2004
   L’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che … “il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
   Parallelamente, l’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. 42/2004 prevede che, nelle ipotesi di abuso paesaggistico ivi tassativamente elencate e qualora la competente Autorità amministrativa ne accerti la relativa compatibilità paesaggistica, non trovano applicazione le sanzioni penali di cui al comma 1° del medesimo articolo.
   Nel corso degli anni si è registrata, da parte dei singoli comuni, una disomogenea applicazione delle norme e delle procedure in tema di segnalazione dei reati oggetto di richieste di conformità e di compatibilità paesaggistica: alcuni comuni non trasmettono mai la CNR in caso di rilascio delle sanatorie (ovvero delle compatibilità paesaggistiche), altri le trasmettono solo all’esito delle relative pratiche e indistintamente dal loro accoglimento o meno, altri le trasmettono solo all’esito della relativa istruttoria e solo in caso di diniego, altri ancora le trasmettono non appena pervenute al Comune e ancor prima della relativa istruttoria.
   È, pertanto, opportuno chiarire che, solo allorquando la sussistenza di un abuso edilizio o paesaggistico venga portata a conoscenza delle strutture comunali (ovvero del parallelo Ente pubblico competente in materia paesaggistica) unicamente dalla parte tramite richiesta di accertamento di conformità edilizia (ovvero richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica), quindi in assenza di qualsivoglia esposto, segnalazione, ovvero in assenza di accertamenti, sopralluoghi del personale comunale o di altri Organi pubblici, il deposito della CNR sarà posticipato all’esito dei relativi procedimenti amministrativi.
   Tale obbligo di denuncia all’A.G. sussiste, all’esito dell’istruttoria, sia qualora l’abuso venga sanato, o ne venga certificata la compatibilità paesaggistica, sia qualora le relative istanze vengano rigettate. Ciò perché è stato, comunque, commesso un reato, la cui eventuale dichiarazione di estinzione compete unicamente al Giudice.
   È evidente che, in caso di accoglimento delle istanze di conformità e/o compatibilità paesaggistica, l’Organo procedente (Polizia Locale, ovvero il parallelo servizio ispettivo dell’Ente competente in materia paesaggistica) si limiterà a depositare la CNR contenente i dati essenziali: la relazione sarà molto sintetica, con esplicito riferimento all’inutilità di effettuare ulteriori indagini e conterrà proposta di archiviazione del procedimento.
   Andranno, comunque, anche in questo caso, allegati il verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni sul diritto alla difesa in capo a tutti i soggetti responsabili, copia integrale del provvedimento amministrativo di sanatoria e/o compatibilità, nonché apposita dichiarazione del responsabile dell’ Ufficio Tecnico attraverso la quale si attesta che, con il provvedimento amministrativo rilasciato e trasmesso, è stato sanato (ovvero ne è stata certificata la compatibilità paesaggistica), l’intero abuso e che non residuano ulteriori abusi non sanati.
   Tale procedura appare in assoluto la più logica e, al contempo, ossequiosa del dettato normativo posto che, l’eventuale rilascio dei citati permessi a costruire in sanatoria (ovvero delle certificazioni di compatibilità paesaggistica), comporterebbe il mantenimento nell’area della mera rilevanza sanzionatoria amministrativa dei lavori illeciti eseguiti, senza alcun obbligo d’immediata informativa all’A.G. (che ben può essere posticipata, quindi, all’esito delle procedure amministrative).
   Al contrario, è appena il caso di ricordare che, quando sono già pervenuti esposti, segnalazioni, denunce, ovvero quando il personale comunale ha già espletato accertamenti, sopralluoghi ecc. prima del deposito in Comune di un’eventuale istanza di conformità o di compatibilità, la CNR dovrà necessariamente essere depositata in Procura senza ritardo (indistintamente dal fatto che pervengano, dopo l’esposto o l’accertamento, eventuali istanze di conformità o di compatibilità).
   A norma dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 380/2001, ... “l’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36”.
   Di conseguenza, anche il corso della prescrizione del reato rimane sospeso, a norma dell’art. 159 cod. pen., per tale lasso di tempo. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione.
   L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede, inoltre, che: … “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia, con adeguata motivazione, entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
   È opportuno evidenziare, quindi, che la lettura del combinato disposto degli artt. 45, comma 1, e 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 consente di affermare che, entro il termine massimo di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza di conformità, il responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale dovrà provvedere su tale istanza e trasmettere tempestivamente tutta la documentazione (compreso il provvedimento finale) alla Polizia Locale, affinché quest’ultima possa celermente notiziare la Procura della Repubblica (salvo le ipotesi relative ad aree o immobili vincolati, in ordine alle quali si deve considerare anche il termine di 180 giorni a disposizione della Soprintendenza per il parere obbligatorio e vincolante di sua competenza).
   In caso di insufficienza della documentazione o delle dichiarazioni allegate dalla parte nell’istanza, il responsabile del procedimento avrà cura di inoltrare, con mezzi che ne garantiscano la prova di ricezione, specifica richiesta di integrazione: la stessa dovrà necessariamente indicare il termine tassativo entro cui produrre al Comune tale documentazione e/o dichiarazioni mancanti (che deve essere il più possibile contenuto), in mancanza delle quali, allo scadere del termine concesso, l’istanza dovrà essere rigettata.
   Non è mai tollerabile la prassi, sin qui tenuta da alcuni comuni, di inoltrare alla parte richieste di integrazione prive di un termine entro cui provvedere. Così facendo, infatti, dette pratiche rischiano di rimanere, nel caso di inerzia della parte, in “istruttoria” spesso ben oltre il termine massimo concesso dalla legge per la definizione dei procedimenti, con conseguente elevato rischio di prescrizione del reato.
   Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a più abusi commessi da soggetti diversi, sanati od oggetto di compatibilità paesaggistica.
   È obbligo del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’avvenuto rilascio del permesso a costruire in sanatoria, ovvero della certificazione di compatibilità paesaggistica. Ciò senza attendere una specifica delega d’indagine dell’A.G.. A tal fine sarà onere del responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale trasmettere tempestivamente apposita comunicazione alla Polizia Locale, contenente copia integrale del provvedimento emesso e dichiarazione che attesti che non residuano abusi non sanati.

10 Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi
   Gli artt. 27, 31, 33 e 35 D.P.R. 380/2001 prevedono che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina la demolizione delle opere abusive.
   L’art. 31, comma 9, D.P.R. 380/2001 prevede che il Giudice, con la Sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
   Analoghi poteri-doveri sono previsti in ambito paesaggistico dagli artt. 167 e 181, comma 2, D.Lgs. 42/2004, nonché dall’art. 29 L. 394/1991, in caso di attività abusive in aree protette.
   L’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 prevede, poi, una specifica sanzione amministrativa in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione. E’ indicato, altresì, che … “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile, del dirigente e del funzionario inadempiente”.
   Ho verificato che, spesso, non viene emessa la citata sanzione amministrativa e che ci si limita a emettere le ordinanze di demolizione e/o ripristino senza, però, procedere agli interventi d’ufficio previsti dalle citate norme in caso di inottemperanza del responsabile dell’abuso.
   Ricordo che, in presenza dei presupposti di legge, l’esecuzione d’ufficio delle demolizioni e dei ripristini, così come l’acquisizione al patrimonio pubblico dell’immobile abusivo e della relativa area di sedime e l’emanazione delle prescritte sanzioni amministrative, costituiscono un obbligo per l’Autorità amministrativa e non una mera facoltà discrezionale. Sono evidenti, in astratto, le possibili responsabilità omissive, sia sul piano penale sia su quello erariale.
   La mancata ottemperanza alle ordinanze di demolizione non integra il reato ex art. 650 cod. pen. perché tale fattispecie penale (c.d. “norma penale in bianco”), così come da consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, punisce l’inosservanza di provvedimenti legalmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia, ordine pubblico, sicurezza pubblica o igiene, esclusivamente allorquando tali inosservanze non siano già punite dall’ordinamento con specifiche sanzioni.
   Nel caso di specie la sanzione prevista dalla norma in caso d’inottemperanza è la demolizione, ovvero il ripristino dei luoghi, eseguiti d’ufficio e a spese del relativo responsabile.
   L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 42/2004 prevede che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga condanna, estingue il reato paesaggistico di cui al comma 1 del medesimo articolo.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede, poi, l’esclusione della punibilità in taluni casi di particolare tenuità del fatto.
   È obbligo pertanto del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’eventuale avvenuta demolizione, ovvero ripristino dello stato dei luoghi, sia al fine di valutare l’eventuale estinzione del reato, sia perché tale ottemperanza costituisce comunque comportamento favorevolmente valutabile nei confronti dell’indagato.

11 La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR
   L’art. 329 c.p.p. prevede che … “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
   L’art. 326 cod. pen. punisce penalmente il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza.
   Ne consegue che ogni richiesta di accesso agli atti trasmessi all’A.G., da chiunque proveniente (indagati, difensori, esponenti, soggetti terzi ecc.), deve essere trasmessa al P.M. titolare per il preventivo vincolante nulla osta ex art. 116 c.p.p..
   Talune norme vigenti in materia edilizia (per esempio, gli artt. 27, comma 4, e 31, comma 7, D.P.R. 380/2001) prevedono, peraltro, l’obbligo di informativa alle Autorità amministrative preposte (Regione, Comune, Ordine Professionale ecc.) circa i reati accertati per i provvedimenti di rispettiva competenza. In tali casi, ossia quando l’informativa non riveste carattere di discrezionalità ma deriva da un obbligo ope legis, il nulla osta del P.M. alla trasmissione degli atti alle suddette Autorità e per le finalità indicate nella legge s’intende sin d’ora concesso.
   Evidenzio che gli atti diretti e provenienti dalla Procura della Repubblica, ovvero da altri organi di polizia giudiziaria, possono essere portati a conoscenza del solo personale avente qualifica di agente o ufficiale di polizia giudiziaria.
   Qualsivoglia eventuale comportamento di amministratori locali volto a interferire, limitare o intralciare le attività di polizia giudiziaria e di controllo degli abusi deve essere immediatamente segnalato al Procuratore della Repubblica.

12 Conclusioni
   Prego le Autorità in indirizzo di inoltrare la presente direttiva ai Comandi, Settori, Servizi, Uffici territorialmente e funzionalmente competenti, onde garantirne la più ampia diffusione.
   Le SS.VV. si atterranno alle sopraelencate disposizioni anche in considerazione della rilevanza che assumono i beni giuridici tutelati dalle norme in oggetto.
   La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla presente direttiva costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e, come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari.

dicembre 2023

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione (09.12.2023 - link a www.dirittopa.it).
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Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 11.10.2023 n. 16
Una premessa
Non è semplicissimo condensare in poche righe il portato della sentenza n. 16/2023 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Volendoci provare potremmo dire questo: originata da un contenzioso nel quale si discuteva della applicazione della sanzione pecuniaria conseguente all'inottemperanza all'ordine di demolizione, la decisione fissa in modo definitivo il principio per il quale la perdita ab origine della proprietà è, per scelta del legislatore, l'unica conseguenza dell'inottemperanza, tant'è che, decorso il termine ingiunto, il responsabile non può più demolire il manufatto abusivo, poiché non è più suo. (...continua).

agosto 2023

EDILIZIA PRIVATA: Secondo granitica giurisprudenza:
   -  l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie costituisce un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (“trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo”);
   - il potere repressivo può essere esercitato anche a notevole distanza temporale dall’abuso, atteso che l’illecito ha natura permanente e che il suo autore conserva inalterato l’obbligo di rimuovere l’opera.
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Per condiviso indirizzo giurisprudenziale, “il permesso di costruire conosce diverse tipologie di varianti:
   - quelle "minori" o "leggere" che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie;
   - le varianti in senso proprio, consistenti in modificazioni qualitative o quantitative di consistenza contenuta rispetto al progetto approvato;
   - le varianti "essenziali", caratterizzate dall'incompatibilità del progetto in variante con quello originario.
Mentre la variante in senso proprio ammette modifiche progettuali che non investono le caratteristiche identificative della costruzione, “la variante essenziale investe gli elementi qualificanti dell'opera, incidendo direttamente e in modo rilevante sulla sua conformazione, struttura ed ubicazione, e integrando come tale un nuovo permesso di costruire”.
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20. Ad ogni buon conto il ricorso sarebbe anche infondato, atteso che:
   - la censura relativa alla violazione degli obblighi di partecipazione procedimentale non risulta meritevole di accoglimento, alla luce di granitica giurisprudenza secondo cui l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie costituisce un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (“trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo” - v. Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2021 n. 6490; Id. n. 4389/2019; n. 2681/2017);
   - parimenti sorretta da consolidata giurisprudenza è l’assunto che il potere repressivo possa essere esercitato anche a notevole distanza temporale dall’abuso, atteso che l’illecito ha natura permanente e che il suo autore conserva inalterato l’obbligo di rimuovere l’opera (cfr. Cons. Stato, sez.VI, 12.01.2022 n. 204; Id, n. 6323/2020);
   - in piena adesione alle osservazioni svolte dalla difesa comunale, il Collegio ritiene che dai verbali di accertamento della Polizia Locale di Palmi (doc. n. 4 di parte resistente) si possa evincere che quelle realizzate dalla ricorrente siano opere in parte poste in essere in variazione essenziale al permesso di costruire del 1998 e a quello approvato in sanatoria nel 2007, in parte totalmente abusive, come tali legittimamente assoggettate alla sanzione demolitoria prevista dall’art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e non alla sanzione pecuniaria dell’art. 34, difettandone i presupposti.
Per condiviso indirizzo giurisprudenziale, infatti, “il permesso di costruire conosce diverse tipologie di varianti: quelle "minori" o "leggere" che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie; le varianti in senso proprio, consistenti in modificazioni qualitative o quantitative di consistenza contenuta rispetto al progetto approvato; le varianti "essenziali", caratterizzate dall'incompatibilità del progetto in variante con quello originario.
Mentre la variante in senso proprio ammette modifiche progettuali che non investono le caratteristiche identificative della costruzione, “la variante essenziale investe gli elementi qualificanti dell'opera, incidendo direttamente e in modo rilevante sulla sua conformazione, struttura ed ubicazione, e integrando come tale un nuovo permesso di costruire
” (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.02.2021, n. 1388; Id, sez. IV, 28.12.2020 n. 8415).
Nel caso di specie, gli interventi edilizi di che trattasi differiscono da quelli contemplati nel progetto assentito con il permesso di costruire del 1998 e in quello approvato in sanatoria del 2007 in relazione tutti i parametri urbanistico-edilizi (volume, superficie coperta, sagoma ed altezza) ed anche per il numero delle unità immobiliari che nel sottotetto passano da una a tre.
Si è dunque in presenza di una modifica del progetto che investe gli elementi funzionali e strutturali dell'edificio e che va senz'altro qualificata come variante essenziale.
In particolare, come si evince dalla relazione dell’U.T.C. del 25.08.2020 (v. doc. n. 5 di parte resistente):
   a. l’ampliamento ricavato al piano terra, lungi ad essere assimilato ad una mera ripartizione di volumi interni, presenta un significativo aumento di superficie (m. 5,55x4,20), analogamente al vano chiuso esistente al 1° piano (m. 5,65x4,65 adibito a cucina);
   b. le verande e la tettoia sono prive di titolo edilizio, non essendo mai state previste in nessun progetto con conseguente modifica della sagoma e dei tratti plano-volumetrici dell’edificio;
   c. come già accennato, in disparte la copertura a tetto che non rispetta quella da progetto (da m. 1,00 si passa a m. 1,75), il sottotetto, originariamente non abitabile, è diventato tale con la realizzazione di tre vani ed un bagno, rifiniti ed arredati e l’aggiunta di quattro finestre con conseguente mutamento di destinazione d’uso, aumento di cubatura e innovazione delle parti portanti (pavimentazioni) tipiche delle variazioni essenziali (art. 32 d.P.R. n. 380/2001);
   d. erra la ricorrente quando afferma che l’utilizzo ai fini abitativi del sottotetto sarebbe consentito dall’art. 49 della L.R. n. 19/2002: la norma, funzionale al recupero del patrimonio edilizio esistente, si applica ai soli edifici costruiti nel centro storico o in centri abitati e non in zona agricola dove si trova quello di proprietà della ricorrente.
Occorre precisare, tra l’altro, che la ricorrente non ha affatto fornito la prova che gli incrementi di superficie e di volume furono eseguiti in corso d’opera, sicché delle due l’una: o erano già esistenti all’epoca del rilascio del permesso in sanatoria (anno 2007) e quindi sarebbe stato lecito attendersene già allora la regolarizzazione oppure furono realizzati in tempi successivi, dando luogo ad una nuova costruzione abusiva da sottoporre a sanzione repressivo-demolitoria.
In ogni caso, i lavori eseguiti assumono natura abusiva, come ammesso da controparte che ne ha chiesto l’accertamento di conformità in sanatoria.
Il ricorso deve essere, dunque, respinto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 07.08.2023 n. 675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto attiene alla sanzione amministrativa pecuniaria, di cui all'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001, il presupposto per l'applicazione della sanzione è rappresentato dalla constatata inottemperanza all'ordine di demolizione, essendo una misura coercitiva indiretta volta ad indurre la rimozione dei manufatti abusivi.
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La sanzione pecuniaria amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001, può essere legittimamente irrogata per quegli abusi edilizi ove l'inottemperanza a demolire si sia manifestata in epoca successiva all'entrata in vigore della norma.
È evidente che l'illecito sanzionato è costituito dall'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
Tale inottemperanza inizia con l'emanazione dell'ordinanza di demolizione e continua nel tempo fino a quando l'interessato, ovvero l'autorità amministrativa in danno, non provveda ad eseguire il ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, in definitiva, l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione ha carattere di illecito permanente che persiste fino alla demolizione dei manufatti abusivi.
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21. Il ricorso n. 90/2023 RG. è infondato.
Per quanto attiene alla sanzione amministrativa pecuniaria, di cui all'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001, il presupposto per l'applicazione della sanzione è rappresentato dalla constatata inottemperanza all'ordine di demolizione, essendo una misura coercitiva indiretta volta ad indurre la rimozione dei manufatti abusivi.
Con il verbale del 22.11.2021 (v. doc. n. 10 di parte resistente) la Polizia Municipale di Palmi ha accertato l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 117 del 01.12.2020, impugnata con il ricorso n. 120/2021 sopra esaminato e respinto.
In sede di gravame avverso l'ingiunzione di pagamento della sanzione ex art. 31, co 4-bis cit. non può discutersi né della natura né dell’entità dell'abuso, essendo ormai definitivamente "scolpite" nell'ordine di demolizione.
I motivi di ricorso pertanto sono inammissibili nella parte in cui sono rivolti a sollevare vizi dell’atto concernenti esclusivamente la legittimità dell’ordinanza di demolizione; sono infondati nella parte in cui non contestano minimamente né l’an né il quantum della sanzione amministrativa nella misura in cui è stata irrogata alla stregua dei criteri applicativi previsti dal Regolamento del Comune di Palmi non impugnato in parte qua.
Le censure articolate nella memoria di replica, non notificata, depositata il 03.03.2023, sono all’evidenza tardive e quindi inammissibili, come fondatamente eccepito dalla difesa civica che espressamente non ha accettato il contraddittorio sul punto (v. memoria del 19.05.2023 di parte resistente).
Circa la presunta illegittimità dell’applicazione retroattiva della sanzione pecuniaria in asserita in violazione dell’art. 1, L. n. 689/1981, si è condivisibilmente stabilito che “La sanzione pecuniaria amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001, può essere legittimamente irrogata per quegli abusi edilizi ove l'inottemperanza a demolire si sia manifestata in epoca successiva all'entrata in vigore della norma. È evidente che l'illecito sanzionato è costituito dall'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione. Tale inottemperanza inizia con l'emanazione dell'ordinanza di demolizione e continua nel tempo fino a quando l'interessato, ovvero l'autorità amministrativa in danno, non provveda ad eseguire il ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, in definitiva, l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione ha carattere di illecito permanente che persiste fino alla demolizione dei manufatti abusivi” (v. TAR Napoli, sez. VII, 04.04.2022 n. 2297).
Anche sotto il profilo poc’anzi enunciato, pertanto, il gravame non coglie nel segno.
22. In conclusione, il ricorso n. 120/2021 deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, mentre il ricorso n. 90/2023 va respinto siccome infondato (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 07.08.2023 n. 675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2023

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione dell’abuso edilizio presupponendo una visione complessiva, e non atomistica, delle opere realizzate, dovendosi valutare l’insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio e non il singolo intervento.
Non è dato, infatti, scomporne una parte, per negare l’assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni.
L’opera edilizia abusiva va, dunque, identificata con riferimento all’immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi, avulsi dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente considerato. Ed inoltre, la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comprende non le sole attività di edificazione, ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e duratura dello stato del territorio e nell'alterazione della conformazione del suolo.
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Non è, ancora, rilevante la predicata natura tecnica o pertinenziale di alcuni abusi, trattandosi di interventi sicuramente idonei ad incidere sul bene paesaggistico, in quanto comportanti una trasformazione del territorio.
Invero, la realizzazione di un muro di contenimento necessita del previo rilascio del permesso di costruire, delineandosi tra gli interventi di “nuova costruzione” (non ha natura pertinenziale) che non può considerarsi come un intervento di restauro e risanamento conservativo.
“Il muro di cinta o di contenimento è struttura che -differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale ha caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della mera delimitazione della proprietà- non ha natura pertinenziale, in quanto opera dotata di specificità ed autonomia soprattutto in relazione alla funzione assolta, consistente nel sostenere il terreno al fine di evitarne movimenti franosi in caso di dislivello, originario o incrementato”.

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... per l'annullamento:
   A) Dell’ordinanza Reg. Gen. 196 del 09.12.2019, prot. n 86552/USCITA registrata il 10.12.2019, notificata il 16.12.2019, avente ad oggetto “Ingiunzione di Demolizione Art. 31 del DPR 380/2001 per opere abusive realizzate alla Via ... Civ. 55” con la quale s’ingiunge di provvedere alla demolizione a propria cura e spese e nel rispetto delle leggi vigenti, delle opere abusive e di qualsiasi altra opera abusivamente realizzata in Via ... n. 50, nel termine di 90 giorni dalla notifica della presente ingiunzione;
   B) Dell’avviso che, in caso di accertata inottemperanza, si procederà alla acquisizione delle opere realizzate e dell’area di sedime, al patrimonio del Comune e si procederà all’adozione degli ulteriori provvedimenti previsti dal DPR 380/2001, art. 31 ed alla irrogazione della sanzione pecuniaria pari a euro 20.000,00 prevista dal comma 4-bis dell’art. 27 DPR 380/2001 essendo opere abusive su aree di cui al comma 2 dell’art. 27 DPR 380/2001 e di una sanzione pecuniaria pari a euro 20.000,00 prevista dal comma 4-bis dell’art. 27 DPR 380/2001 essendo opere abusive su aree di cui al comma 2 dell’art. 27 DPR 380/2001;
   C) Di ogni altro atto connesso, preordinato, conseguente e in ogni modo collegato, comprese le relazioni tecniche redatte dal personale del Comando VV.UU. del Comune di Pozzuoli, poste a fondamento della stessa ordinanza impugnata.
...
Il ricorso è infondato per le considerazioni che seguono.
In data 24/08/2019 il Corpo di Polizia Locale del Comune di Pozzuoli effettuava sopralluogo in via ... n. 55 presso la proprietà del sig. Ra.Lu., ove costatava la realizzazione delle opere innanzi descritte; il manufatto rurale, in particolare, risultava completo di ogni opera ed arredato, come si evince dalle foto allegate al verbale e, come dichiarato dal sig. Ra.Lu. agli accertatori, abitato unitamente al suo nucleo familiare (cfr. all. n. 2 alla memoria difensiva del Comune).
Il Comune di Pozzuoli ordinava, quindi, la demolizione delle suindicate opere edilizie, siccome realizzate in assenza di titolo abilitativo.
...
Col secondo motivo di ricorso, parte ricorrente lamenta la violazione del d.p.r. 380/2001, dell’art. 6, comma 1, lett. c), del d.p.r. 380/2001, del d.lgs. 42/2004.
«Eccesso di potere, violazione dell’art. 1, comma 275, della l. n. 244/200», perché gli interventi eseguiti rientrerebbero in quelli per i quali non è richiesto titolo abilitativo e comunque non lederebbero l’oggetto della tutela ambientale del sito ove sono stati realizzati.
In tale prospettiva, il Comune avrebbe omesso di verificare la compatibilità degli interventi, difettando il provvedimento demolitorio, sotto tale profilo, di adeguata istruttoria e motivazione.
Con il terzo motivo di ricorso, invece, il ricorrente sostiene che il muro di contenimento di 14 mt. ed il muretto di tufo di 7 mt. sarebbero sempre esistiti e sarebbero stati solo migliorati.
Il motivo è del tutto infondato.
Come già rilevato, il ricorrente ha ampliato l’originario manufatto rurale, destinandolo a civile abitazione; ha, poi, realizzato un muro di contenimento di 14 mt., un terrazzino di 60 mq. e un muretto in tufo di 7 m. Occorre, altresì, precisare che l’intero territorio del Comune di Pozzuoli è stato dichiarato di notevole interesse pubblico ex d.m. del 12/09/1957.
L’area ove insiste l’abuso ricade, pertanto, in base al P.R.G.:
   a) in zona B5_3 «residenziale satura recente interna o contigua ad emergenze naturalistiche e paesistiche o a zone di elevato pregio ambientale. Manutenzione e restauro ambientale», la cui regolamentazione è dettata dall’art. 24 delle norme di attuazione del piano e non consente il tipo di intervento realizzato dal ricorrente;
   b) in base al P.T.P. in zona P.I. «Protezione integrale», il cui art. 11 delle norme di attuazione prevede il divieto di «qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti».
Correttamente, quindi, si legge nell’ordinanza impugnata «che gli interventi che comportano ampliamenti di volume degli immobili non sono assentibili quindi ai sensi dell’art. 36 e 37 del Testo Unico e non per niente configurabili in alcune delle ipotesi di condono, considerato che le opere realizzate non appaiono neanche astrattamente condonabili, poiché opere non conformi alle norme urbanistiche vigenti», avendo il Comune motivato la gravata sanzione demolitoria non soltanto con riferimento alla mancanza di titoli abilitativi ma vista anche l’incompatibilità dei manufatti con i vincoli ambientali di riferimento.
Del resto, nel caso che ci occupa, né il muro di contenimento di 14 mt., né il terrazzino di 60 mq. ed il muretto di 7 mt. potevano qualificarsi, per natura e dimensioni, quali manufatti meramente pertinenziali.
La valutazione dell’abuso edilizio presuppone, inoltre, una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, dovendosi valutare l’insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio e non il singolo intervento. Non è dato, infatti, scomporne una parte, per negare l’assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni.
L’opera edilizia abusiva va, dunque, identificata con riferimento all’immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi, avulsi dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente considerato. Ed inoltre, la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comprende non le sole attività di edificazione, ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e duratura dello stato del territorio e nell'alterazione della conformazione del suolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01/04/2019, n. 221).
Non è, ancora, rilevante la predicata natura tecnica o pertinenziale di alcuni abusi, trattandosi di interventi sicuramente idonei ad incidere sul bene paesaggistico, in quanto comportanti una trasformazione del territorio (Cons. Stato, Sez. VI, 15/11/2021, n. 7584).
La realizzazione di un muro di contenimento necessita, quindi, del previo rilascio del permesso di costruire, delineandosi tra gli interventi di “nuova costruzione” (non ha natura pertinenziale) che non può considerarsi come un intervento di restauro e risanamento conservativo. “Il muro di cinta o di contenimento è struttura che -differenziandosi dalla semplice recinzione, la quale ha caratteristiche tipologiche di minima entità al fine della mera delimitazione della proprietà- non ha natura pertinenziale, in quanto opera dotata di specificità ed autonomia soprattutto in relazione alla funzione assolta, consistente nel sostenere il terreno al fine di evitarne movimenti franosi in caso di dislivello, originario o incrementato” (Cons Stato, sez. VI, 08/10/2019 n. 212)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.06.2023 n. 3801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Laddove gli abusi edilizi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non può essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio ma deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica.
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini”.
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L’avversata ordinanza di demolizione si rivela illegittima in quanto:
   - ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile dell’abuso”;
   - anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
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... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, registrata al n. -OMISSIS- del 13.12.2011, notificata il 20.01.2012, con la quale il dirigente del Dipartimento Attività Edilizie e Repressione Abusivismo del Comune di Messina ha ordinato al ricorrente nella qualità di provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza medesima, al ripristino quo-ante dello stato dei luoghi abusivamente modificati, con l’avvertimento che, decorso infruttuosamente il predetto termine, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, verranno acquisite di diritto al patrimonio comunale;
...
Il deducente avvocato -OMISSIS-, nella qualità di amministratore del condominio dell’isolato 248 in via -OMISSIS-, Messina, ha sottoscritto per la presentazione al Comune intimato una d.i.a., prot. n. -OMISSIS- dell’01.12.2009, relativa al progetto per il restauro dell’organismo architettonico dell’isolato che amministra.
Nel prescritto termine di legge -giorni trenta dalla presentazione- non è pervenuto alcun provvedimento inibitorio dell’attività edilizia oggetto della d.i.a. e, quindi, sono stati regolarmente intrapresi i lavori.
Successivamente, tra fine settembre ed inizio ottobre del 2011, sono stati effettuati due accertamenti da parte dell’Ufficio tecnico comunale, all’esito dei quali il Dipartimento Attività Edilizie e Repressione Abusivismo, senza alcuna preliminare contestazione o comunicazione di avvio del procedimento, ha adottato due distinte ordinanze repressive, aventi entrambe per destinatario il predetto amministratore pro tempore, con le quali, rispettivamente, gli si ordinava
   - il pagamento di una sanzione pecuniaria di € 516,00 (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011) per la realizzazione di opere abusive in assenza di autorizzazione o d.i.a. nonché
   - (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, in questa sede impugnata) di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, secondo il Comune abusivamente modificati, per alcune “altre” opere, di proprietà esclusiva di alcuni condomini, avvertendo che in caso di inottemperanza il bene e l’area di sedime (non specificamente indicati) nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sarebbero stati acquisiti al patrimonio comunale.
Il ricorrente ha contestato, con memoria trasmessa al Comune di Messina l’01.03.2012, entrambi i provvedimenti, evidenziando che l’eventuale pagamento della sanzione pecuniaria irrogata con la prima ordinanza non avrebbe costituito, comunque, acquiescenza alle contestazioni mosse e che, per la seconda ordinanza, non sussistevano le condizioni l’applicazione della sanzione della rimessione in pristino e l’acquisizione al patrimonio comunale e che, comunque, egli non poteva essere destinatario di una tale ordinanza (riguardante pretesi abusi su immobili di proprietà privati), chiedendone l’annullamento in autotutela ed avvertendo che, in mancanza, si sarebbe visto costretto a proporre azione giurisdizionale.
Nel silenzio dell’Amministrazione comunale il deducente ha proposto l’azione di annullamento.
...
2. Il ricorso merita di essere accolto, nei sensi e nei termini in appresso specificati.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., sez. II, 03.04.2003, n. 5147; Cass. civ., sez. II, 09.06.2000, n. 7891; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304).
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini” (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 08.04.2008, n. 9148).
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini” (cfr., ex plurimis, Cass. civ. sez. III, 16.05.2011, n. 10717; Cass. civ. sez. II, 26.03.2010, n. 7300; Cass. civ. sez. III, 18.02.2010, n. 3900; Cass. civ. sez. II, 21.01.2010, n. 1011; Cass. civ., sez. trib., 07.12.2004, n. 22942; l’orientamento giurisprudenziale in questione, peraltro, è stato più di recente ribadito da, ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 06.10.2021, n. 27080; Cass. civ., sez. II, 26.09.2018, n. 22911; Cass. civ., sez. III, 31.10.2017, n. 25855).
Orbene, l’avversata ordinanza di demolizione ex art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47 si rivela illegittima in quanto:
   - ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile dell’abuso”;
   - anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 18.05.2022, n. 6276; cfr. anche TAR Basilicata, sez. I, 14.01.2022, n. 14; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.07.2020, n. 3005).
3. In conclusione, previo assorbimento delle restanti censure, il ricorso merita di essere accolto per le ragioni sopra evidenziate con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.12.2022 n. 3130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2022

EDILIZIA PRIVATAVa ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato secondo cui grava sul proprietario, e non sulla P.A., l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva: “In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito, non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione”
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Va ribadita la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942, atteso che,
   - come è già stato condivisibilmente osservato “queste ben possono assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere edili o di attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di provocare mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri interventi edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie meramente estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte di quello stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine di sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e rigorosa tutela”;
   - così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale dell’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di sanatoria le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto il rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi dell’art. 31, primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi «dei regolamenti edilizi comunali».
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L’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento della responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia.
L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la sussistenza del concreto interesse pubblico alla rimozione neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione a situazioni contra legem, essendo stata la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
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8. Va in primo luogo ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato che stabilisce che grava sul proprietario, e non sulla P.A., l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva: “In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito, non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16/02/2022, n. 1152).
Nel caso in esame, la ricorrente non ha provato, contrariamente a quanto genericamente asserito nel ricorso, la data di realizzazione delle opere contestate.
9. Piuttosto, la prospettazione della parte, secondo cui tutte le opere contestate risulterebbero esistenti dagli inizi degli anni sessanta o quantomeno dal 1994, allorché fu svolta la perizia del C.T.U. del Tribunale di Nocera Inferiore (cfr. all. 2 ricorso), risulta smentita per tabulas, dal momento che le tavole aerofotogrammetriche relative al volo del 2003, allegate al verbale di accertamento tecnico prot. n. 176974 del 25/11/2015 dimostrano l’assenza, a tale data, della superfetazione in lamiera metallica, indicata al punto 2, e della tettoia a struttura metallica, indicata al punto 3 dell’ordinanza impugnata.
A conferma di ciò, dalla stessa perizia del 1994, risulta che sull’immobile in questione, «interamente compreso in area di rispetto ferroviario, non edificabile» (cfr. p. 7 perizia), erano all’epoca presenti solo una baracca in blocchi di cemento con copertura in lamiera ondulata e luci di accesso chiuse da due saracinesche in ferro, di dimensioni circa m 6,5 x 5, altezza m. 3, e un piccolo locale w.c. in blocchi di cemento, opere che, oltre a essere evidentemente differenti rispetto alle strutture rilevate nel 2015 dai tecnici della P.A., comprovano piuttosto l’inesistenza all’epoca delle opere abusive indicate al secondo, terzo e quarto punto dell’impugnata ordinanza n. 16/2016.
Ne è risultato, come accertato nel verbale 176974/2015, un complessivo intervento abusivo realizzato in più epoche, caratterizzato da “un’unica organicità dell’opera”.
10. È evidente quindi come la ricorrente non abbia compiutamente provato il carattere risalente -ante cd. Legge Ponte del 1967- dei manufatti, né conseguentemente la legittimità delle opere contestate attraverso idonei titoli edilizi, opere che ricadono, tra l’altro, in area di rispetto ferroviario e soggiacciono certamente al disposto dell’art. 49 del DPR n. 753/1980, secondo cui: “Lungo i tracciati delle linee ferroviarie è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie ad una distanza, da misurarsi in proiezione orizzontale, minore di metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia”.
11. Sul punto, non può poi condividersi quanto osservato in replica dalla ricorrente circa la non obbligatorietà dell’allora vigente Regolamento Edilizio Comunale, approvato con deliberazione del Commissario Prefettizio n. 800 del 12/04/1954, che prevedeva l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per gli interventi di costruzione o modifica da effettuarsi nell’ambito dell’intero territorio comunale, in quanto -ad avviso della parte- previsione in contrasto con la legge urbanistica n. 1150/1942 che limitava invece la necessità del titolo edilizio ai soli centri abitati.
Vale infatti ribadire la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942, atteso che,
   - come è già stato condivisibilmente osservato “queste ben possono assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere edili o di attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di provocare mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri interventi edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie meramente estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte di quello stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine di sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e rigorosa tutela” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.10.1995, n. 1425);
   - così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale dell’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di sanatoria le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto il rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi dell’art. 31, primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi «dei regolamenti edilizi comunali» (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 1678/2018).
12. Quanto al profilo della responsabilità del proprietario, vale osservare che l’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento della responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 215/2022).
12. L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la sussistenza del concreto interesse pubblico alla rimozione neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione a situazioni contra legem, essendo stata la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore (TAR Campania-Salerno, Sez. III, sentenza 13.10.2022 n. 2661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2022

EDILIZIA PRIVATA: L. Ramacci, IL RISTRETTO AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA SANATORIA PER “DOPPIA CONFORMITÀ” DI CUI ALL’ART. 36 D.P.R. 380/2001 (Lexambiente fasc. n. 3/2022).
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Abstract. Il presente lavoro prende in esame la procedura di sanatoria degli abusi edilizi “formali” considerandone le caratteristiche e l’ambito di operatività così come delineato dalla giurisprudenza amministrativa e di legittimità, i cui interventi si sono spesso resi necessari a causa di distorte prassi finalizzate la recupero di interventi abusivi che secondo una corretta lettura dell’art. 36 d.P.R. 380/2001 sarebbero, invece non sanabili.
Viene posto in evidenza come, in realtà, la disposizione in esame abbia un’applicazione molto limitata e come siano conseguentemente limitati gli effetti estintivi delle contravvenzioni urbanistiche previsti dall’art. 45 del d.P.R. 380/2001.
...
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Presupposti della sanatoria. - 3. La “doppia conformità” in genere. - 4. La sanatoria “condizionata”. - 5. La sanatoria “parziale”. - 6. La sanatoria “giurisprudenziale”. - 7. Sanatoria degli abusi edilizi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. - 8. Sanatoria degli interventi in zona sismica. - 9. Effetti penali della sanatoria.

agosto 2022

EDILIZIA PRIVATAIn linea generale, si rileva che, secondo le linee interpretative della costante giurisprudenza amministrativa, l’istanza di sanatoria edilizia ha un preciso valore confessorio dell’abuso.
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In base ai principi elaborati dalla giurisprudenza, ciò che rileva ai fini del calcolo del contributo di costruzione è l’oggetto sostanziale dell’intervento, questo essendo determinante per stabilire l’effettiva incidenza sul carico urbanistico.
Invero:
   a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico;
   b) è stata ritenuta sufficiente, al fine della configurazione di un maggior carico urbanistico, la circostanza che, quale effetto dell’intervento edilizio, sia mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta;
   c) considerato che il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità, nel caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui l’intervento va a determinare un aumento del carico urbanistico (il che può verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi globalmente l’edificio, ma, a causa di lavori anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica.

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1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dai seguenti provvedimenti:
   a) nota prot. n. 9867 del 28.05.2012 recante la determinazione del contributo di cessione delle aree a standards ai sensi del d.m. n. 1444 del 1968 (impugnato con il ricorso introduttivo);
   b) nota prot. n. 2844 del 14.02.2013, recante la determinazione del pagamento delle somme dovute a titolo di contributo di costruzione per il rilascio del permesso di costruire di cui all’istanza del 18.12.2021 (impugnato con motivi aggiunti).
2. La ditta appellante –proprietaria di un immobile sito nel comune di Bellizzi, in via ... ricompreso in zona D del vigente P.R.G.- ha presentato istanza di permesso di costruire in sanatoria per talune opere abusive ed in particolare per un ampliamento (di circa 40 mq.) del piano terra/rialzato a destinazione terziaria, nonché per il cambio di destinazione d’uso da artigianale a commerciale/terziario di parte del piano terra e parte del piano ammezzato (per circa mq. 890).
Con il primo provvedimento il comune di Bellizzi ha rilasciato il permesso di costruire in sanatoria e ha determinato l’oblazione dovuta per l’ampliamento e il cambio di destinazione d’uso dell’immobile da artigianale a terziario, stabilendo inoltre la cessione delle aree da destinare a spazio pubblico (standards).
A seguito della interlocuzione tra le parti e della proposizione del ricorso introduttivo il comune ha ripetuto l’istruttoria e ha confermato il precedente, già impugnato, provvedimento.
3. La ditta PCA ha impugnato davanti al Tar per la Campania, sede di Salerno, i su indicati provvedimenti, con ricorso principale (affidato a sei motivi estesi da pagina 3 a pagina 11) e ricorso per aggiunzione (affidato a tre motivi da pag. 2 a pag. 5).
4. L’impugnata sentenza emessa dal Tar per la Campania, sede di Salerno, n. 295 del 2015:
   a) ha in parte respinto e in parte dichiarato inammissibile il ricorso principale e i motivi aggiunti;
   b) ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di euro 1.500,00.
...
12. Con il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, è dedotta la violazione degli artt. 16 e 19 del d.P.R. n. 380 del 2001 poiché l’amministrazione avrebbe calcolato in modo erroneo il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione.
12.1 In particolare, l’amministrazione avrebbe calcolato, in violazione del su indicato art. 16, gli oneri di urbanizzazione sulla base di una volumetria già esistente e, pertanto, si tratterebbe di costi che il privato ha già interamente pagato al momento del rilascio del titolo originario. Inoltre, i costi non sarebbero dovuti in caso di solo cambio di destinazione d’uso.
L’amministrazione, in violazione degli artt. 1 e 5 del d.m. n. 1444 del 1968 e in eccesso di potere, avrebbe disposto la cessione di aree standard sulla base di presupposti che nella fattispecie non ricorrerebbero.
12.2 I motivi sono infondati.
In linea generale, si rileva che, secondo le linee interpretative della costante giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 676 del 2022; n. 463 del 2017), l’istanza di sanatoria edilizia ha un preciso valore confessorio dell’abuso.
Nel caso in esame l’appellante ha presentato un’istanza di permesso in sanatoria in relazione ad un aumento volumetrico abusivo con cambio di destinazione funzionale dell’immobile (da artigianale a terziario) con evidente aggravio del carico urbanistico e conseguente doverosità del pagamento del costo di costruzione, che l’amministrazione, in esatta applicazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha correttamente calcolato in maniera doppia.
12.3. Peraltro, il Collegio osserva, in linea generale, che, in base ai principi elaborati dalla giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 148 del 2022), ciò che rileva ai fini del calcolo del contributo di costruzione è l’oggetto sostanziale dell’intervento, questo essendo determinante per stabilire l’effettiva incidenza sul carico urbanistico.
Invero:
   a) il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’Amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 23.02.2021, n. 1586);
   b) è stata ritenuta sufficiente, al fine della configurazione di un maggior carico urbanistico, la circostanza che, quale effetto dell’intervento edilizio, sia mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta (Cons. Stato, sez. II, 21.07. 2021, n. 5494);
   c) considerato che il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità, nel caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel momento in cui l’intervento va a determinare un aumento del carico urbanistico (il che può verificarsi anche nel caso in cui la ristrutturazione non interessi globalmente l’edificio, ma, a causa di lavori anche marginali, ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica (Cons. Stato, sez. IV, 31.07.2020, n. 4877).
Pertanto, nel caso in esame, il costo di costruzione è stato correttamente quantificato dall’amministrazione ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 380 del 2001 (di cui ha fatto applicazione la deliberazione del Consiglio comunale n. 44 del 2012, non impugnata) giacché l’istanza di sanatoria ha ad oggetto un abuso che implica un mutamento di destinazione funzionale dell’immobile con oggettive ricadute sul carico urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.08.2022 n. 7191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2022

EDILIZIA PRIVATA: L’adozione di un solo provvedimento di riscontro a due domande di sanatoria –una edilizia l’altra paesaggistica– non appare di per sé illegittimo, se si considera che le domande in questione sono strettamente connesse, visto che soltanto in caso di positivo riscontro della compatibilità paesaggistica è possibile il rilascio di un accertamento di conformità secondo l’art. 36 del TU.
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1. Il ricorso principale è diretto contro il provvedimento comunale del 24.10.2012 di rigetto delle due domande di sanatoria, la prima di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del TU e la seconda di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004.
Con particolare riguardo alla compatibilità paesaggistica, il Comune ha rilevato che l’intervento edilizio realizzato in difformità dai titoli abilitativi ha determinato un incremento volumetrico del fabbricato, il che appare di per sé ostativo al rilascio della compatibilità paesaggistica, stante la previsione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. n. 42/2004 (cfr. per il provvedimento impugnato il doc. 1 dei ricorrenti).
1.1 Ciò premesso, nel primo mezzo di gravame gli esponenti sostengono che l’Amministrazione avrebbe erroneamente deciso le due istanze con un solo provvedimento, senza contare che nella valutazione della domanda ex art. 36 del TU non sarebbe stata tenuta in considerazione la disciplina regionale sul recupero dei sottotetti ma soltanto la disciplina del Piano Regolatore Generale (PRG) del 1986.
La doglianza appare infondata.
L’adozione di un solo provvedimento di riscontro alle due domande di sanatoria succitate –una edilizia l’altra paesaggistica– non appare di per sé illegittimo, se si considera che le domande in questione sono strettamente connesse, visto che soltanto in caso di positivo riscontro della compatibilità paesaggistica è possibile il rilascio di un accertamento di conformità secondo l’art. 36 del TU.
Il provvedimento appare poi chiaramente motivato quanto alle ragioni ostative all’accoglimento di entrambe le istanze.
Per il diniego della compatibilità paesaggistica il Comune ha accertato la realizzazione di un incremento volumetrico e sulla legittimità di tale determinazione si tornerà in seguito, allorché sarà esaminato il secondo motivo del gravame principale.
Quanto all’applicazione dell’art. 36 del TU, è noto che la sanatoria prevista da tale articolo presuppone la c.d. doppia conformità dell’intervento edilizio, cioè la conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia in vigore sia al momento di realizzazione dell’abuso sia al tempo di presentazione della domanda.
Nel corso del sopralluogo eseguito presso l’unità dei ricorrenti il 28.07.2011 i tecnici comunali rilevavano l’aumento delle altezze di colmo e di imposta, con conseguente innalzamento della struttura del tetto, la modifica e l’innalzamento dei corpi scala, la mancata realizzazione dei tamponamenti di chiusura, la formazione di nuovi divisori interni e l’utilizzo quale “camera e bagno” del “sottotetto non abitabile/ripostiglio” (cfr. per la copia del verbale di ispezione del 28.07.2011 il doc. 5 del resistente).
La disciplina urbanistica vigente al momento dell’abuso, cui il Comune ha necessariamente fatto riferimento per la valutazione della domanda ex art. 36, è quella dell’art. 5, comma 9.5, delle norme di attuazione (NTA) del PRG del 1986, norma per la quale nei sottotetti non costituiscono superficie lorda di pavimento (slp) e sono quindi escluse dal calcolo volumetrico, le superfici di altezza interna media netta non superiore a 2,4 metri con il punto più basso non inferiore a 1,8 metri e con il punto più alto di intradosso di colmo non superiore a 3 metri (cfr. per il testo della citata NTA il doc. 14 del resistente).
L’accertamento dell’avvenuta violazione della su indicata disciplina di PRG (posto che il sottotetto di cui è causa ha un’altezza superiore a tre metri) ha impedito al Comune l’accertamento della doppia conformità richiesta invece dalla legge.
Gli esponenti invocano a proprio favore l’applicazione della legislazione lombarda sul recupero dei sottotetti, ultima quella degli articoli 63 e seguenti della legge regionale (LR) n. 12/2005.
Il richiamo alla citata legislazione è però inconferente, giacché la stessa presuppone la realizzazione di un intervento di recupero regolarmente assentito, ma nel caso di specie si è in presenza di un abuso edilizio, considerato che il sottotetto è stato realizzato in difformità dai titoli edilizi rilasciati, determinando così un incremento di volume rilevante sotto il profilo edilizio e paesaggistico.
Ne deriva il rigetto del primo mezzo di gravame (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.07.2022 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

giugno 2022

EDILIZIA PRIVATALa parola “condono”, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono:
   - la prima è contenuta nei capi IV e V della l. n. 47/1985, e dunque si collocava almeno in un contesto di nuova regolamentazione della materia con l’introduzione di una serie di strumenti dissuasivi per gli abusi futuri;
   - le successive, invece, si inseriscono in testi del tutto eterogenei e per lo più finalizzati ad esigenze di pubblico erario, e si risolvono nella sostanziale estensione del lasso di tempo entro il quale l’abuso doveva essere stato ultimato per poter fruire del beneficio. Trattasi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 (c.d. “secondo condono”), la cui disciplina procedimentale è stata completata con la l. n. 662 del 1996; nonché dell’art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326, di conversione del d.l. 30.09.2003, n. 269, che ha applicato la disciplina del condono, quale risultante da ridetti capi IV e V della l. n. 47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere abusive ultimate entro il 31.03.2003, seppure ponendo l’ulteriore limite che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri cubi.
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Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al condono si siano chiuse rispettivamente il 30.11.1985, il 31.03.1995 e il 10.12.2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto: sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze, infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza, al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi delle sanatorie edilizie.
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Presupposto per la fruizione di ciascuno dei condoni sopra ricordati è l’avvenuta ultimazione dell’opera realizzata senza titolo entro una certa data.
Il Collegio ricorda come la nozione di opera ultimata ai fini della fruibilità del condono presupponga lo stato di “rustico” della stessa, termine con il quale si intende che essa è completa di tutte le strutture essenziali, necessariamente comprensiva della copertura e delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili, ancorché mancante delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne).
Si tratta del c.d. criterio “strutturale”, applicabile nei casi di nuova costruzione, cui vanno ricondotti anche quelli di modifica sostanziale della costruzione preesistente, in contrapposizione a quello “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di manufatti con destinazione diversa da quella residenziale.
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19. La parola “condono”, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono:
   - la prima è contenuta nei capi IV e V della l. n. 47/1985, e dunque si collocava almeno in un contesto di nuova regolamentazione della materia con l’introduzione di una serie di strumenti dissuasivi per gli abusi futuri;
   - le successive, invece, si inseriscono in testi del tutto eterogenei e per lo più finalizzati ad esigenze di pubblico erario, e si risolvono nella sostanziale estensione del lasso di tempo entro il quale l’abuso doveva essere stato ultimato per poter fruire del beneficio. Trattasi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 (c.d. “secondo condono”), la cui disciplina procedimentale è stata completata con la l. n. 662 del 1996; nonché dell’art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326, di conversione del d.l. 30.09.2003, n. 269, che ha applicato la disciplina del condono, quale risultante da ridetti capi IV e V della l. n. 47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere abusive ultimate entro il 31.03.2003, seppure ponendo l’ulteriore limite che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri cubi.
19.1. Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al condono si siano chiuse rispettivamente il 30.11.1985, il 31.03.1995 e il 10.12.2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto: sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze, infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza, al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi delle sanatorie edilizie.
19.2. Presupposto per la fruizione di ciascuno dei condoni sopra ricordati è l’avvenuta ultimazione dell’opera realizzata senza titolo entro una certa data.
Il Collegio ricorda come la nozione di opera ultimata ai fini della fruibilità del condono presupponga, per costante giurisprudenza dai cui principi non è ragione di discostarsi, lo stato di “rustico” della stessa, termine con il quale si intende che essa è completa di tutte le strutture essenziali, necessariamente comprensiva della copertura e delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili, ancorché mancante delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne).
Si tratta del c.d. criterio “strutturale”, applicabile nei casi di nuova costruzione, cui vanno ricondotti anche quelli di modifica sostanziale della costruzione preesistente, in contrapposizione a quello “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di manufatti con destinazione diversa da quella residenziale (sul punto, v. Cons. Stato, sez. II, 15.02.2021, n. 1403) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 27.06.2022 n. 5265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie realizzate come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi è un atto dovuto, l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto cioè l’abuso di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.
Il provvedimento acquisitivo ha natura dichiarativa ed è un atto dovuto che risulta adeguatamente motivato mediante il richiamo del verbale da cui risulti l'accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza ingiuntiva della demolizione ed opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, con l'ulteriore corollario che la sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà.
La mancata esatta individuazione dell'area di sedime da acquisire di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del Comune, non costituisce ragione di illegittimità dell'ingiunzione a demolire. Ciò in quanto l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è, infatti, una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione; ne consegue che, data la natura dichiarativa dell'accertamento dell'inottemperanza, la mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione.
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Osserva il Collegio che “l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie realizzate come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi è un atto dovuto, l’ordinanza va emanata senza indugio e in quanto tale non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto cioè l’abuso di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza rientrando direttamente nella sua sfera di controllo” (TAR Palermo, sez. II, 17/01/2022, -OMISSIS-; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 07.09.2020-OMISSIS-; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 26.02.2020, -OMISSIS-).
La giurisprudenza ha altresì evidenziato che il provvedimento acquisitivo ha natura dichiarativa ed è un atto dovuto che risulta adeguatamente motivato mediante il richiamo del verbale da cui risulti l'accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza ingiuntiva della demolizione ed opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine stabilito, con la conseguenza che l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione ha solo valenza di titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, con l'ulteriore corollario che la sua notifica all'interessato ha una sua esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà (ex multis: C. di St. n. 2122/2022).
E’ stato altresì precisato che la mancata esatta individuazione dell'area di sedime da acquisire di diritto gratuitamente al patrimonio indisponibile del Comune, non costituisce ragione di illegittimità dell'ingiunzione a demolire. Ciò in quanto l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è, infatti, una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione; ne consegue che, data la natura dichiarativa dell'accertamento dell'inottemperanza, la mancata indicazione dell'area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l'indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione (in tal senso, ex multis: TAR Brescia n. 724/2021; TAR Napoli 5028/2021).
Orbene, nella fattispecie in esame, il verbale da cui risulta l’inottemperanza è stato espressamente richiamato dalla nota gravata, dunque deve ritenersi soddisfatto l’onere di motivazione. Inoltre, detta nota, come visto, non costituisce il provvedimento conclusivo di un autonomo procedimento amministrativo, ma riveste mera natura dichiarativa pertanto nessuna comunicazione di avvio del procedimento doveva essere effettuata all’autore dell’abuso (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 27.06.2022 n. 2108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione alla prova dell’epoca in cui è stato realizzato l’abuso, la giurisprudenza ha affermato che: “L’onere della prova in ordine alla risalenza e alle consistenze edilizie contestate dall'amministrazione (…) per essere ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto (…) che ha richiesto la sanatoria”.
“Lo stesso (onere) può essere invertito e spostato in capo all'amministrazione solo in presenza di produzione da parte del privato di "concreti elementi" idonei a far luogo all'inversione”.
E’ stato ulteriormente precisato che “Non concorre a tale prova la dichiarazione resa dal dante causa in seno all’atto pubblico in ordine alla regolarità del fabbricato giacché, com’è noto, la valenza fidefaciente ex art. 2700 c.c. non si estende al contenuto intrinseco di tale affermazione che possono anche non essere veritiere”.
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3. Con il primo motivo, la sig.ra -OMISSIS- ha sostenuto che il Dirigente avrebbe erroneamente valutato l’epoca di costruzione del manufatto.
La censura non coglie nel segno.
Invero, in relazione alla prova dell’epoca in cui è stato realizzato l’abuso, la giurisprudenza ha affermato che: “L’onere della prova in ordine alla risalenza e alle consistenze edilizie contestate dall'amministrazione (…) per essere ammessi a procedure di sanatoria, incombe sul soggetto (…) che ha richiesto la sanatoria” (cfr. Cons. Stato, IV, 08.01.2013, n. 39, 17.09.2012, n. 4924; Tar Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n. 1122).
Lo stesso (onere) può essere invertito e spostato in capo all'amministrazione solo in presenza di produzione da parte del privato di "concreti elementi" idonei a far luogo all'inversione (sempre ex plurimus, Cons. Stato, IV, 13.01.2010, n. 45; V, 09.11.2009, n. 6984; Tar Campania, Napoli, VI, 20.02.2014, n. 1122; 06.11.2013, n. 4904; II, 30.04.2013, n. 2242; 04.12.2013, n. 5487, VII, 08.02.2013, n. 828; Tar Liguria, Genova, I, 04.12.2012, n. 1565)” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 24.01.2019, -OMISSIS-).
E’ stato ulteriormente precisato che “Non concorre a tale prova la dichiarazione resa dal dante causa in seno all’atto pubblico in ordine alla regolarità del fabbricato giacché, com’è noto, la valenza fidefaciente ex art. 2700 c.c. non si estende al contenuto intrinseco di tale affermazione che possono anche non essere veritiere (Cass. Civ., n. 20214/2019)” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.06.2021, -OMISSIS-).
Orbene, nella fattispecie in esame, l’istante si è limitato ad asserire che l’immobile in esame è stato costruito “in epoca antecedente al 1967”, ma non ha versato in atti nessun documento utile a suffragare detta asserzione. non ha allegato tutta la documentazione necessaria (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 27.06.2022 n. 2107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In considerazione della natura vincolata degli atti repressivi degli abusi edilizi, non sussiste in capo all'Amministrazione un dovere di valutazione dell'interesse pubblico alla demolizione, valutazione da intendersi già compiuta a monte dal legislatore.
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4. Neppure è condivisibile la censura con cui la -OMISSIS- ha dedotto l’omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla demolizione.
Secondo orientamento giurisprudenziale pacifico, dal quale non sussistono ragioni per discostarsi: “In considerazione della natura vincolata degli atti repressivi degli abusi edilizi, non sussiste in capo all'Amministrazione un dovere di valutazione dell'interesse pubblico alla demolizione, valutazione da intendersi già compiuta a monte dal legislatore” (ex plurimis, da ultimo C. di St. n. 311/2022) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 27.06.2022 n. 2107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'omessa notifica degli atti sanzionatori in materia edilizia a tutti i comproprietari, lungi dal costituirne un vizio di legittimità, determina solo l'inefficacia del provvedimento limitatamente ai soggetti, in ipotesi, comproprietari per i quali è mancata la notifica, i quali potranno impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione.
In applicazione di detto principio, il Giudice di seconde cure ha ritenuto che "per pacifica giurisprudenza, affinché un bene immobile abusivo possa formare legittimamente oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i proprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo,
   - ciò perché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio comunale all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione da parte dei proprietari che di quest'ultima non abbiano ricevuto regolare notifica,
   - e perché, con la sanzione dell'acquisizione, si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato al proprietario inciso e, se i proprietari siano più di uno, esso deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota".

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Il primo motivo è fondato e va accolto poiché questo Tribunale «ha avuto modo di chiarire (cfr. TAR Catania, I, 08.04.2021, n. 1083) che “l'omessa notifica degli atti sanzionatori in materia edilizia a tutti i comproprietari, lungi dal costituirne un vizio di legittimità, determina solo l'inefficacia del provvedimento limitatamente ai soggetti, in ipotesi, comproprietari per i quali è mancata la notifica, i quali potranno impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione" (Cons. St., sez. VI, 04.05.2020 n. 2813; TAR Campania, Napoli, sez. II, 08.06.2011 n. 2992)".
In applicazione di detto principio, il Giudice di seconde cure (cfr. Cons. Stato, II, 13.11.2020, n. 7008) ha ritenuto che "per pacifica giurisprudenza, affinché un bene immobile abusivo possa formare legittimamente oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i proprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo, ciò perché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio comunale all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione da parte dei proprietari che di quest'ultima non abbiano ricevuto regolare notifica, e perché, con la sanzione dell'acquisizione, si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato al proprietario inciso e, se i proprietari siano più di uno, esso deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota (cfr., ex multis, Cons. giust. amm. sic., 27.06.2016, n. 642, e diffusissima giurisprudenza di primo grado)"
» (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 16.09.2021, n. 2762. In termini cfr. TAR Campania, Napoli, 03.01.2022, n. 6; TAR Lazio, Roma, sez. II, 01.09.2018, n. 9116; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 06.06.2018, n. 1284; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 08.11.2017, n. 5245) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 27.06.2022 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe l'oblazione non è stata interamente versata nei termini perentori, le costruzioni abusivamente realizzate sono assoggettate alla sanzione della demolizione e ciò in coerenza con la natura del condono.
Infatti, è possibile ottenere una deroga al rispetto delle norme di disciplina dell'assetto del territorio esclusivamente nel caso in cui, entro un arco temporale definito, si realizzano tutte le condizioni rigorosamente prescritte dal legislatore.
Se si consentisse, in assenza di una norma specifica di autorizzazione, la dilazione del pagamento si violerebbero i valori sottesi alla programmazione del territorio senza ottenere nell'immediato quelle risorse finanziarie che legittimano temporaneamente la deroga al rispetto di norme imperative
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4. Con una prima doglianza il ricorrente ritiene illegittimo il provvedimento gravato nella parte in cui viene contestata la mancata trasmissione delle ricevute di pagamento delle quattro rate dell’oblazione relativa all’istanza di condono presentata ex art. 39 della legge 724/94.
4.1. La censura è infondata avendo lo stesso ricorrente ammesso di non aver versato il saldo, pur ritenendo, erroneamente, che tale mancanza non sarebbe idonea a pregiudicare il rilascio della concessione edilizia in sanatoria.
In proposito, la giurisprudenza è granitica nell’affermare che: “Se l'oblazione non è stata interamente versata nei termini perentori, le costruzioni abusivamente realizzate sono assoggettate alla sanzione della demolizione e ciò in coerenza con la natura del condono; infatti, è possibile ottenere una deroga al rispetto delle norme di disciplina dell'assetto del territorio esclusivamente nel caso in cui, entro un arco temporale definito, si realizzano tutte le condizioni rigorosamente prescritte dal legislatore. Se si consentisse, in assenza di una norma specifica di autorizzazione, la dilazione del pagamento si violerebbero i valori sottesi alla programmazione del territorio senza ottenere nell'immediato quelle risorse finanziarie che legittimano temporaneamente la deroga al rispetto di norme imperative” (cfr. TAR Palermo, sez. II, 24.04.2014, n. 1083 e Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2013, n. 894)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 22.06.2022 n. 1654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2022

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAffinché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota.
...
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto prova. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.

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Con ricorso notificato il 19.07.2021 e tempestivamente depositato, i ricorrenti, comproprietari del fondo sito presso il Comune di Ariccia, via ... n. 2/F, (fg 19, part. 343), hanno impugnato la determina comunale n. 472 del 2021, con la quale è stata disposta l’acquisizione al patrimonio comunale del bene, a causa della inottemperanza all’ordine di demolizione n. 150 del 10.07.2015.
Quest’ultimo, a sua volta, era stato emesso a seguito di annullamento, da parte del Comune, del permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2013, e notificato al condominio di via ... n. 2F.
In seguito, con verbale del 03.05.2021, il Comune ha accertato l’inottemperanza, e adottato, a causa di ciò, l’atto oggetto di ricorso.
Con un unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 31 del T.U. dell’edilizia e dell’art. 15 della legge regionale n. 15 del 2008, perché l’acquisizione al patrimonio pubblico del bene non è stata preceduta da notifica ai comproprietari dell’ordine di demolizione.
In via preliminare, e superando l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa comunale, va rimarcato che l’atto impugnato non si limita a dar conto della inottemperanza all’ordine di demolizione, ma dispone l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Esso è perciò senza dubbio lesivo, con riferimento ad eventuali vizi suoi propri.
Inoltre, lo stesso Comune ammette di avere notificato l’ordine di demolizione al solo amministratore del condominio.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito, in linea generale, che perché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota (da ultimo, Tar Napoli, n. 4616 del 2021).
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto prova, come si è visto. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (Tar Napoli, n. 3005 del 2020; Tar Milano, n. 1764 del 2019).
Né rileva in senso contrario la sentenza n. 4303 del 2011 di questo Tribunale, che si limita a riconoscere all’amministratore la legittimazione ad impugnare atti repressivi in ordine ad abusi commessi sulle parti comuni dell’edificio, e non vale, perciò, a superare la necessità della notifica ad ogni condomino dell’ordine di demolizione, nel caso in cui si intenda dichiarare l’effetto ablativo della proprietà.
Infine, non è conferente l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 richiamato dalla difesa comunale, atteso che non si è in presenza di un vizio formale del procedimento, ma della carenza del presupposto stesso perché possa operare la sanzione della acquisizione gratuita.
Di conseguenza, l’atto impugnato va annullato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 18.05.2022 n. 6276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2022

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi – Mancanza di una casa – Scriminante dello stato di necessità – Inconfigurabilità – Ragioni.
In materia di abusi edilizi e ambientali la configurabilità della scriminante dello stato di necessità, nella specie consistente nella mancanza di una casa, appare in concreto esclusa dal fatto che il pericolo del danno grave alla persona è evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, la relativa autorizzazione mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente.
In materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo.

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Si impugna l’ingiunzione di demolizione con ripristino dello stato dei luoghi n. 2/2020, assunta al prot. n. 14569 del 09.03.2020, notificata in data 08.07.2020, emessa dal Comune di Nocera Inferiore in relazione ad opere edilizie realizzate in assenza del titolo abilitativo consistenti “nella realizzazione di un manufatto edilizio a piano terra, su base di calcestruzzo già accertata precedentemente, esso è realizzato con muratura perimetrale e copertura con pannelli coibentati su struttura inteialata in acciaio scatolare e pilastrini ancorati su piastra in ferro e bullonata alla piastra in calcestruzzo.
Lo spazio interno è stato suddiviso con tramezzature ricavando due wc; due camere da letto e soggiorno cucina.
La struttura edilizia era adibita, con le seguenti dimensioni di ml. 11.09 + 0x8.10= mq. 96.39 con altezza alla gronda di ml. 3.10 e al colmo di ml. 3.38 con una volumetria di mc. 312.30.
Le opere insistono sulle particelle di terreno nn. 920, 021, 1733 del foglio n. 12
”.
Si deduce in fatto che:
   - nel 2012 alla ricorrente fu intimato sfratto per finita locazione dal proprietario dell’abitazione sita in Via ... n. ... di Nocera Inferiore, ove viveva con la madre invalida e con lo zio, fratello della madre, anch’egli invalido;
   - ella ritenne allora di sistemare un’abitazione a carattere precario su parte di un terreno di sua proprietà e provvide a porre la base di calcestruzzo;
   - a seguito di denuncia per la realizzazione abusiva della piattaforma, venne instaurato a suo carico un processo penale, attualmente pendente presso la Corte di Appello di Salerno;
   - subito dopo la realizzazione della suddetta piattaforma, dovendo rilasciare l’immobile locato, ella realizzò anche le opere di cui all’ingiunzione in questa sede gravata.
A fondamento del ricorso vengono formulati i seguenti motivi:
   - si deduce come la costruzione risalga a subito dopo l’accertamento della piattaforma (ottobre–dicembre 2012) e consista in “una struttura inteialata in acciaio scatolare e pilastri ancorati su piastre in ferro e bullonata alla piattaforma di calcestruzzo”, priva quindi delle caratteristiche necessarie per qualificarla come “costruzione” in senso urbanistico e dunque non bisognosa di alcuna autorizzazione amministrativa;
   - si invoca l’esimente dello stato di necessità, consistente nella mancanza di un idoneo alloggio;
   - si contesta la genericità del riferimento al vincolo idrogeologico contenuto nell’atto impugnato, mancante di qualsiasi indicazione della fonte legislativa.
...
Il ricorso non può trovare accoglimento.
...
Quanto all’invocata esimente dello stato di necessità, possono agevolmente richiamarsi i principi da tempo affermati in merito dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui: “in materia di abusi edilizi e ambientali la configurabilità della scriminante dello stato di necessità, nella specie consistente nella mancanza di una casa, appare in concreto esclusa dal fatto che il pericolo del danno grave alla persona è evitabile chiedendo, in caso di terreno edificabile, la relativa autorizzazione mentre, in caso di terreno non edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Sez. 3, n. 41577 del 20/09/2007, Ferraioli, Rv. 238258); in materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo (Sez. 3, n. 35919 del 26/06/2008, Savoni, Rv. 241094)” (Cass. Pen., Sez. III, Sent. 26.09.2016 n. 39790).
La domanda di annullamento è pertanto respinta (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 14.03.2022 n. 711 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e dell’area sulla quale essi insistono costituisce un effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza che ingiunge la demolizione; tale effetto non opera soltanto nei casi in cui il destinatario dell’ordine di demolizione si sia diligentemente e seriamente adoperato per la demolizione delle opere abusive e ciò non sia stato possibile per cause oggettive, non dipendenti dalla sua volontà.
D’altra parte, i procedimenti repressivi in materia edilizia, che culminano con l'atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale, devono seguire un preciso iter procedimentale, scandito dalla legge, in modo che il privato possa adempiere spontaneamente e correttamente al provvedimento demolitorio ed evitare l'estrema conseguenza della perdita della proprietà.
Tale scansione procedimentale prevede:
   - l’adozione del provvedimento di demolizione, con il quale viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente al ripristino dei luoghi ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli;
   - l'accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, tramite la redazione di apposito verbale;
   - l’adozione di un ulteriore provvedimento amministrativo che -fatto proprio l'esito del verbale di constatazione dell’inadempienza- accerti in via definitiva l’acquisizione al patrimonio comunale, venendo così a costituire titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione dell'acquisto della proprietà in capo al Comune.
Quest’ultimo atto, infine, deve individuare in modo puntuale il bene oggetto di acquisizione e la relativa area di sedime, nonché l'eventuale area ulteriore necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, purché contenuta entro i limiti del decuplo della superficie abusiva.
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E' illegittima
la determinazione dell'area acquisita al patrimonio comunale, giusta l'accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione, laddove non ha indicato in base a quali parametri urbanistici (secondo i criteri dettati dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001) sia stata calcolata l’area di 360 mq da acquisire gratuitamente al patrimonio dell’Ente, ma si è limitata a rappresentarla nella planimetria allegata all’ordinanza stessa.
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... per l'annullamento dell'ordinanza del 25.03.2021, n. 26, ricevuta il 02.04.2021, recante l'accertamento dell'inottemperanza dell'ordinanza del 12.08.2020, n. 67, l'ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria e la determinazione dell'area acquisita al patrimonio comunale, oltre che, per quanto occorrer possa, della deliberazione (ignota) G.M. n. 134/2016.
Come già accennato nel paragrafo che precede, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e dell’area sulla quale essi insistono costituisce un effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordinanza che ingiunge la demolizione; tale effetto non opera soltanto nei casi in cui il destinatario dell’ordine di demolizione si sia diligentemente e seriamente adoperato per la demolizione delle opere abusive e ciò non sia stato possibile per cause oggettive, non dipendenti dalla sua volontà (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 13.10.2021, n. 6888; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 18.01.2021, n. 381; TAR Toscana, sez. III, 29.06.2020, n. 827).
D’altra parte, i procedimenti repressivi in materia edilizia, che culminano con l'atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale, devono seguire un preciso iter procedimentale, scandito dalla legge, in modo che il privato possa adempiere spontaneamente e correttamente al provvedimento demolitorio ed evitare l'estrema conseguenza della perdita della proprietà.
Tale scansione procedimentale prevede l’adozione del provvedimento di demolizione, con il quale viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente al ripristino dei luoghi ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli; l'accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, tramite la redazione di apposito verbale; l’adozione di un ulteriore provvedimento amministrativo che -fatto proprio l'esito del verbale di constatazione dell’inadempienza- accerti in via definitiva l’acquisizione al patrimonio comunale, venendo così a costituire titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione dell'acquisto della proprietà in capo al Comune.
Quest’ultimo atto, infine, deve individuare in modo puntuale il bene oggetto di acquisizione e la relativa area di sedime, nonché l'eventuale area ulteriore necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, purché contenuta entro i limiti del decuplo della superficie abusiva (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 01.09.2021, n. 6190).
Ebbene, nel caso di specie i descritti passaggi procedurali sono stati rispettati, posto che il Comune ha adottato l’ordinanza di demolizione, ha atteso il decorso del termine ivi previsto per darvi esecuzione, ha accertato con apposito verbale l’inottemperanza all’ordine impartito e ha, infine, dato atto dell’intervenuta acquisizione dell’area al proprio patrimonio, irrogando anche la sanzione pecuniaria prevista dalla legge.
Il provvedimento impugnato, tuttavia, non ha indicato in base a quali parametri urbanistici sia stata calcolata l’area di 360 mq da acquisire gratuitamente al patrimonio dell’Ente, ma si è limitato a rappresentarla nella planimetria allegata all’ordinanza stessa, rivelandosi perciò illegittimo in parte qua.
6. In conclusione, il ricorso può dirsi fondato con esclusivo riguardo al profilo di censura da ultimo evidenziato, ed entro tali limiti lo stesso deve essere accolto; per l’effetto, il provvedimento va annullato nella sola parte in cui ha identificato l’area oggetto di acquisizione, senza indicare il modo in cui si è pervenuti al calcolo della sua estensione, secondo i criteri dettati dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 e dall’art. 196, comma 3, della L.R.T. n. 65/2014 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.03.2022 n. 304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA- secondo la consolidata giurisprudenza, a fronte di immobili sforniti di titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi;
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   - va ricordato che i procedimenti repressivi in materia edilizia, culminanti con l’atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale, devono seguire una corretta scansione procedimentale, che consenta al privato di adempiere al provvedimento demolitorio al fine di evitare l’estrema conseguenza della perdita della proprietà;
   - tale scansione procedimentale è costituita:
      i) dal provvedimento di demolizione, con cui viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente alla demolizione ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli;
      ii) dall’accertamento della inottemperanza alla demolizione tramite un verbale che accerti la mancata demolizione;
      iii) dall’atto di acquisizione al patrimonio comunale che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione dell’acquisto della proprietà in capo al Comune;
   - la mancata esatta identificazione dell’area che viene acquisita ai sensi dell’art. art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 non costituisce ragione di illegittimità dell’ingiunzione a demolire, in quanto tale individuazione ben potrà essere compiuta con atti successivi, “a valle”, aventi natura meramente dichiarativa e ricognitiva;
   - in sede di accertamento dell’inottemperanza, mentre per l’area di sedime, stante l’automatismo dell’effetto acquisitivo che si verifica ope legis per effetto della mera inottemperanza all’ordine di demolizione, è superflua ogni motivazione ulteriore rispetto alla semplice identificazione dell’abuso, per l’individuazione dell’ulteriore area «necessaria» occorre uno specifico supplemento motivazionale;

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Considerato in diritto che:
   - la richiesta di ulteriore differimento formulata dagli appellanti non può accolta, in quanto «il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza» (art. 73, comma 1-bis, del c.p.a.), ed il Collegio dopo avere sollecitato le opportune verifiche dell’Amministrazione comunale ‒cui solo spetta di definire le misure di accoglienza dei destinatari di un provvedimento demolitorio versanti in condizione di disagio sociale‒ è tenuto a definire il giudizio;
   - nel merito, la sentenza di primo grado deve essere interamente confermata;
   - non sussiste il censurato vizio di difetto di motivazione;
   - secondo la consolidata giurisprudenza, a fronte di immobili sforniti di titolo abilitativo, l’ordine di demolizione è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi;
   - nella specie, l’atto impugnato:
      i) identifica l’immobile tramite i riferimenti catastali (via ... n. 12, foglio 9, particelle 339-729);
      ii) contiene una dettagliata descrizione delle opere abusivamente realizzate, e segnatamente: un fabbricato su due livelli per una volumetria totale di mc 816,00, composta da un piano seminterrato di mq 136 pari a mc 408, e da un piano rialzato mq 136 pari a mc 408 (cui si aggiungono le ulteriori opere abusive di ampliamento, pavimentazione, sistema di raccolta delle acque e recinzione);
      iii) precisa il fondamento normativo: misura ripristinatoria prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2011 per le opere eseguite «in assenza di permesso di costruire»;
   - il difetto di motivazione non può essere invocato neppure con riferimento all’individuazione del bene e dell’area di sedime da acquisire al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, per le seguenti ulteriori ragioni;
   - va ricordato che i procedimenti repressivi in materia edilizia, culminanti con l’atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale, devono seguire una corretta scansione procedimentale, che consenta al privato di adempiere al provvedimento demolitorio al fine di evitare l’estrema conseguenza della perdita della proprietà;
   - tale scansione procedimentale è costituita:
      i) dal provvedimento di demolizione, con cui viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente alla demolizione ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli;
      ii) dall’accertamento della inottemperanza alla demolizione tramite un verbale che accerti la mancata demolizione;
      iii) dall’atto di acquisizione al patrimonio comunale che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione dell’acquisto della proprietà in capo al Comune;
   - la mancata esatta identificazione dell’area che viene acquisita ai sensi dell’art. art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 non costituisce ragione di illegittimità dell’ingiunzione a demolire, in quanto tale individuazione ben potrà essere compiuta con atti successivi, “a valle”, aventi natura meramente dichiarativa e ricognitiva;
   - in sede di accertamento dell’inottemperanza, mentre per l’area di sedime, stante l’automatismo dell’effetto acquisitivo che si verifica ope legis per effetto della mera inottemperanza all’ordine di demolizione, è superflua ogni motivazione ulteriore rispetto alla semplice identificazione dell’abuso, per l’individuazione dell’ulteriore area «necessaria» occorre uno specifico supplemento motivazionale (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 01.09.2021, n. 6190);
   - sotto altro profilo, il provvedimento impugnato indica l’Autorità (il «Tribunale Amministrativo Regionale») cui poter proporre il ricorso entro sessanta giorni della notificazione, anche se va ricordato che l’eventuale omessa indicazione non avrebbe costituito un motivo di illegittimità, bensì soltanto una irregolarità comportante un differimento del termine per impugnare (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.03.2022 n. 1512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2022

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione di un immobile abusivamente costruito – Diritto all’abitazione e rispetto della vita privata e familiare – Principio di proporzionalità – Criteri di interpretazione – Giurisprudenza costituzionale, di legittimità e CEDU – Elementi di valutazione – Fattispecie.
Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite, i principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come definiti nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, pur non traducendosi in norme direttamente applicabili nell’ordinamento nazionale, costituiscono criteri di interpretazione –convenzionalmente orientata– ai quali il giudice nazionale è tenuto a ispirarsi nell’applicazione delle norme interne.
Va poi rilevato che, in forza del convergente insegnamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, i principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte EDU debbono essere ritenuti vincolanti solo quando questa risulta consolidata, nei sensi precisati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015.
Gli elementi rilevanti ai fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità sono, principalmente: la legalità o l’illegalità dell’edificazione; la consapevolezza della illegalità da parte degli interessati al momento dell’edificazione; la natura ed il grado dell’illegalità; la specifica natura degli interessi protetti dall’ordine di demolizione; la possibilità di accettabili sistemazioni alternative per i destinatari dell’ordine di demolizione; la possibilità di soluzioni meno gravose.
Nella specie, l’esecuzione dell’ordine di demolizione dell’appartamento adibito a proprio domicilio non ha determinato la violazione del diritto di cui all’art. 8 della CEDU.
In particolare, la Corte EDU valorizza la consapevolezza dell’illegalità della edificazione al momento del compimento di tale attività, e, quindi, l’atteggiamento di cosciente sfida ai divieti normativi, nonché la concessione di adeguati periodi di tempo per consentire all’interessato di “legalizzare”, se possibile, la situazione, e di trovare una soluzione alle proprie esigenze abitative, e indica espressamente tali circostanze come prevalenti sulle condizioni di età avanzata, povertà e basso reddito del ricorrente.

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Ordine di demolizione – Applicabilità e limiti del principio di proporzionalità – Giurisprudenza della Corte EDU – Art. 8 CEDU.
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il principio di proporzionalità nell’applicazione dell’ordine di demolizione di un immobile illegalmente edificato, adottato da una pubblica autorità al fine di contrastare la realizzazione di opere senza permesso di costruire, opera esclusivamente in relazione all’immobile destinato ad abituale abitazione di una persona, ed implica, principalmente, garanzie di tipo “procedurale”.
Ai fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità, la Corte EDU ha infatti valorizzato essenzialmente: la possibilità di far valere le proprie ragioni davanti ad un tribunale indipendente; la disponibilità di un tempo sufficiente per “legalizzare” la situazione, se giuridicamente possibile, o per trovare un’altra soluzione alle proprie esigenze abitative agendo con diligenza; l’esigenza di evitare l’esecuzione in momenti in cui verrebbero compromessi altri diritti fondamentali, come quello dei minori a frequentare la scuola.
Inoltre, ai medesimi fini, un ruolo estremamente rilevante è stato attribuito alla consapevolezza della illegalità della costruzione da parte degli interessati al momento dell’edificazione ed alla natura ed al grado della illegalità realizzata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.02.2022 n. 5822 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di accertamento e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale è di carattere rigidamente vincolato, ossia è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all’accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
Essendo il provvedimento di acquisizione un provvedimento a carattere strettamente vincolato ciò neutralizza in radice il pericolo di parzialità del funzionario: ed invero, l'acquisizione al patrimonio, conseguente all'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere abusive impartito al contravventore dallo stesso ente comunale si verifica ope legis all'inutile scadenza del termine fissato per detta ottemperanza e l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
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6. Va quindi esaminato il terzo ricorso per motivi aggiunti, con il quale l’esponente ha impugnato la determinazione -OMISSIS- del responsabile dell’Ufficio Tecnico-Servizio Urbanistica del Comune resistente e la nota -OMISSIS-.
7. Con il primo motivo l’esponente ha dedotto il vizio di Illegittimità derivata, argomentando che i provvedimenti impugnati risultano inficiati dai medesimi vizi già dedotti nei confronti del provvedimento di demolizione n. -OMISSIS-
7.1. Il motivo è infondato posto che in difetto di illegittimità dell’atto presupposto non è dato dichiarare l’illegittimità (non per vizi propri, ma derivata) dell’atto conseguenziale.
8. Con il secondo motivo l’esponente ha dedotto il vizio di Violazione e falsa applicazione dell’art. 6-bis L. 07.08.1990, n. 241 e dell’art. 8 D.P.R. 16.04.2013, n. 62.
Dopo aver richiamato l’art. 6-bis L. n. 241/1990 e l’art. 8 D.P.R. n. 62/2013 l’esponente ha osservato che sia il responsabile del procedimento (-OMISSIS-) che il responsabile dell’Area tecnica che ha emesso il provvedimento di acquisizione impugnato (-OMISSIS-) si trovano in palese conflitto di interessi, posto che:
   - il primo è imputato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio nel procedimento penale n. -OMISSIS-R.G.N.R., nel quale il ricorrente è parte civile costituita, pendente innanzi al Tribunale di Patti e conosce lo stato di fatto e di diritto dei luoghi, in palese contrasto con quanto indicato nei provvedimenti impugnati (l’esponente richiama la relazione -OMISSIS-);
   - il secondo è in conflitto di interessi perché come tecnico ha curato la pratica di sanatoria edilizia n. -OMISSIS-R.G.N.R. (l’esponente richiama altresì il contenuto del verbale recante affermazioni, per il deducente, contrarie a quanto indicato nei provvedimenti impugnati).
Dette situazioni, secondo il ricorrente, sono tali da materializzare l’esistenza di indici sintomatici tipici della situazione di “conflitto d’interessi”, o almeno da alimentarne il mero sospetto, anch’esso comunque rilevante ai fini della tenuta del principio di imparzialità dell’amministrazione.
8.1. Il motivo è infondato.
Il provvedimento di accertamento e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale è di carattere rigidamente vincolato, ossia è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all’accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.06.2020, n. 643).
Essendo il provvedimento di acquisizione un provvedimento a carattere strettamente vincolato ciò neutralizza in radice il pericolo di parzialità del funzionario: ed invero, l'acquisizione al patrimonio, conseguente all'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere abusive impartito al contravventore dallo stesso ente comunale si verifica ope legis all'inutile scadenza del termine fissato per detta ottemperanza e l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. I, 09.01.2020, n. 110)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31, comma 3, del dpr 06.06.2001, n. 380, stabilisce che “Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, l’Amministrazione comunale non gode di alcuna discrezionalità nell’an del potere acquisitivo ex art. 31 del dpr 06.06.2001, n. 380, ma nemmeno per quanto concerne il quantum.
Invero, il citato art. 31 del dpr 380/2001 si limita solo a stabilire il tetto massimo dell’area acquisibile (che non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita), ma ciò non implica che l’Amministrazione goda di alcun potere discrezionale per “modulare” la sanzione ed adattarla “secondo canoni di ragionevolezza e proporzionalità” alle circostanze del caso di specie; si tratta invece di un’attività vincolata, di natura tecnica, che consiste nella mera ricognizione della disciplina urbanistica dettata per l’area in questione e di applicazione dei criteri di calcolo da questa desumibili.
In altri termini, la misura della superficie da acquisire, è già predefinita dal legislatore per relationem, mediante il riferimento alla disciplina dell’attività costruttiva dettata dalla normativa e dagli strumenti urbanistici, per cui all’autorità procedente non resta che fare applicazione di tali criteri nel caso concreto, indicando nelle “premesse motivazionali” del “provvedimento” di acquisizione gli elementi di fatto, le basi di calcolo ed i criteri di computo utilizzati.
In tale prospettiva la giurisprudenza in materia ha costantemente ribadito che l’Amministrazione procedente è tenuta ad indicare puntualmente, nell’atto di acquisizione, la classificazione urbanistica ed il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione -laddove dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del decuplo dell’area di sedime.
È stato così chiarito che la circostanza che il legislatore non abbia predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area “non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”, si giustifica per il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime: in altri termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio comunale.
Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione.
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9. Con il terzo motivo l’esponente ha dedotto i vizi di Violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 3, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e degli artt. 3 e 6 L.R. 30.04.1991, n. 10. Eccesso di potere per difetto di adeguata istruttoria e di motivazione.
L'attività istruttoria eseguita dall’Amministrazione resistente, osserva l’esponente, appare sommaria, approssimativa e comunque non idonea alla corretta individuazione dei beni, tale da inficiare l'intero procedimento repressivo.
Secondo il ricorrente, l’area interessata da un provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dev’essere esattamente individuata, specificando la precisa ubicazione e l’esatta estensione.
Nella specie, lamenta il deducente, non è stato correttamente determinato l’oggetto dell’acquisizione, essendosi il Comune limitato ad indicare esclusivamente i dati catastali delle aree individuate ed acquisite gratuitamente al patrimonio; in considerazione della natura dell’opera (quale descritta nel provvedimento con riferimento all’ordinanza di demolizione), non è sufficiente la mera indicazione dei dati catastali che si riferiscono all’intera particella, cosicché detta generale indicazione finirebbe con il comprendere nell’acquisizione l’intero cespite (in particolare, il capannone artigianale con carroponte e tettoia esterna per la lavorazione del marmo occupa solo una parte della -OMISSIS-, mentre con la determinazione impugnata si provvede ad acquisire l’intero cespite, anche la parte di capannone costruita giusta licenza edilizia -OMISSIS-).
Inoltre, la previsione normativa circa l’acquisizione dell’area “necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive” (nel limite massimo del decuplo della complessiva superficie utile abusivamente costruita) postula per l’Amministrazione comunale l’obbligo di esplicitare le modalità del calcolo (in relazione ai richiamati parametri urbanistici in astratto applicabili per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusivamente realizzate) con cui perviene alla individuazione di tale area ulteriore; in altre parole, l’amministrazione procedente deve indicare la classificazione urbanistica ed il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione –laddove dovesse risultare una superficie superiore– nel limite massimo del decuplo dell’area di sedime.
Nella specie, lamenta l’esponente, il Comune resistente ha disposto l’acquisizione di un’area ulteriore senza fornire alcuna specificazione delle modalità di calcolo in base al parametro urbanistico indicato dalla legge; l’esigenza di procedere all’esatta individuazione dell’area privata da acquisire gratuitamente al patrimonio pubblico è dettata dal fatto che, trattandosi di una misura sanzionatoria che incide sul diritto di proprietà ovvero su un diritto costituzionalmente garantito, è necessario il rispetto delle garanzie anche formali dettate da norme di relazione che regolano i rapporti tra il potere pubblico ed i diritti di cui sono titolari i soggetti privati.
La parte ricorrente ha altresì lamentato che non essendo stato svolto alcun sopralluogo, non si è potuto rilevare che anche per l’altra parte di opera insistente sulla -OMISSIS- (quella oggetto dell’istanza di condono -OMISSIS-) nulla osta alla concessione della sanatoria, atteso che essa insiste su terreno privato acquistato giusto decreto prefettizio -OMISSIS-OMISSIS-, su cui non vi è alcuna contestazione di presunta appartenenza demaniale, non trovandosi esso a distanza inferiore a 10 ml. dal torrente; l’opera, inoltre, non è in contrasto con alcun rilevante interesse ambientale e, essendo stata costruita nel -OMISSIS-, non necessitava del parere della soprintendenza (v. nota -OMISSIS-).
La determinazione impugnata è illegittima, argomenta l’esponente, poiché è stata disposta l’acquisizione, oltre che dell'opera abusiva e della relativa area di sedime, anche della restante parte della -OMISSIS-, senza alcuna indicazione della sua necessità, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, al fine della realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
Lamenta inoltre il deducente che non potrebbe operarsi la trascrizione nei registri immobiliari del trasferimento di proprietà di un bene in virtù di un titolo privo dell’esatta individuazione del bene stesso.
Per il ricorrente non sussistono ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza di condono relativamente alle opere presenti sulle parti -OMISSIS-, di proprietà incontestata del ricorrente, le quali si trovano oltre il limite dei 10 ml. dal torrente; inoltre, la determinazione impugnata muove dall’erroneo presupposto che le -OMISSIS- siano di proprietà demaniale, mentre agli atti sono presenti i titoli di acquisto con i quali l’esponente ha provato di essere proprietario di tutta l’area (l’esponente richiama anche la deposizione del responsabile della ditta incaricata dal Genio civile all’udienza del -OMISSIS-9 R.G.N.R.); inoltre l’U.T.C. non ha mai fatto alcun accertamento sull’area di che trattasi (lo stesso Ing. -OMISSIS- ha dichiarato che, per verificare l’appartenenza demaniale delle -OMISSIS-, si è limitato a visionare le sole risultanze catastali: cfr. verbale udienza -OMISSIS- R.G.N.R.).
Per quanto concerne le opere che materialmente insistono nei 10 ml. dal torrente, il ricorrente rileva che neppure questo dato avrebbe potuto ostare all’accoglimento del condono; lo stesso U.T.C. (che ha poi adottato l’ordinanza di diniego del condono e di demolizione) aveva rilasciato specifico certificato di nulla osta ai vincoli dell’art. 23 L.R. n. 37/1985, mai contestato né revocato.
Aggiunge il ricorrente che quello che nelle ordinanze viene definito “capannone” e che insiste sulla -OMISSIS- è, in realtà, solo una tettoia, per cui non rientra nelle opere di cui al citato vincolo (trattandosi di opera aperta, la demolizione dovrebbe, pertanto, ridursi alla mera eliminazione della tettoia).
Inoltre, i termini del procedimento repressivo erano stati espressamente sospesi dal Comune resistente (nota -OMISSIS-) in attesa della consegna al ricorrente dei documenti necessari allo svolgimento di adeguate difese; con il provvedimento impugnato, invece, l’acquisizione è stata poi disposta “a sorpresa”, ossia a termini sospesi, quindi in pendenza dell’assegnato termine di venti giorni per il deposito di memorie scritte e documenti.
Infine, lamenta il ricorrente, il provvedimento di acquisizione non è mai stato preceduto dal necessario sopralluogo; stante la particolare situazione, un sopralluogo finalizzato all’accertamento delle opere effettivamente abusive, in contraddittorio, era, invece, indispensabile e sarebbe servito anche (e soprattutto) ad appurare l’avvio delle attività di demolizione.
9.1. Il motivo è parzialmente fondato nei termini in appresso specificati.
9.1.1. Sono inammissibili tutte le censure articolate dalla parte ricorrente rivolte nei confronti del provvedimento avversato con il terzo ricorso per motivi aggiunti ma tendenti ad infirmare, nella sostanza, i provvedimenti di diniego di sanatoria e di demolizione (ed in particolare le doglianze che riguardano la proprietà dell’area, il rispetto del vincolo fluviale, la natura degli abusi).
9.1.2. La questione della sospensione dei termini del procedimento (nota -OMISSIS-) è infondatamente richiamata dalla parte ricorrente, in quanto concernente un diverso procedimento (cfr. nota prot. n. -OMISSIS-).
9.1.3. L’art. 31, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, oggetto di recepimento dinamico ex art. 1 della legge reg. Sic. 10.08.2016, n. 16, stabilisce che “Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 02.03.2020, n. 2666 ed ivi precedenti giurisprudenziali), l’Amministrazione comunale non gode di alcuna discrezionalità nell’an del potere acquisitivo ex art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, ma nemmeno per quanto concerne il quantum.
Invero, il citato art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 si limita solo a stabilire il tetto massimo dell’area acquisibile (che non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita), ma ciò non implica che l’Amministrazione goda di alcun potere discrezionale per “modulare” la sanzione ed adattarla “secondo canoni di ragionevolezza e proporzionalità” alle circostanze del caso di specie; si tratta invece di un’attività vincolata, di natura tecnica, che consiste nella mera ricognizione della disciplina urbanistica dettata per l’area in questione e di applicazione dei criteri di calcolo da questa desumibili.
In altri termini, la misura della superficie da acquisire, è già predefinita dal legislatore per relationem, mediante il riferimento alla disciplina dell’attività costruttiva dettata dalla normativa e dagli strumenti urbanistici, per cui all’autorità procedente non resta che fare applicazione di tali criteri nel caso concreto, indicando nelle “premesse motivazionali” del “provvedimento” di acquisizione gli elementi di fatto, le basi di calcolo ed i criteri di computo utilizzati.
In tale prospettiva la giurisprudenza in materia ha costantemente ribadito che l’Amministrazione procedente è tenuta ad indicare puntualmente, nell’atto di acquisizione, la classificazione urbanistica ed il relativo regime per l’area oggetto dell’abuso edilizio e quindi sviluppare (in base agli indici di fabbricabilità, territoriale o fondiaria, conseguentemente applicabili) il calcolo della superficie occorrente per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, disponendone comunque l’acquisizione -laddove dovesse risultare una superficie superiore- nel limite massimo del decuplo dell’area di sedime.
È stato così chiarito che la circostanza che il legislatore non abbia predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area “non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”, si giustifica per il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime: in altri termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio comunale.
Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione (cfr. anche TAR Calabria, Reggio Calabria, 24.03.2020, n. 265; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 23.12.2019, n. 2735; TAR Campania, Napoli, sez. II, 05.07.2019, n. 3760).
Orbene, nel caso in esame era necessario specificare in modo dettagliato e con maggior precisione la misura dell’acquisizione, anche in considerazione della natura delle opere in questione e della complessiva situazione edilizia.
Inoltre, non risultano dal corredo motivazionale dell’avversata determinazione le ragioni -alla luce di quanto sopra precisato- che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto.
Sono fatti salvi, ovviamente, gli ulteriori atti di competenza dell’Amministrazione, da porre in essere nel riesercizio del potere de quo
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 31, comma 4, del dpr 380/2001, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è sì costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo, ma come tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà provvedimentale.
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10. Con l’ultimo motivo di ricorso l’esponente ha dedotto il vizio di Violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 4, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Dopo aver richiamato l’art. 31, comma 4, D.P.R. n. 380/2001 l’esponente ha evidenziato che la notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza si configura come adempimento successivo, necessario ai diversi fini dell'immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari.
Evidenzia l’esponente che se è vero che il passaggio della proprietà in favore dell'amministrazione opera di diritto, la notifica dell'atto di accertamento dell'inottemperanza alla demolizione costituisce comunque titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, integrando così un passaggio indefettibile ai fini del perfezionamento dell'acquisto in favore dell'Amministrazione: nella specie, la nota -OMISSIS- (con cui “si è accertata nuovamente l’inottemperanza all’ordinanza n. -OMISSIS-”) non è stata mai notificata al ricorrente, con conseguente illegittimità dell’acquisizione.
10.1. Il motivo è infondato.
Ai sensi dell'art. 31, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è sì costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo, ma come tale deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà provvedimentale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 02.01.2018, n. 1).
Nel caso in esame, si tratta proprio dell’impugnata determinazione -OMISSIS- del responsabile dell’Ufficio Tecnico-Servizio Urbanistica del Comune resistente
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 16.02.2021 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poteri di vigilanza urbanistico-edilizia – Facoltà di accedere coattivamente nel domicilio al fine di accertare illeciti amministrativi – Insussistenza – Art. 14 Cost. – Art. 27 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 13, c. 4, L. n. 689/1981.
Il comune, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del controinteressato, in quanto luogo di privata dimora, per potervi svolgere i necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia.
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4, esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto”.
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1. Il sig. Ve.Ra. è proprietario di terreni e fabbricati posti in Poggibonsi, località ..., censiti al foglio di mappa n. 66, particelle nn. 93, 116, 135, 256, 257, 258, 259, 260, 261.
A confine con detti beni si trova l’immobile di proprietà del fratello, sig. Ve.Ni., censito con la particella n. 119, del medesimo foglio di mappa n. 66.
Con note del 09.04.2021 e del 16.08.2021, il sig. Ve.Ra., per il tramite del tecnico incaricato, ha denunciato ex art. 27 d.P.R. 380/2001 l’abusiva trasformazione di locali di sgombero, termo e lavanderia posti al piano terreno del confinante edificio di proprietà del controinteressato in locali di abitazione principale (cucina, camera e bagno), lamentando che la stessa provocherebbe un incremento del carico urbanistico sull’area e, in particolare, un maggior transito sulla strada che consente l’accesso ai due edifici, in comproprietà con il fratello.
2. Con l’odierno gravame i ricorrenti lamentano che il Comune sarebbe rimasto inerte a fronte di tali denunce, nonostante lo stesso possieda già una serie di elementi dai quali poter desumere la fondatezza delle segnalazioni formulate, violando così l’obbligo di attivare i poteri di vigilanza attribuiti dall’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 e di concludere il relativo procedimento con un provvedimento espresso entro il termine generale di 30 giorni.
Essi chiedono che, accertata l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione, la stessa sia condannata ad attivare il procedimento di vigilanza e a concluderlo entro un termine stabilito dal giudice, con condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento e nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inerzia.
3. Il Comune di Poggibonsi si è costituito, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per mancanza di un concreto pregiudizio a danno dei ricorrenti, riconducibile ai presunti abusi realizzati sul fondo del sig. Ve.Ni. e chiedendo la reiezione del gravame nel merito, posto che a carico del Comune non sarebbe comunque configurabile un’inerzia colpevole.
L’amministrazione, invero, si sarebbe diligentemente attivata per ottenere dalla Procura della Repubblica l’autorizzazione ad accedere presso la dimora del controinteressato per ispezionare i locali oggetto delle suddette segnalazioni, senza tuttavia ricevere alcun riscontro; né, d’altra parte, sarebbe in condizione di adottare un provvedimento senza il preventivo sopralluogo e l’accertamento in ordine al reale stato dei beni.
4. Il ricorrente ha altresì formulato istanza istruttoria chiedendo al Tribunale di ordinare all’Agenzia delle Entrate di Siena di trasmettere la planimetria dell’abitazione del controinteressato censita al Catasto Fabbricati del Comune di Poggibonsi al foglio di mappa n. 66 con la particella n. 119 e subalterno n. 3, quale prova della perdurante esistenza dell’abusiva trasformazione di locali deposito in abitazione; nella pendenza del giudizio tale documento è stato fornito spontaneamente ai ricorrenti dalla stessa Agenzia delle Entrate.
...
7. Fermo quanto appena rilevato in ordine all’inammissibilità del gravame, lo stesso si rivela comunque palesemente infondato, posto che nella fattispecie non è configurabile l’inerzia colpevole del Comune.
Quest’ultimo, infatti, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del controinteressato, in quanto luogo di privata dimora, per potervi svolgere i necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia (cfr. docc. 6 e 7 del Comune).
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4, esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 24.03.2005, n. 6361)
” (cfr. TAR Toscana, sez. III, 14.05.2021, n. 717).
Né, d’altra parte, il Comune avrebbe potuto provvedere sulla base della documentazione in suo possesso, che non fornisce la prova dell’esistenza, della natura e della effettiva consistenza delle eventuali violazioni urbanistiche e edilizie presenti nell’immobile.
8. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2022 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2022

EDILIZIA PRIVATAOpere realizzate senza il necessario titolo edilizio.
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Edilizia – Abusi – Opere realizzate senza titolo – Conseguenza.
Solo gli interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi – individuati dall’art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5)- non sono riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in porte-finestre.
Simile intervento, invece, comportando una modifica dei prospetti, é sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, e deve essere segnalato con Scia (art. 22, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001) (1).

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Ha affermato la Sezione che "la nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, sez. II, sent. n. 8835 del 27.12.2019)
Ha aggiunto che le opere abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, anche se astrattamente assentibili fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria, devono essere considerate, appunto, abusive.
Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera –come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui DM 02.03.2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a. recata dal d.lgs. n. 222 del 2016- è peraltro evidente che tale normativa va raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica: ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg., d.P.R. n. 380 del 2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.01.2022, n. 467 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
13. Venendo, dunque, alla disamina dei motivi d’appello, il Collegio rileva che il TAR, evidentemente ritenendo di poter prescindere dall’eccezione sollevata dal Comune, di per sé assorbente, secondo cui il fabbricato di proprietà della ricorrente è situato in zona soggetta a vincolo paesaggistico e a vincolo di natura idrogeologica, ragione per cui le opere non avrebbero potuto in ogni caso essere assentite con SCIA, ha respinto il ricorso sul duplice rilievo che le opere realizzate dalla ricorrente erano in parte non comprese nella SCIA, in parte non erano assentibili con SCIA.
13.1. In particolare, il TAR ha ritenuto essere state realizzate fuori dalla SCIA l’apertura di porte finestre: la signora Co., anche nell’atto d’appello, non nega di aver modificato le finestre preesistenti, mediante rimozione della “veletta” posta sotto il parapetto, né contesta di non averne dato evidenza nella SCIA, ma giustifica il silenzio sull’intervento deducendo che si tratta di opere sostanzialmente invisibili, che non hanno determinato alcuna alterazione della sagoma o nel prospetto del fabbricato, né alcuna delle strutture portanti, concludendo che, in definitiva, non ci si trova di fronte ad una ristrutturazione edilizia “pesante”.
13.1.1. Tale argomento è assolutamente irrilevante, posto che solo gli interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi –individuati dall’art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5)- non sono riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in porte-finestre. Simile intervento, invece, comportando una modifica dei prospetti, é sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cu all’art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001, e deve essere segnalato con SCIA (art. 22, lett. b), del D.P.R. 380/2001).
13.1.2. Risulta dunque condivisibile l’affermazione del TAR che ha implicitamente ritenuto la necessità che le opere in questione fossero denunciate nella SCIA.
13.2. Allo stesso modo il TAR ha ritenuto non comprese nella SCIA del 13.03.2018 la realizzazione, al primo piano, di una struttura sorretta da pilastrini in ferro e rivestita con cartongesso per esterno (che determina la creazione di un nuovo vano) e la predisposizione del bagno, stante che la predetta SCIA indica come interventi da eseguire una struttura in legno per tenda parasole ed un locale tecnico.
13.2.1. Anche in questo caso la ricorrente non nega la difformità dell’opera realizzata rispetto a quella indicata nella SCIA, ma oppone che si tratterebbe di una variante non essenziale, che avrebbe potuto essere legittimata anche presentando una variante in corso d’opera, anche perché non sarebbe stata impressa una modificazione alla destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.
13.2.2.Il Collegio osserva che dagli atti allegati alla SCIA si evidenzia che al piano superiore, ove in precedenza esisteva un locale tecnico, la SCIA ha previsto la demolizione di quest’ultimo e la contestuale realizzazione, dal lato opposto dell’edificio, del vano ascensore, di un vano tecnico non meglio definito –ma comunque non indicato come bagno– nonché una struttura in legno di sostegno di una tenda parasole. Nei fatti è stato accertato che il vano ascensore risulta spostato rispetto alla posizione indicata negli allegati alla SCIA, che il vano tecnico è stato equipaggiato di tutti gli attacchi necessari ad equipaggiarlo come sala da bagno, essendo già stata allocata la cassetta di scarico del WC, e, infine, che, al posto di quella che avrebbe dovuto essere una struttura lignea di sostegno ad una tenda, è stata realizzata una parete in pilastrini di ferro ricoperti di cartongesso, intonacata, a chiusura del vano scala, a distanza di meno di 10 metri da un fabbricato confinante.
13.2.3. Ciò premesso il Collegio condivide l’assunto del primo giudice, secondo cui le opere in concreto realizzate al primo piano non possono ricondursi a quelle indicate nella SCIA del marzo 2018, determinando uno stato dei luoghi comunque diverso da quello prospettato nello stato di progetto della SCIA.
Va al proposito rammentato che “La nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, Sez. II, sent. n. 8835 del 27.12.2019), per cui risulta assolutamente rilevante il fatto che quello che era stato indicato come “locale tecnico” nella SCIA risulti, invece, essere un locale agibile anche come sala da bagno/servizi.
Allo stesso modo la realizzazione di una parete a chiusura del vano scala realizza una volumetria rilevante per il rispetto di alcuni parametri urbanistici, e comunque non può in nessun caso essere equiparata ad una struttura lignea di sostegno di una tenda.
13.2.4. Le opere realizzate al primo piano, in definitiva, risultano abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, ed il fatto che siano –secondo la tesi dell’appellante– astrattamente assentibili non cambia al fatto che fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria, esse debbono considerarsi, appunto, abusive.
13.3. Sotto altro profilo il TAR ha ritenuto che la bucatura del solaio di divisione tra il primo e secondo piano, realizzata per consentire l’allocazione del vano ascensore, non poteva essere assentita con SCIA, in difetto di autorizzazione del genio civile, trattandosi di opere in grado di compromettere la staticità del fabbricato: secondo il primo giudice, proprio la mancanza della preventiva autorizzazione del genio civile ha, in concreto, determinato l’improcedibilità della SCIA, ragione per cui tutte le opere ivi contemplate sono, in definitiva, abusive.
13.3.1. L’appellante oppone che la realizzazione di un ascensore interno, finalizzato ad abbattere barriere architettoniche, rientrerebbe tra gli interventi di edilizia libera -come anche specificato nel D.M. 02.03.2018, emanato in attuazione del D.L.vo n. 222/2016– quando non incidano sulla struttura portante: l’appellante ne deduce che solo se incida sulla struttura portante la realizzazione di un vano ascensore richiede la preveniva autorizzazione del genio civile e, quindi il preventivo titolo edilizio. L’appellante richiama, poi, la delibera di Giunta Regionale n. 12 del 2013, secondo cui le aperture nelle solette necessarie a realizzare un vano-ascensore, si presumono non incidere sulla struttura portante se non vengano intaccate le nervature del solaio, e dunque le travi portanti la soletta, ciò che nella specie sarebbe stato attestato dal tecnico che ha presentato la SCIA.
13.3.2. Il Collegio rileva che la D.G.R. n. 12/2013 include tra gli interventi che, in zona sismica, si considerano “opere minori non soggette al deposito/autorizzazione da parte del Servizio Tecnico Regionale”: al punto 7 della lista degli interventi su opere esistenti, la “realizzazione di apertura nei solai e nella copertura, senza modifica della falda o alterazione del comportamento strutturale, di superficie inferiore o uguale a 1.00 mq e senza intaccare le nervature”; al punto 10 della medesima lista, la “installazione di montacarichi e piattaforme elevatrici aventi una portata inferiore o uguale a 1.00 Khi dotati di certificato e/o brevetto ministeriale, interni o esterni all’edificio, che non necessitano di aperture nei solai, le cui strutture non modificano significativamente la distribuzione delle azioni orizzontali; sono esclusi gli impianti da cantiere.”
13.3.3. Il Collegio ritiene che la normativa citata non consente affatto, in zona sismica, di installare ascensori interni, in edifici già esistenti, senza il preventivo parere del Servizio Tecnico Regionale in materia antisismica, quando tale intervento richieda di aprire aperture nei solai: è vero che è possibile realizzare aperture nei solai se di superficie non superiore a 1 mq e se non sono intaccate le nervature, tuttavia non se si tratti di installare, nella apertura del solaio, un vano ascensore. Gli impianti assimilabili a montacarichi o piattaforme elevatrici sono invece esonerati, in zona sismica, dal parere del Servizio Tecnico Regionale solo se non superino una certa portata, non richiedano di “bucare” dei solai e non comportino una modifica nella distribuzione delle azioni orizzontali.
13.3.4. Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera –come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui DM 02.03.2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a. recata dal D.lgs. 222/2016- è peraltro evidente che tale normativa va raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica: ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg. del D.P.R. n. 380/2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione.
13.3.5. Dal che consegue che è destituito di fondamento anche il motivo d’appello che contesta il capo della sentenza in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.01.2022 n. 467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanatoria di un capannone industriale realizzato in un parco.
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Edilizia – Sanatoria – Capannone industriale realizzato in un parco – Non è sanabile.
Non è sanabile il capannone industriale realizzato in un parco (1).
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   (1) La Sezione ha ricordato come l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 del 2016, ha evidenziato che il nulla osta dell'art. 13, l. n. 394 del 1991 ha a oggetto la previa verifica di conformità dell'intervento con le disposizioni del piano per il parco (che -a norma dell'art. 12- persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all'Ente parco) e del regolamento del parco (che -a norma dell'art. 11- disciplina l'esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco).
Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili della cura dell'interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco con il suo "speciale regime di tutela e di gestione".
Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a "la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale".
A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità -che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite- non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
L'interpretazione dell'Adunanza Plenaria è puntuale: "Questi strumenti, dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi, inverano l'indispensabile e doverosa cura degli interessi naturalistico-ambientali. I limiti di cui si tratta sono del resto intesi essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l'indicazione di opere reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile dall'assenza, rispetto all'interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l'intervento immaginato: si tratta qui infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l'"ambiente-quantità", il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell'interesse generale. Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia."
Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta dell'Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell'area naturale protetta (art. 13, comma 1).
Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.
Si tratta infatti di evitare che l'antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia).
Con specifico riguardo alla natura del nulla-osta in argomento si evidenzia come esso sia, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, "atto diverso dall'autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico rispetto al rilascio dell'autorizzazione stessa" (Corte cost., sentenza 29.12.2004, n. 429) dotato di una sua autonomia essendo l'interesse naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.
Infatti la valutazione paesaggistica postuma, entro certi limiti, dall'art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio che recita: "L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
."
Nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell'ambito dei parchi.
Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell'Ente Parco e la natura preventiva dell'autorizzazione di cui all'art. 13 della legge quadro sulle aree protette.
Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un'area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.
Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l'ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell'ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente… La differenza tra immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e le finalità di tutela, in funzione all'antropizzazione del territorio, non consentono quindi un'applicazione della sanatoria prevista nell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. Stato Sez. VI, 06.07.2021, n. 5152).
In sostanza, pertanto, in base all'art. 13 della legge sulle aree protette, possono essere ammessi solo nulla osta preventivi.
Ne deriva che, in ogni caso, il permesso di costruire in sanatoria non avrebbe potuto essere rilasciato e il provvedimento di diniego si presentava con un atto vincolato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.01.2022 n. 359 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA  
6) L’appello si palesa infondato.
Le motivazioni della sentenza che ha considerato legittimo il rigetto dell’istanza di sanatoria sono incentrate sul regime urbanistico e paesaggistico-ambientale della zona in questione, tenendo conto del fatto che la stessa rientra territorio del parco naturale di Migliarino, il cui regolamento d’uso prevede, all’art. 5, il divieto di ogni trasformazione urbanistico-edilizia al di fuori dei piani di gestione e recupero e nella rientrare la medesima area in zona agricola di sviluppo e, in particolare, nelle tenute di To. e Co., il cui piano di gestione, prevede all’art. 8.2.2 la sola realizzazione di “annessi agricoli” se indispensabili per le colture agricole in atto di una certa rilevanza economica mentre nella specie si tratterebbe di annesso pertinenziale a un capannone adibito a cantieristica navale.
Il Collegio evidenza, tuttavia, un altro dato rilevante, costituito dalla natura del titolo abilitativo richiesto costituito da un permesso di costruire in sanatoria, ex art. 13 della legge n. 47/1985, ovverosia un titolo che è volto a sanare un abuso già realizzato che per le aree sotto poste a vincolo in quanto destinate a parco (e più in generale sulle aree soggette a vicolo paesaggistico) ha una disciplina peculiare, volta a limitare drasticamente le ipotesi di sanabilità, rispetto al normale regime delle aree non soggette a vincolo.
Le opere eseguite ineriscono, infatti, a terreni che rientrano in area soggetta al Piano Territoriale del Parco istituito con la LRT n. 24 del 16.03.1994. L’intervento edilizio è stato eseguito in assenza del prescritto nulla-osta del Parco, in virtù dell’art. 13 della legge n. 394/1991 e della legge n. 431/1985 e art. 20 della LRT n. 24/1994 (circostanza non contestata).
7) Con riguardo ai motivi di appello, il Collegio rileva come la motivazione della sentenza di primo grado non possa considerarsi come un integrazione della motivazione del provvedimento gravato, avendo il Collegio fatta applicazione della normativa inerente alle aree in questione, sulla base degli elementi emersi nel provvedimento e negli atti del procedimento.
D’altra parte in un’ottica del processo amministrativo sempre più incentrato in un giudizio sul rapporto, piuttosto che un giudizio sull’atto, anche la decisione deve ritenersi scevra da un’ottica formale, che non consentirebbe al giudice di fare applicazione del quadro normativo vigente, scrutinando le ragioni di legittimità o illegittimità dell’atto impugnato anche oltre lo schermo formale della motivazione.
In tal senso la motivazione della sentenza si palesa priva di mende in quanto si è limitata a fare applicazione dell’art. 8.2.2 del piano di gestione tenute di To. e Co. -al di fuori del quale ogni intervento è inibito dall’art. 5 del Regolamento generale dell’uso del territorio del parco naturale di Migliarino- rilevando la natura non agricola del manufatto realizzato.
Quest’ultimo, infatti, è incontestabilmente destinazione artigianale, se non industriale, tanto che la parte appellante afferma essere una pertinenza del capannone industriale esistente.
La parte appellante si è limitata ad affermare che l’art. 8.2.2 in questione non vieterebbe la realizzazione di manufatti con destinazione diversa da quella agricola, senza tuttavia scrutinare l’elemento testuale del suddetto articolo, ma invocando un’asserita esistente giurisprudenza in materia che consentirebbe la realizzazione in zona agricola anche manufatti ed annessi aventi destinazione d'uso anche diversa da quella agricola, non avendo peraltro il Comune valutato in concreto la compatibilità dell'annesso con la destinazione di zona e soprattutto con le altre opere presenti in loco.
La censura non coglie nel segno in quanto la costruzione deve essere conforme con la destinazione impressa alla zona dagli strumenti urbanistici e, nello specifico, con il piano di gestione tenute di To. e Co., né la circostanza che sull’area sia stato realizzato un capannone industriale modifica la disciplina di zona, consentendo la realizzazione di annessi con destinazione diversa da quella agricola e, nello specifico, con una destinazione asseritamente artigianale.
D’altra parte la rilevanza della natura agricola dei manufatti, al fine di conseguire il titolo abilitativo edilizio, era ben presente anche al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria, tanto è vero che la stessa è stata presentata formalmente per la realizzazione di un annesso agricolo, come peraltro indicato nel gravato provvedimento di rigetto (in tal senso dando consistenza al rilievo che non l’istante non è imprenditore agricolo) e solo in sede di giudizio l’odierno appellante ha dedotto la destinazione artigianale dell’annesso pertinenziale al capannone industriale.
8) Il Collegio, inoltre, osserva la rilevanza dell’altra circostanza emersa, ovverosia che il manufatto in questione è stato realizzato in un’area destinata a Parco (soggetta al Piano Territoriale del Parco istituito con la LRT n. 24 del 16.03.1994) in assenza del prescritto nulla-osta del Parco, in virtù dell’art. 13 della legge n. 394/1991 e della legge n. 431/1985 e art. 20 della LRT n. 24/1994.
L’intervento non è, pertanto, comunque suscettibile di essere sanato, ai sensi dell’art. 13 della legge 47/1985.
Come da giurisprudenza di questa Sezione, infatti, l'interpretazione dell'art. 13 della legge quadro sulle aree protette sull'ammissibilità di sanatorie urbanistico edilizie in aree perimetrate a parco è nel senso di non ammettere sanatoria di opere abusive, come quella in esame, realizzate in assenza del nulla osta dell’Ente di tutela del relativo parco (Cons. Stato Sez. VI, 06.07.2021, n. 5152).
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 17 del 2016, ha evidenziato che il nulla osta dell'art. 13 della L. n. 394 del 1991 ha a oggetto la previa verifica di conformità dell'intervento con le disposizioni del piano per il parco (che -a norma dell'art. 12- persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all'Ente parco) e del regolamento del parco (che -a norma dell'art. 11- disciplina l'esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco).
Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili della cura dell'interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco con il suo "speciale regime di tutela e di gestione".
Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a "la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale".
A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità -che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite- non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante i rammentati strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
L'interpretazione dell'Adunanza Plenaria è puntuale: "Questi strumenti, dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi, inverano l'indispensabile e doverosa cura degli interessi naturalistico-ambientali. I limiti di cui si tratta sono del resto intesi essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l'indicazione di opere reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile dall'assenza, rispetto all'interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l'intervento immaginato: si tratta qui infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l'"ambiente-quantità", il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell'interesse generale. Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia."
Il citato art. 13 della legge quadro subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta dell'Ente parco che ne verifica la compatibilità con la tutela dell'area naturale protetta (art. 13, comma 1).
Ma non riguarda opere in sanatoria. E ciò si spiega.
Si tratta infatti di evitare che l'antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia).
Con specifico riguardo alla natura del nulla-osta in argomento si evidenzia come esso sia, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, "atto diverso dall'autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico rispetto al rilascio dell'autorizzazione stessa" (Corte cost., sentenza 29.12.2004, n. 429) dotato di una sua autonomia essendo l'interesse naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.
Infatti la valutazione paesaggistica postuma, entro certi limiti, dall'art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio che recita: "L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
   a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
   b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
   c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
."
Nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell'ambito dei parchi.
Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell'Ente Parco e la natura preventiva dell'autorizzazione di cui all'art. 13 della legge quadro sulle aree protette.
Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un'area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.
Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l'ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell'ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente… La differenza tra immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e le finalità di tutela, in funzione all'antropizzazione del territorio, non consentono quindi un'applicazione della sanatoria prevista nell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. Stato Sez. VI, 06.07.2021, n. 5152).
In sostanza, pertanto, in base all'art. 13 della legge sulle aree protette, possono essere ammessi solo nulla osta preventivi.
Ne deriva che, in ogni caso, il permesso di costruire in sanatoria non avrebbe potuto essere rilasciato e il provvedimento di diniego si presentava con un atto vincolato.
8) Per quanto su indicato perdono, quindi, di rilevanza le censure inerenti alla carenza di motivazione e di idonea istruttoria, volta a verificare attentamente e in concreto le caratteristiche del manufatto per il quale era stata chiesta la sanatoria e la sua compatibilità con l'area in questione.
Il diniego, difatti, risulta fondato nella sostanza ed è stato adottato sulla scorta di atti ed elementi acquisiti nel procedimento.
9) Quanto all’ultimo motivo di appello incentrato sull’incompetenza dell’organo che ha adottato il diniego adottante (l'Assessore all'Edilizia Privata, su delega del Sindaco, anziché dal competente Dirigente responsabile), il Collegio, in base a quanto anzidetto, rileva la correttezza della motivazione della sentenza gravata che ha osservato come in ogni caso l’incompetenza non avrebbe avuto effetto invalidante sul provvedimento stante la natura vincolata dell’atto gravato.
Al riguardo, il Collegio precisa come in ogni caso la segnalata natura vincolata dell’atto comporta l’applicazione dell'art. 21-octies della L. n. 241 del 1990, che è norma di natura processuale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti e trova applicazione anche al vizio d'incompetenza relativa, il quale va qualificato come vizio dell'organizzazione e, quindi, ridonda come vizio delle norme che regolano il procedimento (Cons. Stato Sez. II, 09.01.2020, n. 165).
In particolare, sull’applicabilità dell'art. 21-octies della L. n. 241 del 1990 alla fattispecie in esame, il Collegio precisa come, secondo giurisprudenza, a tale norma deve essere data dignità giuridica di norma processuale ritenendola, dunque, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (Cons. Stato, Sez. III, 22.10.2020, n. 6378; Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2019, n. 4964; Cons. Stato, Sez. IV, 13/08/2018, n. 4918; Sez. VI, 08/08/2014, n. 4218; Sez. II, 12.03.2020, n. 1800; sez. II, 09.01.2020, n. 165; sez. V, 15.07.2019, n. 4964).
Quanto all’applicabilità del medesimo art. 21-octies della L. n. 241 del 1990 al vizio di incompetenza, la giurisprudenza ha indicato che il vizio d'incompetenza relativa, che colpisca un provvedimento amministrativo perché sarebbe dovuto esser emanato da organo diverso dello stesso ente, è un mero vizio procedimentale, come tale sanabile ove l'atto stesso abbia natura vincolata e l'irrilevanza del vizio sul suo contenuto dispositivo sia palese (Cons. Stato Sez. IV, 06/08/2019, n. 5588; Cons. Stato, III, 03.08.2015, n. 3791).
Ai fini d'una corretta esegesi della norma, appare se non irrilevante, poco appagante la circostanza che la formula usata da quest'ultima (al comma 1) indichi l'incompetenza all'ultimo posto nella tripartizione dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo, quasi a rimarcarne la residualità o la non autonomia rispetto alla violazione di legge, a differenza di ciò che si potrebbe evincere dall'art. 29 c.p.a., ove tale vizio è richiamato per secondo. L'accertamento positivo del vizio d'incompetenza implica tuttora la rimessione della questione all'ufficio competente, ma sempre nei limiti dell'art. 21-octies, comma 2.
La ragione è evidente: laddove alla P.A. non residui comunque la possibilità d'emanare un diverso provvedimento, scatta sempre il meccanismo di salvaguardia colà contemplato, in base ai generali principi di conservazione dell'atto e di strumentalità delle forme che inducono a generalizzare la portata dell'istituto dell'illegittimità 'non invalidante', per evitare che la prevalenza di considerazioni procedimentali porti la P.A. stessa alla scelta, antieconomica ed in contrasto con il principio di efficienza, di dover riavviare un procedimento i cui esiti siano ab initio scontati.
Quel che prevale, dunque e pure a fronte del vizio d'incompetenza, è l'assenza del potere di scelta in capo alla P.A., in una con l'evidenza dell'inevitabilità del contenuto dispositivo dell'atto emanato. Donde l'inutilità ex lege di far constare il vizio dell'incompetenza, che va qualificato come vizio dell'organizzazione e, quindi, ridonda come vizio delle norme che regolano il procedimento (Cons. Stato, Sez. VI, 24.10.2018 n. 6048; Cons. Stato, II, parere n. 253/2019).
Questo orientamento ha trovato concorde anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, pronunciandosi recentemente in tema di sanzioni tributarie, ha rilevato che l'emissione di un atto di contestazione delle sanzioni, da parte di un Ufficio dell'Agenzia delle entrate cui è attribuita una diversa competenza territoriale, si traduce in un vizio solo formale quando, a mente dell'art. 21-octies, comma 2, Legge n. 241/1990, il contenuto dispositivo dell'atto stesso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Cass. civ. Sez. V, Ord., 11.11.2021, n. 33287).
10) Per le suesposte ragioni l’appello va rigettato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.01.2022 n. 359 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA Ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso.
...
In specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di un soggetto (i.e. il condominio):
      i) che non rientra in nessuna delle due esposte categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la proprietà dei beni comuni ai singoli condomini;
      ii) che, dunque, non può dirsi passivamente legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già statuito da condivisibile giurisprudenza, la sua illegittimità per violazione dell’invocato paradigma normativo.
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1. Con il ricorso in esame, depositato in data 07/12/2021, il Condominio deducente (in persona del legale rappresentante pro tempore) ha impugnato il provvedimento del Comune di Potenza, in epigrafe specificato, recante l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo ad esso afferente.
1.1. L’impugnazione è affidata a plurimi motivi, tra cui in particolare la deduzione del difetto di legittimazione passiva della parte ricorrente.
...
4. Il ricorso è fondato nei sensi appresso specificati.
Coglie nel segno il primo motivo di impugnazione –con assorbimento di ogni altra censura– atteso che:
   - ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso". Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso;
   - in specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di un soggetto:
      i) che non rientra in nessuna delle due esposte categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la proprietà dei beni comuni ai singoli condomini (cfr. Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014, n. 19663);
      ii) che, dunque, non può dirsi passivamente legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già statuito da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10/07/2020, n. 3005; TAR Lombardia, sez. II, 29/07/2019 n. 1764; TAR Campania, Salerno, sez. II, 29/11/2019, n. 2126), la sua illegittimità per violazione dell’invocato paradigma normativo.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento per le ragioni esposte e, per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Basilicata, sentenza 14.01.2022 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questo ufficio tecnico ha ricevuto una segnalazione di abuso edilizio su un immobile datato oltre 50 anni ma appena ereditato dai figli del de cuius.
L’ufficio tecnico comunale può emanare un provvedimento amministrativo che ordina il ripristino dello stato dei luoghi o il reato è prescritto?

Come da giurisprudenza amministrativa consolidata, la fattispecie dell’abuso edilizio ha natura permanente e ciò significa che l’intervento repressivo dell’ufficio tecnico è sempre possibile, anche a distanza di molti anni (ad esempio TAR Liguria, Sent. n. 907/2017).
Tanto premesso, e ritenuto che, secondo nella situazione proposta nel quesito, la sanzione astrattamente prevedibile per la tipologia di abuso sarebbe l’ordinanza di demolizione e la riduzione in pristino, dobbiamo evidenziare come anche l’autorevole giurisprudenza del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria, sent. n. 9/2017) ha affermato che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Nel caso de quo, il Consiglio di Stato ha affrontato il tema di un abuso assai risalente nel tempo e che aveva comportato la condanna del responsabile, in sede penale, per il reato di cui all’articolo 17, lettera b), della L. 27.01.1977, n. 10 ‘Norme in materia di edificabilità dei suoli').
Detto ciò, riteniamo che se viene constatato un abuso edilizio per il quale è prevista la sanzione della demolizione, è irrilevante il tempo, anche lungo o lunghissimo, che intercorre tra la data di realizzazione dell’abuso e la data di azione del provvedimento, con la conseguenza che il provvedimento è dovuto anche a distanza di decenni.
Pertanto, a nostro parere, e come sopra ampiamente descritto, l’ufficio tecnico comunale dovrà provvedere con i susseguenti atti amministrativi.
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Riferimenti di giurisprudenza
TAR Liguria. Sez. I, Sent., 05.12.2017, n. 907 - Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent., 17.10.2017, n. 9 (10.01.2022 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

dicembre 2021

EDILIZIA PRIVATA: Il direttore dei lavori, in base all'art. 29 d.P.R. n. 380/2001, è ritenuto responsabile della conformità delle opere alle previsioni del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabile nel medesimo, assumendo, quindi, per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere.
Il riferimento contenuto nella norma al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone l'esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso o con permesso di costruire scaduto di validità secondo i principi generali in materia di concorso di persone nel reato.
E' stato osservato che l'intervenuto rilascio del titolo abilitativo non esime da responsabilità penale per l'abuso edilizio il committente, il titolare del permesso di costruire ed il direttore dei lavori (art. 29, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), nel caso in cui detto titolo sia stato rilasciato in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici; e si è ritenuto, con riferimenti normativi alla previgente disciplina, che il direttore dei lavori può concorrere (al pari di altri soggetti) nel reato edilizio in caso di violazione della conformità dell'opera alle prescrizioni urbanistiche allorché alla realizzazione di questa abbia dato un contributo causalmente efficiente, il che si verifica inevitabilmente nell'ipotesi di concessione edilizia macroscopicamente illegittima.

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6.2. Il primo motivo di ricorso di Fe.Lo. è manifestamente infondato.
Il direttore dei lavori, in base all'art. 29 d.P.R. n. 380/2001, è ritenuto responsabile della conformità delle opere alle previsioni del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabile nel medesimo, assumendo, quindi, per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere. Il riferimento contenuto nella norma al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone l'esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso o con permesso di costruire scaduto di validità secondo i principi generali in materia di concorso di persone nel reato.
E' stato osservato che l'intervenuto rilascio del titolo abilitativo non esime da responsabilità penale per l'abuso edilizio il committente, il titolare del permesso di costruire ed il direttore dei lavori (art. 29, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), nel caso in cui detto titolo sia stato rilasciato in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 27261 del 08/06/2010, Rv. 248070 - 01); e si è ritenuto, con riferimenti normativi alla previgente disciplina, che il direttore dei lavori può concorrere (al pari di altri soggetti) nel reato edilizio in caso di violazione della conformità dell'opera alle prescrizioni urbanistiche allorché alla realizzazione di questa abbia dato un contributo causalmente efficiente, il che si verifica inevitabilmente nell'ipotesi di concessione edilizia macroscopicamente illegittima (Sez. 3, n. 7310 del 12/06/1996, Rv.206028 - 01).
La Corte territoriale ha ritenuto, con congrue argomentazioni, la responsabilità del ricorrente nel reato contestato, facendo buon governo dei principi di diritto affermati in materia da questa Corte.
Non sussiste, pertanto, il vizio dedotto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.12.2021 n. 47426).

EDILIZIA PRIVATA: L'elemento psicologico del reato contestato può concretarsi indifferentemente nel dolo o nella colpa, e che quindi versa certamente in colpa, sotto l'aspetto della negligenza, e non può invocare la buona fede, il direttore dei lavori che non controlli effettivamente e costantemente lo svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato.
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Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all'art. 43 cod. pen. ed all'art. 2 cod. pen. e vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale aveva omesso di rilevare che, come evidenziato dal Tribunale, la complessità della vicenda e la pluralità di pronunce in contrasto tra di loro, anche in sede amministrativa, escludevano la sussistenza dell'elemento psicologico della contravvenzione; inoltre, i Giudici di appello avevano richiamato, in contrasto con il disposto dell'art. 2 cod. pen., norme successive alla fattispecie contestata.
...
6.3. Il secondo motivo di Fe.Lo. è inammissibile.
Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato, senza considerare la complessità della vicenda e la pluralità di pronunce in contrasto tra di loro, anche in sede amministrativa.
La Corte territoriale ha ritenuto integrato l'elemento soggettivo del reato evidenziando che la qualifica professionale del prevenuto e la sua competenza tecnica imponevano di verificare la correttezza delle opere (cfr. 17 della sentenza impugnata).
Va ricordato che è giurisprudenza consolidata di questa Corte che l'elemento psicologico del reato contestato può concretarsi indifferentemente nel dolo o nella colpa, e che quindi versa certamente in colpa, sotto l'aspetto della negligenza, e non può invocare la buona fede, il direttore dei lavori che non controlli effettivamente e costantemente lo svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato (cfr. Sez. 3, 24.09.2008 n. 36567).
La doglianza proposta è del tutto generica, in quanto priva di confronto critico con le argomentazioni della Corte territoriale richiamandosi sul punto le considerazioni già esposte al punto 6.1.
Essa, inoltre, espone censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, preclusa in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, Rv. 235507; sez. 6, 03.10.2006, n. 36546, Bruzzese, Rv. 235510; Sez. 3, 27.09.2006, n. 37006, Piras, Rv. 235508).
7. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.12.2021 n. 47426).

URBANISTICADall’art. 30 d.P.R. n. 380/2001 derivano due fattispecie di lottizzazione cioè:
   - una lottizzazione “
materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici e
   - una lottizzazione “
negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili.
L’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
Con riferimento alla lottizzazione c.d. “
cartolare” la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo sia predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, al numero, all’ubicazione o all’eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “
cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori.
La giurisprudenza ha poi delineato altresì anche la cd. lottizzazione mista, caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dalla predetta norma, consistente nell'attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso.
In ogni caso, la fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria.
Si deve, poi, richiamare la giurisprudenza di questo Consiglio che ha puntualizzato come il giudizio amministrativo, anche con riferimento alle ipotesi di lottizzazione abusiva, ha ad oggetto un provvedimento amministrativo e mira a verificarne la legittimità, sinteticamente compendiabile nella verifica della veridicità dei fatti materiali posti a fondamento della scelta amministrativa e nella logicità e congruenza della decisione rispetto ai detti presupposti, rapportati alla fattispecie legale che viene in considerazione.
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Le opere realizzate in difformità dalle denunce di inizio attività presentate sono opere di recinzione della proprietà, le quali -pur di consistente entità, essendo stati realizzati muri in calcestruzzo di notevoli dimensioni almeno per i tre lati in cui l’altezza raggiunge quasi i tre metri- in assenza di altri manufatti abusivi nonché di un frazionamento rilevante ai fini lottizzatori non possono di per sé sole assurgere ad indizio della fattispecie della lottizzazione abusiva “
materiale” (cfr. Consiglio di Stato, Sezione II, 27.07.2020, n. 4772, che ha ritenuto rilevante anche una recinzione, ma in presenza di una fattispecie di lottizzazione negoziale).
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Se l’ordinanza prevista dall'art. 30, comma 7, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento vincolato, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati incisi, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito avente natura permanente, l’Amministrazione non è tenuta ad una specifica motivazione solo allorché risultino chiaramente dal provvedimento i presupposti della fattispecie lottizzatoria.
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Come è noto, l’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza n. 170 del 2007, impugnata con i motivi aggiunti in primo grado, riproduce integralmente le disposizioni già contenute nell’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47; le norme, nello specifico, hanno previsto che si abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Da tale norma derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione “materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio, siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416; id. 09.01.2018, n. 5805; Sez. II, 30.01.2020, n. 768).
L’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico (Cons. Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215).
Con riferimento alla lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo sia predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, al numero, all’ubicazione o all’eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20.05.2019, n. 3215, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429, Sez. IV, 13.05.2011, n. 2937).
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
La giurisprudenza ha poi delineato altresì anche la cd. lottizzazione mista, caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dalla predetta norma, consistente nell'attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso (cfr. per tutte, di recente, Cons. Stato Sez. VI, 19.07.2021, n. 5403).
In ogni caso, la fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria (Consiglio di Stato, Sezione II, 07.08.2019, n. 5607).
Si deve, poi, richiamare la giurisprudenza di questo Consiglio che ha puntualizzato come il giudizio amministrativo, anche con riferimento alle ipotesi di lottizzazione abusiva, ha ad oggetto un provvedimento amministrativo e mira a verificarne la legittimità, sinteticamente compendiabile nella verifica della veridicità dei fatti materiali posti a fondamento della scelta amministrativa e nella logicità e congruenza della decisione rispetto ai detti presupposti, rapportati alla fattispecie legale che viene in considerazione (Cons. Stato Sez. VI, 19.07.2021, n. 5403).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie non può che non ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva.
In primo luogo, si deve precisare che il giudice di primo grado ha espressamente escluso che si potesse configurare nel caso di specie una lottizzazione negoziale, essendo accertato che le particelle n. 395, 396, 397, 398 del foglio 1 provenissero da una divisione ereditaria.
La esclusione della lottizzazione negoziale affermata dal giudice di primo grado non può essere, dunque, più messa in discussione, non essendoci sul punto appello incidentale del Comune, e, comunque, non essendo neppure specificamente contestata tale affermazione nella memoria depositata dal Comune di Afragola, peraltro oltre il termine di 60 giorni dalla notifica del ricorso, indicato, ai sensi degli art. 101, comma 2 c.p.a. e 46 c.p.a., per la riproposizione delle domande e delle eccezioni assorbite o non esaminate in primo grado.
Peraltro, la circostanza del frazionamento in sede di divisione ereditaria è stata anche confermata in sede di verificazione, da cui è risultato che l’originaria particella (facente parte di una più ampia particella n. 126 frazionata nel 1983) è stata frazionata in sede di divisione ereditaria dei germani Va. del 20.10.2005, a seguito del frazionamento catastale del 21.06.2005; poi i terreni sono stati venduti, con atti distinti stipulati il 20.10.2005, dalla signora Ch.Va. alle signore Gi.Ce. e An.La.; dal signor Cl.Va. alla signora An.Ru.; dalla signora Ad.Va. alla signora An.Li., e in data 11.11.2005 dal signor Gi.Va. alla signora Ca.Po..
Pertanto, correttamente il giudice di primo grado, richiamando l’art. 30, ultimo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per cui “le disposizioni di cui sopra… non si applicano comunque alle divisioni ereditarie”, ha ritenuto neutro rispetto alla fattispecie della lottizzazione, il frazionamento intervenuto nella divisione ereditaria; né si può dare rilevanza al precedente frazionamento della particella 126, avvenuto quasi 25 anni prima.
Venendo alla ipotesi della lottizzazione materiale, ritenuta sussistente dal giudice di primo grado, deve in primo luogo rilevarsi che l’ordinanza n. 170 del 2007, impugnata con i motivi aggiunti in primo grado era indirizzata a 18 destinatari proprietari di differenti particelle (oltre alle odierne appellanti proprietarie delle particelle n. 395, 396, 397, 398 del foglio 1 erano indicati il proprietario della particella n. 399 del foglio 1 e i proprietari delle particelle n. 2262, 2263, 2264, 2265, 2266, 2267, 2268, 2269 del foglio 4), facendo poi riferimento per tutti alla realizzazione di opere “in assenza di titolo abilitativo, al frazionamento delle aree, alla realizzazione di recinzioni, di una strada di servizio e di opere abusive, tutte opere che denotano una trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni” ; venivano poi indicate per ogni proprietario interessato le opere abusive realizzate e per le odierne appellante la recinzione in difformità dalla DIA presentata.
Sostanzialmente, quindi, il Comune, ha considerato l’unicità delle trasformazioni urbanistiche realizzate nella area complessivamente considerata con una strada di accesso, con opere edilizie abusive, con il frazionamento della originarie particelle.
Una volta esclusa, però, la rilevanza del frazionamento, anche in base a quanto affermato dal giudice di primo grado e confermato dal verificatore, deve valutarsi se siano idonee a denotare una lottizzazione materiale le sole opere abusive realizzate e la strada di collegamento.
Tale accertamento deve essere condotto alla luce delle risultanze della verificazione, da cui è emerso che la ricostruzione in termini unitari della lottizzazione abusiva configurata dal Comune per 18 proprietari nella località Murillo del Comune di Afragola è esclusa dalla mancanza di collegamento tra le particelle di proprietà degli odierni appellanti (particelle n. 395, n. 396, n. 397, e n. 398 del foglio 1) con le altre particelle considerate nell’ordinanza impugnata in primo grado, essendo stata accertata solo l’esistenza di una strada sterrata di accesso alle quattro particelle, priva di collegamento con le altre particelle.
Ne deriva che al fine di configurare la lottizzazione materiale non si può fare riferimento né alle opere edilizie realizzate sulle altre particelle né ad un disegno unitario di urbanizzazione, in base ad una strada di collegamento; con la conseguenza che si dovrebbe ritenere integrata la lottizzazione materiale per la sola realizzazione delle opere di recinzione, peraltro neppure integralmente abusive, in quanto realizzate in difformità dalle denunce di inizio di attività presentate dalle odierne appellanti nel 2006, nonché dalla detta strada di accesso ai fondi.
Ritiene il Collegio che tali opere, anche unitariamente considerate per le quattro particelle, non possano configurare una attività tesa alla trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con aggravio del relativo carico insediativo e pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione, secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza, in base alla ratio dell’art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, non avendo raggiunto le opere uno stadio “materiale” tale da comportare una trasformazione urbanistica.
Infatti, le opere realizzate in difformità dalle denunce di inizio attività presentate sono opere di recinzione della proprietà, le quali -pur di consistente entità, essendo stati realizzati muri in calcestruzzo di notevoli dimensioni almeno per i tre lati in cui l’altezza raggiunge quasi i tre metri- in assenza di altri manufatti abusivi nonché di un frazionamento rilevante ai fini lottizzatori non possono di per sé sole assurgere ad indizio della fattispecie della lottizzazione abusiva “materiale” (cfr. Consiglio di Stato, Sezione II, 27.07.2020, n. 4772, che ha ritenuto rilevante anche una recinzione, ma in presenza di una fattispecie di lottizzazione negoziale).
La strada è sterrata, anzi attualmente integralmente ricoperta d’erba, e rappresenta, secondo quanto affermato dal verificatore, un percorso di accesso ai quattro fondi di proprietà delle appellanti, che rimane “un’appendice privata” priva di collegamento con altre strade e proprietà. Pertanto di tale accesso si devono escludere sia la natura di opera di urbanizzazione sia la funzionalizzazione ad una successiva urbanizzazione.
Diversamente potrebbe dirsi per il marciapiede posto ai lati della strada, la cui esistenza è stata accertata in sede di verificazione, ma poiché tale aspetto non risulta preso in considerazione dal Comune nell’ordinanza n. 170 del 2007, ritiene il Collegio di non poterlo valorizzare in questa sede, in quanto il presente giudizio, come sopra evidenziato, ha ad oggetto la legittimità del provvedimento impugnato e la sua congruità rispetto ai presupposti di fatto indicati nel provvedimento, nel caso di specie, insussistenti rispetto alla fattispecie della lottizzazione abusiva.
Dalle opere indicate nel provvedimento, allo stato, per come concretamente realizzate è provata nell’area di proprietà delle odierne appellanti, solo l’avvenuta recinzione dei fondi e la realizzazione di un percorso di accesso ad essi.
In ogni caso anche il marciapiede, pur realizzato senza titolo edilizio, in relazione alla collocazione della strada per il solo accesso ai quattro fondi costituisce solo una modalità del percorso per consentire l’accesso ai fondi.
Non vi sono, quindi, opere di trasformazione del territorio né è provata la funzionalizzazione delle opere alla realizzazione di un nuovo insediamento abitativo e al conseguente aumento del carico urbanistico.
Non è stata quindi raggiunta alcuna prova di una attività anche solo prodromica ma univoca rispetto alla realizzazione di opere di urbanizzazione apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, da cui derivi un aggravio del relativo carico urbanistico e il pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione, per la cui tutela è prevista la fattispecie della lottizzazione abusiva.
Sotto tale profilo, deve, altresì, rilevarsi la evidente carenza di motivazione del provvedimento che, considerando l’unicità della situazione lottizzatoria in capo a 18 proprietari, non ha esaminato la specifica posizione delle odierne appellanti sia in ordine alla collocazione delle particelle rispetto alle altre che in relazione allo stato (mancante) dell’edificazione, circostanze che erano state oggetto di apposita memoria in fase di partecipazione.
Infatti, se l’ordinanza prevista dall'art. 30, comma 7, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto provvedimento vincolato, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati incisi, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito avente natura permanente, l’Amministrazione non è tenuta ad una specifica motivazione solo allorché risultino chiaramente dal provvedimento i presupposti della fattispecie lottizzatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. II n. 27.07.2020, n. 4772), i quali risultano carenti, invece, nel caso di specie.
Si deve poi rilevare, altresì, che nel caso di specie la destinazione dell’area non era agricola, ma zona C di espansione residenziale, per cui era sì previsto lo strumento attuativo ma per “nuovi complessi insediativi per interventi privati e pubblici”. Ne deriva che la recinzione di per sé anche unitamente alla strada sterrata di accesso ai fondi non comportava alcuna sottrazione al potere pianificatorio comunale e di programmazione, non contrastando con la disciplina di piano.
Infatti la recinzione del fondo non era incompatibile con la successiva attività di pianificazione attuativa, non sostituendosi ad essa (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.12.2021 n. 8433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2021

EDILIZIA PRIVATAL'accertata abusività degli interventi realizzati esclude che gravi sull’Amministrazione l’obbligo di coinvolgere la destinataria della misura repressiva in fase procedimentale.
E’, infatti, pacifico in giurisprudenza il principio per il quale “l'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001 costituisce attività di natura vincolata e che, pertanto, la stessa non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi necessaria -per l'appunto- la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 e ss. della l. 241 del 1990 agli interessati" in virtù del quale deve “escludersi che ai destinatari del provvedimento recante l'ordine di demolizione debbano essere riconosciute le prerogative connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di presentare osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale”.
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Con il primo motivo l’Appellante censura l’impugnata sentenza nella parte in cui, in ragione della natura vincolata della misura adottata, si afferma l’irrilevanza della dedotta omessa considerazione degli apporti procedimentali di parte.
A sostegno della censura, l’appellante allega che il manufatto in questione presenterebbe delle “modestissime difformità o irregolarità” (pag. 4 dell’appello) che renderebbero “incerta” l’assoggettabilità dell’intervento sanzionato al regime del permesso di costruire.
Quanto affermato troverebbe indiretta conferma nella rilevata necessità, da parte dell’Amministrazione, di procedere comunque, preliminarmente all’adozione del provvedimento repressivo, alla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. n. 242/1990 finalizzata all’acquisizione delle controdeduzioni dell’interessata.
Il motivo è infondato.
Riconosce il Collegio che l’Amministrazione adottava la comunicazione di avvio del procedimento, ancorché la notifica della stessa intervenisse in data successiva a quella della notifica della misura repressiva.
Tuttavia, tale perplesso agire è inidoneo a viziare il provvedimento oggetto di contestazione, atteso che, come in parte anticipato, l’accertata, come si argomenterà, abusività degli interventi realizzati esclude che gravasse sull’Amministrazione l’obbligo di coinvolgere la destinataria della misura repressiva in fase procedimentale.
E’, infatti, pacifico in giurisprudenza il principio per il quale “l'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001 costituisce attività di natura vincolata e che, pertanto, la stessa non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto da non ritenersi necessaria -per l'appunto- la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 e ss. della l. 241 del 1990 agli interessati" (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 19.03.2018, n. 1717; 29.11.2017 n. 5595; 12.10.2016, n. 4204; Sez. V, 17.06.2015, n. 3051) in virtù del quale deve “escludersi che ai destinatari del provvedimento recante l'ordine di demolizione debbano essere riconosciute le prerogative connesse alla partecipazione procedimentale, tra cui quella di presentare osservazioni con conseguente obbligo per l'amministrazione di prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale (così, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, n. 1717 del 2018 cit.)” (Cons. Stato, Sez. II, 13.06.2019, n. 3971) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.10.2021 n. 7197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul fatto che gli elaborati progettuali allegati alla licenza edilizia degli anni '50 non sono idonei a rappresentare in modo preciso la consistenza dell’edificio autorizzato e, pertanto, non costituiscono un parametro attendibile di confronto tra lo stato di fatto e quello autorizzato da cui possa desumersi la natura parzialmente abusiva dell’edificio.
Come il c.t.u. ha osservato, gli elaborati grafici allegati all’istanza di licenza edilizia n. 5874/1957 “risultano lacunosi, imprecisi ed incoerenti tra di loro Lacunosi in quanto non riportano le dimensioni di nessuna misura né in pianta né in prospetto/sezione, fatta eccezione per la sola quota dell’altezza interna del piano in sopraelevazione; la sezione non riporta la presenza delle aperture di areazione nel sottotetto e manca la rappresentazione dello spessore del solaio inclinato di copertura.
Imprecisi perché nelle sezioni è evidente una rappresentazione dello spessore dei solai intermedi che non può corrispondere al vero: i solai risultano infatti dello spessore indicativo, rapportato in scala, tutti inferiori ai 20 cm, quando le tecniche costruttive del tempo per la realizzazione di strutture orizzontali in latero-cemento comportavano spessori indicativi di 35 cm (24 cm di laterizio, 4 cm di cappa in calcestruzzo collaborante, 5 centimetri di sottofondo ai quali vanno aggiunte le finiture). Del sistema costruttivo dei solai in materiale latero-cementizio vi è ancora traccia nella documentazione fotografica delle fasi demolitive del fabbricato allegata alle memorie difensive di parte controinteressata.
Incoerenti tra di loro perché anche la sovrapposizione delle rappresentazioni dei prospetti e delle sezioni, eseguita con l’ausilio di strumenti informatici (autocad) presentano difformità evidenti quali: altezza al colmo differente, mancata rappresentazione delle aperture di aerazione del sottotetto.”.
Tenuto conto della risalenza del titolo ad un’epoca in cui non v’era obbligo di asseverazione da parte dei progettisti, della circostanza che esso non riguarda l’intero fabbricato ma la sola sopraelevazione, che le tavole grafiche presentano le lacune ed imprecisioni evidenziate dal verificatore, pertanto, il Collegio ritiene condivisibile la valutazione di complessiva inidoneità dei disegni allegati a costituire un preciso parametro di raffronto con lo stato di fatto asseverato, ai fini della verifica della conformità dell’edificio preesistente.
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... per l'annullamento:
   - per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
del permesso di costruire rep. 06.03/008915/17, prot. 334043 del 02/02/2018 avente ad oggetto “nuova costruzione con demolizione edificio esistente, costruzione, ricomposi-zione e ampliamento art. 3, comma 2, LRV 14/2009 in via Altichiero” nonché della convalida del predetto permesso di costruire datata 07.03.2018 (atti non conosciuti) nonché degli atti presupposti ed in particolare dei pareri propedeutici e di eventuali varianti;
   - per quanto riguarda i motivi aggiunti depositati il 25.07.2018:
del permesso di costruire rep. 06.03/008915/17, prot. 334043 del 02/02/2018 avente ad oggetto “nuova costruzione con demolizione edificio esistente, costruzione, ricomposizione e ampliamento art. 3, comma 2, LRV 14/2009 in via Altichiero” nonché della convalida del predetto permesso di costruire datata 07.03.2018, nonché degli atti presupposti ed in particolare dei pareri propedeutici e di eventuali varianti.
...
1.3 I vizi di violazione dell’art. 9, comma 1, lett. e), L.R. 14 del 2009 e di difetto di istruttoria, articolati nel primo e nel secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti, sono solo in parte fondati.
Ad avviso del Collegio la censura non è fondata nella parte in cui ritiene il permesso impugnato illegittimo poiché rilasciato nonostante l’edificio esistente sia stato realizzato in totale difformità alla licenza di sopraelevazione n. 5874 del 09.07.1957.
Ritiene, invece, che la censura, nei limiti del dedotto difetto d’istruttoria, sia fondata con riguardo alla verifica dei titoli legittimanti le modifiche di più recente realizzazione.
1.4 Quanto al primo profilo (conformità dello stato di fatto alla licenza di sopraelevazione), il Collegio condivide le conclusioni cui sono pervenute le parti resistenti, confermate dal verificatore, secondo cui gli elaborati progettuali allegati alla licenza edilizia n. 5874 del 1957 non sono idonei a rappresentare in modo preciso la consistenza dell’edificio autorizzato e, pertanto, non costituiscono un parametro attendibile di confronto tra lo stato di fatto e quello autorizzato da cui possa desumersi la natura parzialmente abusiva dell’edificio.
Come il verificatore ha osservato -con argomentazioni che, sotto taluni aspetti, trovano immediata evidenza nel confronto con le tavole progettuali– gli elaborati grafici allegati all’istanza di licenza edilizia n. 5874/1957 “risultano lacunosi, imprecisi ed incoerenti tra di loro Lacunosi in quanto non riportano le dimensioni di nessuna misura né in pianta né in prospetto/sezione, fatta eccezione per la sola quota dell’altezza interna del piano in sopraelevazione; la sezione non riporta la presenza delle aperture di areazione nel sottotetto e manca la rappresentazione dello spessore del solaio inclinato di copertura. Imprecisi perché nelle sezioni è evidente una rappresentazione dello spessore dei solai intermedi che non può corrispondere al vero: i solai risultano infatti dello spessore indicativo, rapportato in scala, tutti inferiori ai 20 cm, quando le tecniche costruttive del tempo per la realizzazione di strutture orizzontali in latero-cemento comportavano spessori indicativi di 35 cm (24 cm di laterizio, 4 cm di cappa in calcestruzzo collaborante, 5 centimetri di sottofondo ai quali vanno aggiunte le finiture). Del sistema costruttivo dei solai in materiale laterocementizio vi è ancora traccia nella documentazione fotografica delle fasi demolitive del fabbricato allegata alle memorie difensive di parte controinteressata (doc. 13 memorie difensive avv. Po.). Incoerenti tra di loro perché anche la sovrapposizione delle rappresentazioni dei prospetti e delle sezioni, eseguita con l’ausilio di strumenti informatici (autocad) presentano difformità evidenti quali: altezza al colmo differente, mancata rappresentazione delle aperture di areazione del sottotetto.”.
Tenuto conto della risalenza del titolo ad un’epoca in cui non v’era obbligo di asseverazione da parte dei progettisti, della circostanza che esso non riguarda l’intero fabbricato ma la sola sopraelevazione, che le tavole grafiche presentano le lacune ed imprecisioni evidenziate dal verificatore, pertanto, il Collegio ritiene condivisibile la valutazione di complessiva inidoneità dei disegni allegati a costituire un preciso parametro di raffronto con lo stato di fatto asseverato, ai fini della verifica della conformità dell’edificio preesistente (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.10.2021 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanabilità delle opere realizzate nel Lazio in zone vincolate anche quando il vincolo è posteriore alla realizzazione dell’opera a fronte di una domanda di c.d. terzo condono.
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Edilizia – Sanatoria – Lazio – L.reg. n. 12 del 2004 - Opere realizzate in zone vincolate – Opere sanabili - Individuazione.
Ai sensi della l.reg. Lazio n. 12 del 2004, deve escludersi la sanabilità delle opere realizzate in zone vincolate anche quando il vincolo è posteriore alla realizzazione dell’opera (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’autonomizzazione “spinta” ed “assoluta” del requisito della “non conformità alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” –secondo l’interpretazione accolta dal giudice di primo grado- quale presupposto da accertare con rigore ed in totale autonomia rispetto al contenuto del vincolo, per escludere la sanabilità dell’opera condurrebbe proprio a ritenere sanabili, nonostante la violazione dei vincoli paesaggistico ambientali, interventi abusivi solo perché per essi sussista una conformità urbanistica sostanziale con interpretatio abrogans della disposizione regionale e travisamento della sua ratio che a questo punto sarebbe quella di escludere la sanabilità solo nel caso in cui ci trovi di fronte ad abusi sostanziali.
Ma la disposizione è volta ad escludere la sanabilità delle opere abusive oggetto del terzo condono in via generale nelle zone vincolate con la sola ipotesi che il vincolo sopravvenuto consenta l’accertamento di conformità ed in tali limiti; ma non vi è prova che la natura del vincolo sopravvenuto nella specie dia rilevanza a tali evenienze.
In assenza di questo non sussiste la possibilità di ottenere il condono in forza di un parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ( non avendo il vincolo tanto consentito e dovendo quindi in conseguenza della sua mera esistenza –in assenza di previsioni legittimanti il recupero di abusi- ritenere l’opera non conforme alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.10.2021 n. 6827 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del condono edilizio il concetto di “ultimazione dei lavori” va riferito all’esecuzione del cd. rustico, che presuppone, per quanto d’interesse, l’intervenuto completamento delle tamponature (tompagnature) esterne, che determinano l’isolamento dell’immobile dalle intemperie e configurano l’opera nella sua fondamentale volumetria: ciò, a condizione che non si tratti di opere interne di un edificio già esistente, per le quali vale, invece, il criterio del cd. completamento funzionale. Se ne evince che, ai fini del condono, è indispensabile che entro il termine massimo stabilito dalla legge l’organismo edilizio abbia assunto una sua forma stabile ed un’adeguata consistenza plano-volumetrica, come per gli edifici, per i quali viene richiesta la cd. ultimazione al rustico, cioè l’intelaiatura, la copertura ed i muri di tompagno.
Invero, “ai fini del condono, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tampognature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (....)”, di tal ché un’opera priva anche soltanto in parte delle tompagnature non è condonabile.
Né si può confondere l’esecuzione del cd. rustico con lo scheletro della struttura, dovendo il cd. rustico intendersi come comprensivo della muratura priva di rifiniture e della copertura e non potendo le pareti esterne considerarsi quali mere rifiniture.
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3.3. Da quanto appena visto discende l’infondatezza delle doglianze dell’appellante volte a sostenere l’avvenuta ultimazione delle opere abusive in esame entro il termine (31.03.2003) stabilito dalla normativa sul condono edilizio di cui al d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003).
Sul punto merita di essere integralmente condivisa la sentenza appellata, lì dove ha evidenziato come i Vigili Urbani abbiano accertato, con verbali dotati di fede privilegiata, che:
   a) all’epoca dei primi sopralluoghi (23-25.08.2004), quindi già ben oltre la scadenza del termine del 31.03.2003, la struttura esistente consisteva soltanto in un’armatura di ferro e legno e getto in cemento armato per copertura e pilastri;
   b) l’aggiunta delle altre opere, in specie delle tompagnature, risale ad un momento ancora posteriore, essendo attestata dal verbale del sopralluogo del 04.10.2004.
3.3.1. Sul punto deve richiamarsi il costante orientamento giurisprudenziale, secondo cui ai fini del condono edilizio il concetto di “ultimazione dei lavori” va riferito all’esecuzione del cd. rustico, che presuppone, per quanto d’interesse, l’intervenuto completamento delle tamponature (tompagnature) esterne, che determinano l’isolamento dell’immobile dalle intemperie e configurano l’opera nella sua fondamentale volumetria (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. II, 29.07.2020, n. 4816): ciò, a condizione che non si tratti di opere interne di un edificio già esistente, per le quali vale, invece, il criterio del cd. completamento funzionale. Se ne evince che, ai fini del condono, è indispensabile che entro il termine massimo stabilito dalla legge l’organismo edilizio abbia assunto una sua forma stabile ed un’adeguata consistenza plano-volumetrica, come per gli edifici, per i quali viene richiesta la cd. ultimazione al rustico, cioè l’intelaiatura, la copertura ed i muri di tompagno (così C.d.S., Sez. II, n. 4816/2020, cit.; v. pure Sez. VI, 09.07.2018, n. 4168 e Sez. IV, 28.06.2016, n. 2911).
3.3.2. Invero, “ai fini del condono, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tampognature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 16.10.1998, n. 130) (....)” (così C.d.S., Sez. VI, 03.12.2018, n. 6841), di tal ché un’opera priva anche soltanto in parte delle tompagnature non è condonabile (C.d.S., Sez. II, 13.11.2020, n. 7006; id., 14.01.2020, n. 339).
Né si può confondere l’esecuzione del cd. rustico con lo scheletro della struttura (accertato nel caso di specie dai VV.UU.), dovendo il cd. rustico intendersi come comprensivo della muratura priva di rifiniture e della copertura e non potendo le pareti esterne considerarsi quali mere rifiniture (C.d.S., Sez. II, 10.06.2019, n. 3869; Sez. IV, 12.03.2009, n. 1474) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe risultanze dei verbali di accertamento dei VV.UU. non possono essere contrastate in altro modo che tramite la proposizione del rimedio della querela di falso, trattandosi di atti dotati di certezza legale privilegiata: per la costante giurisprudenza, infatti, “il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esso accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante”.
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3.3.3. Mette conto aggiungere, al riguardo, che le risultanze dei verbali di accertamento dei VV.UU. non possono essere contrastate in altro modo che tramite la proposizione del rimedio della querela di falso, trattandosi di atti dotati di certezza legale privilegiata: per la costante giurisprudenza, infatti, “il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esso accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante” (così C.d.S., Sez. IV, 01.07.2019, n. 4472; id., 05.10.2018, n. 5738).
Ma nel caso di specie non risultano né la proposizione della querela di falso, né tanto meno l’esperimento vittorioso, da parte del privato, del relativo giudizio: pertanto, in difetto di tale rimedio, sono vani i tentativi dell’appellante di contestare, anche a mezzo della produzione di una perizia di parte, i contenuti dei citati verbali e di sostenere l’esistenza, alla data di legge (31.03.2003), delle condizioni affinché l’immobile potesse considerarsi ultimato e, così, ottenere il condono e, in particolare, l’esistenza della tompagnatura esterna
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza contenuto discrezionale ed è subordinato esclusivamente all’accertamento dell’inottemperanza e al decorso del termine di legge (pari a 90 gg.) stabilito per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi: l’acquisizione gratuita costituisce, infatti, una misura di carattere sanzionatorio, che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
Non può ritenersi, perciò, che l’acquisizione gratuita integri una reazione sproporzionata e tale da determinare un indebito arricchimento della P.A., connotandosi essa “per la duplice funzione di sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi” e comportando l’acquisto a titolo originario del bene da parte dell’Ente competente ad esercitare il relativo potere.
Neppure può obiettarsi dal preteso carattere “minore” degli abusi commessi, sia perché non è ammesso il frazionamento dell’intervento effettuato (demolizione del sottotetto e sua ricostruzione, da un lato; copertura del terrazzo, dall’altro), ma l’intervento de quo va considerato nella sua unitarietà (secondo quanto risulta, del resto, dalla stessa istanza di condono), sia in quanto la realizzazione di un’entità nuova costituisce un abuso rilevante, che giustifica come tale l’irrogazione della sanzione demolitoria o di rimessione in pristino ex art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.

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5.2. Ancora, è infondato il motivo di appello II C), poiché, secondo l’orientamento della consolidata giurisprudenza, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza contenuto discrezionale ed è subordinato esclusivamente all’accertamento dell’inottemperanza e al decorso del termine di legge (pari a 90 gg.) stabilito per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr., ex multis, C.d.S., Sez., VI, 09.06.2020, n. 3686; Sez. II, 07.02.2020, n. 996; Sez. V, 27.04.2012, n. 2450): l’acquisizione gratuita costituisce, infatti, una misura di carattere sanzionatorio, che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. II, 13.11.2020, n. 7008; id., 24.07.2020, n. 4725; Sez. IV, 26.05.2020, n. 3330; id., 16.01.2019, n. 398).
5.2.1. Non può ritenersi, perciò, che l’acquisizione gratuita integri una reazione sproporzionata e tale da determinare un indebito arricchimento della P.A., connotandosi essa “per la duplice funzione di sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi” e comportando l’acquisto a titolo originario del bene da parte dell’Ente competente ad esercitare il relativo potere (C.d.S., Sez. VI, n. 3686/2020, cit.).
Neppure può obiettarsi dal preteso carattere “minore” degli abusi commessi, sia perché non è ammesso il frazionamento dell’intervento effettuato (demolizione del sottotetto e sua ricostruzione, da un lato; copertura del terrazzo, dall’altro), ma l’intervento de quo va considerato nella sua unitarietà (secondo quanto risulta, del resto, dalla stessa istanza di condono), sia in quanto la realizzazione di un’entità nuova costituisce un abuso rilevante, che giustifica come tale l’irrogazione della sanzione demolitoria o di rimessione in pristino ex art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 (C.d.S., Sez. VI, 20.07.2018, n. 4418)
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 11.10.2021 n. 6797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’onere della prova dell’ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe in linea generale sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Vero è che “Si ammette un temperamento di tale regola nel caso in cui il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima di una certa data elementi rilevanti, seppure non univocamente probanti (ad esempio, aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione o altre certificazioni attestanti fatti o circostanze rilevanti”.
A tal fine è necessaria la produzione di documentazione oggettivamente comprovante l'epoca di realizzazione del manufatto.
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Premesso che nell’ordinanza di demolizione impugnata il Comune intimato ha contestato entrambi gli abusi -casotto in legno e piattaforma di calcestruzzo- quanto alla risalenza nel tempo degli abusi contestati si richiama al riguardo la condivisibile giurisprudenza anche della Sezione (TAR Napoli, Sezione III, 03.05.2021, n. 2900), dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, alla luce della quale “L’onere della prova dell’ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe in linea generale sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (Cons. di St., sez. VI, 12/10/2020, n. 6112). Vero è che “Si ammette un temperamento di tale regola nel caso in cui il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima di una certa data elementi rilevanti, seppure non univocamente probanti (ad esempio, aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione o altre certificazioni attestanti fatti o circostanze rilevanti)” (Cons. di St., sez. VI, 16/03/2020, n. 1890)”.
A tal fine è necessaria la produzione di documentazione oggettivamente comprovante l'epoca di realizzazione del manufatto (TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 11.12.2020, n. 3362, TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2019, n. 8708; Cons. Stato n. 2960/2014; Cons. Stato n. 3067/2001; TAR Lazio-Roma n. 10882/2014).
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Non essendo stata provata con certezza la rilevanza del tempo, quanto alla necessità del permesso di costruire deve ritenersi che il Comune abbia legittimamente contestato che si tratti di opere abusive in quanto prive del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.10.2021 n. 6391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'integrata realizzazione di nuovi volumi -per il casotto in legno- e superfici -per la piattaforma di calcestruzzo- è da ricondurre agli “interventi di nuova costruzione”, ex art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001, implicanti una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (peraltro in zona vincolata), come tale soggetta ai sensi del successivo art. 10 al rilascio del permesso di costruire, in mancanza del quale va ordinata la demolizione.
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Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è necessaria una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, non essendo possibile scomporne una parte per negare l'assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere.
In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti identificata con riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo immobiliare unitariamente considerato”.

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Per giustificare l’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti la successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale.
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Ed invero nella fattispecie, come correttamente valutato nell’istruttoria esperita dall’amministrazione, si è integrata la realizzazione di nuovi volumi -per il casotto in legno- e superfici -per la piattaforma di calcestruzzo- da ricondurre agli “interventi di nuova costruzione”, ex art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001, implicanti una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (peraltro in zona vincolata), come tale soggetta ai sensi del successivo art. 10 al rilascio del permesso di costruire (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.08.2021, n. 5474 e 07.05.2021, n. 3073), in mancanza del quale va ordinata la demolizione.
Peraltro, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale di questo Tribunale, e già fatto proprio dalla Sezione (TAR Campania Napoli Sez. III, 26.04.2021, n. 2729) “Ai fini della valutazione di un abuso edilizio è necessaria una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, non essendo possibile scomporne una parte per negare l'assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, ciò in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall'insieme delle opere” (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 25/05/2020, n. 1960).
In altri termini, “L'opera edilizia abusiva va infatti identificata con riferimento all'immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul testo immobiliare unitariamente considerato” (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 27/04/2020, n. 1496).
Alla luce di tali conclusioni non rilevano la dedotta inesatta indicazione della descrizione specifica di entrambi gli interventi realizzati, la loro individuazione catastale, né le date del sopraluogo effettuato.
In particolare quanto alla consistenza degli interventi e alla loro individuazione catastale occorre specificare che, come chiarito dalla prevalente giurisprudenza, condivisa dal Collegio, per giustificare l’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata, spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti la successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 28.01.2016, n. 538 e Sez. III, 12.03.2010, n. 1420, TAR Bari, Sez. III, 10.03.2011, n. 429) (TAR Campania Napoli Sez. III, 29.04.2021, n. 2834, 10.12.2020, n. 6025 e 18.05.2020, n. 1824)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.10.2021 n. 6391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti integrano atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto le seguenti censure: 3) Violazione artt. 1 e 7 Legge n. 241/1990, in quanto non gli sarebbe stato notificato alcun avviso di inizio del procedimento.
Il motivo è infondato in quanto, secondo il condivisibile consolidato orientamento giurisprudenziale, l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti integrano atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (TAR Campania Napoli Sez. III, 29.04.2021, n. 2834, 10.12.2020, n. 6025 e 18.05.2020, n. 1824)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.10.2021 n. 6391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento repressivo deve essere rivolto nei confronti di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale con il bene.
In particolare, in tema di “responsabile dell’abuso” «questi è ... da individuarsi in colui che ha materialmente eseguito l'opera, fermo rimanendo che anche il proprietario "non responsabile" è legittimamente destinatario dell'ordine di demolizione
».
«In proposito, valga il richiamo all'Adunanza Plenaria n. 9 del 17.10.2017, che ha espressamente ribadito che "gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato"
».
«... La giurisprudenza, in aderenza con il testo delle norme sanzionatorie (artt. 27, 31, 33, 35 D.P.R. 380/2001), giammai esclude la responsabilità del materiale esecutore dell'opera che, appunto, si aggiunge a quella di colui che, trovandosi in una relazione di immediata disponibilità dell'opera, è nelle migliori condizioni per poter eseguire la demolizione ».

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Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino".
Inoltre, l’abuso assume il carattere di illecito permanente e tanto è comunque sufficiente per non dar rilievo al tempo trascorso dalla sua realizzazione.

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Premette che il contestato mutamento della destinazione d’uso del capannone non sarebbe alla stessa addebitabile, ma ai locatori, di guisa che non potrebbe essere destinataria di alcun provvedimento sanzionatorio, riferibile ai proprietari che non avrebbero potuto concederlo in locazione con la finalità di consentire al suo interno l’esercizio di un’attività artigianale.
Il rilievo non è condivisibile, in quanto, in punto di fatto, emerge che il mutamento di destinazione consegue alla prescrizione contenuta nel contratto reso inter partes, ove è stato stabilito che i proprietari concedono (in locazione) l’unità immobiliare in questione, “da adibire ad officina per l’attività del conduttore”.
Appare evidente che il cambio di destinazione, per altro non rappresentato come pregresso, è stato realizzato consensualmente tra le parti.
In ogni caso, il provvedimento repressivo deve essere rivolto nei confronti di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale con il bene (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 24.05.2016, n. 2638).
In particolare (cfr. TAR Catania, I, 07.05.2021, n. 1499), in tema di “responsabile dell’abuso” (cfr. TAR Napoli, sez. IV, 07/01/2020, n. 70), «questi è ... da individuarsi in colui che ha materialmente eseguito l'opera, fermo rimanendo che anche il proprietario "non responsabile" è legittimamente destinatario dell'ordine di demolizione
».
«In proposito, valga il richiamo all'Adunanza Plenaria n. 9 del 17.10.2017, che ha espressamente ribadito che "gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato (in tal senso -ex multis-: Cons. Stato, VI, 26.07.2017, n. 3694)"
».
«... La giurisprudenza, in aderenza con il testo delle norme sanzionatorie (artt. 27, 31, 33, 35 D.P.R. 380/2001), giammai esclude la responsabilità del materiale esecutore dell'opera che, appunto, si aggiunge a quella di colui che, trovandosi in una relazione di immediata disponibilità dell'opera, è nelle migliori condizioni per poter eseguire la demolizione (v., ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 31/12/2018, n. 7305; Consiglio di Stato sez. VI, 30/03/2015, n. 1650; TAR Cagliari, Sardegna, sez. II, 25/09/2019, n. 762; TAR Napoli, Campania, sez. VIII, 26/10/2018, n. 6295; TAR Napoli, Campania, sez. VI, 15/09/2016, n. 4319)».
Come premesso, essendo il ricorrente coautore dell’abuso, debitamente è stato individuato come destinatario del provvedimento.
Né rileva, diversamente da quanto sostenuto con la censura in esame, la circostanza che il cambio abusivo di destinazione sia ormai “consolidato” nel tempo.
Non è possibile ritenere illegittimo il provvedimento, infatti, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dall’esecuzione dell’opera, richiedendosi, altresì, una motivazione “rafforzata”.
A tal uopo, la Sezione, sempre con la richiamata decisione n. 1499/2021 ha stabilito «che secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9)
».
«Si tratta di orientamento anche più di recente ribadito da condivisa giurisprudenza d’appello (cfr., ex plurimis, cit. Cons. Stato, sez. II, 03.02.2021, n. 980; Cons. Stato, sez. VI, 30.11.2020, n. 7546) e di prime cure (cfr., ex plurimis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 22.02.2021, n. 1140; TAR Campania, Salerno, sez. II, 05.02.2021, n. 335)».
Inoltre, l’abuso assume il carattere di illecito permanente e tanto è comunque sufficiente per non dar rilievo al tempo trascorso dalla sua realizzazione
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 11.10.2021 n. 3060 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sentenza del Tar Campania sulle novità introdotte dal dl semplificazioni.
Prefetto anti-abusi edilizi. Se il comune è inerte 90 giorni per intervenire.

Novanta giorni. È il termine entro cui il prefetto deve abbattere le opere abusive, vista l'inerzia del comune dopo la diffida del proprietario dell'immobile confinante. E se non lo farà in tempo sarà «commissariato» da un dirigente del Viminale che provvederà. Il tutto grazie alla norma introdotta dalla legge 120/20 in sede di conversione del decreto semplificazioni anti Covid che trasferisce la competenza della procedura all'ufficio territoriale del governo se l'ente locale non dà il via alle ruspe entro centottanta giorni dall'accertamento dell'abuso.
Lo stabilisce il TAR Campania-Napoli con sentenza 07.10.2021 n. 6327, della VI Sez., una delle prime applicazioni in sede giudiziaria della novella, al punto che il collegio «compensa integralmente le spese di giudizio per la novità della questione».
Militari in campo. Accolto il ricorso del vicino che ha già ottenuto una sentenza del Tar: il comune deve reprimere gli abusi compiuti dal «rivale», che non solo ha ampliato la volumetria dell'immobile ma ha pure cambiato la destinazione d'uso del manufatto e realizzato un muro di contenimento di rilevanti dimensioni.
L'amministrazione ingiunge la demolizione ad horas delle opere contro-legge, ma non la esegue. A chi tocca provvedere? Fa bene il privato a rivolgere la diffida al prefetto, oltre che alla soprintendenza Belle arti e alla regione Campania, competente sui provvedimenti sanzionatori in base alla legge locale.
Con la modifica all'articolo 41 del testo unico per l'edilizia se il comune ritarda spetta all'ufficio territoriale del governo intervenire con l'aiuto dei tecnici del genio militare, se necessario. E sicuramente con il sostegno dell'ente civico, che trasmettere al prefetto ogni informazione o documento in suo possesso sull'abuso da rimuovere.
Nel mirino del confinante è finito un corpo di fabbrica costituito da struttura portante in muratura e copertura in cemento, che occupa una superficie di circa oltre due metri quadrati e mezzo per un'altezza di circa tre dal piano di calpestio: l'ampliamento, completo e rifinito, è adibito a servizi igienici del fabbricato. Il secondo fabbricato situato poco distante occupa una superficie lorda di circa 15 metri quadrati. Entrambi, dunque, dovranno essere demoliti.
Novella oscura. È vero, la legge non è chiarissima sul dies a quo, vale a dire sulla decorrenza del termine di sei mesi, perché il riferimento all'accertamento dell'abuso non è univoco: nel nostro caso, tuttavia, i centottanta giorni sono abbondantemente passati anche a voler utilizzare come termine iniziale la data dell'ordine di demolizione adottato dal comune dopo la precedente sentenza del Tar.
L'obbligo di provvedere del prefetto deve essere affermato in forza del nuovo testo dell'articolo 41 del testo unico per l'edilizia. La disposizione, che è il frutto della novella legislativa introdotta in sede di conversione del decreto legge 76/2020, «trasferisce» la competenza in materia di procedure di demolizione, in caso di loro mancato avvio entro centottanta giorni dall'accertamento dell'abuso, ai prefetti che si avvalgono dell'ausilio degli uffici comunali per ogni esigenza tecnico-progettuale e con il concorso, previa intesa con l'autorità militare, del genio militare.
La norma deroga alle ordinarie competenze in capo a comuni, enti gestori dei vincoli e regioni e concentra in capo al prefetto il compito di curare le procedure di demolizione in un'ottica di semplificazione e di effettività delle sanzioni (articolo ItaliaOggi del 15.10.2021).
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SENTENZA
Nel merito il ricorso è in parte fondato nel senso che va affermato l’obbligo di provvedere del Prefetto di Napoli in forza del nuovo testo dell’articolo 41 D.P.R. n. 380 citato.
Tale disposizione, infatti, “trasferisce” la competenza in materia di procedure di demolizione –in caso di loro mancato avvio entro 180 giorni dall’accertamento dell’abuso– ai Prefetti che si avvalgono dell’ausilio degli uffici comunali per ogni esigenza tecnico-progettuale e con il concorso, previa intesa con l’autorità militare, del Genio militare.
La disposizione dell’articolo 41 –che è il frutto di una novella legislativa introdotta in sede di conversione del d.l. 16.07.2020, n. 76– innova il sistema sanzionatorio previsto dal D.P.R. n. 380 concentrando in capo al Prefetto –in deroga quindi alle ordinarie competenze previste negli articoli 27 e segg. in capo a comuni, enti gestori dei vincoli e regioni– il compito di curare le procedure di demolizione in un’ottica di semplificazione e di effettività delle sanzioni; benché la disposizione non sia chiarissima in punto di decorrenza del termine di sei mesi (il riferimento all’accertamento dell’abuso non è univoco) nella fattispecie tale termine è chiaramente (e ampiamente) decorso dato che, anche a voler utilizzare come dies a quo la data del provvedimento che ha ingiunto la demolizione facendo quindi coincidere l’accertamento con la data di emanazione di esso, sta di fatto che tale provvedimento risale al 07.07.2020 per cui alla data della diffida 180 giorni erano decorsi.
Deve quindi ordinarsi al Prefetto di Napoli di provvedere alla esecuzione dell’ordinanza più volte citata nel termine di novanta giorni dalla comunicazione della presente sentenza; deve altresì ordinarsi al comune di -OMISSIS- di trasmettere al Prefetto ogni atto, documento o informazione in suo possesso in ordine all’abuso (come dispone l’articolo 41, comma 2, nel testo novellato) e di fornire al Prefetto ogni supporto di cui egli possa aver necessità per l’esercizio della sua competenza secondo quanto stabilisce il primo comma dell’articolo 41.
In caso di inerzia del Prefetto è nominato commissario ad acta il Dirigente responsabile del Dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell’interno o un dirigente o funzionario da lui delegato che si attiverà a istanza del ricorrente una volta inutilmente decorso il termine per l’esecuzione sopra fissato.
In questo senso il ricorso è in parte accolto. Data la novità della questione si dispone la integrale compensazione delle spese di giudizio.

settembre 2021

EDILIZIA PRIVATA: Effetti e limiti del rilascio di concessione o permesso in sanatoria – Acquisizione al patrimonio comunale – Art. 36, d.P.R. n. 380/2001.
Il rilascio di concessione o permesso in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non presuppone, quale atto implicito, la rinuncia da parte del Comune al diritto di proprietà sull’opera abusiva già acquisita al suo patrimonio a seguito del decorso del termine di 90 giorni dalla notifica dell’ordine di demolizione, non essendovi coincidenza, sul piano della competenza, tra l’organo adottante l’atto presupponente (permesso in sanatoria) –ufficio tecnico comunale– e l’organo competente alla adozione dell’atto presupposto implicito (rinuncia al diritto di proprietà), da individuarsi in distinti e superiori organi comunali.
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EDILIZIA – Permesso di costruire in sanatoria – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Acquisizione ipso iure della proprietà ex art. 31, c. 3, del T.U.E. n. 380/2001 – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Presentazione della domanda di accertamento di conformità e spoliazione di diritto della proprietà – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Richiesta di dissequestro – Legittimazione ad agire in difesa del bene – Esclusione.
L’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che il permesso di costruire in sanatoria può essere richiesto fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, e 34, comma 1, stesso decreto e, comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative.
La presentazione della domanda di accertamento di conformità successiva alla emanazione dell’ordinanza di demolizione comporta che l’Amministrazione non può che constatare che l’istanza è stata presentata da chi non sia più proprietario, se essa è stata proposta dopo l’acquisizione ipso iure della proprietà ai sensi dell’art. 31, comma 3, del t.u. n. 380 del 2001, per il decorso del termine di novanta giorni. Una volta acquisita al patrimonio comunale, solo il Comune può stabilire, con deliberazione consiliare, l’esistenza di prevalenti interessi pubblici sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
La spoliazione di diritto della proprietà del bene sottrae sostanza giuridica all’interesse vantato nei suoi confronti dal precedente proprietario degradandolo a mero interesse di fatto che, privandolo della legittimazione ad agire in difesa del bene stesso, impedisce persino la restituzione in suo favore caso di dissequestro.

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EDILIZIA – Ordine di demolizione dell’opera abusiva e rimessione in pristino dello stato dei luoghi – Ingiustificata inottemperanza – Automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
L’ingiustificata inottemperanza all’ordine di demolizione dell’opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica dell’ingiunzione a demolire emessa dall’Autorità amministrativa determina l’automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera è dell’area pertinente.
L’effetto acquisitivo si verifica senza che sia necessaria né la notifica all’interessato dell’accertamento dell’inottemperanza né la trascrizione, in quanto il primo atto ha solo funzione certificativa dell’avvenuto trasferimento del diritto di proprietà, costituendo titolo per l’immissione in possesso, mentre la trascrizione serve a rendere opponibile il trasferimento ai terzi a norma dell’art. 2644 cod. civ..

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EDILIZIA – Reati edilizi – Condono edilizio – Potere-dovere di verifica del giudice penale – Accertamento della sussistenza dei presupposti e requisiti per conseguire la speciale causa estintiva – C.d. attestazione di congruità dell’oblazione.
In tema di reati edilizi, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all’oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Più specificamente, è stato affermato, che l’accertamento della sussistenza di tutti i presupposti ed i requisiti per conseguire la speciale causa estintiva prevista dalla normativa sul condono edilizio, non costituisce disapplicazione di un atto amministrativo preteso illegittimo (la c.d. attestazione di congruità dell’oblazione ovvero, nei casi in cui sia contestato un reato attinente alla tutela di un vincolo, della concessione in sanatoria subordinata all’autorizzazione dell’autorità competente per detta protezione ex art. 39, ottavo comma, legge n. 724 del 1994), ma rientra tra i compiti del giudice penale, cui è deferita la dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per l’applicazione della predetta specifica causa di estinzione dei reati
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2021 n. 35484 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio – Procedura di sanatoria espressa e semplificata (provvedimento silenzioso di assenso) – Verifica dell’esistenza dei requisiti sostanziali e formali – Necessità – Poteri e doveri del giudice dell’esecuzione – D.P.R n. 380/2001 e Leggi regionali – Legge Reg. Sicilia n. 16/2016.
La procedura di condono introdotta dalla Legge 724/94 prevede la possibilità tanto di una sanatoria espressa quanto di un provvedimento silenzioso di assenso. In entrambi i casi devono sussistere tutti i requisiti di condonabilità previsti dalla legge per l’ottenimento della sanatoria e deve essere prodotta la documentazione richiesta.
Nel caso del condono per formazione del silenzio assenso, è richiesta non solo la presentazione dell’istanza di sanatoria, ma anche il pagamento integrale dell’oblazione ritenuta congrua secondo i criteri stabiliti dalla legge n. 47 del 1985, ora d.P.R n. 380 del 2001, il versamento degli oneri di concessione come determinati in via definitiva dal comune, l’adempimento delle altre condizioni richieste dalla norma, come la denuncia tempestiva ai fini dell’accatastamento ed il decorso del termine di uno o due anni dalla data di scadenza di quello per la presentazione della domanda senza l’adozione di un provvedimento negativo da parte del comune.
Il termine per la formazione del silenzio non decorre se non viene prodotta la documentazione richiesta, mentre l’omissione protratta dopo tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal Comune determina l’improcedibilità della domanda ed il conseguente diniego della sanatoria per carenza di documentazione.
Tuttavia, anche con riferimento a tale particolare procedura, valgono i principi già enunciati circa il potere dovere del giudice dell’esecuzione di verificare la sussistenza effettiva di tali requisiti sostanziali e formali, non potendo il ricorso alla procedura semplificata e la mera presentazione di una perizia giurata impedire al giudice di effettuare una verifica del tutto identica a quella richiesta, riguardo alla disciplina nazionale.

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Condono edilizio – Iter procedimentale – Rapporti fra normativa nazionale e regionale – Esclusione dell’operatività del condono – Limiti sostanziali delle leggi regionali dettati dalla disciplina nazionale.
Nei rapporti fra la normativa nazionale e quella regionale (in specie Regione Sicilia), bisogna tenere presente che, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali fissati dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi.
Con specifico riferimento alla legge regionale siciliana n. 16/2016 si è invece affermato, in relazione al condono di cui alla legge 326/2003, che l’iter procedimentale introdotto dal legislatore regionale non può consentire di superare i limiti sostanziali della disciplina dettata dalla disciplina nazionale (integralmente recepita, nella specie, da quella regionale), escludendo quindi che l’equipollenza al titolo abilitativo riconosciuta alla perizia giurata possa finire con il prevalere sulle limitazioni della disciplina generale rispetto a una certa tipologia di interventi, rispetto alla quale è stata espressamente esclusa l’operatività del condono.
Pertanto, il giudice dell’esecuzione, nel caso in cui vi sia una istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, ha l’onere di esaminare con attenzione i possibili esiti ed i tempi di definizione della procedura e, segnatamente, di accertare il possibile risultato dell’istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento e, nel caso di insussistenza di tali cause, di valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l’esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso, nonché di verificare la legittimità e l’efficacia del titolo abilitativo eventualmente rilasciato, ciò deve avvenire anche in caso di ricorso alla procedura semplificata regionale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2021 n. 33821 - link a www.ambientediritto.it).

agosto 2021

EDILIZIA PRIVATA: In generale: “L'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e, pertanto, non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo dunque necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all' art. 7 e ss. della L. n. 241/1990”.
Si osserva, in particolare, che “L'ordinanza di demolizione di opere abusive non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell' art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3 della citata l. n. 241 del 1990, tenendo presente che il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione”.
“Invero, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto ad adozione e contenuti vincolati, non abbisogna di una comparazione dell'interesse pubblico al rispetto della disciplina urbanistico-edilizia con l'interesse privato sacrificato, e nemmeno della valutazione di un affidamento alla conservazione della situazione di fatto, che il decorso del tempo non potrebbe mai legittimare”, “comunque mai per gli immobili abusivi ricadenti in aree soggette a vincolo paesaggistico”.
In definitiva, quindi, “Il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell'opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita”.
“E', pertanto, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata preceduta dall'avviso di inizio del procedimento di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, atteso che, da un lato, l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e che, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 990, l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, come nel caso all’esame.
La stessa ordinanza deve ritenersi, poi, sufficientemente motivata -richiamata, come nel caso di specie, la normativa di riferimento (artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001)-, con la mera affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
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V.2.1. Le censure, che per connessione logico-giuridica possono essere trattate congiuntamente, sono prive di pregio.
V.2.2. Quanto al primo profilo, sollevato con il primo e secondo motivo di gravame, consolidato e condiviso è l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in generale: “L'attività di repressione degli abusi edilizi tramite l'emissione dell'ordinanza di demolizione ha natura vincolata e, pertanto, non è assistita da particolari garanzie partecipative, non essendo dunque necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento di cui all' art. 7 e ss. della L. n. 241/1990” (Cons. di St., sez. II, 13/06/2019, n. 3968).
Si osserva, in particolare, che “L'ordinanza di demolizione di opere abusive non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell' art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3 della citata l. n. 241 del 1990, tenendo presente che il presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione” (TAR Piemonte, Torino, sez. II, 19/10/2020, n. 622).
Invero, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto ad adozione e contenuti vincolati, non abbisogna di una comparazione dell'interesse pubblico al rispetto della disciplina urbanistico-edilizia con l'interesse privato sacrificato, e nemmeno della valutazione di un affidamento alla conservazione della situazione di fatto, che il decorso del tempo non potrebbe mai legittimare” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 04/01/2021, n. 12; TAR Lombardia, Brescia, I, 1.10.2020 n. 679), “comunque mai per gli immobili abusivi ricadenti in aree soggette a vincolo paesaggistico” (Cons. di St., sez. VI, sent. 21/04/2020 n. 2537).
In definitiva, quindi, “Il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell'opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita” (Cons. di St., sez. V, 26/02/2021, n. 1637).
E', pertanto, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata preceduta dall'avviso di inizio del procedimento di cui all'art. 7, l. n. 241 del 1990, atteso che, da un lato, l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e che, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 990, l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 10/01/2015, n. 107), come nel caso all’esame.
La stessa ordinanza deve ritenersi, poi, sufficientemente motivata -richiamata, come nel caso di specie, la normativa di riferimento (artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001)-, con la mera affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori, sia pure riconducibili, come nella fattispecie, nella loro oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione o della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale cui ineriscono strutturalmente.
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Ciò posto, non va sottaciuto che “In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori, sia pure riconducibili, come nella fattispecie, nella loro oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione o della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale cui ineriscono strutturalmente” (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 04/07/2018, n. 4415) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo orientamento consolidato, “Ove gli illeciti edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera DIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica”.
Ed invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380/2001 non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice DIA in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico”.
“Infatti, per le opere abusive eseguite in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, vige un principio di indifferenza del titolo necessario all'esecuzione di interventi in dette zone, essendo legittimo l'esercizio del potere repressivo in ogni caso, a prescindere, appunto, dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio nella zona vincolata (DIA o permesso di costruire); ciò che rileva, ai fini dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata e in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico che urbanistico”.
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V.2.5. “I suddetti abusi sono stati peraltro effettuati in area sottoposta a vincolo paesaggistico, ai sensi del d.lgs. 42/2001, (ex art. 1439/1939) e della L. 394/1991, istitutiva dell’Ente parco Nazionale del Vesuvio, dichiarata di notevole interesse pubblico con D.M. 26.10.1961 nonché in territorio dichiarato sismico” (ordinanza cautelare n. 972 del 05.07.2017).
Orbene, secondo orientamento consolidato, “Ove gli illeciti edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera DIA, l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica” (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 03/08/2020, n. 3455).
Ed invero, “L'art. 27, d.P.R. n. 380/2001 non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice DIA in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico.” (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 07/06/2018, n. 3774; TAR Lazio, Roma, sez. II, 12/06/2018, n. 6567).
Infatti, per le opere abusive eseguite in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, vige un principio di indifferenza del titolo necessario all'esecuzione di interventi in dette zone, essendo legittimo l'esercizio del potere repressivo in ogni caso, a prescindere, appunto, dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio nella zona vincolata (DIA o permesso di costruire); ciò che rileva, ai fini dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata e in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico che urbanistico” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 04/10/2019, n. 4757) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere abusive su area vincolata non è necessario il parere della commissione edilizia integrata, ciò in quanto l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
Peraltro, “In tali casi, l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è in re ipsa, poiché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici e ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa”.
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V.3. Con il terzo motivo di ricorso la parte lamenta la violazione della legge regionale n. 10/1982 (art. 1) e del d.p.r. 616/1977 (art. 82, lett. b, d ed e) nonché l’incompetenza dell’organo procedente.
Il provvedimento sanzionatorio sarebbe illegittimo in quanto emanato senza la preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia integrata per i Beni Ambientali istituita presso il Comune ex L.reg. n. 10/1982. L'art. 82 del D.P.R. n. 616/1977 cit. avrebbe, infatti, delegato alle Regioni "...f) l'adozione dei provvedimenti di demolizione e la irrogazione delle sanzioni amministrative ..." in materia di beni ambientali.
In Campania le indicate funzioni sarebbero state trasferite ai Comuni con leggi reg. 54/1980 e 10/1982. Quest'ultima, in particolare, nell'indicare le direttive per l'esercizio delle funzioni subdelegate, avrebbe previsto la formazione di una Commissione Integrata alla quale "è attribuito il compito di esprimere parere in merito alle materie sub-delegate di cui all'art. 82, comma 2°, lett. 3), D), e F)".
V.3.1. Il motivo è infondato.
V.3.2. Orbene, secondo condiviso indirizzo giurisprudenziale, “In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere abusive su area vincolata non è necessario il parere della commissione edilizia integrata, ciò in quanto l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio” (TAR Campania, Napoli, sez. VI, 16/04/2021, n. 2420; Cons. di St., sez. II, 17/02/2021, n. 1452).
Peraltro, “In tali casi, l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è in re ipsa, poiché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici e ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa” (TAR Lazio, Roma, sez. II, 12/04/2021, n. 4253; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 03/05/2017, n. 2322) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione. “In quella sede, le parti ben potranno dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione.
Il dato testuale della legge, a tal proposito, è univoco e insuperabile, in coerenza con il principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso.
Non appare, tuttavia, ultroneo evidenziare che “Soltanto nel caso di opere realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio, può trovare applicazione la fiscalizzazione dell'abuso edilizio, consistente nella sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria può trovare applicazione; non essendovi, di contro, alcuno spazio per l'applicazione della norma in caso di totale carenza del titolo edilizio”.
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V.4. Con il quarto motivo di ricorso la parte lamenta la violazione dell’art. 34, comma 2, D.P.R. 380/2001, laddove dispone che “in subordine, ovvero nel caso in cui la demolizione arrechi pregiudizio alle parti conformi al titolo edilizio, è possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria, che rimane pertanto assoggettata alla valutazione di natura tecnico-edilizia-strutturale del dirigente o responsabile dell'ufficio comunale preposto”.
V.4.1. Nel caso di specie risulterebbe palese il pregiudizio che si arrecherebbe alla parte ricorrente in caso di demolizioni delle opere eseguite, dato che gli immobili risulterebbero attualmente abitati dai rispettivi nuclei familiari, sicché l’abbattimento delle sole parti intimate nell’ordinanza arrecherebbe non solo un «pregiudizio funzionale», ma anche di un «pregiudizio strutturale», ancorché incidente sulla staticità della rimanente porzione, evitabile soltanto a seguito di interventi costosi e sproporzionati rispetto al valore del bene, divenendo indispensabile una completa trasformazione dell’assetto distributivo ed impiantistico della porzione rimanente.
V.4.2. La censura è infondata.
VI.4.3. La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere, infatti, valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione. “In quella sede, le parti ben potranno dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione” (Cons. di St., sez. VI, 12/05/2020, n. 2980; TAR Marche, Ancona, sez. I, 26/01/2021, n. 62).
Il dato testuale della legge, a tal proposito, è univoco e insuperabile, in coerenza con il principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso” (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 29/10/2018, n. 6337).
Non appare, tuttavia, ultroneo evidenziare che “Soltanto nel caso di opere realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio, può trovare applicazione la fiscalizzazione dell'abuso edilizio, consistente nella sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria può trovare applicazione; non essendovi, di contro, alcuno spazio per l'applicazione della norma in caso di totale carenza del titolo edilizio” (TAR Campania, Napoli, sez. II, 04/05/2020, n. 1635) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.08.2021 n. 5628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2021

URBANISTICALottizzazione, sindacati non sovrapponibili.
In tema di lottizzazione abusiva ex art. 30, dpr 380/2001, il sindacato del giudice amministrativo non è completamente sovrapponibile a quello svolto dal giudice penale relativamente alla fattispecie criminosa di cui all’art. 44 dello stesso dpr, che, seppure in ipotesi avente ad oggetto i medesimi fatti storici, mira ad accertare la responsabilità penale dell’imputato con le relative conseguenze sulla sua libertà personale e,  pertanto, sul piano processuale esige la dimostrazione della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.

In tal senso, il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza 19.07.2021 n. 5403.
Nel dirimere una controversia avente ad oggetto l'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 30, dpr 380/2001 per le ipotesi di lottizzazione abusiva, contestate dal ricorrente per la ritenuta inidoneità delle condotte a provare l'intento illecito e la destinazione a scopo edificatorio, il consiglio di stato ha avuto modo di precisare come il processo amministrativo abbia ad oggetto un provvedimento amministrativo e miri a verificarne la legittimità, compendiabile nella
verifica della veridicità dei fatti materiali posti a fondamento e nella logicità e congruenza della decisione rispetto ai detti presupposti. Processo amministrati vo e processo penale, di conseguenza, procedono su bi nari paralleli: il giudizio penale ha riguardo alla responsabilità dell’imputato (e, per l'effetto, alla confisca del bene), mentre il giudizio amministrativo attiene alla legittimità del provvedimento disposto dall’amministrazione, del quale l’acquisizione dell’area è semplicemente una conseguenza automatica.
Il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza, invocabile per censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale circa l’elemento psicologico dell’illecito contestato, conclude quindi la sentenza, può al più essere speso per contestare l’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica di cui all’art. 44, dpr 380/2001, ma non per contestare la sanzione amministrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del comune ex art. 30, comma 8, dpr 380/2001, in quanto atto vincolato (articolo ItaliaOggi del 15.10.2021).

EDILIZIA PRIVATASecondo la prevalente e condivisibile giurisprudenza, “il provvedimento di repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della P.A., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera descrizione e rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con l'interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”.
La giurisprudenza osserva che “l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare, né l'interessato può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi”.
Peraltro, la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato espressamente sancisce che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongano la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”.
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11.3. E’, inoltre, infondato il terzo motivo di ricorso atteso che, secondo la prevalente e condivisibile giurisprudenza, “il provvedimento di repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della P.A., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera descrizione e rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso, che è in re ipsa, con l'interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 20.07.2011, n. 4254; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 07.09.2009, n. 5229; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14.05.2007, n. 2441; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29.05.2006, n. 3270)” (TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. II, 21.01.2019, n. 291; nella giurisprudenza della Sezione, cfr.: TAR per la Lombardia – sede di Milano, Sez. II, 12.12.2019, n. 2660).
La giurisprudenza osserva che “l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare, né l'interessato può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi” (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; Consiglio di Stato, sez. V, 27.04.2011, n. 2497; Consiglio di Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 79).
Peraltro, la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato espressamente sancisce che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongano la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 17.10.2017 n. 9; nella giurisprudenza della Sezione, cfr., ex aliis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, ordinanza 02.05.2019, n. 510; Id., 05.07.2021, n. 1650) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.07.2021 n. 1764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; ciò comporta altresì il permanere della facoltà di provvedere espressamente.
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Per quanto poi riguarda il preliminare verificarsi del silenzio-rigetto, assume rilievo dirimente il principio (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3417) per cui il silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; ciò comporta altresì il permanere della facoltà di provvedere espressamente, nella specie esercitata ragionevolmente, anche a fronte del supplemento istruttorio svolto dall’amministrazione (cfr. istanza di integrazione del 12.02.2013) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.07.2021 n. 5251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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Al riguardo si legga anche:
  
● T. Facciolini, Sanatoria, il potere della P.A. di provvedere non cessa al decorso dei 60 giorni (14.04.2022 - link a https://rivista.camminodiritto.it).
...
Con sentenza sentenza numero 5251 del 2021, il Consiglio di Stato ha stabilito il principio secondo cui il silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; ciò comporta, altresì, il permanere della facoltà di provvedere espressamente anche a fronte del supplemento istruttorio svolto dall’amministrazione.
...
Sommario: 1. La sanatoria ordinaria e la sanatoria straordinaria: i presupposti e le finalità; 2. La fiscalizzazione degli abusi edilizi; 3. La sentenza numero 5251 del 2021 del Consiglio di Stato.

giugno 2021

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Autorizzazione paesaggistica illegittima – Macroscopica illegittimità – Poteri-doveri del giudice.
Il reato di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, analogamente a quello di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, è configurabile non solo quando i lavori sono eseguiti senza autorizzazione paesaggistica, ma pure quando sono realizzati sulla base di un’autorizzazione paesaggistica illegittima.
Tanto premesso bisogna ritenere che sussista la configurabilità del reato di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, allorquando l’autorizzazione paesaggistica sia stata rilasciata per un intervento edilizio la cui realizzazione determina –in modo macroscopico– un volume superiore a quello consentito dalla disciplina urbanistica.
Sicché, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità della autorizzazione paesaggistica, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, in quanto il suo esame riguarda solo l’integrazione o meno della fattispecie penale con riferimento all’interesse sostanziale tutelato, e rispetto a tale fattispecie «gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva».

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati edilizi/paesaggistici – Configurabilità di concorso formale dei reati – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Inapplicabilità del divieto del bis in idem – Art. 649 cod. proc. pen..
Tra le contravvenzioni previste dall’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 è configurabile un’ipotesi di concorso formale di reati, con la conseguente inapplicabilità del divieto del bis in idem stabilito dall’art. 649 cod. proc. pen., attesa la diversa obiettività giuridica e la diversa condotta punita.
Questa, infatti, va individuata, nel reato edilizio, nella esecuzione di un’opera senza permesso di costruire posta a prevalente tutela dell’assetto urbanistico e, nel secondo, senza la autorizzazione della competente sovrintendenza prevista a tutela, prevalentemente, del patrimonio artistico, storico e archeologico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione di lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la "macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione essenziale per l'oggettiva configurabilità del reato.
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E'
configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia colposamente espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo, in tal modo apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione dell'evento illecito.
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8. Manifestamente infondate, di seguito, sono anche le censure relative alla configurabilità dell'art. 44 in esame sotto il profilo soggettivo, esposte ancora negli atti da ultimo citati, i quali contestano l'affermazione della colpevolezza per l'opinabilità del quadro normativo e la diffusa prassi amministrativa.
8.1. La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione di lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la "macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione essenziale per l'oggettiva configurabilità del reato (così Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice, Rv. 275565, nonché, in termini sostanzialmente identici, Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, Cerra s.r.I., Rv. 275850).
8.2. Nella specie, la sentenza impugnata ha ravvisato la sussistenza dei reati edilizio (e paesaggistico) a fronte di una macroscopica violazione della disciplina, realizzata impiegando l'istituto della cessione di cubatura per eludere elementari principi in materia urbanistica e, in particolare, per incrementare la volumetria assentibile, in spregio dei vincoli, in zona di sicuro pregio ambientale (zona dichiarata di notevole interesse pubblico, proprio per le sue caratteristiche).
8.3. Ebbene, si tratta di una conclusione immune da vizi, a maggior ragione se si considera che l'illegittimità del ricorso all'istituto della cessione di cubatura, per difetto del requisito della "reciproca prossimità" tra i fondi, già all'epoca del rilascio del permesso di costruire (2011) era stata a più riprese affermata dalla giurisprudenza amministrativa (si richiamano le decisioni Cons. Stato, Sez. 5, n. 400 del 01/04/1998; Cons. Stato, Sez. 5, n. 1172 del 03/03/2003; Cons. Stato, Sez. 5, n. 6734 del 30/10/2003).
9. Con riguardo, poi, alle posizioni dei singoli ricorrenti, queste conclusioni valgono per certo nei confronti di Ca., Pe. e Ri., tecnici esperti della materia (il primo quale progettista, il secondo come responsabile del procedimento ed il terzo come tecnico comunale che aveva rilasciato il permesso di costruire n. 122/2011).
A questo proposito, peraltro, non possono essere ammesse le doglianze sollevate da Ri. e Pe. con il primo motivo, nel quale sostengono di non aver ricoperto il ruolo di responsabile del procedimento edilizio (Ri.) o paesaggistico (R. e Pe.), così come di non aver rilasciato il permesso di costruire (Ri.), né l'autorizzazione paesaggistica (Ri. e Pe.); queste censure, infatti, si fondano su profili di puro merito, propri della sola fase della cognizione e non proponibili innanzi alla Corte di legittimità, specie in assenza di adeguata allegazione documentale.
Deve ritenersi acquisito, dunque, il dato obiettivo riportato nella sentenza, in forza del quale il permesso di costruire illegittimo -documento cardine per la consumazione delle contravvenzioni ex capi A) e B)- era stato rilasciato dal Pe., all'esito di un procedimento del quale era stato responsabile il Ri.. 
Con riguardo a quest'ultimo, peraltro, non può accogliersi neppure la tesi secondo la quale, quand'anche riscontrata la carica formale, l'istruttoria non avrebbe comunque dimostrato alcun ruolo sostanziale nell'emissione del provvedimento; deve qui ribadirsi, infatti, che è configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia colposamente espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo, in tal modo apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione dell'evento illecito (tra le altre, Sez. 3, n. 7765 del 07/11/2013, Benigni, Rv. 258300; Sez. 3, n. 8225 del 18/12/2020, Pettina+altri, non massimata).
E che, nel caso di specie, il responsabile del procedimento Ri. avesse espresso parere favorevole, il 19/10/2010, lo afferma lo stesso ricorso (pag. 5) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA: In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico ufficiale che emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune, in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento.
Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo del medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame.
In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione della permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci.
Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma dell'art. 110 cod. pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la Relazione al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il fatto sia oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il legame, invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una associazione di cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle soluzioni accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo l'indirizzo più rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento dell'ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione dei manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, della irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, e della rilevanza, invece, di quello di consumazione del  reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo.
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta edificatoria dei concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e soltanto per i singoli acquirenti che non hanno dato causa alla lottizzazione la permanenza cessa con la conclusione della attività da ognuno di essi posta in essere sul proprio lotto.
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività edificatoria con il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare che anche nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data dell'ultimazione dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi.
In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Anche in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene extraneus rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa, sono applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di legittimità, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado, quando la contestazione è di natura "aperta".
Con la conclusione che, anche con riferimento a questa contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale secondo cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale.
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13. Manifestamente infondate, di seguito, sono peraltro anche le censure riguardanti il concorso dei pubblici ufficiali nel reato edilizio e nel reato paesaggistico, esposte nei ricorsi Ri. e Pe., che contestano sia la configurabilità della responsabilità concorsuale per detti reati a carico dei soggetti responsabili del rilascio del permesso di costruire, sia l'affermazione della persistenza della condotta illecita dei medesimi anche dopo il momento del rilascio di tale titolo autorizzatorio.
13.1. In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico ufficiale che emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
13.2. In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune, in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento (cfr., per la soluzione affermativa, Sez. 3, n. 4911 del 14/07/2016, Scarpa, Rv. 269260, e Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D'Ascanio, Rv. 228888, nonché, per la tesi opposta, Sez. 3, n. 5439 del 25/10/2016, Colasante, Rv. 269247, e Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785).
13.3. Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo del medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame (così, testualmente, sia Sez. 3, n. 5439 del 2017, Colasante, cit., sia Sez. 3, n. 9281 del 2011, Bucolo, cit.; cfr. ancora, nel senso della configurabilità del concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D'Alterio, con riferimento ad un componente della commissione edilizia).
13.4. In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione della permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci (così, tra le tante, Sez. 3, n. 13607 del 08/02/2019, Martina, Rv. 275900, e Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498).
13.5. Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma dell'art. 110 cod. pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la Relazione al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il fatto sia oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il legame, invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una associazione di cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
13.6. In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle soluzioni accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo l'indirizzo più rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento dell'ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione dei manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, della irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, e della rilevanza, invece, di quello di consumazione del  reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo' (Sez. 3, n. 48346 del 20/09/2017, Bortone, Rv. 271330, e Sez. 3, n. 35968 del 14/07/2010, Rusani, Rv. 248483).
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta edificatoria dei concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e soltanto per i singoli acquirenti che non hanno dato causa alla lottizzazione la permanenza cessa con la conclusione della attività da ognuno di essi posta in essere sul proprio lotto (cfr. in questo senso, in particolare, Sez. 3, n. 20671 del 20/03/2012, D'Alessandro, Rv. 252914, e Sez. 3, n. 1966 del 05/12/2001, Venuti, Rv. 220853).
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività edificatoria con il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare che anche nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data dell'ultimazione dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi.
14. In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
14.1. Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Anche in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene extraneus rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa, sono applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
14.2. Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di legittimità, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado, quando la contestazione è di natura "aperta" (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n. 43173 del 05/07/2017, Zanella, Rv. 271336, e Sez. 3, n. 30130 del 30/03/2017, Dinnella, Rv. 270254).
14.3. Con la conclusione che, anche con riferimento a questa contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale secondo cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale.
14.4. Facendo applicazione dei canoni indicati, risulta dunque corretta l'affermazione di responsabilità penale di Ri., Pe. e Ca. anche per il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Quanto, invece, a Sc., si richiamano le stesse considerazioni già espresse in ordine alla contravvenzione sub A), non riscontrandosi una diversa o più approfondita motivazione sulla diversa fattispecie paesaggistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Provvedimento amministrativo illegittimo – Concorso del pubblico ufficiale nei reati urbanistici, edilizi e paesaggistici – Presupposti – Permanenza e cessazione del reato – Giurisprudenza.
Si configura il reato del pubblico ufficiale nell’ipotesi di concorso commissivo nella fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che l’extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa) (si veda, Cass. Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D’Alterio, sulla configurabilità del concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato “proprio” di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, con riferimento ad un componente della commissione edilizia).
Di conseguenza, anche la permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento dell’attività edificatoria cessa con l’ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci.

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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Reato di falso ideologico – Responsabile dell’ufficio tecnico competente (dirigente o responsabile dell’UTC) – Posizione di garanzia – Obbligo di impedire l’evento – Limiti ai criteri di valutazione ed attività è assolutamente discrezionale – Rilascio di autorizzazione paesaggistica.
Il reato di falso si configura con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell’ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l’accoglimento della relativa domanda, essendo l’organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Sicché, è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l’atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa, dunque, si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Come peraltro è stato evidenziato in una vicenda del tutto simile, nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
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15. Del tutto infondate, infine, sono le censure che attengono alla configurabilità, sotto il profilo oggettivo, del reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, di cui all'art. 481 cod. pen., per come riqualificata l'originaria imputazione di cui all'art. 479 cod. pen.
15.1. Il reato di falso ideologico è stato ritenuto sussistente dai Giudici del merito in relazione al permesso a costruire, rilasciato da Ri. e Pe. nei termini richiamati, laddove questi hanno attestato la compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio -descritto nella relazione paesaggistica, allegata all'istanza redatta dal tecnico Ca. (e recepita nel permesso di costruire)- per effetto dell'illegittimo accorpamento di fondi non contigui e, dunque, atti ideologicamente falsi perché fondati su falsi presupposti per la sua emanazione.
15.2. Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato (Sez. 3 n. 46239 del 12/07/2018, Rv. 274207; Sez. 3, n. 38838 del 09/07/2018, Morciano, non mass.; Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017, Colella ed altri, non massimata, Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953), che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa, dunque, si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Morciano e altri, non mass.; Sez. 3, n. 52605 del 04/10/2017, Renna, non mass.; Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (cfr. anche Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Come peraltro è stato evidenziato in una vicenda del tutto simile (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, cit. e Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata), nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
15.3. Tanto premesso in generale, la Corte territoriale ha condiviso e seguito l'indirizzo qui riportato, così ritenendo che il provvedimento edilizio rilasciato da Ri. e Pe. fosse fondato su presupposti paesaggistici falsi, contenuti nella relazione redatta dal Ca., come tale anch'essa falsa.
15.4. In particolare, il Giudice di appello ha verificato che gli imputati avevano attestato la compatibilità ambientale di un intervento avente una volumetria superiore a quella sviluppabile dal fondo interessato all'edificazione, senza alcun riferimento alla sussistenza dei presupposti legittimanti l'accorpamento di fondi, sebbene non contigui, anzi avallando esplicitamente la piena legittimità dell'applicazione dell'istituto al fine di conseguire l'aumento geometrico della volumetria assentibile nell'area interessata all'edificazione.
Consegue, sempre secondo la sentenza impugnata, che proprio l'omessa considerazione in tutti gli atti della pratica edilizia, sia riconducibili al tecnico "privato" sia a quello comunale, delle condizioni di legittimità dell'accorpamento ed anzi l'esplicito avallo della legittimità di tale istituto era compatibile esclusivamente con la scelta, preordinata consapevole e condivisa, di realizzare l'opera in zona agricola con l'indicazione di dati ed informazioni apparentemente veridiche ma, in realtà, frutto di mistificazione degli elementi fattuali al fine di esprimere valutazioni conclusiva platealmente false.
15.5. E' dunque evidente che la valutazione di compatibilità ambientale espressa nell'autorizzazione paesaggistica era fondata su presupposti contrastanti con i parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento edilizio realizzato, previa cessione di cubatura in favore di un fondo agricolo su fascia costiera, illegittimo non essendo i fondi contigui, parametro che viene in rilievo sia ai fini del rispetto degli strumenti urbanistici che ai fini ambientali e sul giudizio di valorizzazione del sito.
15.6. La maggior volumetria del manufatto da realizzare in zona agricola e di pregio, per effetto dell'illegittimo accorpamento di fondi non confinanti, l'assenza di un intervento volto alla realizzazione di aziende agricole e finalizzato allo sviluppo e al recupero del patrimonio produttivo, la realizzazione di una civile abitazione, costituivano i dati maggiormente significativi sulla scorta dei quali doveva essere formulato il giudizio di compatibilità (anche) paesaggistica, di talché debbono ritenersi falsi i provvedimenti che si esprimono su tali basi in contrasto con i parametri normativi.
Sia l'attestazione paesaggistica che il permesso a costruire erano, così, la diretta conseguenza dei falsi parametri contenuti nella relazione paesaggistica redatta dal Ca., e come tale anch'essa falsa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832).

maggio 2021

EDILIZIA PRIVATA: Per verificare eventuali abusi edilizi, il comune non ha la possibilità di eseguire coattivamente gli accessi agli edifici interessati in assenza di autorizzazione dell’A.G..
Circa la necessità del nulla osta dell’autorità giudiziaria, basti rammentare che l’art. 14 Cost. sancisce l’inviolabilità del domicilio, presso il quale l’esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4, esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata dimora”, volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto.

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1. La signora Su.Ve. agisce in veste di procuratrice generale dei propri genitori, signori Ra.Ve. e Pi.Mi., i quali sono proprietari e condomini di alcuni fabbricati ubicati in Poggibonsi, alla via ....
Ella espone di aver presentato al Comune di Poggibonsi, nella medesima veste, un’istanza di accesso contenente altresì la denuncia di una cospicua serie di abusi edilizi che sarebbero stati commessi in danno dei predetti fabbricati da altri condomini, ovvero dai proprietari di immobili confinanti.
L’istanza-denuncia è stata protocollata dal Comune il 19.10.2020. Non avendo ottenuto riscontro, il 10.12.2020 la signora Ve. si è rivolta al segretario comunale per sollecitare l’attivazione dei poteri sostitutivi disciplinati dall’art. 2, co. 9-bis e 9-ter, della legge n. 241/1990.
Con la nota del 21.12.2020, in epigrafe, il segretario comunale ha tuttavia rifiutato di intervenire, sul presupposto che la mancata definizione dei procedimenti sanzionatori degli abusi in questione, avviati sin da epoca precedente alla presentazione dell’istanza-denuncia, sarebbe dipesa dalla necessità di fare accesso ai luoghi interessati dalle opere asseritamente illegittime, attività necessitante dell’assenso dell’autorità giudiziaria, chiesto dal Comune e non ancora pervenuto.
Tanto premesso in fatto, la ricorrente affida a un unico motivo in diritto le proprie doglianze avverso la condotta serbata nell’occasione dal Comune di Poggibonsi e dai suoi funzionari, e conclude per l’accertamento dell’illegittimità della ricordata nota del 21.12.2020, nonché dell’obbligo del Comune di concludere con provvedimento espresso il procedimento avviato a seguito dell’istanza-denuncia del 18.10.2020.
La signora Ve. chiede altresì accertarsi se effettivamente sussistesse la necessità per il Comune di rivolgersi all’autorità giudiziaria per accedere ai luoghi oggetto dell’istruttoria e, comunque, condannarsi l’amministrazione procedente a concludere il procedimento di vigilanza edilizia entro un preciso termine. 
...
2.2. Residua, nondimeno, l’interesse della signora Ve. a sentire accertata, se non altro ai fini della pronuncia sulle spese processuali, l’ammissibilità e la fondatezza della domanda.
Quanto al primo aspetto, le conclusioni spiegate in ricorso ai punti da 1 a 5 afferiscono tutte all’accertamento della presunta, ingiustificata, violazione del termine massimo di durata del procedimento e non eccedono, pertanto, i confini dell’azione contro il silenzio.
Nondimeno, il ricorso non può essere favorevolmente delibato nel merito.
L’art. 3 del regolamento comunale sul procedimento amministrativo del 1997 stabilisce in sessanta giorni il termine massimo di durata del procedimento. La chiara espressione utilizzata dalla norma (secondo la quale il termine stesso, ove non risultante dalla tabella allegata al regolamento, “deve intendersi non superiore a sessanta giorni”) non lascia spazio ad alcuna incertezza.
Ne consegue che la sollecitazione ad attivare i poteri sostitutivi, rivolta dalla ricorrente al segretario comunale prima che il termine suddetto fosse trascorso, è da considerarsi prematura.
In disparte gli aspetti formali, nessun ritardo può peraltro essere imputato al Comune di Poggibonsi nella complessiva gestione del procedimento.
Come risulta dalla documentazione di causa, è del 17.11.2020 la PEC trasmessa dalla Polizia Municipale di Poggibonsi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena per chiedere l’autorizzazione ad effettuare l’accesso agli edifici interessati dagli abusi edilizi segnalati dalla ricorrente sin dal luglio del 2020 e, di nuovo, con l’istanza-denuncia del 19.10.2020 in esame.
La richiesta dell’autorizzazione si era resa necessaria a fronte dell’opposizione manifestata dai proprietari degli edifici da ispezionare onde verificarne la regolarità urbanistico-edilizia, trattandosi di luoghi di privata dimora.
Il nulla osta all’accesso è stato infine rilasciato dalla Procura della Repubblica il 07.03.2021, a seguito di ulteriore istanza del Comune, che, una volta eseguiti gli accessi e completate le proprie verifiche, ha celermente definito i procedimenti sanzionatori con le ordinanze del 09.04.2021, di cui si è detto.
Circa la necessità del nulla osta dell’autorità giudiziaria, basti rammentare che l’art. 14 Cost. sancisce l’inviolabilità del domicilio, presso il quale l’esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4, esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata dimora”, volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 24.03.2005, n. 6361).
Non importa poi stabilire se il nulla osta rilasciato dalla Procura della Repubblica di Siena nel marzo 2021 integri l’autorizzazione richiesta dalla legge (la questione potrebbe, semmai, rilevare nei rapporti tra il Comune e i proprietari degli immobili oggetto di ispezione, ovvero nel procedimento penale a carico di costoro). Quel che conta è che il Comune di Poggibonsi non aveva la possibilità di eseguire coattivamente gli accessi in assenza di autorizzazione dell’A.G. e che, una volta ottenuta l’autorizzazione nelle forme descritte, l’accesso è stato consentito dai proprietari interessati e il procedimento sanzionatorio, inevitabilmente rimasto sospeso sino a quel momento, è stato portato a conclusione (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.05.2021 n. 717 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEffetti della presentazione di una istanza di accertamento di conformità su un procedimento sanzionatorio già avviato e sul processo.
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Edilizia – Abusi - Accertamento di conformità - Ingiunzione a demolire – Condono - Procedimento sanzionatorio.
  
Edilizia – Sanatoria – Silenzio-rifiuto – Successivo provvedimento – Possibilità.
  
L’avvenuta presentazione di un’istanza di accertamento di conformità, quando sia già stato instaurato un procedimento sanzionatorio, concretizzatosi nell’adozione di un’ingiunzione a demolire, fa sì che questa perda efficacia solo temporaneamente, ossia per il tempo strettamente necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento di sanatoria ordinaria, con la conseguenza che, ove questa non venga accolta, il procedimento sanzionatorio riacquista efficacia senza la necessità, per l’amministrazione, di riadottare il provvedimento.
Tale mancato accoglimento non impone, peraltro, la successiva riadozione dell’atto demolitorio, con ciò attribuendo al privato, destinatario dello stesso, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa, quel medesimo provvedimento (1)
  
Il regime di silenzio-rifiuto previsto in materia di sanatoria ordinaria di abusi edilizi non preclude un provvedimento tardivo di diniego espresso, che può essere impugnato anche con atto di motivi aggiunti (2).
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   (1) La Sezione ha affrontato il problema degli effetti dell’avvenuta presentazione di una domanda di sanatoria sul procedimento sanzionatorio; sul punto rileva l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in punto di diritto, seppure con differenti sfumature argomentative: a fronte di un indirizzo per cui la presentazione della domanda implica ex se l’inefficacia tout court dell’ordine di demolizione (e degli atti che ne conseguono), con obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi nuovamente sull’illecito edilizio sottostante (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2020, n. 1540; id. sez. II, 10.08.2020, n. 4982; id. 20.12.2019, n. 8637; C.g.a. 15.05.2018, n. 271), vi è infatti un’altra corrente giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della inefficacia solo temporanea dell’atto, con sua conseguente “riespansione” all’esito della definizione del procedimento di sanatoria, ovvero di maturazione del termine legalmente stabilito per la sua definizione (in tal senso, fra le molte, Cons. Stato, sez. II, 19.02.2020, n. 1260; id. 13.06.2019, n. 3954; id., sez. VI, 01.03.2019, n. 1435; id. 11.10.2018, n. 1171).
Sul piano processuale, la prima opzione si risolve nella necessaria declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnativa dell’ordinanza a demolire, a seconda che la richiesta di sanatoria sia intervenuta prima o dopo la proposizione della stessa, laddove la seconda implica la possibilità di scrutinare l’atto nel merito.
La Sezione pone a base della propria soluzione conciliativa la ricostruzione delle differenze, di regime giuridico e sostanziali, tra tipi di sanatoria. L’accertamento di conformità “determina soltanto un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, che opera in termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell’istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l’ordine di demolizione riacquista la sua piena efficacia” (Cons. Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669).
La soluzione opposta opera invece in caso di condono, sia perché le leggi di riferimento sono chiare in tal senso, sia perché all’Amministrazione è richiesto un controllo più penetrante attinente, appunto, la “condonabilità” di un abuso “sostanziale”, ovvero contrastante con la disciplina urbanistica.
   (2) L’art. 36, comma 3, del T.U.E. fissa in 60 giorni il termine entro il quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi con adeguata motivazione su un’istanza di accertamento di conformità, decorsi il quale la richiesta si intende rifiutata. Secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di aderire, tale silenzio ha un valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (Cons. Stato, sez. IV, 01.02.2017, n. 410; id. 06.06.2008, n. 2691).
La norma, al pari della sua omologa del 1985, non prevede il rilascio del permesso di costruire in sanatoria oltre tale termine di 60 giorni, “ma non dispone espressamente che il decorso del termine ivi indicato rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento e specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle opere” (Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4574).
In mancanza, tuttavia, di un’esplicita prescrizione di decadenza, la decorrenza del termine di sessanta giorni non consuma il potere dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza. In subiecta materia l’ipotesi di silenzio-significativo è stata dettata infatti nell’interesse precipuo del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita tutela giurisdizionale. Il successivo, eventuale atto espresso di diniego, impugnabile con motivi aggiunti, non è inutiliter datum, posto che il relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo, ma comunque, come più volte ricordato, nel rispetto della disciplina urbanistica.
Di converso, il terzo (a qualunque titolo) controinteressato non è leso dal fatto che, dopo un iniziale contegno inerte, l’Amministrazione in seguito provveda all’accoglimento dell’istanza con atto espresso: a prescindere dal fatto che, maturato il silenzio-rigetto, il terzo che ne abbia interesse può compulsare il Comune affinché adotti i conseguenti provvedimenti sanzionatori, contro l’eventuale accoglimento espresso sopravvenuto il terzo può insorgere in via giustiziale o giurisdizionale e lamentare non un inesistente vizio di tardività, ma eventuali illegittimità sostanziali ostative al positivo riscontro dell’istanza, il cui accoglimento, in presenza dei presupposti di legge, ha natura vincolata (
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 06.05.2021 n. 3545 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Nel merito, l’appello è infondato.
8. Elemento essenziale della controversia è l’inquadramento delle conseguenze dell’avvenuta presentazione di un’istanza di sanatoria sul procedimento sanzionatorio per l’originario intervento illecito, vuoi che esso si sia già concretizzato, come nel caso di specie, nell’adozione dell’ingiunzione a demolire, vuoi che il Comune non abbia ancora provveduto al riguardo.
Il Collegio non può disconoscere la presenza al riguardo di un contrasto giurisprudenziale in punto di diritto, seppure con differenti sfumature argomentative, di cui è traccia anche all’interno della Sezione. Segnatamente, a fronte di un indirizzo per cui la presentazione della domanda implica ex se l’inefficacia tout court dell’ordine di demolizione (e degli atti che ne conseguono), con obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi nuovamente sull’illecito edilizio sottostante (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2020, n. 1540; sez. II, 10.08.2020, n. 4982; id., 20.12.2019, n. 8637; C.G.A.R.S., 15.05.2018, n. 271), vi è un’altra corrente giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della inefficacia solo temporanea dell’atto, con sua conseguente “riespansione” all’esito della definizione del procedimento di sanatoria, ovvero di maturazione del termine legalmente stabilito per la sua definizione (in tal senso, fra le molte, Cons. Stato, sez. II, 19.02.2020, n. 1260; id., 13.06.2019, n. 3954; sez. VI, 01.03.2019, n. 1435; id., n. 5854 del 2018 e 11.10.2018, n. 1171).
Sul piano processuale, la prima opzione si risolve nella necessaria declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnativa dell’ordinanza a demolire, a seconda che la richiesta di sanatoria sia intervenuta prima o dopo la proposizione della stessa, laddove la seconda implica la possibilità di scrutinare l’atto nel merito, siccome effettuato dal TAR per la Liguria nella sentenza impugnata.
8.1. Tali divergenze si riscontrano specularmente anche nei Tribunali territoriali, con la conseguenza, quanto meno inopportuna, di effetti conformativi differenti da Regione a Regione, spesso stigmatizzati dalla dottrina di settore.
Sempre allo scopo di correttamente inquadrare la strategicità della tematica nelle politiche di governo del territorio, e limitando i richiami ai pronunciamenti più recenti, si può dunque ricordare come si sono espressi reiteratamente nel senso della definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito di presentazione dell’istanza di sanatoria il TAR per la Toscana, il TAR per la Lombardia, il TAR per il Molise e il TAR per la Campania, sede di Salerno; per contro, propendono per la temporanea sospensione dell’esecuzione del provvedimento, il medesimo TAR per la Campania, sede di Napoli e il TAR per il Lazio.
Si trova dunque affermato che «la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 140 della L.R. n. 1/2005, successivamente all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere inefficace il pregresso provvedimento di demolizione, in quanto il necessario riesame dell’abusività o meno dell’opera obbliga l’Amministrazione ad una nuova valutazione della situazione di abusività che impatta sulla precedente ordinanza di demolizione (emanata, appunto, sul presupposto dell’illegittimità dell’opera), rendendola inefficace; pertanto, anche nel caso in cui l’accertamento ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 o ex art. 140 della L.R. n. 1/2005 si concludesse negativamente, la P.A. sarà comunque tenuta ad emanare una nuova ordinanza di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere; da ciò consegue che l’interesse a ricorrere del privato proprietario viene traslato, innanzitutto, sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria e, successivamente, sulla nuova ordinanza di demolizione adottata dall’amministrazione in conseguenza al rigetto dell’istanza di sanatoria edilizia» (TAR per la Toscana, sez. III, 21.05.2019, n. 749, successivamente ripresa dalla medesima sezione, 04.02.2021, n. 203).
Può altresì richiamarsi la sentenza del TAR per la Lombardia (sede di Milano, 23.11.2018, n. 2635), che, dopo aver premesso di pronunciarsi «in linea con la consolidata giurisprudenza», ha riferito la lettura data delle norme all’istanza di sanatoria in genere, «sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono», avendo entrambe l’effetto di «rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse».
In senso diametralmente opposto, può ricordarsi quanto deciso dal TAR per il Lazio (sez. II-quater, 01.02.2021, n. 1245), che egualmente richiamando «l’orientamento consolidato della giurisprudenza, pienamente condiviso dal Collegio», ha concluso ricordando come «la presentazione di una istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendovi dunque un’automatica necessità per l’amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. La domanda di accertamento di conformità determina infatti “un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione” (così ex multis e da ultimo: Consiglio di Stato sez. VI, 15.01.2021, n. 488), sicché qualora si formi il silenzio-rigetto per il decorso infruttuoso dei 60 giorni, ai sensi dell’art. 36, comma 3, ovvero l’amministrazione adotti un provvedimento di rigetto espresso, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia».
Infine il TAR per la Campania, sede di Napoli (21.01.2021, n. 469), contraddicendo quanto a suo tempo ritenuto dai giudici della sede staccata di Salerno (sez. I, 15.11.2013, n. 2266) afferma «che l’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia, ma ne sospende soltanto gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che non dovrà essere riesercitato il potere sanzionatorio e che la demolizione, come nella specie, potrà (e dovrà) essere portata ad esecuzione dall’onerato una volta rigettata l’istanza, decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.02.2015 n. 466)».
Al di là, dunque, delle apprezzabili motivazioni e argomentazioni sottese a ciascuna delle richiamate, non è chi non veda come l’effetto pratico delle stesse si risolva in una potenziale gestione a geometria territoriale variabile delle pratiche di sanatoria, con indicazione dell’obbligo di reiterazione del provvedimento demolitorio e conseguente sostanziale remissione nei termini per ottemperare in alcune di esse, laddove ciò risulta almeno di regola sconsigliato in altre.
9. Tanto premesso, il Collegio ritiene necessario chiarire sinteticamente i contorni giuridici della controversia, anche allo scopo di individuare, per quanto possibile, la radice normativa di tali letture contrapposte. Non senza premettere come in realtà le maggiori problematiche, cui il giudice ha tentato di porre rimedio, conseguono alle distorsioni applicative degli uffici, la cui prassi è spesso connotata, soprattutto in ambito urbanistico-edilizio, da eterogeneità gestionali perfino sull’inquadramento terminologico dei singoli interventi (per rimediare alle quali si pensi, da ultimo, all’avvenuta approvazione di un vero e proprio “glossario unico” in attuazione dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 con decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 07.04.2018).
Le lungaggini istruttorie peraltro costituiscono un fattore di criticità spesso portato ad esempio delle difficoltà pratiche connesse all’effettivo utilizzo degli strumenti di semplificazione via via introdotti dal legislatore. La non semplice ricerca di un punto di equilibrio tra la doverosa responsabilizzazione del privato, che deve darsi cura di corredare le proprie istanze con quanto necessario da subito ad attribuire loro consistenza e renderle “esaminabili” dall’Amministrazione e, quale contraltare, l’approccio collaborativo di quest’ultima, si gioca spesso proprio sulla auspicata unicità e tempestività delle richieste di integrazione, evitando la reiterazione dei contatti per il semplice tramite di una valutazione iniziale esaustiva e trasparente (anche a tale riguardo, si veda la novella all’art. 20 del T.U.E. attuata con il d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.09.2020, n. 120, che con riferimento al permesso di costruire ha espressamente previsto che, fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia dei Comuni rilasci anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego).
10. Va ora ricordato come col termine “sanatoria” vengono tradizionalmente intesi due istituti completamente diversi per presupposti e finalità, il cui unico tratto comune è dato dalla circostanza che entrambi si risolvono nella legittimazione di un intervento successiva alla sua realizzazione.
10.1. L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste dunque nella regolarizzazione di abusi “formali”, in quanto l’opera è stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dallo stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda (c.d. “doppia conformità”).
La genesi dell’istituto risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (art. 13), che ha ripreso, ampliandone la portata, la limitata previsione già contenuta nella l. 28.01.1977, n. 10. Prima di allora, già si disquisiva in verità in ordine alla ammissibilità della sanatoria, anche parziale, degli illeciti edilizi, e si era comunque fatto strada l’orientamento in base al quale l’amministrazione poteva rilasciare una licenza postuma per le opere edificate senza o in contrasto con il titolo edilizio, purché conformi allo strumento urbanistico in vigore al momento del rilascio. Oggi la relativa disciplina è stata trasfusa nell’articolo 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U.E.), che prevede un procedimento a domanda di parte, sostituito in alcune Regioni dalla presentazione di una S.C.I.A.
11. La parola “condono”, invece, seppure entrata nell’uso comune, a stretto rigore non figura in alcun testo legislativo, complice una certa ritrosia linguistica ad utilizzare un termine evidentemente evocativo della portata sanante di situazioni “sostanzialmente” illecite, previo pagamento di una sanzione pecuniaria che produce l’effetto di estinguere anche la fattispecie penale identificabile nella relativa costruzione.
In particolare, in Italia si sono succedute tre leggi di condono: la prima è contenuta nei capi IV e V della l. n. 47/1985, e dunque si collocava almeno in un contesto di nuova regolamentazione della materia con l’introduzione di una serie di strumenti dissuasivi per gli abusi futuri; le successive, invece, si inseriscono in testi del tutto eterogenei e per lo più finalizzati ad esigenze di pubblico erario, e si risolvono nella sostanziale estensione del lasso di tempo entro il quale l’abuso doveva essere stato ultimato per poter fruire del beneficio.
Trattasi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 (c.d. “secondo condono”), la cui disciplina procedimentale è stata completata con la l. n. 662 del 1996; nonché dell’art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326, di conversione del d.l. 30.09.2003, n. 269, che ha applicato la disciplina del condono, quale risultante da ridetti capi IV e V della l. n. 47/1985, come modificati dall’art. 39 della l. n. 724/1994, alle opere abusive ultimate entro il 31.03.2003, seppure ponendo l’ulteriore limite che esse non abbiano comportato un ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria originaria o, in alternativa, superiore a 750 metri cubi.
12. Il fatto che le finestre temporali, pure prorogate, per accedere al condono si siano chiuse rispettivamente il 30.11.1985, il 31.03.1995 e il 10.12.2004, non ha comunque reso obsoleto l’istituto: sebbene siano trascorsi alcuni decenni dalla presentazione delle istanze, infatti, non sono pochi i Comuni italiani presso i quali tali pratiche sono ancora in attesa di definizione, cosicché anche questa tipologia di istanza, al pari di quella ordinaria, deve essere tenuta presente in sede di analisi delle sanatorie edilizie.
12.1. L’art. 35, comma 17, della l. n. 47/1985, prevede che «Fermo il disposto del primo comma dell’articolo 40 [rappresentazione dolosamente infedele]e con l’esclusione dei casi di cui all’articolo 33 [contrasto con vincoli nominativamente indicati ], decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento».
Il significato di accoglimento attribuito al silenzio serbato sulle istanze di condono va comunque conciliato con il rilievo che spesso le stesse non presentano neppure i requisiti minimi ovvero sono prive del corredo documentale obbligatorio perché il termine possa perfino cominciare a decorrere. Sul punto, è sufficiente ricordare quanto più volte affermato da questo Consiglio di Stato, ovvero che la completezza della domanda, «sia nel senso del corredo documentale obbligatorio, che avuto riguardo alle somme dovute, incide sia sulla decorrenza del termine per la formazione del silenzio assenso, sia ai fini della riconosciuta possibilità all’Amministrazione di verificare la congruità dei versamenti effettuati» (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 12.04.2021, n. 2952).
Quanto detto non giustifica tuttavia le rilevate giacenze, stante che a maggior ragione a fronte di iniziative inconsistenti sul piano giuridico il Comune dovrebbe determinarsi nel senso dell’archiviazione o del rigetto, anziché attendere una qualche iniziativa compulsiva della parte privata, con ciò riallineando la situazione di diritto a quella di fatto.
13. Ciò a maggior ragione tenuto conto che l’art. 38, comma 1, della legge n. 47 del 1985, prevede espressamente che «La presentazione entro il termine perentorio della domanda di cui all’articolo 31, accompagnata dalla attestazione del versamento della somma di cui al primo comma dell’articolo 35, sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative».
Il successivo art. 44 della medesima legge, precisa poi che dalla sua entrata in vigore e fino alla scadenza dei termini per la presentazione della domanda di condono, «sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché quelli connessi all’applicazione dell'articolo 15 della legge 06.08.1967, n. 765, attinenti al presente capo».
L’indicazione, comprensibile in ragione della particolare incisività del vaglio richiesto all’Amministrazione, finanche con riferimento alla correttezza dell’oblazione sulla base di indicazioni tipologiche tabellari non sempre di immediata applicabilità, in combinato disposto con i ritardi nella definizione delle pratiche, che seppure incomplete non vengono né respinte né compulsate dalle parti, determina una stigmatizzabile procrastinazione di rimozioni comunque ineludibili giusta la natura permanente dell’illecito edilizio.
14. La maggiore laconicità delle indicazioni del legislatore in materia di sanatoria ordinaria, non implica affatto neutralità o disinteresse alla problematica, sì da rendere la lacuna colmabile liberamente dall’interprete. Al contrario, essa sottintende una scelta ben precisa e del tutto diversa da quella -esplicitata- in materia di condono. E’ proprio la natura e l’incisività delle verifiche richieste in un caso e non nell’altro ad imporre le divergenti conclusioni.
La più volte richiamata natura sostanziale dell’illecito, seppure già “colpito” da provvedimento sanzionatorio, ne impone un vaglio di compatibilità con il paradigma normativo a fini di sanatoria. Al contrario, la necessità di istruire la pratica come si trattasse di richiesta di un titolo preventivo, seppure avanzata in maniera postuma, non comporta alcun giudizio di valore, ma solo di astratta conformità e costituisce atto dovuto a condizioni date.
L’illiceità dell’intervento, dunque, nel caso del diniego di condono viene “ribadita” perché se ne è in concreto esclusa la sanabilità; nel caso della sanatoria invece viene semplicemente confermata, perché evidentemente l’opera non rientrava nei canoni della mera irregolarità formale e dunque l’abuso, insanabile al di fuori delle cornici temporali speciali ricordate, aveva natura esso pure sostanziale.
14.1. Vero è che sotto la vigenza dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 la giurisprudenza si era significativamente attestata nel senso che la presentazione della domanda di accertamento di conformità non solo impedisse l’esecuzione dell’ingiunzione, imponendo al Comune il previo esame della domanda di sanatoria, ma implicasse anche la necessità, in caso di rigetto, dell’adozione di una nuova misura demolitoria (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; sez. IV, 12.05.2010, n. 2844).
La conferma, tuttavia, di una disciplina diversificata delle sanatorie conseguita all’entrata in vigore del T.U.E., induce il Collegio ad aderire all’orientamento, anche di recente affermato da altra Sezione del Consiglio di Stato, che vuole distinte le conseguenze giuridiche della presentazione delle relative domande in caso di condono e in caso di accertamento di conformità (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.02.2021, n. 1432).
15. Rileva infine il Collegio come l’istanza di accertamento di conformità spesso consegua proprio all’avvenuto avvio di un procedimento sanzionatorio, stante che la sua proposizione è consentita fino alla «scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1», ovvero fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative (art. 36, comma 1, del T.U.E.). E’ pertanto fisiologico che il relativo procedimento intersechi quello sanzionatorio, che anzi ne costituisce spesso il fattore determinante della decisione, proprio allo scopo di non incorrere nella effettiva demolizione.
In tale ottica, evidenti ragioni di economicità e coerenza dell’azione amministrativa portano a ritenere inevitabile una sospensione temporanea dell’esecuzione del provvedimento demolitorio, ma per il tempo strettamente necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento. Non vi è ragione di ritenere che il mancato accoglimento dell’istanza ne imponga poi la successiva riadozione, con ciò consentendo al privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa, quel medesimo provvedimento.
Quanto detto pone astrattamente l’esigenza, pure prospettata da taluni interpreti, di “azzerare” quanto meno il termine per la demolizione spontanea in caso di diniego, evitando che il privato che si sia attivato allo spirare dei 90 giorni o del diverso termine accordatogli nel provvedimento, si veda soggetto alla grave conseguenza dell’acquisizione del bene al patrimonio pubblico senza un minimo di tempo per mettersi spontaneamente in regola demolendo l’abuso.
L’automatico autonomo dispiegarsi degli effetti dell’ordinanza già emanata, infatti, incide necessariamente anche sulle modalità applicative dell’acquisizione gratuita dell’abuso edilizio, stante che il termine -di 90 giorni o diversamente indicato nel provvedimento- per l’esecuzione spontanea rimane “congelato” soltanto durante la pendenza della pratica di sanatoria, ma nel momento in cui quest’ultima viene rigettata esso riprende automaticamente a decorrere. Va tuttavia ricordato che l’effetto acquisitivo non consegue all’ordinanza ingiunzione a demolire, bensì all’accertamento dell’inottemperanza alla stessa, che per quanto consta nella prassi non avviene mai in maniera meccanicistica alla scadenza del termine, risolvendosi di fatto in una diluizione ulteriore dello stesso.
Di tali anomalie della singola fattispecie, inoltre, potrà -recte, dovrà- farsi carico l’Amministrazione, valutando l’opportunità di una rimessione in termini o dilazione degli stessi, ove ad esempio il diniego, sopravvenuto a distanza di molto tempo, consegua ad interlocuzioni istruttorie ostative alla formazione del silenzio rigetto, e che anche per tale ragione abbiano ingenerato nel privato una legittima aspettativa nel buon esito della pratica. Ciò risponde al dovere delle amministrazioni pubbliche di comportarsi secondo correttezza e buona fede nei rapporti con i cittadini, che come la Sezione ha già avuto modo di rilevare (Cons. Stato, sez. II, 20.11.2020, n. 7237) anche la legislazione ha assecondato progressivamente, inserendone la previsione nella legge fondamentale sul procedimento amministrativo, n. 241 del 1990, a sottolinearne la strategicità (v. comma 2-bis dell’art. 1, rubricato “Principi generali dell’attività amministrativa”, inserito in sede di conversione del già richiamato decreto legge “semplificazioni”).
16. La regola generale per la definizione del procedimento di sanatoria, è, dunque, la sua conclusione in 60 giorni. L’art. 36, comma 3, del T.U.E., infatti, fissa in tale termine quello entro il quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi con adeguata motivazione, decorsi il quale la richiesta si intende rifiutata. Soprattutto in passato si è ampiamente disquisito sulla portata della decorrenza infruttuosa di tale termine sia avuto riguardo ai possibili rimedi accordati alla parte, sia in relazione alla pronuncia negativa tardiva del Comune (v. TAR per il Lazio, sez. II, 08.01.1994, n. 2; TAR per la Lombardia, 30.07.1996, n. 1257; TAR per il Molise, 09.12.1994, n. 327, nel senso che il giudice può statuire solo l’obbligo di provvedere; contra, TAR per le Marche, 18.12.1992, n. 777; TAR per la Sicilia, 14.06.1991, n. 490, che riconoscono un sindacato sul provvedimento tacito).
La questione appare ormai superata da un diffuso orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio ritiene di aderire, in forza del quale il silenzio dell’Amministrazione sulla istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 del testo unico sull’edilizia ha un valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego ( cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 01.02.2017, n. 410; id., 06.06.2008, n. 2691).
16.1. Di fatto, la norma, al pari della sua omologa del 1985, non prevede il rilascio del permesso di costruire in sanatoria oltre il termine di 60 giorni, «ma non dispone espressamente che il decorso del termine ivi indicato rappresenti, sul piano procedimentale, la chiusura del procedimento e specularmente determini, sul piano sostanziale, la definitiva consumazione del potere, con conseguente cristallizzazione della natura abusiva delle opere» (Cons. di Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4574). In mancanza, cioè, di un’esplicita prescrizione di decadenza, la decorrenza del termine di sessanta giorni non consuma il potere dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza.
Per vero, infatti, la previsione in subiecta materia di un’ipotesi di silenzio significativo è stata dettata nell’interesse precipuo del privato, cui è stata in tal modo consentita una sollecita tutela giurisdizionale. Il successivo, eventuale atto espresso di diniego, impugnabile con motivi aggiunti, non è inutiliter datum, posto che il relativo (e doveroso) corredo motivazionale individua le ragioni della decisione amministrativa e consente di meglio calibrare le difese dell’istante che ritenga frustrato il proprio interesse alla regolarizzazione ex post di quanto ex ante realizzato sì sine titulo, ma comunque, come più volte ricordato, nel rispetto della disciplina urbanistica.
Di converso, il terzo (a qualunque titolo) controinteressato non è leso dal fatto che, dopo un iniziale contegno inerte, l’Amministrazione in seguito provveda all’accoglimento dell’istanza con atto espresso: a prescindere dal fatto che, maturato il silenzio-rigetto, il terzo che ne abbia interesse può compulsare il Comune affinché adotti i conseguenti provvedimenti sanzionatori, contro l’eventuale accoglimento espresso sopravvenuto il terzo può insorgere in via giustiziale o giurisdizionale e lamentare non un inesistente vizio di tardività, ma eventuali illegittimità sostanziali ostative al positivo riscontro dell’istanza, il cui accoglimento, in presenza dei presupposti di legge, ha, per vero, natura vincolata.
Ciò non senza ricordare come le norme sui termini, se non incidono sulla validità del provvedimento amministrativo, rappresentano comunque il parametro alla cui stregua vagliare l’esercizio dell’attività amministrativa sotto il profilo della liceità.
17. In sintesi, la domanda di condono sospende per esplicita previsione del legislatore il procedimento sanzionatorio e, laddove sia accolta, determina la definitiva inapplicabilità delle sanzioni. Di conseguenza le eventuali ordinanze demolitorie già emanate, pur non essendo illegittime, perdono la propria efficacia e non possono essere portate in esecuzione. Il tempo necessario alla definizione della pratica, che implica una effettiva valutazione dell’abuso sotto il profilo della rispondenza ai parametri, anche temporali, imposti dalla legge, rende necessario reiterare l’ingiunzione a demolire, che trova il proprio fondamento non più nella abusività originaria dell’opera, quanto piuttosto nella sua non condonabilità.
Questa soluzione è pacifica per la sanatoria straordinaria, anche perché le leggi di condono sono chiare in tal senso. Ciò si riverbera sull’eventuale provvedimento acquisitivo, il quale, se assunto prima della definizione dell’istanza di condono, è illegittimo è suscettibile di annullamento. Si riverbera altresì sul regime processuale, determinando la inammissibilità ovvero improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria eventualmente già adottata, in quanto di fatto caducata (inefficace) dall’avvenuta presentazione della istanza di condono. Diversamente accade per la sanatoria ordinaria.
La presentazione di una istanza di accertamento di conformità, infatti, ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso; non vi è pertanto alcuna automatica necessità per l’amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione. Essa determina soltanto un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, che opera in termini di mera sospensione dello stesso. In caso di rigetto dell’istanza, che peraltro sopravviene in caso di inerzia del Comune dopo soli 60 giorni, l’ordine di demolizione riacquista la sua piena efficacia (cfr. ancora, Consiglio di Stato, sez. VI, 28.09.2020, n. 5669).
18. Volendo ora ricondurre al paradigma sopra delineato la fattispecie in controversia, si ha che l’istanza di sanatoria, presentata l’08.07.2011, ovvero nell’imminenza della scadenza del termine assegnato per demolire l’abuso con ordinanza n. 2 del 09.04.2011, è rimasta sospesa fino all’avvenuta maturazione del silenzio rigetto previsto dall’art. 36, comma 3, del T.U.E.
L’accertamento di inottemperanza, peraltro, lungi dall’essere intervenuto alla scadenza esatta del termine assegnato, consegue ad un sopralluogo in data 04.01.2012, il cui esito, oggetto dell’odierno gravame, è stato notificato alla Società il 17.01.2012. La mancata impugnativa dell’ordinanza ingiunzione a demolire, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, si palesa neutra ai fini dell’odierna discussione, comunque incentrata sugli effetti della stessa, ovvero sull’accertamento della sua inottemperanza.
19. Quanto ai contenuti del richiamato accertamento di inottemperanza, asseritamente generici con riferimento alla esatta individuazione dell’area da acquisire al patrimonio comunale, il Collegio ritiene che tale atto, in quanto normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, si è limitato a formalizzare l’effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l’ingiunzione stessa.
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è infatti una misura di carattere sanzionatorio che consegue all’inottemperanza dell’ordine di demolizione. L’obbligatorietà del provvedimento non esclude tuttavia l’applicazione del principio amministrativo di proporzionalità: il bene da acquisire pertanto non solo deve essere individuato con sufficiente precisione, ma nell’applicazione della sanzione l’amministrazione comunale può acquisire l’area in misura graduata e strettamente necessaria all’obiettivo dell’interesse pubblico perseguito.
Alla luce di tale principio, il Comune di Ameglia valuterà se visto il tempo trascorso dall’ingiunzione a demolire e dall’accertata inottemperanza sia sufficiente riferirsi alla stessa al fine di perfezionare l’iter acquisitivo, inspiegabilmente ancora non concluso, senza che neppure risulti, stante l’assenza dal processo dell’Amministrazione, lo stato attuale della situazione in fatto e in diritto, con quanto potrebbe conseguirne in termini di responsabilità dei funzionari interessati.
20. Per quanto sopra detto, l’appello deve essere respinto e per l’effetto deve essere confermata la sentenza del TAR per la Liguria n. 699 del 2013, con le precisazioni di cui in motivazione (
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 06.05.2021 n. 3545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2021

EDILIZIA PRIVATAIl presupposto per l’adozione di un’ordinanza di demolizione non è l’accertamento di responsabilità nella commissione dell’illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: il soggetto passivo dell’ordine di demolizione viene, quindi, individuato nel soggetto che ha il potere/dovere di rimuovere concretamente l’abuso, potere/dovere (di natura reale) che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta. Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell’ordine di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell’abuso, poiché la stessa disposizione -art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001- si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità.”
In altri termini, nel caso di realizzazione di opere edilizie abusive, è considerato responsabile anche il proprietario, sebbene non in ragione di una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell’illecito edilizio, ma solo in virtù del suo rapporto materiale con la res, gravando su di lui l’obbligo di collaborazione attiva, tra cui rientra senz’altro la rimozione di un abuso edilizio, indipendentemente dal fatto che egli fosse o meno responsabile di tale illecito, atteso che la legge “si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità".
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Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
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Il motivo è infondato.
Nell’atto di provenienza del bene non viene menzionata la presenza di un gazebo, con la conseguenza che la sua realizzazione si deve presumere ad opera dell’acquirente, salvo prova contraria a carico della Sig.ra Ad.Ma., essendo suo onere dimostrare la sua estraneità a qualsiasi titolo -anche solo per averne tacitamente ammesso o tollerato la posa in opera- al compimento dell’abuso.
La Sezione si è già espressa, proprio con riferimento ad un gazebo, (Consiglio di Stato, sez. I, n. 608/2020), nel senso che “il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di demolizione non è l’accertamento di responsabilità nella commissione dell’illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: il soggetto passivo dell’ordine di demolizione viene, quindi, individuato nel soggetto che ha il potere/dovere di rimuovere concretamente l’abuso, potere/dovere (di natura reale) che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta. Pertanto, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell’ordine di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell’abuso, poiché la stessa disposizione -art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001- si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità.”
In altri termini, nel caso di realizzazione di opere edilizie abusive, è considerato responsabile anche il proprietario, sebbene non in ragione di una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell’illecito edilizio, ma solo in virtù del suo rapporto materiale con la res, gravando su di lui l’obbligo di collaborazione attiva, tra cui rientra senz’altro la rimozione di un abuso edilizio, indipendentemente dal fatto che egli fosse o meno responsabile di tale illecito (Consiglio di Stato, Sez. II, n. 7535/2019), atteso che la legge “si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche sua responsabilità (cfr. Cons. Stato, sez. II, 12.09.2019, n. 6147)".
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D’altra parte, il Collegio osserva che in materia non grava sull’amministrazione un particolare onere motivazionale sulle ragioni che impediscono di ammettere il manufatto senza titolo edilizio, in disparte ogni aspetto legato all’aumento di consistenza urbanistica, giacché, come stabilito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 9/2017, “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
In ogni caso, il provvedimento impugnato viene motivato altresì con riferimento al vincolo paesaggistico sull’area oggetto dell’intervento e di cui all’art. 136, D.Lgs. 42/2004, rispetto al quale l’amministrazione non aveva un particolare onere motivazionale, se non quello di citare la sussistenza del vincolo.
Per tutte le considerazioni che precedono, il gravame non può trovare accoglimento (Consiglio di Stato, sez.VI, n. 300/2020) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 28.04.2021 n. 791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Convenzione di lottizzazione – Assunzione dell’impegno di realizzare opere di urbanizzazione – Obbligazione propter rem – Ambulatorietà passiva dell’obbligazione.
La controversia, riguardante la domanda di accertamento dell’inadempimento di obbligazioni contenute in una convenzione accessiva ad un Programma integrato di intervento con le correlate conseguenze, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f), letto in combinazione con l’art. 30, comma 6, cod. proc. amm., poiché afferisce ad obbligazioni derivanti da strumenti convenzionali che vanno ricompresi tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, in materia urbanistica ed edilizia.
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A fronte dell’inadempimento dei lottizzanti, il Comune ha avviato il procedimento di escussione della polizza fideiussoria che, in ragione dell’avvenuto fallimento della società garante, non ha avuto esito positivo.
Dopo alcuni solleciti, il Comune ha avviato il procedimento per la dichiarazione di decadenza della convenzione per mancato rispetto delle tempistiche previste dall’art. 3 in ordine ai lavori di sistemazione della Piazza Europa.
Quindi, avuto riguardo all’avvenuta scadenza del termine per la realizzazione delle opere, si è concretizzato un grave inadempimento in capo ai lottizzanti che devono essere condannati a corrispondere al Comune la somma che il predetto Ente dovrà impiegare per l’esecuzione in via sostitutiva dei lavori di adeguamento della Piazza Europa.
Trattandosi di responsabilità di natura contrattuale, si deve applicare il principio discendente dall’art. 1218 cod. civ., che, in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, onera il creditore che agisce per l’adempimento o per il risarcimento di provare soltanto la fonte del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa.
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Nell’art. 3 della convenzione è stato espressamente previsto che «i soggetti attuatori privati assumono, altresì, nei confronti del Comune, per sé e per i propri aventi causa, tutti gli obblighi autorizzativi e di carattere economico meglio dettagliati negli articoli successivi». Quindi anche gli acquirenti successivi sono subentrati nella posizione negoziale degli originari proponenti e sono tenuti all’adempimento delle obbligazioni assunte da questi ultimi attraverso la convenzione attuativa, debitamente trascritta e quindi certamente opponibile anche ai citati soggetti subentranti.
Del resto, la giurisprudenza è consolidata nel riconoscere alle obbligazioni assunte in una convenzione urbanistica la natura di obbligazioni propter rem.
Difatti, «in ordine alla questione principale dell’individuazione dei soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste da una convenzione di lottizzazione, [si è osservato] che:
   a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l’ente locale;
   b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’autorità preposta alla gestione del territorio;
   c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di cassazione ha sempre affermato che l’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem;
   d) la natura reale dell’obbligazione comporta dunque che all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l’edificazione ed i loro aventi causa;
   e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’assunzione, all’atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell’impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell’ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res, per cui l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti, risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
   f) invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi».
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Con riguardo alla quantificazione della somma da riconoscere al Comune per effettuare in via sostitutiva gli interventi previsti dalla convenzione, la stessa può essere mutuata dal contenuto della Relazione tecnica prodotta in giudizio e predisposta dal Responsabile del Servizio Tecnico comunale sulla base del computo metrico allegato alla convenzione del Piano integrato di intervento oggetto del presente contenzioso, previa decurtazione del costo delle opere già eseguite in attuazione del previgente Piano di lottizzazione.
In tale documentazione l’importo per effettuare i lavori di sistemazione della Piazza Europa è indicato in complessivi € 387.700,69 che, pertanto, è la somma da liquidare in favore del Comune a titolo di risarcimento per l’inadempimento delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione.
Essendosi in presenza di un debito di valore, in quanto obbligazione pecuniaria risarcitoria derivante da un fatto illecito di natura contrattuale, la somma liquidata deve essere rivalutata secondo gli indici Istat e maggiorata degli interessi legali dalla data di proposizione del giudizio e fino alla pubblicazione della presente sentenza; a far data dalla liquidazione giudiziale, il debito di valore si converte in debito di valuta e quindi sulla somma vantata dal Comune sono dovuti gli interessi corrispettivi, mentre è preclusa l’ulteriore rivalutazione monetaria.
Sicché, il ricorso deve essere accolto, con la conseguente condanna delle parti intimate, in solido, al risarcimento del danno patrimoniale in favore del Comune per l’importo complessivo di € 387.700,69, oltre rivalutazione e interessi dalla data di proposizione del giudizio e fino al saldo.
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... per l’accertamento:
   - dell’inadempimento da parte degli originari proponenti il Programma integrato di intervento, denominato P.I.I. 1/Via Europa-Via Vittoria, delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione sottoscritta con il Comune di Marnate in data 10.12.2008;
   - e per la condanna di tutte le parti private, in solido tra loro, a corrispondere al Comune di Marnate la somma, da determinarsi anche previa C.T.U., corrispondente ai costi –per spese tecniche, di direzione lavori e collaudo, e per opere, forniture, noli, pubblicazione bandi e ricerca contraente e per ogni altra ragione prodromica, conseguente e connessa– che il predetto Comune dovrà sostenere per eseguire in via sostitutiva i lavori di adeguamento della Piazza Europa, in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione infrastrutturativa gravante sugli originari sottoscrittori della convenzione accessoria al P.I.I. 1/Via Europa-Via Vittoria, con interessi dalla data della domanda;
   - nonché per la condanna delle parti private, in solido tra loro, alle spese del presente giudizio, con riserva di agire per il risarcimento dei danni subiti e subendi.
...
1. In via preliminare, va premesso che la controversia, riguardante la domanda di accertamento dell’inadempimento di obbligazioni contenute in una convenzione accessiva ad un Programma integrato di intervento con le correlate conseguenze, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f), letto in combinazione con l’art. 30, comma 6, cod. proc. amm., poiché afferisce ad obbligazioni derivanti da strumenti convenzionali che vanno ricompresi tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, in materia urbanistica ed edilizia (cfr., Corte costituzionale, sentenza 15.07.2016, n. 179; Cass., SS.UU., 05.10.2016, n. 19914; Cass., SS. UU., 09.03.2015, n. 4683, che ha confermato Consiglio di Stato, Ad. plen., 20.07.2012, n. 28; Consiglio di Stato, II, 20.04.2020, n. 2532; TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2021, n. 839; 16.07.2020, n. 1327; 16.03.2020, n. 492; 08.01.2019, n. 36; 31.01.2018, n. 269).
2. Sempre in via preliminare, va dato atto della ritualità dell’instaurazione del contraddittorio processuale, stante l’avvenuto deposito delle cartoline da cui si ricava il completamento del procedimento di notificazione del ricorso con riguardo a tutte le parti intimate (cfr. allegati in giudizio), sebbene poi le stesse non si siano costituite in giudizio.
3. Passando all’esame del merito della domanda risarcitoria, la stessa è meritevole di accoglimento.
4. Il Comune fonda la propria pretesa risarcitoria sul mancato adempimento, da parte degli originari proponenti il Programma integrato di intervento denominato P.I.I. 1/Via Europa-Via Vittoria, ossia la società Si.Co. S.r.l., Gi.Zi., Sa.Zi. ed En.De., dell’obbligazione inerente alla sistemazione della Piazza Europa, il cui inizio dei lavori era previsto entro 30 giorni dalla data di stipula della Convenzione, con ultimazione entro i successivi 180 giorni. In particolare, i lottizzanti si erano impegnati (i) a pavimentare la piazza con manto in porfido, (ii) a realizzare l’illuminazione della suddetta piazza, (iii) a rifare il manto d’usura della Via Ticino e (iv) a realizzare un tratto viario e dei sottoservizi negli ambiti sopradescritti (art. 4 della Convenzione: all. 1 al ricorso).
Tuttavia, a fronte dell’inadempimento dei lottizzanti, il Comune ha avviato il procedimento di escussione della polizza fideiussoria che, in ragione dell’avvenuto fallimento della società garante, non ha avuto esito positivo (all. 6 e 7 al ricorso), come nessuna utilità ha ricavato il Comune dalla ricostituzione della fideiussione presso un altro garante, visto che anche la richiesta di pagamento inoltrata a tale soggetto è rimasta senza seguito.
Dopo alcuni solleciti, il Comune ha avviato il procedimento per la dichiarazione di decadenza della convenzione per mancato rispetto delle tempistiche previste dall’art. 3 in ordine ai lavori di sistemazione della Piazza Europa, in precedenza indicati (e specificati nel successivo art. 4 della predetta convenzione: all. 8 al ricorso). Quindi, avuto riguardo all’avvenuta scadenza del termine per la realizzazione delle opere, si è concretizzato un grave inadempimento in capo ai lottizzanti che devono essere condannati a corrispondere al Comune la somma che il predetto Ente dovrà impiegare per l’esecuzione in via sostitutiva dei lavori di adeguamento della Piazza Europa.
Trattandosi di responsabilità di natura contrattuale, si deve applicare il principio discendente dall’art. 1218 cod. civ., che, in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, onera il creditore che agisce per l’adempimento o per il risarcimento di provare soltanto la fonte del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa (cfr. Consiglio di Stato, VI, 17.11.2015, n. 5252; TAR Lombardia, Milano, II, 16.07.2020, n. 1327; 10.02.2020, n. 283).
Nella specie è stata dimostrata la sussistenza dei presupposti per ottenere la condanna delle parti intimate al risarcimento del danno legato all’inadempimento contrattuale. Non è oggetto del presente giudizio il risarcimento degli ulteriori danni che il Comune potrebbe aver subito in seguito all’inadempimento delle controparti, stante l’esplicita riserva sul punto formulata nel ricorso, né si controverte sulla sorte dei titoli edilizi scaturiti dal Programma di intervento e sulla perdurante efficacia della correlata convenzione per la quale il Comune ha avviato il procedimento di decadenza (all. 8 al ricorso).
5. Nell’art. 3 della convenzione è stato espressamente previsto che «i soggetti attuatori privati assumono, altresì, nei confronti del Comune di Marnate, per sé e per i propri aventi causa, tutti gli obblighi autorizzativi e di carattere economico meglio dettagliati negli articoli successivi» (cfr. comunicazioni del Comune agli aventi causa degli originari lottizzanti: all. 2 al ricorso). Quindi anche gli acquirenti successivi sono subentrati nella posizione negoziale degli originari proponenti e sono tenuti all’adempimento delle obbligazioni assunte da questi ultimi attraverso la convenzione attuativa, debitamente trascritta e quindi certamente opponibile anche ai citati soggetti subentranti.
Del resto, la giurisprudenza è consolidata nel riconoscere alle obbligazioni assunte in una convenzione urbanistica la natura di obbligazioni propter rem (ex multis, Consiglio di Stato, IV, 13.11.2020, n. 7024; 09.11.2020, n. 6894; II, 23.09.2019, n. 6282; IV, 14.05.2019, n. 3127; 09.01.2019, n. 199).
Difatti, «in ordine alla questione principale dell’individuazione dei soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste da una convenzione di lottizzazione, [si è osservato] che:
   a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l’ente locale;
   b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’autorità preposta alla gestione del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2009, n. 6947);
   c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di cassazione ha sempre affermato che l’obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382);
   d) la natura reale dell’obbligazione comporta dunque che all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l’edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571);
   e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’assunzione, all’atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell’impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell’ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res (Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in senso conforme, Tar Campania, Napoli , sez. II, 09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 16.04.2014, n. 2170; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per cui l’avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747), risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
   f) invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi (Tar Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843)
» (Consiglio di Stato, IV, 09.01.2019, n. 199).
6. Con riguardo alla quantificazione della somma da riconoscere al Comune per effettuare in via sostitutiva gli interventi previsti nell’art. 4 della convenzione, la stessa può essere mutuata dal contenuto della Relazione tecnica prodotta in giudizio e predisposta dal Responsabile del Servizio Tecnico comunale sulla base del computo metrico allegato alla convenzione del Piano integrato di intervento oggetto del presente contenzioso (all. 3 e 5 al ricorso), previa decurtazione del costo delle opere già eseguite in attuazione del previgente Piano di lottizzazione AC.5 (all. 9 al ricorso); in tale documentazione l’importo per effettuare i lavori di sistemazione della Piazza Europa è indicato in complessivi € 387.700,69 (trecentoottantasettemilasettecento/69), che pertanto è la somma da liquidare in favore del Comune a titolo di risarcimento per l’inadempimento delle obbligazioni infrastrutturative previste dalla convenzione (in particolare nell’art. 4).
Essendosi in presenza di un debito di valore, in quanto obbligazione pecuniaria risarcitoria derivante da un fatto illecito di natura contrattuale, la somma liquidata deve essere rivalutata secondo gli indici Istat e maggiorata degli interessi legali dalla data di proposizione del giudizio e fino alla pubblicazione della presente sentenza (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.04.2021, n. 2865); a far data dalla liquidazione giudiziale, il debito di valore si converte in debito di valuta e quindi sulla somma vantata dal Comune sono dovuti gli interessi corrispettivi, mentre è preclusa l’ulteriore rivalutazione monetaria (Consiglio di Stato, II, 05.02.2021, n. 1067).
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con la conseguente condanna delle parti intimate, in solido, al risarcimento del danno patrimoniale in favore del Comune per l’importo complessivo di € 387.700,69 (trecentoottantasettemilasettecento/69), oltre rivalutazione e interessi dalla data di proposizione del giudizio e fino al saldo.
8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso indicato in epigrafe, con gli effetti specificati in motivazione.
Condanna la parti intimate, in solido, al pagamento delle spese di giudizio in favore del Comune ricorrente nella misura di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre oneri e spese generali; dispone altresì la rifusione del contributo unificato in favore del Comune ricorrente e a carico delle parti intimate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.04.2021 n. 1056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio: cosa fare se il Comune rimane inerte.
   - come rilevato dalla giurisprudenza, sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati su area confinante, formulata dal relativo proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 cod. proc. amm.;
   - pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso;
   - del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
   - inoltre, è principio consolidato che l’obbligo di provvedere sussiste, oltre che nei casi espressamente previsti da una norma, anche in ipotesi ulteriori nelle quali si evidenzino specifiche ragioni di giustizia ed equità che impongano l’adozione di un provvedimento espresso, ovvero tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano;
   - pertanto, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente;
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   - quanto alla previsione normativa di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la Sezione ha già avuto modo di evidenziare che tale disposizione implica che, in caso di presentazione di una SCIA reputata illegittima, i soggetti che si considerano lesi dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire l’azione avverso il silenzio ex art. 31 cod. proc. amm., posto che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso, e che, se anche la richiesta di attivazione dell’autotutela non comporta di norma un obbligo di provvedere in capo alla pubblica Amministrazione, lo speciale strumento di tutela giudiziale di cui all’ultimo comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 ed all’art. 31 cod. proc. amm. ha carattere di esclusività, con la conseguenza che la mancata conclusione del procedimento avviato con la diffida del privato finirebbe di fatto per privare lo stesso di ogni tutela davanti al giudice, in palese violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24, 111 e 113 Cost.;
   - come è stato osservato, a fronte della denuncia del terzo circa l’irregolarità dell’intervento edilizio oggetto di una SCIA, l’Amministrazione ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo –e ciò diversamente da quanto accade in presenza di un ‘normale’ potere di autotutela che si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere–, con una opzione interpretativa che così coniuga in modo equilibrato le esigenze di liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo, giacché –lungi dal legittimarlo a sollecitare i poteri inibitori senza limiti temporali– gli dà titolo ad attivare il solo potere di autotutela dell’Amministrazione, la quale deve naturalmente tenere conto dei presupposti che danno titolo all’esercizio di tale funzione e, in particolare, dell’affidamento medio tempore ingenerato nel destinatario dell’azione amministrativa, senza tuttavia vanificare le esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può comunque fare valere, pur con queste diverse modalità, le proprie pretese;
   - un simile orientamento non viene meno all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 13.03.2019, avendo essa statuito che “… Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono … quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i 60 o 30 giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi 18 mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-nonies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue …”;
   - pertanto, lo spirare del previsto termine di trenta giorni non preclude all’Amministrazione l’adozione delle misure inibitorie della SCIA, nelle forme e nel più lungo termine –diciotto mesi– sanciti per i provvedimenti in autotutela dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, essendo essa comunque tenuta a riscontrare l’istanza del privato e, in presenza di quei presupposti, ad esercitare i poteri di vigilanza edilizia di sua spettanza;
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... per l’accertamento:
   - dell’illegittimità del silenzio serbato dall’ente sulle istanze presentate dalla ricorrente;
   - dell’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sulle istanze della ricorrente;
   - della fondatezza di tali istanze, volte a che si rilevi l’insussistenza dei presupposti per l’attività edilizia oggetto della SCIA e della CILA presentate dalla Na. S.r.l., con la conseguente adozione dei provvedimenti di autotutela e dei provvedimenti sanzionatori;
... per la condanna del Comune di Milano a pronunciarsi sulle istanze della ricorrente e ad adottare le su indicate determinazioni.
...
Considerato:
   - che, in quanto proprietaria di una unità immobiliare posta al piano terra dello stabile sito in Milano alla via ... n. 4, la ricorrente presentava un esposto al Comune di Milano, in data 06.02.2020, per denunciare possibili interventi edilizi abusivi nel complesso condominiale di appartenenza, ovvero l’esecuzione da parte della condomina Na. S.r.l. di più opere meritevoli di verifica;
   - che all’esposto facevano seguito in data 9 e 10.02.2020 ulteriori documentate denunce, anche alla Polizia municipale;
    - che, in ragione di ciò, con nota del 26.02.2020 (pratica n. 41388/2019 della Direzione Urbanistica, Area Sportello Unico per l’Edilizia, Unità Territoriale Municipi 5-9, Ufficio Municipio 9) il Comune di Milano dava comunicazione dell’avvio del procedimento “finalizzato all’espletamento di ulteriori verifiche istruttorie inerenti l’intervento edilizio sito in via ... 4”, fissando un termine non superiore a 90 giorni per la relativa conclusione;
   - che, non avendo più ricevuto comunicazioni, in data 14.07.2020 la ricorrente presentava un ulteriore reclamo, con cui sollecitava l’intervento “già segnalato in data 10.02.2020 –su lavori edilizi effettuati sul muro di confine tra il Condominio di via ... n. 7 e via ... n. 4– abbattimento muro perimetrale via ... 4 apertura numerose finestre abusive via ... 7 rialzo del tetto via ... 7”;
   - che, infine, in data 25.10.2020 veniva depositata un’istanza di accesso agli atti, con richiesta di “… essere informata delle verifiche svolte dall’ente e dell’eventuale avvenuta adozione di provvedimenti sanzionatori a carico del responsabile degli abusi indicati …” e con richiesta di ostensione “… degli atti concernenti le verifiche svolte e dei provvedimenti eventualmente adottati …”;
   - che, in difetto di riscontro da parte dell’Amministrazione comunale, la ricorrente ha infine adito il giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., per l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dall’ente sulle sue istanze e del conseguente obbligo di provvedere sulle stesse, oltre che per l’accertamento della stessa fondatezza di tali istanze e quindi della necessità che vengano adottati i dovuti provvedimenti di autotutela rispetto alle SCIA e CILA presentate dalla Na. S.r.l. e vengano irrogate le relative sanzioni, con condanna del Comune di Milano a pronunciarsi sulle istanze della ricorrente e ad adottare le su indicate determinazioni;
   - che ella imputa all’ente locale l’ingiustificato omesso espletamento delle verifiche che avrebbero poi dovuto condurre all’adozione dei provvedimenti di autotutela e sanzionatori conseguenti, stante l’avvenuta effettuazione –da parte della Na. S.r.l.– di interventi in violazione della normativa urbanistica, edilizia ed antisismica, insuscettibili di legittimazione con CILA o SCIA;
   - che, pur avendo avviato il procedimento amministrativo volto a verificare la legittimità dei titoli edilizi presentati dalla Na. S.r.l., l’Amministrazione comunale non lo avrebbe concluso, e ciò malgrado la documentata denuncia di chi ha titolo a far valere le irregolarità edilizie altrui, così come chiarito anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 45/2019) a proposito dei rimedi di cui dispone il terzo che si trovi ad essere danneggiato dall’attività svolta a seguito di SCIA;
   - che, richiamando gli accertamenti compiuti dal tecnico di fiducia, la ricorrente assume che la Na. s.r.l.:
1) ha illegittimamente demolito in violazione dell’art. 1102 c.c. un muro perimetrale, posto all’interno di un cortile, che divideva l’area di pertinenza dello stabile di Via ..., n. 4, dall’area di pertinenza dello stabile di via ..., n. 7;
2) ha illegittimamente costituito una servitù a favore del Condominio di Via ..., n. 7, poiché, demolendo l’anzidetto muro perimetrale, ha messo in comunicazione l’immobile di sua proprietà ricadente nello stabile di via ..., n. 4, con altro immobile di sua proprietà facente parte dello stabile confinante di via ..., n. 7;
3) ha illegittimamente aperto vedute e/o finestre nelle pareti perimetrali antistanti il cortile di proprietà del condominio di Via ..., n. 4;
4) ha eseguito i lavori edilizi comportanti modifiche di superficie, di volume e di destinazione d’uso in assenza del giusto titolo edilizio;
5) ha realizzato interventi edilizi in violazione delle prescrizioni di cui al D.M. 1444/1968;
6) ha realizzato interventi di ristrutturazione edilizia in violazione del D.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 5.3 delle NTA del PGT all’epoca vigente secondo cui “Preventivamente all’esecuzione di cambi di destinazione d’uso significativi ai fini degli obiettivi di qualità dei suoli su immobili o parti di essi ricompresi in aree anche già oggetto di indagine o già bonificate, dovrà essere condotta, in conformità con quanto previsto dalla normativa, una nuova indagine ed eventualmente un nuovo intervento di bonifica a cura e spese dei soggetti responsabili della contaminazione dei suoli dei siti o dai relativi proprietari qualora i responsabili non fossero individuati, in armonia con i principi e le norme comunitarie, nonché ai sensi del D.Lgs. 152/2006 e s.m.i. Le destinazioni d’uso oggetto di cambi di destinazione d’uso in contrasto con gli obiettivi di qualità dei suoli sono escluse dall’ambito delle destinazioni ammesse dal PGT” (cfr. pag. 12 della relazione);
7) ha realizzato il cambio di destinazione d’uso degli immobili in assenza del permesso di costruire
” (così a pagg. 9/10 del ricorso);
   - che si è costituito in giudizio il Comune di Milano, resistendo al gravame;
   - che in data 25.01.2021 l’Amministrazione ha depositato copia della sopraggiunta nota di riscontro alla ricorrente degli accertamenti compiuti a seguito delle sue richieste (atto del 22.12.2020, ad oggetto “Comunicazione esito delle verifiche in ordine alla conformità urbanistico-edilizia dell’intervento inerente l’immobile sito in via ..., 4 - Via ..., 7. Chiusura del procedimento, avviato con comunicazione in data 26.02.2020, in atti PG 108712/2020 ai sensi della L. 241/1990”) e ha depositato anche copia del provvedimento del 21.12.2020 con cui è stata data comunicazione alla controinteressata dell’“… avvio del procedimento amministrativo finalizzato all’annullamento della Segnalazione Certificata di Inizio Attività, ai sensi dell’art. 23, DPR 38072001, in atti PG 359239/2020, pratica n. 13859/2020 del 23.09.2020, nonché all’applicazione delle corrispondenti sanzioni previste dal Titolo IV della Parte I del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 …” ed è stata inoltre ordinata la sospensione dei lavori;
   - che, in ragione di ciò, la difesa comunale ha addotto essere “… venuto meno l’interesse della ricorrente alla decisione nel merito del ricorso …” (così la memoria difensiva del 25.01.2021);
   - che la sig.ra Ar., invece, obietta che “… l’Amministrazione resistente è tuttora inadempiente poiché non ha ancora definito il procedimento …” (così la memoria difensiva del 05.02.2021) ed insiste per l’accoglimento del ricorso;
...
Ritenuto:
   - che, come rilevato dalla giurisprudenza, sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati su area confinante, formulata dal relativo proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 cod. proc. amm. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 09.11.2015 n. 5087; da ultimo, Cons. Giust. amm. Reg. Sic. 03.07.2020 n. 538 e TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.02.2021 n. 859; v., in generale, anche Cons. Stato, Sez. II, 30.09.2019 n. 6519 circa il fatto che il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per gli abusi edilizi, in quanto ogni edificazione abusiva incide quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e sull’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi);
   - che, pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso (v., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 28.03.2019 n. 2063);
   - che, del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
   - che, inoltre, è principio consolidato che l’obbligo di provvedere sussiste, oltre che nei casi espressamente previsti da una norma, anche in ipotesi ulteriori nelle quali si evidenzino specifiche ragioni di giustizia ed equità che impongano l’adozione di un provvedimento espresso, ovvero tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 09.01.2020 n. 183);
   - che, pertanto, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
   - che, quanto –poi– alla previsione normativa di cui all’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, la Sezione ha già avuto modo di evidenziare che tale disposizione implica che, in caso di presentazione di una SCIA reputata illegittima, i soggetti che si considerano lesi dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire l’azione avverso il silenzio ex art. 31 cod. proc. amm., posto che, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso, e che, se anche la richiesta di attivazione dell’autotutela non comporta di norma un obbligo di provvedere in capo alla pubblica Amministrazione, lo speciale strumento di tutela giudiziale di cui all’ultimo comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 ed all’art. 31 cod. proc. amm. ha carattere di esclusività, con la conseguenza che la mancata conclusione del procedimento avviato con la diffida del privato finirebbe di fatto per privare lo stesso di ogni tutela davanti al giudice, in palese violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24, 111 e 113 Cost.;
   - che, come è stato osservato, a fronte della denuncia del terzo circa l’irregolarità dell’intervento edilizio oggetto di una SCIA, l’Amministrazione ha l’obbligo di procedere all’accertamento dei requisiti che potrebbero giustificare un suo intervento repressivo –e ciò diversamente da quanto accade in presenza di un ‘normale’ potere di autotutela che si connota per la sussistenza di una discrezionalità che attiene non solo al contenuto dell’atto ma anche all’an del procedere–, con una opzione interpretativa che così coniuga in modo equilibrato le esigenze di liberalizzazione sottese alla SCIA con quelle di tutela del terzo, giacché –lungi dal legittimarlo a sollecitare i poteri inibitori senza limiti temporali– gli dà titolo ad attivare il solo potere di autotutela dell’Amministrazione, la quale deve naturalmente tenere conto dei presupposti che danno titolo all’esercizio di tale funzione e, in particolare, dell’affidamento medio tempore ingenerato nel destinatario dell’azione amministrativa, senza tuttavia vanificare le esigenze di tutela giurisdizionale del terzo che può comunque fare valere, pur con queste diverse modalità, le proprie pretese (v. Cons. Stato, Sez. VI, 03.11.2016 n. 4610);
   - che un simile orientamento, come è stato evidenziato (v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 08.01.2020 n. 18), non viene meno all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 13.03.2019, avendo essa statuito che “… Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono … quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i 60 o 30 giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi 18 mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-nonies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue …”;
   - che, pertanto, lo spirare del previsto termine di trenta giorni non preclude all’Amministrazione l’adozione delle misure inibitorie della SCIA, nelle forme e nel più lungo termine –diciotto mesi– sanciti per i provvedimenti in autotutela dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 (v. TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 18/2020 cit.), essendo essa comunque tenuta a riscontrare l’istanza del privato e, in presenza di quei presupposti, ad esercitare i poteri di vigilanza edilizia di sua spettanza (v., da ultimo, anche TAR Lazio, Sez. II, 25.01.2021 n. 911);
   - che nella fattispecie la ricorrente, proprietaria di unità immobiliare facente parte di un complesso condominiale interessato da interventi edilizi di altro condomino, ne denunciava più volte l’irregolarità al Comune di Milano, ricevendone solo risposte interlocutorie circa le verifiche da effettuare, e in ragione di ciò adiva infine il giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., perché rimediasse all’inerzia dell’Amministrazione;
   - che, nelle more del giudizio, quest’ultima ha dato riscontro alla ricorrente circa gli accertamenti compiuti a seguito delle sue richieste (atto del 22.12.2020, ad oggetto “Comunicazione esito delle verifiche in ordine alla conformità urbanistico-edilizia dell’intervento inerente l’immobile sito in via ..., 4 - Via ..., 7. Chiusura del procedimento, avviato con comunicazione in data 26.02.2020, in atti PG 108712/2020 ai sensi della L. 241/1990”) e ha emesso provvedimento (in data 21.12.2020) con cui è stata data comunicazione alla controinteressata dell’“… avvio del procedimento amministrativo finalizzato all’annullamento della Segnalazione Certificata di Inizio Attività, ai sensi dell’art. 23, DPR 38072001, in atti PG 359239/2020, pratica n. 13859/2020 del 23.09.2020, nonché all’applicazione delle corrispondenti sanzioni previste dal Titolo IV della Parte I del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 …” ed al contempo è stata ordinata la sospensione dei relativi lavori;
   - che, come è noto, quando l’ente locale accerta la sussistenza dell’abuso edilizio, la pretesa del proprietario confinante si estende anche all’adozione dei provvedimenti repressivi prescritti dalla normativa in materia, a tale concreto risultato evidentemente riconducendosi il bene della vita tutelato in simili casi con il rito del “silenzio”, ovvero l’utilità finale al cui conseguimento legittimamente aspira chi patisce le conseguenze dannose dell’illecito edilizio (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, n. 2063/2019 cit.);
   - che, pertanto, le sopraggiunte determinazioni comunali non possono dirsi integralmente satisfattive dell’interesse azionato dalla ricorrente, la quale –come si è detto– ha titolo a che il procedimento si concluda con l’adozione di determinazioni di tipo ripristinatorio/sanzionatorio oppure di motivata archiviazione della pratica, non certo con un atto di portata meramente interlocutoria;
   - che, in ragione di ciò, malgrado l’Amministrazione resistente abbia addotto il venir meno dell’interesse alla decisione del ricorso e quindi l’improcedibilità dello stesso, è da dichiarare fondata la domanda giudiziale della ricorrente, avendo il Comune di Milano dato un riscontro insufficiente alla “diffida” pervenutagli;
   - che, in conclusione, va assegnato all’Amministrazione comunale un termine di novanta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza affinché la stessa provveda nei termini indicati, essendo evidente che, per l’esigenza di accertamenti istruttori di competenza dell’ente locale, il presente dictum giudiziale è circoscritto alla statuizione della sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione e non può essere anche esteso all’accertamento degli abusi edilizi e/o irregolarità dei titoli abilitativi e delle misure in concreto da assumere;
   - che, in caso di inerzia e su documentata richiesta della ricorrente, provvederà in via sostitutiva, nei successivi novanta giorni, un Commissario ad acta che viene sin d’ora nominato nella persona del Prefetto di Milano, con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio e con l’ausilio, nelle modalità valutate utili, del personale e degli uffici del Comune di Milano;
Considerato, pertanto,
   - che il ricorso va accolto, con conseguente obbligo dell’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, del Commissario ad acta) di provvedere nei termini su indicati;
   - che le spese di lite seguono la soccombenza del Comune di Milano, mentre non v’è luogo a provvedere nei confronti della controinteressata non costituitasi in giudizio
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
   - lo accoglie quanto alla pretesa formazione del silenzio-rifiuto sulle istanze presentate dalla ricorrente e, per l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio, ordina al Comune di Milano (e, in via sostitutiva, al Commissario ad acta) di provvedere nei termini indicati in motivazione;
   - nomina, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Milano –con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio–, che interverrà su richiesta della ricorrente solo dopo l’inutile decorso del termine assegnato all’Amministrazione comunale.
Condanna il Comune di Milano al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi € 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre agli accessori di legge e alla rifusione del contributo unificato (nella misura effettivamente versata). Nulla per le spese nei confronti della controinteressata.
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente pronuncia –una volta passata in giudicato– alla Corte dei conti, Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, ai sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.04.2021 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questo Tribunale ha già avuto modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile
   - non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”),
   - ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”).
Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso ..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo.
Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno».
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La giurisprudenza ha da tempo chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
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Da tempo la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la giurisprudenza, anche di recente, ha affermato che -mentre una condizione in senso proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria, che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale, qualora si tratti di integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento».
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Secondo una consolidata giurisprudenza, in base al principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento “al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria;
Dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora approvate.
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4. Passando alla controversia oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che si possa prescindere dall’esame delle eccezioni processuali sollevate dalla controinteressata perché nessuna delle suesposte censure può essere accolta, alla luce delle seguenti considerazioni.
5. Come già evidenziato, la società Al.Ho. -a seguito della nota prot. n. 6855 del 28.11.2018, con cui il Comune di Molveno ha comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza per la regolarizzazione, ai sensi dell’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008, delle opere oggetto del permesso di costruire in deroga n. 3033 del 2017, annullato da questo Tribunale con la sentenza n. 126 del 2018- in data 15.04.2019 ha presentato un’ulteriore istanza, volta al rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008, sulla quale il Comune di Molveno si è espresso positivamente rilasciando l’impugnato permesso di costruire in sanatoria n. 3076, in data 04.06.2020.
Ciò posto, il Collegio -nel rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale (da ultimo, T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 18.03.2021, n. 39), la qualificazione giuridica del provvedimento impugnato è un’operazione che compete al Giudice amministrativo in ossequio al principio iura novit curia, analogamente a quanto avviene nel processo civile con riferimento alla qualificazione del tipo negoziale entro il quale vanno sussunti gli atti di autonomia privata di cui si controverte- concorda senz’altro con il Comune di Molveno quando nelle proprie difese osserva che l’erroneo riferimento all’art. 38 del d.P.R. 380 del 2001, contenuto nella motivazione del provvedimento impugnato, non può comunque inficiare la legittimità di tale provvedimento.
Tale riferimento è invero senz’altro erroneo perché, come già detto, l’impugnato permesso di costruire è stato adottato ai sensi dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; ma il riferimento stesso è totalmente ininfluente ai fini del presente giudizio, stante la c.d. dequotazione della motivazione del provvedimento amministrativo nei giudizi aventi ad oggetto l’esercizio di poteri vincolati (come quello previsto dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008).
Difatti questo stesso Tribunale in altre occasioni (T.R.G.A. Trentino Alto Adige, Trento, 19.10.2020, n. 177; id. 13.04.2017, n. 136) ha già avuto modo di porre in rilievo «la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 (secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”), ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm. (secondo il quale “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”). Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, ossia non limitato all’accertamento dei vizi di legittimità dedotti con il ricorso ..., perché in tali casi non si verifica un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, essendo la spettanza del bene della vita già predeterminata a livello normativo. Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno».
Dunque -posto che la parte ricorrente non contesta affatto che «le opere realizzate ed in parte minima ripristinate dall’interessato a seguito della comunicazione del preavviso di diniego risultano rispettose della disciplina urbanistica vigente e non vi è neppure la necessità di accordare la deroga» (così la motivazione del provvedimento impugnato)- ai fini della decisione sulla presente controversia assume decisivo rilievo stabilire come vada interpretato l’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008 laddove dispone che, ai fini della sanatoria, l’Amministrazione deve accertare se l’opera abusiva sia, o meno, “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”.
Emergono infatti dagli atti di causa due tesi contrapposte.
6. Secondo la parte ricorrente l’espresso riferimento al momento della “presentazione” della domanda di sanatoria, contenuto nell’art. 135, comma 7, starebbe a significare che la presentazione della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, nel senso che l’Amministrazione non potrebbe tener conto di alcun tipo di sopravvenienza intervenuta durante il procedimento, ossia né di modifiche alla disciplina urbanistica, né di modifiche dell’opera da sanare sopravvenute rispetto al momento della presentazione della domanda.
Pertanto nel caso in esame il Comune avrebbe dovuto senz’altro rigettare la domanda di sanatoria in quanto -come evidenziato nel preavviso di rigetto di cui alla nota prot. n. 5044 del 07.08.2019- le opere realizzate in forza del permesso di costruire annullato risultavano, al momento della presentazione della domanda stessa, incompatibili con le previsioni dello strumento urbanistico relative al parametro della superficie coperta, previsioni il cui superamento aveva in precedenza imposto l’attivazione del procedimento per il rilascio di un permesso di costruire in deroga.
In altri termini, secondo la tesi della parte ricorrente, la demolizione di parte del solaio, eseguita dopo l’attivazione del procedimento in sanatoria, era «totalmente neutra ai fini del riscontro della sussistenza dei presupposti di compatibilità urbanistica dell’opera abusiva», dovendo tale riscontro essere effettuato con riferimento all’intero abuso, come accertato ed esistente al momento della presentazione della domanda di sanatoria e decritto nella domanda stessa. Del resto, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere il rilascio di un titolo edilizio in sanatoria parziale, limitato cioè ad una sola parte delle opere abusive.
A questa tesi si contrappone quella del Comune e della controinteressata, secondo la quale -a dispetto della lettera dell’anzidetto art. 135, comma 7- i presupposti per il rilascio del permesso di costruire in di sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento, e non alla data della presentazione della domanda; dunque nel caso in esame l’Amministrazione avrebbe correttamente tenuto conto del fatto che la controinteressata -avuta notizia del preavviso di rigetto- aveva provveduto a ridurre spontaneamente l’estensione del solaio (sul punto non vi è contestazione), sì da rendere la superficie del manufatto compatibile con il relativo parametro urbanistico.
A corredo di tale tesi, e in replica all’argomento della parte ricorrente secondo il quale non sarebbe ammissibile il rilascio di un titolo edilizio che riguardi solo una parte dell’abuso oggetto della domanda di sanatoria, la controinteressata osserva che -sebbene nel caso in esame non si tratti di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato con prescrizioni, ovvero condizionato a modifiche dell’oggetto della sanatoria- tuttavia la giurisprudenza ammette che il permesso in sanatoria possa eccezionalmente introdurre prescrizioni, purché si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non concedibile; dunque a maggior ragione deve ammettersi che l’interessato, in pendenza del procedimento avviato a seguito della presentazione di un’istanza ai sensi dell’art. 135, comma 7, possa comunque apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per renderlo sanabile.
7. La tesi della parte ricorrente è ancorata essenzialmente ad un’interpretazione letterale dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008; difatti tale disposizione -secondo la quale ai fini della sanatoria l’amministrazione è tenuta ad accertare che l’opera abusiva sia “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”- effettivamente può prestarsi ad essere letta nel senso che la presentazione della domanda determina una sorta di cristallizzazione del rapporto, sia per quanto riguarda l’opera da sanare, sia per quanto riguarda i parametri urbanistici in base ai quali deve essere verificata la sanabilità dell’opera.
Tuttavia il Collegio ritiene che tale tesi non possa essere accolta non solo perché non tiene conto del consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sull’art. 13 della legge 28.02.1985, n. 47, di seguito esaminata, ma soprattutto perché si pone in radicale contrasto con i principi generali del procedimento amministrativo e, in particolare, con il principio della partecipazione al procedimento, del quale sono espressione l’istituto del preavviso di rigetto, disciplinato (a livello statuale) dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale) dall’art. 27-bis della legge provinciale 30.11.1992, n. 23, e con il principio di economicità dell’azione amministrativa, sancito (a livello statuale) dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e (a livello provinciale) dall’art. 2, comma 1, della legge provinciale n. 23 del 1992.
8. Come ricordato dal Comune e dalla controinteressata, la giurisprudenza (ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 29.05.2006, n. 3236) ha da tempo chiarito -seppure con riferimento alla disposizione (vigente ratione temporis) dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (secondo la quale “il responsabile dell’abuso può ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria quando l’opera eseguita in assenza della concessione o autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”)- che i presupposti di fatto per il rilascio della concessione in sanatoria devono sussistere alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della domanda.
Per le ragioni di seguito indicate non vi è ragione per discostarsi da tale opzione ermeneutica, essendo il riferimento “al momento della presentazione della domanda” presente tanto nella disposizione dell’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e nella corrispondente disposizione dell’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto nella disposizione dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale medesima.
Si rende però necessario precisare il fondamento di tale opzione ermeneutica e, soprattutto, cosa essa comporti.
9. Innanzi tutto tale opzione ermeneutica è coerente con il principio di partecipazione al procedimento amministrativo.
La dottrina ha da tempo posto in rilievo che la legittimità del provvedimento è il risultato non solo del corretto uso del potere da parte dell’amministrazione procedente, ma anche del contributo degli interessati all’esercizio della funzione amministrativa. Dunque la partecipazione al procedimento non ha solo lo scopo di garantire gli interessati nei riguardi dell’azione del pubblico potere, bensì quello di consentire a costoro di contribuire alla formazione della decisione amministrativa, come plasticamente dimostra, ad esempio, la tipizzazione degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento. In tal senso il procedimento è stato efficacemente definito dalla dottrina come la forma della funzione amministrativa.
Ritiene allora il Collegio che il principio della partecipazione al procedimento e gli istituti che ad esso si ispirano, come la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza -da ritenersi applicabile anche nei procedimenti attraverso i quali vengono esercitati poteri vincolati (come nel caso in esame)- debbano essere intesi nell’accezione più ampia possibile.
In particolare deve ritenersi che nei procedimenti ad istanza di parte (come quello per cui è causa) l’interessato attraverso il preavviso di rigetto viene posto in condizione di incidere sul concreto esercizio del potere non solo esercitando il diritto di presentare osservazioni scritte, che l’Amministrazione è tenuta a prendere in considerazione, con conseguente obbligo di specificare, nella motivazione del provvedimento finale, le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni stesse (come espressamente previsto dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 e dall’art. 27-bis della legge provinciale n. 23 del 1992), ma anche esercitando il diritto di superare i motivi ostativi comunicati con il preavviso di rigetto attraverso la conformazione della situazione di fatto ai parametri normativi in base ai quali l’istanza deve essere esaminata.
Ciò è quanto è avvenuto nel caso in esame, nel quale la controinteressata, a fronte dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria, comunicati dal Comune con la con nota prot. n. 5044 del 07.08.2019, ha posto in essere un intervento di demolizione parziale volto a ridurre l’estensione del solaio realizzato in forza del permesso annullato, sì da rendere il manufatto divenuto abusivo suscettibile di sanatoria.
10. Inoltre la tesi della società ricorrente si pone in palese contrasto con il principio di economicità dell’azione amministrativa, di cui costituisce espressione l’orientamento giurisprudenziale -invocato dalla controinteressata- in base al quale il permesso di costruire in sanatoria può eccezionalmente essere rilasciato con prescrizioni.
Da tempo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.1993, n. 1031) ha ammesso la possibilità di condizionare il rilascio di una concessione edilizia, il cui progetto risulti eseguibile esclusivamente in caso di approvazione di una variante al piano regolatore generale, all’esito positivo del procedimento in itinere, ma ciò solo per la connessione fra i diversi procedimenti amministrativi; ciò in quanto le clausole accidentali possono essere apposte anche all’atto amministrativo a condizione che non risultino alterate la struttura e la funzione tipica dell’atto stesso e comprese le situazioni giuridiche dei destinatari.
Maggiori difficoltà teoriche ha invero incontrato l’ipotesi -da ritenersi eccezionale in quanto riferita alla peculiare sanabilità di una condotta abusiva e, quindi, sanzionata- del permesso di costruire in sanatoria, nel qual caso l’apposizione di condizioni potrebbe alterare la struttura e la funzione dell’atto stesso, legato ad un puntuale accertamento delle condizioni poste dalla legge per la sanatoria.
Ciononostante la giurisprudenza, anche di recente (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683), ha affermato che -mentre una condizione in senso proprio non può essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso di costruire in sanatoria, che è atto di accertamento a carattere non negoziale- diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizione che, se non ottemperata, non invalida comunque l’atto autorizzativo e non ne impedisce gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione della prescrizione stessa, come tale autonomamente sanzionata.
Dunque, secondo questo condivisibile orientamento, «il permesso di costruire in sanatoria, se per un verso non può certo essere soggetto a condizioni modificative di quanto realizzato abusivamente, può legittimamente introdurre o recepire limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente, ad esempio al fine di mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto, in termini tali da renderlo più coerente con il contesto ambientale (cfr. in termini Cons. St., VI, 28.06.2016, n. 2860), qualora si tratti di integrazioni minime, aventi carattere di mere modalità esecutive, tali da agevolare il rilascio di una sanatoria in termini di adeguatezza al contesto regolatorio e fattuale proprio del singolo territorio di riferimento (cfr. ad es. Cons. St., IV, 08.09.2015 n. 4176)» (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.09.2020, n. 5683, cit.).
Coglie allora nel segno la controinteressata quando afferma che, se può ammettersi la possibilità che il permesso di costruire in sanatoria contenga «limitate prescrizioni intese ad imporre correttivi esecutivi sull’esistente» -e tale sarebbe stata l’eventuale prescrizione con la quale il Comune avrebbe potuto imporre alla controinteressata di ridurre la superficie del solaio, che non era sanabile in quanto eccedeva il parametro urbanistico, seppure in misura inferiore al 2% (sul punto non vi è contestazione)- a maggior ragione deve ammettersi che la controinteressata medesima ben potesse (come in effetti è avvenuto), in pendenza del procedimento avviato a seguito della presentazione della domanda di sanatoria, apportare al manufatto abusivo le modifiche necessarie per renderlo sanabile.
Del resto, anche a voler seguire la tesi della ricorrente, non può certo escludersi che -se il Comune, nonostante la riduzione della superficie del solaio, avesse respinto la domanda di sanatoria, confermando i motivi ostativi all’accoglimento della stessa già rappresentati con il preavviso di rigetto- la controinteressata avrebbe potuto presentare una nuova domanda di sanatoria, con il conseguente avvio di un nuovo procedimento amministrativo destinato a concludersi con il rilascio del provvedimento richiesto, ma con un evidente, inutile aggravio dell’azione amministrativa.
11. Resta a questo punto soltanto da spiegare perché il legislatore nel testo delle disposizioni che prevedono e disciplinano l’accertamento di conformità -ivi compresa quella dell’art. 135, comma 7, della legge provinciale n. 1 del 2008- abbia fatto espresso riferimento “al momento della presentazione della domanda”.
A tal fine giova rammentare che, secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 04.02.2021, n. 1045), in base al principio tempus regit actum la legittimità di un atto amministrativo deve essere accertata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, e ciò comporta che, in caso di modifiche normative sopravvenute nel corso del procedimento, l’Amministrazione procedente deve sempre tenere conto di tali modifiche.
Invece il legislatore provinciale, prevedendo nell’art. 135, comma 7, che è possibile “rilasciare la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è richiesta è già stata realizzata abusivamente”, ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, nel senso che la disciplina urbanistica da prendere in considerazione per verificare la sanabilità dell’abuso è costituita solo dalle previsioni in vigore al momento della presentazione della domanda di sanatoria e dalle previsioni contenute all’interno di un nuovo strumento urbanistico (o di uno strumento in variante) solo adottato, le quali, come noto, determinano l’operatività delle c.d. misure di salvaguardia (cfr. l’art. 47 della legge provinciale n. 15 del 2015).
In definitiva -fermo restando che, in ossequio al principio tempus regit actum, la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ossia la conformità urbanistica) deve essere verificata alla data di adozione del provvedimento di sanatoria, e non alla data della presentazione della relativa domanda- il riferimento “al momento della presentazione della domanda” si spiega tenendo conto della possibilità che dopo la presentazione della domanda di sanatoria intervengano previsioni urbanistiche che rendono impossibile la sanatoria; dunque tale riferimento deve essere inteso nel senso che il Legislatore ha inteso derogare parzialmente al principio tempus regit actum, escludendo che eventuali sopravvenute modifiche in peius delle previsioni urbanistiche possano ostare all’accoglimento della domanda di sanatoria e, quindi, ha imposto all’Amministrazione di tenere conto solo delle previsioni urbanistiche che “al momento della presentazione della domanda” sono già in vigore e di quelle che a tale momento risultano adottate, ma non ancora approvate (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contrasto giurisprudenziale sorto in merito alla possibilità di configurare un affidamento tutelabile in capo al responsabile dell’abuso o ai suoi aventi causa per effetto del tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera è stato risolto nel senso di non potersi ammettere che il decorso di un lasso di tempo, anche consistente, incida sul potere dell’amministrazione di perseguire e sanzionare l’illecito edilizio.
Deve escludersi, correlativamente, la configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare, ma, al contrario, aggrava.

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4. Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano che le amministrazioni procedenti avrebbero omesso di raffrontare l’interesse pubblico a diniego di sanatoria con l’affidamento consolidatosi per effetto del lungo tempo trascorso.
Sul punto, sia sufficiente ricordare che il contrasto giurisprudenziale sorto in merito alla possibilità di configurare un affidamento tutelabile in capo al responsabile dell’abuso o ai suoi aventi causa per effetto del tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera, ancora vivace all’epoca di introduzione della controversia, è stato risolto nel senso di non potersi ammettere che il decorso di un lasso di tempo, anche consistente, incida sul potere dell’amministrazione di perseguire e sanzionare l’illecito edilizio. Deve escludersi, correlativamente, la configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare, ma, al contrario, aggrava (cfr. Cons. Stato, A.P., 17.10.2017, n. 9) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.04.2021 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2021

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca, sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di realizzazione dell’abuso». In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare la sanatoria ...”.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale”. Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
   a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi;
   b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti catastali, ovvero alla prova testimoniale;
   c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, "superando” quella fornita dalla parte pubblica”.
Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui parte ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma e dichiarazioni testimoniali rese in sede civile), è sufficiente richiamarsi alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
“E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione.
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali.
Inoltre, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal c.p.c., non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di prova, sulla base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della doglianza, ma regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a legittimare l’esercizio dei poteri istruttori del giudice.
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono cui aspira parte appellante”.
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1 - Po.Fr. ha impugnato la determina n. 306 del 14/11/2017 a firma del Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Durazzano con cui sono state respinte le istanze di condono edilizio n. 722 (protocollata in data 01/04/1986) e n. 1993 (protocollata il 30/09/1986).
...
6.1.1 - Nel caso in esame, il manufatto oggetto della prima istanza di condono –per come “rilevato” e fotografato dai tecnici comunali all’atto del sopralluogo del 26/09/2017 (all. 9 e 10 alla memoria di costituzione del Comune)- risulta significativamente trasformato rispetto a quello oggetto della domanda, essendo stato ampliato mediante annessione di altro manufatto, unitamente al quale costituisce un unicum dal punto di vista funzionale.
Il manufatto oggetto dell’istanza di condono ha, così, perso la sua originaria consistenza per effetto della trasformazione avvenuta successivamente alla presentazione della domanda di condono. Il provvedimento di diniego –per tale parte- è quindi legittimo, in quanto il condono non avrebbe potuto essere più rilasciato per l’opera indicata nella domanda, ormai materialmente non più esistente.
6.1.2 - Né può convenirsi con parte ricorrente laddove afferma che la sostituzione di una finestra con una porta non determini una radicale trasformazione del bene e ciò perché –nello specifico- l’operata trasformazione si è resa funzionale all’unificazione di due manufatti adiacenti, creando, così, un aliquid novi.
6.2 - La tesi attorea si scontra, poi, con l’ulteriore “criticità” della fattispecie in esame, rappresentata dalla non sicura datazione del manufatto oggetto dell’istanza di condono prot. n. 1993.
6.2.1 - Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca, sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di realizzazione dell’abuso» (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 01.10.2019, n. 6578). In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare la sanatoria ...”, Consiglio di Stato sez. II, sent. 15/02/2021 n. 1403.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale” (TAR Torino sez. II 27/03/2013 n. 390, TAR Perugia, sez. I, 02/11/2011 n. 354). 1.2. Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
   a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi;
   b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti catastali, ovvero alla prova testimoniale;
   c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, “superando” quella fornita dalla parte pubblica
” – Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 511/2016.
6.2.1.1 - Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui parte ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma, già allegata all’istanza prot. n. 1993 e dichiarazioni testimoniali rese in sede civile, depositate unitamente al ricorso), è sufficiente richiamarsi alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV, 03.08.2011, n. 4641; id., sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV, 29.04.2002, n. 2270).
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 20.05.2008, n. 2352).
Inoltre, come ha chiarito di recente l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal c.p.c., non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di prova, sulla base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della doglianza, ma regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a legittimare l’esercizio dei poteri istruttori del giudice (cfr. Adunanza Plenaria 20.11.2014, n. 32).
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono cui aspira parte appellante. [omissis]
” (Cons. St., Sez. VI, 17.12.2019, nr. 211, da ultimo richiamato da TAR Veneto, sez. II, sent. 1252/2020).
6.2.1.2 – Quanto alle dichiarazioni rese nel giudizio civile conclusosi, in secondo grado, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 493/15 (dichiarazioni la cui utilizzabilità come fonte di convincimento anche nel processo amministrativo è stata già affermata –in punto di diritto- dalla Sezione con sent. 03/06/2019 n. 2986), si osserva che le stesse non giovano alla tesi di parte ricorrente: i riferimenti ivi contenuti risultano estremamente generici, datando la realizzazione dei fabbricati agli anni 1982/1983 ovvero 1983/1984 (secondo altro teste); il teste Bu. (per quanto si ricava dalla lettura della sentenza) ha dichiarato, invece, che i lavori alla falegnameria iniziarono nel 1982 e che lui stesso si occupò della realizzazione del capannone nel 1984.
6.2.1.3 - Il solo dato documentale offerto dal Po. a sostegno della sua tesi è un rilievo aerofotogrammetrico scaturito da un volo effettuato il 18/05/1984, che evidentemente, nulla dice circa l’esistenza di entrambi i manufatti alla data dell’01/10/1983.
6.2.2 - Giova, infine, rimarcare (quanto alla conseguenza che il Comune trae dall’esistenza della finestra sul manufatto abusivamente edificato sulla part. 491) che se è vero che il ricorrente non era tenuto a rappresentare eventuali manufatti collocati su particella diversa da quella su cui insiste l’immobile da condonare, non è men vero che la presenza della finestra sul prospetto sud (prospiciente la particella n. 490), evincibile dallo stralcio planimetrico allegato alla relazione tecnica integrativa della pratica di condono n. 722 (datata 28/07/1986), induce logicamente ad escludere che –a tale data– potesse esservi alcuna costruzione “in appoggio” sul muro perimetrale lato sud su cui si apre la finestra.
6.2.3 - Alla luce delle suesposte coordinate ermeneutiche e risultanze istruttorie, può affermarsi che non a ragione si duole parte ricorrente delle conclusioni cui è addivenuto il Comune con riguardo all’epoca di ultimazione del manufatto insistente sulla particella n. 490.
6.2.3.1 – Tutto quanto innanzi esposto è sufficiente a fondare la legittimità del provvedimento di diniego impugnato, risultando le scrutinate ragioni sufficienti a sorreggerlo.
6.2.4 – In applicazione dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990 secondo cui «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», possono assorbirsi le restanti censure di carattere procedimentale articolate in ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 29.03.2021 n. 2085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare che “in materia edilizia la circostanza che sia stata accertata l'abusività di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, un presupposto sufficiente per l'applicazione della sanzione demolitoria, non essendo prevista la necessità di alcuna specifica motivazione sull'esistenza di un interesse pubblico che giustifichi l'ingiunzione, né essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva”.
“Poiché l'adozione dell'ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell'autotutela decisoria, si deve escludere che l'ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Infatti, il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere "legittimo" in capo ai proprietari dell'abuso”.

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6. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta l’insussistenza di interesse pubblico alla demolizione del fabbricato nonché la illogicità ed irragionevolezza della pretesa demolizione foriera di danno economico per la ricorrente e per l’amministrazione comunale.
La ricorrente sostiene che vi sia stata violazione del principio di proporzionalità poiché la scelta della misura ingiunta, a fronte di interessi pubblici poco chiari e non esplicitati, è foriera di pregiudizi particolarmente gravosi sia per l’amministrazione che per il privato. Lo stesso Comune, infatti, da un lato ingiunge la demolizione dell’edificio ma dall’altro, in una richiesta di parere al MIBAC del 21.02.2017 (prot. 613, doc. 7 allegato al ricorso), affermava che “l’ordine di demolire i manufatti, quale condizione necessaria, per poi ottenere l’Autorizzazione Paesaggistica, realizzando probabilmente gli stessi fabbricati, appare una logica irragionevole ed impone un sacrificio ed un danno inimmaginabile per i privati cittadini e per il comune stesso”.
Anche tale censura non persuade.
Quanto alla necessità di una motivazione in ordine all’interesse pubblico nel caso di specie si è già detto scrutinando il primo motivo, cui si rinvia.
Quanto alla proporzionalità delle misure adottate rispetto agli interessi in gioco si osserva che il particolare contesto normativo che tutela gli interessi paesaggistici risulta particolarmente stringente e non lascia spazio, soprattutto dopo la novella introdotta dal D.Lgs. n. 157/2006, a misure alternative che si sostanzierebbero, di fatto, in ipotesi di sanatoria. Tali aspetti sono già stati scrutinati nel secondo motivo, cui si rinvia.
La giurisprudenza, del resto, ha avuto modo di evidenziare che “in materia edilizia, la circostanza che sia stata accertata l'abusività di un'opera edilizia costituisce, già di per sé, un presupposto sufficiente per l'applicazione della sanzione demolitoria, non essendo prevista la necessità di alcuna specifica motivazione sull'esistenza di un interesse pubblico che giustifichi l'ingiunzione, né essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva” (TAR Toscana Firenze Sez. III, 11/03/2019, n. 343).
Poiché l'adozione dell'ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell'autotutela decisoria, si deve escludere che l'ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Infatti, il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere "legittimo" in capo ai proprietari dell'abuso” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, 10/09/2018, n. 9218).
Anche l’affermazione di parte ricorrente circa l’illogicità del percorso demolitorio (ripresa dal citato passaggio contenuto nella richiesta di parere che il Comune ha inviato al MIBAC il 21.02.2017) non è supportata da alcun argomento probatorio.
Sia la ricorrente che, a maggior ragione la resistente (che in sede processuale ha assunto posizioni incompatibili con le precedenti perplessità), non hanno fornito alcun elemento che possa indurre, anche solo in via presuntiva, a ritenere che in sede di una nuova ipotetica richiesta la relativa autorizzazione paesaggistica verrebbe rilasciata ed il vincolo di inedificabilità (dovuto alla presenza della fascia di rispetto del torrente Sizzone) cesserebbe di operare. Così come non risulta presentata alcuna richiesta di compatibilità paesaggistica dell’intervento ai sensi dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2009, non potendo valere a tali scopi la citata autorizzazione paesaggistica n. 40/2011. Quest’ultima, pur contenendo nei vari allegati di cui si compone, planimetrie ed illustrazioni dell’intero intervento, è stata rilasciata palesemente con riferimento ad una istanza di PDC in variante (con particolare riferimento ad alcune modifiche interne ed alla recinzione) non essendovi alcuna prova che il giudizio in essa esplicitato si riferisca all’intero complesso.
Per tali ordini di ragioni anche il quarto motivo non è fondato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.03.2021 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusi edilizi, la P.A. ha l'obbligo di adottare l'ordine di demolizione per il sol fatto d’aver riscontrato l'esistenza di opere abusive che soggiacciono a tal regime sanzionatorio.
Sicché non è prospettabile in generale alcun affidamento (né legittimo, né di mero fatto) in capo al proprietario a scampare dalla sanzione relativa al tipo d’abuso edilizio commesso, né che questi possa dolersi dell'eventuale ritardo con cui la P.A. abbia emanato il provvedimento repressivo.
Il provvedimento sanzionatorio non richiede neppure una particolare motivazione (essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata), né si impone una comparazione previa dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso (che è in re ipsa) con l'interesse del privato proprietario del manufatto illecito, neppure quando l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso.
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La questione dell’“eccezione” sul preteso legittimo affidamento dell’appellante, indotto dal ritardo comunale nell’esercizio del potere repressivo, è inammissibile tanto in rito, quanto in merito.
In realtà, a parte che non si riscontra alcunché a tal riguardo nei verbali del giudizio di primo grado, si tratta d’un nuovo motivo di primo grado fatto valere tardivamente in appello.
Ma pur a seguire tal tesi nel merito, ancora da ultimo la Sezione (cfr. Cons. St., VI, 29.12.2020 n. 8501, ma cfr. pure id., 23.10.2020 n. 6443), ha ribadito il proprio fermo orientamento secondo cui, in materia di abusi edilizi, la P.A. ha l'obbligo di adottare l'ordine di demolizione per il sol fatto d’aver riscontrato l'esistenza di opere abusive che soggiacciono a tal regime sanzionatorio. Sicché non è prospettabile in generale alcun affidamento (né legittimo, né di mero fatto) in capo al proprietario a scampare dalla sanzione relativa al tipo d’abuso edilizio commesso, né che questi possa dolersi dell'eventuale ritardo con cui la P.A. abbia emanato il provvedimento repressivo. Il provvedimento sanzionatorio non richiede neppure una particolare motivazione (essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata), né si impone una comparazione previa dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso (che è in re ipsa) con l'interesse del privato proprietario del manufatto illecito, neppure quando l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso (cfr., per tutti, la ricapitolazione di tutti i principi sulle sanzioni urbanistiche contenuta in Cons. St., 10.01.2020 n. 254) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.03.2021 n. 2365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Lottizzazione abusiva – Prescrizione del reato – Causa di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen. – Valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi – Confisca del terreno e delle opere abusivamente realizzate – Diritto alla difesa – Artt. 30, 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di lottizzazione abusiva, anche in presenza di una causa estintiva del reato, può essere necessario proseguire il processo per accertare il reato, nei suoi estremi oggettivi e soggettivi, al fine di adottare il provvedimento di confisca urbanistica, in quanto il principio generale della immediata declaratoria della causa di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen. è implicitamente derogato da disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure che il giudice penale è tenuto ad applicare.
Sicché, qualora il giudice abbia rilevato una diversa data di consumazione del reato rispetto a quanto indicato nel capo di imputazione, anche a seguito della audizione di testimoni, dovrà prendere atto dell’eventuale prescrizione decorrente dalla nuova data.
In sintesi, dall’accertamento del reato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, il giudice, nel dichiarare la prescrizione può disporre anche la confisca del terreno e delle opere abusivamente realizzate, assicurando il pieno contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che verifichi, sotto il secondo aspetto, l’esistenza di profili quantomeno di imprudenza, negligenza e difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere.

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DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Lottizzazione abusiva c.d. mista – Frazionamento di singoli lotti – Natura di reato progressivo – Decorrenza del termine di prescrizione.
Nel caso di lottizzazione abusiva c.d. mista, trattandosi di reato progressivo al quale si applica la disciplina del reato permanente, il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dopo la ultimazione sia dell’attività negoziale, sia dell’attività di edificazione, e cioè, in quest’ultima ipotesi, dopo il completamento dei manufatti realizzati sui singoli lotti oggetto del frazionamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.03.2021 n. 10123 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando va osservata la distanza di dieci metri? La distanza di dieci metri dalle pareti finestrate di preesistenti edifici, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata anche quando la nuova costruzione sia fronteggiata da un balcone che aggetta da una parete in sé non frontistante.
L’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non certo le “illiceità edilizie” dei terzi.
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d. interesse illegittimo o emulativo.
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
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L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
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In ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
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Dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
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11. Le questioni oggetto del presente, articolato, giudizio sono sostanzialmente tre:
   a) la legittimazione dei signori De Fa. ad agire in giudizio per contestare il titolo edilizio rilasciato alla signora Na.Pa.;
   b) la realizzazione della costruzione della signora Pa.in assenza o in difformità ai titoli abilitativi in precedenza rilasciati, il che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 19 del 2009, escluderebbe la possibilità della realizzazione, con i benefici del c.d. piano casa, dell’intervento edilizio oggetto del presente giudizio;
   c) il rispetto delle distanze minime legali tra i fabbricati.
11.1. L’appellante principale ha dedotto l’insussistenza della legittimazione all’impugnazione da parte dei signori De Fa., in ragione dell’abusività dei loto titoli edilizi.
L’insussistenza delle condizioni soggettive dell’azione, peraltro, potrebbe e dovrebbe anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.1.1. La questione assume evidente rilievo in quanto l’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non certo le “illiceità edilizie” dei terzi (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1874 del 2009, richiamata da Cons. Stato, IV, n. 3968 del 2015).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d. interesse illegittimo o emulativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del 2015; n. 9 del 2014).
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Salvatore De Fa.; l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci. De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà, rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento edilizio assentito alla signora Pa. atteso che, al momento del rilascio dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno sostenuto che la signora Palma non avrebbe potuto beneficiare del permesso a costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n. 19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
11.2.2. L’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 9 del 2009 prevede che gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7, non possono essere realizzati su edifici che, al momento della presentazione della denuncia di inizio di attività edilizia o della richiesta di permesso di costruire, risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, al primo comma, determina le variazioni essenziali, disponendo che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, indica che non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Il provvedimento di convalida, come prima indicato, è stato adottato in quanto l’Amministrazione ha qualificato non essenziali, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, le difformità tra lo stato di progetto dell’originario PdC n. 55 del 2008 e successiva variante e lo stato di fatto di cui al PdC n. 76 del 2016 e, a tal fine, la convalida ha fatto riferimento alle relazioni del 23.03.2018 e del 03.04.2018, riguardanti i sopralluoghi effettuati dal responsabile del procedimento.
In particolare, dal sopralluogo del 30.03.2018, di cui alla relazione del 03.04.2018, è emerso che:
Per quanto riguarda la verifica del piano seminterrato, riportato nei grafici progettuali come ‘area non rilevata’, è stato verificato lo stato dei luoghi rispetto a quanto assentito con il permesso di Costruire n. 55 del 23.10.2008.
In data 30.3.2018 lo stato di fatto presenta una diminuzione della superficie calpestabile e delle difformità di distribuzione interna e aperture esterne rispetto al permesso di costruire n. 55/2008, in particolare è stata ampliata la zona garage ed è stata realizzata a 9,57 m circa dall’ingresso del garage la parete divisoria con il locale deposito con annesso wc.
Il primo piano ed il piano secondo sono realizzati in conformità ai grafici stato di fatto allegati al permesso di costruire n. 76 del 27.12.2016.
Dalla verifica della documentazione agli atti d’ufficio si fa rilevare che lo stato di fatto del piano primo e del piano secondo riportato nei grafici allegato al permesso di costruire n. 76/2016 presentano delle difformità in termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni rispetto a quanto assentito con il permesso di costruire n. 55/2008
”.
Pertanto, il Comune di Volla, ritenuto che il piano seminterrato non ha cambiato destinazione d’uso e che sono state rilevate difformità in termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni, ha qualificato come non essenziali le variazioni.
Tale qualificazione, sulla base della indicata relazione, non appare irragionevole.
Né, i signori De Fa. hanno specificamente contestato l’esito dei sopralluoghi svolti dall’Amministrazione comunale, deducendone il travisamento dei fatti, nemmeno attraverso l’eventuale proposizione di una querela di falso o con gli altri strumenti di tutela previsti, per cui deve ritenersi che non abbiano fornito un adeguato supporto probatorio alla loro prospettazione relativa all’avvenuto cambio di destinazione d’uso del piano seminterrato in abitazione ed alla presenza di altre modifiche in ipotesi essenziali, in misura tale da sovvertire l’istruttoria e la valutazione operata dall’Amministrazione.
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n. 23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti, sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444 del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …
”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass. II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ., 19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471):
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti dalla signora Palma e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique sul fondo vicino
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a www-giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2021

EDILIZIA PRIVATAIn conformità a un indirizzo giurisprudenziale consolidatissimo, grava sulla parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate.
Gli elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza originaria di quest’ultimo.
La prova, peraltro, non può essere data attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili riscontri oggettivi.
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Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni, potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di “mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali.
L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire.

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2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 2, co. 1, della legge regionale toscana n. 53/2004 ammette a sanatoria straordinaria le opere e gli interventi sottoposti a concessione edilizia, ovvero a denuncia di inizio di attività, che siano stati realizzati con variazioni essenziali dal titolo abilitativo o, comunque, in difformità rispetto ad esso, anche se non conformi agli strumenti urbanistici; nonché le opere e gli interventi sottoposti a denuncia di inizio attività realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, anche se non conformi agli strumenti urbanistici.
Il legislatore toscano nell’esercizio delle sue prerogative (cfr. Corte Cost., 28.06.2004, n. 196) ha dunque escluso dal “terzo condono”, per quanto qui interessa, gli interventi soggetti al regime della concessione edilizia/permesso di costruire realizzati in assenza del titolo. E, come riferito inizialmente, il diniego qui impugnato si fonda proprio sulla ritenuta inammissibilità a sanatoria dell’intervento realizzato dalla ricorrente, qualificato dal Comune in termini di “costruzione ex novo”, in quanto tale bisognosa di concessione/permesso di costruire, nella specie mai richiesto e rilasciato.
La qualificazione dell’intervento riveste pertanto, ai fini della decisione, un ruolo dirimente e preliminare rispetto agli ulteriori temi controversi.
Il Comune desume che si sarebbe in presenza di una nuova costruzione dalla stessa istanza di sanatoria e dalla relazione tecnica alla stessa allegata, che si limitano a riportare la descrizione del manufatto abusivo nel suo stato attuale e finale, senza alcun riferimento a un’attività di restauro di un fabbricato preesistente. E già nel contraddittorio procedimentale, originato dalle osservazioni al preavviso di diniego, aveva appunto rilevato come l’istanza di condono non facesse alcuna menzione di preesistenze edilizie.
Di contro, la ricorrente sostiene che nell’istanza di sanatoria non si parlerebbe mai di nuova costruzione, e che la prova della preesistenza sarebbe stata fornita con la relazione tecnico-amministrativa del 19.04.2012, trasmessa al Comune a integrazione della pratica e successivamente unita alle osservazioni formulate a norma dell’art. 10-bis l. n. 241/1990, ove si attesta l’ubicazione del manufatto “nel medesimo luogo ove risultavano mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici", come attestato peraltro da atto pubblico di compravendita del 14.12.1999 (trascritto a Grosseto il 28.12.1999 RGN 18757, registrato ad Orbetello il 30.12.1999 al n. 597) intercorso tra la società ‘Is.Ro. di Ma. E.C. s.a.s.” e la sig.ra An.An. (...)”.
Nella medesima relazione tecnico-amministrativa si legge altresì che la costruzione “risulta essere stata riedificata su fondazioni comunque preesistenti (restituzione in pristino)”.
Ricostruiti nel dettaglio gli argomenti delle parti, il collegio in primo luogo ricorda che –in conformità a un indirizzo giurisprudenziale consolidatissimo, dal quale non vi è ragione di discostarsi– grava sulla parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate. Gli elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza originaria di quest’ultimo. La prova, peraltro, non può essere data attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili riscontri oggettivi (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2020, n. 2660; id., sez. II, 18.03.2020, n. 1929; id., sez. IV, 01.04.2019, n. 2115).
Nel caso in esame, le sole dichiarazioni asseverate riferibili alla ricorrente o ai suoi tecnici sono quelle originariamente contenute nella pratica di sanatoria (l’istanza di condono e la relazione tecnica allegata), che, come si è visto, si limitano a descrivere lo stato attuale del fabbricato e non fanno riferimento a preesistenze, né qualificano l’intervento nei termini pretesi dalla signora An. (restauro e risanamento conservativo).
La relazione tecnico-amministrativa dell’aprile 2012 e le osservazioni al preavviso di diniego riferiscono, dal canto loro, che la preesistenza del fabbricato sarebbe attestata dal contratto di acquisto della proprietà, risalente al 14.12.1999, ma l’affermazione non può essere verificata, stante la mancata produzione in giudizio del contratto, che pure deve presumersi nella disponibilità della ricorrente.
Del pari, non è stata prodotta la relazione di accompagnamento a un’istanza a suo tempo presentata da certo arch. Te. ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, anch’essa citata nelle osservazioni ex art. 10-bis e nella relazione tecnico-amministrativa, e che confermerebbe l’avvenuta riedificazione del fabbricato su fondazioni preesistenti.
Facendo applicazione dell’indirizzo interpretativo richiamato da principio, gli elementi probatori a disposizione –che si riducono a dichiarazioni provenienti dalla stessa parte interessata o dai suoi professionisti di fiducia– sono del tutto inadeguati a dimostrare la preesistenza del fabbricato.
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni, potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di “mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali. L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire (cfr. TAR Toscana, sez. III, 22.02.2019, n. 286).
Né vale sostenere, da parte della ricorrente, che attraverso la nozione di rudere il Comune abbia inteso integrare a posteriori la motivazione dell’atto impugnato. Ribadito che la preesistenza del fabbricato non è stata dimostrata, gli argomenti difensivi spesi dal Comune sono volti (non a integrare il provvedimento impugnato, ma) a evidenziare come gli unici elementi ricavabili dalla relazione tecnico-amministrativa della ricorrente non permettano di risalire a una preesistenza definita nei suoi elementi costitutivi, di modo che, a tutto voler concedere, non ne risentirebbe la qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione.
2.1.2. In forza di tutto quanto precede, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2021 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2020

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio XV prot. CU 97347 del 25.11.2020 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. QI 138499 del 25.11.2020), inerente la richiesta di chiarimenti in merito alle “Tolleranze costruttive” di cui all’art. 34-bis del D.P.R. 380/2001 (Comune di Roma, nota 11.12.2020 n. 148518 di prot.).
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Si leggano, al riguardo, altri precedenti pareri collegati:
  
Oggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio VII prot. Cl 146146 del 26.06.2018 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. Ql 113427 del 03.07.2018), inerente l'applicabilità dell'art. 34, comma 2-ter, dpr 380/2001 per la chiusura di una loggia (Comune di Roma, nota 08.08.2018 n. 135807 di prot.).
   ●
Oggetto: Riscontro richiesta parere U.O.T. Municipio III (ex IV) prot. 125685 del 14.12.2015 (acquisita al D.P.A.U. con prot. 207401 del 18.12.2015), inerente le intervenute modifiche al dpr 380/2001 con la Legge 106/2011 - art. 34, comma 2-ter (Comune di Roma, nota 15.02.2016 n. 26496 di prot.).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite – Accertamento del reato – Buona fede del terzo acquirente – Valutazione della condotta – Artt. 30, 44 d.P.R. 380/2001.
In tema di lottizzazione abusiva, la confisca possa essere applicata anche al di fuori dei casi di condanna, a condizione che nella condotta del terzo acquirente, sul cui patrimonio la misura viene ad incidere, siano riscontrabili quantomeno profili di colpa.
Pertanto, anche il compratore che omette di acquisire ogni prudente informazione circa la legittimità dell’acquisto si pone colposamente in una situazione di inconsapevolezza che fornisce, comunque, un determinante contributo causale all’attività illecita del venditore.
Sicché, la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite nei confronti del terzo acquirente di tali beni, presuppone non solo che questi abbia partecipato inconsapevolmente all’operazione illecita e che, quindi, non sia concorrente nel reato, ma anche che abbia gestito la propria attività contrattuale e precontrattuale assumendo le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell’intervento agli strumenti urbanistici, dovendosi anche tenere conto, sotto questo profilo, del comportamento della pubblica amministrazione.

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Lottizzazione abusiva negoziale – Plurisoggettività del reato – Malafede dei venditori – Terzo estraneo al reato di lottizzazione abusiva – Condotta – Nesso causale – Buona fede – Normale diligenza.
La lottizzazione abusiva negoziale ha carattere generalmente plurisoggettivo, poiché in essa normalmente confluiscono condotte convergenti verso un’operazione unitaria caratterizzata dal nesso causale che lega i comportamenti dei vari partecipi diretti a condizionare la riserva pubblica di programmazione territoriale.
La condotta dell’acquirente, in particolare, non configura un evento imprevisto ed imprevedibile per il venditore, perché anzi inserisce un determinante contributo causale alla concreta attuazione del disegno criminoso di quegli e, per la cooperazione dell’acquirente nel reato, non sono necessari un previo concerto o un’azione concordata con il venditore, essendo sufficiente, al contrario, una semplice adesione al disegno criminoso da quegli concepito, posta in essere anche attraverso la violazione (deliberatamene o per trascuratezza) di specifici doveri di informazione e conoscenza che costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione.
L’acquirente, dunque, non può sicuramente considerarsi, solo per tale sua qualità, “terzo estraneo” al reato di lottizzazione abusiva, ben potendo egli tuttavia, benché compartecipe al medesimo accadimento materiale, dimostrare di avere agito in buona fede, senza rendersi conto cioè —pur avendo adoperato la necessaria diligenza nell’adempimento degli anzidetti doveri di informazione e conoscenza— di partecipare ad un’operazione di illecita lottizzazione.
Quando, invece, l’acquirente sia consapevole dell’abusività dell’intervento —o avrebbe potuto esserlo spiegando la normale diligenza— la sua condotta si lega con intimo nesso causale a quella del venditore ed in tal modo le rispettive azioni, apparentemente distinte, si collegano tra loro e determinano la formazione di una fattispecie unitaria ed indivisibile, diretta in modo convergente al conseguimento del risultato lottizzatorio.
Le posizioni, pertanto, sono separabili se risulti provata la malafede dei venditori, che, traendo in inganno gli acquirenti, li convincono della legittimità delle operazioni.

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Lottizzazione abusiva – Confisca – Opposizione del terzo rimasto estraneo al procedimento – Poteri del giudice dell’esecuzione – Valutazione della condotta del terzo.
In tema di confisca conseguente a lottizzazione abusiva disposta al di fuori dei casi di condanna, il giudice dell’esecuzione, investito come nel caso che ci occupa della opposizione del terzo rimasto estraneo al procedimento, è tenuto ad accertare, dal punto di vista oggettivo, l’effettiva esistenza della lottizzazione e, dal punto di vista soggettivo, l’insussistenza della buona fede nella condotta del terzo acquirente dell’immobile, sulla base di quanto provato dalla pubblica accusa.
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Lottizzazione abusiva – Causa estintiva del reato per intervenuta prescrizione e confisca – Presupposti.
In tema di lottizzazione abusiva, la confisca di cui all’art. 44, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato determinata dalla prescrizione, purché la sussistenza del fatto sia stata già accertata, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il pieno contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio, in applicazione dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., non può proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento.
In sintesi, l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione non è ostativa alla confisca, qualora sia stato assicurato il contraddittorio e il diritto alla prova.

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DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Lottizzazione abusiva – Poteri del giudice – Accertamento del reato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi.
In tema di lottizzazione abusiva, il giudice del dibattimento non è tenuto all’immediata declaratoria della causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione nel corso del giudizio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., dovendo proseguire l’istruttoria per accertare il reato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi al fine di disporre la confisca urbanistica del bene sottoposto a sequestro.
Sicché, la confisca può essere disposta anche dal giudice dell’esecuzione che provvede de plano, a norma degli articoli 676 e 667, comma 4, cod. proc. pen., ovvero all’esito di procedura in contraddittorio a norma dell’art. 666 dello stesso codice, salvo che sulla questione non abbia già provveduto il giudice della cognizione, con conseguente preclusione processuale.
Dunque, presupposto essenziale ed indefettibile, per l’applicazione della confisca in oggetto, è che sia stata accertata l’effettiva esistenza di una lottizzazione abusiva; ulteriore condizione, però, che si riconnette alle recenti decisioni della Corte di Strasburgo, investe l’elemento soggettivo del reato ed è quella del necessario riscontro quanto meno di profili di colpa (anche sotto gli aspetti dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza) nella condotta dei soggetti sul cui patrimonio la misura viene ad incidere
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 03.12.2020 n. 34365 - link a www.ambientediritto.it).

novembre 2020

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Proscioglimento per prescrizione del reato – Confisca – Verifica delle componenti oggettive e soggettive – Fattispecie – Artt. 30, 44, d.P.R. 380/2001.
Il principio di adozione in via immediata del proscioglimento (in esso compreso quello dovuto ad estinzione del reato) va riaffermato, sicché il giudice di primo grado potrà disporre la confisca solo ove, anteriormente al momento di maturazione della prescrizione, sia stato comunque già accertato, nel contraddittorio delle parti, il fatto di lottizzazione nelle sue componenti oggettive e soggettive”.
Nella specie, sia il giudice di appello quanto quello di primo grado non hanno motivato adeguatamente sulla sussistenza dell’elemento psicologico, pertanto, è stato ritenuto dal giudice di legittimità che di disporre l’annullamento con rinvio, al fine di consentire al giudice di appello di pronunciarsi sulla confisca in base all’art. 578-bis, cpp, non potendo disporre la revoca della statuizione ablatoria.
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Reato di lottizzazione abusiva attraverso la modifica della destinazione d’uso di immobili – Reato di lottizzazione abusiva – Configurabilità.
In materia urbanistica, può senz’altro configurarsi il reato di lottizzazione abusiva attraverso la modifica di destinazione d’uso di immobili oggetto di un piano di lottizzazione mediante il frazionamento di un complesso immobiliare in modo che le singole unità perdano la originaria destinazione d’uso per assumere quella residenziale: modificazione che si pone in contrasto con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione.
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Confisca di un immobile abusivamente lottizzato disposta anche nei confronti dei terzi acquirenti – Elementi oggettivi e soggettivi – Profili di colpa nell’attività precontrattuale e contrattuale – Terzo acquirente in buona fede.
In tema di reati edilizi, la confisca di un immobile abusivamente lottizzato può essere disposta anche nei confronti dei terzi acquirenti, qualora nei confronti degli stessi siano riscontrabili quantomeno profili di colpa nell’attività precontrattuale e contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell’intervento con gli strumenti urbanistici.
Tali passaggi chiariscono che il terzo acquirente di buona fede, che ha a buon titolo confidato nella conformità del bene alla normativa urbanistica, non può subire la confisca e che l’onere di dimostrare l’assenza di buona fede grava sull’accusa.
Del resto, in tema di reati edilizi, la condizione di buona fede, che nel caso di accertamento del reato di lottizzazione abusiva preclude la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite nei confronti del terzo acquirente di tali beni, presuppone non solo che questi abbia partecipato inconsapevolmente all’operazione illecita e che, quindi, non sia concorrente nel reato, ma anche che abbia gestito la propria attività contrattuale e precontrattuale assumendo le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell’intervento agli strumenti urbanistici, dovendosi anche tenere conto, sotto questo profilo, del comportamento della pubblica amministrazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2020 n. 31182 - link a www.ambientediritto.it).

ottobre 2020

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Atti di frazionamento o suddivisione delle opere – Illecito lottizzatorio – Natura di reato permanente a forma libera e progressiva nell’evento – Rilevanza della condotta.
L’illecito lottizzatorio è sicuramente reato permanente, ma è anche e soprattutto reato a forma libera e progressivo nell’evento, che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o all’esecuzione delle opere, posto che tali iniziali attività non esauriscono l’iter criminoso, che si protrae attraverso gli ulteriori interventi che incidono sull’assetto urbanistico, con ulteriore compromissione delle scelte di destinazione ed uso del territorio riservate all’autorità amministrativa competente.
Infatti, l’oggetto materiale del reato di lottizzazione abusiva non è la singola costruzione, bensì la trasformazione edilizia realizzata incompatibilmente con gli strumenti di pianificazione urbanistica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2020 n. 28495 - link a www.ambientediritto.it).

settembre 2020

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAStante il disposto di cui all’art. 13 della legge n. 689 del 1981, gli organi preposti all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di violazione di domicilio di cui all’art. 614 cod. pen., la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di persone, e non soltanto ai condomini.
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1. La ricorrente impugna l’ordinanza con cui il Comune di Gignod le ha ordinato di rimuovere -OMISSIS- collocata nel terreno di sua proprietà, sul presupposto che si tratti di un rifiuto abbandonato.
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6. Con il primo motivo, si denuncia: violazione dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981; violazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; sviamento di potere; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; difetto d’istruttoria e motivazione; contraddittorietà.
In particolare, la ricorrente lamenta che l’ispezione, sulla quale l’ordinanza si fonda, sia stata svolta sul suo terreno senza il suo consenso e in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, come invece richiesto per gli accessi a una proprietà privata; a tal fine, contesta che il fondo sia gravato da una servitù di uso pubblico e sostiene che l’eventuale circostanza che sia gravato da una servitù a vantaggio di altri privati non lo renderebbe comunque aperto a un ingresso da parte di una collettività indeterminata.
La difesa dell’Ente sostiene invece che la strada che attraversa il terreno, ancorché di proprietà privata, sia asservita all’uso pubblico (e sia dunque una “strada vicinale”), come dimostrerebbero il fatto che vi passano una serie di condutture pubbliche, che sia stata asfaltata a cura e spese del Comune e che a essa accedano indiscriminatamente tutti gli abitanti della frazione.
Sebbene le parti abbiano dibattuto soprattutto sulla natura privata o pubblica della strada che attraversa il terreno e sul novero dei soggetti che possano legittimamente percorrerla, tale questione non appare dirimente, con la conseguenza che questo Tribunale può esimersi dall’affrontarla (anche perché si tratta di un problema di natura squisitamente civilistica che, di per sé, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario).
A ben vedere, infatti, la ricorrente la solleva solo al fine d’invocare l’applicabilità dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, secondo cui gli organi preposti all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di violazione di domicilio di cui all’art. 614 cod. pen. (in questi termini, si v. Cass. civ., sez, I, sent. n. 6361 del 2005), la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di persone, e non soltanto ai condomini (si v., tra le tante, Cass. pen., sez. V, sentt. n. 24755 del 01.06.2018 e n. 53438 del 24.11.2017).
Pertanto, nel caso di specie non è necessario verificare se, sul piano del diritto privato, la strada che attraversa il terreno della ricorrente sia gravata da una servitù privata o asservita all’uso pubblico, quanto piuttosto se, in punto di fatto, risulti o meno accessibile ai terzi.
La risposta non può che essere positiva, perché si tratta di un’area aperta e potenzialmente accessibile da un’indistinta categoria di persone, ovvero dagli abitanti delle case vicine e da coloro che vi si dirigono (occorre infatti rammentare che la stessa servitù di passaggio “civilistica” può essere esercitata dal proprietario del fondo dominante anche in via indiretta, attraverso le visite di terzi riferibili alle normali esigenze della vita di relazione: sul punto si v., tra le più recenti, Cass. civ., sez. II, sent. n. 4821 del 2019).
Pertanto, per quanto è d’interesse in questo giudizio, il terreno della ricorrente non può essere considerato una «privata dimora», ai sensi dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che, sotto questo profilo, l’accertamento è legittimo e il primo motivo di ricorso è meritevole di rigetto (TAR Valle d'Aosta, sentenza 16.09.2020 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Reato di lottizzazione – Sanatoria produttiva di effetti estintivi non previsti dalla legge – Esclusione – Provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa Prima del passaggio in giudicato della sentenza – Impossibilità per il giudice di disporre la confisca – Presupposti – Giurisprudenza.
In materia urbanistica, deve essere e esclusa la possibilità di una sanatoria produttiva di effetti estintivi del reato di lottizzazione, che non è prevista dalla legge, riconoscendo tuttavia la possibilità che alcuni provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa, prima del passaggio in giudicato della sentenza, comportino quale conseguenza, se legittimamente emanati, l’impossibilità per il giudice di disporre la confisca.
E ciò avviene, senz’altro, allorquando l’autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, rinunci ad acquisire i beni al patrimonio indisponibile dello Stato.
Nell’ipotesi successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la Corte di cassazione non ha espresso un orientamento univoco.
In alcuni casi, ha ritenuto che, ferma la piena ed incondizionata potestà di programmazione e gestione del territorio dell’autorità amministrativa, il successivo adeguamento degli immobili acquisiti agli standard urbanistici già vigenti o l’adozione di nuovi strumenti urbanistici non consentono la revoca della confisca di lottizzazione
(Cass., Sez. 3, n. 34881 del 22/04/2010, Franzese, che ha precisato che l’amministrazione può legittimamente scegliere di non esercitare in proprio le iniziative edificatorie e di non conservare la proprietà sui terreni e manufatti che eventualmente vi insistano, facendo ricorso a trasferimenti volontari a titolo oneroso anche ai precedenti proprietari, e n. 21125 del 12/04/2007, Licciardello).
In precedenza, aveva affermato invece che, a seguito della sopravvenuta legittimità della lottizzazione, la confisca doveva essere revocata, fermo restando il reato penale (Cass., Sez. 3, n. 35219 del 11/04/2017, Arcieri e n. 47272 del 30/11/2005, Iacopino).
Tale secondo orientamento è stato più di recente ribadito dalle sentenze Sez. 3, n. 4373 del 13/12/2013, dep. 2014, Franco, e n. 43591 del 18/02/2015, Di Stefano
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.09.2020 n. 25925 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi eseguiti in base a permesso di costruire annullato: la Plenaria traccia i presupposti e le condizioni della “fiscalizzazione” degli abusi.
La previsione dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001 secondo cui l’autorità comunale può irrogare una sanzione pecuniaria in caso di permesso di costruire annullato, deve ritenersi fare riferimento esclusivamente alla sussistenza di vizi che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione.
E’ questo il principio di diritto affermato dalla Plenaria, la quale, nell’ambito delle diverse opzioni interpretative solcate dalla giurisprudenza, ha preferito quella più aderente al dato testuale e sistematico della disciplina di riferimento, con la conseguenza che qualora i vizi del titolo a suo tempo rilasciato, che ne hanno provocato l’annullamento in sede giurisdizionale, siano relativi all’insanabile contrasto del titolo edilizio con le norme di programmazione e regolamentazione urbanistica, va esclusa l’applicabilità del regime di fiscalizzazione dell’abuso in ragione delle non rimovibilità del vizio.
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Edilizia – Annullamento del permesso di costruire – Applicazione sanzione pecuniaria – Condizioni
I vizi delle procedure amministrative cui fa riferimento l’art. 38 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”) ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria in caso di annullamento del titolo edilizio, sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione (1).
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   (1) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a margine di una vicenda relativa all’interpretazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”) e, segnatamente, all’identificazione dei vizi che consentono la sanatoria, mediante irrogazione di una sanzione pecuniaria, di interventi edilizi realizzati sulla base di un permesso di costruire successivamente annullato, ha affermato –sulla base di considerazioni di ordine testuale e sistematico– che “i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”.
La questione era stata rimessa da Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 11.03.2020, n. 1735 (oggetto della News US in data 21.03.2020) la quale dopo aver evidenziato la presenza, in giurisprudenza, di tre diverse opzioni interpretative (c.d. “ampia”, “restrittiva” e “intermedia”) aveva ritenuto preferibile quella c.d. “intermedia” (che ammette la “fiscalizzazione”, oltre che nei casi di vizi formali, anche nei casi di vizi sostanziali, però emendabili), in tesi meglio rispondente alla necessità di garantire l’affidamento di chi ha ottenuto il rilascio del titolo poi annullato, sino al limite massimo consentito dalla contrapposta tutela del terzo.
   II. – L’iter procedimentale e contenzioso che ha condotto alla controversia dinanzi al Giudice d’appello si è così articolato:
      a) il Comune ha rilasciato un permesso di costruire per la ristrutturazione con ricostruzione di presunte parti in precedenza crollate di un fabbricato rurale (costituito da una tradizionale “tea” composta, nell’assetto originario, da una costruzione di legno con tetto a doppia falda, a due piani, di cui l’uno adibito a stalla e l’altro superiore a fienile delle dimensioni di mt. 6,10 x 5,7 in pianta), con rilocalizzazione del manufatto e suo ampliamento;
      b) l’intervento oggetto del titolo abilitativo è stato eseguito dal soggetto al quale è stato rilasciato il titolo abilitativo;
      c) avverso tale provvedimento è insorta, con ricorso al Tar per la Lombardia, la c.d. “controinteressata procedimentale” (una vicina); d) tale ricorso è stato accolto in primo grado con sentenza Tar per la Lombardia, sez. II, 27.04.2016, n. 813, la quale è stata confermata con sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2018, n. 1725; da qui la caducazione del titolo abilitativo impugnato;
      e) a seguito dell’annullamento giurisdizionale il Comune ha dato seguito alle seguenti ulteriori fasi procedimentali:
         e1) ha comunicato alle parti interessate (ossia ai titolari del permesso annullato e alla vicina che ne aveva ottenuto l’annullamento), di avere avviato un procedimento amministrativo volto all’applicazione delle misure di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001;
         e2) ha emesso un provvedimento conclusivo del procedimento con il quale:
I) ha premesso di voler considerare come eccezionale, in base ad un’interpretazione meno rigorosa dell’art. 38 d.P.R. n. 380, la demolizione delle opere, e di voler privilegiare la riedizione del titolo emendato da vizi, con irrogazione della sanzione pecuniaria; II) ha ritenuto impossibile, sulla base delle locali previsioni urbanistiche, eliminare i vizi della procedura con il rilascio di un nuovo titolo, non potendosi riallocare per ragioni tecniche la “tea” nel sedime originario, avendo essa mantenuto la sua identità di edificio storico tipico, con interesse dell’amministrazione a conservarla nella posizione attuale;
III) ha evidenziato che il manufatto preesistente e l’interrato realizzato al di sotto, non potrebbero demolirsi senza pregiudizio della “tea” soprastante;
IV) ha evidenziato che sarebbe suscettibile di demolizione solo l’ampliamento, dato che la pronuncia di annullamento ha escluso che lo si potesse ritenere ricostruzione di una preesistenza;
V) ha applicato ai proprietari titolari del permesso di costruire annullato la sanzione pecuniaria di cui al predetto, rinviando per liquidarla ad un successivo atto della competente Agenzia delle entrate, quanto al manufatto preesistente, ossia la tea originaria così come spostata di sede, e all’interrato sottostante di nuova realizzazione;
VI) ha ordinato la demolizione della porzione oggetto di ampliamento e del volume interrato ad essa sottostante, ossia del corpo di fabbrica a monte, di mt. 6,90 x 5,60 in pianta, realizzato in muratura quale presunto recupero delle parti crollate;
      f) tale ultimo provvedimento e l’atto determinativo della sanzione sono stati –anch’essi– impugnati dall’originaria ricorrente (ovvero dalla vicina) e dai proprietari intestatari del permesso di costruire annullato, l’una invocando l’integrale demolizione di tutto quanto realizzato, gli altri invocando l’integrale conservazione del bene contro il pagamento di una sanzione ulteriore;
      g) con la sentenza Tar per la Lombardia, sez. II, 17.01.2019, n. 98, previa riunione dei ricorsi, la domanda volta alla caducazione dell’ordine di demolizione è stata dichiarata improcedibile mentre quella intesa ad ottenere l’ottemperanza della precedente sentenza è stata accolta con conseguente declaratoria di nullità del provvedimento emesso dal Comune e demolizione dell’intero manufatto;
      h) la predetta sentenza ha inequivocabilmente ritenuto che la sanatoria ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001 non sia possibile nel caso di vizi della procedura non emendabili, e quindi ha aderito all’orientamento più restrittivo tra quelli tratteggiati dalla giurisprudenza;
      i) avverso tale ultima sentenza è stato interposto appello da parte dei proprietari del bene: nell’ambito del relativo giudizio di secondo grado è intervenuto il deferimento all’Adunanza plenaria definito con la pronuncia in rassegna.
   III. – Il percorso argomentativo seguito dall’Adunanza plenaria, che ha ricostruito l’assetto della giurisprudenza sul tema, è così articolato:
      j) sul versante della disciplina e della ratio che la connota:
         j1) l’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che “In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36 (comma 2)”, disposizione, quest’ultima, che disciplina l’accertamento di conformità;
         j2) effetto della disciplina di cui trattasi è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria;
         j3) detta equiparazione è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi;
         j4) la composizione degli opposti interessi in rilievo –tutela del legittimo affidamento da una parte, tutela del corretto assetto urbanistico ed edilizio dall’altra– è realizzato dal legislatore per il tramite di una “compensazione” monetaria di valore pari “al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite” (c.d. fiscalizzazione dell’abuso);
      k) il predetto art. 38 contiene un’eccezionale deroga al principio di necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, connotata da due condizioni:
         k1) la prima consistente nella motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative;
         k2) la seconda identificata nella motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino;
      l) dette condizioni –oltre che declinate in modo generico dal legislatore, non avendo quest’ultimo chiarito cosa debba intendersi per “vizi delle procedure amministrative” e per “impossibilità” di riduzione in pristino– si rivelano eterogenee poiché:
         l1) la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2 l. n. 241 del 1990, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile;
         l2) la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere al ripristino dello stato dei luoghi;
      m) sul versante degli approdi cui è giunta la giurisprudenza, essa ha, in alcuni casi, sostenuto che nei “vizi della procedura” possano sussumersi tutti quelli potenzialmente in grado di invalidare il provvedimento nella duplice posizione di:
         m1) vizi relativi alla forma e al procedimento;
         m2) vizi, invece, relativi alla conformità del provvedimento finale rispetto alle previsioni edilizie e urbanistiche disciplinati l’edificazione;
      n) conseguentemente, secondo tale impostazione, la c.d. fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla tipologia del vizio (procedurale o sostanziale) avendo il legislatore affidato l’eccezionale percorribilità della sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda le sue radici e la sua legittimazione nell’esigenza di tutelare l’affidamento del privato, rinvenendosi in questa chiave di lettura la “motivata valutazione” fornita dall’amministrazione quale unico elemento sul quale il sindacato del giudice amministrativo dovrebbe concentrarsi;
      o) diverse, sono, ad avviso della Plenaria, le coordinate interpretative dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001, e ciò sulla base di argomenti di ordine “testuale” e “sistematico”;
      p) sul versante testuale:
         p1) la disposizione fa specifico riferimento ai vizi “delle procedure”, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an e il quomodo dell’attività edificatoria;
         p2) non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito, all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio, rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via generale dall’art. 21-nonies, comma 2, della legge generale sul procedimento;
         p3) d’altronde, la convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”:
I) ogni diverso vizio inerente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo;
II) lo ius superveniens poiché riguardante il contesto normativo generale, esula certamente dal concetto di “rimozione del vizio”, riguardante la singola e concreta fattispecie provvedimentale;
         p4) il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto;
         p5) diversamente da quanto sostenuto dall’orientamento giurisprudenziale “estensivo”, in casi siffatti il sindacato del giudice chiamato a vagliare la legittimità della operata fiscalizzazione dell’abuso deve avere ad oggetto proprio la natura del vizio: la “motivata valutazione” dell’amministrazione infatti attiene al preliminare vaglio amministrativo circa la rimovibilità (anche) in concreto del vizio, ex art. 21-nonies comma 2, e rileva non già rispetto al binomio fiscalizzazione/demolizione, quanto in relazione al diverso binomio convalida/applicazione dell’art. 38, costituente soglia di accesso per applicazione dell’intero impianto dell’art. 38 (e non solo dell’opzione della fiscalizzazione);
         p6) la descritta esegesi è confermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale la quale nella sentenza 11.06.2010, n. 209 (in Giur. cost., 2010, 2417, con nota di ESPOSITO) ha avuto modo di chiarire, giudicando della legittimità di una norma di interpretazione autentica di una disposizione provinciale di tenore identico a quella nazionale in argomento (interpretazione autentica tesa ad estendere la fiscalizzazione ai vizi sostanziali), che “l'espressione «vizi delle procedure amministrative» non si presta ad una molteplicità di significati, tale da abbracciare i «vizi sostanziali», che esprimono invece un concetto ben distinto da quello di vizi procedurali e non in quest'ultimo potenzialmente contenuto”;
      q) sul versante sistematico:
         q1) la tutela dell’affidamento attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito;
         q2) a ciò si aggiunge, nei casi in cui l’annullamento del titolo sia intervenuto in sede giurisdizionale su istanza di proprietario limitrofo o associazioni rappresentative di interessi diffusi (giova sottolineare che l’art. 38 non si sofferma sulla natura giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento), che la tutela dell’affidamento del costruttore, attraverso la fiscalizzazione dell’abuso anche in relazione a vizi sostanziali, di fatto vanificherebbe la tutela del terzo ricorrente, il quale, all’esito di un costoso e defatigante giudizio, si troverebbe privato di qualsivoglia utilità, essendo la sanzione pecuniaria incamerata dall’erario;
         q3) il punto di equilibrio sin qui individuato nel delicato bilanciamento fra tutela dell’affidamento, tutela del territorio e tutela del terzo non è depotenziato dalla giurisprudenza della Corte EDU sul carattere fondamentale del diritto di abitazione e sul necessario rispetto del principio di proporzionalità nell’irrogazione della sanzione demolitoria (si veda, da ultimo, Corte EDU, 21.04.2016 Ivanova vs. Bulgaria, in Urbanistica e appalti, 2016, 1317, con nota di SCARCELLA), sul rilievo che:
I) nell’ordinamento interno, caduto il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi, si è affermato, anche per via legislativa, che il “bene della vita” cui il privato aspira è meritevole di protezione piena a prescindere dalla qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo della posizione giuridica al quale esso si correla;
II) è quindi ben possibile che, a prescindere dalla qualificazione giuridica della posizione soggettiva del costruttore che dinanzi all’annullamento in sede amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire reclami il ristoro dei danni conseguenti al legittimo affidamento dal medesimo riposto circa la legittimità dell’edificazione realizzata, l’illecito commesso dall’amministrazione comporti il sorgere di un’obbligazione all’integrale risarcimento, per equivalente, del danno provocato;
III) l’obbligazione interviene a ridare coerenza, ragionevolezza ed effettività al sistema delle tutele, ove la conservazione dell’immobile nella sua integrità si ponga in irrimediabile conflitto con i valori urbanistici e ambientali sopra ricordati;
      r) conclusivamente, il principio di diritto da affermarsi è nel senso che “i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”: ne discende che qualora i vizi del titolo a suo tempo rilasciato, che ne hanno provocato l’annullamento in sede giurisdizionale, siano relativi all’insanabile contrasto del titolo edilizio con le norme di programmazione e regolamentazione urbanistica, va esclusa l’applicabilità del regime di fiscalizzazione dell’abuso in ragione delle non rimovibilità del vizio.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      s) sulla ratio dell’art. 38 del d. P.R. 06.06.2001, n. 380:
         s1) l’art. 38 del d. P.R. n. 380 del 2001, riproduttivo del previgente art. 11 della l. n. 47 del 1985, prevede, in caso di costruzione realizzata in base ad atti annullati in sede giurisdizionale, due alternative possibili, e cioè la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o l'applicazione di una sanzione pecuniaria quando non sia tecnicamente possibile la rimozione indicata;
         s2) detta disposizione “[…] rappresenta una speciale norma di favore, che differenzia sensibilmente la posizione di colui che ha realizzato l’opera abusiva sulla base di titolo annullato (c.d. “abusività sopravvenuta”) da quella di chi ha realizzato un’opera abusiva sin dall’inizio senza alcun titolo abilitativo (c.d. “abusività originaria”), per il quale ultimo l’art. 31 del t.u. edilizia prevede sempre, senza eccezione alcuna, la sanzione della demolizione. L’art. 38 è una speciale norma di favore che non si pone in contraddizione con quanto stabilito dall’art. 31 dello stesso t.u., andando a prendere in esame una fattispecie astratta di abuso edilizio (derivante dall’annullamento del titolo edilizio) ben diversa da quella presa in esame dall’ultima disposizione menzionata (derivante dall’assenza originaria del titolo o dalla totale difformità dallo stesso delle opere edificate). […] Se fosse mancata un’espressa previsione legislativa, la posizione del privato che realizza un’opera sulla base di un titolo edilizio annullato, non si sarebbe differenziata da quella del privato che ha realizzato un’opera priva di titolo edilizio sin dall’origine” (A. SENATORE, L’esecuzione delle sanzioni amministrative da illecito urbanistico-edilizio, in F. CARINGELLA, U. DE LUCA, Manuale dell’edilizia e dell’urbanistica, a cura di, Roma, 2017, 1275 ss.);
         s3) l’Adunanza plenaria, con sentenza 23.04.2009, n. 4 (in Guida al dir., 2009, 21, 97, con nota di PONTE; Riv. giur. edilizia, 2009, I, 751, con nota di GRAZIOSI; Giornale dir. amm., 2010, 47, con nota di LAVITOLA), ha evidenziato che:
I) […] “Il legislatore, sulla base della considerazione che, normalmente, l'annullamento interviene quando l'opera è stata già realizzata, ha ritenuto opportuno conferire all'amministrazione la possibilità di non procedere automaticamente all’applicazione delle normali sanzioni susseguenti all'accertamento dell'abuso, quali la demolizione dell'opera, potendo essere conveniente mantenere ferma l'opera realizzata ed introitare una sanzione pecuniaria cospicua, quale appunto quella costituita dal valore venale delle opere abusive realizzate”;
II) “Questo non esclude la rilevanza del fatto che nel caso di specie l'abuso edilizio emerge solo a seguito dell'annullamento di un atto rilasciato dalla stessa amministrazione. Tuttavia l'ambito della rilevanza è rimessa al legislatore, che è l'unico in grado di derogare ai normali effetti del giudicato di annullamento, ossia al fatto che la demolizione dell’atto rende illecite quelle condotte che per non essere tali avrebbero avuto bisogno della sua vigente efficacia”;
III) “Quindi, proprio la presenza del giudicato in senso tecnico, la cui intangibilità vale anche nei confronti del legislatore, impone la previsione espressa non di un’ipotesi che direttamente lo contrasti, bensì la volontà di fondare un potere nuovo rispetto a quello esercitato nell’atto annullato, che abbia lo scopo di amministrare gli effetti dell’avvenuta esecuzione dell’atto medesimo orientato cioè a realizzare un assetto della fattispecie diversificato da quello tipico scaturente dal giudicato”;
IV) “In altri termini, il venir meno del titolo sulla cui base l'opera è stata realizzata -e quindi la circostanza che il «fatto» realizzativo dell'opera non sia più sorretto dalla legittimità- apre la «possibilità» di estendere anche a tali opere il beneficio del condono";
V) “il legislatore ha solamente la possibilità, e non l’obbligo, di includere nel condono le opere realizzate nel periodo «coperto» dalla legge”; tale “inclusione deve avvenire attraverso una previsione espressa e chiara, proprio in quanto viene in rilievo il giudicato e la possibile disparità di trattamento rispetto alle ipotesi di illecito mai sottoposte al vaglio giurisdizionale e che il giudicato di annullamento riporta all’iniziale stato di illiceità";
VI) “il sistema non consente la possibilità di dare rilievo alla situazione soggettiva di affidamento, in cui si troverebbe colui che ha realizzato l'opera in base ad un titolo originariamente legittimo e poi annullato, in quanto tale situazione soggettiva si configura nei confronti dell'amministrazione quando apre un procedimento di secondo grado il cui possibile esito sia il provvedimento di annullamento, ma non invece nei confronti del giudice dell'annullamento che, chiamato a giudicare della legittimità del titolo abilitativo da parte di quei terzi, le cui posizioni erano rimaste impregiudicate dal rilascio del titolo medesimo, deve solamente statuire sulla domanda proposta da quei soggetti, legittimati ad impugnare, che fanno fondatamente valere le proprie ragioni”;
         s4) la giurisprudenza ha anche fugato i dubbi di incostituzionalità dell’omologa previsione già contenuta nell’art. 11 della l. n. 47 del 1985 (poi riprodotta nell’art. 38 di cui trattasi) nella parte in cui prevede l'irrogazione di una sanzione pecuniaria ove non sia possibile la rimozione dell'abuso edilizio e la riduzione in pristino, in considerazione che “la tutela che l'ordinamento appresta al soggetto, che abbia ottenuto in sede giurisdizionale, l'annullamento di una concessione di costruzione illegittimamente assentita, non si identifica necessariamente nella demolizione di quanto illegittimamente edificato” (Tar per la Puglia, sez. II, 05.05.1995, n. 329, in Trib. amm. reg., 1995, I, 3254);
         s5) in relazione all’annullamento d’ufficio del titolo edilizio:
I) secondo l’Adunanza plenaria, come è noto, “Ai fini dell'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte” (così Cons. Stato, ad. plen., sentenza 17.10.2017, n. 8, in Foro it., 2018, III, 6, con nota di A. TRAVI, ed in Giorn. dir. amm., 2018, 67, con nota di TRIMARCHI, oggetto della News US in data 23.10.2017, cui si rimanda per ogni opportuno approfondimento);
II) ancora in tema di annullamento in autotutela in materia edilizia, cfr., Cons. Stato, sez. IV, sentenza 18.07.2018, n. 4374 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui “In ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività della legge, il termine di diciotto mesi per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio, introdotto, nell'art. 21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, non si applica ai provvedimenti di annullamento d'ufficio adottati prima dell'entrata in vigore di tale legge (28.08.2015)” (fattispecie riguardante l’annullamento, in autotutela, di un titolo edilizio, per riscontrata violazione della distanza minima dal confine);
         s6) in argomento, da ultimo, cfr. anche Cons. Stato, sezione IV, sentenza 07.09.2018, n. 5277 (in Foro it., 2019, III, 57, con nota di CORDOVA), secondo cui “L'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio, successivamente valutato come illegittimo, è possibile anche ad una distanza temporale considerevole dal rilascio del titolo medesimo, ma deve essere adeguatamente motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, tenuto anche conto degli interessi dei privati coinvolti” (fattispecie relativa all’annullamento d’ufficio di due permessi di costruire, sopraggiunto sette anni dopo il rilascio dei titoli, in cui il Giudice d’appello è pervenuto alla conclusione dell’illegittimità di tale intervento in autotutela, anche perché, nella specie, “il Comune non ha dedicato alcun passaggio motivazionale alla possibilità, non implausibile, di annullare soltanto parzialmente i titoli edilizi rilasciati al fine di contemperare le contrapposte esigenze recando il minore sacrificio possibile alla posizione giuridica del privato”);
      t) sul rapporto tra d.P.R. n. 380 del 2001 e la legislazione edilizia previgente (anche con specifico riferimento all’art. 38): è stato affermato che “a seguito dell’abrogazione dell’art. 11 della l. n. 47 del 1985, da parte dell’art. 136 del t.u. edilizio, la disciplina di riferimento è quella contenuta nell’art. 38 del t.u. edilizio. […] Gli aspetti di natura sostanziale che differenziano l’istituto dalla sua versione preesistente consistono anzitutto nella richiesta di una «motivata valutazione» con riguardo all’impossibilità della rimozione dei vizi procedimentali che hanno determinato l’annullamento del titolo edilizio e/o con riguardo all’impossibilità di eseguire la demolizione. In altri termini, la norma impone un onere motivazionale rafforzato in capo alla p.a. comunale, evidentemente in ragione della natura derogatoria del regime sanzionatorio in questione. Un secondo aspetto di novità risiede nell’assegnazione della competenza al dirigente del competente ufficio comunale, in luogo del sindaco […]. L’ultima novità dell’istituto, rispetto alla versione precedente, risiede nella sua applicazione […] anche all’ipotesi dei lavori eseguiti tramite S.C.I.A. presentata in alternativa al permesso di costruire ex art. 23 del t.u.” (A. SENATORE, L’esecuzione delle sanzioni amministrative da illecito urbanistico-edilizio, cit., 1278):
         t1) Tar per l’Emilia Romagna, sez. II, 29.11.2017, n. 783, secondo cui il d.P.R. n. 380 del 2001 “costituisce un testo unico compilativo della disciplina previgente: è indubbio che, con particolare riferimento all’art. 31, detto testo unico ha dato luogo -almeno nel testo originario- ad una mera trasposizione dell’art. 7 della l. n. 47 del 1985”;
         t2) Tar per la Sicilia, sez. III, 13.02.2015, n. 444, secondo cui “sol se si legge l’art. 7 della l. n. 50 del 1999, si comprende come la natura e qualificazione dei testi unici misti -qual è il d.P.R. n. 380 del 2001- abbiano voluto soddisfare, tra gli altri criteri e princìpi direttivi:
a) la puntuale individuazione del testo vigente delle norme;
b) l’esplicita indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni;
c) il coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo
” (cfr. in tal senso, Cons. Stato, Ad. gen., parere 29.03.2001, n. 3/01, in Cons. Stato, 2001, I, 2554);
      u) sull’obbligo di intervento dell’amministrazione in caso di annullamento del titolo edilizio:
         u1) Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2016, n. 2631, secondo cui ”L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire rende abusive le opere edilizie realizzate in base a quest'ultimo, di talché il Comune, stante l'efficacia conformativa di tal giudicato, ne deve dare esecuzione, adottando i provvedimenti consequenziali”;
         u2) Tar per il Piemonte, sez. II, 08.07.2014, n. 1171, secondo cui “In sede di ottemperanza al giudicato l'Amministrazione è tenuta, pertanto, non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice, e a determinarsi secondo i limiti imposti dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a prendere in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando non soltanto i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull'oggetto della pretesa, all'evidente scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato”;
         u3) Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2398 (in Foro amm., 2014, 1410), secondo cui “L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il comune, stante l'efficacia conformativa, oltre che costitutiva e ripristinatoria, della sentenza del giudice amministrativo, è obbligato a dare esecuzione al giudicato, adottando i provvedimenti consequenziali; questi, peraltro, non devono necessariamente avere ad oggetto la demolizione delle opere realizzate: l'art. 38 d.p.r. 06.06.2001 n. 380 prevede invece una gamma articolata di possibili soluzioni, della valutazione delle quali l'atto conclusivo del nuovo procedimento dovrà ovviamente dare conto”;
         u4) Cons. Stato, sez. VI, 13.06.2011, n. 3571 (in Foro amm. Cons. Stato, 2011, 2051), secondo cui “L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato, adottando i provvedimenti consequenziali; tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, prescindendo l'art. 38 d.p.r. 06.06.2001 n. 380, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38; consegue l'inammissibilità del ricorso per ottemperanza proposto dopo e nonostante l'adozione dell'atto, ferma la giustiziabilità dello steso nell'ordinaria sede del giudizio di cognizione”;
         u5) Cons. Stato, sez. V, 14.10.1998, n. 1475 (in Appalti urbanistica edilizia, 1999, 694), secondo cui “Prima di procedere alla demolizione di un edificio abusivo -ancorché disposta in esecuzione del giudicato d'annullamento della concessione edilizia-, occorre prima attendere l'esito del procedimento di sanatoria dell'immobile stesso, tenuto conto del carattere irreversibile di tale sanzione demolitoria”;
         u6) Cons., Stato, sez. V, 24.10.1983, n. 493 (in Cons. Stato, 1983, I, 774), secondo cui “ove una licenza edilizia sia stata annullata in sede giurisdizionale, l’ottemperanza al giudicato da parte dell’autorità comunale –che deve aver luogo indipendentemente da qualsiasi istanza di parte– non comporta necessariamente l’irrogazione della sanzione demolitoria, ben potendo il sindaco scegliere tra questa e l’applicazione della sanzione pecuniaria”;
      v) sugli abusi connotati da disvalore diverso: Corte cost., 09.01.2019, n. 2 (in Foro it., 2019, I, 755 oggetto della News US in data 18.01.2019, cui si rimanda per ogni opportuno approfondimento), secondo cui “È dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. -l'art. 22, comma 2, della legge reg. Lazio n. 15 del 2008. La disposizione censurata dal TAR Lazio -ragguagliando al valore venale dell'abuso la misura della somma da pagare, a titolo di oblazione, nella procedura di accertamento di conformità degli interventi edilizi eseguiti in assenza di titolo abilitativo o in difformità da esso- assoggetta chi intenda sanare tale forma di abuso al medesimo onere pecuniario previsto, dall'art. 20 della citata legge regionale, per la sanatoria degli interventi edilizi eseguiti in base a titolo abilitativo successivamente annullato, con l'irragionevole conseguenza di parificare, sul piano dei costi, abusi connotati da disvalore diverso, atteso che nell'ipotesi prevista dalla norma censurata trattasi di interventi conformi alla normativa urbanistico-edilizia vigente e pregressa, regolarizzabili sotto l'aspetto formale mediante il relativo accertamento di conformità, mentre in quella prevista dall'art. 20 trattasi di interventi edilizi sostanzialmente illegittimi, per i quali sarebbe necessario il ricorso all'ordinario iter repressivo con la demolizione del manufatto, cui l'amministrazione decide invece di soprassedere per ragioni di materiale impossibilità”;
      w) sulla stima dell’Agenzia del territorio (oggi Agenzia delle entrate) prevista dall’art. 38 d. P.R. n. 380 del 2001: Tar per la Liguria, sez. I, 02.11.2011, n. 1506, secondo cui:
      w1) “nel procedimento disegnato dall’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, la stima dell’Agenzia costituisce una fase infraprocedimentale, in relazione alla quale non è richiesta una ulteriore (ed ultronea) comunicazione di avvio del procedimento”;
         w2) l’Agenzia del territorio effettua la stima “nell’esercizio di discrezionalità tecnica” e le relative valutazioni sono sindacabili dal giudice amministrativo soltanto “sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza, nonché della congruità dell'istruttoria”;
      x) sulla nozione di “impossibilità di ripristino”: Cons. Stato, sez. II, 23.09.2019, n. 6284, secondo cui esso è inteso “in senso più ampio non solo riferito alla oggettiva impossibilità materiale «tecnica», ma riferito alla comparazione dell’interesse pubblico al recupero della situazione di legalità violata e accertata giudizialmente con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole, che aveva confidato nell'esercizio legittimo del potere amministrativo” (cfr. in tal senso, altresì, Cons. Stato, sez. VI, 28.11.2018, n. 6753, in Merito, 2019, 2, 87; sez. VI, 09.04.2018 n. 2155, in Foro amm., 2018, 639, che fa riferimento anche alla posizione di eventuali terzi acquirenti di buona fede);
      y) sul rapporto tra la “sanatoria” ex art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001 e l’accertamento di conformità ex art. 36 del medesimo d.P.R.:
         y1) Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2017, n. 2160 (in Foro it., 2017, 1067), secondo cui, una volta identificato nella tutela del legittimo affidamento l'elemento normativo che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato in buona fede l'opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a quanti abbiano realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, ne consegue che l'art. 38 d.p.r. 380 del 2001 può trovare applicazione solo in presenza di manufatti realizzati conformemente al titolo edilizio assentito e che diventino abusivi solo a seguito del sopravvenuto annullamento di quest’ultimo; per le ipotesi di abusi formali realizzati in assenza ab initio di valido titolo abilitativo, trova infatti applicazione il diverso istituto dell'accertamento di conformità, subordinato al riscontro delle stringenti condizioni di cui all'art. 36 stesso d.p.r.;
         y2) Tar per la Puglia, sez. st. Lecce, sez. III, 02.07.2010, n. 1645, secondo cui “l’art. 38 disciplina una forma di sanatoria nella quale la conformità delle opere che, per effetto dell’annullamento del titolo edilizio, sono divenute abusive viene a sussistere nei confronti della strumentazione urbanistica esistente nel momento del rilascio del titolo abilitativo; questo a differenza di quanto avviene per la sanatoria di cui all’art. 36,che presuppone la conformità delle opere alla strumentazione urbanistica esistente alla data di realizzazione delle opere stesse e alla data di richiesta della sanatoria”;
      z) sulla nozione e limiti della regola della c.d. “doppia conformità”:
         z1) tra le tante, Corte cost., 08.11.2017, n. 232 (in Giur. cost., 2017, 2340, connota di SAITTA), secondo cui “In materia di abusi edilizi, va affermata l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, 1° e 3° comma, l.reg. Sicilia n. 16 del 2016, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono che «il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda» (1° comma), e non anche a quella vigente al momento della realizzazione dell'intervento; e nella parte in cui si pone «un meccanismo di silenzio-assenso che discende dal mero decorso del termine di novanta giorni» (3° comma) dalla presentazione della istanza al fine del rilascio del permesso in sanatoria”;
         z2) Cons. giust. amm. sic., sez. riun., parere 28.09.2017, n. 808, secondo cui “Il principio della doppia conformità urbanistico- edilizia non può essere esteso alle violazioni paesaggistiche”;
         z3) Tar per la Campania, sez. VIII, 28.10.2016, n. 5010 (in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 1080), secondo cui secondo cui, ai fini del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, è necessaria la sussistenza della c.d. doppia conformità, non rilevandosi sufficiente la sola conformità delle opere alla strumentazione urbanistica vigente all'epoca di proposizione dell'istanza di accertamento;
         z4) Cons. giust. amm. sic., sez. riun., parere 03.09.2014, n. 899, secondo cui “il requisito della doppia conformità costituisce principio consolidato in giurisprudenza e pertanto dall’art. 13 della L. 28.02.1985, n. 47, non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’Autorità Comunale provvede sulla domanda di sanatoria” (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3220, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 1652).
Tale orientamento ha, dunque superato quello definito «sanatoria giurisprudenziale» che ha ammesso la sanatoria edilizia a seguito di conformità sopraggiunta dell’intervento al momento della proposizione della nuova istanza […]. Ciò nella considerazione che il nostro ordinamento è caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione”;
      aa) sui limiti alla demolizione e corrispondente irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 34 d.P.R. n. 380 del 2001:
         aa1) Tar per la Calabria, sez. II, 26.06.2019, n. 1305 (in Foro it., 2019, III, 619, con nota di ALBE’) secondo cui “la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria dev’essere valutata nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione”;
         aa2) Cons. stato, sez. IV, 31.08.2018, n. 5128, secondo cui “La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso […]. Inoltre l’art. 34 […] disciplina gli interventi alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo al secondo comma che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione"; la norma presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente;
         aa3) Cons. giust. amm. sic., sez. riun., parere 14.12.2017, n. 1007, secondo cui “Il giudizio, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dagli artt. 33, comma 2 e 34, comma 2 del d.P.R. n. 380/2001) può, invero, essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè allorquando il soggetto privato non abbia ottemperato spontaneamente all’ordine di demolizione e l’organo competente abbia emanato l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle opere realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire ovvero delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire che sia sprovvista di qualsiasi valutazione in ordine all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria”;
         aa4) Cons. Stato, sez. V, 20.03.2007, n. 1325 (in Foro it., 2008, III, 185) secondo cui “l’autorità comunale ha giustificato la sanzione pecuniaria con la costosità della demolizione; ma l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione è consentita dalla legge solo quando la demolizione sia impossibile, s’intende tecnicamente, e non quando sia costosa. Inoltre la motivazione è illogica, sia perché essa vanifica la sanzione della demolizione prevista dalla legge (tutte le demolizioni essendo costose), sia perché la demolizione è a spese del contravventore e non già del comune. Infine quella motivazione pone sullo stesso piano i due interessi, tra loro incomparabili, di evitare al comune l’anticipazione delle spese di demolizione e di proteggere il territorio comunale dall’abusivismo e da scempi come quello documentato dalle fotografie prodotte dalla resistente; le quali fanno anche ritenere che la costosità dell’intervento, non quantificata nella motivazione del provvedimento, sia stata alquanto sopravvalutata”;
      bb) sulla natura del potere repressivo-ripristinatorio edilizio esercitato dall’autorità comunale: Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 20.03.2020, n. 194 (in Azienditalia, 2020, 7, 1234 ss., con nota di LA GRECA anche in tema di connessa responsabilità per danno erariale);
      cc) sui presupposti della convalida e sulla individuazione della autorità competente ad annullare e quindi convalidare un provvedimento illegittimo:
         cc1) Cons. Stato, sez. VI, 24.06.2020, n. 4038, secondo cui “Nell'ambito di un processo amministrativo la motivazione di un provvedimento è ammissibile soltanto laddove sia effettuata mediante gli atti del procedimento nella misura in cui i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta oppure attraverso l'emanazione di un autonomo provvedimento di convalida”;
         cc2) Tarper la Lombardia, sez. st. Brescia, sez. II, 12.05.2020, n. 352, secondo cui “L'istituto della convalida di un provvedimento amministrativo annullabile, di cui alla normativa dell'art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, presuppone l'esistenza di un atto viziato ed è finalizzato a consentire all'amministrazione, nell'esercizio dei propri poteri di autotutela, di intervenire su un proprio provvedimento emendandolo dai vizi che ne determinano l'illegittimità, esercitando tale potere entro un termine ragionevole e motivando in merito alla sussistenza di ragioni di pubblico interesse diverse dalla mera esigenza di ripristinare la legittimità formale dell'azione amministrativa, come tali prevalenti sul contrapposto interesse del privato alla conservazione dell'atto illegittimo”;
         cc3) Cons. Stato, sez. IV, 18.05.2017, n. 2351, secondo cui “La convalida è il provvedimento con il quale la P.A., in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un provvedimento amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l'illegittimità e, dunque, l'annullabilità. Essa presuppone, ai sensi dell'art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia decorso un "termine ragionevole" dall'adozione dell'atto illegittimo”;
         cc4) Cons. Stato, sez. III, 01.12.2016, n. 5047 (in Foro it., 2017, III, 11 con note di CASABURI e TRAVI);
         cc5) Cons. Stato, sez. III, 26.10.2015, n. 4899 (in Foro it., 2016,6);
         cc6) T. Verona, 12.11.2013 (in Foro it., 2014, I, 270), secondo cui “Posto che non è meritevole di tutela l’affidamento del conducente di un veicolo entrato senza autorizzazione in una zona a traffico limitato regolata dal sindaco, anziché dal dirigente competente, la successiva convalida del provvedimento sindacale preclude l’annullamento dei verbali di contravvenzioni elevati nei confronti dell’autore dell’infrazione”;
         cc7) Cons. giust. amm. sic., sez. cons., 05.05.1999, n. 206 (in Cons. Stato, 1999, I, 1017), secondo cui “Deve escludersi l'efficacia sanante «ex tunc» dell'atto di convalida di un provvedimento posto in essere da autorità incompetente in tutti quei casi in cui l'amministrazione non ha la piena disponibilità dell'effetto che l'atto da convalidare verrebbe a produrre e non ha manifestato la volontà di far propri gli effetti di tale atto”;
         cc8) Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 21.12.1998, n. 682 (in Cons. Stato, 1998, I, 2022), secondo cui “A differenza di quanto accade con la convalida e con la ratifica, nel caso di rinnovazione di un atto amministrativo gli effetti giuridici vanno imputati interamente all'atto sostitutivo, con la conseguenza che in questa seconda ipotesi non si può ritenere vietato all'amministrazione correggere o sostituire gli atti viziati o carenti di qualche elemento, anche in pendenza di giudizio, purché con effetto «ex tunc»; pertanto, quando sopravvenga l'atto sostitutivo, si determina la carenza sopravvenuta di interesse, con conseguente improcedibilità del ricorso proprio nei confronti dell'atto originario”;
      dd) sulla convalida quale esempio paradigmatico di provvedimento retroattivo:
         dd1) Tar per la Lombardia, sez. IV, 10.05.2013, n. 1217;
         dd2) Tar per il Lazio, sez. II, 31.07.2012, n. 7063;
      ee) sul diritto al risarcimento del danno da provvedimento favorevole poi annullato e da inerzia, come fattispecie lesive affidamento privato:
         ee1) Cass. civ., sez. un., 28.04.2020, n. 8236, secondo cui “La responsabilità che grava sulla pubblica amministrazione per il danno prodotto al privato a causa delle violazione dell'affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell'azione amministrativa non sorge in assenza di rapporto, come la responsabilità aquiliana, ma sorge da un rapporto tra soggetti -la pubblica amministrazione e il privato che con questa sia entrato in relazione- che nasce prima e a prescindere dal danno e nel cui ambito il privato non può non fare affidamento nella correttezza della pubblica amministrazione. Si tratta, allora, di una responsabilità che prende la forma dalla violazione degli obblighi derivanti da detto rapporto e che, pertanto, va ricondotta allo schema della responsabilità relazionale, o da contatto sociale qualificato, da inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale; con l'avvertenza che tale inquadramento, come segnalato da autorevole dottrina, non si riferisce al contratto come atto ma al rapporto obbligatorio, pur quando esso non abbia fonte in un contratto”.
Le Sezioni unite, dando continuità ai principi già affermati in precedenza (cfr. ordinanza 23.03.2011, n. 6594, in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Giust. civ., 2011, I, 1209, con nota di LAMORGESE; Resp. civ. e prev., 2011, 1743, con nota di SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2316 (m), con nota di D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192, con nota di COMPORTI; Giust. civ., 2012, I, 2769 (m), con nota di SALVAGO) hanno, quindi, evidenziato che può sussistere lesione dell’affidamento “non soltanto nel caso di domande di risarcimento del danno da lesione dell'affidamento derivante dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché, in definitiva, il privato abbia riposto il proprio affidamento in un comportamento mero dell'amministrazione”.
In questo caso, infatti, i principi ivi affermati “valgono con maggior forza, perché, l'amministrazione non ha posto in essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo; il rapporto tra la stessa ed il privato si gioca, allora, interamente sul piano del comportamento (quella «dimensione relazionale complessiva tra l'amministrazione ed il privato»), nemmeno esistendo un provvedimento a cui astrattamente imputare la lesione di un interesse legittimo”;
         ee2) Cass. civ., sez. un., ordinanza 19.02.2019, n. 4889 (in Foro it., 2019, I, 4066, con nota di BORGIANI), secondo cui “È devoluta al giudice ordinario la controversia che il privato promuova per il risarcimento dei danni nei confronti del comune che abbia omesso la dovuta sorveglianza ed i controlli prescritti dall'art. 27 d.p.r. 06.06.2001 n. 380, nei confronti del costruttore ed abbia emesso i relativi provvedimenti abilitativi” (nella specie, il privato aveva acquistato una porzione dell'edificio, confidando incolpevolmente sulla relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi insussistente);
         ee3) Cass. civ., sez. un., ordinanza, 24.09.2018, n. 22435 (oggetto della News US in data 08.10.2018, cui si rimanda per ogni opportuno approfondimento), secondo cui “Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda di risarcimento dei danni derivanti da una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole”;
         ee4) Cass. civ., sez. un., ordinanza 23.03.2011, n. 6594 (in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Giust. civ., 2011, I, 1209, con nota di LAMORGESE; Resp. civ. e prev., 2011, 1743, con nota di SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2316 (m), con nota di D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192, con nota di COMPORTI; Giust. civ., 2012, I, 2769 (m), con nota di SALVAGO), secondo cui “Nel caso di annullamento di una concessione edilizia illegittimamente rilasciata, non si configura alcuna lesione dell'interesse legittimo del titolare della concessione, ma può configurarsi una lesione dell'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole: la relativa tutela risarcitoria è perciò devoluta al giudice ordinario”;
      ff) in dottrina:
         ff1) sugli effetti dell’annullamento del provvedimento amministrativo: B. MAMELI, L’istituto dell’annullamento tra procedimento e processo alla luce delle recenti novità normative, Torino, 2017, 109 ss.;
         ff2) sul potere di annullamento dei titoli edilizi da parte della Regione: P. GOLINELLI, Riflessioni sul potere di annullamento degli atti comunali in materia urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 1994, II, 105; P. MARZARO GAMBA, Il potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali in materia urbanistico-edilizia: profili sistematici ed esegetici, in Riv. giur. urbanistica, 1999, 513; dopo il d.P.R. n. 380 del 2001: C. SILVESTRO, Il potere regionale di annullamento del permesso di costruire nel testo unico edilizia, in Urbanistica e appalti, 2003, 873; G. PAGLIARI, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, 533 ss.; R. MICALIZZI, Le sanzioni conseguenti all'annullamento del titolo edilizio, tra interpretazione letterale e principi generali, in Urbanistica e appalti, 2013, 6, 719; P.L. PORTALURI, Commento all'art. 39, in M.A. SANDULLI (a cura di), Testo unico dell'edilizia, Milano, 2015, 925 ss.;
         ff3) sui caratteri e finalità delle sanzioni amministrative edilizie e sulla natura del potere esercitato dall’autorità comunale: F. DE SANTIS, A. MANDARANO, V. POLI, Commento agli artt. 31-35 del d.P.R. n. 380 del 2001, in F. CARINGELLA, G. DE MARZO (a cura di), L’attività edilizia nel testo unico, Milano, 2006, 425 ss. (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 07.09.2020 n. 17 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2020

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.08.2020 n. 211 "Fondo per la demolizione di opere abusive" (Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, avviso).

EDILIZIA PRIVATA: Soggetti destinatari delle misure repressive degli abusi edilizi.
Con riferimento all’individuazione dei soggetti destinatari dell’ordine di demolizione e delle misure sanzionatorie previste dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380/2001, il TAR Milano richiama l’orientamento secondo il quale «la norma, nell'individuare i soggetti colpiti dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell'abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta, in quanto il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico-edilizia, e all'individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale» (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.08.2020 n. 1562 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. Con il ricorso, articolato in quattro motivi, si deduce l’illegittimità dell’ordinanza di ingiunzione alla demolizione
   (i) “in ordine al soggetto destinatario dell'atto (art. 29 TUE)”,
   (ii) “nella parte in cui prevede che la superficie verrà acquistata di diritto gratuitamente dal Comune”,
   (iii) “nella parte in cui, in caso di inottemperanza dell'ingiunzione, prevede le sanzioni di cui all'art. 31, comma 4-bis, DPR 380/2001” e
   (iv) “nella parte in cui ingiunge la demolizione dell’immobile compromettendo così il diritto del ricorrente ad ottenere la nullità e/o l’annullabilità del decreto di trasferimento”.
2. Premesso che Pi. non contesta la natura abusiva delle opere né di avere la materiale disponibilità del bene, il ricorso è infondato.
3. Con riferimento alla prima e alla terza censura, relative all’individuazione dei soggetti destinatari dell’ordine di demolizione e delle misure sanzionatorie previste dall’art. 31, co. 4-bis, del d.P.R. n. 380/2001, deve essere richiamato quanto affermato costantemente dalla giurisprudenza amministrativa, anche della Sezione (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.07.2017, n. 3789; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.02.2020, n. 264), ovverosia che la norma, “nell'individuare i soggetti colpiti dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell'abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta, in quanto il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico-edilizia, e all'individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l'ordine ripristinatorio, ossia il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale”.
Facendosi applicazione del sopraesposto principio al caso di specie, si deve ritenere che legittimamente il Comune abbia rivolto l’ordine di demolizione –e minacciato l’irrogazione delle sanzioni previste dall’art. 31, co. 4-bis, d.P.R. n. 380/2001– al proprietario Pi., il quale ha la materiale disponibilità del bene e dunque il potere di rimuovere le opere abusive, fatto –come si è detto– pacifico e non contestato.
L’irrogazione di sanzioni penali, invece, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, non è oggetto dell’ordinanza impugnata, dovendo la stessa conseguire necessariamente a un accertamento eseguito dal giudice penale.

EDILIZIA PRIVATAL’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 200, è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
In ordine agli abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, va poi evidenziato che “la posizione di quest'ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dalla legge n. 47 del 1985 ed ora dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con riferimento all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, a condizione che risulti, in modo inequivocabile, la sua estraneità rispetto al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento".
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4. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce l’illegittimità della previsione di acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio del Comune in ragione dell’estraneità di Pi. al compimento dell’abuso, è infondato. Per la precisione, l’ordinanza di demolizione si limita invero a individuare l’area che sarà oggetto di futura acquisizione, per l’ipotesi di inottemperanza.
In ogni caso, la censura non può essere condivisa.
Infatti, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 200, è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2017, n. 4547; id., Sez. V, 18.12.2002, n. 7030).
In ordine agli abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, va poi evidenziato che “la posizione di quest'ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dalla legge n. 47 del 1985 ed ora dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con riferimento all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, a condizione che risulti, in modo inequivocabile, la sua estraneità rispetto al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento" (cfr., ex plurimis, Cons. Stato n. 4547/2017 cit.; Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2016, n. 358).
Nel caso di specie, il ricorrente non ha fornito la prova di essersi attivato per la rimozione delle opere abusive, pur avendo la materiale disponibilità del bene, dal che discende la legittimità della previsione dell’acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale, per il caso di ulteriore inottemperanza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.08.2020 n. 1562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon viola la CEDU l’ordine di demolizione in area protetta anche se è l’unica abitazione ed il proprietario è anziano, malato e di basso reddito.
Pronunciandosi su un caso “lituano” in cui si discuteva della legittimità dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, adibito ad uso abitativo da parte del ricorrente, che era stato edificato senza alcun titolo abilitativo in zona paesaggisticamente vincolata, la Corte europea dei diritti dell'uomo, all’unanimità, ha escluso la violazione dell'articolo 8 (diritto al rispetto della casa familiare) della Convenzione europea dei diritti umani, ritenendo che le autorità nazionali avessero effettuato un'adeguata valutazione della necessità e proporzionalità della demolizione.
Il caso era stato originato dalla denuncia di un uomo il quale si era lamentato per aver ricevuto l'ordine di demolire un'abitazione che aveva costruito illegalmente su un’area forestale. Il ricorrente lamentava che l'ordine di demolizione aveva violato il suo diritto al rispetto della propria casa ed era quindi contrario all'articolo 8 della Convenzione.
Egli aveva sostenuto che quella era la sua unica casa e che, a causa della vecchiaia, delle cattive condizioni di salute e del basso reddito, non era in grado di reperire una diversa abitazione. Aveva anche sostenuto che né lui né la moglie avevano altre abitazioni di proprietà che fossero adatte a viverci o che potevano essere vendute ricavando un prezzo idoneo a consentire loro di acquistare una nuova casa nella zona in cui avevano vissuto.
La Corte EDU, pur dimostrandosi consapevole della difficile situazione del ricorrente in considerazione della sua età avanzata, delle cattive condizioni di salute e del basso reddito, ha tuttavia evidenziato come i giudici lituani avevano comparato soppesato gli interessi del ricorrente rispetto all’interesse generale per la conservazione delle foreste e dell'ambiente, e considerato che né l'età del ricorrente né le altre circostanze personali potevano avere un peso determinante, in considerazione del fatto che egli aveva consapevolmente costruito l’abitazione in un'area protetta senza alcuna autorizzazione.
Di conseguenza, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le autorità nazionali avessero correttamente valutato tutte le circostanze pertinenti e affrontato adeguatamente gli argomenti del ricorrente riguardanti la sua situazione individuale, che si era appellato –come sovente avviene anche nelle impugnazioni proposte davanti ai giudici italiani- al noto caso Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria. La Corte EDU ha quindi escluso che lo Stato avesse oltrepassato il margine di discrezionalità accordatogli dall'articolo 8 della Convenzione (commento tratto da www.quotidianogiuridico.it - Corte europea diritti dell’uomo, Sez. II, sentenza 04.08.2020 n. 44817 - link a www.lexambiente.it).

luglio 2020

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha osservato che l'art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell'edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Condominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.

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Ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 la demolizione delle opere abusivamente realizzate è ingiunta dal Comune al “proprietario e al responsabile dell’abuso”.
Nella fattispecie, la sanzione ripristinatoria è stata rivolta nei confronti del Condominio ... il quale sicuramente non può essere individuato come proprietario nemmeno delle parti comuni del complesso immobiliare (al netto del fatto che l’ordinanza non chiarisce affatto se gli abusi riguardano parti di proprietà esclusiva dei singoli condomini ovvero parti comuni).
La giurisprudenza citata dal ricorrente (TAR Lombardia, Milano n. 1774/2019) che il Collegio condivide ha osservato che l'art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell'edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Condominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.07.2020 n. 3005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2020

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di riduzione in pristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi, non richiede una puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
E quanto all’eccepito mancato puntuale riscontro delle osservazioni presentate per conto dei ricorrenti in seguito all’emanazione dell’avviso di avvio del procedimento, va evidenziato che l’obbligo di esame delle predette osservazioni non impone un’analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalla parte istante, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato.
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5. Con la prima doglianza, di pressoché identico tenore in tutti i ricorsi, da trattare unitamente alla seconda doglianza del ricorso R.G. n. 1859/2019, si assume l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto, oltre a non essere motivati e ad essere stati adottati senza riscontrare le osservazioni delle parti private, non avrebbero considerato che presso gli Uffici comunali risulterebbe prodotta (e protocollata) tutta la pratica edilizia riguardante la realizzazione del complesso edilizio dove sono situate le unità immobiliari dei ricorrenti, non apparendo rilevante, a giudizio dei ricorrenti, la circostanza che la Tavola 8, riferita al sottotetto della Palazzina C, risulti priva del timbro del Comune, tenuto conto che le corrispondenti Tavole n. 6 e n. 7, relative ai sottotetti delle Palazzine A e B sarebbero state regolarmente protocollate, come ben visibile già ad un loro esame sommario; inoltre non sarebbero stati considerati la buona fede in cui versano gli attuali proprietari e il loro legittimo affidamento, né sarebbe stata effettuata una comparazione degli interessi privati sacrificati con quello pubblico, avuto riguardo al lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell’intervento edilizio e l’adozione degli atti sanzionatori.
5.1. I motivi sono infondati.
In primo luogo, va sottolineato come l’ordinanza di riduzione in pristino, quale atto di carattere del tutto vincolato, ponendosi quale conseguenza immediata e diretta discendente dalla verifica dell’abusività degli interventi, non richiede una puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2020, n. 572; 21.01.2019, n. 112).
Quanto all’eccepito mancato puntuale riscontro delle osservazioni presentate per conto dei ricorrenti in seguito all’emanazione dell’avviso di avvio del procedimento, va evidenziato che l’obbligo di esame delle predette osservazioni non impone un’analitica confutazione in merito ad ogni argomento utilizzato dalla parte istante, essendo sufficiente un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato (cfr. Consiglio di Stato, V, 30.10.2018, n. 6173; VI, 13.05.2016, n. 1933; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2020, n. 841; 10.12.2019, n. 2633; III, 17.07.2019, n. 1656; II, 18.06.2019, n. 1410).
Nella fattispecie de qua, gli Uffici comunali hanno certamente preso in considerazione l’apporto fornito dai ricorrenti, visto che nei provvedimenti impugnati si dà espressamente conto delle osservazioni, veicolate per il tramite di legali, presentate in data 8 agosto 2018, ritenendole tuttavia non condivisibili sulla base di una valutazione complessiva certamente ricavabile dai provvedimenti conclusivi adottati dal Comune (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, dato che «la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti».
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Con riguardo invece al legittimo affidamento dei ricorrenti in ordine alla conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo (non eccessivo, trattandosi di circa un decennio), va evidenziato che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto».

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5.3. In conseguenza dell’abusività del mutamento di destinazione d’uso, risulta perciò infondata anche la parte della censura che assume la mancata comparazione degli interessi in conflitto, atteso che nelle ipotesi di interventi edilizi abusivi il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, dato che «la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti» (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
Con riguardo invece al legittimo affidamento dei ricorrenti in ordine alla conformità del proprio comportamento, legato anche al trascorrere del tempo (non eccessivo, trattandosi di circa un decennio), va evidenziato che «l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività, il quale non richiede né alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico; né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; e né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto» (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185; altresì, Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2020, n. 572; 18.09.2018, n. 2098; 03.05.2018, n. 1198).
5.4. A ciò consegue il rigetto delle doglianze (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie.
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444; “il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato che determini, dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra diverse categorie in rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta inevitabilmente un differente carico ed un maggiore impatto urbanistico, anche se nell’ambito di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione ai servizi e agli standard ivi esistenti”.

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6. A questo punto, per ragioni di economia processuale, appare opportuno procedere allo scrutinio della terza censura di tutti i ricorsi, attraverso la quale si contesta l’applicabilità dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, considerata l’assenza dei suoi presupposti applicativi –(i) interventi in assenza del permesso di costruire, (ii) opere in difformità rispetto al permesso e (iii) opere eseguite con variazioni essenziali al titolo edilizio– e avuto riguardo, in ogni caso, all’inapplicabilità dell’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale non essendo i ricorrenti responsabili dell’abuso.
6.1. La doglianza è infondata.
Come è stato evidenziato in precedenza, i ricorrenti (o il loro dante causa) hanno destinato abusivamente a locali abitabili i sottotetti della Palazzina C che erano destinati a locali sgombero, senza permanenza di persone. Un tale mutamento di destinazione d’uso, a prescindere dalla circostanza che sia stato accompagnato da opere edilizie, ha certamente modificato i parametri edilizi della costruzione (aumento di altezze e della volumetria), comportando un non indifferente aggravio del carico urbanistico, e quindi avrebbe dovuto essere assistito da idoneo titolo abilitativo. Difatti, laddove il cambio di categoria edilizia determina un ulteriore carico urbanistico, risulta irrilevante verificare se tale modifica sia avvenuta con l’effettuazione di opere edilizie (TAR Campania, Salerno, II, 08.03.2013, n. 580).
In materia edilizia, l’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come “variazione essenziale” –sanzionata ai sensi del precedente art. 31 con l’obbligo di demolizione e riduzione in pristino– il mutamento di destinazione d’uso (comunque realizzato, anche senza opere edilizie), che implichi una variazione degli standard previsti dal D.M. 02.04.1968, n. 1444 (TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1529; 27.07.2012, n. 2146; TAR Valle d’Aosta, 16.11.2016, n. 55; TAR Veneto, II, 21.08.2013, n. 1078); “il mutamento di destinazione d’uso di un fabbricato che determini, dal punto di vista urbanistico, il passaggio tra diverse categorie in rapporto di reciproca autonomia funzionale, comporta inevitabilmente un differente carico ed un maggiore impatto urbanistico, anche se nell’ambito di zone territoriali omogenee, da valutare in relazione ai servizi e agli standard ivi esistenti” (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2018, n. 6562).
Va specificato che contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso R.G. n. 1859/2019, la predetta abusiva trasformazione non può nemmeno essere ricondotta nello spettro applicativo della ristrutturazione edilizia –con le connesse sanzioni ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del 2001– di cui all’art. 64 della legge regionale n. 12 del 2005, relativo al recupero dei sottotetti, in quanto non è stata verificata la sussistenza dei suoi presupposti applicativi, compreso l’avvenuto decorso del periodo minimo –oggi triennale– che deve intercorrere dalla data di conseguimento dell’agibilità del fabbricato al recupero del sottotetto (cfr. art. 63, commi 2 e 3, della legge regionale n. 12 del 2005).
Ne consegue la legittima applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, che tuttavia non esclude la possibilità per i ricorrenti di richiedere l’accertamento di conformità, ove dovessero sussistere i presupposti di cui al successivo art. 36 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio.
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In relazione alla prospettata acquisizione dei beni al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, a prescindere dalla sua non attualità, va evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, deve attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e se ha la disponibilità del manufatto deve provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subisce certamente l’acquisizione del bene.

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6.2. Come sostenuto da condivisibile giurisprudenza, l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio (TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1528).
In relazione alla prospettata acquisizione dei beni al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, a prescindere dalla sua non attualità, va evidenziato che in ogni caso il proprietario, anche se non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso, una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, deve attivarsi contro il responsabile per obbligarlo a rimuovere l’opera abusiva, e se ha la disponibilità del manufatto deve provvedere in proprio all’eliminazione dell’intervento edilizio sine titulo; in mancanza di ciò subisce certamente l’acquisizione del bene (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 04.07.2019, n. 1528; 21.01.2019, n. 112; 03.11.2016, n. 2014; 16.03.2015, n. 728) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.06.2020 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2020

EDILIZIA PRIVATAAcquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
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Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento in autotutela – Annullamento in sede giudiziaria – Per difetto di motivazione – Nuovo annullamento in autotutela – Possibilità.
  
Edilizia – Demolizione – Inottemperanza - Acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale – Omessa espressa previsione – Irrilevanza ex se
  
Qualora l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio sia stato annullato in sede giudiziale per difetto di motivazione l’Amministrazione conserva il potere di intervenire nuovamente sulla base di una adeguata motivazione che desse conto dell’interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento del permesso di costruire (1).
  
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa; l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è infatti una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione; ne consegue, data la natura dichiarativa dell’accertamento dell’inottemperanza, che la mancata indicazione dell’area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l’indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione (2).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che trattandosi di provvedimenti in materia di pianificazione urbanistica del territorio, il relativo onere motivazionale risulta anche caratterizzato dalla “rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati, al punto che nelle ipotesi di maggiore rilievo potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possono integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio dello ius poenitendi” (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 8 del 2017).
E tra gli interessi pubblici “autoevidenti” vi è sicuramente quello all’ordinato assetto urbanistico assicurato dalla stabilità della pianificazione attuativa (nel caso di specie il piano di lottizzazione), rispetto al quale l’eventuale affidamento dell’interessato deve essere considerato recessivo.
   (2) Cons. Stato, sez. IV, 27.07.2017, n. 3728.
L'individuazione dell'area da acquisirsi non deve infatti essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del bene. L'omessa indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU edilizia per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 755 del 2018) (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.05.2020 n. 3330 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA 
15.1. Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Ad. plen. n. 9 del 2017), l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una motivazione del concreto interesse pubblico. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5595 del 2017 e n. 2799 del 2018), né una particolare motivazione dello stesso.
15.2. Relativamente alla mancata indicazione dell’area oggetto di un eventuale provvedimento di acquisizione in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio (motivo 8°), va poi sottolineato che “l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. La giurisprudenza ha pacificamente confermato tale lettura, affermando che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione” (cfr. ex multis, Cons. di Stato, Sez. IV, 27.07.2017, n. 3728).
Ne consegue, data la natura dichiarativa dell’accertamento dell’inottemperanza, che la mancata indicazione dell’area nel provvedimento di demolizione può comunque essere colmata con l’indicazione della stessa nel successivo procedimento di acquisizione.
15.3. L'individuazione dell'area da acquisirsi non deve infatti essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del bene. L'omessa indicazione nell'ordinanza di demolizione dell'area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU edilizia per il caso di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell'ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell'ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell'area, rispetto al quale, tra l'altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 755/2018).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: parere in merito alla normativa da applicare alla domanda di condono edilizio in caso di vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto all’abuso – G.d.F., Tenenza di Ponza (Regione Lazio, nota 06.05.2020 n. 401878 di prot.).

aprile 2020

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione del manufatto abusivo – Intervenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Contrasto con il potere amministrativo – Esistenza di prevalenti interessi pubblici – Effetti – Poteri del giudice – Art. 31 dPR n. 380/2001.
L’intervenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale non è ostativa all’emissione dell’ordine giudiziale di demolizione, in quanto anche lo scopo dell’acquisizione è quello di provvedere all’eliminazione del manufatto abusivo, a meno che il consiglio comunale abbia manifestato la volontà di non procedere alla demolizione per l’esistenza di prevalenti interessi pubblici.
Pertanto, anche nel caso di acquisizione del bene al patrimonio comunale, il giudice penale ha il potere di eseguire la demolizione del manufatto abusivo, disposto dalla sentenza di condanna ex art. 31 del dPR 06.06.2001 n. 380, fatto salvo dall’eventuale contrasto con il potere amministrativo di prevalenti interessi pubblici.

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Esecuzione dell’ordine di demolizione disposto con sentenza di condanna – Terzo in buona fede – Alienazione anteriore all’ordine di demolizione del manufatto abusivo a terzi – Ininfluenza – Ratio.
L’esecuzione dell’ordine di demolizione, impartito dal giudice a seguito dell’accertata edificazione in violazione di norme urbanistiche, non è escluso dall’alienazione del manufatto abusivo a terzi, anche se intervenuta anteriormente all’ordine medesimo, ciò in quanto tale ordine, avendo carattere reale, ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene a prescindere dagli atti traslativi intercorsi, con la sola conseguenza che l’acquirente, se estraneo all’abuso, potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell’avvenuta demolizione.
Per la sua natura, dunque, l’ordine di demolizione dell’immobile abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell’immobile indipendentemente dall’essere egli stato anche autore dell’abuso e, come pure è stato affermato, esso spiega i suoi effetti anche nei confronti degli eredi del condannato.

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Demolizione del manufatto abusivo disposta dal giudice penale – Natura di sanzione amministrativa – Autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso – Applicabilità della prescrizione ex art. 173 cod. pen. – Esclusione – art. 117 Cost. – Giurisprudenza della Corte EDU.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, del T.U.E. qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso.
In conclusione, le caratteristiche della sanzione amministrativa di demolizione del manufatto abusivo, non avendo finalità punitive ed avendo carattere reale, produce effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l’autore dell’abuso – non consentendo di ritenerla “pena” nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Per cui, è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all’art. 117 Cost.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.04.2020 n. 13147 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio e oneri concessori: devono essere determinati secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria.
La tesi secondo cui gli oneri concessori vanno determinati secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria, e non della presentazione della domanda, trova fondamento, in primo luogo, nell’applicazione del canone tempus regit actum, perché è soltanto con l’adozione del provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi, concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il presupposto sostanziale del pagamento del contributo e, in secondo luogo, su considerazioni di ordine teleologico, in quanto consente di meglio tutelare l’interesse pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi reali da sostenere.
Sicché, per “misura stabilita dalla disciplina vigente”, ai sensi dell’art. 6, comma 3, della legge regionale n. 10/2004, doveva, quindi, intendersi quella stabilita dalle tabelle che erano in vigore al momento della definizione del procedimento di sanatoria.
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Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania il sig. Se.So. impugnava l’atto con cui il Comune di Mariglianella aveva determinato la misura degli oneri concessori e dell’oblazione ancora dovuti in relazione alla sua domanda di condono presentata ai sensi della legge n. 326/2003 per un ampliamento della cubatura e per il cambio di destinazione d’uso di un fabbricato rurale sito in Mariglianella alla via ... e, con successivi motivi aggiunti, gli atti di ulteriore rideterminazione di quanto dovuto (effettuata con nota n. 8661 del 06.08.2008, in relazione alla nuova misura degli oneri concessori di cui alle delibere di Giunta comunale n. 6 del 18.01.2006 e n. 146 del 28.12.2006, e con nota n. 4215 del 07.04.2009 di rideterminazione degli importi dovuti a titolo di oblazione, a seguito di riclassificazione per intero delle opere oggetto del condono nella tipologia 1, anziché nella tipologia 3, di abuso edilizio).
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L’appello è fondato.
La tesi dell’appellante, per cui gli oneri concessori vanno determinati secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria e non della presentazione della domanda, è stata successivamente seguita dallo stesso Giudice di primo grado (TAR Campania, Napoli, sez. II, 07.11.2013 n. 4944) e trova avallo nella giurisprudenza di questo Consiglio secondo cui essa trova fondamento, in primo luogo, nell’applicazione del canone tempus regit actum, perché è soltanto con l’adozione del provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi, concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il presupposto sostanziale del pagamento del contributo e, in secondo luogo, su considerazioni di ordine teleologico, in quanto consente di meglio tutelare l’interesse pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi reali da sostenere (da ultimo, C.d.S., sez. VI, 02.07.2019, n. 4514).
Per “misura stabilita dalla disciplina vigente”, ai sensi dell’art. 6, comma 3, della legge regionale n. 10/2004, doveva, quindi, intendersi quella stabilita dalle tabelle che erano in vigore al momento della definizione del procedimento di sanatoria, vale a dire, nel caso di specie, quelle stabilite con la delibera di Giunta comunale n. 146 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 27.04.2020 n. 2680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinamento opera una netta distinzione tra la situazione:
   - di chi abbia realizzato un’opera edilizia divenuta abusiva per effetto dell’annullamento del relativo permesso di costruire e quella
   - di
chi abbia viceversa realizzato un’opera abusiva in quanto priva ab origine del prescritto permesso di costruire o realizzata in difformità da esso.
La prima fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di annullamento (giurisdizionale o in autotutela) del permesso di costruire, “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. ...”. Precisa il susseguente comma 2 che l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata ai sensi del comma precedente “produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36”.
Come da ultimo autorevolmente ribadito dalla giurisprudenza, «il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria», fermo restando che tale equiparazione «è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»; dunque, posto che trattasi di un’eccezionale deroga al principio della necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, «la disposizione è presidiata da due condizioni:
   a) la prima è la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative;
   b) la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino»,
condizioni che risultano però eterogenee tra loro, «poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato».
Quanto all’ambito applicativo dell’istituto, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato -nel presupposto che la tutela dell’affidamento, attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere «sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito»- ha affermato il principio di diritto secondo il quale «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
La seconda fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, nei termini previsti dallo stesso articolo “il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Precisa il comma 2 del medesimo art. 36 che il rilascio del permesso in sanatoria “è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16”, fermo restando che, nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, “l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.
Tanto premesso, giova evidenziare che
   - nella fattispecie disciplinata dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 è previsto l’esercizio, da parte dell’Amministrazione, di un potere discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone, come già evidenziato, che l’attività di convalida del permesso di costruire, mediante la rimozione del vizio della relativa procedura amministrativa, non sia oggettivamente possibile) e tecnico-discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone altresì l’accertamento che è impossibile la rimessione in pristino); viceversa,
   - nella fattispecie disciplinata dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. 380 del 2001 non è previsto l’esercizio di alcun potere discrezionale da parte dell’Amministrazione, la quale è in tal senso tenuta soltanto a verificare la conformità dell’opera abusiva con le previsioni urbanistiche, ragion per cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è un atto dovuto, laddove sussistano i presupposti richiesti dalle predette disposizioni.
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1. Ai fini dell’inquadramento della fattispecie per cui è causa giova preliminarmente rammentare che l’ordinamento, statuale e provinciale, opera una netta distinzione tra la situazione di chi abbia realizzato un’opera edilizia divenuta abusiva per effetto dell’annullamento del relativo permesso di costruire e quella di chi abbia viceversa realizzato un’opera abusiva in quanto priva ab origine del prescritto permesso di costruire o realizzata in difformità da esso.
2. La prima fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di annullamento (giurisdizionale o in autotutela) del permesso di costruire, “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. ...”. Precisa il susseguente comma 2 che l’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata ai sensi del comma precedente “produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36”.
Come da ultimo autorevolmente ribadito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Ad. plen., 07.09.2020, n. 17), «il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria», fermo restando che tale equiparazione «è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi»; dunque, posto che trattasi di un’eccezionale deroga al principio della necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, «la disposizione è presidiata da due condizioni: a) la prima è la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative; b) la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino», condizioni che risultano però eterogenee tra loro, «poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato».
Come già evidenziato da questo Tribunale (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 11.08.2020, n. 136), l’istituto disciplinato dal menzionato art. 38 -correntemente denominato “fiscalizzazione dell’abuso”- nella Provincia autonoma di Trento è disciplinato dall’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008, secondo il quale, “Se il comune, in seguito all’accertamento che è impossibile rimuovere i vizi delle procedure amministrative e rimettere in pristino, annulla la concessione, applica una sanzione pecuniaria pari al valore delle opere o delle parti abusivamente eseguite e comunque non inferiore a 1.500 euro”, e trova applicazione non solo in caso di annullamento in autotutela del permesso di costruire, ma anche in caso di annullamento giurisdizionale. Anche in questo caso, ai sensi del comma 12 dell’art. 129, “L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria e il pagamento del contributo di concessione producono gli effetti della concessione”.
Quanto all’ambito applicativo dell’istituto, nel recente passato questo Tribunale (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 18.02.2020 n. 27; id., 11.08.2020, n. 136, cit.) ha invero aderito all’orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.07.2019, n. 5089) secondo il quale una disposizione come l’art. 129, comma 11, della legge provinciale 1/2008 può trovare applicazione per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo.
Tuttavia l’Adunanza plenaria (Consiglio di Stato, Ad. plen., 07.09.2020, n. 17, cit.) -nel presupposto che la tutela dell’affidamento, attraverso l’eccezionale potere di sanatoria contemplato dall’art. 38 non può giungere «sino a consentire una sorta di condono amministrativo affidato alla valutazione dell’amministrazione, in deroga a qualsivoglia previsione urbanistica, ambientale o paesaggistica, pena l’inammissibile elusione del principio di programmazione e l’irreversibile compromissione del territorio, ma è piuttosto ragionevolmente limitata a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che legittimamente ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito»- ha affermato il principio di diritto secondo il quale «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione».
3. La seconda fattispecie è disciplinata, a livello nazionale, dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale, in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, nei termini previsti dallo stesso articolo “il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Precisa il comma 2 del medesimo art. 36 che il rilascio del permesso in sanatoria “è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16”, fermo restando che, nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, “l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso”.
Anche l’istituto disciplinato dall’art. 36 -denominato accertamento della conformità urbanistica- si rinviene nell’ordinamento della Provincia autonoma di Trento, che però si caratterizza in quanto, accanto al caso in cui la sanatoria è subordinata all’accertamento della c.d. doppia conformità, è stata tipizzata e disciplinata anche la c.d. sanatoria giurisprudenziale degli abusi edilizi.
In particolare l’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1/2008 dispone -in conformità a quanto previsto dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001- che, fino alla scadenza dei termini per l’esecuzione dell’ingiunzione prevista dall’articolo 129, comma 1, della stessa legge provinciale n. 1 del 2008, “il responsabile dell’abuso o altro soggetto avente titolo possono chiedere la concessione in sanatoria se l’opera è conforme agli strumenti urbanistici in vigore e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
Parimenti il comma 4 dell’art. 135 dispone che il rilascio della concessione in sanatoria “è subordinato al pagamento del contributo di concessione e di una sanzione pecuniaria pari al valore del contributo”, precisando che nei casi di esenzione o di riduzione del contributo “la sanzione pecuniaria è pari al contributo dovuto negli altri casi” e nei casi di difformità “il contributo e la relativa sanzione sono calcolati con riferimento alla parte di opera difforme dalla concessione”, fermo altresì restando che “la sanzione non può essere inferiore a 1.500 euro”.
Peraltro la sopradescritta disciplina di fonte provinciale si discosta sensibilmente da quella statuale perché il comma 7 dell’art. 135 dispone che -fermo restando quanto previsto dal comma 1- “resta salvo il potere, ai soli fini amministrativi, di rilasciare la concessione edilizia quando è regolarmente richiesta e conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate, anche se l’opera per la quale è richiesta è già stata realizzata abusivamente. In tal caso le sanzioni pecuniarie previste dai commi 4 e 5 sono aumentate del 20 per cento”.
Come già evidenziato da questo Tribunale in altra occasione (T.R.G.A Trentino Alto Adige, Trento, 11.08.2020, n. 136), con tale disposizione il Legislatore provinciale, nell’esercizio della competenza legislativa primaria in materia di urbanistica, prevista dell’art. 8, comma 1, n. 5, dello Statuto speciale di autonomia della Regione Trentino Alto Adige/Südtirol approvato con d.P.R. 31.08.1972, n. 670, ha codificato la c.d. sanatoria giurisprudenziale, così ampliando (seppure “ai soli fini amministrativi”, ossia fatte salve eventuali responsabilità di natura penale) la possibilità di richiedere l’accertamento della conformità urbanistica dell’opera realizzata in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, purché l’opera stessa sia “conforme, al momento della presentazione della domanda, alle norme urbanistiche vigenti e non in contrasto con quelle adottate”.
Tanto premesso, giova evidenziare che nella fattispecie disciplinata dall’art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 129, comma 11, della legge provinciale n. 1 del 2008 è previsto l’esercizio, da parte dell’Amministrazione, di un potere discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone, come già evidenziato, che l’attività di convalida del permesso di costruire, mediante la rimozione del vizio della relativa procedura amministrativa, non sia oggettivamente possibile) e tecnico-discrezionale (perché la fiscalizzazione dell’abuso presuppone altresì l’accertamento che è impossibile la rimessione in pristino); viceversa, nella fattispecie disciplinata dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. 380 del 2001 e dall’art. 135, comma 1, della legge provinciale n. 1 del 2008, quanto in quella disciplinata dall’art. 135, comma 7, della medesima legge provinciale non è previsto l’esercizio di alcun potere discrezionale da parte dell’Amministrazione, la quale è in tal senso tenuta soltanto a verificare la conformità dell’opera abusiva con le previsioni urbanistiche, ragion per cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è un atto dovuto, laddove sussistano i presupposti richiesti dalle predette disposizioni (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.04.2021 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Uno dei presupposti affinché sia rilasciato un titolo edilizio finalizzato all'esecuzione di un intervento su un edificio esistente è che tale edificio non sia abusivo e, quindi, sia stato realizzato in conformità al titolo che lo ha assentito.
Secondo l’orientamento prioritario, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, qualsiasi ulteriore intervento, (anche riconducibile alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione), ripete le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale inerisce strutturalmente.
Sarebbe infatti contraddittorio per l'Amministrazione autorizzare la manutenzione straordinaria, il restauro o la ristrutturazione di un edificio che essa stessa ritenga essere abusivo nella sua attuale configurazione, salvo ovviamente che si tratti di opere di messa in sicurezza.
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1) Il presente ricorso è proposto avverso il diniego al permesso di costruire per opere di manutenzione straordinaria da realizzare su un immobile composto da un piano terra, destinato ad autorimessa, e un primo piano, costituito da un appartamento ad uso residenziale.
Al piano terra le opere di manutenzione consistevano nella chiusura della finestra e nella rimozione del camino, mentre al primo piano nella diversa distribuzione interna, per mezzo di demolizione dei tavolati e creazione di nuovi, spostamento del servizio e creazione di uno nuovo con modifica delle aperture.
I proprietari hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 13.12.2016, cui sono seguiti il preavviso di rigetto del 14.02.2017 e la presentazione delle loro osservazioni in data 28.02.2017 (con raccomandata ricevuta dall’Amministrazione il 03.03.2017), e il procedimento si è poi concluso con il diniego del 20.04.2017, oggetto del presente ricorso.
Il permesso è stato negato, in quanto “le opere da assentirsi intervengono su due porzioni immobiliari di cui non è dimostrata la legittimità, finendo anch’esse per assumere connotazioni di abusività rispetto all’opera principale”.
La questione centrale attiene alla abusività o meno della porzione di immobile interessata dalle opere che i ricorrenti vorrebbero realizzare.
Infatti uno dei presupposti affinché sia rilasciato un titolo edilizio finalizzato all'esecuzione di un intervento su un edificio esistente è che tale edificio non sia abusivo e, quindi, sia stato realizzato in conformità al titolo che lo ha assentito.
Secondo l’orientamento prioritario, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, qualsiasi ulteriore intervento, (anche riconducibile alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione), ripete le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale inerisce strutturalmente. Sarebbe infatti contraddittorio per l'Amministrazione autorizzare la manutenzione straordinaria, il restauro o la ristrutturazione di un edificio che essa stessa ritenga essere abusivo nella sua attuale configurazione, salvo ovviamente che si tratti di opere di messa in sicurezza (in tal senso, questa Sez. n. 355 del 18/02/2016, che segue giurisprudenza costante: ex multis TAR Napoli, sez. VI, n. 3108 del 07/06/2019) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.04.2020 n. 634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi – Notifica dell’ingiunzione a demolire al condannato – Effetti e funzione – Condizione di procedibilità – Esclusione – Esecuzione dell’ordine di demolizione – Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, la notifica dell’ingiunzione a demolire al condannato non costituisce condizione di procedibilità dell’esecuzione dell’ordine di demolizione.
Pertanto, la notifica al condannato dell’ordine di esecuzione, pur se doverosa, non costituisce, salvo diverse e specifiche disposizioni, presupposto per procedere all’attuazione di un provvedimento penale.
Dall’altro, non solo non vi è alcuna previsione di legge la quale preveda la notifica dell’ingiunzione a demolire al condannato come condizione di procedibilità per eseguire l’ordine di demolizione contenuto nella sentenza divenuta irrevocabile, ma, anzi, la precisata attività di notificazione ha la funzione, ben diversa, di evitare aggravi di spese a carico del condannato e non spetta nemmeno al difensore di quest’ultimo.

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Ingiunzione a demolire – Mancata notifica al condannato – Spontaneo adempimento dell’obbligo – Terzo comproprietario dell’immobile abusivo – Incidente di esecuzione.
L’ingiunzione a demolire deve essere notificata al condannato, in quanto atto preordinato a consentire al medesimo lo spontaneo adempimento dell’obbligo senza ulteriori aggravi di spese a suo carico. La mancata notifica al condannato dell’ingiunzione a demolire non può essere invocata da un terzo, pur se interessato dall’esecuzione del provvedimento penale, ad esempio perché acquirente o comproprietario del bene.
Se, infatti, la notifica dell’ingiunzione a demolire al condannato non costituisce condizione di procedibilità dell’esecuzione dell’ordine di demolizione, e mira a soddisfare un interesse personale, di tipo patrimoniale, del medesimo, il terzo resta giuridicamente indifferente ad eventuali illegittimità ed omissioni relative a tale segmento dell’attività esecutiva.
In linea generale, il terzo, pur se comproprietario dell’immobile abusivo, non ha diritto a ricevere notifica dell’ingiunzione a demolire, e non è portatore di un interesse giuridicamente rilevante a dedurre una nullità che riguarda un altro soggetto, in quanto egli ha il diritto di far valere le sue ragioni proponendo incidente di esecuzione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.04.2020 n. 10943 - link a www.ambientediritto.it).

marzo 2020

EDILIZIA PRIVATACondivisibile giurisprudenza ha osservato che “ciò che viene sanzionato, nella misura massima di Euro 20.000,00, dall'art. 31, comma 4-bis, D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato, bensì la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate: il disvalore (ex se rilevante) colpito è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l'abuso fosse stato realizzato prima dell'entrata in vigore della norma, giacché la mancata esecuzione dell'ordinanza di demolizione, proseguita dopo l'entrata in vigore del menzionato comma 4-bis, imponeva l'applicazione della sanzione da quest'ultimo prevista, senza che ciò implicasse violazione dell'invocato principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie”.
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Peraltro, il Tribunale evidenzia che risulta infondato anche il terzo motivo di impugnazione, con cui i ricorrenti si dolgono sia che l’Amministrazione comunale resistente abbia comminato la sanzione demolitoria rispetto ad un abuso al più sanzionabile ex art. 37 D.P.R. 380/2001 -risultando nella specie realizzata, in assenza di titolo edilizio, unicamente una copertura di un terrazzo a livello, consistente in una struttura portante in ferro e copertura a spiovente a pannelli coibentati- sia che sia stata loro applicata una sanzione pecuniaria quantificata nella misura massima di € 20.000,00, in assenza dei legittimi presupposti.
Al riguardo, il Collegio si limita ad evidenziare che nella fattispecie che occupa risulta in realtà realizzato in zona E3 (zona omogenea agricola semplice) assoggettata a vincolo paesistico, un “ampliamento su di un terrazzo a livello dell'appartamento al primo piano di uno stabile costituito da due piani fuori terra. L'ampliamento copre una superficie di circa 70 mq. ed è costituito da una struttura portante in ferro e copertura a spiovente in pannelli coibentati sostenuti da travi in ferro. Tale copertura ha un'altezza variabile dai 4 mt. circa sulla zona a ridosso del vecchio fabbricato, ai 3,50 mt. sulla parte bassa”, che per caratteristiche e dimensioni risulta correttamente sanzionato con la demolizione.
Quanto poi alle contestazioni relative alla sanzione ex art 31, comma 4-bis, del D.P.R. 380/2001 nella specie applicata, il Tribunale evidenzia che le stesse non sono condivisibili, né quanto alle doglianze relative alla misura della sanzione applicata e quantificata in € 20.000,00, posto che tale ammontare trova diretta giustificazione e motivazione nella Delibera n. 18 del 11.07.2016 della Giunta Comunale espressamente richiamata negli atti impugnati, né quanto alla denunciata inapplicabilità nella fattispecie che occupa della Delibera citata in quanto intervenuta successivamente alla realizzazione dell’abuso; a tale ultimo riguardo e per respingere la spiegata doglianza, giova richiamare condivisibile giurisprudenza che ha osservato che “ciò che viene sanzionato, nella misura massima di Euro 20.000,00, dall'art. 31, comma 4-bis, D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato, bensì la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate: il disvalore (ex se rilevante) colpito è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino. Ne consegue che è irrilevante il fatto che l'abuso fosse stato realizzato prima dell'entrata in vigore della norma, giacché la mancata esecuzione dell'ordinanza di demolizione, proseguita dopo l'entrata in vigore del menzionato comma 4-bis, imponeva l'applicazione della sanzione da quest'ultimo prevista, senza che ciò implicasse violazione dell'invocato principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie” (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 04/12/2019, n. 2588) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.03.2020 n. 1166 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAAll’Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 38, t.u. n. 380 del 2001 sulla possibilità di sanatoria nel caso di intervento edilizio eseguito in base a permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale.
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Edilizia – Sanatoria - Permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale – Quando è possibile la sanatoria – Art. 38, t.u. n. 380 del 2001 – Interpretazione – Remissione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
É rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la corretta interpretazione dell’art. 38, t.u. 06.06.2001, n. 380, nel senso di stabilire, nel caso di intervento edilizio eseguito in base a permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale, quale tipo di vizi consenta la sanatoria che la norma prevede, ovvero l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria il cui pagamento produce, ai sensi del comma 2 dell’articolo in questione, “i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria”, istituto che comunemente si chiama “fiscalizzazione dell’abuso” (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che sulla norma dell’art. 38 in esame si sono formati, alla luce della giurisprudenza edita, tre distinti orientamenti.
Un primo orientamento, che si è affermato nella più recente giurisprudenza della Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato, dell’art. 38 sostiene un’interpretazione ampia, di favore per il privato autore dell’abuso. Ritiene infatti, in sintesi estrema, che la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo, e quindi considera secondo logica l’istituto come un caso particolare di condono di una costruzione nella sostanza abusiva.
Più nel dettaglio, anche in presenza di vizi sostanziali non emendabili del titolo annullato, il Comune prima di ordinare la rimessione in pristino dovrebbe verificare l'impossibilità a demolire, e ove la ritenesse, dovrebbe limitarsi ad applicare la sanzione pecuniaria; nel far ciò dovrebbe poi considerare rilevante non solo il caso di vera e propria impossibilità o grave difficoltà tecnica, ma anche quello in cui riconoscesse ragioni di equità o al limite anche di opportunità (Cons. St., sez. VI, 19.07.2019, n. 5089; id., sez. VI, 28.11.2018, n. 6753).
Vi è poi un orientamento più restrittivo, secondo il quale la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile soltanto nel caso di vizi formali o procedurali non emendabili, mentre in ogni altro caso l’amministrazione dovrebbe senz’altro procedere a ordinare la rimessione in pristino; in altre parole, secondo tale orientamento, lo strumento in esame consente di superare i soli vizi non sostanziali della costruzione, e quindi non può operare con gli effetti di un condono: così in primo luogo la Corte costituzionale con la sentenza 11.06.2010 n. 209, nonché nella giurisprudenza di questo Giudice le sentenze sez. VI, 09.05.2016, n. 1861 e per implicito sez. IV, 16.03.2010, n. 1535, ove si fa l’esempio pratico di un vizio formale consistito nella mancata predisposizione dello studio planivolumetrico previsto dalle norme tecniche di piano.
Si ricorda poi per completezza che seguiva l’orientamento più restrittivo, se pure senza una motivazione approfondita, la costante giurisprudenza formatasi sull’art. 11, l. n. 47 del 1985: fra le molte Cons. St., sez. VI, 11.02.2013, n. 753; id., sez. V, 22.05.2006, n. 2960 e sez. V, 12.10.2001, n. 5407.
Vi è infine un orientamento intermedio, che si discosta da quello restrittivo per ritenere possibile la fiscalizzazione, oltre che nei casi di vizio formale, anche nei casi di vizio sostanziale, però emendabile: anche in tal caso, non vi sarebbe la sanatoria di un abuso, perché esso verrebbe in concreto eliminato con le opportune modifiche del progetto prima del rilascio della sanatoria stessa, la quale si distinguerebbe dall’accertamento di conformità di cui all’art. 36 dello stesso T.U. 380/2001 per il fatto che qui non sarebbe richiesta la “doppia conformità”, ovvero non si richiederebbe il rispetto delle norme edilizie e urbanistiche vigenti sia al momento dell’abuso sia a quello successivo della sanatoria. In tal senso, sempre fra le molte, Cons. St., sez. VI, 10.09.2015, n. 4221, sez. VI, 08.05.2014, n. 2355 e sez. IV, 17.09.2012, n. 4923, ove si fa l’esempio pratico di un vizio sostanziale emendato, costituito dalla riduzione di altezza del fabbricato in modo da rispettare le norme tecniche di piano.
Ai fini di causa, condividere l’orientamento restrittivo, ovvero quello intermedio, comporterebbero senz’altro la reiezione per intero sia dell’appello 1510/2019, sia dell’appello 1708/2019 e la conferma della sentenza di I grado. Ne deriverebbe infatti la necessità di affermare che il Comune, nell’adottare il provvedimento di cui all’art. 38 in esame in un caso in cui si ravvisano vizi sostanziali che non vengono superati, è andato al di là dei poteri conferitigli dalla norma.
La Sezione ritiene di evidenziare che tutti e tre gli orientamenti sinteticamente illustrati muovono da premesse teoriche comuni, e se ne discostano nelle conseguenze che ritengono di trarne.
Le premesse teoriche comuni sono quelle riassunte, per tutte, da codesta Adunanza Plenaria nella sentenza 23.04.2009, n. 4, nonché nella citata sentenza 4355/2014. In primo luogo, la posizione dell’originario controinteressato, che ha realizzato l'opera sulla base del titolo annullato in sede giurisdizionale, non si differenzia da quella di chi avesse realizzato l'opera abusivamente senza titolo alcuno, nel senso che non va ritenuta assistita da un particolare affidamento da tutelare e questo perché una situazione di affidamento si potrebbe se mai configurare solo nei confronti di un eventuale annullamento in sede amministrativa, non rispetto ad un annullamento in sede giurisdizionale.
In quest'ultimo caso, infatti, da un lato, chi ottiene il titolo edilizio si assume il rischio e il pericolo di un eventuale annullamento di esso all’esito del ricorso che un terzo potrebbe proporre; dall’altro lato, si è di fronte ad un organo giudicante, che deve limitarsi a decidere sulla domanda propostagli e non può valorizzare, diversamente dall’amministrazione, eventuali affidamenti dei soggetti coinvolti. In secondo luogo, l’annullamento giurisdizionale del titolo edilizio determina un giudicato, che in linea di principio tutti i soggetti dell’ordinamento, anche il legislatore ordinario, debbono rispettare.
Ciò posto, secondo l’indirizzo teorico comune in esame, l’art. 38 in esame rappresenta, dal punto di vista del legislatore, la creazione di un “potere nuovo” rispetto a quello che consente di emettere il titolo edilizio, che contempera l’esigenza di rispettare il giudicato con quella di realizzare “un assetto della fattispecie diversificato” rispetto a quello scaturente dal giudicato stesso, “ma non in contrasto con quest'ultimo”: così la sentenza 4355 del 2014, da cui le citazioni.
A fronte di ciò, l’orientamento di maggior favore privilegia al massimo le ragioni del privato titolare del permesso annullato, recuperando in tal modo la tutela della buona fede che di regola può vantare chi eserciti una qualsiasi attività sulla base di un titolo rilasciato dall’amministrazione competente. Le ragioni di questo soggetto quindi, nei risultati, andrebbero a prevalere nella maggioranza dei casi, portando come esito normale la sanatoria dell’abuso mediante la sua fiscalizzazione.
In tal senso, deporrebbe anche un argomento letterale, individuato per tutte dalla sentenza 5089 del 2019: i richiami ai "vizi delle procedure amministrative" e alla impossibilità della "rimessione in pristino" contenuti nel comma 1 dell’art. 38 sarebbero due ipotesi di sanatoria messe su un piano di parità, la prima relativa a vizi formali, la seconda, ovvero quella in cui non sia possibile la "rimessione in pristino", relativa ad una problematica tecnico ingegneristica, che quindi prescinderebbe dal tipo di vizio riscontrato.
Viceversa, l’orientamento restrittivo e quello intermedio privilegiano le ragioni del terzo il quale ha impugnato nell’originario giudizio il titolo illegittimo, nonché il rispetto del giudicato. In primo luogo, si sostiene che consentire la sanatoria senza limiti andrebbe a ledere l'affidamento di costui nella stabilità della disciplina giuridica delle fattispecie, e si renderebbe in sostanza inutile e privo di effettività il suo diritto di cittadino di adire il giudice per ottenere la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.
Si osserva poi che l’interpretazione ampia potrebbe essere anche in contrasto con l’art. 102 Cost., perché andrebbe in sostanza a travolgere gli effetti del giudicato di annullamento attribuendo all’amministrazione il potere di invadere il campo riservato all’Autorità giudiziaria.
In tal senso sono le citate C. cost. 209 del 2010 e Cons. St., sez. n. 2355 del 2014, con riguardo specifico al caso concreto di una norma di legge provinciale che aveva introdotto espressamente la possibilità di fiscalizzazione del vizio sostanziale non sanabile, ma con argomentazioni di principio che assumono valore generale. Secondo logica, quindi, va adottata un’interpretazione che consente di sanare l’abuso solo quando esso è tale formalmente, ma non nella sostanza, perché si tratta appunto di soli vizi formali, o perché i vizi sostanziali sono stati eliminati.
In tale ultimo senso è anche orientato il Collegio, sia per le ragioni esposte sopra, sia perché, in sintesi estrema, la repressione degli abusi edilizi –considerando come tali le costruzioni che siano effettivamente in contrasto con l’assetto del territorio disegnato dagli strumenti urbanistici– è un valore che l’ordinamento persegue con particolare rigore: in tal senso, se pure su fattispecie diverse, si è espressa anche codesta Adunanza Plenaria nelle note sentenze 17.10.2017, n. 8 e n. 9.
In tali termini, appare preferibile l’orientamento che si è denominato intermedio, che amplia la sanabilità dell’abuso, e protegge quindi l’affidamento di chi ha ottenuto il rilascio del titolo poi annullato, sino al limite massimo consentito dalla contrapposta tutela del terzo (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 11.03.2020 n. 1735 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
22. L’appello propone, nel suo complesso, una questione di diritto, per la cui risoluzione è necessaria, ad avviso del Collegio, la rimessione all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.
23. Si tratta della corretta interpretazione dell’art. 38 del T.U. 06.06.2001 n. 380, nel senso di stabilire, nel caso di intervento edilizio eseguito in base a permesso di costruire annullato in sede giurisdizionale, quale tipo di vizi consenta la sanatoria che la norma prevede, ovvero l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria il cui pagamento produce, ai sensi del comma 2 dell’articolo in questione, “i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria”, istituto che comunemente si chiama “fiscalizzazione dell’abuso”, questione oggetto del primo motivo sia del ricorso 1510/2019 che del ricorso 1708/2019.
24. Per chiarezza, si riportano le norme pertinenti.
24.1 Il più volte citato art. 38 del T.U. 380/2001 dispone, nella parte che interessa: “(Interventi eseguiti in base a permesso annullato) In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36 (comma 2)”.
Quest’ultimo articolo, com’è noto, disciplina l’accertamento di conformità, ovvero la sanatoria degli interventi abusivi perché realizzati senza titolo, ma conformi alle norme urbanistico edilizie.
24.2 Per completezza, si ricorda che le norme dell’art. 38 appena citate trovano il loro antecedente nel previgente ed analogo art. 11 della l. 28.02.1985 n. 47, per cui “(Annullamento della concessione) In caso di annullamento della concessione, qualora non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il sindaco applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'ufficio tecnico erariale. La valutazione dell'ufficio tecnico è notificata alla parte dal comune e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti della concessione di cui all'articolo 13 (comma 2)”.
Come si vede, la norma è identica, a parte i riferimenti alla concessione edilizia, come è noto precedente denominazione del titolo edilizio maggiore, ora permesso di costruire, e all’art. 13 della stessa l. 47/1985, che disciplinava l’accertamento di conformità in termini identici all’attuale art. 36 del T.U. 380/2001. Di conseguenza, si farà riferimento anche alla giurisprudenza formatasi su questa norma.
25. Tanto premesso, sulla norma dell’art. 38 in esame si sono formati, alla luce della giurisprudenza edita, tre distinti orientamenti, che si indicano così come segue.
25.1 Un primo orientamento, che si è affermato nella più recente giurisprudenza della Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato, dell’art. 38 sostiene un’interpretazione ampia, di favore per il privato autore dell’abuso. Ritiene infatti, in sintesi estrema, che la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo, e quindi considera secondo logica l’istituto come un caso particolare di condono di una costruzione nella sostanza abusiva.
Più nel dettaglio, anche in presenza di vizi sostanziali non emendabili del titolo annullato, il Comune prima di ordinare la rimessione in pristino dovrebbe verificare l'impossibilità a demolire, e ove la ritenesse, dovrebbe limitarsi ad applicare la sanzione pecuniaria; nel far ciò dovrebbe poi considerare rilevante non solo il caso di vera e propria impossibilità o grave difficoltà tecnica, ma anche quello in cui riconoscesse ragioni di equità o al limite anche di opportunità: in tal senso la più recente C.d.S. sez. VI 19.07.2019 n. 5089, e in senso sostanzialmente conforme, fra le molte, C.d.S. sez. VI 28.11.2018 n. 6753 e sez. VI 12.05.2014 n. 2398.
25.2 Ai fini di causa, condividere questo orientamento comporterebbe che i motivi di appello indicati, primo sia del ricorso 1510/2019 che del ricorso 1708/2019 andrebbero non puramente e semplicemente respinti, ma valutati in concreto: posto che l’amministrazione non si è mossa senz’altro al di là dei poteri che l’art. 38, in ipotesi, le conferisce, occorrerebbe verificare se in concreto di questi poteri abbia fatto corretta applicazione.
25.3 Vi è poi un orientamento più restrittivo, secondo il quale la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile soltanto nel caso di vizi formali o procedurali non emendabili, mentre in ogni altro caso l’amministrazione dovrebbe senz’altro procedere a ordinare la rimessione in pristino; in altre parole, secondo tale orientamento, lo strumento in esame consente di superare i soli vizi non sostanziali della costruzione, e quindi non può operare con gli effetti di un condono: così in primo luogo la Corte costituzionale con la sentenza 11.06.2010 n. 209, nonché nella giurisprudenza di questo Giudice le sentenze sez. VI 09.05.2016 n. 1861 e per implicito sez. IV 16.03.2010 n. 1535, ove si fa l’esempio pratico di un vizio formale consistito nella mancata predisposizione dello studio planivolumetrico previsto dalle norme tecniche di piano. Si ricorda poi per completezza che seguiva l’orientamento più restrittivo, se pure senza una motivazione approfondita, la costante giurisprudenza formatasi sull’art. 11 della l. 47/1985: fra le molte C.d.S. sez. VI 11.02.2013 n. 753, sez. V 22.05.2006 n. 2960 e sez. V 12.10.2001 n. 5407.
25.4 Vi è infine un orientamento intermedio, che si discosta da quello restrittivo per ritenere possibile la fiscalizzazione, oltre che nei casi di vizio formale, anche nei casi di vizio sostanziale, però emendabile: anche in tal caso, non vi sarebbe la sanatoria di un abuso, perché esso verrebbe in concreto eliminato con le opportune modifiche del progetto prima del rilascio della sanatoria stessa, la quale si distinguerebbe dall’accertamento di conformità di cui all’art. 36 dello stesso T.U. 380/2001 per il fatto che qui non sarebbe richiesta la “doppia conformità”, ovvero non si richiederebbe il rispetto delle norme edilizie e urbanistiche vigenti sia al momento dell’abuso sia a quello successivo della sanatoria.
In tal senso, sempre fra le molte, C.d.S. sez. VI 10.09.2015 n. 4221, sez. VI 08.05.2014 n. 2355 e sez. IV 17.09.2012 n. 4923, ove si fa l’esempio pratico di un vizio sostanziale emendato, costituito dalla riduzione di altezza del fabbricato in modo da rispettare le norme tecniche di piano.
25.5 Ai fini di causa, condividere l’orientamento restrittivo, ovvero quello intermedio, comporterebbero senz’altro la reiezione per intero sia dell’appello 1510/2019, sia dell’appello 1708/2019 e la conferma della sentenza di I grado. Ne deriverebbe infatti la necessità di affermare che il Comune, nell’adottare il provvedimento di cui all’art. 38 in esame in un caso in cui si ravvisano vizi sostanziali che non vengono superati, è andato al di là dei poteri conferitigli dalla norma.
26. La Sezione ritiene di evidenziare che tutti e tre gli orientamenti sinteticamente illustrati muovono da premesse teoriche comuni, e se ne discostano nelle conseguenze che ritengono di trarne.
26.1 Le premesse teoriche comuni sono quelle riassunte, per tutte, da codesta Adunanza Plenaria nella sentenza 23.04.2009 n. 4, nonché nella citata sentenza 4355/2014. In primo luogo, la posizione dell’originario controinteressato, che ha realizzato l'opera sulla base del titolo annullato in sede giurisdizionale, non si differenzia da quella di chi avesse realizzato l'opera abusivamente senza titolo alcuno, nel senso che non va ritenuta assistita da un particolare affidamento da tutelare e questo perché una situazione di affidamento si potrebbe se mai configurare solo nei confronti di un eventuale annullamento in sede amministrativa, non rispetto ad un annullamento in sede giurisdizionale.
In quest'ultimo caso, infatti, da un lato, chi ottiene il titolo edilizio si assume il rischio e il pericolo di un eventuale annullamento di esso all’esito del ricorso che un terzo potrebbe proporre; dall’altro lato, si è di fronte ad un organo giudicante, che deve limitarsi a decidere sulla domanda propostagli e non può valorizzare, diversamente dall’amministrazione, eventuali affidamenti dei soggetti coinvolti. In secondo luogo, l’annullamento giurisdizionale del titolo edilizio determina un giudicato, che in linea di principio tutti i soggetti dell’ordinamento, anche il legislatore ordinario, debbono rispettare.
26.2 Ciò posto, secondo l’indirizzo teorico comune in esame, l’art. 38 in esame rappresenta, dal punto di vista del legislatore, la creazione di un “potere nuovo” rispetto a quello che consente di emettere il titolo edilizio, che contempera l’esigenza di rispettare il giudicato con quella di realizzare “un assetto della fattispecie diversificato” rispetto a quello scaturente dal giudicato stesso, “ma non in contrasto con quest'ultimo”: così la sentenza 4355/2014, da cui le citazioni.
26.3 A fronte di ciò, l’orientamento di maggior favore privilegia al massimo le ragioni del privato titolare del permesso annullato, recuperando in tal modo la tutela della buona fede che di regola può vantare chi eserciti una qualsiasi attività sulla base di un titolo rilasciato dall’amministrazione competente. Le ragioni di questo soggetto quindi, nei risultati, andrebbero a prevalere nella maggioranza dei casi, portando come esito normale la sanatoria dell’abuso mediante la sua fiscalizzazione.
In tal senso, deporrebbe anche un argomento letterale, individuato per tutte dalla sentenza 5089/2019: i richiami ai "vizi delle procedure amministrative" e alla impossibilità della "rimessione in pristino" contenuti nel comma 1 dell’art. 38 sarebbero due ipotesi di sanatoria messe su un piano di parità, la prima relativa a vizi formali, la seconda, ovvero quella in cui non sia possibile la "rimessione in pristino", relativa ad una problematica tecnico ingegneristica, che quindi prescinderebbe dal tipo di vizio riscontrato.
26.4 Viceversa, l’orientamento restrittivo e quello intermedio privilegiano le ragioni del terzo il quale ha impugnato nell’originario giudizio il titolo illegittimo, nonché il rispetto del giudicato. In primo luogo, si sostiene che consentire la sanatoria senza limiti andrebbe a ledere l'affidamento di costui nella stabilità della disciplina giuridica delle fattispecie, e si renderebbe in sostanza inutile e privo di effettività il suo diritto di cittadino di adire il giudice per ottenere la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.
Si osserva poi che l’interpretazione ampia potrebbe essere anche in contrasto con l’art. 102 Cost., perché andrebbe in sostanza a travolgere gli effetti del giudicato di annullamento attribuendo all’amministrazione il potere di invadere il campo riservato all’Autorità giudiziaria. In tal senso sono le citate C. cost. 209/2010 e C.d.S. sez. 2355/2104, con riguardo specifico al caso concreto di una norma di legge provinciale che aveva introdotto espressamente la possibilità di fiscalizzazione del vizio sostanziale non sanabile, ma con argomentazioni di principio che assumono valore generale. Secondo logica, quindi, va adottata un’interpretazione che consente di sanare l’abuso solo quando esso è tale formalmente, ma non nella sostanza, perché si tratta appunto di soli vizi formali, o perché i vizi sostanziali sono stati eliminati.
26.5 In tale ultimo senso è anche orientato il Collegio, sia per le ragioni esposte sopra, sia perché, in sintesi estrema, la repressione degli abusi edilizi –considerando come tali le costruzioni che siano effettivamente in contrasto con l’assetto del territorio disegnato dagli strumenti urbanistici– è un valore che l’ordinamento persegue con particolare rigore: in tal senso, se pure su fattispecie diverse, si è espressa anche codesta Adunanza Plenaria nelle note sentenze 17.10.2017 nn. 8 e 9.
In tali termini, appare preferibile l’orientamento che si è denominato intermedio, che amplia la sanabilità dell’abuso, e protegge quindi l’affidamento di chi ha ottenuto il rilascio del titolo poi annullato, sino al limite massimo consentito dalla contrapposta tutela del terzo.
27. Alla luce di siffatto contrasto giurisprudenziale la questione, rilevante per quel che si è detto ai fini della decisione dell’appello, in esame, va deferita all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a., che deciderà ai sensi del comma 4 dello stesso art. 99.
28. Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sugli appelli come in epigrafe proposti (ricorsi nn. 1510/2019 e 1708/2019), li rimette all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 c.p.a..

gennaio 2020

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del DPR n. 380/2001 pari ad € 20.000,00 [introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164] può essere applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività delle norme sanzionatorie.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164, attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza, siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo, concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione, sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31 sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività delle norme sanzionatorie.
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... per l’annullamento dell’ordinanza n. 22 del 06/08/2018 emessa dal responsabile dell’Area Assetto ed Utilizzazione del Territorio del Comune di Santa Flavia (PA) e notificata in data 27/08/2018 con la quale viene ingiunto ai ricorrenti il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4-bis, del DPR n. 380/2001, pari ad € 20.000,00, entro il termine massimo di giorni 30 dalla notifica stessa, per la inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 8/2012;
...
FATTO
Con ricorso notificato in data 28.10.2018, e depositato il successivo 11 novembre, i ricorrenti hanno impugnato il provvedimento impugnato articolando le censure di:
   A) Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità dell'ordinanza per violazione di legge, e, in particolare, dell'art. 1, comma secondo, della l. n. 689 del 1981, e del comma 4-bis dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164;
   B) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione dell’art. 7 e dell’art. 21-bis della legge 07.08.1990 n. 241 - omessa comunicazione di avvio del procedimento;
   C) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione dell’art. 31, comma 4, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, mancata notifica atto presupposto;
   D) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione di legge, e in particolare, del comma 4-bis dell'art. 31 D.P.R. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133 convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164 e del comma 2 dell'articolo 27 D.P.R. n. 380/2001;
   E) Illegittimità e/o nullità dell'ordinanza per violazione del principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative - Illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii., in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso testo unico;
   F) Illegittimità e/o nullità e/o annullabilità dell'ordinanza per violazione di legge, e, in particolare, dell'art. 1, comma secondo, della l. n. 689 del 1981, e del comma 4-bis dell'art. 31 D.P.R.. n. 380/2001, introdotto dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con modificazioni in legge 11.11.2014 n. 164, sotto altro profilo, applicabilità dei principi e delle regole procedimentali della legge n. 689/1981 - Eccesso di potere.
Sostengono i ricorrenti che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo in quanto:
   - applica retroattivamente una sanzione pecuniaria introdotta nel nostro ordinamento dopo che l’illecito a cui consegue -mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato nei termini di legge- è stato compiuto ed accertato;
   - sarebbe mancata la doverosa comunicazione di avvio del procedimento;
   - non risulta adottato il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordine di demolizione adottato dall’amministrazione;
   - sarebbe privo di adeguata motivazione; la sanzione pecuniaria irrogata –nella misura massima prevista per legge– sarebbe del tutto sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito edilizio commesso; l’amministrazione avrebbe errato nel non prevedere la possibilità di pagare la sanzione irrogata in misura ridotta, a norma dell’art. 16 della legge n. 689/1981.
Non si è costituito il Comune intimato e alla pubblica udienza fissata per la sua discussione, il ricorso è stato posto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato in ragione della fondatezza del primo motivo.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la sanzione pecuniaria introdotta dall’art. 17, comma 1, lett. q-bis), del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito, con modificazioni, in legge 11.11.2014 n. 164, attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui l’ordine di demolizione, e il decorso del termine previsto per la sua ottemperanza, siano precedenti all’introduzione della norma, ma non ritiene condivisibile tale orientamento.
Invero la norma richiamata introduce un autonomo illecito amministrativo, concernente la mancata tempestiva ottemperanza all’ordine di demolizione, sostanzialmente autonomo, seppur correlato, con l’illecito relativo alla commissione dell’abuso edilizio, oggetto del provvedimento di demolizione.
Il punto centrale, per individuare il suo perimetro di applicazione, è la corretta ricostruzione dell’obbligo di adempimento all’ordine di demolizione, e in particolare se tale obbligo permanga nel tempo, anche dopo il decorso del termine, previsto dalla legge, di 90 giorni, per dare spontanea esecuzione al provvedimento demolitorio.
Invero solo nel caso in cui si giunga alla conclusione che l’obbligo permane nel tempo, potrebbe ritenersi che il privato abbia mantenuto un comportamento illecito –passibile della sanzione pecuniaria per cui è causa– dopo l’entrata in vigore dell’art. 17, comma 1, lett. q-bis), sopra richiamato, pur essendosi in precedenza consumato il termine di legge per la spontanea esecuzione all’ordine di demolizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio che, dalla lettura sistematica delle norme che vengono in rilievo, si deve giungere alla conclusione che l’illecito consistente nella mancata demolizione dell’abuso edilizio realizzato, dopo l’adozione di un ordine di demolizione, non ha carattere permanente, ma istantaneo, e si consuma al momento del decorso del termine previsto dalla legge –e talvolta riprodotto negli atti di demolizione- per la demolizione spontanea.
Infatti poiché al decorso del termine previsto per la demolizione spontanea da parte del privato il Comune che ha ingiunto la demolizione acquista l’area in cui ricade l’abuso commesso (art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), sarebbe irragionevole ritenere che il privato rimanga obbligato a demolire un bene ormai di proprietà del Comune, che potrebbe anche motivatamente decidere di non demolire, ai sensi del comma quinto dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
Ciò considerato l’unica ricostruzione aderente al testo della norma che viene in rilievo, oltre che alla complessiva disciplina in cui è inserita, è quella di ritenere che l’illecito sanzionato con il comma 4-bis dell’art. 31 sia un illecito istantaneo, e non permanente, che si perfeziona e si definisce nel momento in cui è decorso il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione ricevuto.
Conseguentemente la norma sanzionatoria che viene in rilievo -introdotta con una legge del 2014- deve essere interpretata nel senso che può essere applicata esclusivamente alle vicende in cui il termine di esecuzione spontanea all’ordine di demolizione si è consumato successivamente alla sua entrata in vigore, in coerenza con il generale principio di irretroattività delle norme sanzionatorie.
Il provvedimento impugnato è pertanto illegittimo in quanto ha applicato retroattivamente la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 22.01.2020 n. 189 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>>.
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1. I due ricorsi sono fondati con riferimento alla mancata prova della responsabilità del ricorrente nella realizzazione degli abusi (primo e terzo motivo del ricorso introduttivo e primo e terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti).
L’art. 31, c. 2, del DPR 380/2001 stabilisce che “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”.
Secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015 n. 4880) <<la figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato. Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”>> (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 120 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e dell’art. 32, comma 27, lett. d), del dl n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale, comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti condizioni:
   a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle opere;
   b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo edilizio;
   c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali).
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Sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del dl n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti.
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Ritenuto in diritto che:
   - la sentenza di primo grado deve essere confermata;
   - il combinato disposto dell’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47 e dell’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto-legge n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.10.2019, n. 7341; Sez. VI , 17.09.2019, n. 6182; Sez. IV, 29.03.2017, n. 1434; sez. IV, 21.02.2017, n. 813; Sez. VI, 02.08.2016 n. 3487; Sez. IV, sentenza 17.09.2013, n. 4587), comporta che un abuso commesso su un bene sottoposto a vincolo di inedificabilità, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato quando ricorrono, contemporaneamente le seguenti condizioni:
a) l’imposizione del vincolo di inedificabilità prima della esecuzione delle opere;
b) la realizzazione delle stesse in assenza o difformità dal titolo edilizio;
c) la non conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (nelle zone sottoposte a vincolo paesistico, sia esso assoluto o relativo, è cioè consentita la sanatoria dei soli abusi formali);
   - sempre con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, va precisato che il condono previsto dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti (in tal senso anche la giurisprudenza penale: cfr., ex plurimis, Cassazione penale sez. III, 20.05.2016, n. 40676; peraltro, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 150 del 2009, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 26, lettera a), del decreto-legge n. 269 del 2003 nella parte in cui prevede la condonabilità limitata ai soli abusi minori nelle zone sottoposte a vincolo di cui all'art. 32 della legge n. 47 del 1985);
   - su queste basi, sono evidenti le ragioni ostative alla concessione della sanatoria, dal momento che, come risulta dagli atti di causa:
      i) l’abuso realizzato dall’appellante è un manufatto residenziale di due piani, qualificabile come “nuova costruzione”;
     ii) il terreno su cui insiste il manufatto è sottoposto a vincolo paesistico in virtù di un provvedimento specifico emanato dall’Autorità competente (il più volte citato decreto ministeriale del 02.04.1954) e non già ex lege; ne consegue che le norme citate dall’appellante (art. 142, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 42 del 2004, e art. 4, della legge della Regione Lazio n. 24 del 1998) sono inconferenti riferendosi le stesse alle sole aree tutelate per legge (peraltro, secondo quanto dedotto dal Comune, senza specifica contestazione di controparte, l’area di proprietà non è delimitata nel PRG del Comune di Frascati come “zona territoriale omogenea B ai sensi del D.M. 02.04.1968, n. 1444” ma sarebbe, invece, classificato, ai sensi del D.M. 1444/1968, come zona territoriale di tipo C, come da delibera C.C. n. 161/1978);
      iii) l’opera realizzata non è conforme agli strumenti urbanistici del Comune di Frascati in quanto in contrasto con l’art. 35 NTA del PRG (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.01.2020 n. 425 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobile urbanisticamente irregolare e responsabilità del mediatore.
Il mediatore pur non essendo tenuto, in difetto di un incarico specifico, a svolgere nell'adempimento della sua prestazione particolari indagini di natura tecnico-giuridica (come l'accertamento della libertà da pesi dell'immobile oggetto di trasferimento, mediante le cosiddette visure catastali e ipotecarie) allo scopo d'individuare fatti rilevanti ai fini della conclusione dell'affare, è pur tuttavia gravato
   -  in positivo, dall'obbligo di comunicare le circostanze a lui note o comunque conoscibili con la comune diligenza che è richiesta in relazione al tipo di prestazione, nonché
   -  in negativo, dal divieto di fornire non solo informazioni non veritiere, ma anche informazioni su fatti dei quali non abbia consapevolezza e che non abbia controllato, poiché il dovere di correttezza e quello di diligenza gli imporrebbero in tal caso di astenersi dal darle.
Cosicché, qualora il mediatore infranga tali regole di condotta, è legittimamente configurabile una sua responsabilità per i danni sofferti, per l'effetto, dal cliente.
La mancata informazione del promissario acquirente sull'esistenza di una irregolarità urbanistica non ancora sanata relativa all'immobile oggetto della promessa di vendita, della quale il mediatore stesso doveva e poteva essere edotto, in quanto agevolmente desumibile dal riscontro tra la descrizione dell'immobile contenuta nell'atto di provenienza e lo stato effettivo dei luoghi, legittima il rifiuto del medesimo promissario di corrispondere la provvigione
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8. A nulla vale -si premette- dedurre che Gi.Me. aveva con il secondo motivo di gravame addotto che ella principale ricorrente "era a conoscenza delle irregolarità edilizie e nonostante ciò non aveva informato la promissaria" (così ricorso principale, pag. 16), sicché la corte di seconde cure avrebbe dovuto circoscrivere a tale prospettazione la sua valutazione e non estenderla "alla sussistenza, o meno, (...) di un obbligo di indagine da parte del mediatore" (così ricorso principale, pag. 16).
Si tratta evidentemente -e contrariamente all'assunto della principale ricorrente- di un profilo che il motivo d'appello in ogni caso involgeva.
8.1. Difatti questa Corte insegna -e tale insegnamento appropriatamente la corte distrettuale ha richiamato nella motivazione dell'impugnato dictum (cfr. pag. 7)- che il mediatore, pur non essendo tenuto, in difetto di un incarico specifico, a svolgere nell'adempimento della sua prestazione particolari indagini di natura tecnico-giuridica (come l'accertamento della libertà da pesi dell'immobile oggetto del trasferimento, mediante le cosiddette visure catastali ed ipotecarie) allo scopo di individuare fatti rilevanti ai fini della conclusione dell'affare, è pur tuttavia gravato, in positivo, dall'obbligo di comunicare le circostanze a lui note o comunque conoscibili con la comune diligenza che è richiesta in relazione al tipo di prestazione, nonché, in negativo, dal divieto di fornire non solo informazioni non veritiere, ma anche informazioni su fatti dei quali non abbia consapevolezza e che non abbia controllato, poiché il dovere di correttezza e quello di diligenza gli imporrebbero in tal caso di astenersi dal darle; cosicché, qualora il mediatore infranga tali regole di condotta, è legittimamente configurabile una sua responsabilità per i danni sofferti, per l'effetto, dal cliente (cfr. Cass. 16.07.2010, n. 16623 (Rv. 614511 - 01)).
In particolare -con lo stesso insegnamento [cfr. Cass. 16.07.2010, n. 16623 (Rv. 614512 - 01)]- questa Corte soggiunge che la mancata informazione del promissario acquirente sull'esistenza di una irregolarità urbanistica non ancora sanata relativa all'immobile oggetto della promessa di vendita, della quale il mediatore stesso doveva e poteva essere edotto, in quanto agevolmente desumibile dal riscontro tra la descrizione dell'immobile contenuta nell'atto di provenienza e lo stato effettivo dei luoghi, legittima il rifiuto del medesimo promissario di corrispondere la provvigione (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 16.01.2020 n. 784).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela delle aree sottoposte a vincoli paesaggisti-ambientali – Interventi non esternamente visibili – Rilevanza delle opere interrate – Principio di offensività – Fattispecie – Artt. 3, 10, 22, 37, 44, 95 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 131, 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte a vincolo, ai fini della configurabilità del reato paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra elementi ambientali ed antropici che caratterizza il paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla disciplina di settore, con la conseguenza che anche interventi non esternamente visibili, quali quelli interrati, possono determinare una alterazione dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di valutazione in sede penale.
Fattispecie, intervento edilizio consistente nell’esecuzione di opere, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio tecnico regionale.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Aree sottoposte a vincolo paesaggistico – Interventi “precari”, opere facilmente rimovibili e immobili interrati – Pericolo per il bene protetto – Causazione di un danno – Necessità – Esclusione – Possibile pregiudizio al bene tutelato e incidenza della condotta.
In tema di abusi paesaggistici, quando il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo l’interesse protetto, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull’assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall’amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell’intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi “precari” o ad opere facilmente rimovibili e, agli immobili interrati.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Interventi in zone vincolate – Incidenza del principio di offensività – Natura di reato di pericolo presunto od astratto – Mancanza di danno ambientale – Ininfluenza – Valutazione della offensività della condotta.
L’incidenza del c.d. principio di offensività, secondo la quale anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen..
Precisando, che il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. Pertanto, ai fini della valutazione della offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, nella specie, che il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza  09.01.2020 n. 370 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi, aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del 26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”).
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2. - Il ricorso è infondato.
2.1. Sono destituite di fondamento le censure con cui si intende far valere che occorreva la comunicazione di avvio del procedimento e dovevano essere notificati i verbali di accertamento dell’inottemperanza.
Sotto il primo profilo, è pacifico che non è necessario comunicare l’avvio del procedimento per i provvedimenti sanzionatori degli abusi edilizi, aventi natura vincolata (cfr. per tutte, specificamente, la sentenza della Sezione del 28/10/2019 n. 5094: “poiché il provvedimento di acquisizione costituisce un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza, non è necessario che venga preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990 (da ultimo, TAR Lazio, sez. II-quater, 08.10.2018, n. 9799)”).
Sotto l’ulteriore profilo, resta parimenti esclusa la doverosità della notifica del verbale con cui è accertato che il destinatario dell’ordine di demolizione non vi ha ottemperato (cfr. la sentenza della Sezione del 26/03/2019 n. 1683: “Posto che il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, essendo unicamente finalizzato alla rilevazione in via ricognitiva e vincolata dell'inottemperanza dell'ingiunzione di demolizione, è da escludere che la notifica dello stesso al responsabile dell'abuso sia un presupposto necessario per l’emanazione della dichiarazione di acquisizione gratuita”; conf., 13/06/2019 n. 3232 e 16/10/2019 n. 4927) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p., al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione amministrativa.
È solo a seguito dell’eventuale reiezione dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova del comportamento attivo dell’interessato che può escludere l’inottemperanza.
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2.3. Relativamente all’addotta sottoposizione a sequestro penale (che, nella prospettazione del ricorrente, avrebbe impedito la demolizione ed escluderebbe di poter procedere all'acquisizione), va osservato che tale circostanza non può essere invocata per sottrarsi alle conseguenze scaturenti dalla realizzazione dell’abuso, in mancanza di un comportamento attivo dell’interessato.
Nella specie, il ricorrente lamenta che il Giudice penale non avrebbe acconsentito al dissequestro per effettuare il rispristino, senza fornire alcuna dimostrazione di ciò (cfr. la sentenza della Sezione del 27/06/2019 n. 3526: “La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto ad ottemperare all’ordine di demolizione. Pertanto l’indisponibilità derivante da tale misura non può essere invocata quale causa di forza maggiore all’emanazione o all’esecuzione dell’ingiunzione, dal momento che il soggetto interessato ha la facoltà (e l’onere) di attivarsi, nei tempi strettamente necessari, presso l'Autorità Giudiziaria, secondo la procedura prevista dall'art. 85 disp. att. c.p.p., al fine di ottenere il dissequestro, se intende ottemperare all’ingiunzione amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 28/01/2016, n. 335; Cass. pen., sez. III, 26/09/2013, n. 42637). È solo a seguito dell’eventuale reiezione dell’istanza di dissequestro da parte del Giudice penale che è possibile configurare una effettiva impossibilità ad adempiere, sicché è solo la prova del comportamento attivo dell’interessato che può escludere l’inottemperanza”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione del bene abusivamente realizzato configura l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001, una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta ordinanza di demolizione”).
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2.4. Infine, è priva di fondamento la censura contenuta nell’ultimo motivo, secondo cui l’emanazione del provvedimento di acquisizione spetterebbe al Consiglio comunale, ai sensi dell’art. 42 del T.U.E.L. (poiché ricompresa nella competenza del Consiglio relativa agli acquisti e alle alienazioni immobiliari).
Contrariamente a tale assunto, l’acquisizione del bene abusivamente realizzato configura l’esercizio del potere ricompreso nei compiti di gestione affidati al Dirigente dell’Ente, al pari dell’ordine di demolizione da cui promana se l’interessato non vi adempie (cfr. la sentenza della Sezione del 16/10/2019 n. 4927, cit.: “l’art. 31, comma 2, d.p.r. 380/2001, una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di titolo o in difformità dallo stesso, affida espressamente al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il potere di ingiungere, con ordinanza, al responsabile la rimozione o la demolizione delle opere abusive. L’ordinanza deve contenere anche la previsione di eventuale acquisizione del bene in ipotesi di inottemperanza. E’ quindi evidente che, trattandosi di atto vincolato e successivo al mero verificarsi dell’inadempimento, la competenza non possa che essere dello stesso organo che ha adottato la presupposta ordinanza di demolizione”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo consolidata giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso”.
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera".
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E' noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, “il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa. Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali”.
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Posto che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza.
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Condivisibile giurisprudenza ha da tempo osservato che “l’adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse”.
Tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della sanabilità di un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale, essendo per legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del privato interessato.
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Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione. Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento amministrativo".
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Qualora il Comune disponga ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia l'opera abusiva.
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Invero, quanto al ricorso principale, il Tribunale evidenzia come sia in primo luogo infondato il primo motivo, in cui la ricorrente Cr., proprietaria del suolo ed asseritamente non responsabile dell’abuso, lamenta che l’ordinanza di demolizione sia stata emessa anche nei suoi confronti, pur essendo la medesima totalmente estranea alla costruzione delle opere abusive, e però, destinata a subire le conseguenze dell’altrui condotta, anche in termini di eventuale successiva acquisizione gratuita del suolo al patrimonio comunale per il caso di inottemperanza alla demolizione.
Al riguardo, il Tribunale evidenzia in primo luogo come, secondo consolidata giurisprudenza, “l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e l'ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio, non richiedente l'accertamento del dolo o della colpa grave del soggetto cui si imputa la trasgressione. Pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell'area, il quale fino a prova contraria è quantomeno corresponsabile dell'abuso” (cfr. C.d.S. Sez.VI n. 6148 del 15.12.2014).
E’ pur vero che altra condivisibile giurisprudenza ha osservato che "è illegittima l'ingiunzione di demolizione che non venga notificata al responsabile dell'abuso né al proprietario dell'opera abusiva, ma solo al proprietario dell'area sulla quale è stata realizzata la stessa opera" (cfr. TAR Lazio, Roma n. 5968 del 03.07.2007).
Tuttavia, nel caso di specie, si osserva che l’ordinanza di demolizione impugnata risulta notificata non solo alla ricorrente in qualità di proprietaria dell’opera abusiva, ma altresì all’altro ricorrente Ru.Gi. nella qualità di responsabile dell’abuso.
Sotto tale profilo, pertanto, le doglianze spiegate nel primo motivo di ricorso risultano infondate, considerato non solo che l’ordinanza di demolizione risulta notificata anche al responsabile dell’abuso, ma che la ricorrente Cr. è sicuramente proprietaria, oltre che dell’area di sedime, anche dello stesso fabbricato realizzato in assenza di titolo edilizio.
Ed invero, è noto come, per giurisprudenza costante, la sola sanzione dell’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale prevista dall’art. 31 D.P.R. 380/2001, -e dunque non l’ordinanza di demolizione delle opere abusive- a determinate condizioni, non possa trovare applicazione nei confronti del proprietario del bene incolpevole dell’abuso edilizio realizzato da altri.
In particolare, secondo il Consiglio di Stato “il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa. Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali” (cfr. Cons. Stato sent. n. 2211 del 04.05.2015, Cons. Stato sent. n. 3897 del 07.08.2015).
Tuttavia appare evidente come tale giurisprudenza mal si attagli alla fattispecie oggetto del presente giudizio, non solo perché in tal caso risulta impugnata la sola ordinanza di demolizione delle opere abusivamente realizzate che, per le ragioni anzidette, risulta legittimamente notificata anche all’odierna ricorrente, ma anche perché, in ogni caso, il comportamento concretamente assunto dalla ricorrente, -che appare piuttosto preordinato ad evitare l’abbattimento dell’immobile abusivo che a ripristinare la legalità violata- non è tale da integrare le condizioni richieste dalla condivisibile giurisprudenza amministrativa per evitare gli effetti riconnessi all’eventuale inottemperanza all’ordinanza di demolizione, ed in particolare l’acquisizione del bene al patrimonio comunale.
Peraltro, non è nemmeno ravvisabile la dedotta violazione dell'art. 31, II comma, D.P.R. n. 380/2001, a cagione dell’erronea indicazione, nel provvedimento in oggetto, dell'area che verrebbe acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine impartito; ed invero, posto che primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90, la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta da sola l’illegittimità del provvedimento impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle opere e relativa area di sedime al patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Napoli Campania, Sez. VI, 05.06.2012 n. 2635).
Parimenti infondato si palesa il secondo motivo di gravame del ricorso principale in cui i ricorrenti si dolgono che il Comune non abbia previamente valutato l’eventuale sanabilità dell’intervento edilizio realizzato; al riguardo, il Tribunale si limita ad evidenziare come condivisibile giurisprudenza abbia da tempo osservato che “l’adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive presuppone soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”, atteso che “al Comune compete, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/2001, l'esercizio della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale e, pertanto, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l'amministrazione comunale deve disporne senz'altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse” (cfr. ad es. TAR Campania, II Sezione, n. 3645 del 12.07.2013); tale orientamento evidenzia infatti come la verifica della sanabilità di un’opera non costituisca onere dell'Amministrazione comunale, essendo per legge rimessa ogni iniziativa al riguardo all'impulso del privato interessato (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VI, 03.08.2015 n. 4190; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 24.09.2002 n. 5556)” (cfr. TAR Campania, Napoli, VI Sez., n. 942 del 16.02.2018).
Parimenti infondate si palesano le doglianze inerenti l’asserita violazione degli artt. 3 e 7 della legge n. 241/1990, posto che, come è stato chiarito da condivisibile giurisprudenza in tema di D.I.A., con principio pacificamente applicabile anche al caso di interventi di nuova costruzione realizzati in assenza o difformità dal titolo edilizio, "i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall’avviso di inizio del relativo procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all’esito di una mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime che, in quanto tali, non richiedono neppure una specifica motivazione. Pertanto, in caso di adozione di misure sanzionatorie conseguenti alla violazione di disposizioni in materia di denuncia di inizio di attività -trattandosi di provvedimenti vincolati e basati su presupposti verificabili in modo immediato- non sussistono le esigenze di garanzia e trasparenza cui sovviene il principio di partecipazione del privato al procedimento amministrativo" (TAR Campania, sez. V, 15.01.2015, n. 225).
Per tutte le suesposte ragioni il ricorso principale è infondato.
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Al contrario, risultano fondati e meritevoli di accoglimento i motivi aggiunti notificati in data 03.05.2013, nella sola parte in cui i ricorrenti lamentano che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, disposta con l’impugnata determinazione del Dirigente dell'Area tecnica – Settore Urbanistica n. 10/13 del 21.02.2013 notificata il 26.02.2013, riguardi non solo l’edificio di 100 mq. realizzato in assenza di titolo edilizio ed oggetto dell’ingiunta demolizione, ma altresì l'intera area di sedime e l'area circostante, corrispondente a mq. 415 della particella n. 193 del foglio 34, pur risultando la stessa occupata da immobili regolarmente assentiti, in assenza di qualsivoglia motivazione in ordine alle ragione sottese alla disposta acquisizione dell’intera area di sedime (e non solo di quella occupata dal manufatto abusivo di cui è stato –legittimamente per le ragioni anzidette– disposto l’abbattimento).
Al riguardo, occorre evidenziare come, secondo la condivisibile giurisprudenza, qualora il Comune disponga ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, tale acquisizione -in assenza di motivazioni che ne giustifichino l'estensione ad un'area ulteriore- deve essere limitata all'area su cui insistono le sole opere abusive e non all'intera e più ampia area in cui tali opere sono ricomprese, in quanto l'automatismo dell'effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione solo con riguardo all'area di su cui poggia l'opera abusiva (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 4259/2011 e sez. VI, n. 4336/2005, TAR Sicilia-Catania, Sez. I, n. 2268/2016) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 49 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire: tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri.
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia, appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua.
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8. Rimangono da esaminare le ulteriori censure, formulate nei motivi aggiunti, con cui il ricorrente mira ad infirmare l’ordinanza acquisitiva nella parte in cui ha disposto l’acquisizione gratuita di quota parte dell’area del cortile di pertinenza del fabbricato.
Con una prima doglianza, dedotta in via principale, parte ricorrente denuncia che tale porzione di area è stata indebitamente acquisita pur appartenendo in comunione ai comproprietari del fabbricato, con conseguente violazione del principio di tutela della proprietà privata di cui all’art. 42 della Costituzione e dello stesso art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che impediscono che la misura repressiva in questione possa incidere su beni appartenenti ad altri soggetti totalmente estranei all’abuso.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio osserva, alla luce della circostanza pacifica della comunione insistente sull’area cortilizia tra i comproprietari del fabbricato, che il meccanismo sanzionatorio predisposto dal testo unico sull’edilizia in caso di mancata ottemperanza all’ordine demolitorio, esclude assolutamente che l’acquisizione gratuita possa determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo o da quelli ad esso strettamente pertinenziali di proprietà dei destinatari dell’ingiunzione a demolire: tanto nell’ovvio rispetto delle garanzie costituzionali poste a presidio della proprietà privata, le quali non consentono che un soggetto possa rispondere con i propri beni dell’attività illecita commessa da altri (cfr. Cass. Civ. Sez. III, 04.06.2013 n. 14022; TAR Lazio Roma, Sez. II, 08.10.2018 n. 9799).
Ne discende che la gravata ordinanza di acquisizione gratuita, determinando l’acquisto di una porzione immobiliare, adibita ad area cortilizia, appartenente a soggetti non coinvolti nella realizzazione dell’abuso e non interessati dalla precedente sanzione demolitoria, si palesa illegittima per violazione dell’art. 42 della Costituzione e dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza che merita di essere annullata in parte qua (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire.
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Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa ... non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre, il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
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Per costante giurisprudenza, i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali.
Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza, l'esercizio del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della misura ripristinatoria può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso, accertato con atti facenti fede fino a querela di falso e dalla quale risulta la descrizione dell’abuso, esplicitante in dettaglio la natura e consistenza delle opere abusive riscontrate, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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Il secondo profilo di censura è inammissibile e, comunque, infondato.
Sotto tale profilo si osserva che parte ricorrente articola la censura sull’implicito presupposto che il permesso di costruire la cui mancanza (o, secondo l’erronea prospettazione dei ricorrenti la difformità dallo stesso) viene contestata dal Comune, che, in base a tale presupposto ritiene di dover irrogare la sanzione demolitoria prevista dall’art. 31 del d.P.R. 380/2001 è non soltanto quello consueto ed ordinario che viene richiesto prima della realizzazione dell’intervento, ma anche quello che, dopo la realizzazione di quest’ultimo, viene richiesto a sanatoria avvalendosi, in ogni caso a certe condizioni ed entro limiti ben precisi, del primo (L. 47/1985) e del secondo (L. 724/1994) condono, al fine di recuperare alla legalità l’opera abusiva.
Tuttavia, nel caso di specie, non consta che sia stata presentata da parte ricorrente alcuna istanza del tipo su indicato, per modo che ogni affermazione, al riguardo, non potrà che risultare generica, ipotetica ed aleatoria.
D’altronde, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, il Comune, nell’ordinanza impugnata non oppone l’insuscettibilità di sanatoria delle opere edilizia ad uso residenziale realizzate nella c.d. zona rossa, limitandosi unicamente ad individuare e descrivere i vincoli afferenti a siffatta zona e, secondo la giurisprudenza, i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
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Con la terza censura si deduce la violazione degli artt. 7 e ss. L. 241/1990, attesa la violazione dei principi del giusto procedimento di legge, per non essere stati gli atti impugnati preceduti dalla doverosa comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dello stesso onde garantire la loro partecipazione allo stesso, in ragione non solo delle esigenze difensive proprie del giusto procedimento, ma anche per garantire, in funzione collaborativa, la massima trasparenza ed efficienza nell’azione dei pubblici poteri.
Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento culminato con l’impugnata ordinanza del comune di Somma Vesuviana, l’orientamento giurisprudenziale in argomento è pressoché costante e consolidato, rilevandosi che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233; TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383)
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737); in ogni caso, alla stregua di quanto si è andato esponendo, il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con la conseguente irrilevanza dei vizi di procedura rilevato da parte ricorrente, ai sensi dell’art. 21-octies della L. n. 241 del 1990.
Con la quarta censura si deduce la violazione dell’art. 3, L. 241/1990, nonché l’illogicità manifesta, dovendo i procedimenti amministrativi, ai sensi del rubricato art 3 essere idonei a perseguire la miglior realizzazione dell'interesse pubblico nel rispetto dei diritti e degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell'attività amministrativa e l'obbligo di motivazione può ritenersi adeguatamente assolto quando la stessa emerga agevolmente dalla valutazione complessiva dell'atto.
La censura non è fondata.
Riguardo al lamentato deficit motivazionale da cui l’ordinanza impugnata sarebbe affetta, per costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, dalla quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali. Pertanto, ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/08/2016, n. 4088).
In proposito, secondo condivisa giurisprudenza e contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, l'esercizio del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della misura ripristinatoria può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso (Cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 03/08/2016, n. 4017), accertato con atti facenti fede fino a querela di falso e dalla quale risulta la descrizione dell’abuso, esplicitante in dettaglio la natura e consistenza delle opere abusive riscontrate, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (Cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 03/08/2016, n. 4017 e C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Infine, del tutto inconferente si presenta il riferimento alla natura di “provvedimento contingibile”, ravvisato nell’impugnata ordinanza, attesa che questa è stata emanata nell’esercizio degli ordinari poteri di vigilanza e controllo, spettanti, anche in funzione della repressione degli eventuali abusi commessi sul proprio territorio, spettanti all’Ente comunale, quale ordinaria Autorità urbanistica
In definitiva, il ricorso è infondato e va, quindi, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 43 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASi rileva con la giurisprudenza dominante che la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire.
Inoltre, per la piscina installata parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro, la giurisprudenza ha statuito quanto segue: <<La piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>>.
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E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina, quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1, accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione economica>>.
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Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante, partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività), mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli, (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
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Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata (“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>>.
A ciò aggiungasi che l’ulteriore area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo, recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>>.
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Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via prioritaria dei vincoli paesaggistici che interessano la zona di afferenza dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs. 22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono, in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso: <<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che urbanistico>>.
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Con la seconda censura, in relazione alle opere esterne realizzata nell'area di pertinenza dell'immobile residenziale, relativamente alla piscina, si deduce la violazione degli artt. 3 e 31 del d.P.R. 380/2001, oltre all’eccesso di potere (per istruttoria erronea ed insufficiente, difetto dei presupposti, errore di fatto, motivazione illogica ed insufficiente, illogicità manifesta), al riguardo in particolare:
   A - in relazione alla piscina, essa sarebbe di modestissima dimensioni, di tipo prefabbricato ed è stata installata parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro.
Sostengono, in argomento, i ricorrenti, richiamando la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, lett. a) «opere costituenti pertinenze od impianti tecnici al servizio di edifici già esistenti», è rilevante che sussista un rapporto pertinenziale tra un edificio preesistente e l'opera da realizzare e tale rapporto sia oggettivo nel senso che la consistenza dell'opera deve essere tale da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio e deve inquadrarsi nei limiti di un rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un effettivo uso normale del soggetto che risiede nell'edificio principale.
Nel caso in esame, la piscina prefabbricata, di dimensioni normali, annessa ad un fabbricato ad uso residenziale sito in zona agricola, ha certamente natura obiettiva di pertinenza, e costituisce un manufatto adeguato all'uso effettivo e quotidiano del proprietario dell'immobile principale.
Inoltre l’installazione di una piscina prefabbricata di modeste dimensioni non integra violazione degli indici di copertura che riguardano interventi edilizi, né degli standard, atteso che non aumentano il carico urbanistico della zona, rilevando solo in termini ili sistemazione esterna del terreno, e che i vani per impianti tecnologici sono comunque consentiti.
Infine, secondo la giurisprudenza, la installazione di una piscina, avente le caratteristiche di quella descritta, non sarebbe soggetta al previo rilascio del permesso di costruire, la cui mancanza non sarebbe, dunque, sanzionabile con la demolizione, ai sensi dell’art. 31, D.P.R. 380/2001, difettando i presupposti di fatto e di diritto per la sua applicazione.
   B - In relazione alle altre opere realizzate nell'area esterna pertinenziale, ovvero la pavimentazione di alcune parti del giardino (in particolare al contorno della piscina e in un'altra area destinata al tempo libero, l'allungamento del viale di accesso, lo spiazzo ad uso parcheggio), trattasi di interventi insuscettibili di aumentare il carico urbanistico o di determinare una rilevante trasformazione fisica e funzionale del territorio, stante la intrinseca pertinenzialità funzionale di tali superfici esterne rispetto all'edificio principale.
Infatti, rappresentano i ricorrenti che la pavimentazione esterna fu effettuata al solo fine della messa in sicurezza delle aree scoperte, per destinarla in parte alla permanenza delle persone per godere del tempo libero, ed in altra parte, a parcheggio privato di autovetture, per modo che l'area non ha perduto i suoi connotati di spazio pertinenziale al servizio esclusivo del fabbricato principale ad uso residenziale.
Inoltre, anche per tale intervento, va dedotta la violazione della normativa urbanistica di riferimento e segnatamente dell'articolo 6 D.P.R. 380/2001, come modificato dal D.L. 25.03.2010 n. 40, conv. in Legge n. 73/2010, atteso che, alla stregua di siffatta normativa, costituiscono attività edilizia libera la pavimentazione delle aree esterne di pertinenza degli edifici (peraltro già prevista in progetto), le aree ludiche senza fine di lucro e gli elementi di arredo de le aree di sosta apposti nelle aree pertinenziali degli edifici, per modo che, anche in tal caso non può che rilevarsi l'illegittimità dell'ordinanza comunale per difetto dei presupposti previsti dal più volte citato articolo 31 T.U. Edilizia.
La censura, sotto entrambi i profili sub A e B) considerati è infondata.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza (“piscina anch'essa abusiva, di forma ovale dalla lunghezza di circa ml. 8,40 ed una larghezza media di circa m 1.4, contornata da un area pavimentata di circa mq. 100”), si rileva con la giurisprudenza dominante che la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, (Campania) sez. II, 18/04/2019, n. 642).
Inoltre, come asserito dai medesimi ricorrenti la piscina è stata installata parzialmente fuori terra, fuoriuscendo dal piano di campagna per circa un metro, circostanza per la quale, secondo condivisa giurisprudenza: <<La piscina fuori terra non può essere considerata come struttura di natura accessoria e come tale riconducibile alle ipotesi di attività edilizia libera ex art. 6, T.U. n. 380/2001 lett. a) o meglio tra gli interventi aventi natura pertinenziale realizzabili mediante SCIA e non necessitanti del permesso di costruire ex art. 10, T.U. n. 380/2001>> (TAR Napoli, (Campania) sez. VI, 07/06/2019, n. 3103).
E ‘altresì da escludere che la suddetta piscina possa assolvere ad una funzione di semplice decoro o arredo, sì da potersi qualificare “pertinenza urbanistica”.
A tale conclusione si perviene non tanto per le dimensioni della piscina, quanto per il contesto, particolarmente attrezzato (“area posta od ovest del fabbricato e delimitata sui lati nord, sud ed ovest da muro avente un’altezza di circa ml. 2.20 e posta a quota superiore di circa m. 1, accessibile mediante una piccola rampa scale scoperta”) in cui essa insiste e va ad inserirsi, area che appare appositamente allestita (“area pavimentata di mq. 100”) in funzione della struttura .
A ciò va soggiunto che la nozione “urbanistica” di pertinenza è nozione molto più ristretta di quella dettata da diritto civile, non potendo, in particolare, considerarsi pertinenze quelle opere che non sono coessenziali al bene principale, e che, per loro natura , hanno un’autonoma rilevanza funzionale ed economica, con la conseguenza che: <<La qualifica di pertinenza è applicabile solo ad opere di modesta entità, accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulta possibile alcuna diversa utilizzazione economica>> (TAR Campania, sez. VII, 27.11.2017, n. 5564).
Quanto alla pavimentazione dell’area adiacente alla piscina, di essa non può operarsene una considerazione atomistica, isolata ed a se stante, partecipando del medesimo regime giuridico (nella specie di abusività), mutuato dalla res principale, formando con essa un quadro unitario ed inscindibile (per un’applicazione TAR Napoli (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093, nel quale si evidenzia che gli interventi edilizi vanno considerati nel loro complesso per stabilire se hanno determinato trasformazione del territorio o aumento de carico urbanistico).
La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro iscrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione ovvero nuova costruzione) ai fini dell'individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono assoggettati. Ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.
Relativamente alla contestazione di cui al punto 6 dell’ordinanza impugnata (“Pavimentazione ulteriore area esterna (realizzazione di un area circa mq. 110 completamente piastrellata e delimitata sui lati nord/est da muretto in di altezza media di circa cm 80, la stessa area è accessibile da rampa scala scoperta posta sul versante est e da altra rampa scala posta sul versante nord, entrambe realizzate in muratura”), è sufficiente il richiamo alla giurisprudenza che si condivide, per la quale: <<L'intervento edilizio, consistente nella pavimentazione di tutta l'area di pertinenza dell'intero stabile con cemento nonché la contestuale realizzazione di una scala e di una parte di pavimentazione in cotto, integrano trasformazione urbanistica ed edilizia, tendenzialmente permanente ed alterazione dell'assetto del territorio da qualificare correttamente come intervento di nuova costruzione in ossequio al disposto dell'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, e conseguentemente subordinato a permesso di costruire in forza dell'art. 10, comma 1, lett. a) dello stesso decreto>> (TAR Napoli, (Campania) sez. III, 20/02/2018, n. 1093).
A ciò aggiungasi che -come asserito dai medesimi ricorrenti- l’ulteriore area pertinenziale esterna è destinata (oltre che a giardino ed alla fruizione del tempo libero, anche) alla adibizione a parcheggio e, secondo, recentissima, condivisa giurisprudenza <<Il permesso di costruire è necessario anche per la realizzazione di parcheggi, in quanto la sistemazione di un'area a parcheggio aumenta il carico urbanistico>> (C. di S., sez. II, 01.07.2019, n. 4475).
Infine, in ordine alla necessità del permesso di costruire negli interventi contemplati con la censura in esame, dirimente è la considerazione in via prioritaria dei vincoli paesaggistico che interessano la zona di afferenza dell’abuso (come desumibile dal richiamo nell’ordinanza al D.Lgs. 22/01/2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) che impongono, in assenza di adeguato titolo abilitativo, anche sotto il profilo paesaggistico, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso (cfr. la sentenza della Sez. VI di questo Tribunale del 26/03/2015 n. 1815): <<a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva, al fine dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata ed in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico, che urbanistico>> (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.01.2020 n. 42 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.L.vo 42/2004, quanto alle conseguenze della mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato: in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione, con indirizzo ormai consolidatosi, ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione.
Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio.
In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego.
Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia.
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori.
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Ciò posto con la prima censura si deduce l’illegittimità o l’inefficacia dell’impugnata ordinanza di demolizione stante l’intervenuta proposizione nei termini di legge dell’istanza di accertamento ex art. 167, D.L.vo 42/2004, con sospensione del procedimento amministrativo sanzionatorio fino alla decisione dell’istanza in sanatoria, al riguardo rilevandosi che, per costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, la proposizione nei termini della richiesta ex art. 36 D.P.R. 380/2001 come anche quella di quella ex art. 167 su citato, hanno come conseguenza giuridica implicita, di spostare l'interesse del soggetto colpito da ordinanza di demolizione, dal provvedimento stesso alla decisione della P.A. sull'istanza avanzata.
Secondo parte ricorrente, corollario di tale condivisibile assunto è che viene fatto carico alla P.A., dopo l'eventuale diniego di sanatoria, di procedere nuovamente all'irrogazione della primigenia sanzione, onde consentire alla parte di ottemperare all'ingiunzione senza incorrere nell' acquisizione.
Nella specie, essendo intervenuta nei termini un'istanza di accertamento, l'ordine di demolizione irrogato con il provvedimento impugnato, dovrebbe essere considerato sospeso di diritto fino alla decisione del Comune sull'istanza avanzata dalla parte, e comunque sarebbe divenuto inefficace.
La censura è priva di fondatezza.
Al riguardo, in disparte che non risulta provata da parti ricorrenti la presentazione e la pendenza dell’istanza di sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.L.vo 42/2004 allegata al ricorso, quanto alle conseguenze della mancata emanazione di un provvedimento espresso nei termini normativamente previsti, è assoggettata al medesimo regime dell’istanza ex art. 36 citato: in entrambi i casi, la validità e l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza di accertamento di conformità, posto che nell’impianto normativo non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio - rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>>.
In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia.
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Anche questa Sezione con indirizzo ormai consolidatosi ritiene che la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 -a differenza di quanto avviene per la domanda di condono in senso stretto- non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo per un periodo di tempo di 60 giorni, in quanto, decorso siffatto termine, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte tempestivamente impugnare, senza, quindi, poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto); per un’applicazione si segnala la sentenza di questa Sezione, 03.10.2011, n. 4608, con la quale si rileva che: <<Ai sensi dell'art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 è comunque precluso l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex post ma, considerato lo spirare del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 36, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 per la formazione del silenzio-rigetto, l'istanza di sanatoria proposta dal ricorrente deve ritenersi comunque respinta>>.
In tema, considerati ormai superati gli indirizzi giurisprudenziali richiamati in gravame, pertinente ed attuale è il richiamo alle sentenze per le quali <<L'art. 36 comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13, l. n. 47 del 1985) configura a tutti gli effetti un'ipotesi di tipizzazione legale del silenzio serbato dall'Amministrazione. Pertanto, una volta decorsi inutilmente i richiamati sessanta giorni, sulla domanda di accertamento di conformità si forma a tutti gli effetti un atto tacito di diniego, con conseguente onere a carico dell'interessato di impugnarlo, nel termine processuale di legge, anch'esso pari a sessanta giorni, decorrente dalla data di formazione dell'atto negativo tacito, con la conseguenza che la presentazione della domanda di accertamento di conformità, successiva all'ordine di demolire gli abusi, non paralizza la prosecuzione dell’attività sanzionatoria del Comune, preposto alla tutela del governo del territorio. In sostanza, la domanda non determina altresì alcuna inefficacia sopravvenuta o caducazione ovvero invalidità dell'ingiunzione di demolire ma provoca esclusivamente uno stato di quiescenza e di temporanea non esecutività del provvedimento, finché perduri il termine di decisione previsto dalla legge e non si sia formato l'eventuale atto tacito di diniego. Pertanto, una volta decorso tale termine e in mancanza di impugnazione giurisdizionale tempestiva del diniego tacito, l'ingiunzione di demolizione riprende ipso facto vigore e non occorre in nessun caso una riedizione del potere sanzionatorio da parte dell'Amministrazione procedente>> (TAR Napoli sez. III, 02/04/2015, n. 1982 e TAR Napoli sez. III, 02/12/2014, n. 6302).
In ogni caso -contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente che, in proposito, invoca l’emanazione di un provvedimento espresso, unitamente alla rinnovazione dell’ordine di demolizione- decorsi sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza di sanatoria senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si forma senz’altro il silenzio-rifiuto, senza che -però- risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si consolida riprendendo piena efficacia (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1951).
Infine la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, relativamente al superamento dei pregressi provvedimenti sanzionatori, ritiene che ciò consegue unicamente alla presentazione di un’istanza di condono (c.d. sanatoria straordinaria in senso stretto), la cui presentazione comporta effettivamente ed ogni caso l’adozione di nuovi provvedimenti sanzionatori
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>>.
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908, evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero, l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>.

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Con la terza censura si deduce l’eccesso di potere (per erroneità del presupposto di fatto determinato da insufficiente istruttoria e difetto di motivazione) in quanto la circostanza per la quale l'opera in oggetto esiste da circa dieci anni rende applicabile il cd. principio di affidamento del privato, in base al quale, il decorso di un lungo periodo di tempo dalla realizzazione dell'opera, legittima i ricorrenti a ritenere di vantare un diritto assoluto alla detenzione dello stesso, per modo che il Comune potrebbe disporre la demolizione di dette opere solo in caso di prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato, tale da rendere necessario un tale provvedimento.
Con l’ausilio della giurisprudenza richiamata i ricorrenti sostengono che, nel caso in cui, dato il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e per il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento del privato, sussisterebbe a carico della P.A: un onere di congrua e puntuale motivazione che indichi, avuto riguardo anche alla vetustà, all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
La censura non coglie nel segno.
Posto che l’abuso in discussione circa l’epoca di sua realizzazione risulta non databile, nulla al riguardo, i ricorrenti avendo provato, decisivo è il rilievo che, in materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è e resta comunque un atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta di recente a rilevare che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
In sostanza, la decisione della Plenaria superando l’orientamento giurisprudenziale che richiedeva un onere motivazionale particolarmente rafforzato nel caso di esercizio del potere sanzionatorio di un abuso edilizio a distanza di tempo dalla sua realizzazione ritiene che l'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione (se non quella relativa all'accertata abusività dell'opera) indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell'abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso.
Successivamente all’emanazione della citata sentenza dell’Adunanza Plenaria l’orientamento è stato ribadito da Cons. Stato, IV, 28.02.2017 n. 908, evidenziando che: <<La repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Invero, l'illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa. L'interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio>>
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 34 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATACome insegna costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli abusi edilizi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del solo trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti.
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato, l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.

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3.- Non fondata è la seconda censura.
Come insegna altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli abusi edilizi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione di fatto abusiva e giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del solo trascorrere del tempo.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dall'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
Come tra l’altro sottolineato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9), l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133, e secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”- il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.01.2020 n. 31 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest'ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari.
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9. Il primo motivo va respinto alla luce dei consolidati principi giurisprudenziali, più volte affermati anche da questo Tribunale, secondo cui “l'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest'ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari” (ex multis: TAR Torino, sez. II, 05.04.2019, n. 405; TAR Torino, sez. II, 14/11/2018, n. 1246; Consiglio di Stato, sez. VI, 06/02/2018, n. 755) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 27, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 deve sempre essere disposta la rimozione delle opere abusive che risultino essere state realizzate in difformità dalle previsioni delle norme e prescrizioni edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi, soggette a mero regime autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena pecuniaria alle opere abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a. ma che non siano difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non sia stata tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex art. 36, cit. d.P.R. n. 380 del 2001.
Altresì, le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con mera Dia, se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e, conseguentemente, deve essere applicata la sanzione demolitoria
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10. L’affermazione del ricorrente, secondo cui le opere abusivamente realizzate sarebbero state soggette a d.i.a., e non già a permesso di costruire, risulta destituita di fondamento: infatti, secondo quanto emerge dalla descrizione dei manufatti effettuata dai tecnici che hanno eseguito il sopralluogo il -OMISSIS-, non smentita dal ricorrente, i manufatti sanzionati hanno comportato una rilevante modificazione del territorio, con la realizzazione di un terrapieno, prima inesistente, eseguito mediante riporto di oltre 1000 mc di terreno, e di un nuovo fabbricato chiaramente destinato ad uso antropico. Si tratta, all’evidenza, di opere edilizie integranti “nuova costruzione”, come tali soggette a preventivo rilascio del permesso di costruire.
10.1. Peraltro occorre rammentare che “Ai sensi dell'art. 27, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 deve sempre essere disposta la rimozione delle opere abusive che risultino essere state realizzate in difformità dalle previsioni delle norme e prescrizioni edilizie ed urbanistiche, ancorché, in ipotesi, soggette a mero regime autorizzativo, dovendosi applicare la sola pena pecuniaria alle opere abusivamente realizzate soggette a d.i.a. o s.c.i.a. ma che non siano difformi dallo strumento urbanistico, e per le quali non sia stata tempestivamente presentata istanza per il rilascio di sanatoria ex art. 36, cit. d.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez. II, 09/06/2016, n. 780), e che “Le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura pertinenziale o precaria e, quindi, siano assentibili con mera Dia, se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e, conseguentemente, deve essere applicata la sanzione demolitoria” (C.d.S. sez. IV, 26/09/2018, n. 5524): nel caso di specie non risulta che le opere fosse conformi alle norme urbanistiche vigenti per la zona; anche l’insistenza, sul fondo, di ben due vincoli, uno dei quali (quello di rispetto stradale) comportante inedificabilità assoluta, imponeva in ogni caso la demolizione (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha definitivamente acclarato che il decorso del tempo non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, affermando che, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non consuma il potere di reprimere l’abuso, non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, realizzando una forma di sanatoria automatica o praeter legem, e neppure può radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso.
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12. Il quarto motivo, volto al lamentare l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, va respinto in applicazione della giurisprudenza secondo cui l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n. 2681; V, 28.04.2014, n. 2194).
13. Per la medesima ragione, ovvero per la natura vincolata della sanzione demolitoria, conseguente al rilievo della abusività delle opere, va respinto il quinto motivo, con il quale il ricorrente invoca a proprio favore il lungo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione delle opere abusive.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 9 del 17.10.2017, ha infatti definitivamente acclarato che il decorso del tempo non incide sull’obbligo, delle Amministrazioni, di perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, affermando che, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione non consuma il potere di reprimere l’abuso, non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo, realizzando una forma di sanatoria automatica o praeter legem, e neppure può radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.01.2020 n. 1 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

dicembre 2019

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è un'attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati come atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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Quanto alla mancata partecipazione dei proprietari al procedimento che ha condotto all’ordine di ripristino, è ormai costante la giurisprudenza secondo cui l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è un'attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, debbono essere qualificati come atti vincolati, per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis, TAR Lazio, sentenza n. 4211/2019, Consiglio di Stato sentenza n. 4740/2014) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.12.2019 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno stato di quiescenza.
Ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o all’emissione di un esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali gli effetti sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una nuova ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
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4. La ricorrente ritiene, inoltre, che la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001, depositata in data 07.08.2007, avrebbe avuto l’effetto di rendere illegittima l’ordinanza de qua.
La censura è infondata.
Infatti, per giurisprudenza costante, la presentazione della domanda di sanatoria ai sensi dell’art. 36, D.P.R. 380/2001 non priva di efficacia la relativa ordinanza di demolizione adottata in precedenza, ma paralizza momentaneamente gli effetti di questa, ponendoli, per così dire, in uno stato di quiescenza; ciò fino alla formazione del silenzio–diniego o all’emissione di un esplicito provvedimento di rigetto, momenti dai quali gli effetti sanzionatori riprendono nuovamente vigore, senza bisogno di una nuova ordinanza (invece, per espressa disposizione di legge, il potere di ordinanza deve essere necessariamente riesercitato, nel caso di istanza di condono edilizio ai sensi degli articoli 31 legge 47/1985).
Nel caso in questione, è maturato il diniego tacito (che peraltro non è stato gravato), sulla domanda di sanatoria presentata dalla ricorrente, per cui l’ordinanza di demolizione è efficace e priva dei vizi sollevati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 02.12.2019 n. 13763 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

novembre 2019

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIOL'ordinanza di demolizione adottata nei confronti dell'amministratore del condominio è illegittima poiché non risulta essere né proprietario del bene su cui gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Invero,
“…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
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... per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 49/URB data 28.06.2019 emessa dal Comune di Roccapiemonte;
...
1. Con l’ordinanza di demolizione n. 49/URB del 01.07.2019, l’ente locale indicato in epigrafe, constata la sussistenza di “variazioni del perimetro dell’edificio, nonché modifica del prospetto e diversa sistemazione esterna, comportanti una difformità plani-volumetrica rispetto ai titoli edilizi rilasciati”, con riferimento all’edificio ubicato nel medesimo Comune, in via ..., n. 104/106, ha ingiunto la demolizione delle opere abusive.
L’ordinanza in questione è stata rivolta ai proprietari delle singole porzioni immobiliari dell’edificio, alla società che ha presumibilmente realizzato l’immobile e, infine, “all’amministratore del Condominio nella persona di Al.Li. …”.
2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso proprio quest’ultimo destinatario dell’ordine di demolizione, il quale, con il primo motivo, ha dedotto il suo difetto di legittimazione passiva.
3. Si è costituito in giudizio il Comune intimato, il quale ha contestato il ricorso ex adverso proposto, senza però argomentare alcunché circa la censura appena riassunta.
4. All’udienza del 20.11.2019, constatata la completezza del contraddittorio e degli altri presupposti di legge, il Collegio, previo avviso alle parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
Ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”.
La norma è chiara, nel suo dato testuale, nell’individuazione dei possibili destinatari dell’ordine di demolizione, individuandoli nel proprietario del bene sul quale è stata commessa la violazione edilizia e nel responsabile della stessa, ove le due persone non coincidano.
Rispetto a tale inequivocabile dato normativo risulta alquanto inspiegabile la ragione per la quale il Comune di Roccapiemonte abbia rivolto la sua attività provvedimentale nei confronti di un soggetto che non rientra in nessuna delle due categorie prese in considerazione dalla norma di legge. La motivazione del provvedimento non chiarisce, infatti, la ragione di una simile, improvvida iniziativa.
L’assunto appena esposto è confermato anche da alcuni precedenti del G.A., citati nel proprio ricorso dall’odierno ricorrente.
In particolare, il TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.07.2019 n. 1764 rileva che “…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
5. Il provvedimento adottato risulta allora illegittimo in parte qua, ossia nella misura in cui individua quale destinatario del comando anche l’odierno ricorrente, che non risulta essere né proprietario del bene su cui gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle altre ulteriori doglianze, e va disposto l’annullamento del provvedimento, limitatamente all’interesse dell’odierno ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.11.2019 n. 2126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa proposizione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace la misura ripristinatoria, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine di rimozione degli abusi, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
In altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi.
Pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso improcedibile, non essendovi più alcun interesse alla decisione relativamente ad atto divenuto medio tempore inefficace e quindi non più idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente.
In conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato improcedibile, a fronte della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 quando già era stato proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi trasposto in sede giurisdizionale.

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Ritenuto:
   - che si presenta assorbente di ogni altra questione la circostanza che nelle more del giudizio l’interessato abbia presentato istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
   - che, secondo un orientamento giurisprudenziale già fatto proprio dalla Sezione (v., tra le altre, sentt. n. 2635 del 23.11.2018 e n. 665 del 27.03.2019), la proposizione di una simile istanza –successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive– produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace la misura ripristinatoria, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’adozione di un ulteriore ordine di rimozione degli abusi, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere;
   - che, in altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento recante l’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi (v. TAR Umbria 10.12.2018 n. 672; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.05.2018 n. 827);
   - che, pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità successivamente alla proposizione del ricorso rende lo stesso improcedibile, non essendovi più alcun interesse alla decisione relativamente ad atto divenuto medio tempore inefficace e quindi non più idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (v. TAR Veneto, Sez. II, 30.07.2019 n. 901);
   - che, in conclusione, il ricorso all’esame va dichiarato improcedibile, a fronte della presentazione di domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 quando già era stato proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi trasposto in sede giurisdizionale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.11.2019 n. 2544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria di un abuso edilizio non determina alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma solo la temporanea sospensione della sua esecuzione.
In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria l’amministrazione non deve quindi reiterare l’ordine di demolizione, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento.
Ne consegue che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell’intervento edilizio non determina l’improcedibilità del ricorso principale, poiché l’ordine demolitorio avversato mantiene la sua efficacia e lesività, con conseguente necessità di esaminare le doglianze in merito sollevate dall’esponente.
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1. L’odierno ricorrente, che ha realizzato una veranda attrezzata antistante il locale ove esercita l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, contesta la legittimità dell’ordinanza di demolizione del manufatto e del successivo diniego di rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
2. Deve essere esaminato preliminarmente il ricorso principale, in adesione all’orientamento secondo il quale la presentazione dell'istanza di sanatoria di un abuso edilizio non determina alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell’ingiunzione di demolizione, ma solo la temporanea sospensione della sua esecuzione. In caso di rigetto dell’istanza di sanatoria l’amministrazione non deve quindi reiterare l’ordine di demolizione, altrimenti finendosi per riconoscere in capo al privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale suo annullamento, quel medesimo provvedimento (in termini Cons. Stato, sez. II, 24.06.2019, n. 4304, Cons. Stato, Sez. IV, 05.11.2018, n. 6233).
Ne consegue che la presentazione dell’istanza di sanatoria dell’intervento edilizio non determina l’improcedibilità del ricorso principale, poiché l’ordine demolitorio avversato mantiene la sua efficacia e lesività, con conseguente necessità di esaminare le doglianze in merito sollevate dall’esponente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.11.2019 n. 990 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATALaddove la parte abusiva da demolire risulti senza autorizzazione non può trovare applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato.
Invero, «In tema di reati edilizi, la possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche)».
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Relativamente alla questione, posta con il ricorso in cassazione -incidenza della demolizione sulla parte di fabbricato non abusiva-, la decisione della Corte di appello risulta adeguatamente motivata, rilevando come lo stesso consulente della parte ricorrente aveva ritenuto solo una difficile e complessa esecuzione della demolizione, ma non già un'impossibilità della demolizione; inoltre la Corte di appello logicamente evidenzia come in sede esecutiva saranno prese le opportune misure per la demolizione in sicurezza.
Anche nel ricorso per cassazione si prospetta un'incidenza negativa e grave (della demolizione) sulle opere costruite legittimamente, ma solo in modo teorico, generico, e non concreto, desunto da specifici atti del giudizio di esecuzione. E' una evidente questione di fatto, non valutabile in questa sede se adeguatamente motivata, come nel caso in oggetto (Sez. 3, n. 19090 del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101).
Deve inoltre rilevarsi che la parte abusiva da demolire risulta senza autorizzazione, completamente abusiva e, quindi, non può trovare applicazione la norma di cui all'art. 34, d.P.R. 380/2001, che riguarda solo le ipotesi di parziale difformità fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato: «In tema di reati edilizi, la possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche)» (Sez. 3, n. 16548 del 16/06/2016 - dep. 03/04/2017, P.G. in proc. Porcelli, Rv. 26962401; vedi anche Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018 - dep. 21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101 e Sez. 3, n. 19090 del 13/02/2013 - dep. 03/05/2013, Buia e altro, Rv. 25589101) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2019 n. 46382).

EDILIZIA PRIVATAIn seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria sorge in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi nuovamente in modo espresso o tacito sulla predetta istanza e, in caso di reiezione della stessa (come avvenuto nella specie), dovrà poi adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente già adottate.

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1. Deve essere preliminarmente vagliata l’eccezione di improcedibilità del ricorso introduttivo –proposto avverso l’ordine di demolizione– a seguito della proposizione di istanza di sanatoria (nella specie ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001).
L’eccezione è fondata.
Come già affermato dalla Sezione (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 03.05.2019, n. 1003), in seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria sorge in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi nuovamente in modo espresso o tacito sulla predetta istanza e, in caso di reiezione della stessa (come avvenuto nella specie), dovrà poi adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio a carico della parte privata.
Ciò appare in linea, anche più in generale, con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la presentazione dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa. Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente già adottate (cfr., TAR Lombardia, Milano, II, 23.11.2018, n. 2635; TAR Lombardia, Brescia, I, 10.07.2017, n. 904; TAR Molise, I, 26.02.2016, n. 105).
Nel caso di specie, il Comune ha espressamente provveduto, in maniera negativa, sull’istanza di sanatoria, sicché relativamente alle opere in parola dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, nei confronti del quale le parti interessate potranno far valere le loro eventuali doglianze.
In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.11.2019 n. 2381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPubblicazione ordinanze di sospensione lavori.
Domanda
Da sempre, nel nostro ente, abbiamo pubblicato all’albo pretorio on-line il testo integrale delle ordinanze di sospensione lavori, emesse nei confronti di cittadini che hanno commesso un abuso edilizio. Il collega del comune vicino dice che non vanno pubblicate.
Sapete darci qualche informazione al riguardo?
Risposta
In materia di ordinanze comunali, va specificato che nel decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e successive modificazioni ed integrazioni, non compare mai il termine “ordinanze”, per cui, in assenza di una norma specifica, occorre rifarsi alle disposizioni di carattere generale, quali –ad esempio– la deliberazione del Garante privacy italiano, emanata il 15.05.2014, recanti “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”.
Per ciò che concerne, quindi, le ordinanze, sia che siano emanate da dirigenti (P.O. negli enti senza dirigenza) o dal Sindaco, nella versione capo dell’amministrazione (art. 50, comma 5, TUEL 267/2000) o come ufficiale di Governo (art. 54, comma 4, TUEL), la regola generale da rispettare, con specifica indicazione che sarebbe opportuno inserire nella sezione Trasparenza del PTPCT, è la seguente:
   • vanno pubblicate all’albo pretorio on-line solo le ordinanze aventi carattere di generalità, rivolte ad una pluralità di soggetti, altrimenti non facilmente raggiungibili (esempio: chiusura scuole per maltempo; divieto di utilizzo dell’acqua; disciplina della circolazione e sosta; divieto di innaffiamento orti e giardini; misure a tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, eccetera);
   • vanno “notificate” agli interessati e non pubblicate, le ordinanze, rivolte a singole persone, in cui gli si ordina di fare o non fare qualcosa (ordinanze/ingiunzione di pagamento; abusi edilizi; Trattamento Sanitario Obbligatorio – TSO e Assistenza Sanitaria Obbligatoria – ASO, eccetera).
Per quanto riguarda lo specifico quesito, occorre rifarsi all’art. 31, comma 7, del Decreto Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, il quale testualmente recita:
   7. Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Come si può notare, la disposizione prevede che vengano pubblicati i dati relativi agli immobili realizzati abusivamente; l’oggetto dei rapporti della P.G, e delle relative ordinanze. La norma, dunque, non prevede la pubblicazione integrale dell’ordinanza, come invece, viene effettuato nel vostro comune.
Sempre restando al Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001) va ricordato che anche in altri articoli (cfr. art. 30, comma 7) il legislatore ha sempre utilizzato l’espressione “notificare” e mai quella di “pubblicare”.
Si ritengono corrette, quindi, le modalità di pubblicazione adottate dal comune vicino al vostro, che pubblica, all’albo pretorio on-line, la verifica mensile del segretario comunale in materia di abusi edilizi, riportando solamente, per quanto riguarda le ordinanze, il loro numero progressivo, la data di emanazione e l’oggetto della medesima, con l’accortezza di NON inserire nell’oggetto il nominativo del destinatario a cui il provvedimento di sospensione è stato notificato (12.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza).

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9. La difesa del Comune ha dato, altresì, atto della presentazione di una DIA in sanatoria ai sensi dell’art. 37 del DPR n. 380/2001 con riferimento alla “serranda e vetrata con porta al locale portico e scala” oggetto di contestazione, puntualizzando, nella memoria depositata il 07.09.2013, che “tali denunce sono in corso trattazione”.
Sul tema della sorte processuale del ricorso avverso l’ordinanza di demolizione seguita da un’istanza di sanatoria ai sensi degli articoli 36 e 37 del DPR 380/2001, è principio acquisito nella giurisprudenza di questa Sezione quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria, 24.08.2019, n. 511; 17.09.2018, n. 559; 03.07.2018, n. 406).
Il ricorso è, pertanto, anche per questa parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in ragione della presentazione, successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione, di una DIA in sanatoria per le opere di realizzazione della “serranda e vetrata con porta al locale portico e scala (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.11.2019 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ufficio tecnico di questo Comune riceve continue richieste di annullamento della procedura di contestazione di abusi edilizi e ordine di demolizione, fondate su mancata comunicazione di avvio del procedimento, insufficiente motivazione, mancata identificazione degli immobili (es. dati catastali) ecc...
Quali formalità occorre seguire per evitare ricorsi?

L'abusivismo edilizio è una delle "piaghe" nazionali tanto da costituire una parte cospicua della giurisprudenza amministrativa (in questo senso i precedenti a disposizione costituiscono una buona base di riferimento).
Come noto l'art. 31 del Testo Unico D.P.R. 06.06.2001 n. 380 prevede che "Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo ... ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto ... Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita".
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire vari aspetti che si sintetizzano (rinviando per il dettaglio alle massime relative):
   - essendo un'attività vincolata non è indispensabile la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (art. 7, L. 07.08.1990, n. 241), o meglio la sua mancanza non determina illegittimità del procedimento e del relativo provvedimento finale;
   - è condizione necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate anche in mancanza di una descrizione dell'immobile sotto il profilo degli estremi catastali o altri riferimenti (indirizzo e civico);
   - allo stesso modo non rileva sotto il profilo della legittimità l'omessa od imprecisa indicazione dell'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico;
   - non è necessario l'accertamento della responsabilità del destinatario dell'ingiunzione in quanto l'abuso edilizio rileva ex se, quale elemento oggettivo;
   - il provvedimento conclusivo non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico che ne impongono la rimozione atteso che lo stesso ha natura vincolata.
Ovviamente si suggerisce, nei limiti del possibile, di procedere a comunicazione di avvio e fornire adeguata motivazione in relazione ai vari punti, ricordando comunque che in base alla citata giurisprudenza la loro carenza (ed in taluni casi omissione) non ha effetto sulla legittimità degli atti. In questo senso potrà essere data risposta alle richieste di autotutela degli interessati.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 07.08.1990, n. 241, art. 7 - D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 31
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. II, 21.10.2019, n. 7103 - Cons. Stato Sez. II, 12.09.2019, n. 6147 - Cons. Stato Sez. IV, 02.09.2019, n. 6055 - Cons. Stato Sez. II, 30.08.2019, n. 6000 - Cons. Stato Sez. VI, 29.08.2019, n. 5938 - Cons. Stato Sez. VI, 30.07.2019, n. 5388 - Cons. Stato Sez. IV, 15.07.2019, n. 4955 - Cons. Stato Sez. II, 08.07.2019, n. 4727 - Cons. Stato Sez. II, 05.07.2019, n. 4662
(06.11.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

URBANISTICA: Sanzioni penali.
Si è soliti identificare due distinte fattispecie di lottizzazione:
   - la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste “
materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa in rapporto agli standards apprestabili;
   - l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “
cartolare” quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti;
   - va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa;
   - è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
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Quanto all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria.
Su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso.
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Ritenuto in diritto che:
   - la sentenza di primo grado deve essere confermata;
   - § in termini generali, l’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, prevedono che si abbia «lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio»;
   - a partire da tale disposizione si è soliti identificare due distinte fattispecie di lottizzazione;
   - la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste “materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa in rapporto agli standards apprestabili (Consiglio di Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416);
   - l’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare” quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215); ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108);
   - va pure precisato che, sempre secondo la giurisprudenza, per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l’illecito si fonda sul dato oggettivo dell’intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa (Consiglio Stato, sez. IV, 08.01.2016 n. 26);
   - è, altresì, consolidata l’opinione che ritiene la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie (Consiglio di Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196);
   - § applicando le coordinate ermeneutiche appena passate in rassegna, nel caso di specie deve ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva materiale in relazione alle circostanze di fatto, desumibili da tutti gli accertamenti effettuati, e segnatamente: il numero dei fabbricati; il frazionamento della gran parte di essi in separate unità immobiliari; l’insistenza in loco di due locali a vocazione commerciale;
- tali elementi, letti unitariamente, dimostrano la trasformazione del terreno a fini residenziali, in contrasto con la normativa urbanistica;
   - § l’imputabilità della suddetta lottizzazione materiale realizzata in via ... in capo al Ca. è stata poi correttamente desunta dalla seguenti evidenze:
      i) in primo luogo il signor Ca.Sa. risultava sempre presente nel terreno oggetto dell’intervento edilizio (quando in data 23.04.2007 operanti di P.G. accertavano l’esecuzione di opere edilizie tali da determinare la trasformazione urbanistica del terreno a fini residenziali; quando in data 18.05.2007, alla presenza del Ca., si svolgeva un sopralluogo, all’esito del quale emergeva la presenza, in totale, di 11 fabbricati, ospitanti 29 alloggi e 2 locali commerciali, analiticamente descritti);
      ii) il sig. Ca.Sa. risultava altresì destinatario di ogni atto per la sospensione dei lavori emesse dal Comune di Cerveteri già a partire dal 1995;
      iii) le richieste del titolo abilitativo in sanatoria del 25.03.2005, 09.09.2004 e del 10.12.2004 risultano sempre presentate dal Sig. Ca.Sa. e dalla Sig.ra An.Ka.;
   - a confermare il diretto coinvolgimento quale autore del Sig. Ca.Sa. nell’abusiva attività edilizia sanzionata è poi dirimente la circostanza che il giorno 18 maggio lo stesso –titolare fin dal 2003 di procura irrevocabile a vendere avente ad oggetto il terreno, rilasciatagli dai proprietari Ce. e Ma.– lo alienava, in nome e per conto di questi ultimi, alla s.r.l. con unico socio So.ag.fo. La Ti. de. Ma., anch’essa costituita quello stesso giorno dall’Anello, che interveniva nell’atto quale rappresentante legale dell’acquirente;
   - § sotto altro profilo, essendo stato il signor Ca. identificato anche quale responsabile materiale degli abusi in questione (come tale autonomamente soggetto all’ordine di sospensione dei lavori), non coglie nel segno il motivo di impugnazione incentrato sulla mancata notificazione dell’ordinanza ai proprietari Ce. e Ma.;
   - l’ulteriore obiezione relativa alla mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione è anch’essa priva di fondamento, giacché la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione non vale ad elidere l’illecito contestato;
   - § quanto poi all’invocata esistenza di condoni edilizi riguardanti singoli immobili facenti parte della urbanizzazione, va innanzitutto precisato che l’accertamento della lottizzazione abusiva –fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio– costituisce un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio, pertanto alcun rilievo sanante può rivestire il rilascio di una eventuale concessione edilizia, sia ex ante, in presenza di concessioni edilizie già rilasciate, sia successivamente, in presenza di concessioni rilasciate in via di sanatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115);
   - su queste basi, non è possibile la sanatoria della lottizzazione abusiva tramite il condono delle singole unità immobiliari realizzate abusivamente, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381; Consiglio di Stato sez. II, 07.08.2019, n. 5607);
   - a ciò si aggiunge che, come già affermato dal giudice di prime cure, la censura è stata dedotta genericamente in quanto non accompagnata dall’identificazione degli immobili che sarebbero stati “sanati”;
   - § per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.11.2019 n. 7530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2019

EDILIZIA PRIVATAIl riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio.
Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”, con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere.
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione, successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 ovvero di domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali temporanee laddove si è ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria”.

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Per giurisprudenza costante:
   1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima, è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire”;
   2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo”;
   3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”>>.
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a (successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i presupposti per il suo rilascio”.

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1. - L’impugnata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 - Protocollo Generale n. 24219 è divenuta inefficace e ha perso la propria capacità lesiva della sfera giuridica dei ricorrenti, in quanto gli stessi, successivamente alla notifica dell’ordinanza di demolizione impugnata ed alla proposizione del presente ricorso, hanno presentato -in data 16.12.2013- istanza di sanatoria, ex art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.1 - Ed invero, il Collegio non ravvisa, allo stato, ragioni per discostarsi dalla <<giurisprudenza consolidata di questa Sezione, secondo cui <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266). Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.04.2018, n. 628, idem, 30.09.2016, n. 1512), con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.06.2019, n. 1061).
Alle medesime conclusioni si è giunti con riferimento ad altre ipotesi di sanatoria “tipiche”, e, precisamente, in relazione alla presentazione, successivamente all’ordinanza di demolizione, di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001 (<<cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137, che espressamente richiama, “ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n. 1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n. 172; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n. 1519; Salerno, sez. I, 23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; 04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n. 885; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche, Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691”), ovvero di domanda di condono edilizio ai sensi delle relative norme eccezionali temporanee (v. Consiglio di Stato, V, 19.04.2013, n. 2221, con cui si è ritenuto che “la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria”)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 24.10.2017, n. 1649).
Per giurisprudenza costante di questa Sezione (cfr., da ultimo, TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 28.01.2019, n. 154, 18.03.2019, n. 447 e giurisprudenza ivi citata - “ex multis, TAR Puglia-Lecce, n. 1454/2013, n. 1956/2017, n. 1388/2017, n. 69/2018, n. 706/2018”), da cui, allo stato, non si ravvisa ragioni per discostarsi:
   1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che l'Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima, è illegittimo in quanto l'Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa prima di procedere all'irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l'Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, l'esecuzione della misura demolitoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere la sanatoria delle opere abusive, determinando l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 13.01.2011, n. 11; TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909);
   2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.09.2013, n. 1938);
   3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.08.2012 n. 1447...” )>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.09.2014, n. 2342).
Trattasi di soluzioni interpretative che soddisfano evidenti esigenze pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a (successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i presupposti per il suo rilascio” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909).
1.2 - Orbene, nel caso in esame, il Collegio, rilevata la piana ascrivibilità della vicenda concreta de qua alla terza delle sopra indicate fattispecie, ribadisce che, nell’ipotesi di presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia successivamente all’ordine di demolizione e all’impugnazione del medesimo, l’interesse del responsabile dell’abuso si concentra sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria, prima, e di demolizione, poi (ex plurimis, TAR Campania, Napoli, Sezione Ottava, 08.03.2012, n. 1202): pertanto, in caso di reiezione dell’istanza (come avvenuto nella specie, giusta diniego prot. n. 8737/2014, impugnato innanzi a questo TAR con il giudizio avente nr. R.G. 1557/2014), l’Amministrazione dovrà emanare un nuovo provvedimento sanzionatorio, disponendo nuovamente la demolizione dell’opera edilizia ritenuta abusiva, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere.
1.3 - In conclusione, la gravata ingiunzione di demolizione n. 40 del 20.09.2013 - Protocollo Generale n. 24219 ha perso la propria efficacia lesiva: non essendovi, quindi, attualmente, pregiudizio per i ricorrenti e non permanendo, quindi, l’interesse all’impugnazione, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, come da esplicita richiesta in tal senso presentata dai medesimi ricorrenti in data 18.06.2019 (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.10.2019 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Com'è noto, per il combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma 3, T.U.E., quest'ultima previsione dispone che «il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti».
L'ambito di applicazione della speciale causa di estinzione del reato dipende, in primo luogo, dalla tipologia di accertamento di conformità che la disposizione richiama (che si limita alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell'opera ed al momento di presentazione della domanda in sanatoria: cfr. art. 36, comma 1, T.U.E.), sicché, ad es., lo stesso non spiega ovviamente alcun effetto con riguardo ai reati paesaggistici previsti dall'art. 181 d.lgs. 42 del 2004.
D'altro canto, per espressa previsione normativa, la sanatoria opera soltanto per le contravvenzioni urbanistiche e non anche per quelle edilizie, sicché la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non comporta l'estinzione dei reati previsti, dallo stesso testo unico, con riguardo alle inosservanze della normativa antisismica e di quelle sulle opere di conglomerato cementizio.
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a sanatoria delle violazioni edilizie che, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, determina l'estinzione del reato, non è applicabile alla lottizzazione abusiva in quanto essa presuppone la conformità delle opere eseguite alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia a quello della presentazione della domanda di sanatoria, mentre nel caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, al momento della loro costruzione.
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3. Ciò acclarato, reputa il Collegio che sia infondata l'ulteriore doglianza proposta in ricorso circa il fatto che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria abbia estinto anche la contravvenzione in esame.
Com'è noto, per il combinato disposto di cui agli artt. 36 e 45, comma 3, T.U.E., quest'ultima previsione dispone che «il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti». L'ambito di applicazione della speciale causa di estinzione del reato dipende, in primo luogo, dalla tipologia di accertamento di conformità che la disposizione richiama (che si limita alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell'opera ed al momento di presentazione della domanda in sanatoria: cfr. art. 36, comma 1, T.U.E.), sicché, ad es., lo stesso non spiega ovviamente alcun effetto con riguardo ai reati paesaggistici previsti dall'art. 181 d.lgs. 42 del 2004 (Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, dep. 2018, Franchino e aa., Rv. 272546; Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, Casalanguida e a., Rv. 264931).
D'altro canto, per espressa previsione normativa, la sanatoria opera soltanto per le contravvenzioni urbanistiche e non anche per quelle edilizie, sicché la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non comporta l'estinzione dei reati previsti, dallo stesso testo unico, con riguardo alle inosservanze della normativa antisismica e di quelle sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n. 19196 del 26/02/2019, Greco, Rv. 275757; Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792).
Ciò posto, occorre allora chiarire se la contravvenzione in esame sia configurabile come urbanistica, ovvero edilizia, se, cioè, abbia riguardo (esclusivamente) a profili concernenti la conformità dei lavori alle previsioni (normative e, soprattutto, di pianificazione) che disciplinano la trasformazione del territorio, ovvero (anche) a profili concernenti il rispetto della normativa tecnica in tema di costruzioni, come quella appunto prevista nelle zone sismiche ovvero per le opere che, anche in relazione ai materiali utilizzati, interessano la pubblica incolumità.
In conformità a quanto ritenuto dal giudice di merito, il Collegio reputa corretta la seconda linea interpretativa, come si ricava dalle informazioni che -secondo il regolamento comunale nella specie violato- il cartello di cantiere era deputato a fornire.
Ed invero -si legge nella sentenza impugnata- la previsione regolamentare prescrive che esso contenga dati che certamente si riferiscono al profilo edilizio (e non soltanto urbanistico) della costruzione, come "il nome del calcolatore della struttura" e il "nome del Direttore dei lavori", ciò che è ad es. funzionale ad accertare l'eventuale violazione dell'art. 64, commi 2 e 3, T.U.E., sanzionata dalla contravvenzione edilizia di cui al successivo art. 71, comma 1, ovvero la sussistenza della contravvenzione, parimenti edilizia, di cui all'art. 73 T.U.E., nonché all'attuazione delle disposizioni in materia di vigilanza sui medesimi reati e su quelli, analoghi, previsti dalla disciplina delle costruzioni in zone sismiche (si consideri, ad es., i provvedimenti di sospensione dei lavori di cui agli artt. 70 e 97 T.U.E.).
Ulteriori informazioni da contenersi nel cartello di cantiere riguardano, poi, la diversa materia del rispetto delle prescrizioni sulla sicurezza del lavoro nei cantieri edili (si pensi all'indicazione del "Coordinatore della sicurezza in fase di progettazione e Coordinatore della sicurezza in fase di escuzione" e agli "estremi della notifica preliminare"). La violazione sull'obbligo di affiggere il cartello di cantiere, dunque, riguarda beni giuridici diversi (e ulteriori) rispetto a quello, tipico delle contravvenzioni urbanistiche, della mera conformità dell'opera alle previsioni di piano e agli standards urbanistici, sicché la contravvenzione non può dirsi sanata nel caso di rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Del resto, la riprova della correttezza di tale conclusione si ha constatando che la contravvenzione di regola sussiste indipendentemente dall'esistenza di una delle "classiche" ipotesi di illecito urbanistico che sono sanate dal rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Ed invero, nel caso di abuso c.d. "totale", vale a dire allorquando si è posto mano alla modifica del territorio assoggettata al rilascio del permesso di costruire senza richiede alcun titolo abilitativo, l'unico reato configurabile è quello di costruzione in assenza di permesso, posto che la contravvenzione di omessa affissione del cartello di cantiere presuppone che un titolo edilizio sia stato rilasciato e che ci si trovi di fronte ad un iter amministrativo quantomeno ab origine regolare; se, d'altro canto, la contravvenzione di cui all'art. 44, comma 1, lett. a), T.U.E. riguardi -come si è visto essere ben possibile- un intervento non assoggettato a permesso di costruire, sarebbe irrazionale legare la possibilità di estinguere il reato al rilascio di un provvedimento che non sarebbe possibile né richiedere, né ottenere.
In sostanza, l'inosservanza di cui qui si discute si muove su un piano diverso da quello della mera compatibilità urbanistica tra pianificazione ed opera eseguita sul quale invece opera l'accertamento di conformità di cui all'art. 36 T.U.E. che produce effetti estintivi a norma del successivo art. 45, comma 3, del testo unico.
Queste considerazioni hanno peraltro indotto questa Corte, ad es., a negare l'effetto estintivo con riguardo ad una Contravvenzione che, invece, è sicuramente definibile come urbanistica, ma rispetto alla quale l'accertamento di conformità è privo di alcun rilievo: la sanatoria delle violazioni edilizie che, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, determina l'estinzione del reato, non è applicabile alla lottizzazione abusiva in quanto essa presuppone la conformità delle opere eseguite alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, sia a quello della presentazione della domanda di sanatoria, mentre nel caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, al momento della loro costruzione (Sez. 3, n. 28784 del 16/05/2018, Amente e aa., Rv. 273307; Sez. 3, n. 38064 del 18/06/2004, Semeraro, Rv. 230039) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.10.2019 n. 43698).

EDILIZIA PRIVATALa cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la rimozione della porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente ovvero il responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione delle parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'art. 34 dpr 380/2001, la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di riferimento "le misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato
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Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a che vedere con la "sanatoria" dell'abuso edilizio, la quale soltanto estingue, come espressamente previsto dall'art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il corrispondente reato, in quanto non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente.
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale.
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Il Consiglio di Stato ha ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che la procedura di cui al citato art. 34 si applica soltanto ai casi di difformità parziale tra l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece, concretamente realizzato e non anche per gli interventi realizzati in assenza di permesso.
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3. Di tali principi la Corte partenopea ha fatto buon governo avendo ritenuto che il tempo trascorso dalla presentazione dell'istanza unitamente all'insussistenza di elementi concreti che ne lasciassero presagire la rapida definizione non consentissero la pronuncia di revoca dell'ordine demolitorio e contestualmente escluso l'applicabilità al caso di specie dell'art. 34 d.P.R. 380/2001, che costituisce oggetto del terzo motivo di ricorso, sul rilievo che non si verte nell'ipotesi di parziale difformità dell'opera dal permesso di costruire, alla quale soltanto è riferita la suddetta disposizione.
Va infatti considerato, secondo quanto ripetutamente affermato da questa Corte, che la cd. fiscalizzazione dell'abuso edilizio, operante ove la rimozione della porzione abusiva del manufatto realizzato non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte, eseguita in conformità, prevede che il dirigente ovvero il responsabile dell'ufficio comunale competente possa procedere alla determinazione di una sanzione pecuniaria, sostitutiva della eliminazione delle parti realizzate abusivamente.
Siffatto strumento, del quale è evidente la eccezionalità che non ne consente una applicazione oltre i precisi confini entro i quali lo delimita la citata disposizione legislativa, è tuttavia previsto esclusivamente per le ipotesi in cui vi è solamente una parziale difformità, al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dello stesso art. 34, la cui percentuale non casualmente ha quale parametro di riferimento "le misure progettuali", fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato (cfr. Corte di cassazione, Sezione III penale, 24.05.2010, n. 19538).
Trattasi invero di una procedura che non ha nulla a che vedere con la "sanatoria" dell'abuso edilizio, la quale soltanto estingue, come espressamente previsto dall'art. 45, comma 3, d.P.R. 380/2001, il corrispondente reato, in quanto non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente (Sez. 3, n. 28747 del 11/05/2018 - dep. 21/06/2018, Pellegrino, Rv. 27329101).
Il concetto di parziale difformità, ricavabile per esclusione da quello di totale difformità, implica comunque la sussistenza di un titolo abilitativo descrittivo di uno specifico intervento costruttivo, cui si pervenga all'esito della fase realizzativa seppure secondo caratteristiche in parte diverse da quelle fissate a livello progettuale (Corte di Cass. n. 55372 del 2018).
Da quanto sopra risulta evidente l'infondatezza della contestazione difensiva atteso che nel caso in questione le opere edilizie di cui si discute, non sono state eseguite in parziale difformità dal permesso a costruire, ma sono del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo.
Le sentenze del giudice amministrativo, indicate dalla difesa in termini difformi dall'univoca interpretazione data da questa Corte all'ambito di operatività della norma in esame, risultano pronunce isolate, ampiamente contrastate dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato che ha ripetutamente affermato, e di recente ribadito, che la procedura di cui al citato art. 34 si applica soltanto ai casi di difformità parziale tra l'oggetto del titolo edilizio e quanto, invece, concretamente realizzato e non anche per gli interventi realizzati in assenza di permesso (Cons. di Stato, Sez. VI, Sent. n. 1924 del 2018; Cons. Stato, sez. VI, n. 547223 del 23.11.2017, nonché in fattispecie esattamente sovrapponibile a quella in esame Cons. di Stato Sent. n. 5128 del 2018, secondo cui la procedura di cui all'art. 34 non è applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2019 n. 43433).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e operatività della sanatoria – Presupposti e limiti – Requisito della “doppia conformità” delle opere – Confisca dei terreni abusivamente lottizzati – Artt. 15, 30, 36, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il necessario requisito della “doppia conformità” delle opere di cui all’art. 36, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 è ostativo già in astratto della applicabilità della sanatoria al reato di lottizzazione, atteso che, nel caso di lottizzazione abusiva, le opere non possono mai considerarsi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro costruzione.
Pertanto, sia che la sanatoria non operi già in astratto, sia che la stessa non operi per impossibilità di ravvisare in concreto i requisiti dell’art. 36 T.U.E., la confisca dei terreni abusivamente lottizzati è legittima –in quanto obbligatoria ai sensi dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001,- anche in presenza della sanatoria delle opere edilizie.

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Reati urbanistici – Dolo intenzionale – Elemento psicologico – Criteri di valutazione della sussistenza – Macroscopiche violazioni di legge – Rilascio o proroghe del provvedimento abilitativo – Esperienza professionale – Art. 323 cod. pen. DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Limiti del sindacato della Cassazione – Valutazione delle risultanze processuali.
In materia urbanistica, la sussistenza dell’elemento psicologico può emergere, essenzialmente, dalla reiterazione proseguita nell’arco degli anni, nel rilascio del provvedimento abilitativo e delle susseguenti proroghe pur nella consapevolezza, derivante dalla conoscenza dei luoghi e dalla indubbia esperienza professionale, delle macroscopiche violazioni di legge derivanti dal contrasto con le n.t.a. e con il vincolo di in edificabilità e dalle caratteristiche dell’opera assentita.
A ciò si aggiunga che, il sindacato della Cassazione continua a restare quello di sola legittimità sì che esula dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processual
i (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2019 n. 42106 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Reato di lottizzazione – Concorso nel reato urbanistico – Componente della commissione edilizia – Responsabilità a titolo di concorso dell’extraneus nel reato proprio – Parere favorevole al rilascio della concessione edilizia – Elementi oggettivi e soggettivi necessari – Artt. 27, 29, 30 e 44 del d.P.R. n. 380/2001.
E’ indubbio che nel reato “proprio” di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 –i cui autori sono individuati, dall’art. 29 d.P.R. n. 380 del 2001, e, anteriormente, dall’art. 6 della In. 47 del 1985, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori– ben possa concorrere anche l’extraneus, ovvero colui che non rivesta le qualifiche richieste dalla legge.
E’ tuttavia necessario, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato, dovendosi cioè verificare che l’extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole. Pertanto, la partecipazione deve configurarsi, al pari della condotta degli altri, in forma dolosa, quale “cosciente e volontaria partecipazione al piano lottizzatorio”, rimanendo escluso un contributo meramente colposo ad un’attività certamente dolosa delle parti principali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.10.2019 n. 42105 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Trasformazione urbanistica ed edilizia di terreno destinato ad uso agricolo – Area adibita a campeggio e piazzole con sovrastanti roulottes – Confisca dell’area – Artt. 3, 10, 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001 – Artt. 169 e 181 del d.lgs. n. 42/42004 – Artt. 54, 55 e 1161 c. nav.
Si configura il reato di lottizzazione abusiva la realizzazione, all’interno di un’area adibita a campeggio, di una struttura ricettiva che presenta le caratteristiche di un insediamento residenziale stabile, posto che il campeggio presuppone allestimenti e servizi finalizzati alla sosta o ad un soggiorno occasionale e limitato nel tempo, comportando di contro una siffatta struttura il sostanziale stravolgimento dell’originario assetto definito mediante pianificazione e ciò indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati, dalle caratteristiche costruttive o dalla agevole rimovibilità dell’opera (Cass., Sez. 3, n. 8970 del 23/01/2019, Scifoni).
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La condotta nel reato di lottizzazione abusiva materiale – Presupposti – Modifica urbanistica dei terreni in zona non adeguatamente urbanizzata – Assenza di qualunque intervento programmatorio.
Integra il reato di lottizzazione abusiva materiale “qualunque condotta che comporti una modificazione edilizia od urbanistica dei terreni in una zona non adeguatamente urbanizzata, la quale conferisca ad una porzione di territorio comunale un assetto differente in assenza di qualunque intervento programmatorio da parte della competente Autorità” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2019 n. 41941 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva “mista” – Natura di reato progressivo – Individuazione del momento consumativo del reato – Compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita – Stipulazione di atti di trasferimento – Esecuzione di opere di urbanizzazione – Ultimazione dei manufatti – Computo dei termini prescrizionali – Fattispecie – Artt. 30 e 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il momento consumativo del reato di lottizzazione abusiva “mista” (consistente, come nel caso di specie, nella formazione di singoli lotti, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione e nella vendita delle unità abitative), si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o nell’ultimazione dei manufatti che compongono l’insediamento, con la conseguenza che, trattandosi di reato progressivo cui si applica la disciplina del reato permanente, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, non è rilevante per il concorrente il momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può intervenire anche a notevole distanza di tempo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.10.2019 n. 41609 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto paesaggistico circostante..
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.”
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La giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento.
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1. Il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione e ripristino adottata dal Comune di Lumezzane a seguito dell’accertamento della realizzazione, in difformità rispetto al titolo edilizio, di un sopralzo del sottotetto di una porzione del fabbricato di proprietà dei ricorrenti.
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16. Con l’ultimo motivo è denunciata l’inconferenza del richiamo, contenuto nella motivazione del provvedimento avversato, alla localizzazione del manufatto in area soggetta a vincolo paesistico ai sensi dell’articolo 142, comma 1, lett. c), d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Secondo i ricorrenti la difformità nella realizzazione del sopralzo non creerebbe infatti alcun danno al bene tutelato, ovvero al fiume nella cui fascia di rispetto si trova l’abitazione, non incidendo in alcun modo sul suo alveo, sulla regimazione delle acque o sulla loro portata e deflusso. Aggiungono che l’immobile in questione non ha alcun valore storico, tipologico, simbolico e ha uno scarso valore percettivo.
17. La doglianza è priva di pregio.
18. Va evidenziato, infatti, che in presenza di un vincolo paesaggistico, ove per l’intervento edilizio non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica, l’ordine demolizione costituisce atto vincolato, a prescindere da quale sia il titolo edilizio necessario per l’intervento e quindi anche ove si tratti di opere “minori”.
In ragione della funzione di tutela preventiva e cautelare dei valori anche di rilievo costituzionale che rappresentano la ragion d’essere del vincolo paesaggistico-ambientale, è sufficiente la sua apposizione perché trovi applicazione la relativa tutela, senza che possa essere indagata l’effettiva e concreta idoneità dell’opera contestata ad incidere sull’assetto paesaggistico circostante (TAR Campania, Napoli, sez. III, 29.05.2019, n. 2881).
Pertanto “In presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.”
19. Inoltre quanto alla supposta irrilevanza paesistica dell’opera, “la giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell’opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l’apprezzamento puntuale e concreto dell’effettiva compatibilità dell’intervento, e di tutti gli elementi che determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2019, n. 1523).
Detto giudizio di compatibilità è rimesso del resto all’autorità amministrativa competente e non può essere sostituito da una valutazione effettuata direttamente dal privato interessato all’intervento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.10.2019 n. 865 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine decadenziale poiché è orientamento costante della giurisprudenza amministrativa quello secondo cui le opere realizzate senza titolo (quindi abusive) costituiscono illecito permanente, salve le rare ipotesi (che qui non vengono dedotte) in cui può essere salvaguardato l’affidamento del privato rispetto all’atteggiamento ingiustificatamente inerte serbato per lunghissimo tempo dell’amministrazione pubblica.
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Riguardo al secondo profilo di doglianza, va ricordato che, in materia di repressione dell’abusivismo edilizio, non sussiste alcun termine decadenziale, poiché è orientamento costante della giurisprudenza amministrativa (anche di questo Tribunale), quello secondo cui le opere realizzate senza titolo (quindi abusive) costituiscono illecito permanente, salve le rare ipotesi (che qui non vengono dedotte) in cui può essere salvaguardato l’affidamento del privato rispetto all’atteggiamento ingiustificatamente inerte serbato per lunghissimo tempo dell’amministrazione pubblica (cfr. tra le ultime, TAR Marche, 26/04/2019 n. 270; 27/04/2018 n. 318; 20/02/2015 n. 141) (TAR Marche, sentenza 04.10.2019 n. 620 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione da parte dei ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
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Il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto il permesso di costruire.
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2.1 Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Preliminarmente, quanto all’assoggettabilità degli interventi al previo rilascio del permesso di costruire, la presentazione da parte dei medesimi ricorrenti di un’istanza di “permesso di costruire” in sanatoria postuma rispetto agli interventi contestati, implica acquiescenza rispetto alla necessità del titolo abilitativo edilizio e smentisce pertanto la sostenibilità dell’assunto circa la riconducibilità del manufatto contestato ad una delle tipologie di c.d. edilizia libera.
In ogni caso parte ricorrente, nel riconoscere la non conformità del manufatto alla normativa urbanistico edilizia vigente nel Comune di Fossacesia, ha dichiarato, inammissibilmente, di voler ottenere una sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 condizionata alla “riconduzione a conformità” dell’intervento abusivo con caratteristiche diverse sì da renderlo assentibile ai sensi della locale disciplina urbanistica ed edilizia.
Una tale domanda non è all’evidenza riconducibile allo schema legale tipico della sanatoria di cui all’art. 36 d.p.r. n. 38072001 che presuppone il completamento e l’ultimazione dell’intervento in tutte le sue componenti sì da renderne verificabile la doppia conformità prima della definizione della istanza e non successivamente.
Ed infatti, il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti completo ed ultimato, e non anche per la sanatoria di opere a farsi, dal momento che la doppia conformità deve sussistere oltre che con riguardo alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto che deve quindi necessariamente precedere e non seguire la domanda di sanatoria.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V, 11.10.2005, n. 5495) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.10.2019 n. 233 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza del tutto consolidata, l'impugnativa del provvedimento di acquisizione gratuita, non preceduta dalla tempestiva impugnazione dell'ordinanza di demolizione relativa ad opere abusive, nonché del diniego di sanatoria delle medesime, comporta che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto presupposto in sede di gravame avverso l'atto applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura acquisitiva.

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CONSIDERATO:
   - che l'impugnata constatazione di inottemperanza con acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza all'ordine di demolizione, né in senso ostativo all'acquisizione può assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento, sicché risulta necessario solo che in detto atto siano esattamente individuate ed elencate le opere e le relative pertinenze urbanistiche.
Per giurisprudenza del tutto consolidata -da cui il Tar non ravvisa ragioni per discostarsi- l'impugnativa del provvedimento di acquisizione gratuita, non preceduta dalla tempestiva impugnazione dell'ordinanza di demolizione relativa ad opere abusive, nonché del diniego di sanatoria delle medesime, comporta che non possano essere denunciati eventuali vizi di tale atto presupposto in sede di gravame avverso l'atto applicativo che lo richiami.
Nei casi di mancata impugnazione del provvedimento presupposto deve pertanto essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale della costruzione abusiva e dell'area di sedime, salvo che non si facciano valere vizi propri della misura acquisitiva (ex multis,Tar Umbria, 20.06.2017, n. 470; Tar Emilia Romagna, Bologna, II, 13.05.2015, n. 458; Tar Campania, Napoli, III, 03.02.2015, n. 640; Tar Puglia, Bari, III, 16.05.2014, n. 621) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.10.2019 n. 231 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «
L'interesse, quale condizione di ammissibilità dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente).
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In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
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La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione.
Inoltre,
la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore.
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione abusiva alla demolizione dell'opera non rileva, pertanto, per la considerazione della violazione di norme interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
Inoltre
il tempo potrebbe rilevare solo per un eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative.
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In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.
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5. Il ricorso è inammissibile, principalmente per mancanza di interesse in quanto l'immobile è stato acquisito al patrimonio del Comune (come evidenziato dalla stessa ricorrente nel ricorso in cassazione e nella memoria di replica) e, comunque, per manifesta infondatezza dei motivi (art. 606, comma 3, del cod. proc. pen.).
5.1. L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna, e con la sua successiva esecuzione ad opera del Pubblico ministero, ostandovi soltanto la delibera consiliare che abbia stabilito l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive. (Sez. 3, n. 1904 del 18/12/2006 - dep. 23/01/2007, Turianelli, Rv. 235645).
L'acquisizione al patrimonio del Comune come principale effetto fa venire meno l'interesse della ricorrente alla revoca o alla sospensione dell'ordine di demolizione. Il bene, infatti, ormai è di proprietà del Comune e sullo stesso nessun interesse giuridico può essere rivendicato dalla ricorrente, responsabile dell'illecito edilizio (in tal senso già Sez. 3, 07.03.2017 - udienza del 06.10.2016 - n. 10964, Brio, non massimata e Sez. 3, n. 45432 del 25/05/2016 - dep. 27/10/2016, Ligorio, Rv. 26813301; vedi ora espressamente Sez. 3, del 01.08.2019, n. 35203, Centioni, non massimata).
Può, quindi, esprimersi il seguente principio di diritto: «
In tema di reati edilizi con l'acquisizione al patrimonio del Comune dell'immobile abusivo viene meno l'interesse alla revoca o alla sospensione dell'ordine di demolizione da parte del precedente proprietario, ormai terzo estraneo alle vicende giuridiche dell'immobile».
Infatti, «L'interesse, quale condizione di ammissibilità dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente (fattispecie di richiesta al giudice dell'esecuzione di revoca di ordine di demolizione di opera abusiva già demolita dal medesimo richiedente)» (Sez. 3, n. 24272 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Abagnale, Rv. 24768501; vedi anche Sez. 6, n. 17686 del 07/04/2016 - dep. 28/04/2016, Conte, Rv. 26717201).
6. Comunque il ricorso è manifestamente infondato anche nel merito, poiché in materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336).
6.1. La questione della natura sanzionatoria penale dell'ordine di demolizione relativamente alle sentenze Cedu è mal posta.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il territorio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione (vedi Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti; Cass. Sez. 3, 11/02/2016, n. 5708, Wolgar).
6.2. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa anche dalla eventuale alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/03/2007, n. 22853, Coluzzi).
Il tempo trascorso dalla realizzazione della costruzione abusiva alla demolizione dell'opera non rileva, pertanto, per la considerazione della violazione di norme interne e Cedu, poiché fondamentalmente la ricorrente non ha adempiuto sia all'ordine di demolizione del Comune e sia a quello della sentenza.
6.3. Inoltre il tempo potrebbe rilevare solo per un eventuale abuso di necessità per le esigenze abitative, ma tale prospettazione risulta assente nel ricorso e genericamente richiamata (senza nessuna specificazione) nella memoria di replica.
Le questioni personali e familiari della ricorrente non sono rappresentate, quindi, a questa Corte, che pertanto non può verificare (in linea del tutto teorica, stante l'inammissibilità del ricorso, per mancanza di motivi specifici -autosufficienza-) l'incidenza sul caso della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 21.04.2016, Ivanova e Cherkezov V/Bulgaria, ricorso 46577/15. La violazione o no, nella fattispecie concreta, dell'art. 8 della convenzione europea, sotto il profilo della proporzionalità, tra l'abuso -se di dimensioni tali da farlo ritenere di necessità- e gli interessi generali della comunità al rispetto delle norme.
7. Non sussiste neanche una violazione del principio del ne bis in idem, e conseguentemente di esecuzione di un giudicato ingiusto, come già deciso da questa Corte di Cassazione con decisione che deve riaffermarsi: «In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, e non comportando la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014» (Sez. 3, n. 51044 del 03/10/2018 - dep. 09/11/2018, M, Rv. 27412801) (Corte di cassazione, Sez. II penale, sentenza 02.10.2019 n. 40396).
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Al riguardo sei legga anche:
  
● L. B. Molinaro, Dopo la Corte Europea anche la Cassazione “apre” all’“abuso di necessità” (28.10.2019 - link a www.filodiritto.com).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento.
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta dall'art. 21-octies L. n. 241/1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione delle ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo di comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in materia di sanzioni edilizie dovuta- non ha effetti invalidanti, specie quando emerga che il contenuto del provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello in concreto adottato.
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L'ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto e vincolato, per la cui adozione non è necessaria una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto, nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi edilizi.
Invero, ''l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità'.
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Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, secondo altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli interventi abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti.
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente” il decorso del tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a demolire, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
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Infondato è il primo motivo.
Secondo consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presuppone un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; la stessa, pertanto, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento (cfr., ex multis, questa Sezione, 03.10.2018, n. 5782; 17.09.2018, n. 5510; TAR Liguria, sez. I, 22.04.2011 n. 666; Cons. Stato, sez. IV, 06.02.2013 n. 666, 06.06.2011 n. 3398; Idem, sez. VI, 02.02.2015 n. 466).
In ogni caso, per effetto della previsione introdotta dall'art. 21-octies L. n. 241/1990, nei procedimenti preordinati all'emanazione delle ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l'asserita violazione dell'obbligo di comunicarne l'avvio –laddove si ritenesse anche in materia di sanzioni edilizie dovuta- non ha effetti invalidanti, specie quando emerga che il contenuto del provvedimento finale non potrebbe essere diverso da quello in concreto adottato (Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016 n. 3620; questa Sezione, 26.06.2013 n. 3328; TAR Liguria, sez. I, 22.04.2011 n. 666).
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4.- Infondati sono il terzo ed il sesto motivo che, per ragioni di connessione, possono ricevere trattazione congiunta.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, l'ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto e vincolato, per la cui adozione non è necessaria una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto, nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi edilizi (cfr., per tutte, di questa Sezione, sentenze 01.03.2019, n. 1162 e 07.11.2017 n. 5212, secondo cui: ''l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché all'individuazione ed alla qualificazione degli abusi edilizi. L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2017, n. 908; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 21.06.2017, n. 3377)''.
Riguardo all’epoca della realizzazione degli abusi, secondo altrettanto costante e condivisa giurisprudenza, il lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto sine titulo e l'adozione dei provvedimenti repressivi non elide l’esercizio del potere di contrasto degli interventi abusivi né impone un più stringente obbligo motivazionale circa il permanere del carattere di attualità dell’interesse pubblico a demolire; questo perché non è ammissibile il consolidarsi di un affidamento degno di tutela in costanza di una situazione giuridicamente illecita, la quale non può ritenersi legittimata per effetto del mero trascorrere del tempo.
Ne consegue che, l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcun termine decadenziale e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compimento dell'abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla sola ricognizione dei suoi presupposti (Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
Tra l’altro, l’Adunanza plenaria del Consiglio di stato (17.10.2017, n. 9), ha rimarcato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133 -secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente” il decorso del tempo dal momento del commesso abuso- non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione a demolire, configurando piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 02.10.2019 n. 4706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ingiunzione a demolire costituisce, anche rispetto alla fattispecie di cui all'art. 33 d.p.r. 380/2001, la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo e sanzionatorio.
La norma in argomento individua, infatti, come prima soluzione sanzionatoria, proprio quella dell’abbattimento e del ripristino, a conferma della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato.
La stessa prevede al più la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria.
Questa evenienza rileva, tuttavia, solo nella fase esecutiva, sicché la sua assenza nell'ordinanza di demolizione -al pari dell'eventuale presenza circa gli impedimenti tecnici a demolire- non costituisce vizio dell’ordinanza medesima.
L’art. 34, a sua volta, riguardante gli interventi eseguiti in parziale difformità dal titolo edilizio, ha una portata dispositiva sostanzialmente analoga.
E’ comunque onere dell’interessato chiederne l’applicazione in proprio favore, fornendo seria e idonea dimostrazione del pregiudizio paventato per la struttura e l'utilizzo del bene residuo, poiché, in quanto autore dell'opera e del progetto, è a conoscenza di come quest’ultimo è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito della demolizione, in pregiudizio della parte conforme.

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5.- Infondato è infine il quarto motivo.
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, l'ingiunzione a demolire costituisce, anche rispetto alla fattispecie di cui all'art. 33 d.p.r. 380/2001, la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo e sanzionatorio.
La norma in argomento individua, infatti, come prima soluzione sanzionatoria, proprio quella dell’abbattimento e del ripristino, a conferma della gravità dell'abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato.
La stessa prevede al più la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria.
Questa evenienza rileva, tuttavia, solo nella fase esecutiva, sicché la sua assenza nell'ordinanza di demolizione -al pari dell'eventuale presenza circa gli impedimenti tecnici a demolire- non costituisce vizio dell’ordinanza medesima (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.02.2018, n. 1063; Id., 10.11.2017, n. 5180; sez. VI, 21.11.2016, n. 4855; questa Sezione, 14.03.2018, n. 1613).
L’art. 34, a sua volta, riguardante gli interventi eseguiti in parziale difformità dal titolo edilizio, ha una portata dispositiva sostanzialmente analoga.
E’ comunque onere dell’interessato chiederne l’applicazione in proprio favore, fornendo seria e idonea dimostrazione del pregiudizio paventato per la struttura e l'utilizzo del bene residuo, poiché, in quanto autore dell'opera e del progetto, è a conoscenza di come quest’ultimo è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito della demolizione, in pregiudizio della parte conforme (ex ceteris, TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.02.2017, n. 1137; id., 05.12.2016, n. 5620; id., 02.11.2016, n. 5022; id., 11.10.2016, n. 4667; id., 22.11.2013, n. 5317; Cons. Stato, sez. V, 05.09.2011, n. 4982) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 02.10.2019 n. 4706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistico-edilizi – Opere accessorie e complementari e superfetazioni successive – Carattere abusivo dell’originaria costruzione – Abusiva prosecuzione delle opere – Inesistenza di un titolo – Ordine di demolizione – Restitutio in integrum dello stato dei luoghi – Art. 31, c. 9, D.P.R. n. 380/2001 (T.U.E.) – Giurisprudenza.
In materia urbanistica, a prescindere dall’inesistenza di un titolo che disponga la demolizione delle opere abusive successivamente eseguite, quando queste non siano fisicamente separate dall’originaria opera di cui è stata ingiunta la demolizione, vale il principio secondo cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda l’edificio nel suo complesso, comprensivo di eventuali aggiunte o modifiche successive all’esercizio dell’azione penale e/o alla condanna, atteso che l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di “restitutio in integrum” dello stato dei luoghi e, come tale, non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo dell’originaria costruzione (Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016, dep. 2017, Molinari, relativa ad un caso in cui il giudice dell’esecuzione, con provvedimento ritenuto legittimo, aveva respinto la richiesta, formulata dal proprietario del piano primo di un edificio, di revoca o modifica dell’ordine di demolizione del piano terreno, disposto con sentenza nei confronti del responsabile dell’abuso; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011, Apuzzo, concernente un’ipotesi in cui sul manufatto abusivo erano stati eseguiti interventi che ne avevano determinato ulteriori aumenti volumetrici; Sez. 3, n. 2872 del 11/12/2008, dep. 2009, Corimbi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2019 n. 40074 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACiò che viene sanzionato -nella misura massima di € 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’abuso sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma, non avendo la ricorrente provveduto alla demolizione dopo l’entrata in vigore della norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in simili casi, di una violazione del principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie si è espresso di recente il Consiglio di Stato, assegnando rilievo decisivo alla circostanza che la mancata esecuzione dell’ordine di demolizione si collochi in epoca successiva all’entrata in vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis.
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D. Con il terzo ricorso per motivi aggiunti la ricorrente ha impugnato l'ordinanza comunale n. 3 del 16.11.2017, notificata in data 17.11.2017, recante irrogazione di sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, del DPR 380/2001 nella misura massima pari ad € 20.000,00, e la delibera di giunta comunale n. 217 del 30.10.2017 recante approvazione dei criteri per la determinazione ed applicazione delle sanzioni ex art. 31, comma 4-bis, del DPR 380/2001.
Il motivo n. 11), di invalidità derivata è infondato a causa della reiezione di tutti i motivi precedenti.
Anche il motivo n. 12), secondo il quale la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del DPR 380/2001 non può essere applicata ad abusi realizzati prima dell'entrata in vigore della stessa, è infondato.
La giurisprudenza alla quale il Collegio si conforma (TAR Campania, Salerno, Sez. I n. 1045 del 06.07.2018) ha chiarito che ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che è irrilevante il fatto che l’abuso sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della norma, non avendo la ricorrente provveduto alla demolizione dopo l’entrata in vigore della norma citata.
Per l’inconfigurabilità, in simili casi, di una violazione del principio di irretroattività delle norme che introducono misure sanzionatorie si è espresso di recente il Consiglio di Stato (Sez. VI, 16/04/2019 n. 2484), assegnando rilievo decisivo alla circostanza che la mancata esecuzione dell’ordine di demolizione si collochi in epoca successiva all’entrata in vigore del menzionato art. 31, comma 4-bis (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di acquisizione di opere abusive al patrimonio comunale ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con la conseguenza che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso non è subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle opere con gli interessi urbanistici e ambientali e sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici, e risulta sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura sanzionatoria, rientra nella competenza dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva, se l'inottemperanza non sia giustificata, si verifica automaticamente l'acquisizione al patrimonio del comune di tale costruzione, nonché dell'area di sedime e di quella ulteriore necessaria ai fini urbanistico-edilizi; la suddetta acquisizione al patrimonio del Comune, si precisa, è infatti atto dovuto sottoposto esclusivamente all'accertamento della volontaria inottemperanza e del decorso dei termini prescritti”.
L’esclusione della competenza consiliare si radica quindi nel fatto che l’acquisto è un effetto ex lege che sottrae tale tipo di acquisto alle scelte discrezionali fondamentali riservate al consiglio comunale dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato che il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta acquisizione ex lege in conseguenza dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 della l. n. 47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la giurisprudenza riconosce anche la natura sanzionatoria del medesimo atto. Infatti l'acquisizione gratuita al patrimonio del comune dell'area sulla quale insiste la costruzione abusiva non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, bensì costituisce una sanzione autonoma che consegue ad un duplice ordine di condotte, poste in essere da chi, dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare l'ulteriore area che può essere acquisita in quanto «necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può comportare il mutamento della natura dell’atto in considerazione della natura di accertamento tecnico della scelta da effettuare. L’acquisizione al patrimonio comunale degli immobili abusivi rientra quindi tra le competenze gestionali della dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c. 5, del DPR 380/2001, in un momento successivo in quanto, dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione e dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, come conseguenza della mancata esecuzione dell'ordine di demolizione, residua l'eventualità che il Consiglio Comunale possa, con apposita delibera, escludere la demolizione dell'opera acquisita al patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al suo mantenimento e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici) e si configura quale alternativa all'ulteriore ordinanza di demolizione in danno delle opere abusive gratuitamente acquisite.
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E. Venendo all’esame del quarto ricorso per motivi aggiunti, con cui la ricorrente ha impugnato l’acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale e l’ordine di sgombero dei locali, il motivo n. 14), di invalidità derivata, è infondato, a seguito della reiezione dei precedenti motivi.
Il motivo n. 15), fondato sull’incompetenza del dirigente ad adottare un provvedimento di acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale, è infondato.
Il provvedimento di acquisizione di opere abusive al patrimonio comunale ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione, con la conseguenza che, trattandosi di atto dovuto, lo stesso non è subordinato ad alcuna valutazione sulla compatibilità delle opere con gli interessi urbanistici e ambientali e sull'utilizzabilità delle stesse a fini pubblici, e risulta sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza all'ordine di demolizione.
Trattandosi di atto vincolato, di natura sanzionatoria, rientra nella competenza dirigenziale prevista dall’art. 107, c. 3, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente: g) tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
In merito la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. V 26.01.2000, n. 341) ha chiarito che “decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva, se l'inottemperanza non sia giustificata, si verifica automaticamente l'acquisizione al patrimonio del comune di tale costruzione, nonché dell'area di sedime e di quella ulteriore necessaria ai fini urbanistico-edilizi; la suddetta acquisizione al patrimonio del Comune, si precisa, è infatti atto dovuto sottoposto esclusivamente all'accertamento della volontaria inottemperanza e del decorso dei termini prescritti” (Sez. V, 23.01.1991, n. 66; cfr. anche Sez. V, 20.04.1994, n. 333).
L’esclusione della competenza consiliare si radica quindi nel fatto che l’acquisto è un effetto ex lege che sottrae tale tipo di acquisto alle scelte discrezionali fondamentali riservate al consiglio comunale dall’art. 42 del D.Lgs. 267/2000.
Ed infatti la giurisprudenza ha specificato che il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta acquisizione ex lege in conseguenza dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 della l. n. 47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di demolizione (TAR Sicilia, Palermo, III, 02/08/2018 n. 1745; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 04.06.2012, n. 4610).
Oltre alla natura dichiarativa dell’atto la giurisprudenza riconosce anche la natura sanzionatoria del medesimo atto. Infatti l'acquisizione gratuita al patrimonio del comune dell'area sulla quale insiste la costruzione abusiva non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, bensì costituisce una sanzione autonoma che consegue ad un duplice ordine di condotte, poste in essere da chi, dapprima esegue un'opera abusiva e, poi, non adempie all'obbligo di demolirla.
Né l’esistenza di un potere di determinare l'ulteriore area che può essere acquisita in quanto «necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive» (art. 31, c. 3, DPR 380/2001), può comportare il mutamento della natura dell’atto in considerazione della natura di accertamento tecnico della scelta da effettuare. L’acquisizione al patrimonio comunale degli immobili abusivi rientra quindi tra le competenze gestionali della dirigenza.
La competenza del consiglio comunale può radicarsi, invece, ai sensi dell’art. 31, c. 5, del DPR 380/2001, in un momento successivo in quanto, dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione e dell'ulteriore provvedimento sanzionatorio di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, come conseguenza della mancata esecuzione dell'ordine di demolizione, residua l'eventualità che il Consiglio Comunale possa, con apposita delibera, escludere la demolizione dell'opera acquisita al patrimonio comunale (ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al suo mantenimento e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici) e si configura quale alternativa all'ulteriore ordinanza di demolizione in danno delle opere abusive gratuitamente acquisite (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, IV, 23/05/2019 n. 2758) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 2088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2019

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831 cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto".
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Secondo la costante giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti, limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti.
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Per pacifico principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come dotato di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro abusività.
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Il sig. -OMISSIS- ha impugnato l’ordinanza n. -OMISSIS-con cui il Comune di -OMISSIS- gli ha ordinato di rimuovere una recinzione e il provvedimento del -OMISSIS-, di inibitoria della scia in sanatoria, presentata il 04.03.2014, articolando le seguenti doglianze: ...
...
Le censure non sono fondate.
Per giurisprudenza costante, "la realizzazione di una recinzione non richiede un idoneo titolo edilizio solo in presenza di una trasformazione che, per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento, non comporti un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale, con la conseguenza che la distinzione tra esercizio dello ius aedificandi e dello ius excludendi alios ex art. 831 cod. civ. va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto" (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 14.06.2018, n. 3661).
Nel caso di specie, la circostanza che la recinzione sia costituita da blocchi prefabbricati in calcestruzzo è già di per sé sola sufficiente ad escludere l’assenza di modifica dell’assetto del territorio.
Non può neppure ritenersi che l’opera in questione sia realizzabile in forza di una scia e che trovi conseguentemente applicazione la sola sanzione pecuniaria.
L’opera contrasta, difatti, con la previsione di cui all’art. 51, c. 3, delle nta, secondo cui nelle zone urbanistiche EE le recinzioni fisse devono essere realizzate integralmente in legno o con montanti in legno direttamente infissi nel ruolo e rete metallica di altezza non superiore a 150 cm.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, quanto contestato con i provvedimenti impugnati circa le caratteristiche costruttive della recinzione realizzata dal sig. -OMISSIS- in zona agricola non deriva da mere valutazioni estetiche dell’amministrazione ma è previsto in una disposizione vincolante, contenuta nelle nta del prg.
Deve, pertanto, escludersi che potesse essere irrogata la sola sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria: secondo la costante giurisprudenza, in forza di quanto previsto dagli artt. 22 e 37, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, l'applicabilità della sanzione pecuniaria è, difatti, limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa segnalazione certificata di inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti (Cons. Stato Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873; Tar Piemonte, sent. n. 70/2019; n. 1296/2018).
In considerazione della natura vincolata del potere esercitato –in un contesto in cui la scia è stata presentata dal sig. -OMISSIS- a fronte di lavori già eseguiti ed a seguito della comunicazione di avvio del procedimento demolitorio– e della correttezza del contenuto dispositivo dei provvedimenti impugnati, la censura con cui viene dedotta la violazione del principio del contraddittorio non può portare all’annullamento della nota con cui il Comune si è pronunciato sulla scia del 04.03.2014, così come previsto dall’art. 21-octies, l. n. 241/1990.
Non sussiste, infine, il lamentato difetto di motivazione: per pacifico principio giurisprudenziale, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo, essendo un atto dovuto e vincolato, deve considerarsi come dotato di un'adeguata e sufficiente motivazione qualora contenga la descrizione delle opere abusive e la constatazione della loro abusività (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato sez. VI, 30/04/2019, n. 2823).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è esente da questo vizio, indicando con precisione l’opera abusiva e le disposizioni violate, senza che assuma alcun rilievo il richiamo ad un parere, pur non necessario.
Per le ragioni esposte il ricorso è, dunque, infondato e deve essere respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 30.09.2019 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Attività che comporti il pericolo di un’urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata – Integrazione del reato – Differenza tra lottizzazione abusiva e mero abuso edilizio – Illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio – Artt. 30 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di lottizzazione abusiva è integrato non soltanto dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di un’urbanizzazione non prevista, o diversa da quella programmata, in generale va ricordato che, per integrare il reato di lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull’assetto urbanistico della zona; ne consegue che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a) e b), d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero se esse siano idonee a conferire all’area un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.09.2019 n. 39332 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Esecuzione di lavori in terreni vincolati – Cambio destinazione d’uso - Manufatti da rurale a residenziale – Assenza dell’autorizzazione paesaggistica – Reati paesaggistici – Differenza tra difformità parziale e totale – Irrilevanza – Disciplina urbanistica e paesaggistica – Art. 181, D.Leg.vo 42/2004 – Configurabilità.
La disposizione contenuta all’art. 181, D.Leg.vo 42/2004 punisce l’esecuzione dei lavori in assenza dell’autorizzazione paesaggistica «o in difformità di essa», senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica.
Ai soli fini del reato urbanistico, integra l’ipotesi di difformità totale c.d. qualitativa che, per l’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E. ricorre quando gli interventi «comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso».
Sia per quanto riguarda le caratteristiche tipologiche degli organismi edilizi oggetto d’intervento (trasformazione da depositi rurali ad edifici di civile abitazione) sia quanto al conseguente diverso utilizzo –peraltro vietato dallo strumento urbanistico– è indiscutibile che nel caso di specie si sia realizzato quell’allud pro alio che integra gli estremi della contravvenzione urbanistica ritenuta e non possa parlarsi soltanto di parziale difformità
(Cass. Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e aa.).

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Permesso di costruire – Assenza, totale difformità o variazione essenziali – Ordinanza di sospensione dei lavori – Ingiunzione a demolire – Art. 31, c. 3, T.U.E.
Nel caso interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazione essenziali, il provvedimento richiamato dalla norma è quello dell’ingiunzione a demolire di cui all’art. 31, comma 3, T.U.E.
Decorso il suddetto termine di quarantacinque giorni dall’ordinanza di sospensione dei lavori, sia che venga emanata l’ingiunzione a demolire (o altro provvedimento previsto in caso di differente inosservanza), sia che il comune non adotti invece alcun provvedimento, la sospensione dei lavori perde efficacia, trattandosi di provvedimento cautelare che il legislatore ha appunto costruito come funzionale all’adozione, in tempi contenuti e predeterminati, dei provvedimenti sanzionatori definitivi di competenza dell’autorità amministrativa.

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Reati edilizi – Direttore dei lavori – Responsabilità – Assenza dal cantiere – Onere di vigilanza – Permane anche dopo l’ordine di sospensione dei lavori – Dovere di contestare le irregolarità riscontrate – Rinuncia all’incarico da parte del tecnico – Cantiere sia sottoposto a sequestro – Artt. 27, 29, 31 e 44 D.P.R. 380/2001.
In tema di reati edilizi, l’assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l’onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all’incarico.
Pertanto, l’obbligo di vigilanza che l’art. 29, D.P.R. 380/2001 pone in capo al direttore dei lavori circa la conformità delle opere al permesso di costruire, con la conseguente responsabilità penale nel caso di reati da altri commessi senza che intervenga quella forma di dissociazione prevista dal comma 2 della disposizione, permane sino a che non venga comunicata la formale conclusione dell’intervento ovvero sino a che il tecnico non rinunci all’incarico, e non viene meno in caso di adozione dell’ordinanza di sospensione dei lavori di cui all’art. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001 salvo che –e fintanto che– il cantiere sia sottoposto a sequestro.

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Conformità delle opere al permesso di costruire – Responsabilità del Direttore dei lavori anche in caso di assenza dal cantiere – Omessa (diligente) vigilanza – GIURISPRUDENZA.
Sussiste, in capo al direttore dei lavori una posizione di garanzia per il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia, addebitandogli le conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta esecuzione delle opere rispetto al permesso di costruire (art. 29, comma 1, d.P.R. 380 del 2001), ed imponendogli altresì di “dissociarsi” dalla condotta illecita da altri commessa, anche se trattisi del suo stesso committente.
In particolare, «il direttore dei lavori non è responsabile qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre rinunciare all’incarico contestualmente alla comunicazione resa al dirigente» (art. 29, comma 2, T.U.E.).
Se quest’ultima disposizione prevede una causa personale di non punibilità che vale esclusivamente per il reato nella forma omissiva e che consente al professionista di sfuggire all’applicazione delle sanzioni qualora adempia alle prescrizioni previste nel tassativo modello legale, essa –letta unitamente alla norma contenuta nel primo comma– individua invece una vera e propria posizione di garanzia che fonda la penale responsabilità del direttore dei lavori nel caso di condotta da altri commessa.
Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità oggettiva, essendo sempre necessario che il tecnico, volutamente o per negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone. Certamente negligente è la condotta del direttore dei lavori che si disinteressi del cantiere ove riveste tale formale qualità
(Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del 17/06/2010, Ponzio)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38479 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Impugnazione proposta dal solo imputato – Principio del divieto della “reformatio in peius” Poteri e limiti del giudice di appello – Ipotesi di aggravamento per specie o quantità della pena – Art. 597, comma 3, cod. proc. pen. – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Ordine di demolizione della costruzione abusiva – Pene accessorie – Applicazione d’ufficio – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dei beni paesaggistici e ambientali.
In tema di “reformatio in peius”, nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, l’ordinamento processuale impone al giudice di appello, di attenersi alle ipotesi di aggravamento –per specie o quantità– della pena, di applicazione di nuova o più grave misura di sicurezza, di pronunzia di proscioglimento con formula meno favorevole o di revoca di benefici; in detto divieto non è compreso l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, impartito dal giudice ai sensi dell’art. 7 legge 28.02.1985 n. 47 (oggi D.P.R. n. 380/2001), trattandosi non di pena accessoria, ma di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, consequenziale alla sentenza di condanna e la cui irrogazione costituisce atto dovuto.
Del resto, è altrettanto pacifico che la previsione di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, le pene accessorie che, ex art. 20 cod. pen., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa.
È pertanto legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, tramite il procedimento di correzione di errore materiale, delle pene accessorie non applicate in primo grado. Sicché, il divieto della “reformatio in peius”, previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. quando appellante è il solo imputato, non impedisce che il giudice d’appello ordini la rimessione in pristino dello stato dei luoghi prevista in caso di sentenza di condanna dall’art. 181, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, allorquando, per mera omissione, la stessa non sia stata disposta con la sentenza di primo grado, trattandosi di sanzione amministrativa la cui irrogazione costituisce atto dovuto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2019 n. 38471 - link a www.ambientediritto.it).

agosto 2019

URBANISTICA: Pianificazione urbanistica – Convenzione di lottizzazione – Rilascio permessi di costruire – Lottizzazione abusiva c.d. “cartolare” o negoziale – Configurabilità – Artt. 30, 44 D.P.R. n. 380/2001.
In materia di pianificazione urbanistica, oltre, laddove manchi la necessaria autorizzazione, il reato di lottizzazione abusiva non è escluso dal rilascio dei permessi di costruire, posto che la convenzione di lottizzazione prevede anche l’accollo di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria – nemmeno l’impegno del privato ad eseguire le opere di urbanizzazione primaria nel contesto del rilascio di un titolo edilizio può surrogare la mancanza di un piano di lottizzazione, poiché l’urbanizzazione dei terreni deve essere programmata per zona e non avvenire in occasione dell’edificazione dei singoli lotti, sicché costituisce lottizzazione abusiva anche la nuova utilizzazione del terreno a scopo di insediamento residenziale pur se sia richiesto il permesso di costruire ovvero siano rilasciati una pluralità di permessi nella zona interessata dal nuovo insediamento, tanto più che il permesso di costruire non ha la funzione di pianificare l’uso del territorio.
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Lottizzazione abusiva “mista” – Natura della contravvenzione – Reato a forma libera e progressivo nell’evento – Atti di frazionamento o esecuzione delle opere – Riserva autorità amministrativa dell’assetto urbanistico – T.U.E.- Integrazione del reato anche a titolo di sola colpa.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva è reato a forma libera e progressivo nell’evento, che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o all’esecuzione delle opere, posto che tali iniziali attività non esauriscono l”iter” criminoso, che si protrae attraverso gli ulteriori interventi che incidono sull’assetto urbanistico, con ulteriore compromissione delle scelte di destinazione ed uso del territorio riservate all’autorità amministrativa competente (Sez. 3, n. 14053 del 20/02/2018, Ammaturo e a.).
Per significare che, in siffatti casi, alla lottizzazione negoziale segue quella materiale si parla comunemente di lottizzazione “mista”. Inoltre, il reato di lottizzazione abusiva può essere integrato anche a titolo di sola colpa (Sez. 3, n. 38799 del 16/09/2015; De Paola; Sez. 3, n. 17865 del 17/03/2009, Quarta e aa. Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi e a.).

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Lottizzazione abusiva c.d. “mista” – Momento consumativo del reato – Calcolo dei termine di prescrizione inizio e decorrenza – Disciplina del reato permanente – Applicazione.
In presenza di lottizzazione abusiva c.d. “mista”, il momento consumativo del reato si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano nel reato, nel compimento dell’ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell’esecuzione di opere di urbanizzazione o nell’ultimazione dei manufatti che compongono l’insediamento; ne consegue che, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, per il concorrente non è rilevante il momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, ma quello di consumazione del reato, che può intervenire anche a notevole distanza di tempo (Sez. 3, n. 48346 del 20/09/2017, Bortone e aa.).
Dovendosi, applicare la disciplina del reato permanente, il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dopo l’ultimazione sia dell’attività negoziale, sia dell’attività di edificazione, e cioè, in quest’ultima ipotesi, dopo il completamento dei manufatti realizzati sui singoli lotti oggetto del frazionamento
(Sez. 3, ord. n. 24985 del 20/05/2015, Diturco e a.; Sez. 3, n. 35968 del 14/07/2010, Rusani e a.).
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Lottizzazione abusiva c.d. cartolare o negoziale – Natura di contravvenzione a consumazione anticipata – Condotta – Reato a consumazione alternativa.
Il reato di lottizzazione abusiva c.d. cartolare o negoziale, ha natura di contravvenzione a consumazione anticipata, nel senso che il reato è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata (Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine e aa.) rispetto ad opere che, per caratteristiche o dimensioni, siano idonee a pregiudicare la riserva pubblica di programmazione territoriale (Sez. 3, n. 15404 del 21/01/2016, Bagliani e a.).
Il reato di lottizzazione abusiva è dunque configurabile con riferimento a zone di nuova espansione o scarsamente urbanizzate relativamente alle quali sussiste un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione (Sez. 3, n. 6629 del 07/01/2014, Giannattasio e aa.), sicché, se da un lato deve escludersi con riferimento a zone completamente urbanizzate, d’altro lato è invece configurabile sia con riferimento a zone assolutamente inedificate, sia con riferimento a zone parzialmente urbanizzate in cui sussista un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo (Sez. 3, n. 37472 del 26/06/2008, Belloi e a.).
Quanto alla condotta, la contravvenzione di lottizzazione abusiva si configura come reato a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un provvedimento di autorizzazione, sia quando quest’ultimo sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, in quanto grava sui soggetti che predispongono un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui committenti e costruttori l’obbligo di controllare la conformità dell’intera lottizzazione e delle singole opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di pianificazione
(Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa.).
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Lottizzazione abusiva – Configurabilità – Elementi indiziari – Trasformazione urbanistica od edilizia del territorio.
Ai fini della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva negoziale o cartolare, l’elencazione degli elementi indiziari di cui all’art. 30, comma primo, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non è tassativa né tali elementi devono sussistere contemporaneamente, in quanto è sufficiente per l’integrazione del reato anche la presenza di uno solo di essi, purché risulti inequivocamente la destinazione a scopo edificatorio del terreno.
Peraltro, ai fini della integrazione del reato, il frazionamento di un terreno non deve necessariamente avvenire mediante apposita operazione catastale che preceda le vendite o gli atti di disposizione, ma può realizzarsi con ogni altra forma di suddivisione fattuale dello stesso; l’espressione in questione, infatti, da intendersi in modo atecnico, si riferisce a qualsiasi attività giuridica che abbia per effetto la suddivisione in lotti di un’area di più ampia estensione, comunque predisposta od attuata, attribuendone la disponibilità a terzi al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica od edilizia del territorio.
Ciò che conta, è che il contesto indiziario sia idoneo a rivelare in modo non equivoco la finalità edificatoria, che costituisce l’elemento comune alle varie forme (materiale, negoziale, mista) in cui l’illecito può essere realizzato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.08.2019 n. 36397 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Sui distinguo fra le due fattispecie di lottizzazione e cioè la lottizzazione "materiale" o "sostanziale" e la lottizzazione "negoziale" o "cartolare".
Risulta integrata la lottizzazione materiale in ragione della trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area e la lottizzazione cartolare mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da essa risultanti.
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L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 preve che si abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione “
materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili.
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd. lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “
cartolare” la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti.
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “
cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori.
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico.
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Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa.
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'
animus dei proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza con riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato.
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del territorio.
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828), nel mentre l'argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato.
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie.
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L’appello è infondato.
Con riferimento al primo motivo di appello con cui si contesta l’avvenuta lottizzazione ad opere dell’appellante, ritiene il Collegio di evidenziare, come rilevato dal giudice di primo grado, che l’area in questione è stata interessata da una lottizzazione c.d. mista, in quanto, alla originaria suddivisione del suolo mediante il frazionamento catastale e gli atti di vendita si è aggiunta, nel tempo, la successiva attività di trasformazione edilizia dei singoli fondi attraverso la esecuzione di opere, peraltro in una area con destinazione agricola ed edificabilità limitata ad opere necessarie alla conduzione del fondo.
Risultano, quindi, integrate sia la lottizzazione materiale in ragione della trasformazione urbanistica ed edilizia dell’area in contrasto con le norme vigenti sia la lottizzazione cartolare, posta in essere mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da essa risultanti. La lottizzazione contestata, infatti, è stata attuata nel tempo, prima attraverso vari atti di frazionamento e conseguenti vendite di singoli lotti e poi attraverso la esecuzione di opere di urbanizzazione e la trasformazione edilizia degli stessi.
L’art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001, in applicazione del quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, riproduce integralmente le disposizioni già contenute nell’art. 18 della legge 28.02.1985 n. 47; tali norme prevedono che si abbia “lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
In base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali, da tale norma derivano due fattispecie di lottizzazione cioè una lottizzazione “materiale”, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici; e una lottizzazione “negoziale”, ovvero “cartolare”, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La fattispecie lottizzatoria può consolidarsi innanzitutto nella veste di c.d. lottizzazione materiale o sostanziale, che si realizza attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori.
In particolare, come evidenziato da questo Consiglio, siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell’ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell'espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili (Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3416; id. 09.01.2018, n. 5805, inerente peraltro il medesimo provvedimento oggetto dell’odierno contenzioso).
L’illecito lottizzatorio può assumere anche le sembianze della cd. lottizzazione cartolare, “quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” (Cons. Stato Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Con riferimento specifico alla predetta lottizzazione c.d. “cartolare” la fattispecie è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo è predisposta mediante il frazionamento e la vendita -ovvero mediante atti negoziali equivalenti- del terreno frazionato in lotti, i quali, per le loro oggettive caratteristiche -con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o l'eventuale previsione di opere di urbanizzazione- rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.08.2012, n. 4429; Sez. IV, 13.05.2011, n. 2937).
Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva “cartolare” non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l'acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. Detto altrimenti, l'attività negoziale avente ad oggetto il frazionamento e il trasferimento di appezzamenti di terreno rileva quale indizio di un intento che deve trovare peraltro conferma anche in altre circostanze che rendano evidente la non equivocità del fine della futura edificazione, rilevando al riguardo la sussistenza di circostanze fattuali certe e univoche, che confermino che l'attività posta in essere è propedeutica alla realizzazione di un abuso o alla trasformazione del suolo a fini edificatori (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 10.11.2015, n. 5108; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
In ogni caso, l’illecito costituito dalla lottizzazione abusiva si consuma nel caso di qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l’assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico (Cons. Stato Sez. II, Sent., 20.05.2019, n. 3215).
Quanto alla “colpevolezza” del proprietario del terreno, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento giurisprudenziale già espresso di recente dalla Sezione, per cui per configurare la lottizzazione si può prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede dei lottizzanti, giacché l'illecito si fonda sul dato oggettivo dell'intervenuta illegittima trasformazione urbanistica del territorio, fatta salva la tutela in sede civile nei confronti dei propri danti causa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2016 n. 26 del 2016; Cons. Stato Sez. II, 20.05.2019, n. 3215; id Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Sotto tale profilo, con riferimento al caso di specie, ritiene il Collegio che non possa rilevare a sostegno della buona fede dell’appellante la circostanza dell’essere stata acquirente dei suoli successivamente al frazionamento dell'area e quindi non autrice dell’originario disegno lottizzatorio. In primo luogo, infatti, il Collegio ritiene di richiamare quanto già affermato da questo Consiglio, che, sulla base dalla natura oggettiva della lottizzazione abusiva e indipendente dall'
animus dei proprietari interessati, ha già escluso la rilevanza di tale circostanza con riferimento al medesimo provvedimento comunale impugnato (cfr. Sez VI 09.10.2018 n. 5805).
Inoltre, anche la giurisprudenza penale, argomentando dal carattere contravvenzionale del reato di lottizzazione abusiva, precisa che gli acquirenti dei singoli lotti risultanti dal frazionamento non possano invocare sic et simpliciter una propria asserita buona fede, non potendo essi, solo per tale loro qualità, qualificarsi come terzi estranei all'illecito, dovendo, invece, dimostrare di aver adoperato la necessaria diligenza nell'adempimento dei doveri di informazione e conoscenza senza, tuttavia, rendersi conto, in buona fede, di partecipare ad un’operazione di illecita utilizzazione del territorio (cfr. Cass. pen., Sez. III, 13.02.2014, n. 2646; id., 03.12.2013, n. 51710; id., 27.04.2011, n. 21853).
In tal senso i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell'omessa individuazione dell'elemento psicologico dell'illecito contestato possono al più utilizzare l'argomento al mero fine dell'applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001 (reputata comunque compatibile con l'art. 7 CEDU dalla Corte europea dei diritti dell'uomo: Grande Chambre, 28.06.2018, n. 1828) , nel mentre l'argomento medesimo non è utilmente invocabile al fine dell'irrogazione della sanzione ammnistrativa dell'acquisizione coattiva dell'immobile al patrimonio disponibile del Comune, contemplata dall'art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto atto vincolato (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 23.03.2018, n. 1878; Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
La giurisprudenza è, altresì, consolidata nel ritenere la natura permanente dell’illecito con la conseguenza che tale tipologia di illecito urbanistico-edilizio è soggettivamente trasferibile propter rem e sanzionabile in capo a tutti coloro che siano divenuti titolari dei terreni abusivamente lottizzati e che abbiano goduto di costruzioni eseguite sine titulo su tali terreni, così concorrendo attivamente alla prosecuzione della fattispecie (Cons. Stato Sez. II, 17.05.2019, n. 3196).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie, deve ritenersi integrata la fattispecie della lottizzazione abusiva in relazione alle circostanze di fatto, peraltro incontestate, desumibili da tutti gli accertamenti effettuati: i lotti appartenenti all’appellante risultano dal frazionamento di un’unica area molto più vasta, a destinazione agricola; la contestualità temporale di tutte le vendite originarie, attraverso le quali si realizzò il frazionamento; la realizzazione sui suoli risultanti dal frazionamento di molteplici interventi edilizi abusivi, incompatibili con la detta destinazione agricola delle aree; la carenza in capo all’appellante o comunque la mancata deduzione in proposito della qualifica di imprenditore agricolo; la necessaria realizzazione di opere di urbanizzazione, in assenza delle quali un insediamento residenziale non avrebbe avuto le necessarie condizioni di abitabilità.
Agli effetti della configurazione della fattispecie, inoltre, ciò che rileva non è l’epoca di realizzazione delle opere edilizie abusive, quanto il loro discendere dall’iniziale frazionamento dell’area, ciò che deve ritenersi sufficiente a dimostrarne la coerenza con l’originario intento lottizzatorio.
Peraltro, nel caso di specie, la destinazione agricola dei terreni risultante anche espressamente dagli atti di acquisto dei terreni rendeva conoscibile alla parte odierna appellante la radicale trasformazione dell’area in assenza di qualsiasi attività pianificatoria comunale (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: L’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che tale obbligo viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento finale.
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie, risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo carattere non autorizzato ed abusivo”.
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Con il secondo motivo di appello si lamenta la violazione del principio di partecipazione al procedimento.
Il motivo è infondato.
L’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 07.08.1990 n. 241, per cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, conduce infatti ad un giudizio di infondatezza della censura, in quanto il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere contenuto diverso né l’eventuale partecipazione procedimentale avrebbe potuto incidere sui presupposti del provvedimento impugnato, in relazione alla sussistenza della lottizzazione abusiva, basata sull’indubbio accertamento del frazionamento di una più vasta proprietà in diversi lotti ai fini edilizi e sulla materiale trasformazione degli stessi suoli.
L’art. 21-octies si riferisce, infatti, anche al provvedimento che abbia natura in concreto vincolata con la conseguenza che l’avviso di inizio del procedimento non sia comunque dovuto quando in concreto si rilevi la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento impugnato.
Deve essere in proposito richiamata la consolidata giurisprudenza, per cui l’obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non viene inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di acquisire l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, con la conseguenza che tale obbligo viene meno qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la partecipazione del privato rispetto alla portata del provvedimento finale (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1407; Sez. VI, 18.05.2015, n. 2509).
In particolare, l’esclusione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento è stata già affermata da questo Consiglio anche nel caso della lottizzazione abusiva quando, come nel caso di specie, risultino la “finalità certamente edificatoria della lottizzazione ed il suo carattere non autorizzato ed abusivo” (Consiglio di Stato, sezione IV 09.10.2017 n. 4668) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Anche le varianti per il recupero dei nuclei edilizi abusivi rientrano nell’ampia discrezionalità del potere pianificatorio urbanistico comunale.
Nessun obbligo di redazione di varianti per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29 della legge n. 47 del 1985, mentre la perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via di fatto, ma che tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di tali norme non è, infatti, quella di imporre alle amministrazioni comunali l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le amministrazioni interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi.
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L’appellante sostiene poi la violazione dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985 e dell’art. 23 della legge regionale della Campania n. 16 del 2004, in quanto l’Amministrazione comunale non avrebbe valutato il recupero urbanistico degli insediamenti abusivi, tramite l’approvazione di una variante urbanistica.
Anche tale motivo di appello è infondato.
Ai sensi dell’art. 29 della legge n. 47 del 1985, “entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge le regioni disciplinano con proprie leggi la formazione, adozione e approvazione delle varianti agli strumenti urbanistici generali finalizzati al recupero urbanistico degli insediamenti abusivi, esistenti al 01.10.1983, entro un quadro di convenienza economica e sociale”.
In base all’art. 23, commi 3 e seguenti, della legge regionale 22.12.2004, n. 16, il Piano urbanistico comunale “individua la perimetrazione degli insediamenti abusivi esistenti al 31.12.1993 e oggetto di sanatoria ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47, capi IV e V, e ai sensi della legge 23.12.1994, n. 724, articolo 39, al fine di: a) realizzare un'adeguata urbanizzazione primaria e secondaria; b) rispettare gli interessi di carattere storico, artistico, archeologico, paesaggistico-ambientale ed idrogeologico; c) realizzare un razionale inserimento territoriale ed urbano degli insediamenti.
4. Le risorse finanziarie derivanti dalle oblazioni e dagli oneri concessori e sanzionatori dovuti per il rilascio dei titoli abilitativi in sanatoria sono utilizzate prioritariamente per l'attuazione degli interventi di recupero degli insediamenti di cui al comma 3.
5. Il Puc può subordinare l'attuazione degli interventi di recupero urbanistico ed edilizio degli insediamenti abusivi, perimetrati ai sensi del comma 3, alla redazione di appositi Pua, denominati piani di recupero degli insediamenti abusivi, il cui procedimento di formazione segue la disciplina prevista dal regolamento di attuazione previsto dall'articolo 43-bis.
6. Restano esclusi dalla perimetrazione di cui al comma 3 gli immobili non suscettibili di sanatoria ai sensi dello stesso comma 3
”.
Ritiene il Collegio sul punto di richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui anche le varianti per il recupero dei nuclei edilizi abusivi rientrano nell’ampia discrezionalità del potere pianificatorio urbanistico comunale. Nessun obbligo di redazione di varianti per il recupero degli insediamenti abusivi discende, infatti, dall’art. 29 della legge n. 47 del 1985, mentre la perimetrazione dei nuclei abusivi, così come la successiva approvazione della variante sono attività rientranti in pieno nel potere pianificatorio discrezionale del Consiglio comunale, che esercita in tal caso la discrezionalità in funzione del recupero di una situazione creatasi in via di fatto, ma che tenga conto, oltre alla esigenza di recupero dei nuclei abusivi, delle generali esigenze di pianificazione del territorio comunale.
La ratio di tali norme non è, infatti, quella di imporre alle amministrazioni comunali l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall'ordinamento urbanistico; pertanto, le amministrazioni interessate hanno una mera facoltà e non l'obbligo di contemplare all'interno delle varianti generali gli insediamenti abusivi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 25.07.2001, n. 4078; 03.10.2001, n. 5207; Sez. VI, 05.04.2012, n. 2038; Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381; TAR Lazio Roma Sez. II-quater, 28.03.2018, n. 3423).
Nel caso di specie, il Comune di Giugliano non ha approvato alcuna variante per il recupero del nucleo abusivo né aveva alcun un obbligo in tal senso (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICA: Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso.
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La fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in sanatoria.
L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza della domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo sugli atti adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non potendo essere comunque rilasciato il titolo in sanatoria.
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso.
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Con ulteriore motivo di appello si lamenta l’erroneità delle affermazioni del giudice di primo grado circa il difetto di motivazione del provvedimento comunale sull’interesse pubblico alla repressione dell’attività abusiva, nonché una sua mancata comparazione con l’interesse privato sacrificato, considerato anche il tempo trascorso dall’epoca della lottizzazione abusiva.
Anche tale motivo è infondato in relazione al costante orientamento giurisprudenziale per cui i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituiscono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Infatti la sanzione repressiva in materia edilizia costituisce atto dovuto della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall'accertamento dell'abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell'opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso -che è in re ipsa- con l'interesse del privato proprietario del manufatto e ciò anche se l'intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell'abuso ( Consiglio di Stato, sez. VI 09.04.2019, n. 2329; sez. IV, 31.08.2016 n. 3750 con espresso riferimento ad una ipotesi di lottizzazione abusiva).
Sotto tale profilo, non può avere alcun rilievo l’invio al Comune degli atti di vendita, che peraltro avevano ad oggetto un terreno a destinazione agricola.
Infine, l’appellante ha dedotto di avere presentato domande di sanatoria per i manufatti abusivi, che avrebbero dovuto essere considerate dal Comune così come il Comune avrebbe dovuto valutare l’approvazione di un piano di lottizzazione attraverso il meccanismo previsto agli artt. 25 e 35 della legge 47 del 1985.
Anche tale motivo di appello è infondato, in relazione al costante orientamento giurisprudenziale per cui la fattispecie della lottizzazione abusiva, riguardando la sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescinde dalle singole opere abusive realizzate senza titolo e dalla presentazione per questa di una eventuale domanda di sanatoria o dal rilascio per le stesse di un titolo edilizio.
L’accertamento della lottizzazione abusiva, fattispecie posta a tutela del potere comunale di pianificazione in funzione dell’ordinato assetto del territorio, è un procedimento autonomo e distinto dall’eventuale rilascio anche postumo del titolo edilizio; pertanto alcun rilievo sanante sull'abuso può rivestire il rilascio di un eventuale titolo edilizio, sia ex ante, in presenza di titoli anche già rilasciati, sia di titoli rilasciati in sanatoria. L’autonomia dei due procedimenti comporta che anche la pendenza della domanda di sanatoria non possa avere comunque avere alcun rilievo sugli atti adottati ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. 380 del 2001, non potendo essere comunque rilasciato il titolo in sanatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115).
Infatti, per la costante giurisprudenza, nell’ambito di una lottizzazione abusiva, non è possibile comunque sanare alcun illecito, non potendo le singole porzioni di suolo ricomprese nell’area abusivamente lottizzata essere valutate in modo isolato e atomistico, ma in relazione allo stravolgimento della destinazione di zona che ne deriva nel suo complesso (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2012, n. 3381).
Quanto all’approvazione del piano di lottizzazione, ritiene il Collegio di richiamare quanto già sopra evidenziato circa l’ampia discrezionalità del potere pianificatorio del Comune rispetto al recupero urbanistico dei nuclei abusivi.
Conclusivamente, pertanto, l’appello è da ritenersi infondato e deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.08.2019 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

luglio 2019

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Abuso realizzato su parti comuni di un edificio.
Le parti comuni dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini; a tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2019 n. 1764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
2.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato da questa Sezione, l’art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell’edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Codominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302). Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest’ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giudica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini.
A tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
L’ordine rivolto al Condominio risulta quindi illegittimo, in ragione del difetto di legittimazione passiva dello stesso con riguardo alla repressione degli abusi edilizi.

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Verifica dello stato legittimo degli immobili risalenti nel tempo (Regione Emilia Romagna, nota 11.07.2019 n. 592534 di prot.).

giugno 2019

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio l’esito del verbale.
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare, non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato, avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario- lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da acquisire, dispositivo della trascrizione.
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art. 31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale.
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8- Il ricorso è inammissibile laddove impugna il verbale di accertamento dei VV.UU., in quanto atto non autonomamente impugnabile.
Secondo la giurisprudenza, ai sensi dell’art. 31 t.u. edilizia, il titolo per l’immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio l’esito del verbale (TAR Sicilia, Catania, sez. II, 24.04.2018, n. 837; TAR Catania, sez. I, 23.04.2015, n. 1118; TAR Napoli, (Campania), sez. VII, 11.05.2017, n. 2550; TAR Roma, (Lazio), sez. I, 04.05.2016, n. 5123).
Il verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordine demolitorio non costituisce, infatti, un provvedimento amministrativo; esso, in particolare, non comporta di per sé effetti ulteriori rispetto a quelli consistenti nella mera descrizione della realtà; non si tratta, cioè, di un provvedimento amministrativo che possa immutare la posizione giuridica dell'interessato, avendo il verbale solo il fine di rappresentare -con fede privilegiata allorquando, come nel caso di specie, sia compilato da pubblico funzionario- lo stato dei luoghi.
Il verbale di accertamento in questione costituisce solo il presupposto fattuale e giuridico sulla cui base dovranno essere adottati i successivi provvedimenti amministrativi che il competente Ufficio Comunale, quale autorità dotata di poteri di amministrazione attiva, dovrà adottare, primo tra tutti l’accertamento formale dell’inottemperanza, ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, comma 4, che costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne consegue che il verbale costituisce atto propedeutico all'adozione del successivo provvedimento formale di accertamento dell’inottemperanza e dichiarativo dell'acquisizione e, previa individuazione dell'area da acquisire, dispositivo della trascrizione (in termini TAR Campania, Napoli, sez. VII, 11.05.2017; TAR Napoli, sez. III, 01.12.2016, n. 5556).
Pertanto tale verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece ravvisabile soltanto eventualmente nell’atto formale di accertamento ex art. 31, co. 4, del d.p.r. n. 380/2001, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla polizia municipale e forma il titolo ricognitivo idoneo all’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale (cfr. TAR Sicilia Catania sez. II 02.04.2018 n. 837 e giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche TAR Campania Salerno sez. II 18.03.2016, n. 692) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAL’atipico ordine del Comando dei vigili urbani –contenuto nel verbale– "di non toccare assolutamente i manufatti oggetto dell'accertamento di inottemperanza" viola il principio per il quale gli atti amministrativi sono "tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di uno specifico potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma di legge.
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito; e ciò vale soprattutto per "gli atti incidenti negativamente sui terzi".
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione ha chiarito che financo l’acquisizione gratuita al patrimonio, in assenza di una delibera comunale di dichiarazione dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio; a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art. 31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
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9- Il ricorso è invece ammissibile ed altresì fondato laddove impugna l’ordine del Comando dei vigili urbani –contenuto nel verbale– di non demolire, basato sul presupposto che siano decorsi i prescritti 90 giorni per la demolizione.
In effetti l’atipico ordine "di non toccare assolutamente i manufatti oggetto dell'accertamento di inottemperanza" (di cui al Verbale P.M. 13/09/2018 n. 1877), viola il principio per il quale gli atti amministrativi sono "tipici e nominati" e devono essere adottati nell'esercizio di uno specifico potere attribuito all'autorità procedente da una precisa norma di legge (cfr. TAR Trieste, sez. I, 03/12/2014 n. 609; TAR Veneto, sez. III, 31/12/2007 n. 4129 e C.d.S., sez. V, 7/10/2002 n. 5275).
Il principio di tipicità e nominatività degli atti amministrativi trova fondamento in esigenze legate alla tutela del principio di legalità a garanzia che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito (cft. C.d.S., sez. VI, 13/09/2010 n. 6554); e ciò vale soprattutto per "gli atti incidenti negativamente sui terzi" (cfr. TAR Genova, sez. I, 12/03/2009 n. 305).
Ebbene l'impugnato "ordine di non demolire", in attesa della futura acquisizione e in assenza di una delibera comunale che dichiari la sussistenza di interesse pubblico al mantenimento dell’opera, è un provvedimento non previsto da alcuna norma di legge, dal che la sua illegittimità o meglio la sua nullità, per l’assenza nell’ordinamento di una norma attributiva di simili poteri all’amministrazione nella specifica fase di cui si discute.
Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede un'articolata disciplina per la demolizione delle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità ovvero con variazioni essenziali.
Dapprima l'autorità comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento, con concessione di un termine di novanta giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale "il bene e l'area di sedime vengono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al patrimonio del Comune".
L'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire (da tenere distinto, per come su detto, dal verbale della polizia municipale di accertamento ricognitivo) costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; infine, l'opera acquisita è demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Recentemente la Corte di Cassazione (Cass. pen. Sez. III, Sent., 16.01.2018, n. 1564) ha chiarito che financo l’acquisizione gratuita al patrimonio, in assenza di una delibera comunale di dichiarazione dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, non costituisce impedimento tecnico-giuridico alla possibilità di eseguire l'ordine di demolizione, in quanto il trasferimento dell'immobile nella disponibilità dell'ente locale è esclusivamente preordinato ad una sua più agevole demolizione -il cui onere economico va posto in ogni caso a carico dei responsabili dell'abuso edilizio- e non invece ad incrementare il patrimonio dell'ente locale con opere che contrastano con l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015,; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004); a maggior ragione, la privazione del potere di rimuovere gli abusi non può discendere da un verbale di accertamento della polizia municipale, il quale deve limitarsi ad effettuare una ricognizione dello stato dei luoghi e trasmetterne i risultati agli organi competenti ex art. 31 d.p.r. n. 380/2001, per l’adozione degli opportuni provvedimenti.
Ne consegue l’illegittimità (rectius nullità) del detto verbale nella specifica parte in cui contiene il detto ordine di non demolire (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 25.06.2019 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
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Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le nuove costruzioni è previsto e regolato dall’art. 34 del TUE (applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria.
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Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato.
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1.1.- La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale della parziale difformità da esso.
1.2.- L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 (di seguito: “TUE”) disciplina gli abusi più gravemente sanzionati.
L’assenza di permesso consiste nella sua insussistenza oggettiva per l’opera autorizzata.
Accanto al caso del permesso mai rilasciato, vi sono i casi nei quali il titolo è stato rilasciato, ma è privo (o è divenuto privo) di effetti giuridici.
L’art. 31, comma 1, del TUE prevede anche una figura di mancanza sostanziale del permesso, che si verifica quando vi è difformità totale dell’opera rispetto a quanto previsto nel titolo, pur sussistente. Si ha difformità totale, quando sia realizzato un organismo edilizio:
   - integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed edilizie;
   - integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi;
   - integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la destinazione d’uso derivante dai caratteri fisici dell’organismo edilizio stesso);
   - integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi ed autonomi.
1.3.- Accanto alle forme di abuso appena ricordate, l’art. 32 del TUE, -così come prima l’art. 7, comma 2, della legge n. 47 del 1985- regola la fattispecie dell’esecuzione di opere in «variazione essenziale» rispetto al progetto approvato. Tale tipo di abuso è parificato, quanto alle conseguenze, al caso di mancanza di permesso di costruire e di difformità totale, salvo che per gli effetti penali (le variazioni essenziali sono infatti soggette alla più lieve pena prevista per l’ipotesi della lettera a, dell’articolo 44 del TUE).
La determinazione dei casi di variazione essenziale è affidata alle regioni nel rispetto di alcuni criteri di massima.
In particolare, ai sensi dell’art. 32, comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento di destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;
   d) il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentite;
   e) la violazione della normativa edilizia antisismica.
Il comma 2 dell’art. 32 del TUE precisa che «non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative».
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle “varianti” che invece riguardano la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27.02.2014, n. 34099).
Nel caso di variante essenziale il problema si concentra nella necessità o meno di nuovo titolo, che deve quindi considerare l'eventuale diversa normativa sopravvenuta; la variante invece si riferisce al titolo originario senza nuova valutazione della normativa vigente.
...
1.4.- Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le nuove costruzioni è invece previsto e regolato dall’art. 34 del TUE (applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria.
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12.07.2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio.
Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio. In particolare, la difformità parziale è esclusa «in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42. Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.06.2019 n. 4331 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non consente la destinazione all’uso abitativo dei locali oggetto di condono edilizio.
La giurisprudenza è stabilmente orientata nel senso di ritenere che, ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario.
Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996, che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto all’abitazione.
E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m. 05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni.
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La giurisprudenza (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. 03.06.2013, n. 3034; id., 03.05.2011, n. 2620) è stabilmente orientata nel senso di ritenere che, ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario. Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996, che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto all’abitazione. E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m. 05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni (così Cons. Stato n. 2620/2011, cit.).
Alla luce degli indirizzi interpretativi consolidati, dai quali non vi sono ragioni per discostarsi, il mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non consente la destinazione all’uso abitativo dei locali di proprietà del ricorrente.
La certificazione di abitabilità o agibilità conseguita secondo il meccanismo disciplinato dall’art. 86, co. 4, l.r. n. 1/2005 è pertanto illegittima, per questo aspetto giustificandosi l’esercizio del potere di autotutela da parte del Comune resistente (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2019 n. 857 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAGli uffici di questa Unione di Comuni ricevono richiesta di annullamento di verbali (L. 24.11.1981, n. 689) in vari ambiti con particolare riferimento ad illeciti edilizi o occupazioni abusive di suolo pubblico avvenute molti anni fa (oltre 5 o 10 anni).
Sono prescritti questi illeciti?

L'art. 28, L. 24.11.1981, n. 689 (legge generale sul procedimento sanzionatorio pecuniario) dispone "Il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione". Tale disposizione è stata oggetto di approfondimento giurisprudenziale con particolare riferimento al tema dei cosiddetti "illeciti permanenti".
Secondo la dottrina "Si ha quindi illecito permanente qualora la condotta dannosa non si esaurisca in un solo momento, ma si rinnovi costantemente nel tempo. Pertanto, la condotta del responsabile produce un evento dannoso che si rinnova per tutto il tempo in cui permane l'azione lesiva, avendosi coesistenza della condotta lesiva e del danno permanente. Per la sussistenza della permanenza sono necessarie tre condizioni: (i) il carattere continuativo dello stato dannoso o pericoloso derivante dalla condotta del soggetto; (ii) il rapporto di causalità tra il protrarsi dello stato dannoso o pericoloso e la condotta del soggetto la quale prosegue senza interruzione dopo la realizzazione del fatto, da cui il danno o il pericolo ha origine e (iii) la possibilità per il responsabile di porre fine alla situazione dannosa".
In presenza di dette condizioni, quindi di un illecito permanente, ne deriva:
   - l'applicazione del regime sanzionatorio vigente al momento in cui l'amministrazione provvede ad irrogare la sanzione stessa, senza che sia ravvisabile la violazione del principio di irretroattività;
   - il potere repressivo dell'amministrazione può essere esercitato anche a lunga distanza di tempo, non derivando dal decorso di questo né una sorta di sanatoria dell'opera abusiva né tanto meno una situazione di affidamento in capo all'autore dell'abuso;
   - in materia di lesione dell'interesse pubblico si protrae nel tempo sino al ripristino della legittimità violata;
   - la prescrizione delle sanzioni pecuniarie non inizia a decorrere dalla data di realizzazione dell'abuso o della violazione ma da quella in cui il soggetto che ha commesso l'abuso ha ripristinato la situazione di legalità.
Tale giurisprudenza, formatasi prevalentemente con riferimento agli abusi edilizi, vale anche in altri analoghi contesti, per cui si è ritenuto che in materia di scadenza dell'autorizzazione ad occupare suolo pubblico, il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e, dunque, il perseverare nell'occupazione abusiva nonché l'inerzia serbata dall'amministrazione non sono idonee ad ingenerare nel privato alcuna convinzione della legittimità della propria situazione.
In definitiva dunque, per gli illeciti permanenti, il termine di prescrizione quinquennale non decorre dalla data di commissione dell'illecito ma dalla data della sua scoperta da parte dell'autorità competente.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 24.11.1981, n. 689, art. 28
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. 22.04.2013, 9711 - Cass. 06.02.1982, n. 685 - Cons. Stato Sez. V, 16.04.2019, n. 2499 - Cons. Stato Sez. VI, 16.04.2019, n. 2484 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 21.03.2019, n. 1892 - Cons. Stato Sez. VI, 04.03.2019, n. 1477 - Cons. Stato Sez. VI, 14.02.2019, n. 1056 - Cons. Stato Sez. VI, 03.01.2019, n. 85 - Cons. Stato Sez. VI, 07.06.2018, n. 3460 - Cons. Stato Sez. VI, 27.02.2018, n. 1166 - Cons. Stato Sez. VI Sent., 03.10.2017, n. 4580
Riferimenti di dottrina

   - Danni da violazione delle norme sulle distanze tra costruzioni. illecito permanente e illecito istantaneo a effetti permanenti - Il commento - [Danno e Resp., 2016, 1, 82 (nota a sentenza)] - di Sebastiano Cassani
   - Illecito paesistico e condono edilizio - [Corriere Giur., 2000, 8, 1003 (nota a sentenza)] - a cura di Luigi Carbon
 (12.06.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: realizzazione di opere in difformità dal titolo edilizio – sanatoria parziale – configurabilità – parere (Legali Associati per Celva, nota 11.06.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante “l'ordinanza di demolizione non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura vincolata" e “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…”.
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In considerazione della natura totalmente vincolata dei provvedimenti di demolizione parimenti infondate sono le ulteriori censure svolte dai ricorrenti in rapporto all’omessa comunicazione di avvio del procedimento di repressione degli abusi edilizi o alla pretesa carenza o insufficienza della motivazione.
Per giurisprudenza costante, infatti, “l'ordinanza di demolizione non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura vincolata" (TAR Campania, Napoli , sez. VII, 15.03.2019, n. 1448; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 11.03.2019 n. 413) e “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso ( o) il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso…” (TAR Puglia, Lecce, Sez. III , 18.02.2019, n. 262; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.03.2019 , n. 1942).
Parimenti non meritevoli di accoglimento sono, infine, le ultime doglianze esposte dai ricorrenti in rapporto alla pretesa sproporzione della sanzione della demolizione rispetto all’entità degli abusi ed alla asserita riconducibilità delle opere de quibus ad interventi di restauro o risanamento conservativo, realizzabili “in base a semplice SCIA” e, comunque, “assolutamente conformi al tessuto urbanistico di riferimento”.
Tali affermazioni sono del tutto contraddette dalla descrizione delle opere contenuta nei verbali di accertamento e nelle varie determinazioni di demolizione, nonché da quanto rappresentato nelle stesse domande di condono presentate in relazione ad una serie di immobili “monopiano” realizzati man mano nel corso degli anni, anche in aderenza l’uno all’altro, senza alcun titolo e con creazione ex novo di superfici e volumi.
Da qui l’assoluta impossibilità di qualificare le opere de quibus come restauro o risanamento conservativo, la sussumibilità delle stesse nell’alveo degli interventi di nuova costruzione di cui all’art. 3, comma 1, lett. e.1), del DPR n. 380/2001 e la piena congruità della sanzione di demolizione disposta dall’Amministrazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.06.2019 n. 7300 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn linea di diritto, che l’onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente-.
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori.
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti.
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Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”.
Costituisce principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili.
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno) sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso, ossia quelle opere che qualifichino in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione.
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7. – Va premesso, in linea di diritto, che l’onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, perché realizzate legittimamente senza titolo, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr., in tal senso tra le molte e più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2018 n. 1391).
Per quanto riguarda, poi, la gamma degli strumenti probatori ammissibili ai fini della prova del momento di realizzazione dell'abuso, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che le dichiarazioni sostitutive di notorietà non siano utilizzabili nel processo amministrativo e che non rivestano alcun effettivo valore probatorio, potendo costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi nuovi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione -ovvero, le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l'inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente- (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014 n. 2782 e 27.05.2010 n. 3378).
Ed infatti, anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data fissata dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.12.2008 n. 6548).
L’indagine sulla veridicità ed effettività di quanto viene dichiarato nell’istanza di condono edilizio costituisce compito specifico dell’amministrazione comunale che, fin dal sistema complessivamente risultante dalla l. 47/1985, in particolare dall’art. 4 (oggi trasfuso nel sistema di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380), la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale è riservata al Comune e detto potere/dovere di vigilanza concerne anche la attenta verifica circa la sussistenza dei presupposti per il rilascio di provvedimenti di condono edilizio.
Quindi, a carico dell’amministrazione comunale raggiunta dall’istanza di condono edilizio l’art. 31, comma 2, l. 47/1985 pone una indagine istruttoria per la verifica del requisito dell'ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono, che si sviluppa attraverso due criteri alternativi: il criterio “strutturale", che vale nei casi di nuova costruzione e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti.
Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici “ultimati”, si intendono quelli completi almeno al “rustico”. Costituisce principio pacifico che per edificio al rustico si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 16.10.1998 n. 130).
La nozione di completamento funzionale implica invece uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione. In altri termini l'organismo edilizio non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno) sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.
La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato ai predetti fini che siano state realizzate le opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14.07.1995 n. 1071), ossia quelle opere che qualifichino in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.07.2002 n. 3679) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.06.2019 n. 3696 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

maggio 2019

EDILIZIA PRIVATAGli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Invero, <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>.
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione; nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art. 21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe, necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
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In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>>.
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per ragioni tecniche.
Il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame, allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla ricorrente.

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Riguardo alla lamentata omessa comunicazione dell’avviso del procedimento, superato il datato orientamento giurisprudenziale riferito in gravame, l’orientamento giurisprudenziale in argomento è ormai costante nel ritenere che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime, hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233; TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); secondo la giurisprudenza: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Inoltre il privato non può limitarsi a dolersi genericamente della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quanto meno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737); nella specie può farsi applicazione delle disciplina prevista dall’art. 21-octies della l. n. 241/1990 che, al comma 2, prevede che i provvedimenti a carattere vincolato non sono annullabili per vizi attinenti alla violazione di norme sulla forma o sul procedimento, quando appaia evidente che il contenuto dispositivo degli stessi non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con conseguente irrilevanza di eventuali vizi di procedura rilevati da parte ricorrente.
La ratio della richiamata norma si ispira al principio di conservazione degli atti e di economia processuale, nonché ai principi di economicità ed efficienza amministrativa, posto che sarebbe inutile e dispendioso annullare un provvedimento il cui contenuto dovrebbe, necessariamente, essere riprodotto nella nuova determinazione da assumere.
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In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati. Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l'amministrazione deve senza indugio emanare l'ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve ritenersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (Consiglio di Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Consiglio Stato, sez. I, 31.08.2010, n. 3955).
Né tanto meno necessita una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cfr. ex multis, TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770).
In argomento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non priva la P.A. del potere di adottare l’ordinanza di demolizione, in quanto: <<L'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380 del 2001 (introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 d.l. 12.09.2014 n. 133), chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche -e diverse- conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo>> (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9).
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto e si presenta sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, senza la necessità di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e senza la possibilità di adottare provvedimenti alternativi, ivi comprese l’applicazione di sanzioni pecuniarie, che è evenienza configurabile unicamente in fase esecutiva dell’ordine di demolizione ed unicamente per ragioni tecniche.
Inoltre, il richiamo operato alla valutazione del Consiglio Comunale in ordine alla individuazione di eventuali interessi pubblici è inconferente nel caso di specie in quanto tale norma si riferisce alla demolizione delle opere abusive a seguito della mancata spontanea ottemperanza da parte del privato ingiunto, afferente ad una fase successiva a quella in esame, allorquando, cioè, debba farsi luogo all’esecuzione d’ufficio, a cura del Comune ed in danno ed a spese del trasgressore (<<opere per le quali il responsabile dell’abuso non ha provveduto nel termine previsto alla demolizione ed al ripristino dei luoghi>>.
Nel presente ricorso, invece, si fa questione della legittimità dell’ordinanza di demolizione adottata ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001, che, seguendo lo schema della diffida ad adempiere impone la demolizione al proprietario dell’immobile contestato, per il quale (in mancanza di formale accertamento della mancata spontanea ottemperanza) non si è ancora proceduto all’acquisizione ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001.
Infine, in presenza di un’attività doverosa di immediata applicazione della legge, alcun spazio può esservi per il principio di proporzionalità che presuppone la possibilità di scelta discrezionale in ogni caso estranea alla materia de qua; analogamente è estranea al nostro ordinamento ogni considerazione in ordine ad un eventuale “abuso di necessità” che possa scriminare il comportamento del trasgressore, come pure dedotto dalla ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione della demolizione si applica per il solo fatto della realizzazione di un’opera senza che sia stata preceduta dal rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione, il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità delle opere.
A ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere di provare la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento della loro realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede la sanatoria (con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di realizzazione dell’abuso in modo da individuare la normativa cui riferire la doppia conformità in parola).
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica sull'astratta non sanabilità.

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I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire.
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Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi.
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Giova subito evidenziare che la sanzione della demolizione si applica per il solo fatto della realizzazione di un’opera senza che sia stata preceduta dal rilascio del titolo abilitativo edilizio, indipendentemente dalla esistenza o meno della conformità urbanistica dell’intervento e, d’altronde, in mancanza del previo titolo abilitativo e prima di ingiungere la demolizione, il Comune non ha alcun obbligo di verificare d’ufficio l’astratta sanabilità delle opere; a ciò aggiungasi che in caso di richiesta di sanatoria, l’onere di provare la c.d. doppia conformità urbanistica delle opere, sia al momento della loro realizzazione che all’attualità, è a carico di colui che chiede la sanatoria (con l’ovvio corollario di provare anche l’epoca di realizzazione dell’abuso in modo da individuare la normativa cui riferire la doppia conformità in parola); nel caso di specie, parte ricorrente è limitata apoditticamente ad asserire.
All'uopo, per costante giurisprudenza, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria, che è un atto vincolato, e non è necessaria alcuna una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né alcuna verifica sull'astratta non sanabilità (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331).
Ancora parte ricorrente si interroga su come possa avere impatto negativo sull'assetto paesaggistico circostante senza minimamente valutare in via preventiva la portata specifica della consistenza e della natura delle opere realizzate in rapporto all'intero assetto paesaggistico del territorio in cui le stesse sono inserite ritenendosi, in tal modo, esentato dal dimostrare espressamente la concreta violazione del vincolo paesaggistico attraverso l'attività edilizia abusiva realizzata.
Tuttavia le argomentazioni di parte ricorrente non tengono conto che, in ragione della funzione di tutela preventiva dei valori anche di rilievo costituzionale, apprestata dal vincolo paesaggistico-ambientale, bastando l’esistenza di un pregiudizio meramente potenziale, è la sua mera apposizione che attua la predetta tutela, mentre arbitraria sarebbe ogni indagine sull’idoneità dell’opera contestata ad incidere in concreto sull’assetto paesaggistico circostante in argomento anche la giurisprudenza di questa Sezione avendo già rilevato che: <<I provvedimenti repressivi di abusi edilizi non abbisognano di una specifica e diffusa motivazione, bastando al riguardo un ampio riferimento alle norme violate, nonché un adeguato e analitico richiamo di tutti i vincoli, paesaggistico-ambientali e di rischio sismico, nonché del fondamentale e corretto assunto circa l'insussistenza di un permesso di costruire>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 22/10/2015, n. 4968).
Il territorio del Comune di Torre del Greco è assoggettato (tra gli altri) al “vincolo idrogeologico di cui all’art. 1 del R.D. 30.12.1923, n. 3267 per le parti di bacino idrogeologico dei lagni vesuviani” e, pertanto, è obbligatorio ottenere lo svincolo idrogeologico dell’area per poter acquisire il permesso di costruire, mentre, nel caso di specie, il ricorrente ha totalmente omesso di acquisire qualsiasi titolo edilizio e nulla osta presupposto la qual cosa rende abusive le opere realizzate.
Pertanto la demolizione di nuove opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica in zone vincolate si presenta come doverosa sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede le sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
...
Invero, nel provvedimento impugnato l'Amministrazione comunale, conformemente a quanto ampiamente affermato in giurisprudenza, attraverso il provvedimento gravato, ha fornito un'ampia e puntuale descrizione degli abusi perpetrati sul suolo de quo, indicando nel contempo anche i parametri normativi di riferimento; trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ordine di demolizione, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi (TAR Campania Napoli, sez. IV, 23.04.2015, n. 2309; sez. VII, 03.03.2009, n. 1209)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2019 n. 2879 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa legislazione statale in materia di condono presuppone la permanenza dell’opera da condonare nel corso del procedimento di condono.
In pendenza di tale procedimento, sono ammessi solo lavori di completamento dell’opera stessa, come risulta dalla chiara formulazione dell’art. 35, comma 12, della l. n. 47/1985. Non è invece ammissibile la sua sostituzione con un nuovo manufatto, anche se identico dal punto di vista volumetrico, della sagoma e della superficie.
Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati nella domanda di condono”.
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per volontà del suo titolare.
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova edificazione richiedente nuovo titolo edilizio.
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6. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
In merito alla rovina, documentata in atti, dei manufatti oggetto dei procedimenti di condono, il Collegio osserva che la legislazione statale in materia di condono presuppone la permanenza dell’opera da condonare nel corso del procedimento di condono. In pendenza di tale procedimento, sono ammessi solo lavori di completamento dell’opera stessa, come risulta dalla chiara formulazione dell’art. 35, comma 12, della l. n. 47/1985. Non è invece ammissibile la sua sostituzione con un nuovo manufatto, anche se identico dal punto di vista volumetrico, della sagoma e della superficie. Dunque, il condono può essere disposto solo per “i manufatti considerati nella loro consistenza oggettiva alla data di riferimento, per come indicati nella domanda di condono” (Cons. Stato, sez. VI, n. 4954/2018, cit.).
In ogni caso, con riferimento alle fattispecie di rovina e integrale demolizione di un manufatto legittimamente assentito, evocate dall’appellante, va precisato che, poiché in questi casi viene meno l’esistenza del manufatto medesimo, viene meno anche l’efficacia della originaria concessione, non importando se la rovina sia avvenuta o meno per volontà del suo titolare (Cons. St. sez. V, 23.03.2000, n. 1610; sez. IV, 21.10.2008, n. 5162; CGARS, ad. sez. riun., 11.11.2014, n. 1229).
Ciò anche in caso di ristrutturazione edilizia, dato che essa postula la preesistenza del manufatto da ristrutturare, trattandosi altrimenti di nuova edificazione richiedente nuovo titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV 13.10.2010, n. 7476 e sez. V, 08.03.2011, n. 1452) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 28.05.2019 n. 3471 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere stagionali, ancorché la loro costruzione venga rinnovata nel tempo, non possano considerarsi precarie.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in modo da poter essere agevolmente rimossa.
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La giurisprudenza è concorde nel ritenere che il carattere stagionale dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell’attività e dell’opera a ciò necessaria.
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Il manufatto in questione (
manufatto in legno adibito a bar delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di circa mt 6.00), quand’anche fosse strutturalmente amovibile, deve essere considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, un intervento di nuova costruzione che ai sensi dell’art. 10 dello stesso decreto necessita di permesso di costruire e, di converso, se realizzato in assenza del permesso di costruire, se ne deve ordinare la demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
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L
a natura abusiva dall’opera comporta l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento tutelabile sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il legislatore stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio –interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.

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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione e di rimessa in pristino del 03.05.2018 prot. n. 1338, notificata il successivo 08.05.2018 con la quale il Comune di Campotosto ha ordinato al sig. Le.Gi. nato a L'Aquila il ... residente a Campotosto in frazione Mascioni, via ... n. 62 c.f. ..., di demolire ovvero rimuovere, entro 90 giorni dalla data di notifica del presente provvedimento, il manufatto in legno adibito a bar delle dimensioni di mt 3.00 x mt 3.00 e di altezza di circa mt 6.00 sito il località “Ponte stecche” sul terreno riportato in catasto al n. 299 e 300 del foglio 40 del Comune di Campotosto.
...
Il ricorrente riferisce di essere comodatario avente causa dalla società ENEL S.p.a. della particella n. 299 del foglio 40 del catasto terreni del Comune di Campotosto, sulla quale nel 2013 ha realizzato e recintato un manufatto amovibile in legno per l’esercizio di attività stagionale di somministrazione di alimenti e bevande, segnalata al Comune di Campotosto con successive SCIA.
Con due motivi del ricorso in decisione Gi.Le. impugna l’ordinanza con la quale il Comune di Campotosto gli ha intimato la demolizione del manufatto in quanto abusivo.
...
Il ricorso è infondato.
La natura precaria del manufatto va intesa, ai fini dell’identificazione del relativo regime abilitativo edilizio, non tanto e non solo con riferimento alla consistenza strutturale e dell’ancoraggio al suolo dei materiali di cui si compone, ma in termini funzionali, ovvero occorre accertare se si tratta di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in modo da poter essere agevolmente rimossa.
L’opera, di superficie pari a nove metri quadrati e altezza di m. 2.50 (così descritta nel provvedimento impugnato), serve per la vendita stagionale di generi alimentari e dal 2013 occupa lo stesso sedime del quale il ricorrente riferisce di poter disporre a titolo di comodato.
Tuttavia il nulla osta dell’Ente parco, che il ricorrente indica a sostegno della legittimità del manufatto, ha validità permanente, a dimostrazione del fatto che si tratta di un’opera destinata ad un uso, non già provvisorio, né connesso ad esigenze contingenti, ma destinato a rinnovarsi annualmente in primavera, come si evince dalle SCIA commerciali che ininterrottamente, dal 2013 al 2015, il ricorrente ha presentato al Comune di Campotosto.
In proposito va osservato che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il carattere stagionale dell’uso del manufatto non implica la provvisorietà dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove si svolge, anzi il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell’attività e dell’opera a ciò necessaria (Consiglio di stato, sez. 6, 21.02.2017, n. 795; Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n. 2842; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 13.03.2017 n. 409; Cass. pen. sez. III, 30.06.2016 n. 36107).
Non ricorre poi la deroga prevista dall’art. 3, comma 1, lettera e.5), del d.P.R. n. 380/2001 che esonera dal preventivo rilascio del permesso di costruire i manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, che di norma vi sono soggetti, quando essi siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
Il ricorrente, che a detta deroga fa espresso riferimento, non prova però che il manufatto in questione sia ricompreso in una struttura ricettiva all’aperto, ma si limita ad allegare di essere titolare di un contratto di gestione decennale dell’area comunale di sosta per camper allestita su aree identificate da particelle catastali diverse da quelle sulle quali insiste il manufatto in legno.
Peraltro si evince agevolmente dalla consultazione per via telematica del “Geoportale cartografico catastale dell’Agenzia delle Entrate”, liberamente accessibile, che le particelle nn. 226, 227 e 751 di sedime dell’area di sosta non sono neppure contigue alla particella n. 300 sulla quale -come asserito dal Comune e non contestato dal ricorrente– insiste quasi per intero il chiosco da questi realizzato.
Ne consegue che, come correttamente osservato dal Comune, il manufatto in questione, quand’anche fosse strutturalmente amovibile, deve essere considerato, ai sensi dell’art. 3, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, un intervento di nuova costruzione che ai sensi dell’art. 10 dello stesso decreto necessita di permesso di costruire e, di converso, se realizzato in assenza del permesso di costruire, se ne deve ordinare la demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre l’ordinanza di demolizione fa espresso rinvio all’art. 35 del d.P.R. n. 380/2001 sul presupposto, parimenti incontestato, che il manufatto insiste in gran parte su suolo di proprietà del Comune su suolo demaniale, indisponibile da parte di soggetti diversi dall’Ente proprietario se non per atto di concessione.
Sul punto, che smentisce la legittimazione asserita del ricorrente a conseguire un titolo abilitativo sul presupposto che abbia la disponibilità del suolo ove insiste il manufatto, il ricorrente non muove alcuna censura.
Non ha alcuna rilevanza poi il fatto che l’Ente Parco nazionale “Gran Sasso e Monti della Laga” abbia rilasciato il nulla osta permanente alla realizzazione dell’opera in quanto ogni intervento realizzato su area soggetta a vincolo paesaggistico è soggetta al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica regionale o del Comune, eventualmente a tal fine delegato, anche se trattasi di opera temporanea, precaria e amovibile.
Lo si evince a contrario dall’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 che elenca le opere che non necessitano dell’autorizzazione, fra le quali non figura la tipologia cui è riconducibile il manufatto in questione.
Quanto detto esclude che le segnalazioni rivolte al Comune dal ricorrente d’inizio attività edilizia o commerciale possano aver, da un lato, legittimato la realizzazione del fabbricato e, dall’altro, aver determinato un affidamento incolpevole sulla conformità dello stesso al regime edilizio vigente.
Sotto il primo profilo è evidente che l’ordine di demolizione non implica l’annullamento in autotutela –tanto meno tardivo per decorso del termine di cui all’art. 21-nonies- di un precedente titolo edilizio d’iniziativa privata per l’evidente ragione che la presentazione di una DIA o SCIA non produce alcun effetto se ha ad oggetto un l’intervento che, come in specie, deve essere assentito con permesso per costruire.
Ne consegue, sotto il secondo profilo, la natura abusiva dall’opera e l’impossibilità di riconoscere in capo all’autore un affidamento tutelabile sulla presunta conformità di essa alla legge, avendo il legislatore stabilito, senza spazio per valutazioni discrezionali in sede amministrativa, che l’interesse alla conservazione dell’abuso edilizio –interesse di mero fatto poiché ha titolo in una attività illecita- non è meritevole di alcuna tutela come non può esserlo l’ignoranza del disvalore giuridico di un’azione contraria alla legge.
Occorre infine ribadire che gli abusi edilizi sono considerati una lesione permanente dei valori ambientali e della funzione di governo del territorio con la conseguenza che la vigilanza e i connessi poteri sanzionatori costituiscono attività vincolata finalizzata a ripristinare le condizioni ambientali alterate dagli abusi nell’esercizio del potere repressivo di cui agli articoli 27 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001 (Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9).
Il primo motivo pertanto è respinto.
Proprio la natura vincolata dell’attività di repressione degli abusi edilizi, comporta poi che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non ha alcun effetto invalidante del provvedimento conclusivo ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
Anche il secondo motivo pertanto è respinto (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 27.05.2019 n. 273 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
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9. Con i primi due motivi l’appellante afferma che la sentenza di primo grado non avrebbe tenuto conto della vetustà delle opere contestate anche con riferimento al legittimo affidamento che si sarebbe determinato.
Le censure non sono fondate in ragione della non sanabilità degli abusi per la violazione della normativa sulle distanze.
L’Adunanza plenaria n. 9 del 2017, infatti, ha stabilito (confermando l’orientamento prevalente della giurisprudenza risalente) che «il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino».
Conseguentemente, deve essere respinta anche l’istanza istruttoria di consulenza tecnica (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 23.05.2019 n. 3367 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si lamenta che l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio come “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un’ampia motivazione”.

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8.3. Infondato è anche il terzo mezzo, col quale, nel reiterare la corrispondente censura di primo grado (pagina 10 dei motivi aggiunti), si lamenta che l’emissione dell’ordine demolitorio non sarebbe stata preceduta dalla necessaria partecipazione procedimentale.
La censura è disattivata nella sua auspicata portata patologica per la considerazione che la sanzione demolitoria, avendo carattere vincolato, non rientra nell’orbita applicativa del principio di partecipazione procedimentale.
Ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595, nonché Cons. Stato n. 2799/18), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un’ampia motivazione”.
Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale, le osservazioni presentate dall’appellante avverso l’ordinanza di demolizione riproponevano sostanzialmente argomenti già confutati dall’Amministrazione con il diniego di condono, osservazioni che, quindi, non hanno imposto all’Amministrazione di ripercorrere anche nella (consequenziale) ordinanza di demolizione quanto già controdedotto nel precedente diniego.
Dagli atti di causa è peraltro dato rilevare che, a seguito del diniego di condono del 30.05.2007, il Comune di Seregno ha comunicato al signor Lu. Di Na. l’avviso di avvio procedimentale del 28.05.2008, a seguito del quale questi ha fatto pervenire, in data 01.07.2008, le sue controdeduzioni a proposito delle quali l’Amministrazione, nel corpo dell’ingiunzione a demolire, evidenzia che “quanto osservato non trova riscontro negli atti d’ufficio e nella documentazione depositata presso questa Amministrazione”.
Da tale sia pur sintetica locuzione si evince che l’Amministrazione si è soffermata sul contributo partecipativo reso dal destinatario del provvedimento demolitorio
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 3208 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza all’ordine di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU Edilizia.
In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione nei registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo, una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e indicato nel provvedimento di demolizione
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Il verbale d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto”.
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l’inadempimento dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando l’adempimento della notificazione all’interessato dell’accertamento formale dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell’acquisizione”.
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Nella disciplina statale non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost..
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.
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9. L’appello è infondato.
9.1. I rilievi sollevati col gravame in esame impingono nella stessa dinamica del procedimento sanzionatorio innescato dall’esecuzione di opere edilizie abusive, evidenziandosi che la contestazione circa la legittimazione passiva rispetto all’atto che dispone l’acquisizione dell’abuso al patrimonio indisponibile del Comune non postula l’efficace impugnativa della previa ordinanza demolitoria.
Invero, l’appellante avversa il passaggio della motivazione dell’impugnata sentenza, col quale il giudice di prime cure ha evidenziato la natura automatica dell’effetto acquisitivo alla scadenza del termine per l’esecuzione della sanzione demolitoria, che è stata sì impugnata dall’appellante ma con ricorso dichiarato improcedibile dal Tribunale con la sentenza n. 264 cit..
9.2. Per vero, questo Consiglio ha ribadito, di recente, che l’effetto acquisitivo si produce automaticamente al decorso del termine di 90 giorni previsto per l’esecuzione della demolizione e che il verbale che attesta l’inottemperanza all’ordine demolitorio non è suscettibile di autonoma impugnativa.
Per il primo profilo si è infatti osservato che: “La giurisprudenza sul punto è concorde nel ritenere che l’ingiustificata inottemperanza all’ordine di demolizione comporti l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del TU Edilizia. In base al comma 4 della stessa disposizione, l’accertamento di tale inottemperanza è necessario unicamente per provvedere all’iscrizione nei registri immobiliari ed all’immissione nel possesso, per cui il relativo atto ricognitivo è normativamente configurato come un atto avente natura meramente dichiarativa, finalizzato al limitato scopo di esternare e formalizzare l’acquisto a titolo originario della proprietà in capo all’amministrazione, che si è già prodotto per il mero decorso del tempo, una volta che sia venuto a scadenza il termine previsto dalla legge e indicato nel provvedimento di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2015 n. 1884)” (cfr. sentenza Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2019, n. 398).
Per il secondo aspetto, questo Consiglio ha rilevato che il verbale d’inottemperanza non è impugnabile, in quanto “Il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell’area di sedime debbono considerarsi consequenziali, connessi e conseguenti all’ordine di demolizione delle opere e ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili, in mancanza di impugnazione dell’atto con cui si ingiunge la demolizione o di irricevibilità dell’impugnazione tardivamente proposta avverso tale atto” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.07.2018, n. 4479).
La notificazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, inoltre, “non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l’inadempimento dell’ordine di demolizione, non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell’abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l’acquisizione gratuita, rilevando l’adempimento della notificazione all’interessato dell’accertamento formale dell’0inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all’ente l’immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell’acquisizione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.05.2014, n. 2368).
Vale quindi il principio, confermato di recente da questo Consiglio, secondo cui “Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio. La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost.. E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere ‘personale’ ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2017, n. 3366; Cons. Stato, sez. VI, 15.04.2015, n. 1927).
Alla luce dell’orientamento assunto da questo Consiglio, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, le critiche sollevate dall’appellante non sono in grado di superare le statuizioni in rito contenute nell’impugnata sentenza, aventi effetto preclusivo all’indagine del merito del ricorso, che pertanto vanno in questa sede confermate (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 3207 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione accessorio alla condanna penale per reati edilizi - Riesame in sede esecutiva - Pendenza di un procedimento amministrativo - Sospensione o revoca - Presupposti - Bilanciamento di interessi - Fattispecie - Art. 31 d.P.R. 380/2001.
L'ordine di demolizione accessorio alla condanna penale per reati edilizi, insuscettibile di passare in giudicato, è riesaminabile in sede esecutiva ove può essere revocato in presenza di determinazioni della autorità o giurisdizione amministrativa incompatibili con l'abbattimento del manufatto oppure può essere sospeso quando sia ragionevolmente prevedibile, in base a elementi concreti, che un tale provvedimento sarà adottato in breve arco temporale.
Mentre la revoca, (che si fonda sul sopravvenire di legittimi provvedimenti amministrativi che siano assolutamente incompatibili con l'ordine stesso o per aver conferito all'immobile altra destinazione o per essersi proceduto alla regolarizzazione postuma di opere che, pur non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui vennero eseguite, lo siano divenute solo successivamente), nel caso di specie, non è configurabile in difetto di provvedimenti incompatibili con l'ordine di demolizione impartito ai ricorrenti, la pendenza di un procedimento amministrativo per il conseguimento di un titolo concessorio in sanatoria non è invece di ostacolo, in astratto, ad un provvedimento di sospensione, dovendosi tuttavia a tal fine contemperare due interessi, tra loro configgenti, ed entrambi meritevoli di protezione: quello pubblico alla tutela del territorio con la rapida riparazione del bene violato e quello del privato ad evitare un danno irreparabile in presenza di una situazione giuridica che potrebbe evolversi a suo favore.
Fattispecie: abuso edilizio consistito nella realizzazione, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione della Soprintendenza su un'area soggetta a vincolo paesaggistico con contestuale violazione della normativa per le costruzioni in cemento armato ed in zona sismica.

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Reati urbanistici - Ordine di demolizione - Istanza di condono o di sanatoria - Passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Richiesta di revoca o sospensione - Riesame in sede esecutiva - Poteri e verifiche del giudice dell'esecuzione.
In materia di reati urbanistici, in presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di revoca o sospensione dell'ordine di demolizione di opere accertate come abusive, è tenuto ad una attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in particolare:
   a) a verificare il possibile risultato dell'istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento;
   b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2019 n. 21383 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAa) per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
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   b) per la costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza e, quindi, in ultima analisi, della sua sanabilità, incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge;
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   c) la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova;
   d) spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo all'amministrazione.
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Va inoltre osservato che:
   a) per pacifica giurisprudenza l'applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato: presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del necessario titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l'accertamento dell'abuso e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico che è in re ipsa;
   b) per la costante giurisprudenza in materia (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Sez. IV, 10.01.2014 n. 46 e 14.02.2012 n. 703; Cons. Stato, Sez. V, 20.08.2013 n. 4182; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2013 n. 6159 e 01.02.2013 n. 631), l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio della sua consistenza e, quindi, in ultima analisi, della sua sanabilità, incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge;
   c) si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell'onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova;
   d) tali principi sono stati ancora di recente ribaditi dalla Sezione (Cons. Stato, Sez. VI, 19.10.2018 n. 5984: “Spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo all'amministrazione”) e da essi il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.05.2019 n. 3133 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAA) ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”.
   B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti”.
   C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come, per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in violazione del norme edilizie come è stato evidenziato dalla sentenza che qui viene appellata e come è confermato dall’esame della documentazione depositata (anche) nella sede di appello, è ammessa l'adozione dell'ordinanza di demolizione.
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8. – Quanto poi alle rimanenti censure (ri)proposte nei motivi di appello, non resta che rammentare che:
   A) ai sensi dell'art. 37, ult. comma, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “la mancata denuncia di inizio dell'attività non comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 44. Resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”.
   B) secondo la costante giurisprudenza, “in presenza di abusivismo edilizio, ai sensi degli artt. 22 e 37, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), l'applicabilità della sanzione pecuniaria è limitata ai soli interventi astrattamente realizzabili previa denuncia d'inizio attività che siano, altresì, conformi agli strumenti urbanistici vigenti” (così Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2013 n. 2873);
   C) pertanto, laddove manchino i presupposti per l'intervento, come, per l'appunto, nel caso in cui l'opera sia stata posta in essere in violazione del norme edilizie come è stato evidenziato dalla sentenza che qui viene appellata e come è confermato dall’esame della documentazione depositata (anche) nella sede di appello, è ammessa l'adozione dell'ordinanza di demolizione.
Da ciò ne consegue che, sebbene l'intervento in esame possa dirsi sottoposto a DIA, lo stesso, in ragione della descritta contrarietà alla normativa comunale (per quanto si è sopra detto e quindi che l’opera in concreto realizzata non può considerarsi organismo edilizio completamente interrato, come invece il proprietario aveva rappresentato di voler realizzare presentando la d.i.a iniziale e quella in variante e che la predetta opera è stata costruita grazia ad un innalzamento del piano di campagna oltre i limiti consentiti dall’art. 4, comma 3, punto 5, delle N.T.A. al vigente P.R.G.), rientra nelle ipotesi eccezionali che, in considerazione della gravità dell'illecito, giustificano l'adozione della massima sanzione della demolizione, così derogando alla regola che prevede per tali casi l'applicazione della sola sanzione pecuniaria (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.05.2019 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' infondato l’argomento con cui si censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione comunale nella valutazione della difformità delle opere realizzate rispetto al titolo edilizio.
Per sua natura tale attività non ha carattere discrezionale, essendo limitata ad un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
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Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che “le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg., l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla concreta portata del provvedimento finale”.
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.
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Anche l’argomento con cui si censura l’esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione comunale nella valutazione della difformità delle opere rispetto al titolo edilizio è infondato. Per sua natura tale attività non ha carattere discrezionale, essendo limitata ad un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 29.03.2019, n. 2086).
Il motivo d’appello relativo alla violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 è infondato.
Questo Consiglio ha chiarito, con un orientamento da tempo consolidato, che “le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg., l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento non va inteso in senso formalistico, ma risponde all’esigenza di provocare l’apporto collaborativo da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla concreta portata del provvedimento finale” (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 13.08.2018, n. 4918).
Infatti, l’ingiunzione di demolizione costituisce un provvedimento dovuto e vincolato, finalizzato a sanzionare la costruzione di opere realizzate senza il prescritto titolo edilizio e, ai fini della sua adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario; essi, comunque, nella fattispecie, non avrebbero potuto far venire meno la circostanza che le opere erano state realizzate senza il necessario titolo (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.05.2019 n. 3057 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Ampliamento di un fabbricato - Concetto urbanistico di pertinenza - Giurisprudenza - Manufatto distinto e separato da quello principale - Asservimento - Fattispecie: costruzione di un nuovo vano in adiacenza alla preesistente abitazione - Permesso di costruire - Art. 3, 10, 36, 44, 45, 71 e ss. 83, 93, 95, d.P.R. 380/2001 (T.U.E.).
In materia di reati edilizi, l'ampliamento di un fabbricato preesistente non può considerarsi pertinenza, ma parte integrante dell'edificio e privo di autonomia rispetto ad esso, perché, una volta realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato (Sez. 3, n. 4139/2018).
La pertinenza, richiede che si tratti di un manufatto distinto e separato da quello principale a cui è asservito, essendovi in caso contrario ampliamento dell'edificio che, laddove avvenga «all'esterno della sagoma esistente» è da considerarsi intervento di nuova costruzione ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1), T.U.E., assoggettato a permesso di costruire ai sensi del successivo art. 10, comma 1, lett. a). Per questo la giurisprudenza ha sempre ritenuto necessario detto provvedimento (o la previgente concessione edilizia) nel caso, ad es., di trasformazione di balconi in verande (Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 2014, Summa), di tettoie realizzate sul lastrico solare (Sez. 3, n. 21351/2010, Savino), di porticato addossato ad un fabbricato (Sez. 3, n. 33657/2006, Rossi).
Nella specie, l'ampliamento dell'edificio residenziale in questione con costruzione di un nuovo vano in adiacenza alla preesistente abitazione -vano che al momento del sopralluogo era destinato a cucina- esclude la possibilità di invocare il concetto urbanistico di pertinenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.05.2019 n. 19196 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine alla questione relativa alla prova della data di ultimazione dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori>>.
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Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria>>.
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione>>.

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Al riguardo, in ordine alla questione relativa alla prova della data di ultimazione dell’opera per la quale viene chiesto il condono, occorre rammentare l’insegnamento secondo il quale <<incombe su chi richiede di beneficiare di un condono edilizio l'onere di provare che l'opera è stata realizzata in epoca utile per fruire del beneficio, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista. Anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla legge, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull'epoca dell'abuso, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori>> (C. Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4168).
Con riguardo alla specifica questione della rilevanza della “dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”, quanto appena ricordato trova conferma nelle ulteriori pronunce che hanno sottolineato come <<…né una mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà può rappresentare una prova esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella dichiarata dall'interessato. Ne consegue che, di fronte a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione del manufatto, in difetto dei quali resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria>> (TAR Campania, sez. III, 10/07/2018, n. 4579; nello stesso senso, TAR Sardegna, sez. II, 06/06/2018, n. 550).
Ancora, <<nel processo amministrativo non è utilizzabile la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 63, comma 3, c.p.a., in forma scritta, ai sensi del codice di procedura civile), non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione>> (C. Stato, sez. IV, 22/08/2018, n. 5030)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 06.05.2019 n. 409 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Preavviso di rigetto nel procedimento di sanatoria.
L’istituto del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis legge n. 241/1990 si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo.
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.. per l'annullamento:
   - della ordinanza n. 3 in data 14.02.2017, Prot. n. 625, notificata in data 16.02.2017, con la quale il Responsabile dell'Area Tecnica comunale ha ingiunto di provvedere alla demolizione del “… fabbricato adibito a garage di superficie pari a mq 48,90 utili in lato nord del confine stradale";
   - di ogni altro atto presupposto, preordinato, connesso e/o, comunque, consequenziale, ivi inclusi la comunicazione di avvio del procedimento n. Prot. 585 in data 23.02.2016, il verbale di sopralluogo in data 28.05.2016, nonché la nota in data 07.02.2017 con la quale il Responsabile dell'Area Tecnica, “… preso atto della difformità dell'opera realizzata rispetto alla comunicazione n. 1848 in data 21.07.2015 (formazione di pergolato in legno) ed in totale assenza del Permesso di costruire …”, ha comunicato la “…non procedibilità della soluzione proposta in quanto l'area su cui sorge il fabbricato oggetto di contestazione è inibita all'edificazione…”.
...
Risulta, innanzitutto, fondata la censura, di carattere formale, di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, in relazione all’adozione della nota comunale del 02.07.2017.
Invero, l’istituto del preavviso di rigetto di cui al succitato art. 10-bis si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n. 2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n. 797; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n. 2137).
La comunicazione comunale del 02.07.2017 è, dunque, illegittima, e va annullata, non essendo stata data la possibilità alla ricorrente di partecipare al procedimento al fine di fornire il proprio apporto collaborativo, esponendo le ragioni a sostegno della propria domanda (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.05.2019 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

aprile 2019

EDILIZIA PRIVATA: Violazione sostanziale e/o formali in materia antisismica - Omessa denuncia lavori in zona sismica - Configurabilità del reato - Zona inclusa tra quelle a basso indice sismico - Violazione delle prescrizioni tecniche antisismiche - Decorrenza del termine di prescrizione - Giurisprudenza - Artt. 44, 83, 93 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del d.P.R. n. 380/2001, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime (Sez. 3, n. 30651/2017, Rubini; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Marini).
Quanto al reato di cui all'art. 95, d.P.R. n. 380 del 2001, la decorrenza iniziale del termine di prescrizione è stata variabilmente risolta a seconda che sia contestata la violazione sostanziale delle prescrizioni tecniche in materia antisismica (nel qual caso la permanenza ha termine con la cessazione dei lavori; cfr. Sez. Un., n. 18 del 23/07/1999, Lauriola; Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro) o, come nel caso di specie, che vengano contestate le violazioni formali della omessa denunzia dei lavori e/o dell'omesso deposito dei progetti (nel qual caso si registra un contrasto di giurisprudenza tra chi ritiene la natura istantanea del reato - Sez. Un., n. 18/1999; Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano; Sez. 3, n. 23656 del 26/05/2011, Armatori -e chi, invece, ne afferma la natura permanente con cessazione alla data di adempimento degli obblighi formali ovvero di cessazione dei lavori- così, da ultimo, Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014, Petrolo; Sez. 3, n. 1145 del 08/10/2015, Stabile; Sez. 3, n. 2209 del 03/06/2015, Russo).

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Costruzione abusiva - Reato di natura permanente - Decorrenza e cessazione della permanenza - Edificio concretamente funzionale - Provvedimento di sequestro.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale esaurimento dell'attività illecita e, quindi:
   a) quando siano terminati i lavori di rifinitura
(Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, secondo cui deve ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali);
   b) ovvero, se precedente, con il provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.04.2019 n. 17701 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata dell’amministrazione, con la conseguenza che l’eventuale mancata partecipazione del privato al relativo procedimento non consente in ogni caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art. 21-octies della legge 241/1990.
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10 – Deve essere rigettato anche il motivo con il quale si lamenta l’omissione degli adempimenti partecipativi di cui alla legge 241/1990.
Invero, per quanto attiene a quest’ultima violazione procedimentale, va ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata dell’amministrazione, con la conseguenza che l’eventuale mancata partecipazione del privato al relativo procedimento non consente in ogni caso di pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art. 21-octies della legge 241/1990 (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 734 del 2014; Cons. St., sez. V, n. 3337 del 2012; Cons. St., sez. V, n. 4764/2011)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.04.2019 n. 2581 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

marzo 2019

EDILIZIA PRIVATA: Sulla responsabilità del direttore dei lavori.
Il d.P.R. 380/2001 individua, nell'articolo 29, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni della normativa urbanistica.
Tali soggetti, indicati nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono infatti ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Il direttore dei lavori ha dunque, per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere ed il riferimento, contenuto dalla norma, al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso secondo i principi generali del diritto penale in materia di concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori non viene meno neppure nel caso in cui si assuma il carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti normativi e regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al Comune, ovvero nel caso in cui il soggetto che assume la direzione dei lavori sia sfornito di idoneo titolo professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo, di fatto, alla realizzazione dell'opera abusiva.
La giurisprudenza di questa Corte ha pure ritenuto la responsabilità del direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante controllo sullo svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato, nel caso in cui si disinteressi dell'esecuzione delle opere edilizie poste in essere in difformità del provvedimento autorizzatorio o le stesse vengano realizzate autonomamente da altri a sua insaputa o in sua assenza.
Il menzionato art. 29 d.P.R. 380/2001 prevede tuttavia, al secondo comma, un esonero di responsabilità del direttore dei lavori qualora egli, come ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte:
   - abbia contestato al titolare del permesso di costruire, al committente ed al costruttore la violazione delle prescrizioni del provvedimento amministrativo;
   - abbia fornito contemporaneamente all'Amministrazione comunale motivata comunicazione della violazione stessa e,
   - nelle ipotesi di totale difformità o di variazione essenziale, abbia altresì rinunziato contestualmente all'incarico, sempre che il recesso sia tempestivo, quando, cioè, intervenga non appena l'illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui impartite siano state disattese o violate.

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Valgono, con riferimento al primo motivo di ricorso, le considerazioni già svolte sulla illiceità della procedura seguita per il rilascio del titolo abilitativo e la conseguente abusività dell'intervento, aggiungendo che il motivo di ricorso presenta un ulteriore profilo di inammissibilità, rappresentato dalla prospettazione di plurimi argomenti in fatto non proponibili in questa sede.
Occorre parimenti richiamare quanto in precedenza osservato con riferimento all'elemento soggettivo della contravvenzione contestata, rilevando che anche questo ricorrente, rivestendo la qualifica, indicata nel capo di imputazione, di direttore dei lavori, non poteva sottrarsi agli specifici obblighi impostigli dalla legge.
Deve infatti ricordarsi che il d.P.R. 380/2001 individua, nell'articolo 29, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni della normativa urbanistica. Tali soggetti, indicati nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono infatti ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Il direttore dei lavori ha dunque, per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere ed il riferimento, contenuto dalla norma, al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso secondo i principi generali del diritto penale in materia di concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori non viene meno neppure nel caso in cui si assuma il carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti normativi e regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al Comune (così, Sez. 3, n. 10131 del 27/06/1995, PM. in proc. Solano, Rv. 203087. Conf. Sez. 3, n. 460 del 25/11/1997 (dep. 1998), P.M. in proc. Positano, Rv. 209252), ovvero nel caso in cui il soggetto che assume la direzione dei lavori sia sfornito di idoneo titolo professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo, di fatto, alla realizzazione dell'opera abusiva (Sez. 3, n. 8631 del 24/06/1988, Dapaz, Rv. 179018).
La giurisprudenza di questa Corte ha pure ritenuto la responsabilità del direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante controllo sullo svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato (Cass. Sez. 3, n. 36567 del 08/07/2008, Aliquò, non massimata), nel caso in cui si disinteressi dell'esecuzione delle opere edilizie poste in essere in difformità del provvedimento autorizzatorio (Sez. 3, n. 38924 del 07/11/2006, Pignatelli, Rv. 235465) o le stesse vengano realizzate autonomamente da altri a sua insaputa (Sez. 3, n. 4328 del 20/12/2005 (dep. 2006), Balducci ed altro, Rv. 233302) o in sua assenza (Sez. 3, n. 22867 del 11/05/2005, Battistella, Rv. 231945).
Il menzionato art. 29 d.P.R. 380/2001 prevede tuttavia, al secondo comma, un esonero di responsabilità del direttore dei lavori qualora egli, come ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 23198 del 17/3/2009, Coluccelli, non massimata):
   - abbia contestato al titolare del permesso di costruire, al committente ed al costruttore la violazione delle prescrizioni del provvedimento amministrativo;
   - abbia fornito contemporaneamente all'Amministrazione comunale motivata comunicazione della violazione stessa e,
   - nelle ipotesi di totale difformità o di variazione essenziale, abbia altresì rinunziato contestualmente all'incarico, sempre che il recesso sia tempestivo, quando, cioè, intervenga non appena l'illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui impartite siano state disattese o violate
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di un abuso edilizio in un Parco, in seguito all'inottemperanza all'ordine di demolizione e riduzione in pristino, l'Ente Parco acquisisce di diritto il manufatto abusivo e, quindi, non serve intervento del Comune.
Non è configurabile il difetto assoluto di attribuzione quando l’Ente gestore di aree naturali protette abbia emesso un provvedimento di demolizione delle opere ivi abusivamente realizzate, e successivamente, di fronte all’inottemperanza dello stesso, ne abbia disposto l’acquisizione, ponendosi, semmai, un problema di competenza concorrente con quella comunale, dunque una questione di legittimità dell’atto impugnato e non già di nullità.
Nel caso di abuso edilizio nell’area protetta rappresentata da un parco nazionale, le sanzioni sono le stesse quanto al contenuto, ma si deve tener conto delle disposizioni speciali (art. 29, comma 1, l. 394/1991) che prevedono la potestà del medesimo Ente di prevenire e di reprimere gli abusi edilizi, e di sanzionarli.
Nonostante il disposto dell’art. 31, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 preveda, nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, l’acquisizione dell’opera a favore dell’amministrazione competente alla vigilanza, prevale la disciplina speciale di settore, antecedente e successiva a quella generale, che prevede l’accentramento dell’effetto della acquisizione gratuita in capo all’ente gestore, risolutiva, peraltro, delle questioni di coordinamento tra i Comuni i cui territori facciano parte del parco
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
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... per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sede di Napoli, n. 3819/2017.
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1 – Gli appellati sono proprietari di un fabbricato sito nel comune di Somma Vesuviana, in via ..., rispetto al quale è stato emesso il provvedimento n. 41 del 2012 dell’Ente Parco del Vesuvio, che ha ingiunto la demolizione delle opere ivi abusivamente realizzate (foglio 22, particelle 1073 e 1076).
2 – Quindi, l’Ente Parco Nazionale del Vesuvio, stante l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, ha notificato in data 27.02.2017 il provvedimento n. 318 del 26.09.2016 di acquisizione dell’area ed ha disposto che i responsabili gli corrispondano una indennità mensile di occupazione senza titolo.
3 – Tale provvedimento è stato impugnato avanti il TAR per la Campania che, con la sentenza n. 3819 del 2017, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sulla contestazione relativa all’indennità di occupazione ai sensi dell’art. 11 c.p.a. ed inammissibile il ricorso contro il provvedimento di acquisizione, ritenendo che l’Ente avesse agito in difetto assoluto di attribuzione, in quanto il potere di dichiarare l’acquisizione gratuita spetterebbe al comune nel cui territorio l’opera abusiva si trova.
Più precisamente, ad avviso del giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dell'art. 29 della l. 06.12.1991, n. 394, e dell'art. 1, comma 1104, della l. 27.12.2006, n. 296, l'Ente gestore di un'area protetta avrebbe il potere di ingiungere la demolizione e la riduzione in pristino di opere abusive, ma in caso di inottemperanza a tali ordini non sarebbe titolare del potere di dichiarare l'acquisizione gratuita delle opere al proprio patrimonio, al fine di procedere alla immissione in possesso e alla trascrizione. Da ciò discenderebbe la nullità assoluta dall’atto impugnato per difetto del potere amministrativo ai sensi dell’art. 7 c.p.a.
4 – Con l’appello in esame, l’Ente Parco contesta quest’ultimo capo della sentenza, mentre non ha svolto alcun motivo di impugnazione avverso il capo della sentenza che ha dichiarato di difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 11 c.p.a. rispetto al motivo con cui si contestava la determinazione dell’indennità di occupazione, che pertanto è passato in giudicato.
4.1 – Rispetto agli argomenti valorizzati dal TAR al fine di giustificare la pronuncia di inammissibilità per carenza assoluta di attribuzione rispetto all’atto con cui è stata disposta l’acquisizione ha invece dedotto che:
   a) l'acquisizione gratuita non costituirebbe esercizio di potere amministrativo, ma una sanzione legale, e che, quindi, dichiararne l'avveramento rientra nelle competenze dell'Ente che se ne avvantaggia;
   b) comunque non si verserebbe in una fattispecie di carenza di potere o di difetto assoluto di attribuzione; e che, in subordine, l'art. 31 T.U., ove fosse interpretato nel senso voluto dal TAR, sarebbe incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.
5 – La medesima questione, che interessava anche in tali casi l’Ente Parco del Vesuvio, è già stata esaminata dalla Sezione in senso favorevole all’appellante, tenuto conto della sussistenza della giurisdizione esclusiva amministrativa in materia urbanistica e delle peculiarità della vicenda posta all’esame della Sezione (cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 3347/2018 e n. 2018/2018).
Non sussistendo ragioni per discostarsi da tale orientamento, l’appello deve trovare accoglimento
6 – Come già osservato nei precedenti citati, in primo luogo, non si possono considerare sussistenti i presupposti per ravvisare un “difetto assoluto di attribuzione”, quando un Ente Parco emani un provvedimento in tema di tutela del territorio: poiché la legislazione di settore ha previsto il diritto-dovere del medesimo Ente di prevenire e di reprimere gli abusi edilizi, e di sanzionarli conseguentemente.
Qualora si prospetti che l’Ente Parco abbia esercitato un potere spettante in materia esclusivamente al Comune, si pone se mai un problema di “competenza”, e dunque una questione di legittimità dell'atto impugnato, ma non è possibile ravvisare un difetto assoluto di attribuzione.
A questo riguardo, va rimarcato che -anche in tema di competenza- ogni violazione di legge, più o meno grave, determina l'annullabilità del provvedimento, tranne i casi in cui l'Autorità emanante non abbia alcun potere nella materia in questione, ciò soltanto configura il difetto assoluto di attribuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2018, nn. 2017 e 2018; Sez. VI, 07.08.2013, n. 4167).
7 – Tanto precisato, deve ulteriormente osservarsi che nel caso di abusi edilizi cd. maggiori, ovvero di opere realizzate in assenza o totale difformità dal necessario permesso di costruire, le sanzioni sono previste in via generale dall'art. 31 del T.U. 380/2001, riproduttivo sul punto delle corrispondenti disposizioni già contenute nella l. 28.02.1985, n. 47. Il Comune, quale ente preposto alla corretta gestione del territorio e titolare del relativo potere di vigilanza, deve ordinare la rimessione in pristino e la demolizione in cui essa si concreta; in caso di inottemperanza si verifica poi di diritto l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio dell'ente, il quale è tenuto a provvedere, quale proprietario, alla rimessione in pristino non ancora effettuata.
7.1 - Ai fini del presente giudizio deve sottolinearsi che, quando si tratta di un abuso nell'area protetta rappresentata da un parco nazionale, le sanzioni sono le stesse quanto al contenuto, ma si deve tener conto delle disposizioni speciali che prevedono le relative competenze.
In particolare, l'art. 29, comma 1, della l. 394/1991 ha previsto che: "Il legale rappresentante dell'organismo di gestione dell'area naturale protetta, qualora venga esercitata un'attività in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone l'immediata sospensione dell'attività medesima ed ordina in ogni caso la riduzione in pristino o la ricostituzione di specie vegetali o animali a spese del trasgressore con la responsabilità solidale del committente, del titolare dell'impresa e del direttore dei lavori in caso di costruzione e trasformazione di opere".
I poteri in materia sono stati pertanto concentrati nel legale rappresentante dell'Ente, il quale è nella miglior posizione per valutare se siano o no rispettate tutte le norme di tutela dell'area protetta (che potrebbe interessare anche il territorio di più Comuni, con i relativi problemi di coordinamento che sorgerebbero, se operasse la tutela ordinaria, demandata a ciascuno di essi).
Inoltre, nel quadro disegnato dalla disposizione citata, si inserisce l'art. 2, comma 1, della l. 426/1998, per il quale "Nelle aree naturali protette nazionali l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7, sesto comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni ed integrazioni, si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione": il riferimento è alla normativa previgente all'art. 31 del T.U., che, come rilevato, aveva un corrispondente contenuto.
In altri termini, poiché le attività in contrasto con le esigenze di tutela sono di solito rappresentate da opere abusive, si è completato il sistema, accentrando anche l'effetto della acquisizione gratuita in capo all'ente gestore.
Identica disposizione è contenuta nell'art. 1, comma 1104, della l. 296/2006, posteriore al D.P.R. 380/2001, per il quale: "Nelle aree naturali protette l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7, sesto comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni, si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione ovvero, in assenza di questi, a favore dei comuni";
8 – Dunque, non risulta condivisibile la tesi secondo la quale l'art. 31 del T.U. 380/2001 avrebbe disposto l’abrogazione delle norme di tutela descritte, in quanto: a) in primo luogo, si tratta di norme speciali (a tutela delle aree rientranti nel parco), le quali per principio generale non vengono abrogate da una legge generale sopravvenuta; b) l'art. 1, comma 1104 citato, è entrato in vigore successivamente all'entrata in vigore del T.U. n. 380 del 2001.
9 – Da un altro punto di vista, non risulta nemmeno condivisibile l'interpretazione per cui occorrerebbe distinguere fra l'effetto legale della acquisizione gratuita, che va a vantaggio dell'ente gestore ed è automatico, e il potere di dichiarare l'effetto stesso, che spetterebbe invece al Comune.
Al riguardo, deve evidenziarsi che il beneficiario di tale effetto legale è sicuramente l'Ente Parco, in forza delle norme speciali appena riportate, che prevalgono sul comma 6 dell'art. 31 del T.U., per cui "Per gli interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l'acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull'osservanza del vincolo. Tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli, l'acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune").
Quest’ultima disposizione, infatti, rappresenta una normativa generale sulla pluralità di vincoli, mentre l'istituzione di un parco nazionale non si riduce a un mero “vincolo”, ma comporta un più complesso sistema di tutela a sé stante (come disposto dalla normativa anche sopravvenuta al testo unico).
10 - Inoltre, come correttamente rilevato dall'amministrazione appellante, nel sistema delineato dall'art. 1, comma 1104, della l. 296/2006, l'attribuzione all'Ente Parco del potere di acquisizione risulta anche coerente con l'esigenza che siano ridotte le questioni di coordinamento tra i Comuni i cui territori facciano parte del parco, in un'ottica  tenuta presente dal legislatore- secondo cui proprio l'Ente Parco è l'autorità che è specificamente preposta alla repressione degli abusi posti in essere all'interno del territorio del parco (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2018, nn. 2017 e 2018).
11 – Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.03.2019 n. 1502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2019

EDILIZIA PRIVATAIl Comune risarcisce chi acquista un edificio abusivo. CASSAZIONE. L’acquirente si può rivalere sull’ente locale che ha agito in maniera negligente.
Il Comune può essere citato in giudizio per il risarcimento danni quando l’acquirente si accorga di aver acquistato un edificio privo del permesso di costruire e della licenza di abitabilità.

Lo affermano le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con ordinanza 19.02.2019 n. 4889.
Si apre così una nuova strada per gli acquirenti, che già possono agire nei confronti del venditore per difformità edilizie (articolo 1490 del Codice civile) e difetti statici (articolo 1669 del Codice civile) e che ora possono rivalersi verso l’ente locale per abusi edilizi non repressi.
Il caso più frequente è quello di immobili acquistati dopo aver genericamente verificato l’esistenza del permesso di costruire e della licenza di abitabilità. Dopo l’acquisto, si può avere l’amara sorpresa di irregolarità edilizie (con ordini di demolizione, sanzioni pecuniarie), per parziale o totale a abusività dell’immobile: il bene si può rivelare, in questi casi, inidoneo all’uso e non commerciabile.
Altro caso frequente è quello del Comune che esiga la regolarizzazione di unità immobiliari a distanza di molti decenni dalla costruzione, applicando un orientamento del Consiglio di Stato (adunanza plenaria, 9/2017) che consente di sanzionare abusi di diversi decenni prima. Il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 4889/2019 consente all’acquirente di reagire alla sanzione per abusi remoti, chiedendo al Comune il risarcimento del danno causato dall’incolpevole affidamento su una situazione che il Comune stesso ha tollerato per inerzia e negligenza.
Il caso specifico esaminato dalla Cassazione riguarda un edificio realizzato a Latina, con difformità che erano state oggetto di ordinanza di demolizione. Anche se il ricorso al Tar era stato respinto (sentenza 46/2018), l’acquirente ha chiesto al Comune, dinanzi il Tribunale civile, i danni per comportamento inerte e negligente nei confronti di precedenti abusi edilizi: se il Comune fosse stato vigile nel reprimere l’abuso, la vendita non sarebbe avvenuta.
Anche in diversi altri casi l’ente locale è stato ritenuto responsabile per aver causato danni per mera negligenza: così quando ha generato concrete aspettative sul rilascio di un titolo edilizio, dapprima approvando il permesso di costruire, ma negandone il rilascio quando i lavori erano ormai imminenti (Tar Lecce 261/2019); ancora, quando il Comune ha annullato un titolo edilizio sulla base una lettura errata di propri atti di pianificazione (Cassazione 1162/2015), o quando ha rilasciato erroneamente un certificato di destinazione urbanistica (Cassazione 6595/2011).
Questo dovere di vigilanza del Comune integra un sistema di recente innovato con il codice della crisi d’impresa (Dlgs 14/2019), che impone la forma della scrittura privata autenticata, con fideiussione del costruttore, per vizi strutturali degli immobili da costruire: i difetti oggetto di tale garanzia sono quelli che possono causare una rovina totale o parziale (crepe, pavimenti irregolari, umidità), cui ora si aggiunge anche la possibilità di chiedere al Comune il risarcimento danni per negligente controllo degli abusi edilizi (articolo Il Sole 24 Ore del 26.02.2019).
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SENTENZA
FATTI DI CAUSA
An.Ca. ha chiesto la condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. del Comune di Cisterna di Latina al quale ha addebitato di aver omesso la dovuta vigilanza circa il rispetto delle prescrizioni urbanistiche, da parte della S.r.l. St.Im., nella realizzazione di un fabbricato.
L'attore ha esposto, in particolare, di aver acquistato un appartamento facente parte di detto fabbricato, facendo affidamento sia sulla conformità a legge ed alla vigente disciplina urbanistica dei relativi titoli abilitativi -permesso di costruire e licenza di abitabilità- emessi dal convenuto, sia sulla conformità del bene ai medesimi titoli, ma di aver scoperto, in seguito, che l'immobile era affetto da svariate irregolarità edilizie ed urbanistiche, tanto gravi da renderlo parzialmente abusivo, inidoneo all'uso ed incommerciabile.
Nel contraddittorio del Comune e della Società St.Im., chiamata in giudizio, il GI dell'adito Tribunale di Latina, con ordinanza del 03.07.2017, ha rinviato la causa per la precisazione delle conclusioni, avendo ritenuto la controversia devoluta in tesi alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, in quanto connessa con l'attività provvedimentale della p.A. An.Ca. ha, quindi, proposto regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del Giudice Ordinario. Il Comune ha resistito con controricorso, mentre la società costruttrice non ha svolto difese.
Il Procuratore Generale ha concluso per la declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario. Le parti costituite hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il regolamento preventivo in esame pone la questione dell'individuazione del giudice dotato di giurisdizione sulla controversia che il privato introduca, adducendo che la p.A., nell'omettere la dovuta sorveglianza ed i controlli prescritti dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 nei confronti di un terzo costruttore e nell'emettere i provvedimenti abilitativi, lo abbia indotto a acquistare una parte dell'edificio realizzato, confidando incolpevolmente sulla relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi inesistente.
2. La questione, come postula il ricorrente ed afferma il PG nelle sue conclusioni, va risolta al lume della giurisprudenza di questa Corte regolatrice (Cass. SU. nn. 6594-6596 del 2011; n. 1162 del 2015; n. 17586 del 2015; n. 12799 del 2017; n. 1654 del 2018; n. 33364 del 2018) a mente della quale
in tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione (ovvero la concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
La tesi è coerente coi principi affermati dalla Corte Cost. con le sentenze n. 292 del 2000 e 281 del 2004 (in riferimento alle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998 art. 35, come sostituito dalla L. 2015 del 2000, oggi art. 7, c.p.a.) che hanno posto in evidenza come la devoluzione al giudice amministrativo, oltre che del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, anche (ove configurabile) del risarcimento del danno, sia funzionale allo scopo di evitare al privato la necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario.
3. Ora, se è bensì vero che, come ricorda il Comune in seno alla memoria, la menzionata giurisprudenza è stata elaborata in riferimento ad ipotesi connotate dal pregresso annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole ed ampliativo, ciò non esclude che i danneggiati abbiano in quei casi dedotto la lesione della loro integrità patrimoniale ai sensi dell'art. 2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non rilevava in sé, ma per l'efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole.
Parimenti, ciò che viene in rilievo nella presente controversia non è la legittimità dei titoli abilitativi relativi alla costruzione della Società Stella -che il Comune sottolinea, più volte, non esser stati impugnatima la situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell'integrità del patrimonio che il ricorrente assume esser stata lesa per avere acquistato una parte di quella costruzione sull'affidamento riposto sull'azione del Comune, rivelatasi invece negligente ed inerte, sicché i provvedimenti menzionati rilevano solo se ed in quanto idonei a fondare tale affidamento, e la relativa tutela risarcitoria non richiede la previa instaurazione di un giudizio innanzi al giudice amministrativo che accerti l'illegittimità di atti e comportamenti tenuti dall'amministrazione.
In altri termini,
la questione involta dalla domanda concerne l'apprezzamento del comportamento tenuto dalla p.A. non come espressione dell'esercizio di un potere, bensì nella sua oggettività a determinare il legittimo affidamento del privato, e così a cagionargli un danno, nella specie rappresentato dal ricorrente in svariate irregolarità edilizie ed urbanistiche dell'immobile acquistato.
4. Così convenendo, ne consegue che:
   a) le argomentazioni svolte dal Comune in riferimento al giudizio impugnatorio (con esito negativo, come dallo stesso riferito) dell'ordinanza di demolizione -emessa nei confronti del ricorrente e della Società St.-, di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, sono già in astratto irrilevanti, e tanto più lo sono in concreto, in quanto estranei ai fatti dedotti a sostegno della domanda;
   b) l'art. 7, co 1, c.p.a. non è richiamato a proposito, non venendo in rilievo una controversia relativa all'esercizio del potere amministrativo, né con riferimento ad un provvedimento né con riguardo ad un atto né in relazione ad un comportamento mediatamente riconducibile all'esercizio di quel potere;
   c) il vantato diritto al risarcimento del danno non concerne, ai sensi del comma 5 dell'appena citato art. 7, un diritto soggettivo riconducibile alle controversie attratte nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo la previsione dell'art. 133 dello stesso codice (anche con riferimento specifico alla materia dell'edilizia di cui alla lett. f);
   d) del tutto fuori tema è il richiamo alla giurisdizione generale di legittimità di cui al comma 4 dell'art. 7 c.p.a. ed alla disposizione dell'art. 30 c.p.a. in tema di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, trattandosi, appunto, di una pura azione aquiliana, per violazione del principio dell'affidamento incolpevole;
   e) le contestazioni relative alla posizione, di terzietà o meno, del Ca. rispetto ai titoli abilitativi, al tempo del rilascio dell'agibilità (che si afferma assentita per silentium in epoca successiva all'acquisto), ed all'esistenza del danno attengono al giudizio di merito.
5.
Va, in conclusione, affermata la giurisdizione del giudice ordinario innanzi al quale le parti vanno rimesse, anche, per la statuizione delle spese del presente regolamento.

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza).
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7. Il ricorso è palesemente infondato e va respinto.
8. Dalla documentazione –anche fotografica- versata in atti emerge in modo pacifico ed incontestato che lo stato di fatto del fabbricato, rappresentato dall’elaborato progettuale sottoposto dal ricorrente all’esame dell’ufficio tecnico comunale, è totalmente difforme dall’effettivo stato dei luoghi negli aspetti dettagliatamente descritti nel verbale di sopralluogo eseguito dai tecnici comunali su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria (mancato rispetto delle distanze dei fabbricati dai confini lato nord e lato sud; realizzazione di un quinto piano f.t. non contemplato dal progetto depositato, locale seminterrato costruito completamente fuori terra, assenza di tratto strada carrabile di collegamento con la via pubblica).
Da ciò non può che derivare la doverosità del provvedimento di autotutela adottato e rivolto, in buona sostanza, a rimuovere un titolo a suo tempo fondato su falsi presupposti di fatto.
9. La difesa del ricorrente si impernia esclusivamente sulla domanda di sanatoria presentata ex art. 36 d.P.R. 380/2001, ma il mezzo si rivela mal posto.
Nella vicenda in decisione, infatti, l’interesse del ricorrente è finalizzato a mantenere valido ed efficace l’originario permesso di costruire,contestandone ab origine il suo annullamento, non assumendo alcuna rilevanza la successiva ed autonoma iniziativa in sanatoria che non incide su alcun ordine di demolizione nel frattempo intervenuto.
E’, del resto, fin troppo chiara la differenza tra il caso di specie e quello che si verifica quando all’ordine di demolizione,legittimo o meno che sia, si dia seguito alla domanda di sanatoria.
Nella prima ipotesi, l’organo competente adotta il provvedimento costitutivo dello ius aedificandi che viene successivamente rimosso attraverso il provvedimento di ritiro in autotutela (annullamento), laddove il ricorso avverso quest’ultimo provvedimento è rivolto a ripristinare l’originaria situazione favorevole di partenza.
Nella seconda ipotesi, l’organo competente, constatando la mancanza del titolo edilizio, emana da subito un provvedimento negativo (ordine di demolizione) nei confronti del destinatario (proprietario o responsabile dell’abuso) che, allo scopo di costituire il titolo che prima mancava, attiva su domanda un ulteriore procedimento amministrativo ordinato a verificare da parte dell’Autorità procedente la conformità dell’intervento alla disciplina edilizia ed urbanistica esistente al momento della realizzazione dell’opera e al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria (cd. requisito della doppia conformità).
Laddove ricorra simile evenienza (ma non è quella sottoposta all’attenzione del Collegio) trova spazio il noto, anche se non unanime, indirizzo della giurisprudenza, secondo cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis TAR Reggio Calabria 17.09.2018 n. 559).
10. In definitiva, poiché il ricorrente ha impugnato l’annullamento della concessione edilizia, deducendone l’illegittimità solo attraverso la prospettazione della probabile fondatezza della domanda di sanatoria (che non risulta affatto delibata né tanto meno accolta), il ricorso non coglie nel segno e va respinto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 11.02.2019 n. 78 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza della Sezione, pur non ignorando l’esistenza di recenti orientamenti di segno diverso, ritiene preferibile dare continuità alla tradizionale massima secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata dall’amministrazione.
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1. Con ordinanza n. 899/2017, il Comune di Pistoia ha ingiunto ai signori Gu.To. e Ca.Fu., nonché alla Gr. S.r.l., la demolizione di un insieme di opere edilizie realizzate senza di titolo e destinate a struttura di vendita della predetta società Gr.. Il provvedimento, nel descrivere le costruzioni da demolire, le identifica come “Struttura 1” (immobile commerciale adibito alla vendita al pubblico, anche identificato dalle parti come “serra grande”) e “Struttura 2” (serra modulare coperta, anche “serra piccola”), tra loro collegate da una zona aperta pavimentata, parimenti utilizzata come area espositiva destinata alla vendita.
1.1. L’ordinanza è stata impugnata dai suoi destinatari con il ricorso iscritto al n. 1612/2017 R.G..
Nella camera di consiglio del 16.01.2018, il collegio ne ha sospeso l’efficacia anche in considerazione della sopraggiunta presentazione, da parte degli interessati, di separate istanze per l’accertamento di conformità delle due strutture.
1.2. Decorso inutilmente il termine di legge, sulle due istanze di sanatoria si è formato il silenzio-rigetto (art. 36 d.P.R. n. 380/2001; art. 209, co. 4, l.r. toscana n. 65/2014), impugnato dagli interessati con i ricorsi iscritti ai nn. 569 e 570/2018 (relativi, rispettivamente, alla serra piccola e alla serra grande).
1.3. Nei tre giudizi si è costituito il Comune di Pistoia, per resistere ai gravami.
1.4. Le cause sono state discusse congiuntamente e trattenute per la decisione nella pubblica udienza del 18 dicembre 2018, preceduta dallo scambio di documenti e memorie difensive.
2. In via pregiudiziale deve essere disposta la riunione dei ricorsi, accomunati da palesi profili di connessione oggettiva e soggettiva, e verificata la persistenza dell’interesse ad agire.
A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza della Sezione, pur non ignorando l’esistenza di recenti orientamenti di segno diverso, ritiene preferibile dare continuità alla tradizionale massima secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata dall’amministrazione.
Ne discende l’improcedibilità dell’impugnazione proposta, con il più risalente dei ricorsi riuniti, avverso l’ordinanza di demolizione n. 899/2017, definitivamente superata dalle istanze di sanatoria presentate dagli interessati il 20.12.2017.
Sorte analoga tocca ai due giudizi più recenti, giacché le istanze di sanatoria sono state a loro volta definite dal Comune di Pistoia con i provvedimenti espressi depositati dai ricorrenti in vista dell’udienza di discussione. Pur con esiti confermativi dei pregressi rigetti taciti, si tratta di un vero e proprio riesercizio del potere cui oggi è affidata in via esclusiva la regolazione del rapporto e che, come tale, richiedono di essere autonomamente impugnati (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 04.02.2019 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2019

EDILIZIA PRIVATA: Alla stregua della tradizionale massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con gli indirizzi della Sezione– la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata.
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Considerato:
   - che i ricorrenti impugnano l’ordine di demolizione e ripristino pronunciato nei loro confronti dal Comune di Pisa con riferimento all’avvenuta realizzazione senza titolo di una serie di opere edilizie (manufatto precario adibito a ufficio; tettoia prefabbricata) a corredo dell’attività di parcheggio svolta dal signor Sc. sul terreno di proprietà del signor Pa.;
   - che, in vista dell’udienza pubblica del 06.12.2018, essi hanno chiesto differirsi la trattazione di merito della controversia, stante l’avvenuta presentazione, nelle more del giudizio, di una domanda per l’accertamento di conformità delle opere oggetto del provvedimento impugnato;
   - che la circostanza è stata confermata dal Comune di Pisa, il quale ha aderito all’istanza di rinvio;
   - che il collegio ha rappresentato alle parti, ai sensi dell’art. 73, co. 3, c.p.a., la volontà di trattenere la causa in decisione onde verificare la persistenza dell’interesse al ricorso pur in pendenza della sopravvenuta richiesta dell’accertamento di conformità;
   - che il difensore dei ricorrenti non si è opposto, insistendo tuttavia per la compensazione delle spese processuali;
   - che, confermando quanto già prospettato alle parti, il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, alla stregua della tradizionale massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con gli indirizzi della Sezione– secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ove questa sia stata già adottata (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.01.2019 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione va notificata all’autore dell’abuso e al proprietario del terreno.
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, in base all’articolo 31 del Dpr 380/2001 (testo unico in materia di edilizia), dev’essere notificata all’autore dell’abuso e al proprietario del terreno se non sono la stessa persona. In difetto di notifica è illegittimo il successivo provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto e dell’area di sedime, in caso di inottemperanza all'ordinanza di demolizione.

Così ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, con la sentenza 28.01.2019 n. 1053.
Il caso
Ai ricorrenti è stata notificata la determinazione dirigenziale che dispone l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera abusiva e dell'area di sedime per non essere stata eseguita l’ordinanza di demolizione.
Nell’impugnare il provvedimento al Tar, i ricorrenti precisano, tra l'altro, di essere divenuti proprietari del terreno sul quale è costruito il manufatto illegale, in quanto eredi di chi era proprietario e autore dell'abuso. Il Comune, però, ha notificato l'ordinanza di demolizione, atto presupposto rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, soltanto al precedente proprietario che realizzò l'abuso (e che non effettuò la demolizione) e non anche agli attuali proprietari: da qui, a giudizio dei ricorrenti, l'illegittimità del successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
La decisione
Il Tar accoglie la tesi dei ricorrenti e annulla il provvedimento impugnato. Secondo i giudici, infatti, la notifica dell'ordine di demolizione al soggetto che risulti proprietario al momento dell'adozione del provvedimento ripristinatorio, oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto necessario per il successivo atto di acquisizione gratuita dell'opera e del sedime al patrimonio comunale.
In assenza di notifica, gli attuali proprietari non sono stati messi in condizione di dare esecuzione all'ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi entro il termine previsto dall'articolo 31 del Dpr 380/2001 (novanta giorni dall'ingiunzione) e dunque agli stessi non può essere comminata la sanzione prevista per l'inottemperanza all'ordine di demolizione, vale a dire l'acquisizione gratuita del manufatto e dell'area di sedime al patrimonio comunale.
La predetta acquisizione gratuita, afferma il Tar, sarebbe dunque effettuata al di fuori delle modalità previste dalla Legge e poste dall'ordinamento a tutela del diritto di proprietà inciso dal provvedimento sanzionatorio. Inevitabile, pertanto, l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della determinazione dirigenziale.
La sentenza appare condivisibile e in linea con l’articolo 31, comma 2, del Dpr 380/2001 che esplicitamente afferma: «il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.02.2019).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
I ricorrenti, in punto di fatto, precisano di essere diventati proprietari del terreno in quanto eredi del precedente proprietario, autore dell’abuso, a cui il Comune aveva notificato l’ordinanza di demolizione dei manufatti eseguiti senza titolo, laddove la medesima ordinanza, atto presupposto rispetto all’atto di acquisizione al patrimonio comunale, non gli è mai stata comunicata né notificata. In ciò si sostanzierebbe l’illegittimità contestata.
Il Collegio ritiene fondata la censura proposta con il secondo motivo di ricorso per la violazione dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, risultando dirimente il profilo, già rilevato in sede di ordinanza cautelare, della mancata notifica ai proprietari dell’ordine di demolizione e della natura punitiva dell’ordinanza di acquisizione.
La notifica dell'ordine di demolizione al proprietario, oltre che all'autore dell'abuso edilizio, è il presupposto necessario per il successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale, in quanto questo secondo atto costituisce una sanzione per l'inottemperanza alla demolizione, che non può essere pronunciata nei confronti di chi non sia stato destinatario dell'ordine di demolizione, per cui la mancata notifica al proprietario dell'ordine di demolizione non inficia la legittimità dello stesso, ma preclude l'emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale ex art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380/2001 (ex multis TAR Basilicata, Sez. I, 21.04.2016, n. 402; TAR Calabria-Reggio Calabria, 26.01.2016, n. 83; TAR Lombardia Milano Sez. II, 14.01.2016, n. 76; TAR Campania Napoli Sez. III, 22.12.2015, n. 5876).
In assenza quindi di contestazioni da parte dell’amministrazione non costituita in giudizio, in merito agli elementi di fatto e di diritto della causa, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale deve avvenire secondo le modalità previste dalla legge, che costituiscono un presidio irrinunciabile di garanzia del diritto di proprietà inciso dal provvedimento sanzionatorio.
Di conseguenza,
pur essendo in ipotesi legittima l’acquisizione nei confronti di proprietari che, seppure non responsabili dell’abuso, siano comunque venuti a conoscenza dell’intervenuta esistenza di un ordine demolitorio, affinché scatti la conseguenza acquisitiva è necessario che l’ordine di demolizione sia stato notificato formalmente al soggetto proprietario al momento dell’adozione del provvedimento ripristinatorio e, conseguentemente, che sia stato concesso, anche formalmente, il termine di novanta giorni per demolire, ai sensi degli art. 31, commi 2 e 3, che prevedono rispettivamente che il provvedimento di riduzione in pristino sia ingiunto “al proprietario e al responsabile dell'abuso” e che sia concesso all’interessato un termine di novanta giorni dall'ingiunzione per procedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
Nel caso di specie tale notifica non risulta essere stata effettuata.
Pertanto, assorbiti per motivi di economia processuale gli ulteriori profili dedotti, il ricorso è da accogliere, con salvezza degli eventuali ulteriori provvedimenti emanati da parte dell’amministrazione, anche nelle more della presente decisione.

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: risposta a quesito sulla rimozione spontanea di abuso edilizio (Regione Emilia Romagna, nota 22.01.2019 n. 87281 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: La sottoposizione di un immobile a sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione, sempre che il giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul destinatario dell’ordine di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente a riguardo.
Invero, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza materiale e giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire dell’immobile da demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una condotta priva di fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla realizzazione di interventi edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di tutela di cui intende farsi carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale del 2017 appaiono efficacemente tutelabili sul piano della momentanea inefficacia dell’ordine di demolizione quanto al decorso del termine per l’esecuzione, destinato a riattivarsi in via automatica con il venir meno del sequestro.

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3. Nel merito, con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la nullità dell’ordine di demolizione e ripristino pronunciato nei suoi confronti, trattandosi di opere già sottoposte a sequestro penale.
La censura si sostanzia nell’invocazione di una recente decisione del Consiglio di Stato, che, in consapevole dissenso dal prevalente orientamento della giurisprudenza, ha sostenuto che “l'ingiunzione che impone un obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del comando (il quale, se eseguisse l'ordinanza, commetterebbe il reato di cui all'art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell'ordine, e cioè, l'imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 09.07.2013-20.11.2014, sull'affare n. 62/2013). In quest'ordine di idee, l'ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto […] L'affermazione dell'eseguibilità dell'ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell'assunto della configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell'abuso, ai fini dell'ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione dell'ingiunzione” (Cons. Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2337).
Allo stato, la tesi della nullità del provvedimento demolitorio adottato dall’autorità amministrativa in presenza di un sequestro penale non sembra tuttavia aver trovato stabile seguito, alla luce di successive decisioni che hanno riaffermato il principio in forza del quale la sottoposizione di un immobile a sequestro penale non ne impedisce in assoluto la demolizione, sempre che il giudice penale lo consenta, incombendo pertanto sul destinatario dell’ordine di demolizione l’onere di attivarsi diligentemente a riguardo (così Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2018, n. 2700); ovvero, hanno mostrato di condividere le affermazioni contenute nella pronuncia invocata dall’odierno ricorrente nei soli limiti in cui la pendenza del sequestro penale impedisce che l’ordine di demolizione produca i suoi effetti sino a quando il bene sequestrato non rientri nella disponibilità dell’interessato, con particolare riferimento alla decorrenza del termine di novanta giorni stabilito dall’art. 31, co. 3, del d.P.R. n. 380/2001 per l’esecuzione e, in difetto, per l’acquisto della proprietà del bene stesso da parte dell’amministrazione procedente (si veda Cons. Stato, sez. VI, 20.07.2018, n. 4418).
Come si vede, il rifiuto dell’idea che il proprietario del bene sia obbligato ad attivarsi presso il giudice penale onde eseguire l’ordine di demolizione non implica necessariamente il riconoscimento della nullità di quest’ultimo per mancanza di un elemento essenziale, ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990.
D’altronde, la sottoposizione a sequestro non determina la mancanza materiale e giuridica dell’oggetto del provvedimento, vale a dire dell’immobile da demolire, e neppure si traduce nell’imposizione di una condotta priva di fondamento positivo, che continua a rinvenirsi nel citato art. 31 d.P.R. n. 380/2001 e ad essere unicamente costituita dalla realizzazione di interventi edilizi privi di titolo; mentre le esigenze di tutela di cui intende farsi carico l’innovativo indirizzo giurisprudenziale del 2017 appaiono efficacemente tutelabili sul piano della momentanea inefficacia dell’ordine di demolizione quanto al decorso del termine per l’esecuzione, destinato a riattivarsi in via automatica con il venir meno del sequestro (TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 04.01.2019 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non riveste automaticamente la qualità di controinteressato in senso proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli effetti prodotti della determinazione adottata nella propria sfera giuridica.
Infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione dei controinteressati nel processo amministrativo deriva dalla simultanea compresenza di un presupposto formale, consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato dal ricorrente.
Sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e la mera menzione nell’atto in chiave descrittiva delle distinte proprietà non sono sufficienti a qualificare formalmente e sostanzialmente un interesse legittimo a difendere in giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie applicate con il provvedimento impugnato.
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... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di un’area di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso, se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia Locale e U.T.C.;
...
Considerato preliminarmente che:
   - è da escludere la sussistenza nella specie di contraddittori necessari non intimati in giudizio, posto che il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non riveste automaticamente la qualità di controinteressato in senso proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli effetti prodotti della determinazione adottata nella propria sfera giuridica;
   - infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione dei controinteressati nel processo amministrativo deriva dalla simultanea compresenza di un presupposto formale, consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato dal ricorrente (cfr. Cons. St., sez. IV, 01/08/2018, n. 4736);
   - sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e la mera menzione nell’atto in chiave descrittiva delle distinte proprietà non sono sufficienti a qualificare formalmente e sostanzialmente un interesse legittimo a difendere in giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie applicate con il provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità dell'ordinanza di demolizione relativamente all'installazione di n. 6 paletti metallici con rete metallica ed alla posa in opera della pavimentazione di un’area di circa 35 mq..
La sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è prescritta la previa acquisizione di un permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto titolo abilitativo.
Gli interventi di nuova costruzione che richiedono il permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R. n. 380.
La posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici.
L'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di costruire salvo che non comporti una trasformazione urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione, sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli paesaggistici.
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... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di un’area di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso, se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia Locale e U.T.C.;
...
Ritenuto nel merito che:
   - la sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, nella specie irrogata con le ordinanze impugnate, si riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è prescritta la previa acquisizione di un permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto titolo abilitativo;
   - gli interventi di nuova costruzione che richiedono il permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R. n. 380;
   - la posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici (cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907; TAR Roma, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n. 5908);
   - l'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di costruire salvo che non comporti una trasformazione urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione, sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli paesaggistici (cfr. TAR Napoli, sez. VI, 01/08/2018, n. 5144; cfr. art. 6, co. 1, lett. e-ter), del d.P.R. n. 380);
   - nella specie non risultano adottati atti di autotutela riferiti ai titoli abilitativi di cui la ricorrente riferisce il possesso e posti a sostegno degli interventi in questione;
   - né la sussistenza di vincoli paesaggistici giustifica l’applicazione di una sanzione edilizia diversa da quella prevista in relazione al difetto del prescritto titolo abilitativo edilizio, fatta salva ovviamente l’applicazione, se del caso, delle pertinenti misure repressive (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente costituisce un’autonoma sanzione derivante dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione. In altre parole, essa rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere dal privato che, dapprima, esegue un’opera abusiva e, successivamente, non adempie all’obbligo di demolire entro il termine fissato dall’amministrazione.
Alla luce dei principi esposti, deve ritenersi che le questioni relative all’acquisizione dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un successivo momento procedimentale, non possono essere introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.
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In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione, deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Nel caso in esame, il provvedimento impugnato contiene sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem degli atti procedimentali, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.
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4 – Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 7 della l. 47/1985, oggi art. 31 del d.p.r. 380/2001 e art. 132 della l.reg. 01/2005.
Più precisamente, si censura la sentenza impugnata nel punto in cui afferma che “l’indicazione dell’area di sedime non deve essere contenuta nel provvedimento di demolizione, bensì nell’atto in cui l’Amministrazione accerta l’inottemperanza all’ordine di demolizione”.
Secondo l’appellante, la sanzione che determina l'acquisizione della proprietà del bene altrui -anche in relazione alla sua particolare gravità- richiederebbe una esatta individuazione del bene che il Comune intende acquisire e tale indicazione dovrebbe essere contenuta già nell'ingiunzione.
4.1 – La censura non può essere accolta, contrastando con l’orientamento di gran lunga maggioritario a cui il Collegio intende aderire.
Al riguardo, deve infatti ricordarsi che l’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente costituisce un’autonoma sanzione (cfr. Corte Cost. n. 82/1991, Corte Cost. n. 345/1991), derivante dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione. In altre parole, essa rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere dal privato che, dapprima, esegue un’opera abusiva e, successivamente, non adempie all’obbligo di demolire entro il termine fissato dall’amministrazione (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.05.2011, n. 2639; Cons. St., sez. V, 15.07.2016, n. 3834).
Alla luce dei principi esposti, deve ritenersi che le questioni relative all’acquisizione dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un successivo momento procedimentale, non possono essere introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez. VI, n. 1998 del 2004).
5 - Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 241/1990.
A tal fine, l’appellante rileva che il provvedimento impugnato si riferisce genericamente ad “opere abusive” così come descritte nel verbale della P.M., ma non distinguerebbe le singole fattispecie, che sarebbero soggette a discipline diverse.
5.1 - Può essere esaminata in questa sede anche la censura con la quale si contesta il difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata nel punto in cui ha disposto la demolizione della tettoia e del box-container.
In particolare, l’appellante contesta la decisione del TAR che, rispetto a tale censura, avrebbe preso in considerazione la situazione del solo box–container, senza fare alcun riferimento alla tettoia.
6 – Le censure sono infondate.
In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione, deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso(cfr. Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9).
6.1 - Nel caso in esame, come già osservato dal Giudice di prime cure, il provvedimento impugnato contiene sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem degli atti procedimentali, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2015, n. 2011).
Le considerazioni che precedono valgano evidentemente sia per il box che per la tettoia, dal momento che anche quest’ultima è contemplata nel verbale di accertamento del 21.10.1996 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.12.2018 n. 7210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive comportando la necessità di un nuovo provvedimento sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere, allo stato non emanato.
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Il PGT non può prevedere una norma tecnica che vieti la modifica di destinazione d’uso degli edifici condonati.
Se la zona in cui insiste un edificio condonato ammette una determinata destinazione è illegittima l’ulteriore norma tecnica che –creando una artificiale distinzione tra edifici condonati ed edifici autorizzati o assentiti mediante sanatoria ordinaria– vieti comunque il cambio d’uso sui primi.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
   a) del provvedimento comunale del 11.10.2018, notificato il 19.10.2018, recante diniego di permesso di costruire in sanatoria relativo all’istanza presentata in data 13.09.2018 per ristrutturazione edilizia con parziale cambio d’uso ed ampliamento relativamente all’edificio di proprietà sito in via ... n. 13, nonché recante conferma dell’ordinanza comunale n. 165/2018 del 23.07.2018 ed indicazione di prosecuzione del procedimento repressivo;
   b) della comunicazione dei motivi ostativi del 01.10.2018 richiamata dal provvedimento indicato sub a);
   c) dell’ordinanza comunale del 23.07.2018 n. 165/2018 recante ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi, confermata dal provvedimento indicato sub a);
   d) dell’art. 45 delle Norme Tecniche Attuative del piano delle regole del Piano di Governo del Territorio di Lissone,
nonché per la condanna, del Comune di Lissone al risarcimento dei danni patiti e patiendi nella misura da quantificarsi in corso di causa.
...
1. Considerato che parte ricorrente fonda la domanda cautelare, in primo luogo, sul pregiudizio derivante dalla prosecuzione del procedimento di cui all’ordinanza demolitiva del 23.07.2018.
1.1. Ritenuto sussistente il pregiudizio indicato e non privo di fumus boni iuris il relativo motivo di ricorso atteso che la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive comportando la necessità di un nuovo provvedimento sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere, allo stato non emanato (cfr., per il principio, la recente sentenza della sezione: TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 23.11.2018, n. 2635).
2. Considerato, inoltre, che l’istanza cautelare è proposta anche al fine di “suggerire anche un più meditato riesame della vicenda e condurre ad un ripensamento in termini più ragionevoli ed equilibrati, anche a seguito dei motivati rilievi qui esposti”.
2.1. Considerato che:
   a) a fronte di un provvedimento negativo la tutela cautelare può assumere carattere propulsivo e concretizzarsi nella forma del remand, con cui il giudice ordina all’Amministrazione di riesaminare l’istanza del privato in base ai criteri da esso individuati in base agli elementi di fondatezza del gravame;
   b) simile misura risulta, tuttavia, suscettibile di adozione soltanto laddove ricorrano i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora indicati all’articolo 55 del codice del processo amministrativo;
2.2. Ritenuto sussistente il periculum in mora e rilevato che, nel pur sommario esame tipico della presente fase cautelare, non paiono prive di adeguato fumus boni iuris le censure articolare in ordine all’articolo 45 delle N.T.A. del piano delle regole del P.G.T. tenuto conto che:
   a) nel caso in esame difetta una previsione normativa sovraordinata che imponga la limitazione in esame al pari di quanto avviene nel caso deciso dalla sentenza n. 1991 del 2017 di questo Tribunale;
   b) la previsione in esame detta un divieto di carattere assoluto e generale (e senza alcuna valutazione di compatibilità concreta) privando il titolare del diritto di proprietà della possibilità di procedere ad interventi di manutenzione straordinaria aventi quale finalità la tutela della integrità della costruzione, la conservazione della sua funzionalità, e, nel caso di specie, la realizzazione di esigenze abitative (cfr., per il principio, Corte Costituzionale, 29.12.1995, n. 529; Corte Costituzionale, 23.06.2000, n. 238);
   c) non sussistono ulteriori specifiche ragioni che legittimino previsioni restrittive per il caso di immobili oggetto di condono (cfr. Consiglio di Stato, 16.12.2016, n. 5358);
2.3. Considerato, inoltre, che, nel caso di specie, la possibilità di riesame della vicenda da parte dell’Amministrazione può avvenire, comunque, senza investire necessariamente la previsione di cui all’articolo 45 delle N.T.A del piano delle regole del P.G.T., la cui eventuale modificazione richiede un complesso ed articolato procedimento.
2.4. Infatti, non paiono comunque privi di fondamento i motivi articolati sul punto da parte ricorrente considerato che la previsione di cui all’articolo 45 delle N.T.A. del piano delle regole del P.G.T. si riferisce agli immobili condonati e non contempla invece la fattispecie di immobili oggetto di condono parziale, per i quali la disposizione sembra operare in forza di una estensione analogica difficilmente giustificabile, tuttavia, in ragione della natura eccezionale della regola in esame.
2.5. Inoltre, deve considerarsi che, come risulta dalla documentazione depositata da parte ricorrente in data 03.12.2018 (senza opposizione del Comune resistente quanto al suo vaglio in sede cautelare), le istanze di condono sono relative ad opere in difformità dal titolo ma conformi alle norme e alle prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici vigenti e, come tali, risultano assimilabili alle ipotesi previste in via ordinaria dall’articolo 36 del D.P.R. 380 del 2001.
2.6. In ultimo, l’asserita necessità di parere della Commissione del paesaggio muove correttamente dalla classe di sensibilità paesaggistica del sito ma non sembra considerare in modo adeguato le caratteristiche proprie del sito oggetto di intervento e del miglioramento estetico che le modifiche effettuate apportano all’immobile.
3. In definitiva, deve sospendersi l’efficacia dei provvedimenti impugnati con contestuale ordine all’Amministrazione di riesaminare la vicenda alla luce dei rilievi indicati ai punti 2.2–2.6 della presente ordinanza depositando gli eventuali provvedimenti emessi entro il termine indicato in dispositivo.
4. Le spese di lite della presente fase cautelare possono essere compensate in ragione della complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
   a) accoglie la domanda cautelare nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, sospende l’efficacia dei provvedimenti impugnati e ordina all’Amministrazione di riesaminare l’istanza del privato, entro il 31.03.2019, alla luce dei criteri indicati in motivazione;
   b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 13.11.2019, ore di regolamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 05.12.2018 n. 1698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Violazioni edilizi - Ordine di demolizione del manufatto abusivo - Revoca o sospensione dell'esecuzione dell'ordine di demolizione - Limiti - Natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio - Principio del ne bis in idem - Normativa convenzionale ed eurounitaria - Artt. 23 e 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina estintiva stabilita per le sanzioni penali, né a quella della prescrizione prevista dall'art. 173 cod. pen. avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso - né a quella conseguente al decorso del tempo con condotta favorevole, prevista dall'art. 445, comma 2, cod. proc. pen..
Proprio con riguardo a quest'ultima disposizione, invocata in ricorso, è stato infatti ripetutamente affermato che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo (previsto dall'art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, resta eseguibile anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., poiché, detto ordine, in quanto sanzione amministrativa, non è soggetto alle norme relative all'estinzione della pena o del reato, nemmeno per effetto di un'applicazione analogica delle medesime.
Detta sanzione, peraltro, non è neppure soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
Pertanto, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo non comporta la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.

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Demolizione del manufatto abusivo - Coordinamento tra l'intervento specifico giudiziario e quello generale, di carattere amministrativo - Fase esecutiva dei provvedimenti - Poteri e valutazione del giudice dell'esecuzione - Fattispecie.
Il coordinamento tra l'intervento specifico giudiziario e quello generale, di carattere amministrativo si realizza non già a livello dei rispettivi poteri, bensì nella fase esecutiva dei provvedimenti, ma solo nel senso che spetta al giudice dell'esecuzione valutare la compatibilità del provvedimento giurisdizionale di demolizione con le determinazioni dell'Amministrazione, al fine di decidere se vi siano i presupposti per metterlo in esecuzione e con quali modalità (Sez. 3, n. 702 del 14/02/2000, Cucinella).
Nel caso di specie non è stata allegata l'adozione di alcun provvedimento amministrativo incompatibile con l'esecuzione della demolizione, sicché nulla osta a che l'autorità giudiziaria proceda in via esecutiva, avendo peraltro l'ordinanza impugnata attestato che l'esecuzione in sede amministrativa non ha avuto seguito
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53685 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo - Esclusione - Natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio - Giurisprudenza della Corte EDU - Art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso.
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Reati edilizi - Ordine di demolizione - Eventuale «disapplicazione» dell'atto amministrativo - Potere-dovere di verifica del giudice penale - Fattispecie: Sentenza passata in giudicato.
In tema di reati edilizi, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale «disapplicazione» dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Nella specie, il richiamo all'art. 5 dell'all. e) della legge 2248 del 1865 è del tutto inconferente, posto che l'ordine di demolizione deriva dalla sentenza passata in giudicato.
Peraltro, il diniego del condono edilizio non risultava neanche essere stato impugnato
(Cass. Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53661 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sopravvenuta formazione di un nuovo provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
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La presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
Per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di procedere prioritariamente all'esame della medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato.
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Il presente contenzioso ha ad oggetto il provvedimento di accertamento di inottemperanza ad ordine di demolizione ed acquisizione di beni immobili abusivi, Rep. n. 31824 del 24.07.2018.
Ritiene il Collegio che la natura della controversia e la riscontrata completezza del contraddittorio e dell’istruttoria consentano la sua immediata definizione.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente impugna il provvedimento indicato in epigrafe evidenziando che esso è illegittimo per un vizio del procedimento.
In vero, sul punto, il ricorrente deduce che “successivamente al diniego comunque illegittimamente formulato della istanza di condono presentata dal sig. Ma., non ha provveduto a reiterare l’ingiunzione di demolizione e non ha fissato un nuovo termine per l’ottemperanza, limitandosi a notificare l’illegittimo provvedimento di acquisizione quivi gravato”.
Il motivo è manifestamente fondato e merita accoglimento.
Come rilevato, da molteplici sentenze del giudice amministrativo: “La sopravvenuta formazione di un nuovo provvedimento di rigetto del condono comporta il venir meno dell'interesse a contestare i pregressi provvedimenti repressivi. L'atto sopraggiunto implica il dovere per l'Amministrazione comunale di emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 02/05/2018, n. 2623).
Analogamente, il TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 04/04/2018, n. 2193 (conforme, anche, TAR Campania Napoli Sez. II, 21.06.2016, n. 3128), ha statuito che “La presentazione di una istanza di condono edilizio ha effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. Ed invero, il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, provocato da tale istanza, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa. Per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della L. n. 47 del 1985, richiamati dall'art. 32, comma 25, del D.L. n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di condono edilizio determina l'obbligo dell'amministrazione comunale di procedere prioritariamente all'esame della medesima, paralizzando il corso dei procedimenti per l'applicazione delle misure repressive fino alla definizione della domanda di sanatoria; infatti, in caso di accoglimento, l'abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l'ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l'ottemperanza da parte dell'interessato”.
In ragione del suesposto orientamento competerà dunque al Comune di Sarno riesaminare la vicenda ed emanare, ove lo ritenga, l’ordinanza di demolizione debitamente notificata a ciascuno dei destinatari.
Va dunque accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento di tutti gli altri motivi (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.11.2018 n. 1696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla natura del silenzio ex art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 22 della l.r. 15/2008 – Area Vigilanza urbanistico-edilizia e contrasto all'abusivismo (Regione Lazio, nota 09.11.2018 n. 705439 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di opere abusive - Individuazione della corrispondenza tra l'immobile da demolire e quello descritto in sentenza - Verifica di tutti gli elementi disponibili - Limiti della verifica - Casi di aggiunte, modifiche e superfetazioni successive alla condanna definitiva - Completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi - Giurisprudenza.
In tema di demolizione di opere abusive, ai fini della individuazione della corrispondenza tra l'immobile da demolire e quello descritto nella sentenza di condanna, è l'identità tra le opere oggetto di imputazione e quelle da abbattere, desumibile non soltanto dalla volumetria, soggetta a diversi criteri di computo, ma dalla sostanziale coincidenza ricavabile in base a tutti gli elementi disponibili.
Peraltro, la necessità di una simile verifica va esclusa in tutti i casi di aggiunte, modifiche e superfetazioni successive alla realizzazione delle opere per le quali vi è stata condanna definitiva, in quanto, la demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto l'immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito successivamente che, per la sua accessorietà all'opera abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo consentirsi che un qualunque intervento additivo, abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse, si finirebbe per incentivare le più diverse forme di abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo indefinito la demolizione di opere in precedenza illegalmente realizzate
(Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016 (dep. 2017), Molinari; Sez. 3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011, Apuzzo; Sez. 3, n. 2872 del 11/12/2008 (dep. 2009), P.M. in proc. Corimbi; Sez. 3, n. 13649 del 20/02/2002, Corbi; Sez. 3, n. 10248 del 18/1/2001, Vitrani)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51058 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001 se gli stessi non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 d.P.R. 380/2001.
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22 d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44, lett. a), in quanto tale disposizione sanziona "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
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Anche l'infondatezza del secondo motivo di entrambi i ricorsi è di macroscopica evidenza.
Come affermano i ricorrenti, la giurisprudenza di questa Corte, ha chiarito che l'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001 se gli stessi non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 d.P.R. 380/2001 (Sez. 3, n. 952 del 07/10/2014 (dep. 2015), Parisi, Rv. 261783; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv. 235413).
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22 d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44, lett. a), in quanto tale disposizione sanziona "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
Il principio richiamato è pienamente condiviso dal Collegio, che intende ribadirlo, ma, nel fare ciò, deve però rilevarsi che nella sentenza impugnata risulta accertato in fatto che le opere erano state realizzate "...in parte in assenza di titolo ed in parte in difformità dalla DIA n. 322/2010, nonché in violazione degli strumenti urbanistici ed edilizi vigenti al momento del fatto presso il Comune di Colle Val D'Elsa".
A fronte di tale affermazioni, entrambi i ricorsi si limitano alla apodittica affermazione della conformità delle opere espressamente smentita dal giudice del merito, con le conclusioni del quale neppure si confrontano (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50144).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'annullamento in autotutela di una licenza edilizia in sanatoria, rilasciata ai sensi della legge 47/1985, ottenuta sulla base di una falsa dichiarazione dell'epoca dell'abuso – Comune di Mazzano Romano (Regione Lazio, nota 06.11.2018 n. 693050 di prot.).

ottobre 2018

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
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Nessuna equiparazione può, logicamente, farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione
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Inoltre,
la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore.
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4. Il ricorso è inammissibile, per manifesta infondatezza dei motivi (art. 606, comma 3, del cod. proc. pen.) e per genericità, reitera i motivi dell'istanza 2 senza confrontarsi con le motivazioni del provvedimento impugnato.
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336).
5. La questione della natura sanzionatoria dell'ordine di demolizione relativamente alle sentenze Cedu sulla confisca è mal posta, oltre che generica.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione (vedi Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti).
6. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/03/2007, n. 22853, Coluzzi; Sez. 3, 11/02/2016, n. 5708, Woolgar).
7. La mera proposizione di una sanatoria non consente l'automatica sospensione dell'ordine di demolizione, in quanto il giudice penale deve valutare la ragionevole previsione che, in un breve lasso di tempo, intervenga un provvedimento amministrativo in insanabile contrasto con la demolizione: «L'ordine di demolizione delle opere abusive emesso con la sentenza passata in giudicato può essere sospeso solo qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo sia adottato dall'autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con detto ordine di demolizione» (Sez. 3, n. 42978 del 17/10/2007 - dep. 21/11/2007, Parisi, Rv. 238145; vedi inoltre, Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna, Rv. 266763) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2018 n. 48834).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive - Ordine di demolizione - Revoca o sospensione dell'ordine di demolizione - Istanza di condono o sanatoria successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Effetti - Pendenza del condono edilizio - Verifiche del giudice dell'esecuzione - Esclusione dell'efficacia sanante sulle opere abusive - Pagamento dell'oblazione - Art. 31 d.P.R. n. 380/2001.
La revoca o la sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive, di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, presuppone l'accertamento da parte del giudice dell'esecuzione della sussistenza di elementi che facciano ritenere plausibilmente prossima la adozione da parte della autorità amministrativa competente del provvedimento di accoglimento (Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna) ( Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2018 n. 48835 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fermo restando che la denuncia anonima non può essere utilizzata a fini probatori, onde in base a essa non possono essere compiuti atti, quali ad esempio le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni o i sequestri (ossia atti di indagine che presuppongono l'esistenza di indizi di reato), tuttavia le notizie contenute nella denuncia anonima possono -anzi devono, per effetto del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale- costituire spunti per una investigazione di iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi di una notitia criminis.
Invero, “Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis”.
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10. Nel merito il ricorso è infondato e va pertanto rigettato, dovendosi disattendere tutte le doglianze articolate.
11. Quanto all’inutilizzabilità dell’esposto anonimo ai fini dell’avvio del procedimento, in applicazione analogica dell’art. 333, comma 3, c.p.p. occorre evidenziare che l’orientamento giurisprudenziale citato in ricorso appare superato da un successivo e maggiormente condivisibile orientamento giurisprudenziale affermatosi nella giurisprudenza penale.
11.1. In particolare deve osservarsi che nella prevalente impostazione ermeneutica l’apporto conoscitivo dell’esposto anonimo è limitato nell'ambito della c.d. pre-inchiesta, ossia nella fase in cui gli organi investiganti ricercano elementi utili per l'individuazione della notizia di reato e che si caratterizza, da un lato (sotto il profilo procedurale) per l'atipicità e l'informalità delle attività svolte sia dal pubblico ministero, che dalla polizia giudiziaria; dall'altro (sotto il profilo cronologico) per la collocazione in un momento antecedente all'avvio delle indagini preliminari.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza del giudice penale (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 28.10.2008, n. 4329, Sez. VI, 21.09.2006, n. 36003), fermo restando che la denuncia anonima non può essere utilizzata a fini probatori, onde in base a essa non possono essere compiuti atti, quali ad esempio le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni o i sequestri (ossia atti di indagine che presuppongono l'esistenza di indizi di reato), tuttavia le notizie contenute nella denuncia anonima possono -anzi devono, per effetto del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale- costituire spunti per una investigazione di iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi di una notitia criminis.
Del resto -sebbene facendo leva sul tenore letterale degli articoli 240, comma 1, e 333, comma 3, cod. proc. pen. le disposizioni ivi contenute si prestino essere interpretate nel senso di escludere che l'esposto anonimo non consenta l'avvio di alcun tipo di accertamento- tuttavia tale interpretazione è smentita dall'art. 330 cod. proc. pen., che permette alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero di formare autonomamente la notizia di reato, accedendo a fonti d'informazione c.d. spurie, tra le quali si inserisce anche l'esposto anonimo.
Inoltre la prevalente impostazione ermeneutica trova conferma nell'art. 5 del D.M. 30.09.1989 (recante il "Regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale"), ove si prevede che:
   a) "le denunce e gli altri documenti anonimi che non possono essere utilizzati nel procedimento sono annotati in apposito registro suddiviso per anni, nel quale sono iscritti la data in cui il documento è pervenuto e il relativo oggetto";
   b) il predetto registro (c.d. modello 46) ed i documenti anonimi sono "custoditi presso la procura della Repubblica con modalità tali da assicurarne la riservatezza" (comma 2);
   c) "decorsi cinque anni da quando i documenti indicati nel comma 1 sono pervenuti alla procura della Repubblica, i documenti stessi e il registro sono distrutti con provvedimento adottato annualmente dal procuratore della Repubblica".
Ciò posto, come chiarito anche di recente dalla Suprema Corte “Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis” (Cass. pen., sez. VI, 22.04.2016 che ha pertanto ammesso l’utilizzabilità dell’anonimo esclusivamente come “mero atto di impulso investigativo per verificare l’esistenza di una notitia criminis”).
11.2. Si evidenzia al riguardo che nell’ipotesi di specie l’esposto anonimo è stato solo il sollecito sulla cui base si è condotta un’attività accertativa d’ufficio concretizzatasi, a seguito di apposito sopralluogo, nel rapporto fascicolo 23315 del 25/09/1996 richiamato nel provvedimento gravato, con cui si è constata ad opera del Corpo dei Vigili Urbani, Comando del XX Gruppo Circ.le, la realizzazione dei cancelli di cui è causa -laddove per contro con l’esposto anonimo si era lamentata l’istallazione abusiva di un unico cancello- per cui l’Unita organizzativa tecnica della circoscrizione XX del Comune di Roma ha qualificato le opere de quibus come opere eseguite in assenza di D.I.A. e suscettibili pertanto di essere sanzionate ai sensi dell’art. 60, comma 2, l. 662/1996.
Da ciò l’infondatezza della doglianza al riguardo formulata.
12. Ciò posto, senza dubbio destituita di fondamento è anche la censura fondata sull’asserita contraddittorietà fra l’esposto anonimo e le risultanza del sopralluogo, in quanto, come detto, l’esposto anonimo è stato solo l’impulso al fine di accertare d’ufficio la presenza di abusi edilizi, per cui valore probatorio deve assegnarsi unicamente alle risultanze del sopralluogo, peraltro eseguito da soggetti qualificabili quali pubblici ufficiali; da ciò il valore di fede privilegiata, ovvero sino a querela di falso ex art. 2700 c.c. da assegnarsi alle predette risultanze (cfr., in tali senso, Cons. Stato, sez. quinta, sentenza 03.11.2010, n. 7770; 28.01.1998, n. 103; sezione prima, 08.01.2010, n. 250 e cfr. anche, per il principio, Tar Campania, sesta sezione, n. 760 del 06.02. 2013; 11.12.2012, n. 5084, 21.06.2012, n. 2944; 02.05.2012, n. 2006, 02.05.2012, n. 2006, 05.06.2012, n. 2635 e n. 2644; 30.03.2011, n. 1856; sezione terza, 20.11.2012, n. 4638; sezione quarta, 03.01.2013, n. 59) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza l’applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico che è in re ipsa.
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Per costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto che, nel caso della doppia conformità, necessita della previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere, stante la necessità di poterne accertare la conformità sia con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova.
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Non avendo parte ricorrente offerto prova, parimenti destituita di fondamento è la censura riferita alla non applicabilità della predetta sanzione alle ricorrenti, in qualità di proprietari dell’immobile in cui sarebbero state da altri realizzate le opere edili di cui è causa, in quanto a seguito dell’entrata in vigore della l. 47/1985 si è andato per contro affermando il principio secondo il quale a norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985 sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione semplice di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso da altri .
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E' destituita di fondamento la censura riferita all’illegittimità della sanzione demolitoria, stante il lasso di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il principio giurisprudenziale secondo il quale “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”, principio questo applicabile in riferimento a tutte le sanzioni in materia edilizia e non solamente in riferimento all’ordine di demolizione, ricorrendo il medesimo presupposto della natura vincolata del potere esercitato.
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14. Parimenti infondate sono le ulteriori censure, riferite al difetto di motivazione e di istruttoria in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione di cui è causa.
Si evidenzia al riguardo che per pacifica giurisprudenza l’applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico che è in re ipsa (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008 , n. 20987).
Ed invero nell’ipotesi di specie, avendo l’Amministrazione comunale accertato la realizzazione delle opere de quibus in assenza della prescritta D.I.A., alcun altro accertamento doveva essere condotto dalla medesima, incombendo su parte ricorrente, cui era stata ritualmente inviata la comunicazione di avvio del procedimento, la prova della loro realizzazione in data antecedente l’entrata in vigore della L. 47/1985, onde ritenere che le stesse fossero sottratte non solo al regime della D.I.A., ma anche a quello dell’autorizzazione, laddove detto onere non è stato assolto non solo in sede procedimentale –non risultando che parte ricorrente abbia prodotto in quella sede memorie scritte e documenti, per cui si palesa infondata la dedotta violazione dell’art. 10 l. 241/1990– ma neanche nella presente sede.
Infatti per costante giurisprudenza in materia (ex multis TAR Campania Napoli, sez. VI, 17/09/2015, n. 4565 Cons. St., sez. IV, 14.02.2012 n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 02.07.2010 n. 16569; Cons. St., sez. IV, 10.01.2014 n. 46; Cons. St., sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Cons. St., sez. VI, 20.12.2013 n. 6159, Cons. St., sez. V, 20.08.2013 n. 4182; Cons. St., sez. VI, 01.02.2013 n. 631) l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto che, nel caso della doppia conformità, necessita della previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere, stante la necessità di poterne accertare la conformità sia con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova (cfr. per tutte Cassazione S.U. 30.10.2001 sentenza n. 13533).
Nell’ipotesi di specie per contro alcuna prova è stata al riguardo fornita, non potendosi annettere valore di prova in tale senso all’impegno contrattuale assunto dalla società Ac.Im.80 circa l’istallazione dei cancelli entro il mese di Maggio 1984, non essendovi alcuna prova in atti che in effetti i cancelli siano stati apposti entro la suddetta data e comunque in data anteriore all’entrata in vigore della L. 47/1985.
14.1. Non avendo parte ricorrente offerto siffatta prova, parimenti destituita di fondamento è la censura riferita alla non applicabilità della predetta sanzione alle ricorrenti, in qualità di proprietari dell’immobile in cui sarebbero state da altri realizzate le opere edili di cui è causa, in quanto a seguito dell’entrata in vigore della l. 47/1985 si è andato per contro affermando il principio secondo il quale a norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985 sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione semplice di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso da altri (ex multis TAR Sicilia Palermo Sez. II, 04.07.2014, n. 1744); per contro detta estraneità non può affermarsi nell’ipotesi di specie, in quanto le opere de quibus, anche se realizzate dalla società Ac.Im.80, erano state eseguite per conto ed in favore dei coniugi Fa., come da impegno contrattuale al riguardo intervenuto, con la conseguenza che alcun esonero di responsabilità può farsi valere nell’odierna sede, salva la possibilità di rivalsa in sede civile per inesatto inadempimento dell’obbligazione assunta dalla società Ac.Im.80.
15. Parimenti destituita di fondamento è la censura riferita all’illegittimità della sanzione applicata, stante il lasso di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il principio giurisprudenziale, di recente ribadito con sentenza dell’Adunanza Plenaria 17/10/2017, n. 9 secondo il quale “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”, principio questo applicabile in riferimento a tutte le sanzioni in materia edilizia e non solamente in riferimento all’ordine di demolizione, ricorrendo il medesimo presupposto della natura vincolata del potere esercitato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea di diritto, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Analogamente va richiamata la predominante giurisprudenza che pone in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge "ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa prevalente opinione giurisprudenziale ammette un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali.
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Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, laddove la prova per testimoni è del tutto residuale.
Data la premessa, da essa discende che la prova dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi, che resistono a quelli risultanti dagli estratti catastali ovvero alla prova testimoniale ed è onere del privato, che contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte pubblica.
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4. Le considerazioni di cui alla sentenza appellata non sono condivisibili e l’appello è fondato.
4.1 In linea di diritto, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 05.03.2018 n. 1391).
Analogamente va richiamata la predominante -e qui condivisa, in linea di principio- giurisprudenza che pone in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge "ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa, prevalente opinione giurisprudenziale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3177) ammette un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali (sembrerebbe essere questa la fattispecie per la quale è causa, in cui lo stesso Comune alla fine dà atto dell’esistenza di una tettoia o comunque di un manufatto poi consolidato, pur entro una situazione in punto di fatto non del tutto perspicua e caratterizzata da elementi documentali non sempre univoci e sicuri, che dovrà costituire oggetto di approfondimento istruttorio nella naturale sede procedimentale).
4.2 Sulla scorta di tali linee direttrici la fattispecie in esame appare connotata da elementi ben diversi rispetto a quanto rilevato dal Tar con la sentenza, resa in forma semplificata, qui appellata.
Dall’analisi della documentazione versata in atti emerge, infatti, come gli elementi prodotti da parte odierna appellante non si siano limitati alle richiamate dichiarazioni.
In particolare, emergono i seguenti elementi.
4.2.1 In primo luogo le risultanze degli atti pubblici di compravendita degli immobili interessati. In particolare, già il contratto di compravendita del 1940 tra gli originari proprietari ed il dante causa dell’odierno appellante, contiene il riferimento all’alienazione di una “casa civile con stalla, portico e fienile” e, quindi, un immobile composto non solo dalla casa di civile abitazione, ma anche da altri due corpi di fabbrica ovvero un portico ed un fienile che, presumibilmente, sono stati trasformati –con un intervento che la p.a. è chiamata a qualificare– nel manufatto in contestazione.
Ai fini della presente causa rileva che, contrariamente a quanto posto a fondamento del provvedimento demolitorio e della sentenza impugnata, lungi dal trattarsi di un manufatto ex novo l’ampliamento esisteva da epoca risalente –anche ante 1942– con conseguente onere di approfondimento istruttorio e motivazionale, ben distinto rispetto alla conclusione sottesa alla ordinata demolizione, sulla dimostrazione e sulla consistenza della presunta modifica successiva.
4.2.2 In secondo luogo, le aerofotogrammetrie, con particolare riferimento a quella rilasciata dall’Istituto Geografico militare del 1962, dalla quale è rilevabile la presenza di un manufatto, collocato nel punto riferibile all’ampliamento in contestazione. Tale fondamentale elemento, neppure esaminato o controdedotto dalla p.a. in sede procedimentale, evidenzia la presenza di un manufatto realizzato in epoca ante 1962.
Sul punto la concisa considerazione svolta dalla sentenza appellata appare tanto generica quanto contraddittoria, laddove prende atto che una copertura (e quindi un manufatto) vi fosse, in termini quindi opposti alla contestazione, di cui all’ordinanza impugnata, circa la presenza di un ampliamento abusivamente realizzato ex novo.
4.2.3 In terzo luogo, le diverse dichiarazioni sostitutive le quali, seppur in astratto non sufficienti ex sé, in concreto, a fronte della loro pluralità e della coerenza con gli altri richiamati elementi, impongono alla p.a. uno sforzo ben maggiore di quello posto a fondamento del provvedimento condiviso dal Tar.
Anche sul punto le concise considerazioni del Tar si basano su di un’affermazione generale non coerente con i principi sopra richiamati e basata sul richiamo di precedenti non pertinenti, in quanto relativi a fattispecie ben distinte: la prima, (Tar Veneto 121/2017) concernente una sola dichiarazione contrastante con plurime altre; la seconda (Tar Basilicata 164/2015) concernente un caso di irrilevanza della prova in quanto attestante la realizzazione di un manufatto nel 1970, cioè quando già sussisteva la generalizzata necessità del titolo edilizio.
In dettaglio, vano richiamate le tre dichiarazioni sostitutive, erroneamente considerate come isolate dal Tar: quella della signora Bi.Ma.Te., nata nel 1949 nei luoghi di causa (cosicché è ben ipotizzabile che possa correttamente riferire per un’epoca quantomeno anteriore al 1967), la quale conferma la circostanza che si evince dall’atto di compravendita del 1940 in merito all’esistenza di un porticato e, quindi, di un corpo di fabbrica già dagli anni ’40, che, negli anni ‘50 è stato tamponato ed ha assunto l’attuale consistenza; quella della signora La.Zu., acquirente pro quota, con il Br. nel 1982 dell’immobile oggetto dell’ordinanza di demolizione, che afferma che l’ampliamento all’epoca esisteva e che nello stesso vi era già quello che è ancora l’unico servizio igienico della casa; quella del signor Gr.Vi., mediatore che si era occupato dell’acquisto dell’immobile per conto del signor Br., il quale conferma la sussistenza dell’ampliamento nel 1982.
Tali ultime due dichiarazioni, pur riferendosi ad un’epoca posteriore al 1967, assumono rilievo sia in generale, quale conferma degli elementi desumibili dagli altri documenti, sia nello specifico quale esistenza del manufatto nell’attuale consistenza in epoca ben anteriore all’apposizione del vincolo paesaggistico.
5. In definitiva, conformemente ai principi sopra richiamati, la parte privata ha fornito una serie di elementi coerenti e plurimi in ordine alla risalenza del manufatto ad un’epoca anteriore alle date rilevanti in materia (1942 e 1967) e nella presente fattispecie (1987). Rispetto a tali elementi, non risulta che la p.a. abbia svolto il necessario approfondimento istruttorio e motivazionale, essendosi limitata a formule generiche e sostanzialmente di stile.
Inoltre, a fronte delle richiamate emergenze documentali, il Comune ha comunque erroneamente valutato come interamente abusivo l’ampliamento, considerandolo come realizzato ex novo; vizio in cui è incorso anche il giudice di prime cure. All’opposto, risulta provato per tabulas che un’opera era già esistente addirittura nel 1940 (oltre che nel 1962, come da aerofotogrammetria); conseguentemente appare fondato anche in parte qua il vizio dedotto in termini di travisamento fatti, difetto di motivazione e istruttoria sull’epoca e sulla consistenza dell’intervento asseritamente abusivo in quanto realizzato post 1967.
La p.a. è chiamata altresì a rivalutare il manufatto sotto il profilo paesaggio, in quanto risulta provata l’epoca di realizzazione anteriormente al vincolo, apposto solo nel 1987; al riguardo, se è pur vero che in caso di sanatoria assume rilievo unicamente l’epoca di valutazione dell’istanza, nel caso di specie, in assenza di un’istanza dell’odierno appellante, la p.a. è preliminarmente chiamata a verificare e valutare la consistenza dell’opera ed a dimostrare la realizzazione di un intervento, ante imposizione del vincolo, rilevante ai fini del vincolo stesso.
6. Sempre in linea generale, rispetto agli elementi rilevanti acquisiti nella presente controversia, vanno svolte le ulteriori considerazioni, sempre sulla scorta della prevalente e condivisa seguente opinione giurisprudenziale: nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, laddove la prova per testimoni è del tutto residuale; data la premessa, da essa discende che la prova dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi, che resistono a quelli risultanti dagli estratti catastali ovvero alla prova testimoniale ed è onere del privato, che contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte pubblica (Consiglio di Stato sez. IV 09.02.2016 n. 511).
Nel caso di specie la p.a. non ha fornito la necessaria prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli elementi concreti forniti, attraverso formule di stile non sufficienti alla luce dei principi sopra richiamati.
Parimenti irrilevante (in disparte della questione di ammissibilità che accomuna la perizia tecnica da ultimo prodotta da parte appellante, non richiamata dal Collegio in quanto reputata irrilevante), è la documentazione da ultimo prodotta dalla difesa comunale, sia in quanto integrante una inammissibile integrazione giudiziale della motivazione, sia per irrilevanza della stessa: per ciò che concerne i dati catastali, gli stessi non sono rilevanti, nei termini appena richiamati; per ciò che concerne la nuova dichiarazione sostitutiva la stessa, oltre a non contraddire in gran parte gli elementi già acquisiti e sopra descritti, dovrà comunque essere debitamente valutata nella naturale sede procedimentale insieme a tutti i numerosi elementi rilevanti nella fattispecie.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va parimenti accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2018 n. 5988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.

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3.– Sotto altro profilo, non è assistita da prova la tesi secondo cui la tettoia sarebbe stata assai risalente nel tempo –segnatamente, si tratterebbe di una tettoia preesistente sin dal 1927, usata come concimaia, per la quale all’epoca non abbisognava alcun tipo di permesso autorizzatorio–, cosicché l’intervento edilizio contestato si sarebbe limitato ad un’opera di manutenzione straordinaria e restauro.
3.1.– Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
3.2.– Nel caso di specie, gli appellanti non hanno fornito elementi idonei a comprovare la preesistenza del manufatto, nella sua attuale consistenza.
Dall’atto di divisione in data 11.01.2006, risulta sì una tettoia ma, a quel tempo «fatiscente» e dunque bisognevole di sostanziale rispristino, che dunque ha subito –come confermato anche dalle foto– una radicale alterazione di struttura e fisionomia.
Che la «concimaia» esistente prima degli interventi edilizi realizzati dal Sig. Vi.Gi., fosse un manufatto del tutto diverso da come oggi appare –collocato peraltro su un plateatico di calcestruzzo– risulta dalle stesse dichiarazioni del perito depositate in atti, secondo cui:
   - «il sottoscritto non conoscendo personalmente, lo stato di fatto dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere di manutenzione effettuate, può determinare l’entità di queste per confronto tra lo stato attuale e quello precedente riferendosi esclusivamente ad una descrizione del fabbricato preesistente, che seppur in forma sommaria è stata riportata nell’atto di divisione dell’11.01.2006 rep. 48061 racc. 17534»;
   - «dalla stringata descrizione si evince che si trattava di una tettoia fatiscente che per maggior precisazione riportata in via verbale al sottoscritto dai proprietari, era realizzata con profilati metallici e lamiere posticce, quindi i lavori di manutenzione straordinaria hanno senza dubbio riguardato il rinnovo delle pareti strutturali principali e la sostituzione della copertura con i materiali descritti che hanno reso definitiva la tettoia»;
   - «nulla può essere detto a riguardo del piccolo bagno adiacente la tettoia coperto dalle falde di tetto della stessa, in quanto in nessuna descrizione precedente lo stesso è stato citato» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2018 n. 5983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi di attività vincolata, le violazioni formali non consentono l’annullamento del provvedimento impugnato: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”.
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3.2. Trattandosi di attività vincolata, le violazioni formali pure denunciate con il ricorso non consentono l’annullamento del provvedimento impugnato: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Cons. Stato, Ad. Plen., 17.10.2017 n. 9).
3.3. L’ordinanza di demolizione non è stata notificata alla sig.ra Gi.Se. a titolo personale, ma quale amministratrice del condominio, in quanto tale sicuramente legittimata ai sensi dell’art. 1131, co. 2, c.c. a ricevere i provvedimenti dell’autorità concernenti le parti comuni.
3.4. Il riferimento alla sussistenza del deposito di rifiuti deve ritenersi neutro ai fini dell’ingiunzione demolitoria, essendo questa sufficientemente motivata in ragione della riscontrata abusività delle opere (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 18.10.2018 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente l’abuso.
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Il ricorso è infondato.
Non è condivisibile la prima censura, secondo cui i proprietari sarebbero estranei alla realizzazione dell’abuso edilizio, avendo acquistato l’immobile dopo la sua edificazione (censura qualificata dai ricorrenti come “difetto di legittimazione passiva”).
Come ripetutamente osservato dalla giurisprudenza anche di questa Sezione (TAR Napoli, n. 1501/2018) la sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente l’abuso (cfr. da ultimo Cons. St., Ad plen. 9/2017).
Peraltro va aggiunto, con riguardo al caso concreto, che in forza delle clausole del contratto di compravendita sopra richiamato, gli acquirenti erano stati resi edotti del cambiamento d’uso del fabbricato, originariamente rurale, in abitazione ad uso residenziale e della circostanza che tale cambiamento costituiva oggetto da parte della venditrice di una Dichiarazione Inizio Attività, sul cui esito procedimentale era pienamente esigibile, secondo un principio di ordinaria diligenza, una verifica da parte degli odierni ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.

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Non sussiste
l'illegittimità del provvedimento di demolizione per la mancata indicazione del bene da acquisire al patrimonio comunale.
Invero, il manufatto è sufficientemente descritto sia nella conformazione fisica che con i riferimento catastali, così da non risultare lese le esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR 380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di demolizione.

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Non è fondata la seconda doglianza, con cui si contesta la insufficienza della motivazione in relazione al decorso del tempo e alla violazione del legittimo affidamento.
La questione -invero controversa al momento dell’introduzione del giudizio, (in senso contrario a quanto dedotto da parte ricorrente, cfr. peraltro Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750)– è stata come è noto oggetto di una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria (Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 9); pertanto il principio di sinteticità ex art. 3 c.p.a. consente di richiamare quanto ivi affermato, secondo cui “non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem”.
E ciò a prescindere dalla specifica cognizione degli aventi causa circa la regolarità urbanistica dell’immobile, evincibile dal contratto di acquisto.
Infine, non può essere condivisa la terza censura, con cui i ricorrenti si dolgono della illegittimità del provvedimento di demolizione per la mancata indicazione del bene da acquisire al patrimonio comunale.
Il manufatto –sulla cui abusività non vi è contestazione– è sufficientemente descritto sia nella conformazione fisica che con i riferimento catastali, così da non risultare lese le esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR 380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di demolizione (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014 n. 3438; TAR Campania Napoli, Sez II, 09.07.2018, n. 4530; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 09.01.2015 n. 68) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all’autorità comunale dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia, mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento della disposta misura sospensiva.
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1. Con il gravame in trattazione, la ricorrente, che espone di essere proprietaria di un fabbricato di due piani fuori terra, oltre a piano seminterrato, ubicato in Striano alla Via ... e concesso in locazione a fini produttivo-artigianali, impugna l’ordinanza dirigenziale del Comune di Arzano n. 19 del 02.05.2017, con la quale le è stata ingiunta, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, il ripristino della destinazione residenziale originaria, come risultante dal certificato di agibilità prot. n. 5495 del 16.06.2016.
In particolare, con la predetta ordinanza le è stata contestata la realizzazione, in assenza di permesso di costruire, di un cambio di destinazione d’uso del piano terra e del piano seminterrato, che avrebbero visto rispettivamente la trasformazione da locale ad uso residenziale in locale ad uso produttivo-artigianale e da locale autorimessa (servente la residenza) in locale deposito dell’attività artigianale; inoltre, è stato posto a base dell’ordinanza, come motivo ulteriore del dovere di ripristino, il contrasto della trasformazione edilizia posta in essere con l’art. 4, comma 5, della legge regionale n. 19/2009 (cd. legge piano casa), che così recita: “Per gli edifici e loro frazionamento, sui quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della presente legge, non può essere modificata la destinazione d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.”.
La ricorrente aggiunge al riguardo di aver prodotto, in data 11.07.2016, CILA ai fini del cambio di destinazione d’uso del piano terra in locale ad uso produttivo-artigianale (seguito dalla relativa SCA del 28.07.2016) e che il suo inquilino, prima di avviare l’attività artigianale, presentava regolarmente SCIA commerciale in data 02.09.2016.
L’impugnativa ricomprende la comunicazione di avvio del procedimento di ripristino e la disposizione dirigenziale sospensiva dell’intervento di cambio di destinazione d’uso, entrambi atti meglio in epigrafe individuati.
L’intimata amministrazione comunale conclude nella sua memoria di costituzione per il rigetto del gravame.
Parte ricorrente insiste nelle sue ragioni con ulteriore memoria difensiva.
L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1261 del 13.09.2017, poi riformata in appello dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 4600 del 20.10.2017, che ha ritenuto di accordare tutela cautelare sulla scorta della seguente motivazione: “Considerato che, ad un primo esame, l’impugnato ordine di ripristino non appare un’implicita rimozione degli effetti favorevoli della CILA, né per questi ultimi sarebbe potuta bastare la mera sospensione disposta dal Comune (misura cautelare che scade decorso inutilmente il termine di cui all’art. 19, c. 3, della l. 241/1990: al più gg. 45 dalla sua emanazione, ai sensi dell’art. 27, c. 3, del DPR 380/2001), quand’anche detto Comune la volesse intendere a guisa di presupposto della statuizione ripristinatoria; Considerato infatti che l’art. 19, c. 6-bis, II per. della l. 241/1990 fa sì salvi i poteri repressivi ex DPR 380/2001, ma nei limiti di cui ai precedenti commi 3 e 4, onde occorre pur sempre l’esercizio espresso dell’autotutela prima dell’emanazione d’ogni misura repressiva o ripristinatoria; Considerato quindi che, allo stato, va accolto l’appello cautelare.”.
La causa, infine, è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 05.06.2018.
2. Il più approfondito esame dell’intera vicenda contenziosa, proprio del merito, fa propendere il Collegio per la complessiva infondatezza del ricorso, sebbene con motivazioni alquanto diverse da quelle esposte in prima battuta in sede cautelare.
3. In via preliminare, va chiarito che l’unico provvedimento passibile di cognizione è l’ordinanza di ripristino n. 29/2017, dal momento che sui rimanenti atti gravati non può intervenire alcuna pronuncia di merito, essendo le relative impugnative inammissibili, irricevibili e/o improcedibili per le ragioni che si andranno di seguito sinteticamente ad esporre con riferimento ad ogni singola determinazione:
   1) comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 739 del 27.01.2017: inammissibilità per carenza di interesse, perché nella specie si tratta di mero atto endoprocedimentale destinato ad essere recepito nel provvedimento ripristinatorio finale e, quindi, di atto privo di autonoma lesività;
   2) disposizione dirigenziale prot. n. 7315 del 22.08.2016, recante la sospensione dell’intervento di cambio di destinazione d’uso: irricevibilità per tardività, essendo il presente ricorso stato portato alla notifica (a mezzo ufficiale giudiziario) il 20.06.2017, mentre la disposizione in parola è entrata nella piena cognizione della ricorrente –come dalla stessa ammesso e documentalmente provato in atti– almeno a far data dall’08.09.2016, con conseguente sforamento del termine perentorio di sessanta giorni per proporre impugnativa.
Ad ogni modo, atteggiandosi tale provvedimento come un sostanziale ordine di sospensione lavori, l’impugnativa è anche improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo decorso il termine di efficacia di 45 giorni previsto dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all’autorità comunale dalla suddetta disposizione normativa, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia, mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento della disposta misura sospensiva (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.06.2016 n. 2758; TAR Lazio Roma, Sez. II, 04.04.2017 n. 4225; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 24.01.2017 n. 173; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016 n. 2282) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d’uso posto in essere, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, è giuridicamente rilevante e non può essere eseguito liberamente ma necessita del rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso.
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In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.
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4. Perimetrato l’ambito del giudizio al su indicato provvedimento di ripristino, si può dare corso allo scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
   a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era “liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di costruire, in virtù del combinato disposto degli artt. 23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti indici:
i) “prima di avere una destinazione residenziale, la porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua costruzione”;
ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”;
iii) “il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di allacci idrici e fognari”;
   b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;
   c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era comunque asseverata dalla CILA dell’11.07.2016 e dalla SCIA commerciale del 02.09.2016, con la conseguenza che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti titoli abilitativi;
   d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da residenziale a produttivo non comporti incremento degli standard urbanistici.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.
5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 22.09.2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI, 13.05.2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III, 03.12.2015 n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 05.09.2017 n. 4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17.02.2016 n. 344).
5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2016 n. 1684), che per aversi mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul tessuto edilizio in termini di incremento degli standard urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).
Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001.
Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad una diversa assegnazione della categoria funzionale di appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico urbanistico, inteso come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico, è evidente, in considerazione della differenziazione infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017 cit.).
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.
...
8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reati urbanistici - Opere edilizie in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire - Responsabilità del progettista e del direttore dei lavori - Individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione - Giurisprudenza - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Fattispecie: piano seminterrato palesemente non era ancora ultimato.
In tema di reati edilizi, la valutazione dell'opera ai fini della individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione deve riguardare la stessa nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i suoi singoli componenti (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo).
Inoltre, ai fini del decorso del termine di prescrizione del reato, di cui all'art. 44, primo comma, lett. b), d.P.R. 380/2001, l'uso effettivo dell'immobile, accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere "ultimato" l'immobile abusivamente realizzato, coincidendo l'ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, che ha specificato essere onere del ricorrente che voglia retrodatare la consumazione del reato dimostrare di avere non solo sospeso l'attività edilizia, ma anche di aver inteso lasciare volutamente l'opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta). L'ultimazione dei lavori, coincidente con la realizzazione delle rifiniture, deve riferirsi anche per le parti che costituiscono annessi dell'abitazione, come i locali destinati a magazzino e garage (Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali).
Del resto, nel caso di specie, le difformità dal permesso di costruire rilasciato concernevano non tanto il piano abitativo dell'edificio -in effetti già occupato- quanto il sottostante piano seminterrato, vale a dire proprio quello che, secondo la non contestata ricostruzione della sentenza impugnata, palesemente non era ancora ultimato al momento del sopralluogo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.10.2018 n. 46215 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti vincolati (ndr: di demolizione) devono intendersi congruamente motivati con la mera giustificazione del potere esercitato, mediante la sola indicazione dei presupposti normativi e fattuali.
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Più in generale, va detto che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Ne discende che essi sono sufficientemente motivati con riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore obbligo motivazionale.
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4. La disposizione impugnata indica in motivazione, in maniera sufficientemente chiara e precisa, sia la normativa urbanistico-edilizia ritenuta violata (disciplina urbanistica comunale), sia la tipologia dell’illecito commesso (costruzione di sottotetto ad uso abitativo non assoggettabile a sanatoria); ne consegue che, trattandosi nella specie di attività vincolata tesa alla repressione di illeciti, il corredo motivazionale appare sicuramente adeguato nonché conforme al consolidato principio secondo il quale gli atti vincolati devono intendersi congruamente motivati con la mera giustificazione del potere esercitato, mediante la sola indicazione dei presupposti normativi e fattuali (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 23.04.2008 n. 3498).
4.1 Più in generale, va detto che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; ne discende che essi sono sufficientemente motivati con riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore obbligo motivazionale (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 17.10.2017 n. 9; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750).
5. Né è rinvenibile il denunciato difetto di istruttoria, soffermandosi diffusamente il provvedimento impugnato sulle concrete ragioni che non rendevano praticabile la sanabilità del sottotetto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di sanzioni amministrative (nella specie, quelle urbanistico-edilizie), non vige il principio di irretroattività della legge, che la Costituzione pone solo per le norme penali, per cui per determinare la sfera di applicabilità della disciplina sanzionatoria edilizia occorre aver riguardo non alla data della costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito.
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La doglianza è infondata.
Infatti, questa Sezione ha più volte affermato che in materia di sanzioni amministrative (nella specie, quelle urbanistico-edilizie), non vige il principio di irretroattività della legge, che la Costituzione pone solo per le norme penali (cfr. Cons. Stato, VI, 31.05.1982, n. 275; V, 30.09.1980, n. 800), per cui per determinare la sfera di applicabilità della disciplina sanzionatoria edilizia occorre aver riguardo non alla data della costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito (Cons. Stato, V, 29.04.2000, n. 2544 e 09.02.1996, n. 152).
La riferita conclusione trova una specifica conferma negli artt. 32, comma 3, 33, comma 3, e 40, comma 1, della citata legge n. 47 del 1985, che assoggettano alla demolizione le opere abusive realizzate prima dell’entrata in vigore della legge non suscettibili di sanatoria.
Va comunque rilevato che la sanzione demolitoria non è stata introdotta per la prima volta dalla legge n. 47 del 1985, ma era già prevista dall'articolo 32 della legge urbanistica del 1942 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non ha alcuna rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di demolizione non emerga una valutazione unitaria e complessiva degli interventi sanzionati; ciò che conta è, infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco collegamento funzionale che ne impone una considerazione unitaria.
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Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato.
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Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali.
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Col secondo motivo si deduce che il giudice di prime cure avrebbe errato a respingere la doglianza con cui si era lamentato che il Sindaco non avrebbe potuto ingiungere la demolizione delle opere accessorie rispetto alla piscina (vialetto, solarium e pavimentazione esterna) non essendo la detta sanzione applicabile agli interventi soggetti a semplice autorizzazione come quelli di specie.
Il Tribunale ha motivato la reiezione affermando che “Tali opere sono state ritenute, nel loro insieme, contrastanti rispetto al vincolo idrogeologico.
Coerentemente il diniego di sanatoria ha interessato tali interventi unitariamente considerati.
L’impugnato ordine di demolizione ha considerato gli stessi, nel loro complesso, assoggettati a regime concessorio, trattandosi di abusi edilizi rispondenti ad un disegno unitario, ovvero costituenti l’uno il completamento dell’altro, stante la stretta connessione tra piscina, relativi accessi, solarium, e volumi tecnici …. Non è quindi dato scorporare le opere di trasformazione del territorio nei singoli interventi che le compongono, onde valutarne l’impatto e la disciplina isolandone l’una dall’altra, trattandosi di manufatti che rilevano, sul piano degli effetti lesivi per il territorio, nel loro insieme. Inoltre, va esclusa l’applicabilità del regime autorizzatorio proprio delle pertinenze laddove l’opera accessoria acceda ad un manufatto principale abusivo assoggettabile alla sanzione demolitoria …, estendendosi l’esigenza ripristinatoria al complesso dei beni realizzati abusivamente, compresi quelli accessori al manufatto principale abusivo
”.
Tuttavia, per un verso tale motivazione risulterebbe estranea al provvedimento impugnato, per altro verso le opere in questione, seppur correlate alla piscina, da essa si distinguerebbero “per le ridotte dimensioni, per l’ubicazione, per il modesto valore economico, per l’assenza di carico urbanistico”.
La censura non merita accoglimento.
Diversamente da quanto l’appellante sostiene non ha alcuna rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di demolizione non emerga una valutazione unitaria e complessiva degli interventi sanzionati, ciò che conta è, infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco collegamento funzionale che ne impone una considerazione unitaria.
Nella fattispecie non è dubbio che vialetto, solarium e pavimentazione esterna siano opere a servizio della piscina che, assieme ad essa danno luogo, dal punto di vista urbanistico-edilizio, a un unitario intervento, senza che, in contrario, possano rilevare le caratteristiche delle dette opere accessorie invocate dall’appellante: “ridotte dimensioni, … ubicazione, … modesto valore economico, … assenza di carico urbanistico”.
Col terzo motivo si denuncia l’errore commesso dal giudice di prime cure nel disattendere la censura con la quale era stata dedotta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Il mezzo di gravame è infondato.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato (ex plurimis Cons. Stato, IV, 31.08.2018, n. 5123; 19.03.2018, n. 1717 e 29.11.2017, n. 5595; VI, 16.03.2018, n. 1688).
Col quarto motivo si lamenta che il Tribunale avrebbe errato a respingere la censura con cui era stato dedotto che in considerazione del lungo tempo trascorso dalla commissione dell’abuso, l’ordine di demolizione avrebbe dovuto essere sorretto da adeguata motivazione.
La doglianza è infondata.
Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali (Cons. Stato, Cons. Stato, Ad. Plen. 17.10.2017, n. 9; VI, 06.07.2018, n. 4135; 19.06.2018, n. 3773; 02.05.2018, n. 2612 e 26.03.2018, n. 1887) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di un immobile abusivo.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Acquisizione al patrimonio comunale di un immobile abusivo – Impugnazione – Creditore ipotecario – Non è legittimato
E’ inammissibile il ricorso proposto da un istituto bancario avverso il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di un immobile sul quale è stato realizzato un abuso da un terzo destinatario di un mutuo ipotecario, sul rilievo che l’eventuale mancata inottemperanza comporti l’acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale con perdita del credito ipotecario (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il creditore ipotecario, non rientrando tra i soggetti che possono disporre giuridicamente e materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. St., sez. IV, 13.12.2012, n. 6411).
Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incide in maniera immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente; di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. St., sez. V, 13.05.2014, n. 2439).
Quindi, anche se si potesse valorizzare il riferimento al successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio comunale, rimane ferma l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione, posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il destinatario dei provvedimenti ex art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Valle d’Aosta, sentenza 12.10.2018 n. 48 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Ciò detto, il ricorso è inammissibile.
2.1.
E’ indubbio che laddove l’ordine di demolizione delle opere abusive non venga adempiuto, il Comune potrà procedere all’acquisizione dell’immobile sul quale insiste l’opera abusiva, alle condizioni di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001.
D’altronde, ai fini della legittimazione ad impugnare l'ordine di demolizione, deve considerarsi come l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell'abuso, considera quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta (TAR Roma, (Lazio), sez. II, 01/12/2017, n. 11903).
Per contro,
il creditore ipotecario, non rientrando tra i soggetti che possono disporre giuridicamente e materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 13/12/2012, n. 6411).
Non solo, ma
un interesse, perché possa essere tutelabile con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incide in maniera immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente; di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. Stato, sez. V, 13/05/2014, n. 2439).
Quindi,
anche se si potesse valorizzare il riferimento al successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio comunale, rimane ferma l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione, posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il destinatario dei provvedimenti ex art. 31 d.p.r. 380/2001.
In questo senso,
è certamente ammissibile per il creditore ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario, laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo da parte del creditore pignorante non può ritenersi ammissibile perché chiaramente avente natura “surrogatoria” e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere con la demolizione.
Pertanto,
in via generale, il creditore ipotecario deve ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo all’intera serie dei provvedimenti contemplati dall’art 31 T.U. edilizia.
2.2. La conferma di quanto sopra emerge chiaramente anche dall’esame della disciplina civilistica dell’ipoteca.
Pur trattandosi di un diritto che, secondo l’opinione prevalente, ha natura “reale”, la caratteristica principale dello stesso è che non conferisce poteri o facoltà di godimento del bene ipotecato, ma si limita, da un lato, ad attribuire al titolare un diritto potestativo di duplice contenuto (espropriare e far vendere la cosa e poi soddisfarsi sul ricavato con preferenza sugli altri creditori) e, dall’altro lato, a vincolare la cosa senza però impedirne o limitarne l’attuale godimento o disposizione importando soltanto una possibile espropriazione futura.
In questo senso, i poteri del creditore ipotecario a tutela della propria garanzia con riguardo all’esistenza e consistenza del bene ipotecato sono limitati.
L’art. 2813 c.c., ai sensi del quale <<qualora il debitore o un terzo compia atti da cui possa derivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati, il creditore può domandare all'autorità giudiziaria che ordini la cessazione di tali atti o disponga le cautele necessarie per evitare il pregiudizio della sua garanzia>>, infatti, si riferisce ai soli pericoli di “danni materiali” (come emerge chiaramente anche dall’esame della relazione al codice civile).
Per contro, l’art. 2878, n. 4 c.c. prevede, quale causa di estinzione dell’ipoteca, il “perimento del bene ipotecato”.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha sottolineato che
l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del Comune dell'immobile costruito in totale difformità o assenza della concessione, emessa dal Sindaco ai sensi dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, che si connota per la duplice funzione di sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi, dà luogo ad acquisto a titolo originario, con la conseguenza che l'ipoteca e gli altri eventuali pesi e vincoli preesistenti vengono caducati unitamente al precedente diritto dominicale, senza che rilevi l'eventuale anteriorità della relativa trascrizione o iscrizione.
La fattispecie è assimilabile al perimento del bene, ipotesi nella quale si estingue l'ipoteca, giacché l'immobile abusivo è destinato al "perimento giuridico", normalmente conseguente alla demolizione, salva la eccezionale acquisizione al patrimonio comunale, che lo trasforma irreversibilmente in "res extra commercium" sotto il profilo dei diritti del debitore e dei terzi che vantino diritti reali limitati sul bene (così, Cass., ord. n. 23453 del 06/10/2017).
E’ evidente, allora, che
il provvedimento di acquisizione gratuita si pone come un evento esterno alla sfera di controllo e al potere di intervento del creditore ipotecario che ne subisce le conseguenze senza poter concretamente opporsi allo stesso.
2.3. Sotto altro profilo, poi, laddove si ammettesse la legittimazione e l’interesse ad agire in capo a parte ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione, si dovrebbe, altresì, affermare la medesima situazione con riguardo al precedente provvedimento di diffida a demolire.
Ma, in tal caso, il ricorso in esame risulterebbe comunque inammissibile in quanto Banca Sella per un verso, non ha impugnato in questa sede anche le diffide a demolire nn. 1/17 e 2/17 e, dall’altro lato, ha dedotto la difformità tra l’ordine di demolizione e la diffida 1/17, quando l’ordinanza di demolizione consegue alla diffida n. 2/17, che è motivata specificamente con riguardo all’art. 78 e non 80 d.p.r. 380/2001.
Al riguardo, occorre rammentare che, secondo la giurisprudenza di questo TAR,
la diffida a demolire è idonea a produrre un doppio effetto lesivo a carico del destinatario dell'atto atteso che, in primo luogo, qualifica come abusivi manufatti aventi rilievo edilizio che il Comune assume essere stati realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo; in secondo luogo, mette in mora il destinatario a dare esecuzione all'ordine entro il termine previsto dalla legge, pena l'esecuzione in danno e l'applicazione di eventuali sanzioni accessorie; ne consegue che la diffida a demolire va impugnata tempestivamente, onde impedire il consolidamento quantomeno del primo effetto lesivo (ossia la qualificazione delle opere come abusive)…. (TAR Valle d'Aosta, sez. I, 17/04/2018, n. 25).
Il procedimento di repressione degli abusi edilizi delineato dall'art. 77, l.reg. Valle d'Aosta n. 11 del 1998, infatti, è articolato in due fasi che danno luogo a distinti sub procedimenti; il primo si conclude con la diffida a demolire e il secondo, nel presupposto di quest'ultima, con l'ordinanza di demolizione; i due atti sono autonomi ed entrambi impugnabili per i vizi loro propri, dato che incidono in modo pregiudizievole sugli interessi del destinatario; la diffida è un necessario presupposto dell'ordinanza di demolizione (e infatti quest’ultima è illegittima se emanata in difetto della prima) cosicché il suo annullamento facendo venir meno il presupposto necessario dell’ordinanza di demolizione determina l’automatica caducazione di quest’ultima (secondo lo schema della c.d. invalidità caducante) (TAR Valle d'Aosta, sez. I, 10/07/2013, n. 46).
2.4. Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto il consolidato indirizzo giurisprudenziale che esclude dall’ambito di applicazione della norma sulla comunicazione di avvio i procedimenti volti a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia, mediante adozione dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di procedimenti che mettono capo a provvedimenti di contenuto vincolato.
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere, che integrano, alla luce della disciplina urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la decisione amministrativa, che non potrebbe avere un contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia motivazione».
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Non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare, per il sol fatto di aver versato le imposte comunali (ICI, IMU, TARI).
Invero, diversi sono i presupposti in base ai quali si formano i predetti obblighi tributari [si veda sul punto Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema di TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della tassa de qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o meno della costruzione) …»].
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1. – Con il ricorso in esame, il Sig. Sa.Pi. chiede l’annullamento dell'ordinanza del 14.04.2011, con la quale il responsabile del Servizio Edilizia Privata ed Urbanistica del Comune di Aglientu, ha ordinato all’odierno ricorrente la demolizione delle opere realizzate senza titolo, consistenti in un "...edificio di forma rettangolare adibito a casa di civile abitazione avente una superficie di mq. 79, quasi completamente fuori terra con quattro aperture di cui tre sul prospetto principale e una sul prospetto laterale ad una veranda di mq 33 con sottostante pavimentazione e coperta da travi in legno e soprastante copertura in cemento..." e in un "... muretto perimetrale in blocchetti di cemento e locale adibito a forno per la cottura degli alimenti".
...
6. - Le censure sopra esposte sono manifestamente infondate.
6.1. - In linea di fatto, occorre riprendere la motivazione dell’ordinanza di demolizione e del rapporto del 31.03.2011, del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale (Stazione Forestale di Luogosanto), da cui si evince che le opere, ricadenti in zona E (agricola) e in area soggetta a vincolo paesaggistico, sono state realizzate senza autorizzazione paesaggistica; e che, sotto il profilo edilizio e urbanistico, il Sig. Pi. aveva a suo tempo ottenuto una autorizzazione edilizia (n. 625 del 17.12.1996) per la “realizzazione di una cisterna idrica interrata”.
Dai rilievi effettuati, veniva accertata, invece, la realizzazione di una casa di civile abitazione di mq 79, oltre a un muro perimetrale in blocchetti di cemento e un locale adibito a forno per la cottura di alimenti.
6.2. - Ciò posto, passando alle censure dedotte dal ricorrente, in primo luogo va rilevata la manifesta infondatezza della censura basata sull’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
E’ noto, infatti, il consolidato indirizzo giurisprudenziale che esclude dall’ambito di applicazione della norma sulla comunicazione di avvio i procedimenti volti a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia, mediante adozione dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di procedimenti che mettono capo a provvedimenti di contenuto vincolato (cfr., ex multis, Cons. St., sez. III, 14.05.2015, n. 2411; da ultimo, Sez. IV, n. 5524/2018).
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere, che integrano, alla luce della disciplina urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la decisione amministrativa, che non potrebbe avere un contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia motivazione».
6.3. - Nemmeno può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare. Anche la circostanza dell’aver versato le imposte comunali (ICI, IMU, TARI), fatta valere dal ricorrente con la memoria conclusiva, non rileva sotto questo profilo, poiché diversi sono i presupposti in base ai quali si formano i predetti obblighi tributari [si veda sul punto Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema di TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della tassa de qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o meno della costruzione) …»] (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti volti a sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere preceduti dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in quanto l’attività di repressione di tali abusi si caratterizza per essere urgente e strettamente vincolata.
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4.2. Parimenti infondata è la seconda censura ove si tenga conto che il provvedimento sanzionatorio è consequenziale alla rimozione parziale del titolo.
Opera, pertanto, il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui gli atti volti a sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere preceduti dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in quanto l’attività di repressione di tali abusi si caratterizza per essere urgente e strettamente vincolata (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 18.01.2018, n. 289; TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. IV, 03.05.2017, n. 2320; nella giurisprudenza di questa sezione v., da ultimo, TAR Lombardia, sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 732) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

settembre 2018

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una consolidata giurisprudenza il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo preposto alla repressione di tali abusi edilizi.
Quindi, a fronte della persistenza in capo all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento.
Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni caso, a rispondere alla domanda con la quale i proprietari di terreni limitrofi a quello interessato da un abuso edilizio chiedono ad esso di adottare atti di accertamento delle violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad adottare gli stessi.
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque, essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal Comune sulla diffida inoltrata dal ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà.
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Il ricorso è in parte improcedibile e in parte fondato.
Stante quanto dichiarato dallo stesso ricorrente non vi è più interesse al ricorso con riferimento dalla domanda di accesso; per la restante parte il ricorso è fondato.
Il ricorrente ha inoltrato al Comune di Casalnuovo di Napoli un atto di diffida con il quale ha chiesto l’adozione degli opportuni provvedimenti sanzionatori nei confronti dei controinteressati.
In tale diffida il ricorrente ha rilevato che i suddetti, rispettivamente proprietario dell’immobile e occupante una porzione dello stesso ove viene svolta attività commerciale analoga alla sua, avrebbero illegittimamente realizzato un soppalco in cemento armato abitabile.
In particolare, tale opera non potrebbe trovare legittimazione nei grafici allegati alla SCIA n. 123 del 02.082012; a tale riguardo anche la DIA del 2001 (nella quale si riferisce di un soppalco per allocare impianti tecnologici e, dunque, non abitabile) non costituirebbe un titolo idoneo dal momento che farebbe a sua volta riferimento a dei permessi di costruire (le autorizzazioni n. 20 del 13.07.2001 e n. 41 dell’11.10.2001) andati smarriti (cfr. denuncia di smarrimento depositata in data 26.07.2018 dal Comune di Casalnuovo di Napoli).
Il Comune nelle proprie difese sostiene che non vi sarebbe alcun obbligo di provvedere sulla diffida del 15.12.2017 in quanto in data 14.09.2015 l’amministrazione avrebbe effettuato tutti i necessari accertamenti.
Osserva di contro il Collegio che, da un lato, alla diffida del 15.12.2017 (successiva all’accertamento degli organi tecnici) il Comune non ha dato alcun riscontro, dall’altro lato, al verbale di accertamento del 14.09.2015 non è seguito alcun provvedimento. Come, peraltro, evidenziato dal ricorrente la legittimità edilizia del soppalco in cemento armato abitabile non emerge dagli atti di causa visto che i permessi di costruire del 2001 sono andati smarriti e sia nella DIA del 2001 sia nella SCIA del 2012 si fa riferimento a un soppalco per allocare impianti tecnologici e non di un soppalco abitabile con un soffitto di circa 3 metri.
Deve aggiungersi che, secondo una consolidata giurisprudenza il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo preposto alla repressione di tali abusi edilizi (ex multis TAR Brescia, sez. I, n. 1205 del 27.07.2011; Cons. St., Sez. IV, 05.01.2011, n. 18; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 6260 del 26.06.2009; Cons. St. Sez. IV, 19.10.2007 n. 5466).
Quindi, a fronte della persistenza in capo all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento. Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni caso, a rispondere alla domanda con la quale i proprietari di terreni limitrofi a quello interessato da un abuso edilizio chiedono ad esso di adottare atti di accertamento delle violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad adottare gli stessi (TAR Lazio Latina, 24.10.2003, n. 876).
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque, essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Casalnuovo di Napoli sulla diffida inoltrata dal ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà (ex multis TAR Campania, sez. VIII, 24.04.2009, n. 2166).
Il Collegio ritiene di non dover esercitare la facoltà di pronunciarsi sulla fondatezza nel merito dell'istanza la quale richiede l’effettuazione di accertamenti tecnici da parte del Comune.
L’amministrazione comunale dovrà pertanto concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso nel termine di sessanta giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.
Nel caso di inadempienza si nomina sin da ora, quale commissario ad acta, il Prefetto di Napoli od un funzionario del suo Ufficio all’uopo da lui delegato, che si attiverà su specifica richiesta del ricorrente.
Il commissario, prima del suo insediamento, accerterà se nelle more è stato adottato il provvedimento finale e, in caso di perdurante inadempimento, lo adotterà in sostituzione; le spese relative all’eventuale compenso del commissario, da liquidarsi con separato decreto, devono essere poste a carico del Comune (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 28.09.2018 n. 5666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che non è stata però disposta con il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del 2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di specifici presupposti– del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene".
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Poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato come ‘principio fondamentale’ dell'Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE– è quello ingenerato nel privato da provvedimenti amministrativi, ed è correlato all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in generale alla stabilità dei provvedimenti amministrativi, ipotesi, questa, che –all’evidenza- non ricorre nella fattispecie in esame, in cui non sussiste alcun provvedimento favorevole sulla cui base siano state realizzate le opere in questione, che risultano, quindi, essere prive dei prescritti titoli.
Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e attuale alla demolizione delle opere grava sull’amministrazione procedente.
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Con riguardo alla dedotta mancata indicazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva che l’omessa o imprecisa indicazione non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che, con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria dell’acquisizione.
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Come affermato dall’univoca giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche), la funzione dell’ingiunzione a demolire è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo, rendendo noto ai destinatari che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione.
A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo di sanzione che la legge collega all’abuso senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici e conclusivi, essere esattamente definite al momento della effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
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3.1. Doverosamente e legittimamente l’amministrazione comunale ha proceduto all’adozione del provvedimento di irrogazione della sanzione demolitoria, individuando quale soggetto legittimato passivo anche la proprietaria attuale del bene.
3.2. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte ricorrente, infatti, la condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale (v. TAR Bari Puglia sez. III, 10.05.2013, n. 710) che non è stata però disposta con il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del 2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di specifici presupposti– del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene" (cfr. TAR Napoli Campania sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180).
4. Non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a contestare la carenza di un adeguato substrato motivazionale del provvedimento impugnato, avendo l’amministrazione indicato puntualmente i presupposti alla base della irrogazione della sanzione demolitoria, costituiti dall’abusività delle opere, adeguatamente descritte, in quanto edificate in assenza del permesso di costruire.
4.1. Come chiarito, inoltre, dalla giurisprudenza (con orientamento che ha ottenuto l’autorevole avallo dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del 2017), poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
4.2. Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato come ‘principio fondamentale’ dell'Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE– è quello ingenerato nel privato da provvedimenti amministrativi, ed è correlato all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in generale alla stabilità dei provvedimenti amministrativi, ipotesi, questa, che –all’evidenza- non ricorre nella fattispecie in esame, in cui non sussiste alcun provvedimento favorevole sulla cui base siano state realizzate le opere in questione, che risultano, quindi, essere prive dei prescritti titoli (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, n. 6520 del 2018).
4.3. Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e attuale alla demolizione delle opere grava sull’amministrazione procedente, fermo restando che, nella fattispecie, la descrizione delle opere contestate ed i giustificativi alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal provvedimento impugnato.
5. Infine, con riguardo alla dedotta mancata indicazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva che l’omessa o imprecisa indicazione non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che, con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria dell’acquisizione (cfr. Cons. Stato, VI, 05.01.2015, n. 13).
5.1. Inoltre, come affermato dall’univoca giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche), la funzione dell’ingiunzione a demolire è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo, rendendo noto ai destinatari che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo di sanzione che la legge collega all’abuso senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici e conclusivi, essere esattamente definite al momento della effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
6. Per tutte le suesposte considerazioni il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napli, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 5661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm..
Pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso.
Del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Inoltre, è principio consolidato quello secondo cui l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano.
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In ipotesi di segnalazioni circostanziate e documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente.
In ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il provvedimento sfavorevole.
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Indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in considerazione della natura permanente di simili illeciti.
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Ritenuto:
   - che, come rilevato dalla giurisprudenza, sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 09.11.2015 n. 5087; e, da ultimo, Sez. VI, 07.06.2018 n. 3460);
   - che, pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso;
   - che, del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
   - che, inoltre, è principio consolidato quello secondo cui l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano (v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. I, 11.05.2018 n. 5233);
   - che nella fattispecie, in qualità di proprietari confinanti con l’area in cui è stato realizzato il contestato “muro”, i ricorrenti avevano addotto circostanziati profili di perplessità circa la regolarità edilizia del manufatto, sicché il Comune di Argegno aveva l’obbligo di provvedere sulla loro argomentata richiesta, effettuando le dovute verifiche e determinandosi quindi esplicitamente e motivatamente sull’istanza, in senso positivo o negativo che fosse;
   - che, al contrario, pur procedendosi ad un sopralluogo in presenza dei soggetti interessati, alla redazione del relativo verbale (riassuntivo dei rilievi effettuati) non ha fatto poi séguito l’adozione di determinazioni conclusive dell’ente che di quelle operazioni costituissero il risultato, neppure dopo che i ricorrenti avevano segnalato in modo analitico le questioni rimaste irrisolte all’esito del sopralluogo e invocato le conseguenti misure repressive, posto che, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
   - che, in ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune di Argegno concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il provvedimento sfavorevole (v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.06.2018 n. 3460);
   - che va invece disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per intervenuto consolidamento della d.i.a. del 2005 (v. memoria difensiva della controinteressata), in quanto, indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in considerazione della natura permanente di simili illeciti (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3460/2018 cit.);
   - che, in conclusione, va assegnato al Comune di Argegno un termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza affinché lo stesso provveda sulla richiesta degli interessati con atto puntualmente motivato, essendo evidente che, per l’esigenza di accertamenti istruttori di competenza dell’ente locale, il presente dictum giudiziale è circoscritto alla statuizione della sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione e non è anche esteso all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio;
   - che, in caso di inerzia e su documentata richiesta dei ricorrenti, provvederà in via sostitutiva, nei successivi sessanta giorni, un Commissario ad acta che viene sin d’ora nominato nella persona del Prefetto di Como, con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio;
Considerato, pertanto,
   - che il ricorso va accolto, con conseguente obbligo dell’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, del Commissario ad acta) di provvedere nei termini suindicati;
   - che le spese di lite seguono la soccombenza del Comune di Argegno, mentre le stesse appaiono suscettibili di compensazione nei confronti della controinteressata
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
   - lo accoglie quanto alla pretesa formazione del silenzio-rifiuto sull’istanza in data 05.03.2018 e, per l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio, ordina all’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, al Commissario ad acta) di provvedere nei termini indicati in motivazione;
   - nomina, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Como –con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio–, che interverrà su richiesta dei ricorrenti solo dopo l’inutile decorso del termine assegnato all’Amministrazione comunale.
Condanna il Comune di Argegno al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi € 2.000,00 (duemila/00), oltre agli accessori di legge e alla rifusione del contributo unificato (nella misura effettivamente versata). Compensa le spese nei confronti della sig.ra Mo.Ge..
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente pronuncia –una volta passata in giudicato– alla Corte dei conti, Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, ai sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 2171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 35 Testo Unico dell’edilizia prevede un potere repressivo di competenza del Comune in materia di repressione di interventi abusivi su suolo demaniale il quale concorre, ma è comunque distinto rispetto a quello spettante all’Autorità marittima ai sensi dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n. 327.
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Come più volte affermato in giurisprudenza, posto che il demanio marittimo presenta una conformazione variabile nel corso del tempo in considerazione della mutevole azione del mare sulle coste le aree demaniali marittime, per intrinseca natura, possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto possono intervenire, con un certo margine di probabilità, modificazioni del territorio costiero che rendano non più affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della linea di confine, rende illegittimo un procedimento istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso senza la partecipazione al procedimento stesso del privato, in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art. 32 cod. nav. mentre “Le mappe catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a costituire strumento di certa definizione dei confini tra demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe catastali non possono costituire uno strumento sicuro per determinare la linea di confine del demanio marittimo, che per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel corso del tempo”.
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1. Con il provvedimento del impugnato l’ente locale ordinò, ai sensi dell’art. 35 TUE la demolizione della recinzione con muro di contenimento in pietra alto mt. 4.2 circa sul presupposto della sua realizzazione su suolo demaniale marittimo per 146 mq.
Le doglianze relative all’illegittimo ed erroneo uso del potere di cui all’art. 35 d.P.R. 380/2001 hanno fondamento.
Ai sensi del primo comma dell’art. 35, intitolato interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, “Qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28, di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all’ente proprietario del suolo”: la norma, quindi, consente l’emanazione del provvedimento comunale di demolizione per occupazione di suolo demaniale marittimo in quanto abusiva e dunque realizzata in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo.
Ha dimostrato parte ricorrente che la realizzazione del fabbricato è avvenuta pur essendoci titolo edilizio e concessione demaniale marittima emanate negli anni settanta sicché il potere esercitato per repressione degli abusi edilizi è stato utilizzato per il diverso fine della violazione delle norme che regolano l’uso dei beni demaniali da parte dei privati.
Va rammentato, infatti, che l’art. 35 Testo Unico dell’edilizia prevede un potere repressivo di competenza del Comune in materia di repressione di interventi abusivi su suolo demaniale il quale concorre, ma è comunque distinto rispetto a quello spettante all’Autorità marittima ai sensi dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n. 327 (in tal senso TAR Napoli, sez. III, 16.01.2012 n. 195; TAR Latina, sez. I, 23.09.2009, n. 834; Tar Napoli, 24/05/2016, n. 2638).
2. Sebbene il riscontro del primo motivo di censura sia dirimente ritiene il Collegio di affrontare anche gli ulteriori motivi
Ha lamentato, in particolare, parte ricorrente che il provvedimento sia fondato sull’erroneo presupposto in fatto della demanialità dell’area, nonché la violazione dell’obbligo partecipativo al procedimento, rilevando la contraddittorietà con atto abilitativo del Comune nella costruzione dell’abitazione e, soprattutto, con l’autorizzazione prescritta a sensi dell’art. 55 del Codice della Navigazione Capitaneria di Porto di Crotone.
Ebbene, dagli atti acquisiti risulta:
   - che “il terreno è situato all’ingresso di Soverato in una zona con notevole sviluppo urbano. Tale situazione ha determinato uno stato di fatto in cui parecchi fabbricati hanno eseguito delle recinzioni con muri in cemento armato, sconfinando nella proprietà demaniale” (verbale di ispezione 11.05.2004),
   - che la ricorrente ha proceduto ad occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo, in loc. “Ippocampo” del Comune di Soverato, di mq. 146 circa mediante un muro di contenimento realizzato in pietra alto mt. 4,2 occupata per mq. 117 circa da un terrazzo praticabile e per mq. 98,40 da giardino.
Lateralmente al muro vi è un’area di mq. 12 circa occupata da gradini e battuto di cemento; su detta area esistono due superfici facenti parte del fabbricato adibito a civile abitazione che si estendono per ulteriori piani 4, per una superficie totale di mq 33,00 circa. Ai tre piani superiori del fabbricato vi è l’aggetto di altrettanti balconi per una superficie complessiva di mq. 10,80 circa. La rimanente area pari a mq. 29 circa risulta occupata ad uso giardino ed in parte risulta pavimentata.
Nella parte centrale di quest’ultima area esiste un cancello in ferro dal quale si accede al –predetto giardino- (verbale di ispezione del 29.11.2005 ed accertamento tecnico della medesima data). Dunque l’adozione del provvedimento risulta essere effettivamente avvenuta sul presupposto della demanialità dell’area occupata.
In punto di partecipazione, inoltre, si riscontra la violazione delle garanzie partecipative previste dall’art. 7 della Legge 241/1990 posto che parte ricorrente è stata resa edotta di un sopralluogo condotto dalla Capitaneria di Porto, diretto all’accertamento di un abuso demaniale, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria. Non vi è stata però alcuna comunicazione da parte del Comune resistente circa l’avvio del relativo procedimento amministrativo sanzionatorio per abuso edilizio.
Orbene la partecipazione, pur trattandosi di provvedimento vincolato, risultava essenziale proprio a fronte della delicatezza della verifica della demanialità e dell’avvenuta contestazione da parte del privato non superata da deduzioni dell’amministrazione ai sensi dell’art. 21-octies l. n. 241/1990.
Va, infatti, in proposito rammentato, come più volte affermato in giurisprudenza, che posto che il demanio marittimo presenta una conformazione variabile nel corso del tempo in considerazione della mutevole azione del mare sulle coste le aree demaniali marittime, per intrinseca natura, possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto possono intervenire, con un certo margine di probabilità, modificazioni del territorio costiero che rendano non più affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della linea di confine, rende illegittimo un procedimento istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso senza la partecipazione al procedimento stesso del privato, in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art. 32 cod. nav. (v. Tar Calabria 10.07.2014, n. 1105, TAR Sardegna, sez. I 12.07.2017 n. 469; TAR Catania, (Sicilia), sez. III, 22/07/2015, n. 1970) mentre “Le mappe catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a costituire strumento di certa definizione dei confini tra demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe catastali non possono costituire uno strumento sicuro per determinare la linea di confine del demanio marittimo, che per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel corso del tempo” (v. TAR Sicilia (Catania) sez. III 20.02.2008 n. 309 e Cons. St. n. 5587/2006).
Ciò premesso nel caso di specie parte ricorrente ha allegato e documentato che fin dalla data della concessione demaniale marittima l’area occupata non ricadeva nella zona demaniale, mentre l’amministrazione resistente non ha indicato il carattere sopravvenuto della modifica o il momento nel quale si sarebbe verificata la violazione rispetto alla normativa edilizia.
Ne discende che in tale ipotesi il vizio partecipativo risulta aver inciso sul procedimento ed, eventualmente, anche sul contenuto del provvedimento, non avendo l’amministrazione resistente provato nel provvedimento impugnato né negli atti depositati in seguito all’ordinanza istruttoria una diversa indicazione della linea del confine demaniale da quella allegata dal ricorrente, una modifica rispetto alla situazione di fatto preesistente ovvero altri elementi idonei a provare il carattere demaniale dell’area occupata.
Ne consegue l’accoglimento del ricorso con annullamento del provvedimento impugnato, fatti salvi gli eventuali ulteriori provvedimenti dell’amministrazione competente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 28.09.2018 n. 1666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla demolizione di un chiosco realizzato su suolo demaniale.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire “ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U. dell'edilizia: e ciò in ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel senso che una volta accertata la realizzazione di interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto previsto dall’art. 31 in base al quale la demolizione può essere legittimamente comminata anche al proprietario non responsabile dell’abuso.
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso, su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e dell’area pertinenziale, è la principale ragione che giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate, tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A. e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e non anche il proprietario.
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L’ordinanza di demolizione da cui origina la vertenza è stata legittimamente adottata e notificata nei confronti del solo responsabile dell'abuso (nella specie il concessionario, signor St.Ga.), ovvero di colui che ha realizzato le opere senza i necessari titoli edilizi o in difformità dagli stessi.
La demolizione del chiosco ottagonale per cui è causa, realizzato su suolo demaniale, è stata, invero, disposta dal Comune ai sensi dell’art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001: tale norma, che disciplina gli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, prevede che qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al “responsabile dell'abuso” la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire “ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U. dell'edilizia, richiamata dall’odierna ricorrente: e ciò in ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel senso che una volta accertata la realizzazione di interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto previsto dall’art. 31 in base al quale la demolizione può essere legittimamente comminata anche al proprietario non responsabile dell’abuso (cfr. TAR Napoli sez. IV n. 3935/2012; TAR Salerno 1820/2013; TAR Puglia Bari 678/2014).
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso, su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e dell’area pertinenziale, è la principale ragione che giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate, tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A. e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e non anche il proprietario.
Nel caso di specie il responsabile dell’abuso è pacificamente il sig. St.Ga., concessionario demaniale e titolare delle autorizzazioni edilizie in precario, come accertato dal Comune e ammesso dalla stessa ricorrente che, nel corso del sopralluogo del 2007, dichiarava alla Polizia Municipale che committente ed esecutore materiale del nuovo chiosco era proprio il sig. Ga.: il procedimento sanzionatorio si è, pertanto, legittimamente svolto nei suoi confronti, senza che si rendesse necessario il coinvolgimento dell’odierna ricorrente.
Ferme le considerazioni che precedono, la domanda risarcitoria è comunque infondata in quanto la ricorrente non ha provato l'ingiustizia (lesività) sostanziale dell’ordinanza di demolizione, cioè l’impossibilità per la P.A. di adottare un atto di contenuto analogo a quello affetto dal supposto vizio formale o procedimentale, dovendosi ritenere necessario per l’ammissione a risarcimento il giudizio prognostico circa la non reiterabilità dell’atto che si assume viziato da un vizio formale o procedimentale.
Risulta, inoltre, dagli atti di causa che la ricorrente è di fatto comunque venuta a conoscenza della possibilità di recuperare gli arredi del chiosco (arg. in base a doc. 49 P.A.: avviso di sgombero del chiosco da eventuali arredi, suppellettili, etc. notificato dal Comune al Ga. il 25.11.2010 e ricevuto a mani dall’odierna ricorrente, La Ro.An., convivente, prot. notifiche n. 2741; v. anche doc. 59 e 51 P.A., lettera avv. Ca., in cui si afferma che la ricorrente è di fatto venuta a conoscenza della comunicazione circa la possibilità di recuperare entro il 26.06.2011 i beni mobili presenti nel chiosco, notificata dal Comune al Ga. e ricevuta dalla figlia della ricorrente, sig.ra Al.Fe.).
La mancata tempestiva attivazione della ricorrente per il recupero dei beni mobili presenti nel chiosco, pur a fronte dell’intervenuta conoscenza delle diffide inviate dal Comune, preclude l’ammissione a risarcimento, dovendosi escludere, in base agli artt. 30 c.p.a. e 1227 cod. civ., la risarcibilità dei danni evitabili con l’ordinaria diligenza (art. 30, comma 3, c.p.a. “Il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza...”; art. 1227, comma 2, cod. civ.. “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”).
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 28.09.2018 n. 308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n. 104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss. c.p.a..
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S’osserva che il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnativa del silenzio, serbato dal Comune di San Marzano sul Sarno, che si sarebbe concretizzato non riscontrando, l’ente, la diffida del ricorrente del 15.06.2017, prot. 8980 e non emanando gli atti, conseguenti all’ordinanza di demolizione degli abusi edilizi, riscontrati presso l’abitazione della controinteressata, ex art. 31 e ss. d.P.R. 380/2001, mercé l’attivazione del procedimento d’esecuzione d’ufficio dell’ordinanza in questione, rimasta inottemperata; tanto, come esplicitato nel testo della diffida in questione, stante l’intervenuto rigetto, per silentium, ex art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001, dell’istanza d’accertamento di conformità, relativa agli abusi suddetti, presentata dall’interessata.
Ciò posto, vanno esaminate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso, variamente sollevate dalle difese delle resistenti Amministrazione Comunale e controinteressata.
La prima eccezione, sollevata dalla difesa di quest’ultima, è imperniata sul preteso difetto d’interesse ad agire del ricorrente, il quale alcun concreto pregiudizio subirebbe, in tesi, per effetto della mancata eliminazione delle opere edilizie abusive de quibus, per di più “interne all’abitazione della Sc.”.
L’eccezione è infondata.
Come affermato, di recente, dalla Sezione, infatti: “Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n. 104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss. c.p.a.” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 12/04/2018, n. 546) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di demolizione emessa.
L’esecuzione di tale sanzione, infatti, in pendenza del termine di decisione della domanda di sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto, maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può essere eseguita e non è necessaria da parte dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti sanzionatori.
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L’ulteriore eccezione d’inammissibilità del gravame, sollevata dalla difesa della Sc., è poi fondata sul dedotto obbligo del Comune, una volta respinta l’istanza di sanatoria presentata dall’interessata, di riattivare il procedimento, volto alla repressione degli abusi edilizi, mercé l’emissione di una nuova ordinanza di demolizione dei medesimi.
Anche tale eccezione è priva di pregio, posto che la Sezione ha aderito alla diversa opzione ermeneutica, espressa, da ultimo, nella massima che segue: “La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di demolizione emessa. L’esecuzione di tale sanzione, infatti, in pendenza del termine di decisione della domanda di sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto, maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può essere eseguita e non è necessaria da parte dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti sanzionatori” (Consiglio di Stato, sez. VI, 06/06/2018, n. 3417).
Vero è che, nella specie, il Comune di San Marzano sul Sarno –dopo la concretizzazione del rigetto per silentium dell’istanza di accertamento di conformità– licenziava anche diniego espresso circa la stessa (provvedimento di diniego definitivo, prot. n. 1114 del 22.01.2018, notificato alla Sc. in data 24.01.2018); diniego definitivo che era gravato di ricorso, innanzi a questo Tribunale (R. G. n. 604/2018).
La circostanza, peraltro, non sposta evidentemente i termini della questione, non potendosi evidentemente ravvisare, in detta circostanza, alcuna inammissibilità del presente ricorso (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa le immagini presenti sul programma Google Earth, i relativi fotogrammi costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale.
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I due ricorsi sono connessi e devono essere riuniti.
Risulta in atti che, nel 1987, Cr.An. ha presentato al Comune di Catanzaro un’istanza di condono ai sensi della L. 47/1985, al fine di sanare l’immobile realizzato abusivamente alla via ... n. 135, identificato catastalmente al fl. 5, part. 333, sub. 10.
Al riguardo, il Comune ha dapprima rilasciato la concessione edilizia in sanatoria in data 27.10.2008 n. 94087, che poi ha però annullato in autotutela, con ordinanza dirigenziale 28.11.2012. n. 90422, a seguito di accertamenti successivi, effettuati a seguito di denuncia presentata da Fu.Sa..
Quindi, con ordinanza n. 44 del 12.12.2012, impugnata con motivi aggiunti, è stato fatto divieto a Cr.Al. (che nel frattempo ha acquistato l’immobile oggetto di causa) di proseguire l’attività commerciale svolta nello stesso immobile, in quanto privo di titolo edilizio.
Poiché quest’ultimo atto è stato impugnato per vizi derivati dall’illegittimità dell’annullamento in autotutela della concessione in sanatoria e del certificato di agibilità, ai fini della valutazione del merito del complessivo gravame, è preminente la trattazione sulla legittimità dell’ordinanza n. 90422/2012 (di annullamento della concessione edilizia in sanatoria), poiché la legittimità, o meno, di quest’ultima comporta la legittimità, o meno, dell’ordinanza n. 44/2012.
A tal proposito, va osservato che la domanda di condono presentata da Cr.An., per poter essere accolta, deve avere ad oggetto un’opera ultimata, sia pure abusivamente, entro la data del 01.10.1983, come prescritto dall’art. 31 della L. 47/1985, con la precisazione che “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Dunque, il presupposto indispensabile per potersi avvalere dei benefici della legge suddetta è ravvisabile nell’ultimazione dei lavori di costruzione entro la data del 01.10.1983.
Detta circostanza è stata però confutata, con argomentazioni condivisibili, dal verificatore ing. An.Dr., il quale ha attestato che l’opera è stata realizzata addirittura dopo la presentazione della domanda di sanatoria e comunque successivamente all’anno 2001 e che l’immobile, a quell’epoca, era di dimensione differente rispetto allo stato rappresentato in progetto.
Questo, sulla scorta delle aerofotogrammetrie acquisite presso l’Amministrazione e delle immagini presenti sul programma Google Earth, i cui fotogrammi costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale (cfr. Cass. pen., Sez. III, 15.09.2017 n. 48178).
Per altro, a fronte di ciò, parte ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione contraria, almeno in ordine alle effettive dimensioni dell’immobile ed all’epoca del suo completamento, lamentando soltanto l’inattendibilità della verificazione suddetta; quando invece incombe sul ricorrente, che agisce e afferma, la prova documentata dell'anteriorità, rispetto alla data finale prevista dalla legge sul condono edilizio, dell'ultimazione dei lavori abusivi. In mancanza di tale prova, la tesi dell’amministrazione sorregge adeguatamente la legittimità del diniego di condono impugnato (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. III, 20.11.2012 n. 4638).
Opera, quindi, nella fattispecie, il pacifico principio secondo cui, allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta in base ad una falsa, o comunque erronea, rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2013 n. 39).
Donde, l’annullamento anche del certificato di agibilità, che non può essere rilasciato per fabbricati abusivi e non condonati (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.03.2018 n. 1458).
La definizione sfavorevole del ricorso principale n. 1377/2012 determina, infine, anche il rigetto del ricorso n. 1388/2014 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 25.09.2018 n. 1604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' ormai principio acquisito in giurisprudenza quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)”.
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   - Ritenuto, in primo luogo, che sussistono i presupposti di legge per definire il giudizio nella presente sede cautelare, con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 del c.p.a., essendo, tra l’altro, state rese edotte le parti di tale eventualità, come consta dal verbale d’udienza;
   - Considerato che il ricorso, senza che vi sia la necessità di attendere l’esito della domanda di concessione del permesso di costruire in sanatoria, è improcedibile, essendo ormai principio acquisito in giurisprudenza quello per cui “La presentazione di un'istanza di sanatoria in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace. La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, in quanto la P.A. dovrà o emettere un nuovo ordine di demolizione, o comunque assegnare al privato un nuovo termine per adempiere spontaneamente all'ordine già dato (una volta che sia venuto meno quello assegnato in precedenza)” (cfr. ex multis ord. TAR Reggio Calabria 06.09.2018 n. 142; sent. TAR Reggio Calabria 03.07.2018 n. 406; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 09/02/2018, n. 1581 sent. TAR Napoli sez. VIII 02.01.2018 n. 1) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 17.09.2018 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione procede all'acquisizione del bene, fermo restando che, almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione.
Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione costituisce titolo per la immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto prescindere dalla esatta individuazione delle particelle catastali coinvolte.
(Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti che consentano l'identificazione esatta della aree interessate).
Sicché, la concreta individuazione delle aree da acquisire al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione costituiscono elementi necessari del provvedimento acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Atteso che l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita, l’area da acquisire deve essere individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione l'autorità competente deve rispettare il principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo adeguato, necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di interesse pubblico perseguito.

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Con verbale dell’11.05.1997 del Corpo forestale veniva contestato alla ricorrente un movimento di terra in contrada Monte Caputo in San Martino delle scale, movimento di terra (asseritamente) finalizzato alla costruzione di una casa di mq. 40.
Con lo stesso verbale il terreno era sottoposto a sequestro, con apposizione di sigilli al fine di conservare l’integrità del corpo del reato ed impedire il mutamento dello stato dei luoghi.
Era quindi emesso decreto di sequestro preventivo da parte del GIP (n. 6254/97 – 7761/97, notificato il 17/05/1997.
Il Comune di Monreale intimava, oltre la sospensione dei lavori, anche la demolizione del fabbricato abusivo (ordinanze n. 367 e n. 368 del 26/06/1997)
Con ordinanza n. 188 del 13/07/2000 l’Amministrazione comunale integrava le precedenti ordinanze nella parte in cui non erano stati indicati i dati catastali, rinnovando quindi l’ordine di demolizione precisando che, qualora le opere fossero state sottoposte a sigilli giudiziari, i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dopo la rimozione dei sigilli.
Con verbale del 14/09/2001 alcuni funzionari della polizia locale evidenziavano l’inottemperanza all’ordine demolitorio: in tesi di parte la mancata demolizione era dovuta alla persistenza del sequestro giudiziario.
Quindi con provvedimento del 17/05/2002 il Settore Urbanistica del Comune di Monterale notificava il provvedimento dirigenziale n. 524/M con cui è stata disposta l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del Comune per l’omessa ottemperanza entro il termine prescritto all’ordine di demolizione.
...
Preliminarmente
il Collegio non può esimersi dallo stigmatizzare il comportamento del Comune di Monreale che, al di là della libera scelta di non voler resistere al ricorso, non ha dato riscontro ai reiterati ordini istruttori emessi da questo Giudice, di cui alla Ordinanza presidenziale n. 74/2016 e le due ordinanze collegiali n. 250/2017 e n. 2891/2017: sulle consequenziali determinazioni il Collegio ritornerà a conclusione della presente sentenza.
Ciò premesso, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti di cui di seguito meglio precisati.
Risultano fondate la seconda e la terza censura qui previamente e contestualmente scrutinate.
Il provvedimento impugnato, nel disporre l'acquisizione gratuita, indica, in modo del tutto approssimativo, un'area pari fino a dieci volte la superficie complessiva utile abusivamente costruita sulla particella n. 59 del foglio di mappa n. 20 del N.C.T. di Monreale esteso per circa mq. 1510, a fronte di un contestato abuso di circa 45 mq.
La mancata precisa individuazione della acquisenda area, essendo indicata solo la particella ma non anche la porzione di questa, inficia il provvedimento impugnato.
Ed invero, diversamente da quanto può anche non essere presente nel provvedimento di che intima le demolizione del bene, per quanto attiene al momento con si dispone l’acquisizione dello stesso e della relativa aera di sedime, in una misura che comunque non può essere superiore a 10 volte quella dell’abuso, occorre che l’ordinanza specifichi nel dettaglio la porzione del maggiore terreno che con il provvedimento si intende acquisire.
Opportunamente parte ricorrente richiama l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui "La giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione procede all'acquisizione del bene (in termini TAR Toscana, sez. 3^, 07.05.2013, n. 724), fermo restando che, almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione. Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione costituisce titolo per la immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto prescindere dalla esatta individuazione delle particelle catastali coinvolte. Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti che consentano l'identificazione esatta della aree interessate. Alla luce delle considerazioni che precedono la censura risulta fondata, il che comporta l'accoglimento del ricorso con il conseguente annullamento dell'ordinanza n. 150 del 1997 gravata, potendosi ritenere assorbite le ulteriori censure proposte" (cfr. TAR Toscana—Firenze, Sez. III, 16.01.2014, n. 64; principio affermato anche nelle recentissime decisioni del TAR Piemonte—Torino, 28.04.2016, n. 573 e del TAR Sardegna—Cagliari, 24.03.2016, n. 278).
La concreta individuazione delle aree da acquisire al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione costituiscono elementi necessari del provvedimento acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Quanto alla terza censura, il Collegio ritiene di poter condividere il precedente invocato dalla parte, di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.09.2014 n. 5607, secondo cui "–atteso che l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita- l’area da acquisire deve essere individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione l'autorità competente deve rispettare il principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo adeguato, necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di interesse pubblico perseguito": nel caso in esame, attesa l’estensione della superficie abusiva, parti a circa 45 mq, ed il rapporto con l’estensione della particella di circa mq 1.510, l’Amministrazione non illustra le ragioni per cui ha ritenuto di procedere alla acquisizione secondo il parametro massimo (di dieci volte l’estensione della superficie abusiva).
In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente annullamento, nei limiti sopra esposti, del provvedimento impugnato, con improcedibilità di ogni altra censura siccome ininfluente ai fini del decidere.
Ciò posto, come già osservato,
va stigmatizzato il mancato riscontro alle sopra citate ordinanze istruttorie. Oltre che contrastare con le previsioni del codice del processo amministrativo che impongono alle parti di cooperate con il Giudice ai fini della ragionevole durata del processo (art. 2 comma 2), il comportamento tenuto dal Comune di Monreale può altresì integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art. 328 c.p. e l’art. 650 c.p.) per cui appare opportuno sin d’ora disporre la trasmissione della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.
Le spese di lite possono tuttavia essere compensate tra le parti tenuto conto del contestuale mancato riscontro all’ordine istruttorio, ord. n. 2891/2017, che incombeva, per quanto di pertinenza, sulla stessa parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato nei sensi di cui in motivazione.
Spese compensate.
Manda la Segreteria di
trasmettere copia della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per la Sicilia per le opportune valutazioni di competenza (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 13.09.2018 n. 1944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive eventualmente già adottata, ovvero ne inibisce l’adozione a pena di illegittimità della sanzione demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria.
In altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione riterrà di adottare all’esito del procedimento.

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Considerato:
   - che, come risulta dalla documentazione in atti, successivamente all’instaurazione del giudizio il ricorrente signor Miniati ha chiesto al Comune di Firenze la sanatoria e il contestuale accertamento di conformità paesaggistica dei manufatti oggetto del provvedimento impugnato;
   - che la circostanza sopravvenuta determina la manifesta improcedibilità del ricorso, da accertarsi e dichiararsi ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;
   - che, nella specie, trova infatti applicazione la tradizionale massima –alla quale il collegio intende dare continuità, in coerenza con gli indirizzi della Sezione– secondo cui la presentazione di un’istanza di sanatoria di abusi edilizi produce un automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione delle opere abusive eventualmente già adottata, ovvero ne inibisce l’adozione a pena di illegittimità della sanzione demolitoria pronunciata in pendenza della sanatoria (fra le molte, da ultimo cfr. TAR Toscana, sez. III, 02.08.2018, n. 1130; id., 21.05.2018, n. 691);
   - che, in altri termini, la presentazione dell’istanza di sanatoria comporta in ogni caso l’inefficacia dell’ordinanza impugnata, salvi i provvedimenti che l’amministrazione riterrà di adottare all’esito del procedimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.09.2018 n. 1177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non impone un più stringente onere motivazionale circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei presupposti di fatto e di diritto.
Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014– precisa che “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
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Colui che acquista un immobile su cui è stato realizzato un abuso edilizio subentra nella medesima situazione giuridica del dante causa e, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, ha egli stesso la possibilità di eseguire l'ordinanza di demolizione, e se il dante causa al momento della vendita non segnala la sussistenza dell'abuso, tale circostanza può dar luogo ai consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante –per le ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti previsti dalla legge.
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L’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito, con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd. Legge ponte.
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2.3.- Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non impone un più stringente onere motivazionale circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei presupposti di fatto e di diritto (Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580; Cons. Stato, Sez. VI, 11.12.2013 n. 5943).
2.4.- Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza del 17.10.2017 n. 9) che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014– precisa che “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
2.5.- Non rileva che gli abusi siano stati compiuti non dai ricorrenti ma dal loro dante causa.
Anche in questo caso, secondo condivisa e costante giurisprudenza, colui che acquista un immobile su cui è stato realizzato un abuso edilizio subentra nella medesima situazione giuridica del dante causa e, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, ha egli stesso la possibilità di eseguire l'ordinanza di demolizione, e se il dante causa al momento della vendita non segnala la sussistenza dell'abuso, tale circostanza può dar luogo ai consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante –per le ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti previsti dalla legge (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3565; Tar Genova, sez. I, 06.10.2016, n. 1001).
2.6.- I ricorrenti sostengono al riguardo la preesistenza del manufatto al 01.09.1967.
Rilevano che al punto 7, lett. D, del rogito notarile, la parte alienante attesta che la costruzione del piano terra è iniziata ed ultimata in data anteriore al 01.09.1967, nel mentre dichiara che la costruzione al primo piano è stata realizzata in conformità a regolare provvedimento autorizzativo, rilasciato dal Sindaco, corrispondente alla concessione edilizia n. 20313 del 22.10.1968; precisa inoltre che in seguito non vi sono stati interventi edilizi o mutamenti di destinazione che avrebbero richiesto un titolo.
L’assunto circa la preesistenza del manufatto non è assistito da una valida prova, il cui onere incombe sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. sentenza del 27.08.2016 n. 4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732), con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte.
Né costituisce valido principio di prova, a sostegno delle ragioni dei ricorrenti, la nota prot. n. 20313 del 22.10.1968, di cui copia è allegata agli atti di causa, posto che con la stessa il Sindaco del Comune di Torre del Greco autorizzava l’alienante degli odierni ricorrenti ad installare una semplice “casetta prefabbricata” in via Montedoro.
In senso contrario alle deduzioni difensive di parte ricorrente, la nota rende del tutto verosimile che gli abusi contestati siano stati compiuti in epoca successiva al 1967; è sufficiente mettere a confronto il contenuto dell’autorizzazione edilizia sindacale con le dichiarazioni dell’alienante contenute nell’atto di compravendita notarile del 1994, nel quale si fa menzione di una “casa per uso abitazione, …composta da un piano terra di due vani, adibiti a piccola autorimessa e lavanderia o stanza di sbarazzo, e da un primo piano, costituito da tre vani utili ed accessori” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2018 n. 5464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla formazione, o meno, del silenzio-assenso in materia di condono edilizio.
E' stato precisato che il silenzio-assenso non si perfeziona unicamente per effetto del mero decorso del tempo a far data dalla presentazione della domanda e del pagamento dell'oblazione, occorrendo altresì che il Comune acquisisca la prova, ovviamente da fornirsi dal privato richiedente, della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore.
Negli stessi termini si pronunciato anche questo Tribunale riaffermando che “Il termine legale per la formazione del silenzio-assenso in materia di condono degli abusi edilizi presuppone che la domanda sia stata corredata dalla prescritta documentazione, non sia infedele, sia stata interamente pagata l'oblazione, e soprattutto, che l'opera sia stata ultimata nel termine di legge e non sia in contrasto con i vincoli di inedificabilità di cui all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47. Ne consegue che il silenzio-assenso non si perfeziona per il solo fatto dell'inutile decorso del termine perentorio a far data dalla presentazione della domanda di sanatoria e del pagamento dell'oblazione, occorrendo altresì l'acquisizione della prova, da parte del Comune, della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore. In particolare, pertanto, il silenzio-assenso non si forma per effetto della presentazione di una domanda di condono qualora questa non sia corredata dall'integrale dimostrazione dell'esistenza di detti requisiti, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione Comunale”.
Da ultimo il giudice d’appello ha riaffermato che “Per la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell'avvenuto pagamento dell'oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell'avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l'istanza di condono, e ciò affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica da parte dell'Amministrazione comunale”.
Inoltre è da escludere la formazione del silenzio-assenso in aree assoggettate a vincoli paesaggistici senza il rilascio del parere dall'autorità preposta alla gestione del vincolo. Infatti la sussistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47/1985 preclude un assenso espresso o tacito della sanatoria e comunque, nelle zone assoggettate a vincoli, il termine previsto dall'art. 35 non inizia a decorrere prima dell'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo ai sensi del successivo comma 18.
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Con la quarta censura si deduce che l’operato del Comune si pone, altresì, in violazione della disciplina sul silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche preposte alla tutela paesaggistico-territoriale contenuta nell’art. 17-bis, co. 3, della L. n. 241 del 1990, inserito dall’art. 17-bis, co. 3, L. 241 del 1990, inserito dall’art. 3 della L. n. 124 del 2015, in proposito rilevandosi che tale normativa prevede, al comma 1, che nei casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti, o nulla-osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche, per l’adozione di provvedimenti normativi ed amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche, le amministrazioni comunicano il proprio assenso, concerto o nulla-osta entro trenta giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento corredato della relativa documentazione, da parte l’amministrazione procedente, salva l’interruzione del termine in caso di richiesta di integrazione documentale, decorsi i termini di cui al comma 1, senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla-osta, lo stesso si intende acquisito.
Nella specie, per effetto di tale disciplina, non avendo la Soprintendenza espresso alcun parere definitivo in ordine alla pratica di condono del ricorrente, il Comune avrebbe dovuto ritenere acquisito ex lege il nulla-osta, risultando illegittimo il provvedimento impugnato per violazione dell’art. 17-bis della Legge 241/1990.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Invero è stato precisato che il silenzio-assenso non si perfeziona unicamente per effetto del mero decorso del tempo a far data dalla presentazione della domanda e del pagamento dell'oblazione, occorrendo altresì che il Comune acquisisca la prova, ovviamente da fornirsi dal privato richiedente, della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore (Cons. St., sez. VI, 27/07/2015, n. 3661).
Negli stessi termini si pronunciato anche questo Tribunale (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 25/02/2016, n. 1032) riaffermando che “Il termine legale per la formazione del silenzio-assenso in materia di condono degli abusi edilizi presuppone che la domanda sia stata corredata dalla prescritta documentazione, non sia infedele, sia stata interamente pagata l'oblazione, e soprattutto, che l'opera sia stata ultimata nel termine di legge e non sia in contrasto con i vincoli di inedificabilità di cui all'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47. Ne consegue che il silenzio-assenso non si perfeziona per il solo fatto dell'inutile decorso del termine perentorio a far data dalla presentazione della domanda di sanatoria e del pagamento dell'oblazione, occorrendo altresì l'acquisizione della prova, da parte del Comune, della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore. In particolare, pertanto, il silenzio-assenso non si forma per effetto della presentazione di una domanda di condono qualora questa non sia corredata dall'integrale dimostrazione dell'esistenza di detti requisiti, relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione Comunale”.
Da ultimo il giudice d’appello ha riaffermato che “Per la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell'avvenuto pagamento dell'oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell'avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l'istanza di condono, e ciò affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica da parte dell'Amministrazione comunale” (Cons. St., Sez. IV, 11/10/2017, n. 4703).
Inoltre è da escludere la formazione del silenzio-assenso in aree assoggettate a vincoli paesaggistici senza il rilascio del parere dall'autorità preposta alla gestione del vincolo (cfr. TAR Napoli, sez. VII, 27/02/2018, n. 1280). Infatti la sussistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47/1985 preclude un assenso espresso o tacito della sanatoria e comunque, nelle zone assoggettate a vincoli, il termine previsto dall'art. 35 non inizia a decorrere prima dell'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo ai sensi del successivo comma 18 (cfr. Cons. St., sez. IV, 19/12/2016, n. 5366) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento al profilo relativo alla datazione del vincolo paesaggistico, per consolidato orientamento giurisprudenziale e per il più generale principio di legalità dell’azione amministrativa, l’Amministrazione deve assumere i provvedimenti di sua competenza in base alla normativa vigente al momento dell’adozione degli stessi, risultando il procedimento amministrativo regolato dal principio tempus regit actum.
D’altronde un tale orientamento deve farsi risalire alla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 20 del 22.07.1999, secondo la quale: <<La disposizione dell'art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente>>.
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Con la quinta censura si deduce l’illegittimità della valutazione negativa di compatibilità paesaggistica effettuata dalla Soprintendenza in quanto basata su presupposti giuridici e fattuali errati, nonché su motivazioni apodittiche, atteso che:
   - la Soprintendenza ritiene il fabbricato non compatibile con gli interventi ammessi dalla disciplina vincolistica prescritta dal P.T.P. dei Comuni vesuviani per la zona R.u.a. (Recupero Urbanistico-Edilizio e Restauro Paesistico-Ambientale) ove ricade l’immobile, sottolineando sotto tale profilo, la necessità di dover prendere in considerazione il P.T.P. dei Comuni Vesuviani benché entrato in vigore successivamente alla realizzazione dell’abuso e la legittimità di una valutazione fondata sui “contrasti con i dettami del P.T.P.”, aggiungendo, infine, considerazioni apodittiche e generiche sulla grandezza dell’immobile che contribuirebbe ad “alterare il già depauperato ambiente in cui l’immobile è inserito”;
   - tuttavia tale motivazione è illegittima perché, se è vero che il P.T.P. dei Comuni Vesuviani di cui al D.M. 04.07.2002 inserisce l’area di Terzigno interessata dall’intervento in discussione, nella zona R.u.a., sottoposta alle norme di tutela per il recupero urbanistico-edilizio e al restauro paesistico ambientale, un vincolo di inedificabilità per gli interventi di incremento dei volumi esistenti, è stato introdotto solo con il D.M. 04.07.2002, ossia successivamente all’intervento oggetto della presente controversia pacificamente realizzato negli anni '90;
   - tale circostanza temporale assume assoluta rilevanza in quanto l’art. 33 della Legge 47/1985, applicabile anche al c.d. secondo condono, ai sensi dell’art. 39 della Legge 724/1994, prevede che le opere di cui all’art. 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse, da ciò facendone derivare che la insistenza del vincolo di inedificabilità assoluta preclude, in senso oggettivo ed inderogabile il rilascio della sanatoria solo laddove imposto in data antecedente alla realizzazione dell’opera, mentre, secondo consolidato orientamento del Consiglio di Stato i vincoli di inedificabilità -come nella specie- sopravvenuti alla realizzazione dell’intervento edilizio non operano quali fattori di preclusione assoluta al condono, ma si atteggiano a vincoli relativi ex art. 32 della legge n. 47/1985 che impongono (non una valutazione dell’Autorità preposta alla gestione del vincolo attinente alla conformità con il regime normativo previsto, in via astratta dalla disciplina paesaggistica, ma) “un apprezzamento concreto di compatibilità” paesaggistica avuto riguardo ai beni ambientali di specifica rilevanza della zona di riferimento (cfr. C.d. S., sez. IV, 04.05.2012, n. 2576; C. di S., sez. VI, n. 1077/2008), apprezzamento, nella specie, non effettuato;
   - con ulteriore profilo di censura si deduce che, nella specie, il presupposto giuridico errato ha fatto sì che la valutazione espressa dall’Autorità Ministeriale entrasse nel merito, non rispondendo alle caratteristiche minime indispensabili che deve possedere una motivazione in materia paesaggistica, delineate dal Consiglio di Stato nella sentenza della sez. VI, n. 2176/2016, dovendo rispondere a un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
I) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
II) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante l’indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
III) del rapporto fra edificio e contesto, anche mediante l’indicazione dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio;
- nella specie, mentre la suddetta impostazione ed i relativi contenuti sono stati rispettati dalla Commissione Locale per il Paesaggio con l’espressione del parere favorevole, viceversa la Soprintendenza, al fine di rafforzare il dato della non conformità del fabbricato con l’astratta disciplina vincolistica di zona che vieta interventi volumetrici, si è limitata a rimarcare con formule suggestive contenenti più che altro apprezzamenti di gusto estetico soggettivo (del tutto inammissibili in quanto estranei al parametro della valutazione affidata alla Soprintendenza) la consistenza dell’immobile omettendo, tuttavia di esaminare -secondo le coordinate valutative indicate dal Consiglio di Stato- circostanze che, se valutate, avrebbero portato ad un positivo scrutinio di compatibilità paesaggistica considerato che l’immobile si inserisce armonicamente nella zona in cui è collocato, non assumendo un valore incrementativo, in termini volumetrici e di altezza, rispetto agli altri edifici che compongono il contesto urbano di inserimento, tale da giustificare una sua speciale considerazione negativa dal punto di vista paesaggistico, come ampiamente illustrato nella relazione paesaggistica allegata alla pratica di sanatoria;
- non senza rimarcare che le stesse previsioni del P.u.c. assegnano alla zona una disciplina speciale proprio in ragione della natura spontanea (rectius abusiva) dell’edificio che, naturalmente, presenta caratteristiche costruttive ampiamente variegate, con la conseguenza che il parere espresso dall’Autorità Ministeriale è illegittimo in quanto fondato su affermazioni apodittiche, prive della necessaria valutazione inerente la visibilità dell’intervento progettato nel più vasto contesto ambientale nonché privo dell’esame delle specifiche caratteristiche dei luoghi e del progetto e l’accertamento in concreto della compatibilità dell’intervento con il mantenimento e l’integrità del valore dei luoghi.
La censura, nei vari profili in cui si articola, non è fondata.
Al riguardo, con riferimento al profilo relativo alla datazione del vincolo, per consolidato orientamento giurisprudenziale e per il più generale principio di legalità dell’azione amministrativa, l’Amministrazione deve assumere i provvedimenti di sua competenza in base alla normativa vigente al momento dell’adozione degli stessi, risultando il procedimento amministrativo regolato dal principio tempus regit actum (cfr. C. di S., sez. IV, 28.09.2009, n. 5835; C.d. S., sez. VI, 03.09.2009, n. 5195). D’altronde un tale orientamento deve farsi risalire alla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 20 del 22.07.1999, secondo la quale: <<La disposizione dell'art. 32 l. 28.02.1985 n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente>>.
Correttamente, quindi l’Amministrazione ha adottato le sue determinazioni in base alle norme dell’adottato Piano del Parco, entrato in vigore in data antecedente all’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento.
Inoltre, non è esatto, come invece assume il deducente, che esso sia stato apposto per la prima volta con il Piano territoriale paesistico del Comuni vesuviani di cui al D.M. 05.07.2002, atteso che come rilevato nel medesimo parere impugnato il vincolo deve farsi risalire al D.M. 07.08.1961, pubblicato nella G.U. n. 209 del 24.08.1961 (ex lege n. 1497/1939) -richiamato nel medesimo parere impugnato- che ha dichiarato di notevole interesse pubblico l’intero territorio del Comune di Terzigno, decreto ministeriale peraltro già noto alla Sezione poiché richiamato ed applicato in molti provvedimenti di diniego di condono o di demolizione esaminati in casi analoghi.
Il vincolo di inedificabilità in controversia è, dunque, da ascrivere non solo e non tanto alle previsioni del P.T.P del 2002, ma soprattutto al D.M. 07.08.1961 che lo ha impresso sul territorio del Comune di Terzigno per le finalità di tutela paesaggistica di cui alla l. n 1497/1939 sulle c.d. bellezze naturali.
Dal che discende che detto vincolo è sicuramente antecedente alla realizzazione delle opere abusive oggetto dell’istanza di condono denegata con il provvedimento impugnato.
A ciò va soggiunto che l’intervento ricade in zona R.U.A. (Recupero Urbanistico-Edilizio e Restauro Paesistico-A, ambientale), laddove l’art. 13 del P.T.P. dei Comuni Vesuviani, che norma la suddetta zona nella quale è ubicato l’immobile, vieta interventi che comportano incrementi di volume e zona Br (agglomerati edilizi prevalentemente spontanei) dello strumento edilizio, per modo che neppure può dirsi che la valutazione di compatibilità paesaggistica non sia stata effettuata (anche) in concreto, ossia con riferimento anche alla situazione paesaggistica ed urbanistica dell’intervento, quale risulta dagli strumenti vigenti (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La prima questione si riferisce alla possibilità di frazionare le domande di condono edilizio relativamente ad un unico fabbricato o “corpo di fabbrica” unitario con il risultato preconizzato da parte ricorrente di riferire il limite massimo di cubatura pari a 750 mc. previsto dall’art. 39 della L. 724/1994 ai volumi contemplati da ogni singola istanza.
Al quesito va data risposta negativa atteso che la volontà del privato di considerare un’unità immobiliare autonomamente utilizzabile ed indipendente rispetto alle altre porzioni ed unità del medesimo fabbricato, non può influire sui criteri e sui limiti inderogabilmente fissati dall’ordinamento per la condonabilità dell’immobile abusivo, per modo che il frazionamento surrettizio di un immobile non può valere a sottrarlo al regime di condonabilità che gli è proprio.
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Ai fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla legge 724/1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali.
A tale riguardo la questione è già stata più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa e da quella penale che, dopo iniziale adesione all’opzione ermeneutica prospettata dal ricorrente, si è però orientata in senso opposto e, quindi, per l'applicabilità del richiamato limite volumetrico per qualsivoglia tipologia di manufatto, sia residenziale sia commerciale/produttivo; in questo senso si segnala il principio di diritto espresso di recente dalla Cassazione Penale, sez. III, con la sentenza del 01.07.2015 n. 31955, secondo cui “ai fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla L. n. 724 del 1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali”.
Questo orientamento era già stato condiviso anche dalla Cassazione civile la quale aveva chiarito che: “in tema di abusi edilizi, ai sensi dell'art. 39, comma 1, l. n. 724 del 1994, i limiti di cubatura cui è condizionata la sanabilità dell'abuso sono riferibili anche agli edifici ad uso non residenziale, secondo un'interpretazione che valorizzi l'intenzione del legislatore di porre un limite inderogabile alla sanabilità ricollegato all'entità oggettiva degli abusi edilizi e, di conseguenza, della lesione inferta ai valori espressi dalla normativa urbanistica a tutela di un interesse pubblico preminente, non rilevando in senso contrario le disposizioni di deroga (‘ai limiti di cubatura di cui al comma 1’) dell'art. 39, comma 16, della stessa legge, che si riferiscono unicamente al pagamento (e alla misura) dell'oblazione, e non alla condonabilità dell'abuso”; sulla medesima lunghezza d’onda si era orientata anche la giurisprudenza amministrativa; in particolare, il Consiglio di Stato (Sez. V, 23.06.2008, n. 3098) ha affermato che: “il limite posto dal primo comma del citato art. 39, il quale è diretto espressamente ad individuare gli immobili oggetto di sanatoria, si riferisce a qualsiasi tipo di costruzione, senza alcuna distinzione a seconda della sua destinazione” (il superamento del limite è ammesso, nel medesimo comma, solo nel caso di annullamento della concessione edilizia)...”.
In altra decisione, sempre il Consiglio di Stato, nel rilevare come non possa ammettersi un condono privo di limiti quantitativi, ha ricordato che la Corte Costituzionale sottolineò come le norme sul condono abbiano carattere del tutto eccezionale e siano, pertanto, particolarmente soggette al limite di ragionevolezza, con la conseguenza che l’esclusione di ogni limite quantitativo alla condonabilità degli edifici commerciali o industriali trasformerebbe l’art. 39 della L. n. 724 del 1994, art. 39, da disposizione di eccezione a disposizione di rottura incondizionata del controllo edilizio passato. Infatti sarebbe del tutto irragionevole ritenere condonabili in modo indiscriminato gli immobili a destinazione non residenziale, spesso di rilevante impatto sul territorio, e di porre invece limiti volumetrici invalicabili solo per quelli ad uso abitativo e, d'altra parte si giungerebbe altrimenti alla conclusione che gli abusi relativi agli immobili non residenziali sarebbero sanabili senza alcun limite, in contrasto con quanto stabilito in materia di condono anche da provvedimenti legislativi successivi (cfr. art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003, n. 269).
Infine, come d’altronde affermato già da tempo dalla giurisprudenza amministrativa, la possibilità, in relazione ad immobili con destinazione non residenziale, di pagare l'oblazione anche con riferimento a cubature maggiori trova la sua unica giustificazione nel fatto che, in tal modo, può determinarsi l'estinzione di taluni reati in materia edilizia, come previsto dal comma 2 dell'art. 38 L. n. 47 del 1985, articolo che, si rammenta, fa parte del capo IV della legge stessa, richiamato dal più volte citato art. 39, comma 1, L. n. 724 del 1994.
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Con la nona censura si deduce che:
   - è in ogni caso erronea la motivazione del provvedimento soprintendentizio, in ordine al superamento del limite di cubatura (750 mc.) previsti dall’art. 39 della L. 724/1994, sotto tale profilo il preavviso di diniego, così argomentando: <<- le istanze di condono del sig. Vi.Ca. e del sig. Cr.Ca. afferenti porzioni diverse del medesimo fabbricato superano complessivamente il limite volumetrico di 750 mc. previsto dall’art. 39 della L. 724/1994 che riguarderebbe la volumetria complessiva del manufatto indipendentemente dal numero delle istanze di condono presentate, essendo esclusa “la possibilità di aggirare il suddetto limite mediante fittizio frazionamento dell’immobile”; - il suddetto limite volumetrico riguarda sia gli immobili aventi destinazione residenziale che le opere destinate ad uso diverso dall’abitazione>>;
   - quanto al primo elemento ostativo addotto, si evidenzia che l’art. 39, co. 1, della Legge 724/1994 prevede che le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 e successive modificazioni ed integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine ivi previsto relative a nuove costruzioni non superiori a 750 metri cubi per ogni singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria, a sua volta da presentarsi in relazione ad ogni singola unità immobiliare (cfr. circolari del Ministero dei Lavori Pubblici sul condono edilizio nn. 3357/25 del 30.07.1985 e nn. 2241 del 17.06.1995);
   - nella specie, le istanze di condono di Vi.Ca. e Cr.Ca. hanno ad oggetto abusi diversi benché realizzati sul medesimo fabbricato, costituendo, in particolare, l’abuso oggetto della pratica dell’odierno ricorrente un’unità immobiliare autonomamente utilizzabile ed indipendente rispetto alle altre porzioni ed unità del medesimo fabbricato (da considerarsi, quindi “nuova costruzione” ossequiosa del limite di “750 metri cubi per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria”) e l’autonomia e la diversità degli abusi è confermata anche dalla diversità di destinazione degli immobili, in quanto, mentre l’istanza di Vi.Ca. riguarda manufatti aventi destinazione commerciale, la pratica dell’odierno ricorrente concerne un appartamento destinato a civile abitazione;
   - assolutamente irrilevante ed illegittima risulta altresì l’ulteriore argomentazione ostativa addotta, per la quale il limite dimensionale previsto dall’art. 39 si applicherebbe sia ai manufatti aventi destinazione residenziale, sia a quelli aventi destinazione, atteso che l’appartamento oggetto della pratica di condono dell’odierno ricorrente ha destinazione residenziale e rispetta la destinazione residenziale e rispetta il limite di 750 mc. come attestato dal Comune con note prot. nn. 15656 del 31.10.2014 e n. 11611 del 17.06.2016, con la conseguenza che il richiamo ai manufatti aventi la destinazione non residenziale è palesemente inconferente;
   - in ogni caso, trattasi di argomentazione errata poiché la limitazione dimensionale richiamata nel provvedimento non può essere riferita alle istanze di condono edilizio di edifici produttivi, essendo i limiti volumetrici riguardanti unicamente il condono edilizio “residenziale”, per modo che il comma 1 dell’art. 39, contrariamente a quanto asserito dalla Soprintendenza, deve essere interpretato nel senso che sono sicuramente sanabili le nuove costruzioni con destinazione d’uso non residenziale, prescindendo dai limiti volumetrici previsti per gli edifici a scopo abitativo (in tal senso anche la Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici del 17.06.1995 n. 2241/UL, dedicata alla quantificazione dell’oblazione, indicando specificamente l’importo da corrispondere per le opere edilizio che superino i 750 mc.);
   - né rileva in contrario l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui la deroga prevista dall’art. 39, co. 16, non concernerebbe la sanatoria ma unicamente il pagamento dell’oblazione (che potrebbe essere corrisposta anche per immobili non condonabili, onde consentire l’estinzione di alcuni reati edilizi), in quanto, sia nel sistema previsto dalla L. 47/1985, che in quello previsto dalla L. 724/1994, la possibilità della estinzione delle imputazioni relative ai reati concernenti costruzioni abusive è riconducibile non solo al pagamento dell’oblazione, ma alla avvenuta presentazione della domanda relativamente ad immobili oggettivamente sanabili;
   - in ragione di quanto precede, è evidente l’illegittimità della motivazione addotta dalla Soprintendenza in merito al limite volumetrico previsto dall’art. 39 della Legge n. 724/1999 poiché l’istanza di Ca.Cr. -inerente il secondo piano adibito ad appartamento avente volumetria pari a 749 mc.- rispettano pienamente i limiti volumetrici previsti dalla normativa di settore.
La censura è destituita di fondatezza.
La prima questione indotta dalla censura in esame si riferisce alla possibilità di frazionare le domande di condono relativamente ad un unico fabbricato o “corpo di fabbrica” unitario con il risultato preconizzato da parte ricorrente di riferire il limite massimo di cubatura pari a 750 mc. previsto dall’art. 39 della L. 724/1994 ai volumi contemplati da ogni singola istanza.
Al quesito va data risposta negativa atteso che la volontà del privato di considerare un’unità immobiliare autonomamente utilizzabile ed indipendente rispetto alle altre porzioni ed unità del medesimo fabbricato, non può influire sui criteri e sui limiti inderogabilmente fissati dall’ordinamento per la condonabilità dell’immobile abusivo, per modo che il frazionamento surrettizio di un immobile non può valere a sottrarlo al regime di condonabilità che gli è proprio.
Sul punto nel “Considerato” del medesimo provvedimento impugnato si rileva che: “la valutazione, come stabilito dalla Corte di Cassazione, deve essere effettuata sulla base della volumetria complessiva del manufatto, indipendentemente dal numero delle istanze di condono presentate. Infatti la Corte ha escluso la possibilità di aggirare il limite volumetrico mediante il fittizio frazionamento dell'immobile".
Quanto sopra argomentato si presenta in linea anche con le circolari sul condono edilizio del Ministero dei Lavori Pubblici (nn. 3357/25 del 30.07.1985 e nn. 2241 del 17.06.1995), richiamato dal ricorrente - per le quali la domanda di concessione in sanatoria deve essere presentata in relazione ad ogni singola unità immobiliare, da intendersi come insiemi di vani ed ambienti accessori con autonomia funzionale ed ingresso indipendente, la qualcosa non è, all’evidenza, incompatibile con una considerazione volumetria globale e unitaria del manufatto da condonare.
Nella fattispecie conferma della esattezza di tale impostazione è offerta anche dalla considerazione che il piano secondo per il quale Ca.Cr., odierno ricorrente, ha chiesto il condono ed in relazione alla quale la Soprintendenza ha reso parere sfavorevole, non poterebbe divenire oggetto di un eventuale autonomo provvedimento repressivo, rispetto alle restanti unità immobiliari del medesimo fabbricato in titolarità di Ca.Fr. (ricorso n. 1010/2017 R.G.).
Nell’impugnato provvedimento viene richiamato il principio secondo il quale ai fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla legge 724/1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali.
Nella fattispecie -come rilevato nel predetto provvedimento- l’immobile nella sua interezza (composto piano seminterrato, il piano rialzato, il primo piano e il terzo piano) oggetto della richiesta di condono supera il limite dei 750 mc. richiesto dall’art 39, co. 1, della L. 724/1994, senza che, sul punto rilevi la distinzione fra immobile a destinazione residenziale ed destinazione produttiva.
Al riguardo -e si passa alla disamina dell’altra questione indotta dalla censura in esame- si legge nel medesimo avversato parere che: “il Comune di Terzigno, per giustificare la maggiore cubatura rispetto a quanto consentito dall’art. 39, co. 1, della L. 724/1994, per quanto concerne gli immobile con destinazione non residenziale, fa riferimento alla Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 2241/UT del 17.06.1995, nella quale viene affermato che il limite volumetrico per l’ammissibilità della sanatoria si applicherebbe alle costruzioni abusive a carattere residenziale e non a quelle destinati ad altri usi”; ma, soggiungendosi che: “il contenuto dell’avviso negativo ha trattato solo in seconda battuta la questione urbanistico-edilizia. In buona sostanza lo scrivente, nel dare rilievo all’”incompatibilità paesaggistica” dell’edificio non ha potuto fare a meno di sottolineare come il Comune ha dato corso ad un’istanza palesemente in contrasto con la legge stessa che, com’è stata chiarita in maniera esaustiva, l’istanza non rientra nei presupposti legislativi previsti dall’art. 39, co. 1, legge 724/1994”.
A tale riguardo (cfr. TAR Campania, sez. III, 28/10/2016, n. 5007) la questione è già stata più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa e da quella penale che, dopo iniziale adesione all’opzione ermeneutica prospettata dal ricorrente, si è però orientata in senso opposto (salvo il caso di Cass. Pen., sez. III, 09.02.2012, n. 9598) e, quindi, per l'applicabilità del richiamato limite volumetrico per qualsivoglia tipologia di manufatto, sia residenziale sia commerciale/produttivo; in questo senso si segnala il principio di diritto espresso di recente dalla Cassazione Penale, sez. III, con la sentenza del 01.07.2015 n. 31955, secondo cui “ai fini del perfezionamento del condono edilizio di cui alla L. n. 724 del 1994, il limite volumetrico di 750 metri cubi previsto dall'art. 39, comma 1, è applicabile a tutte le opere, senza alcuna distinzione tra residenziali e non residenziali”.
Questo orientamento era già stato condiviso anche dalla Cassazione civile la quale -con la sentenza del 26.02.2009, n. 4640 (Sez. I)- aveva chiarito che: “in tema di abusi edilizi, ai sensi dell'art. 39, comma 1, l. n. 724 del 1994, i limiti di cubatura cui è condizionata la sanabilità dell'abuso sono riferibili anche agli edifici ad uso non residenziale, secondo un'interpretazione che valorizzi l'intenzione del legislatore di porre un limite inderogabile alla sanabilità ricollegato all'entità oggettiva degli abusi edilizi e, di conseguenza, della lesione inferta ai valori espressi dalla normativa urbanistica a tutela di un interesse pubblico preminente, non rilevando in senso contrario le disposizioni di deroga (‘ai limiti di cubatura di cui al comma 1’) dell'art. 39, comma 16, della stessa legge, che si riferiscono unicamente al pagamento (e alla misura) dell'oblazione, e non alla condonabilità dell'abuso”; sulla medesima lunghezza d’onda si era orientata anche la giurisprudenza amministrativa; in particolare, il Consiglio di Stato (Sez. V, 23.06.2008, n. 3098) ha affermato che: “il limite posto dal primo comma del citato art. 39, il quale è diretto espressamente ad individuare gli immobili oggetto di sanatoria, si riferisce a qualsiasi tipo di costruzione, senza alcuna distinzione a seconda della sua destinazione” (il superamento del limite è ammesso, nel medesimo comma, solo nel caso di annullamento della concessione edilizia)...”.
In altra decisione, sempre il Consiglio di Stato (Sez. V, 17.09.2008, n. 4416), nel rilevare come non possa ammettersi un condono privo di limiti quantitativi, ha ricordato che la Corte Costituzionale (28.07.1995, n. 416; 12.09.1995, n. 427; 23.07.1996, n. 302; 17.07.1996, n. 256) sottolineò come le norme sul condono abbiano carattere del tutto eccezionale e siano, pertanto, particolarmente soggette al limite di ragionevolezza, con la conseguenza che l’esclusione di ogni limite quantitativo alla condonabilità degli edifici commerciali o industriali trasformerebbe l’art. 39 della L. n. 724 del 1994, art. 39, da disposizione di eccezione a disposizione di rottura incondizionata del controllo edilizio passato. Infatti sarebbe del tutto irragionevole ritenere condonabili in modo indiscriminato gli immobili a destinazione non residenziale, spesso di rilevante impatto sul territorio, e di porre invece limiti volumetrici invalicabili solo per quelli ad uso abitativo e, d'altra parte si giungerebbe altrimenti alla conclusione che gli abusi relativi agli immobili non residenziali sarebbero sanabili senza alcun limite, in contrasto con quanto stabilito in materia di condono anche da provvedimenti legislativi successivi (cfr. art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003, n. 269).
Infine, come d’altronde affermato già da tempo dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Tar Latina 21.01.1999, n. 48), la possibilità, in relazione ad immobili con destinazione non residenziale, di pagare l'oblazione anche con riferimento a cubature maggiori trova la sua unica giustificazione nel fatto che, in tal modo, può determinarsi l'estinzione di taluni reati in materia edilizia, come previsto dal comma 2 dell'art. 38 L. n. 47 del 1985, articolo che, si rammenta, fa parte del capo IV della legge stessa, richiamato dal più volte citato art. 39, comma 1, L. n. 724 del 1994.
In definitiva, preso atto che, a motivo della non compatibilità del manufatto oggetto della richiesta di condono rispetto alla normativa di tutela paesaggistica vigente, il parere di cui alla nota prot. n. 4658 del 05.10.2016 superava indenne il vaglio di legittimità indotto con l’impugnativa in epigrafe, il ricorso è infondato e va, quindi, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di diniego della sanatoria e del conseguente ordine di demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio
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Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento all’ipotesi in cui il destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “
Anche nel caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell'abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo avente causa)

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Con il primo motivo di ricorso si lamenta l’eccessiva durata del procedimento, rappresentando che questo, avviato con la domanda di condono presentata in data 09.12.2004 s’è concluso solo il 18.09.2015 -dopo ripetute richieste di integrazioni documentali, imponendo “degli adempimenti non espressamente previsti nel modulo che la stessa amministrazione comunale aveva predisposto”, formulate in data 08.10.2007– ritardando di sei mesi la risposta dopo che l’istante aveva provveduto, entro i termini previsti, agli adempimenti richiesti e persistendo in tale comportamento omissivo anche a seguito della presentazione, da parte dello stesso ricorrente, in data 05.05.2008 della documentazione scritta e fotografica per ottenere il Nulla Osta Legge 29.06.1939 n. 1497, al quale la PA ha dato riscontro solo in data 17.01.2012 – sicché il lungo periodo di tempo trascorso ha ingenerato nel ricorrente (Sig. Ni.Ma.) il legittimo affidamento sul tacito accoglimento della domanda di sanatoria; tale ingiustificato ritardo nel provvedere costituisce una violazione del "buon andamento" sancito dall'art. 97 Cost. e del principio di ragionevolezza desumibile dalla legge n. 241/1990 e dell’obbligo di trasparenza dell’azione amministrativa sancito dalla legge n. 15/2005.
Le doglianze relative alla tempistica della procedura, articolatamente sviluppate con il primo mezzo di gravame, non sono utili a dimostrare l’illegittimità del provvedimento impugnato, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, in particolare dopo gli ulteriori chiarimenti forniti dall'Adunanza plenaria n. 9 del 2017.
È infatti ormai stato definitivamente chiarito che: “
non può aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di diniego della sanatoria e del conseguente ordine di demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio
”.
Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento all’ipotesi –come nel caso di specie– in cui il destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “Anche nel caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse. Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell'abuso. Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo avente causa)” (Cons. St., sez. VI, n. 3527/2018, con ampio richiamo all’AP 9/2017 cit.)
Il Collegio condivide pienamente le sopra richiamate considerazioni e conclusioni, che trovano piena applicazione nel caso di specie.
In conclusione, il decorso del tempo per la definizione della pratica, nel caso in esame, potrebbe al più supportare una richiesta di indennizzo per danno da ritardo (però non è stata formulata in questa sede dai ricorrenti), ove ne sussistano i presupposti.
Non può tuttavia ignorarsi che il rallentamento è dipeso, nel caso di specie, dall'incompletezza della domanda di sanatoria presentata che è imputabile esclusivamente all’istante, che ha l’onere di allegare alla richiesta tutta la documentazione prescritta dalla normativa in materia.
Non può nemmeno condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui la mancata integrazione documentale sia stata “posta, del tutto illogicamente, tra le motivazioni della determina di diniego del condono”, dato che, al contrario, è proprio la normativa in materia a stabilire quali atti debbano essere allegati all’istanza di condono e sancire l’improcedibilità dell’istanza in caso di mancata tempestiva integrazione degli stessi ove richiesto dal Comune
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
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Il titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto del silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile sia ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile, in tale condizione, acquisire il parere espresso dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Il provvedimento positivo può ritenersi intervenuto in presenza del vincolo solo con il decorso del termine normativamente prescritto dall'emanazione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso.
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Innanzitutto va ricordato che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono (vedi, da ultimo, TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. I, n. 50/2018, con richiamo a TAR Puglia, Lecce, n. 181/2014; nonché Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3634/2018, che specifica l’onere documentale incombente sull’istante evidenziando che: “la natura procedurale del condono edilizio è infatti eccezionale e straordinaria rispetto alla ordinaria disciplina edilizia e urbanistica: il Comune deve istruire il procedimento nei modi e termini specificatamente previsti dalla legge (cfr., art. 35, comma 12 , l. n. 47/1985 in relazione all'art. 39, comma 4, l. 724/1994); l'interessato al buon esito della pratica deve, a sua volta, assolvere all'onere d'individuare nel dettaglio tipo, consistenza materiale riferita al singolo immobile dell'illecito edilizio, e, in aggiunta, non restare inerte di fronte alle doverose istanze d'integrazione recapitategli dal Comune)”.
Inoltre, e soprattutto, va ricordato che, secondo altrettanto pacifico orientamento giurisprudenziale, il titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto del silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile sia ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile, in tale condizione, acquisire il parere espresso dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Come ribadito anche di recente dalla Sezione con sentenza n. 6520/2018 il provvedimento positivo può ritenersi intervenuto in presenza del vincolo solo con il decorso del termine normativamente prescritto dall'emanazione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso (sicché non trova applicazione nei procedimenti in esame l’art. 17-bis della legge n. 241/1990, tardivamente invocato nel ricorso n. 5832/2016 dal ricorrente Ma.Ni. come nuovo motivo di ricorso a contestazione dell’atto di diffida impugnato con il ricorso introduttivo)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2018

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non sanabilità di un abuso edilizio inerente parti condominiali.
L
e fotografie presenti nel fascicolo di parte ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino come egli abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni del più ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio.
Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche.

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1. – Gi.Ru. si duole del provvedimento con il quale il Comune di Rossano gli ha negato il permesso di costruire in sanatoria relativo alla messa in opera di ringhiera metallica e pavimentazione su esistenti balconi e apertura di un accesso su un parapetto al sesto piano di un edificio insistente su via ....
In particolare, l’amministrazione non ha concesso il richiesto titolo in quanto le opere sarebbero state realizzate non già su balconi preesistenti, bensì su un cornicione e su un un parapetto, e cioè su beni che ricadrebbero in comunione e in relazione ai quali, in ogni caso, il ricorrente non avrebbe dato prova del titolo di disponibilità.
Inoltre, dalla documentazione prodotta non si evincerebbe se i cornicioni a sbalzo siano atti a sopportare i sovraccarichi, permanentio accidentali, previstidalla normativa vigente per le civili abitazioni.
...
5. – Nel merito della vicenda controversa, osserva il Collegio come le fotografie presenti nel fascicolo di parte ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino come egli abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni del più ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio (cfr. C. App. Salerno, 16.03.1992, in Giur. Merito, 1994; ma sulla nozione di facciata cfr. anche Cass. Civ., Sez. II , 14.12.2017, n. 30071).
5. – Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.04.2012, n. 1990).
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25.09.2014, n. 4818; Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.2009, n. 437; Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2000, n. 3520).
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n. 3282).
7. – In questi termini, l’operato dell’amministrazione intimata appare corretto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 21.08.2018 n. 1556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto.
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Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75 del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato, l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Sono del pari da disattendere il secondo e il terzo motivo di ricorso.
Quanto al secondo, con il quale parte ricorrente lamenta che l’Amministrazione avrebbe illegittimamente pretermesso di valutare l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, il Collegio osserva che, nel caso di specie, non si rinviene alcun elemento da cui inferire che l’esecuzione della sanzione applicata (riduzione al pristino stato dei locali al piano terra) potrebbe arrecare pregiudizio alla restante parte dell’edificio regolarmente assentita, cosicché alcuna censura può muoversi alla determinazione assunta dall’Amministrazione sulla base di una valutazione tecnico-discrezionale: per giurisprudenza pacifica "il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto" (TAR Campania Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056; nello stesso senso Cons. St., sez. VI 08.07.2011 n. 4102) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'Amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera edilizia abusiva, è sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione, così come degli atti consequenziali, ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito, dovendo questo adoperarsi, in ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito, onde sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso, quindi, può comunque autonomamente impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione.
Altresì, “La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo proprietario ignaro, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza demolitoria di abusi edilizi deve essere, infatti, notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area. La ragione per la quale quest'ultimo deve essere il destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non realizzate, si individua nella considerazione che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e come tale contraria ai principi dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del fondo”.

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Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75 del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato, l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
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Va disatteso, infine, il terzo e ultimo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente denuncia l’illegittimità dell’atto impugnato in quanto notificato ad uno solo dei comproprietari, alla stregua del consolidato orientamento di questo Tribunale: “ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'Amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera edilizia abusiva, è sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione, così come degli atti consequenziali, ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito, dovendo questo adoperarsi, in ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito, onde sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso, quindi, può comunque autonomamente impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione” (TAR Napoli, sez. VI, 06/03/2018 n. 1416); “La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo proprietario ignaro, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza demolitoria di abusi edilizi deve essere, infatti, notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area. La ragione per la quale quest'ultimo deve essere il destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non realizzate, si individua nella considerazione che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e come tale contraria ai principi dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del fondo” (TAR Napoli, sez. III, 07/11/2017 n. 5212) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Fondo rotativo per le demolizioni abusive è indebitamento.
La Corte dei conti, sezione controllo per Campania, con il parere 01.08.2018 n. 100, ha affrontato la questione della qualificazione e del trattamento contabile del fondo rotativo previsto dell'articolo 32, comma 12, del decreto legge 269/2003, per dare copertura alle spese per demolizioni giudiziali e amministrative di opere abusive.
Caso e quadro normativo
La norma prevede l'istituzione del «Fondo per le demolizioni delle opere abusive», finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza interessi, per finanziare i costi degli interventi di demolizione delle opere abusive. Stabilisce, inoltre, che le anticipazioni siano restituite al fondo al massimo in cinque anni, grazie alle somme riscosse dagli esecutori degli abusi.
In caso di mancato rimborso, il Comune procede alla riscossione mediante ruolo. Qualora le somme anticipate non siano restituite, il ministro dell'Interno provvede al rimborso alla Cassa depositi e prestiti, trattenendo le somme dai trasferimenti erariali in favore dei Comuni.
Un sindaco campano ha chiesto chiarimenti circa le modalità di contabilizzazione del fondo rotativo e, in particolare, se questo possa qualificarsi come «partita di giro», dunque non tra le forme d'indebitamento e neutro ai fini equilibri di bilancio.
La decisione
La Corte ricorda che la Cassa depositi e prestiti ha disciplinato il funzionamento del fondo, prevedendo, fra le altre cose, l'obbligo del rilascio da parte del Comune richiedente della delegazione di pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, come previsto dall'articolo 206 del Tuel, relativo all'esercizio nel quale è stato previsto il ricorso all'anticipazione.
La Corte non ha condiviso la tesi del Comune che ritiene che l'istituto in esame sia soltanto una partita di giro, ma, secondo l'interpretazione unanime della magistratura contabile, lo qualifica come una forma d'indebitamento sottoposta a tutti i limiti di legge, inclusi quelli che ne vietano l'utilizzo agli enti in dissesto.
La Corte, infatti, ha già chiarito in passato che il Fondo ha natura di strumento di finanziamento per le Pa locali, che sono tenute alla restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e prestiti indipendentemente dal recupero o meno le somme necessarie per la demolizione dell'opera abusiva. Qualora non provvedano direttamente, il ministero dell'Interno deve eseguire il versamento alla Cassa depositi e prestiti e, in seguito, trattenere l'importo, comprensivo delle spese, da ogni trasferimento di competenza degli enti locali inadempienti.
I precedenti
Già il
parere 11.04.2013 n. 76 della Sezione controllo del Piemonte ha precisato che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia pure senza interessi, implicano che le somme del «Fondo per le demolizioni delle opere abusive» rientrino fra le forme d'indebitamento ai sensi dell'articolo 202 del Tuel. La stessa Cassa depositi e prestiti prevede il rilascio da parte degli enti locali della delegazione di pagamento prevista dall'articolo 206 del Tuel, quale garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti.
Le risorse del fondo rotativo, dunque, non possono essere considerate alla stregua di «trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico», poiché si tratta di un finanziamento con specifica destinazione e con obbligo di restituzione. Le risorse provenienti dal fondo devono essere allocate, quindi al Titolo V dell'entrata e, riguardo al loro utilizzo, si applicano tutte le disposizioni in materia d'indebitamento e di pareggio di bilancio.
Sulla stessa scia si pongono le Sezioni riunite per la Regione Sicilia in sede consultiva (
parere 08.03.2013 n. 14), per le quali il fondo costituisce una vera e propria forma d'indebitamento ai sensi dell'articolo 3, comma 17, della legge 350/2003. Ne deriva il divieto di utilizzo in caso di ricorso alla procedura di riequilibrio disciplinata dall'articolo 243-bis del Tuel.
Le conseguenze
La Sezione Campania, pertanto, anche tenuto conto della delegazione di pagamento, conferma che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia pure in assenza d'interessi, implica che le somme del fondo rientrino fra le forme d'indebitamento disciplinate dall'articolo 202 del Tuel.
Di conseguenza, il Comune dissestato non può, sino al ritorno in bonis, attivare il fondo rotativo, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio. Quest'operazione, pertanto, non può qualificarsi come partita di giro. Nelle partite di giro e nei servizi in conto terzi, difatti, l'entrata o l'uscita finanziaria è obbligatoriamente correlata a equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
Da ciò deriva, tanto nei vecchi come nei nuovi principi contabili, la sostanziale neutralità dell'operazione, nel senso che entrate e spese si equivalgono, le prime coprendo esattamente le seconde. Nel caso del fondo rotativo, invece, se chi ha commesso l'illecito edilizio non ottempera al pagamento dei costi per la demolizione forzata, il Comune è obbligato a pagare le spese, mentre le somme versate dalla Cassa depositi e prestiti costituiscono una semplice “anticipazione” per far fronte a una momentanea carenza di liquidità, con ciò escludendosi la possibile qualificazione dell'istituto come partita di giro.
L'attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura alle demolizioni giudiziali rappresenta, a fronte di un recupero solo aleatorio, dunque un vero e proprio indebitamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2018).
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MASSIMA
La Sezione non condivide la prospettazione del comune rogante per la quale l'istituto del fondo rotativo presso la cassa depositi e Prestiti di cui all'art. 32, co. 12, d.l. n. 269/2003, conv. da l. n. 326/2003 al fine di garantire copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) sia solo una partita di giro che non incide sugli equilibri presenti e futuri di bilancio.
Aderisce all'interpretazione unanime della Corte dei conti che lo colloca all'interno della categoria dell'indebitamento, sottoposta a tutti i limiti di legge, inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto.
La Sezione ribadisce dunque che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica che le somme del "Fondo per le demolizioni delle opere abusive" erogate dalla CDP s.p.a. rientrano fra le forme di indebitamento ex art. 202 del Tuel.
Al comune, laddove dichiarato dissestato, è preclusa, sino al ritorno in bonis, l'attivazione del fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o amministrative, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio.
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Il Sindaco del Comune di Lacco Ameno (NA) chiede lumi in merito alla interpretazione dell’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003 e, in particolare, se l’attivazione del “fondo rotativo presso la cassa depositi e Prestiti di cui all’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003, convertito dalla l. n. 326/2003 al fine di garantire copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) e amministrative (in numero rilevante), può qualificarsi come “partita di giro”, non rientrante, in quanto tale, tra le forme di indebitamento previste, con conseguente sua irrilevanza sugli equilibri finanziari ed economici presenti e futuri di un comune, quale il comune di Lacco Ameno, con un cospicuo numero di procedimenti demolitori da evadere e già soggetto alla procedura di dissesto finanziario.
Il Sindaco reputa che “le risorse che provengono dal “Fondo per le demolizioni delle opere abusive" non possano essere considerate alla stregua di 'trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico", poiché le stesse danno luogo a un finanziamento avente una specifica destinazione, con obbligo irrevocabile di restituzione, la cui copertura non è garantita (essendo il recupero delle somme dal condannato-esecutato incerto ed occasionale, condizionalo dalla sua concreta solvibilità)” ed evidenzia che:
   “a) la stessa Cassa depositi e prestiti, nella della disciplina contrattuale alla quale subordina l'accesso al fondo, prevede espressamente il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall'art, 206 del citato T.U. quale garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti;
   b) ad analoghe conclusioni sulla natura del trasferimento in questione perviene la Commissione ARCONET (Armonizzazione contabile degli Enti territoriali) nel suo parere del 13.04.2016 reso ai sensi dell’art. 3-bis del decreto legislativo n. 118 del 2011 corretto e integrato dal decreto legislativo n. 126 del 2014
”.
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C. Venendo all’esame del merito della questione proposta, la disposizione recata dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003 citato in epigrafe, ha introdotto nell'ordinamento nuove «misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali».
Nell'ambito di tali misure, il comma 12 ha autorizzato la Cassa depositi e prestiti S.p.A. a costituire un Fondo di rotazione dell’importo massimo di 50 milioni di euro, denominato “Fondo per le demolizioni delle opere abusive”, finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza interessi, per finanziare i costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto la Cassa depositi e prestiti è autorizzata a mettere a disposizione l'importo massimo di 50 milioni di euro per la costituzione, presso la Cassa stessa, di un Fondo di rotazione denominato Fondo per le demolizioni delle opere abusive per la concessione ai Comuni e ai soggetti titolari dei poteri di cui all'articolo 27, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche avvalendosi delle modalità di cui all’articolo 2, comma 55, della legge 23.12.1996, n. 662, e all’articolo 41, comma 4, del decreto legislativo 06.06.2001, n. 380, di anticipazioni, senza interessi, sui costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive anche disposti dall'Autorità giudiziaria e per le spese giudiziarie, tecniche e amministrative connesse. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in un periodo massimo di cinque anni, secondo modalità e condizioni stabilite con decreto del ministro dell'Economia e delle finanze, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, utilizzando le somme riscosse a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo del credito l'amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante ruolo ai sensi del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46. Qualora le somme anticipate non siano rimborsate nei tempi e nelle modalità stabilite, il ministro dell'Interno provvede al reintegro alla Cassa depositi e prestiti, trattenendone le relative somme dai fondi del bilancio dello Stato da trasferire a qualsiasi titolo ai comuni.".
Questa Sezione non condivide la prospettazione del comune rogante che reputa che l’istituto in esame sia soltanto una partita di giro che non incide sugli equilibri presenti e futuri di bilancio e aderisce all’interpretazione unanime della Corte dei conti -di seguito richiamata- che lo colloca all’interno della categoria dell’indebitamento, sottoposta a tutti i relativi limiti di legge, inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto come Lacco Ameno.
La Corte dei conti ha già chiarito in passato
la natura del Fondo quale strumento di finanziamento per le Amministrazioni locali che sono tenute alla restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A. indipendentemente dalla circostanza che abbiano recuperato o meno le somme necessarie per la demolizione dell’opera abusiva. Qualora non provvedano direttamente, il Ministero dell’Interno deve effettuare il versamento alla Cassa depositi e prestiti S.p.A. e, successivamente, trattenere l’importo, comprensivo delle spese, da ogni trasferimento di pertinenza degli Enti locali inadempienti (cfr. parere 11.04.2013 n. 76 Sezione controllo per il Piemonte).
La natura di anticipazione e l’obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica che le somme del “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” erogate dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A. rientrino fra le forme di indebitamento alle quali possono ricorrere gli Enti locali ai sensi dell’art. 202 del TUEL. A questa conclusione, peraltro, è giunta anche la Cassa depositi e prestiti S.p.A. che nell’ambito della disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al fondo prevede il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206 del TUEL, quale garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti. Conseguentemente, le risorse che provengono dal “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” non possono essere considerate alla stregua di “trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico” poiché si tratta di un finanziamento avente una specifica destinazione, con obbligo irrevocabile di restituzione. Le risorse provenienti dal “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” devono essere allocate, quindi al Titolo V dell’entrata e in relazione al loro utilizzo si applicano tutte le disposizioni in materia di indebitamento e di Patto di stabilità interno attualmente previste” (cfr. parere 11.04.2013 n. 76 cit.).
Anche le Sezioni riunite per la regione siciliana in sede consultiva (cfr. parere 08.03.2013 n. 14) hanno trattato dell’istituto in esame evidenziando come “
l’accesso al Fondo di rotazione che qui ci occupa, realizza, come di tutta evidenza, un’operazione che comporta l’acquisizione di risorse aggiuntive, per effettuare spese per le quali non é già prevista idonea copertura di bilancio” e che “Tale operazione, esente da corresponsione di interessi passivi ma gravata di una quota delle spese di gestione del Fondo, fa sorgere un’obbligazione debitoria a carico del Comune, suscettibile di esecuzione per compensazione da parte del Ministero dell’Interno, a carico di qualsiasi altro trasferimento a favore degli enti locali previsto dalla legge, che prescinde dall’effettivo recupero di tali somme, da parte dell’ente locale, in danno dei soggetti obbligati alla demolizione”.
In base della considerazione per cui l’eventuale ricorso al Fondo di cui all’art. 32, comma 12, del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, come una vera e propria forma di indebitamento, per come sopra specificato, la predetta sezione della Corte riteneva che esso deve ritenersi precluso in presenza dell’avvenuta attivazione della procedura di riequilibrio di cui all’art. 243-bis, del T.U. n. 267/2000 (cfr. Sezioni riunite per la regione siciliana in sede consultiva, parere 08.03.2013 n. 14).
Va ribadita pertanto che la natura di anticipazione e l’obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica, comunque, che le somme del “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” erogate dalla Cassa depositi e prestiti s.p.a. rientrino fra le forme di indebitamento di cui all’art. 202 del T.U. n. 267 del 2000.
Del medesimo avviso è, peraltro, anche la Cassa depositi e prestiti che, nell’ambito della disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al fondo, prevede il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206 del citato.
Ciò premesso
è evidente che al comune, laddove dichiarato dissestato, è preclusa, sino al ritorno in bonis, l’attivazione del fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o amministrative, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio.
La predetta operazione non può qualificarsi come “partita di giro”, locuzione che contraddistingue, nella contabilità finanziaria di un ente pubblico, l’entrata o l’uscita finanziaria correlata a equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
E’ da precisare che nelle partite di giro così come nelle partite per conto terzi vi è una sostanziale neutralità dell’operazione, nel senso che entrate e spese si equivalgono ovvero le prime coprono esattamente le seconde; tanto si ricava anche dai nuovi principi contabili che sanciscono quanto segue: ”La necessità di garantire e verificare l’equivalenza tra gli accertamenti e gli impegni riguardanti le partite di giro o le operazioni per conto terzi, attraverso l’accertamento di entrate cui deve corrispondere, necessariamente, l’impegno di spese correlate (e viceversa) richiede che, in deroga al principio generale n. 16 della competenza finanziaria, le obbligazioni giuridicamente perfezionate attive e passive che danno luogo a entrate e spese riguardanti le partite di giro e le operazioni per conto terzi, siano registrate ed imputate all’esercizio in cui l’obbligazione è perfezionata e non all’esercizio in cui l’obbligazione è esigibile” (Allegato A/2, n. 4/2, al D.Lgs. 118/2011 PRINCIPIO CONTABILE APPLICATO CONCERNENTE LA CONTABILITA’ FINANZIARIA, 7.2).
Nella fattispecie oggetto del parere
se chi ha commesso l’illecito edilizio non ottempera al pagamento delle spese di demolizione forzata (caso frequente), è onere del Comune pagare le predette spese mentre le somme versate dalla cassa depositi e Prestiti costituiscono una semplice “anticipazione” per far fronte a momentanea carenza di liquidità. Anche da questo punto di vista, è da escludere che tale anticipazione possa considerarsi una partita di giro.
L’attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura alle demolizioni giudiziali equivale, pertanto, a fronte di un recupero solo aleatorio, un vero e proprio indebitamento suscettibile di alimentare, in futuro, le condizioni di una nuova crisi finanziaria che il comune stesso, mediante la procedura di risanamento, è obbligato ad evitare (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 01.08.2018 n. 100).

luglio 2018

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 (così come la presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile, stante che il provvedimento perde efficacia al momento della presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione, dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque assegnare un nuovo termine all’interessato per poter procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle istanze di condono edilizio sia alle richieste di accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380 presentate dopo l'ordinanza di demolizione.

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Il Collegio aderisce all'orientamento giurisprudenziale secondo cui la presentazione di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 (così come la presentazione di una istanza di condono edilizio) in epoca successiva all'adozione dell'ordinanza di demolizione ha automatico effetto caducante sull'ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una siffatta domanda di sanatoria produce, quindi, l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione contro l'atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell'abusività dell'opera, provocato dall'istanza, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa.
L’ordine di demolizione rimane, infatti, caducato anche nel caso in cui l’istanza di sanatoria non sia accoglibile, stante che il provvedimento perde efficacia al momento della presentazione dell’istanza, e, pertanto, in ogni caso l’amministrazione, per poter procedere alla demolizione, dovrà adottare un nuovo ordine demolitorio o comunque assegnare un nuovo termine all’interessato per poter procedere spontaneamente alla disposta demolizione (e così evitare più gravose sanzioni), essendo ormai decorso quello precedentemente assegnato.
Nel senso dell'improcedibilità si è già peraltro più volte espressa la giurisprudenza anche di questo TAR sia alle istanze di condono edilizio sia alle richieste di accertamento di conformità ex art. 36 TU 06.06.2001 n. 380 presentate dopo l'ordinanza di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 06/03/2017, n. 1289; Cons. Stato, sez. IV, 28/11/2013, n. 5704; Cons. Stato, sez. IV, 12/05/2010, n. 2844; Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2013, n. 5704; TAR Piemonte Torino, Sez. II, 18.01.2013, n. 48) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2018 n. 5115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel contestato provvedimento comunale, il Collegio rileva che, al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di ritenere il titolo abilitativo rilasciato venuto meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che “il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe una costruzione solo apparentemente simile a quella originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione dell’edificio esistente- e la costruzione di altro manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria (identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal provvedimento in contestazione), come detto, determinano una ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha assunto una portata generale e prevalente rispetto alla pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece, come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.

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L’intervento posto in essere, come detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985 né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata, sia al momento della realizzazione sia al momento della domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie inesistente, costituisce condicio sine quanon per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle vigenti al momento della definizione dell’istanza, rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da questo Collegio.

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L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che l’intervento realizzato ha comportato la indebita demolizione di un edificio che, per espressa previsione delle norme urbanistiche comunali non poteva essere distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e, una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente inapplicabilità della norma che consente l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
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L’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
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... per la riforma della sentenza 01.07.2011 n. 1113 del TAR VENETO, Sez. II.
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Le doglianze, che affrontano le problematiche centrali dell’intera controversia, non possono essere condivise.
2.1 Con decreto ministeriale 20.12.1965, la zona in cui è compreso l’immobile in discorso, di proprietà degli appellanti, sita nel territorio del Comune di Creazzo (Vicenza), è stata dichiarata di notevole interesse pubblico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 (“
protezione delle bellezze naturali”).
L’art. 26 delle NTA al PRG del Comune di Creazzo è rubricato “Beni culturali – insediamenti urbani e rurali con caratteristiche ambientali ed architettoniche” ed al primo comma dispone che [la zona] “è costituita dalle parti del territorio interessate da insediamenti urbani e rurali, comprendenti aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di particolare pregio ambientale”.
Il secondo comma del detto art. 26 prevede che “in tali ambiti il P.R.G. si attua per intervento edilizio diretto, secondo le prescrizioni delle schede urbanistiche riferite ad ogni singolo immobile o complesso di immobili, in deroga alle norme della zona territoriale omogenea della quale fanno parte”.
Per quanto più specificamente interessa in questa sede, la parte finale del comma 4 indica che “non sono ammesse demolizioni con successive ricostruzioni, se non specificamente concesso”.
La scheda relativa all’edificio n. 114, di proprietà degli appellanti, quale tipo di intervento ammesso prevede: “demolizione dell’accessorio sul lato ovest e riduzione della sporgenza del poggiolo a cm. 50 con eliminazione dei pilastri. Ampliamento e sopraelevazione dell’edificio ad Ovest in continuità di quello ad Est”.
Di talché, non sussiste dubbio che l’edificio di proprietà dei signori Lo. e Pe., quale bene rientrante in una zona paesaggisticamente tutelata, ai sensi della specifica e non contestata normativa urbanistica, non avrebbe potuto essere interamente demolito e successivamente ricostruito.
La concessione ad eseguire l’attività edilizia rilasciata dal Comune di Creazzo in data 20.09.2001 ha avuto ad oggetto i lavori di ristrutturazione con ampliamento e sopraelevazione di un fabbricato residenziale in via Po., con esecuzione delle opere come richieste secondo gli allegati grafici di progetto che, debitamente vistati, fanno parte integrante della concessione e, comunque, nel rispetto delle leggi, dei regolamenti vigenti, delle condizioni e prescrizioni tutte contenute nel provvedimento abilitativo e negli atti allegati.
Gli stessi appellanti hanno rappresentato che la concessione prevedeva il mantenimento di due tratti delle pareti sud e nord (oltre a quella est, condivisa con un edificio attiguo e di proprietà di un soggetto terzo) ed hanno specificato che per la parti che sarebbero risultate ammalorate, era stata consentita la sostituzione mediante la tecnica c.d. del “cuci e scuci”.
Il Collegio rileva in primo luogo che la suddetta tecnica del “cuci e scuci” è una tecnica di riparazione (o consolidamento) delle lesioni di murature e consiste nella sostituzione delle parti ammalorate di muratura mediante rifacimento con materiale nuovo e, quindi, non può trarsi dalla previsione del possibile utilizzo di tale tecnica, come pure sembrano adombrare gli appellanti nei loro scritti difensivi, una facoltà di demolizione e ricostruzione, del tutto esclusa invece dalla strumentazione urbanistica così come dal provvedimento concessorio.
Pertanto, mentre la parete ovest poteva essere demolita per effettuare il richiesto ampliamento, non sussiste alcun dubbio che le pareti nord e sud (oltre la est condivisa con edificio attiguo) non potessero essere demolite e ricostruite perché ciò era vietato sia dalla concessione edilizia “a valle” sia dagli strumenti urbanistici di governo del territorio “a monte”.
Parimenti, non sussiste dubbio sul fatto che la tutela paesaggistica non riguarda solo l’elemento naturalistico della collina, ma anche, come riportato nell’art. 26 delle NTA al PRG, aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di particolare pregio ambientale.
Di talché, può ritenersi certo che un’istanza presentata dall’avente titolo volta ad ottenere la concessione per demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto –così come materialmente avvenuto, con creazione di un nuovo manufatto- non avrebbe potuto trovare accoglimento in quanto non ammessa dal piano regolatore generale per il valore paesaggistico dell’originario edificio.
L’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 dispone che, “anche in deroga ad altre leggi regionali, ai regolamenti e alle previsioni degli strumenti urbanistici, il Sindaco è autorizzato a rilasciare le concessioni o le autorizzazioni per la ricostruzione di edifici o di loro parte o comunque di opere edilizie o urbanistiche, integralmente o parzialmente distrutti a seguito di eventi eccezionali o per cause di forza maggiore”.
La norma, nel fare riferimento ad eventi eccezionali o a cause di forza maggiore, circoscrive la propria operatività ad eventi che siano al contempo imprevedibili ed inevitabili e, quindi, nemmeno in parte riconducibile alla iniziativa degli interessati. Nello stesso senso va inteso il riferimento alla fattispecie della “distruzione” dell’edificio, ossia ad un evento dovuto a cause esterne rispetto all’azione dei proprietari e come tale nettamente distinto rispetto alla demolizione effettuata dagli stessi.
La contestuale presenza della imprevedibilità e della inevitabilità, nel caso di specie, non è stata dimostrata e non è rinvenibile.
Nella memoria e consulenza tecnica redatta dall’ing. Pa.Ro., in data 22.05.2003, su incarico dei signori Lo. e Pe., è indicato, a pag. 5, che “il fabbricato in questione, così come si presenta ai giorni nostri, è stato oggetto di una ristrutturazione complessiva per la parte originaria, dove progressivamente è stata sostituita la parte povera di parametro murario senza alcun elemento di pregio … e successivamente fedelmente ricostruita, fino al completo rinnovo dell’organismo edilizio”, per cui la demolizione e ricostruzione sembra essere frutto di una scelta, sia pure originata da una valutazione tecnica, non certo di un evento al contempo imprevedibile ed inevitabile.
Inoltre, dalla perizia statica redatta dal direttore dei lavori ing. Gu. Da. Ve., incaricato dai signori Lo. e Pe., asseverata in data 17.07.2003, a pag. 5 si legge che “stante le condizioni sopra accennate, ai fini della stabilità dell’intera struttura, non risultava proponibile né realizzabile, in concreto, un intervento di recupero conservativo delle parti di muratura non previste da demolizione”.
In definitiva, deve ritenersi che, già prima dell’inizio dei lavori, fosse stata accertata –o fosse comunque accertabile- l’impossibilità o l’inopportunità di eseguire il progetto come assentito dal provvedimento abilitativo.
Tuttavia, gli interessati hanno provveduto ad effettuare la vietata demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto senza avere preventivamente avanzato istanza di variante (istanza che, come più volte detto, non avrebbe potuto trovare accoglimento in applicazione degli strumenti urbanistici in vigore), tanto che l’intervenuta demolizione e ricostruzione è stata accertata dall’Ufficio Tecnico con sopralluogo in data 05.02.2003 e l’istanza di variante è stata integrata il successivo 05.03.2013.
In conclusione, dal quadro sopra descritto, emerge con nitidezza che nessun accadimento eccezionale né alcun evento imprevedibile e inevitabile aveva imposto la vietata demolizione dell’intero manufatto e che, di conseguenza, tale decisione, sia pure supportata da considerazioni tecniche, è stata assunta dagli interessati che hanno messo l’amministrazione dinanzi al “fatto compiuto”.
D’altra parte, la sentenza del Tribunale di Vicenza, Sezione Penale, n. 850 del 2008, nell’escludere il valore scriminante delle circostanze afferenti alla salvaguardia della incolumità del cantiere e alla irreparabilità della situazione dei manufatti, che sarebbero state, secondo la prospettazione di parte, alla base della decisione di far abbattere i muri vecchi e di ricostruirne i nuovi, ha indicato che “la situazione di crollo parziale e di non recuperabilità non è dimostrata, come non è dimostrato perché non potessero essere attivate procedure di salvaguardia e di restauro, certo costoso più della demolizione, ma ben possibile come la comune esperienza del recupero dei beni storici insegna. Anche i testi … che materialmente hanno eseguito le demolizioni nulla hanno detto circa pericoli od altro; hanno riferito della condizione del muro, normale, e dell’ordine ricevuto … di demolirlo. Nessun panico, nessuna situazione drammatica che imponeva drastiche misure”.
Ne consegue la insussistenza dei presupposti per l’applicazione alla fattispecie dell’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 (norma che, comunque, riconosce al Sindaco una mera facoltà di autorizzare l’intervento, e non un obbligo).
2.2 Per quanto concerne l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel contestato provvedimento dell’amministrazione comunale del 31.10.2003, il Collegio rileva che, al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di ritenere il titolo abilitativo venuto meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che “il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe una costruzione solo apparentemente simile a quella originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione dell’edificio esistente- e la costruzione di altro manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria (identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal provvedimento in contestazione), come detto, determinano una ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha assunto una portata generale e prevalente rispetto alla pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Cons. Stato, IV, 07.04.2015, n. 1764).
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece, come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
Le considerazioni sopra esposte non solo attestano l’infondatezza delle doglianze proposte dagli appellati avverso le statuizioni con cui il giudice di primo grado ha respinto l’azione di annullamento proposta con il ricorso introduttivo del giudizio, ma sono anche alla base dell’infondatezza delle ulteriori censure proposte nella presente sede di appello.
3. I signori Lo. e Pe., con riferimento alle statuizioni con cui in primo grado è stata respinta l’azione di annullamento contenuta nel primo atto di motivi aggiunti, hanno sostenuto che l’affermazione contenuta nel provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria -secondo cui nessun rilievo potrebbe essere attribuito a quanto disposto dalla adottata variante al PRG giacché l’intervento sarebbe in contrasto con il PRG vigente- sarebbe viziata dalla erronea e falsa applicazione dell’art. 97 della L.R. 61/1985.
Il descritto provvedimento del 31.10.2003, impugnato con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha respinto, per violazione dell’art. 97, comma 3, L.R. Veneto n. 61 del 1985 e dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza di variante in sanatoria alla concessione edilizia presentata in data 30.06.2003.
Con successivo provvedimento in data 13.12.2004, impugnato presso il TAR con un primo atto di motivi aggiunti, il Comune di Creazzo ha confermato il diniego di sanatoria espresso in data 31.10.2013 a seguito di istanza di riesame presentata dagli interessati in data 31.12.2003 ed integrata in data 21.04.2004 e in data 13.08.2004.
A prescindere dalla eccezione di inammissibilità della censura formulata dall’amministrazione comunale in quanto l’atto sarebbe meramente confermativo del precedente diniego, la doglianza è senz’altro infondata in quanto l’intervento posto in essere dagli appellanti, come detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985 né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata, sia al momento della realizzazione sia al momento della domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie inesistente, costituisce condicio sine quanon per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle vigenti al momento della definizione dell’istanza, rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da questo Collegio.
In ogni caso, detta tesi non è applicabile alla fattispecie in esame sia perché la variante urbanistica invocata dagli appellanti -la quale, per il provvedimento di diniego contestato, è comunque difforme dalla sanatoria richiesta- era stata adottata ma non approvata, per cui non costituiva, alla data di emanazione dell’atto, normativa vigente, sia perché, come evidenziato dall’amministrazione nella propria memoria difensiva, la variante è stata modificata in sede di approvazione (deliberazione di Giunta Regionale n. 3462 del 07.11.2016).
4. Gli appellanti hanno contestato le statuizioni della sentenza con cui sono state respinte le censure proposte avverso il diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica.
In particolare, gli interessati, evidenziando ancora una volta l’erronea impostazione iniziale del Comune che aveva dichiarato la decadenza del titolo edilizio, ritengono di avere correttamente rappresentato come l’intervento, quanto a volumi e superfici, aveva pienamente rispettato le autorizzazioni edilizia e ambientale.
Le doglianze non sono persuasive.
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che l’intervento realizzato ha comportato la indebita demolizione di un edificio che, per espressa previsione delle norme urbanistiche comunali, ormai inoppugnabili, non poteva essere distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e, una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente inapplicabilità della norma che consente l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
5. Con riferimento alle ultime doglianze, relative alle statuizioni della sentenza di primo grado che hanno respinto l’azione di annullamento, proposta con i terzi motivi aggiunti, avverso il diniego delle istanze di condono edilizio presentate dagli interessati, è sufficiente richiamare ancora una volta l’attenzione sul fatto che, a differenza di quanto prospettato dagli appellanti, l’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.07.2018 n. 4690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppare legittimo rivolgere l’ordine di demolizione nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione.
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
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Non può determinare l’annullamento dell’ordine di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza allo stesso ordine, in quanto, come sostenuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene”.
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2.3. Inoltre, appare legittimo rivolgere l’ordine di demolizione nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II, 03.05.2018, n. 1198; 27.02.2018, n. 574; 03.11.2016, n. 2013, TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261).
2.4. Pertanto, la censura deve essere respinta.
3. Con la seconda doglianza si deducono la genericità e l’indeterminatezza dell’ordinanza di demolizione per mancata specifica individuazione sia dell’area interessata dall’asfaltatura abusiva che dell’eventuale area di sedime che verrebbe acquisita di diritto al patrimonio comunale in caso di inottemperanza da parte della ricorrente.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che in data 05.05.2017 gli Uffici comunali hanno trasmesso alla ricorrente la planimetria catastale contenente l’indicazione dei mappali da acquisirsi in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione (all. 11 del Comune); in ogni caso deve sottolinearsi come fosse possibile individuare agevolmente le parti di strada su cui intervenire al fine di rimuovere l’asfaltatura abusivamente realizzata, vista la sua immediata rilevabilità.
Ciò rende irrilevante l’originaria omissione del Comune, che ha provveduto celermente a trasmettere la planimetria, comunque non indispensabile ai fini dell’ottemperanza.
3.2. Ulteriormente va evidenziato come non possa determinare l’annullamento dell’ordine di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza allo stesso ordine, in quanto, come sostenuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene” (Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13; altresì, TAR Lombardia, Milano, II, 02.05.2018, n. 1190; 18.07.2017, n. 1644) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.07.2018 n. 1886 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere comunale di controllo in materia edilizia, per orientamento giurisprudenziale consolidato, non è soggetto né a termini di decadenza, né di prescrizione, essendo preordinato a consentire l’adozione, sussistendone i presupposti, dei provvedimenti di carattere sanzionatorio ovvero di provvedimenti vincolati, in quanto collegati alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione edilizia vigenti e rispetto ai quali il soggetto inciso non può nemmeno dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi..
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.

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Oggetto del presente giudizio (rectius del ricorso introduttivo, che, per primo, viene scrutinato) sono gli asseriti abusi edilizi realizzati dai controinteressati al quinto piano dell’edificio denominato “Condominio ...” in Tolmezzo.
I ricorrenti lamentano, invero, che il Comune, seppur sollecitato a farlo con il loro esposto in data 18/11/2013, avrebbe omesso di esercitare i poteri repressivi di competenza, concludendo, anzi, il relativo procedimento senza prendere espressa posizione in ordine ai profili di illegittimità di carattere urbanistico/edilizio, che pure erano stati oggetto di segnalazione e di richiesta di puntuale disamina, al fine dell’adozione dei provvedimenti conseguenti.
Prima di procedere al vaglio dei vizi denunciati dai ricorrenti, il Collegio deve, tuttavia, farsi carico delle eccezioni preliminari di rito sollevate dalla difesa del Comune e dei controinteressati.
Nessuna di tali eccezioni è fondata.
Non lo è, innanzitutto, quella di prescrizione e/o decadenza e/o tardività e/o di irrilevanza di qualsivoglia doglianza in quanto relativa a situazioni consolidatesi da decenni.
Pare, invero, sufficiente rammentare che, nel caso specifico, viene in rilievo il mancato esercizio del potere di controllo invocato, potere che, per orientamento giurisprudenziale consolidato, condiviso dal Collegio, non è soggetto né a termini di decadenza, né di prescrizione, essendo preordinato a consentire l’adozione, sussistendone i presupposti, dei provvedimenti di carattere sanzionatorio ovvero di provvedimenti vincolati, in quanto collegati alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio, così come delineato nello strumento urbanistico e nella regolamentazione edilizia vigenti (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907) e rispetto ai quali il soggetto inciso non può nemmeno dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592).
L’illecito edilizio ha, infatti, carattere permanente e conserva nel tempo la sua natura, sicché non può assolutamente ritenersi che la “iniziativa” di chi sollecita l’esercizio dei poteri di controllo possa essere soggetta a limiti temporali.
Analogamente privo di pregio è il denunciato difetto di interesse
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 30.07.2018 n. 268 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione pecuniaria è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati "sulle aree e sugli edifici" di cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè solo su quelle "aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità";
   2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962, n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni" (relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
   3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di "Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a "vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione";
   4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n. 1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
   5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii.;
   7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
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Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della entità della sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria “ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001”.

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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 292 del 17.09.2015 con cui il comune di Avellino -sportello unico per l'edilizia- ha ingiunto al ricorrente il pagamento di una sanzione amministrativa ai sensi dell'art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001.
...
1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità del provvedimento n. 292 del 17.09.2015 con cui il comune di Avellino ha rilevato la mancata ottemperanza da parte del responsabile dell’ordine di demolizione n. 43 del 2015 emesso per la rimozione di opere edilizie realizzate sine titulo ed ha ingiunto il pagamento di una sanzione amministrativa pari ad euro 20.000 ai sensi dell'art. 3, comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001.
Trattasi, nella specie, di opere realizzate senza titolo in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
...
4.2 Con la formulata censura di illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. 380 del 2001, il ricorrente deduce, sostanzialmente, che tale norma -in combinato disposto con l'art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico-, assoggettando alla sanzione pecuniaria massima di Euro 20.000,00 tutti gli abusi commessi "sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'art. 27" del D.P.R. n. 380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive dimensioni delle opere (nel caso in esame, trattasi di “baracca in lamiera di 12 mq.”)-, contrasterebbe con i principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza.
A tale proposito il Collegio intende confermare il giudizio di infondatezza della prospettata censura ribadendo quanto già espresso nella sentenza n. 103 del 16.01.2017 nella quale è stato precisato che: “In base all'art. 31, comma 4- bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione pecuniaria è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati "sulle aree e sugli edifici" di cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè solo su quelle "aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità";
   2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962, n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni" (relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
   3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di "Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a "vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione";
   4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n. 1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
   5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii.;
   7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della entità della sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, Sent., 12/07/2016, n. 1105) “ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001”.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con l'art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico- si appalesa manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate
”.
5. Per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 06.07.2018 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2018

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge - rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità – necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva, nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sulla riconducibilità, o meno, del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale; ed infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto.
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero indeterminato di soggetti.
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto.
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1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La problematica centrale riguarda la nozione di luogo pubblico o aperto al pubblico, posto che il reato contravvenzionale, ex art. 4 legge n. 110/1975, implica il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Ed invero, nell'ambito del presente procedimento, il contrasto è insorto, proprio a seguito dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la riconducibilità del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione dell'imputato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 270076); ed infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 - dep. 14/06/2017, C., Rv. 270251).
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 - dep. 12/07/2017, P.C. in proc. Tinervia, Rv. 270679).
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini. (applicazione in tema di porto abusivo di armi) (Sez. 1, n. 934 del 28/09/1982 - dep. 03/02/1983, CHIAPPERO, Rv. 157237).
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013 - dep. 27/05/2013, Ambrosio, Rv. 256949) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 01.06.2018 n. 24755).

maggio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Sulla questione se il diniego del permesso di costruire in parziale sanatoria e l’ordine di demolizione delle opere abusive sarebbero viziati per difetto di legittimazione del destinatario poiché erroneamente indirizzati al sig. ... in proprio e non, invece, nella qualità di amministratore unico e legale rappresentante della .... s.a.s..
Il sig. Sa. è amministratore unico e socio accomandatario della società proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che “L'attività svolta della società in accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al ricorrente, socio accomandatario e suo legale rappresentante, non rilevando pertanto la mancata indicazione della qualità per cui la sanzione è stata direttamente notificata al ricorrente, in ragione della confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente responsabile e la società medesima”.
Inoltre, in una tale situazione, deve ragionevolmente ritenersi che il destinatario sia in grado di apprezzare la lesività del provvedimento, sia come persona fisica, che come socio della società.
Nel condividere integralmente e fare propri tali indirizzi, il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto del presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a produrre effetti anche nei confronti della società è dimostrata non solo –sul piano astratto– dai profili di confusione patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza richiamata, ma anche dalla circostanza che -in concreto– è stato proprio il sig. Sa. a determinare la commistione tra l’attività svolta per sé e quella esercitata per Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di costruire in parziale sanatoria, benché presentata dal sig. Sa. in nome proprio, è stata infatti avanzata per conto e a beneficio della società. E’ perciò del tutto incongruo ritenere che la stessa società, che ben avrebbe potuto beneficiare dell’esito favorevole dell’istanza, non sia invece tenuta a sopportare le conseguenze della conclusione negativa dell’iter.

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10. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono di seguito.
11. Con il primo motivo i ricorrenti allegano che il provvedimento impugnato, recante il diniego del permesso di costruire in parziale sanatoria e l’ordine di demolizione delle opere abusive, sarebbe viziato per difetto di legittimazione del destinatario. Ciò in quanto la nota comunale sarebbe erroneamente indirizzata al sig. Cr.Sa. in proprio, e non invece nella qualità di amministratore unico e legale rappresentante di Im.Qu.Og. s.a.s.
11.1 Al riguardo, occorre anzitutto rilevare che il sig. Sa. aveva presentato in nome proprio la domanda di permesso di costruire in parziale sanatoria, qualificandosi come proprietario.
11.2 Ciò posto, nessuna illegittimità è ravvisabile nel provvedimento impugnato.
Deve tenersi presente, infatti, che il sig. Sa. è amministratore unico e socio accomandatario della società proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che “L'attività svolta della società in accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al ricorrente, socio accomandatario e suo legale rappresentante, non rilevando pertanto la mancata indicazione della qualità per cui la sanzione è stata direttamente notificata al ricorrente, in ragione della confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente responsabile e la società medesima (cfr. TAR Campania, Napoli, n. 927/2015)” (così TAR Abruzzo, L'Aquila, 09.08.2016, n. 482).
Inoltre, in una tale situazione, deve ragionevolmente ritenersi che il destinatario sia in grado di apprezzare la lesività del provvedimento, sia come persona fisica, che come socio della società (Cons. Stato, Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426).
11.3 Nel condividere integralmente e fare propri tali indirizzi, il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto del presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a produrre effetti anche nei confronti della società è dimostrata non solo –sul piano astratto– dai profili di confusione patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza richiamata, ma anche dalla circostanza che -in concreto– è stato proprio il sig. Sa. a determinare la commistione tra l’attività svolta per sé e quella esercitata per Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di costruire in parziale sanatoria, benché presentata dal sig. Sa. in nome proprio, è stata infatti avanzata per conto e a beneficio della società. E’ perciò del tutto incongruo ritenere che la stessa società, che ben avrebbe potuto beneficiare dell’esito favorevole dell’istanza, non sia invece tenuta a sopportare le conseguenze della conclusione negativa dell’iter.
11.4 Il motivo va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il locale studio e il locale w.c. abusivamente realizzati non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato, ma consistono ampliamenti al di fuori della sagoma originaria.
Tali opere non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti meramente accessori e serventi all’edificio, privi di incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani aggiunti all’originario edificio, con corrispondente incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al fabbricato preesistente.
A ben vedere, infatti, i ricorrenti distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto successivamente a un edificio, purché di dimensioni contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende proprio dal fatto che esso viene a costituire parte integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le quali non possono consistere in porzioni costitutive del medesimo immobile cui dovrebbero servire.
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Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”, trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R. n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
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E' stata presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente, perciò, ad aver qualificato le opere come un unico intervento edilizio abusivo.
L’istanza non può, pertanto, essere valutata in modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è consentito al Comune prendere in considerazione singole porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di “manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato.
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12. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale si sostiene, sotto diversi profili, che le opere abusive non sarebbero soggette alla sanzione demolitoria.
12.1 I ricorrenti affermano, anzitutto, che il locale studio e il locale w.c. costituirebbero mere pertinenze, contenute entro il limite del venti per cento del fabbricato principale, per le quali non sarebbe richiesto il rilascio del permesso di costruire.
Conseguentemente, si tratterebbe di abusi non soggetti alla sanzione della demolizione, ma soltanto a quella pecuniaria prevista dall’articolo 37 del d.P.R. n. 380 del 2011 per le opere realizzate in assenza di denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.1.1 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che le opere in esame non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato, ma consistono in ampliamenti al di fuori della sagoma originaria, come correttamente allegato dalla difesa comunale e come chiaramente risulta dagli elaborati progettuali depositati agli atti del giudizio. Tali opere non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti meramente accessori e serventi all’edificio, privi di incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani aggiunti all’originario edificio, con corrispondente incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al fabbricato preesistente. A ben vedere, infatti, i ricorrenti distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto successivamente a un edificio, purché di dimensioni contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende proprio dal fatto che esso viene a costituire parte integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le quali non possono consistere in porzioni costitutive del medesimo immobile cui dovrebbero servire.
12.1.2 Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”, trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R. n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.2 Non merita accoglimento neppure la seconda censura articolata nel secondo motivo, con la quale i ricorrenti lamentano che il Comune non avrebbe potuto ordinare la demolizione delle opere di divisione interne, in quanto qualificabili come mero intervento di manutenzione straordinaria e, come tali, ammesse dalla disciplina urbanistica dettata dal PRG per gli edifici incompatibili con la destinazione della zona “M”, quale è il fabbricato residenziale sul quale le opere sono state eseguite.
12.2.1 Al riguardo, deve infatti osservarsi che –come correttamente evidenziato dalla difesa comunale– è stata presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente, perciò, ad aver qualificato le opere come un unico intervento edilizio abusivo.
L’istanza non avrebbe potuto, pertanto, essere valutata in modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è consentito al Comune prendere in considerazione singole porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di “manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato. E, d’altro canto, l’adozione di un’ordinanza di demolizione riferita all’abuso nella sua interezza, per come dichiarato dal privato, costituisce una mera conseguenza del diniego dell’accertamento di conformità.
12.2.2 Tale esito, peraltro, non preclude la presentazione di una nuova istanza, al fine di regolarizzare la sola parte dell’intervento che si ritenga eventualmente conforme alla disciplina urbanistica, eseguendo, per il resto, l’ordinanza di demolizione.
12.3 Da ciò il rigetto di tutte le censure articolate con il secondo motivo di impugnazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone, logicamente, che un ritardo sia configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
D’altro canto, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli interessati di procrastinare la demolizione dell’opera abusiva e di continuare a trarne profitto.

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16. I ricorrenti hanno domandato anche la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno derivante dal ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo.
16.1 Al riguardo, il Collegio ritiene di poter prescindere dall’eccezione di tardività sollevata dalla difesa comunale, stante l’infondatezza nel merito della domanda.
16.2 La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone, infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
D’altro canto, come correttamente rimarcato dalla difesa comunale, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli interessati di procrastinare la demolizione dell’opera abusiva e di continuare a trarne profitto.
16.3 Da ciò il rigetto della domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive emanata in pendenza del termine per la presentazione della domanda di sanatoria edilizia, ex art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (...), il g.a., chiamato ad applicare la sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n. 47, deve valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso concreto, escludendola laddove le opere in questione non siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo, temporale, finanziario.
La sospensione del giudizio di cui all'art. 44, l. 18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è applicabile in relazione alle opere assolutamente non suscettibili di sanatoria, come sono, tra le altre, le opere abusive eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti vincoli di inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47 del 1985).
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2.6. Quanto all’ultimo motivo, osserva il Collegio che l'intimazione contenuta nel provvedimento impugnato, relativa alla sola porzione di opera che, come visto, non è suscettibile di sanatoria, non viola il principio di sospensione fissato dall'art. 44 della l. n. 47/1985, atteso che tale principio non trova applicazione per le opere assolutamente insuscettibili di sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza costante ha affermato che “in sede di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive emanata in pendenza del termine per la presentazione della domanda di sanatoria edilizia, ex art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 ( ... ), il g.a., chiamato ad applicare la sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n. 47, deve valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso concreto, escludendola laddove le opere in questione non siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo, temporale, finanziario. La sospensione del giudizio di cui all'art. 44, l. 18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è applicabile in relazione alle opere assolutamente non suscettibili di sanatoria, come sono, tra le altre, le opere abusive eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti vincoli di inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47 del 1985)” (TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 3816/2005; conf. TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n. 18085/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 17690/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n. 16733/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 14660/2004 e TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 9527/2004).
2.7. In ragione delle suesposte considerazioni il ricorso è infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante “l’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva” deve ritenersi “sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività del manufatto”.
Ciò in quanto “l’attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi”.
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9. Sempre per l’infondatezza deve infine concludersi in ordine all’asserito difetto di motivazione, atteso che per giurisprudenza costante “l’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva” deve ritenersi “sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività del manufatto” (così Cons. St., sez. IV, 28.02.2017, n. 908); ciò in quanto “l’attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi” (TAR Campania , Napoli, sez. III, 20.02.2018, n. 1096) (TAR Umbria, sentenza 11.05.2018 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti di autotutela sugli ordini di demolizione sono retti dai principi enucleati dalla Adunanza plenaria n. 9 del 2017.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Autotutela – Interesse pubblico – Motivazione - Limiti.
  
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Sostituzione con sanzione pecuniaria – Valutabilità nella fase esecutiva del procedimento demolitorio
  
I provvedimenti di autotutela (anche di secondo grado) sugli ordini di demolizione, e dunque la loro riconferma, non incontrano i limiti stabiliti dalla plenaria 17.10.2017, n. 8 in ordine all’individuazione motivata dell’interesse pubblico ma sono retti dai principi enucleati dalla plenaria 17.10.2017, n. 9, con la conseguenza che non richiedono una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso (1).
  
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame il Comune indotto in errore dall’appellante circa la consistenza delle opere sanande, l’interesse pubblico è da ritenere autoevidente e non richiede quindi una particolare ostensione argomentativa, secondo il recente insegnamento dell’Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 8; tale pronuncia, inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su provvedimenti ampliativi: nel caso di specie, invece, nella sostanza (come si dirà in prosieguo) si tratta della conferma di un ordine di demolizione per abusivismo edilizio.
Ha aggiunto che è pur vero che, con la su citata pronuncia, l’Adunanza plenaria ha escluso la configurabilità dell’interesse pubblico in re ipsa con riferimento all’esercizio del potere di autotutela sui titoli edilizi in sanatoria, quali atti di natura ampliativa, ma la vicenda in esame sottende l’esercizio di un potere sanzionatorio avente carattere ripristinatorio e doveroso
La Sezione (14.12.2016, n. 5262) ha peraltro già opinato, in epoca precedente a tale fondamentale pronuncia, che “allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”.
   (2) Cons. St., sez. VI, 23.11.2017, n. 5472 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2018 n. 2799 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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7.3.2. Da tanto consegue anche l’infondatezza del terzo connesso profilo di censura, in quanto:
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essendo stato il Comune indotto in errore dall’appellante circa la consistenza delle opere sanande, l’interesse pubblico è da ritenere autoevidente e non richiede quindi una particolare ostensione argomentativa, secondo il recente insegnamento dell’Adunanza plenaria n. 8 del 2017; tale pronuncia, inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su provvedimenti ampliativi: nel caso di specie, invece, nella sostanza (come si dirà in prosieguo) si tratta della conferma di un ordine di demolizione per abusivismo edilizio;
   - questa Sezione ha peraltro già opinato, in epoca precedente a tale fondamentale pronuncia, che “
allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa” (cfr. sentenza 14.12.2016, n. 5262);
   - è pur vero che, con la su citata pronuncia, l’Adunanza plenaria ha escluso la configurabilità dell’interesse pubblico in re ipsa con riferimento all’esercizio del potere di autotutela sui titoli edilizi in sanatoria, quali atti di natura ampliativa, ma la vicenda in esame sottende l’esercizio di un potere sanzionatorio avente carattere ripristinatorio e doveroso; in ogni caso i principi espressi dall’Adunanza plenaria sono comunque estensibili alla controversia in esame;
   - deve infatti rilevarsi che
anche nel caso di specie il potere di autotutela esercitato dall’amministrazione, avente ad oggetto un precedente provvedimento repressivo dell’ordine demolitorio invece che un titolo edilizio risultato illegittimo, sottende “l’evidente esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con strumenti efficaci e tempestivi e con la piena consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale (quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio, nonché la tutela della pubblica incolumità)”;
   - non va peraltro trascurato, per rimarcare nella specie la natura vincolata dell’atto oggetto del presente giudizio, che
l’ordine demolitorio rivitalizzato dall’amministrazione comunale non solo non risulta più intaccato nella sua portata effettuale dalle derminazioni in autotutela dell’amministrazione, ma nemmeno è stato interessato da alcun intervento annullatorio dell’Autorità giurisdizionale;
   - poiché viene in considerazione, nel caso di specie, un titolo in sanatoria di carattere parziale, il provvedimento oggetto di gravame non è espressione del potere di autotutela decisoria, intimamente discrezionale, ma si fonda sulla mera presa d’atto del perimetro abilitativo della sanatoria, la cui validità non è quindi messa in discussione;
   -
nel caso di specie viene infatti in considerazione un provvedimento di assenso postumo avente ad oggetto soltanto una parte delle opere oggetto della relativa istanza, di guisa che quella residua risulta estranea all’alveo della sanatoria stessa, nel rispetto quindi del principio secondo cui i limiti imposti dal legislatore alla concessione della sanatoria sono tassativi e non soggetti ad “alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della PA (Cons. giust. amm., n. 941 del 2009), onde consentire la tutela di valori fondamentali (a livello costituzionale ed internazionale) quali il governo del territorio, l’ambiente, il paesaggio;
   - dagli atti di causa si evince che la società ha assunto una condotta tale da indurre in errore l’amministrazione, per avere affermato in sede giurisdizionale, contrariamente al vero, che le opere descritte nell’ordinanza demolitoria prot. n. 39669/6924 del 03.10.1996 erano oggetto della domanda di condono n. 422 del 1995;
   - tale condotta è pertanto inidonea a consolidare una posizione di affidamento secondo le stesse coordinate ermeneutiche elaborate dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 8 del 2017;
   -
deve escludersi, in definitiva, che le cautele divisate dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 possano trovare ingresso in un caso come quello in esame stante la doverosità dell’intervento repressivo della P.A. e l’incidenza dell’autotutela su un provvedimento d’indole sanzionatoria e non certo di carattere autorizzatorio o comunque ampliativo.
7.3.3. Non può configurarsi inoltre alcun conflitto con il decreto del Presidente del Tar Toscana, sez. III, n. 4438 del 04.09.2003 -come dedotto a pagina 7 del ricorso di primo grado- in quanto con tale pronuncia monocratica si dava semplicemente atto dell’intervenuta revoca del provvedimento demolitorio con l’atto del 01.02.1997 e pertanto, al di là dell’uso di formule di mero stile, non postulava alcuna valutazione circa l’effettiva integrale soddisfazione dell’originaria pretesa della parte ricorrente in modo da acquisire forza di giudicato.
7.4. Sono del pari infondati gli ulteriori vizi-motivi articolati avverso il provvedimento impugnato (pagine 8 e ss. del ricorso di primo grado), in quanto:
   - non vi è alcuna interferenza tra il provvedimento impugnato ed il (previo) parziale accoglimento della domanda di sanatoria, stante la rilevata diversità delle aree interessate dai rispettivi interventi;
   - la reviviscenza dell’ordinanza demolitoria del 03.10.1996 non è preclusa dal fatto che la stessa era stata precedentemente revocata comportando l’atto impugnato il travolgimento proprio di tale precedente determinazione di autotutela;
   - l’impugnato provvedimento nemmeno può ritenersi precluso dall’istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria del 24.06.2003 rimasta inevasa non assumendo tale iniziativa la valenza di domanda di sanatoria;
   -
i presupposti (normativi ed ermeneutici) dell’istituto della fiscalizzazione dell’illecito edilizio si pongono infatti su un piano ontologicamente diverso da quelli della sanatoria sia perché esso trova il proprio fondamento nella impossibilità di rimuovere le conseguenze dell’illecito senza creare danni irreparabili alla parte di edificio eseguita in conformità al permesso a costruire sia perché il pagamento della sanzioni pecuniarie, se esclude che opere edilizie abusive possano essere legittimamente demolite, non ne rimuove, però, il carattere antigiuridico (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2011, n. 5412);
   - va altresì rilevato che, come da orientamento ormai pienamente consolidato di questo Consiglio (da ultimo, sez. IV, 27.07.2017, n. 3728) “
la P.A. non ha alcun obbligo di reiterare l’ingiunzione a demolire dopo che ha respinto una istanza di sanatoria presentata successivamente all’originario ordine di demolizione (cfr. ex plurimis sez. V, n. 466 del 2015 e Sez. VI, n. 1909 del 2013 cui si rinvia a mente dell'art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.)”;
   - ad ogni modo, detta istanza contiene espresso riferimento all’ordinanza demolitoria di cui al provvedimento prot. 37771 del 21.10.1997 che riguarda le opere oggetto della domanda di sanatoria n. 423 del 1995, insistenti come detto sul mappale n. 535, invece che le diverse opere, pur della medesima consistenza, di cui all’ordinanza di demolizione prot. n. 39669/6924 del 03.10.1996;
   - la pronuncia cautelare che abbia, seppur temporaneamente, fatto venir meno l’obbligo di dare esecuzione all’ordine di ripristino dello status quo ante incide sul decorso del termine di 90 giorni concesso agli interessati per provvedere nel senso che questo riprende a decorrere dopo il venir meno degli effetti della stessa pronuncia, di tal che l’ordinanza cautelare del Tar per la Toscana (n. 483 del 03.06.1997) ha comportato la sospensione dell’ordinanza demolitoria del 03.10.1996 soltanto a decorrere dall’intervento della pronuncia cautelare invece che, retroattivamente, dalla data di emanazione del provvedimento impugnato;
   - va quindi escluso che, come si assume dall’appellante, l’accoglimento della domanda cautelare abbia assunto carattere ostativo alla consumazione del termine di novanta giorni prescritto dalle legge per la sua esecuzione essendo questo, avuto riguardo alla data cui risale la notificazione dell’ordine demolitorio (09.10.1996), già ampiamente decorso al momento del pronunciamento cautelare;
   - né la validità della sanzione demolitoria può dirsi inficiata dalla vagheggiata possibilità di applicare, in sua vece, la sanzione pecuniaria a norma dell’art. 12 della legge n. 47 del 1985, in quanto “
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso. La norma, inoltre, è chiara nel riferirsi soltanto al caso in cui si sia in presenza di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472).
8. Infondate sono anche le censure articolate nei riguardi del provvedimento sub b) del precedente § 1 (pagine 12 e ss. del ricorso di primo grado) avendo la società valorizzato ancora una volta la circostanza della presentazione di istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria.
Vale al riguardo osservare, come da orientamento di questa Sezione, che “
l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. La giurisprudenza ha pacificamente confermato tale lettura, affermando che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione. Né in senso ostativo può assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni d'interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento (ex multis Cons. di Stato, Sez. IV, 05.05.2017 n. 2053 e Sez. V, 15.07.2013, n. 3834)” (cfr. sentenza 27.07.2017, n. 3728).
Ne consegue che
la prospettata impossibilità di demolire le opere abusive senza pregiudizio della parte costruita legittimamente, a tacer della necessità di fornire ogni dimostrazione al riguardo incombente sul medesimo istante, può impedire l’esecuzione in danno dell’ordine demolitorio ma non anche l’effetto acquisitivo dell’area di sedime siccome contemplato come automatico dalla normativa in materia (art. 31 del D.P.R n. 380 del 2001).
Va altresì evidenziato che il provvedimento in questione concerne le richiamate ordinanze demolitorie prot. n. 37771 e n. 37773 del 21.10.1997, relative alle opere insistenti sul mappale n. 535, non interessate da alcun provvedimento di ritiro o annullamento giurisdizionale sì da conservare piena efficacia repressiva delle opere ivi contestate.

EDILIZIA PRIVATA: La lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, non sussiste ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia avendo questo carattere interamente doveroso.
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L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un'ampia motivazione.

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7.2. Infondato è il primo motivo del ricorso instaurativo della lite (pagina 6), col quale si lamenta la violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento; invero, tale diaframma partecipativo non è necessario ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia avendo questo carattere interamente doveroso.
A tal riguardo, il ricorrente valorizza la natura di secondo grado dell’atto impugnato essendo inteso al ritiro della determinazione a sua volta repressiva dell’ordine demolitorio, lamentando quindi la mancanza del profilo motivazionale richiesto dall’invocato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in punto di interesse pubblico.
La deduzione non può essere condivisa, in quanto, come opinato anche di recente da questa Sezione (sentenza 28.03.2018, n. 1959), il potere di autotutela costituisce la riedizione del potere originariamente esercitato in modo da essere attratto alla relativa disciplina.
Non va trascurata infatti la circostanza che, attraverso l’atto impugnato, l’amministrazione, nel ritirare il precedente provvedimento di autotutela, ha di fatto riesercitato il potere sanzionatorio edilizio, per il quale, secondo orientamento pretorio tanto consolidato da assurgere a jus receptum, non si richiede la previa instaurazione del contraddittorio procedimentale innescato dall’avviso di avvio del procedimento per la natura vincolata della irroganda sanzione.
Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
7.2.1. Comunque la censura risulta neutralizzata anche per effetto del principio di dequotazione dei vizi formali di cui all’art. 21-octies della medesima legge n. 241 del 1990, in quanto, come si dirà in prosieguo, la società ricorrente non avrebbe potuto offrire all’attenzione dell’amministrazione circostanze di fatto e di diritto tali da indurre a determinazioni diverse da quella adottata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2018 n. 2799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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L’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la sussistenza dell’interesse pubblico alla eliminazione dell’opera realizzata o addirittura ad indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato, può essere condiviso solo se riferito a situazioni assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata.
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Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
La prima censura, incentrata sull’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, è palesemente infondata.
Per giurisprudenza costante, i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
La seconda censura, con cui ci si duole della carenza di motivazione, atteso che la motivazione è necessaria qualora si ordini la demolizione di strutture assai risalenti, come avverrebbe nel caso di specie, è anch’essa infondata. Infatti, la pretesa risalenza dell’immobile non risulta affatto dimostrata: secondo parte ricorrente, essa si evincerebbe dal nulla osta dei VV.F. del Comando provinciale di Napoli, datato 10.12.62.
Tale nulla osta, tuttavia, non risulta essere stato allegato; né sono stati allegati altri documenti (ad es., una perizia di parte) da cui evincere almeno un principio di prova circa la data di presumibile realizzazione dell’abuso.
Inoltre, l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la sussistenza dell’interesse pubblico alla eliminazione dell’opera realizzata o addirittura ad indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato (TAR Marche, 29.08.2003, n. 976; Cons. Stato, Sez. V, 19.03.1999, n. 286), può essere condiviso solo se riferito a situazioni assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 19.06.2006, n. 7082; 18.05.2005, n. 6497) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2018

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento, recante l’acquisizione coattiva dell’area al patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per l’effetto caducante che da tale annullamento segue.
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante:
  
il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
  
il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.

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21. Sulla scorta di quanto esposto in narrativa e in disparte ogni altro rilievo, il Collegio ritiene che:
   a) il bene della vita richiesto dagli appellanti e oggetto di successivi contenziosi consiste nella possibilità di mutare in abitazione la destinazione d’uso dell’attuale magazzino agricolo di loro proprietà.
Tale bene è stato loro definitivamente riconosciuto dalla ricordata sentenza n. 3415/2014 e una decisione di merito nel presente contenzioso non potrebbe recare loro alcuna altra utilità, anche perché il provvedimento impugnato in questa sede si autoqualifica espressamente come “atto meramente confermativo del diniego del 21.11.2005 prot. 9338”, annullato dalla sentenza citata.
Venendo in considerazione un atto meramente confermativo, per un verso difettava in radice l’interesse alla sua impugnazione, mentre, per altro verso, l’annullamento dell’atto confermato ha esplicato un automatico effetto caducante sull’atto confermativo. Di conseguenza, per questa parte, il ricorso di primo grado era in effetti inammissibile e limitatamente a questo profilo va confermata la sentenza impugnata;
   b) con l’atto di motivi aggiunti di primo grado, gli appellanti hanno chiesto l’annullamento del provvedimento comunale n. 251/2010, recante l’acquisizione gratuita del manufatto al patrimonio comunale. Tale provvedimento ha il suo espresso presupposto nella nota di diniego di cambio d’uso del 2005, annullata dalla sentenza n. 3415/2014.
In ragione di tale annullamento, deve darsi atto del sopravvenuto difetto di interesse degli appellanti alla decisione sui motivi aggiunti proposti in primo grado.
Deve, infatti, precisarsi che il provvedimento n. 251 del 15.01.2010, recante l’acquisizione coattiva dell’area al patrimonio comunale, ponendosi in un rapporto di presupposizione necessaria rispetto alla presupposta nota di diniego di cambio d’uso, è stato anch’esso già caducato per l’effetto caducante che da tale annullamento segue (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2014, n. 3415; sez. IV, 08.09.2015, n. 4193; sez. IV, 14.12.2017, n. 5896).
Ricorrono, infatti, entrambi i requisiti dell’effetto caducante (Cons. Stato, sez. IV, 21.09.2015, n. 4404), “il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale; il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi (ex plurimis, indicando le decisioni più recenti, C.d.S., sez. V, 26.06.2015, n. 2611; id., sez. VI, 27.04.2015, n. 2116; id., sez. VI, 09.04.2015, n. 1782; id., sez. VI, 30.03.2015, n. 1652; id. sez. V, 20.01.2015, n. 163; id., sez. III, 19.12.2014, n. 6174)” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.04.2018 n. 2277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: permesso di costruire in sanatoria – immobile in comproprietà – necessità del consenso di tutti i comproprietari per il rilascio del titolo abilitativo richiesto – parere (Legali Associati per Celva, nota 06.04.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di Ayas ha ricevuto una domanda di Permesso di Costruire in sanatoria per opere di risanamento e rimodellazione di giardino a servizio di edificio esistente, in seguito all’esecuzione di opere di sostituzione della fognatura gravemente danneggiata. Le opere erano state eseguite senza alcun titolo autorizzativo.
A seguito dell’istruttoria eseguita dall’Ufficio tecnico comunale si è verificato che detto terreno non appartiene in modo esclusivo al richiedente ma anche ad altri intestatari che non risultano presenti nella richiesta.
Al fine del rilascio del provvedimento , quindi, è stato richiesto di integrare la domanda con la firma di tutti i comproprietari.
In data 22/01/2018 è pervenuta una lettera da parte di un comproprietario non richiedente la sanatoria che specifica che “...declina ogni responsabilità riguardo alle opere eseguite su detta corte in quanto del tutto estranea ai lavori per i quali è stata richiesta sanatoria. Ella , non ha conoscenza degli interventi effettivamente eseguiti sulla corte in questione , non li ha autorizzati e non ha incaricato né un professionista né un impresa ad eseguirli. E’ stata inoltre avvisata delle richiesta di sanatoria solo a posteriori ….. Si riserva di adire le vie legali nel caso se ne presentasse l’esigenza.”
Riferimenti normativi: Codice civile; Art. 1102 del codice civile; Ordinanza della Cassazione Sez. VI n. 5729 del 23/03/2015; Sentenza TAR Molise n. 101 del 19/03/2008, Sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV n. 3823 del 07/09/2016
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Nessuna
Quesiti: Con la presente si richiede se il Comune sia tenuto a richiedere la condivisione della domanda da parte di tutti i comproprietari oppure possa rilasciare il titolo abilitativo in sanatoria al solo richiedente comproprietario.

marzo 2018

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: immobile realizzato in area sottoposta a vincolo paesaggistico in assenza di titolo – accertamento positivo di compatibilità – istanza di rilascio concessione in sanatoria con mutamento della destinazione d’uso – provvedimenti consequenziali in capo all’Ente locale – parere (Legali Associati per Celva, nota 28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: In data 21.03.1986 il proprietario di un immobile rurale, realizzato abusivamente in area sottoposta a vincolo paesaggistico, presenta una richiesta di condono ai sensi della legge n. 47 del 28.02.1985. L’amministrazione comunale non rilascia il condono poiché la Soprintendenza si esprime con parere negativo con provvedimento n. 9923/TP del 20.05.2002 (in allegato).
I nuovi proprietari dell’immobile, in data 13.07.2017, presentano presso la Soprintendenza domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica proponendo, questa volta, sulla base delle motivazioni del provvedimento di diniego del 2002, il recupero del fabbricato con intervento di adeguamento e rimozione delle superfetazioni. Tuttavia il recupero del fabbricato prevede la demolizione, la ricostruzione e il contestuale cambio di destinazione d’uso (da agro-silvo-pastorale ad abitazione temporanea).
La struttura regionale preposta alla tutela del vincolo, riesaminato il caso in questione, si esprime ‘con parere favorevole al mantenimento in opera di quanto realizzato e dispone la realizzazione degli interventi di adeguamento e rimozione delle superfetazioni di cui agli allegati elaborati progettuali, da ultimarsi nel termine di otto mesi dalla data di notifica” (nota n. 825/TP del 07.08.2018 in allegato).
Riferimenti normativi: .
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: .
Quesiti: L’Amministrazione comunale chiede come procedere al fine di consentire la realizzazione delle disposizioni impartite dalla Soprintendenza, tenuto conto che le stesse si inseriscono nel procedimento di condono edilizio del 1986 col quale si chiedeva solo di regolarizzare un manufatto rurale abusivo, e come consentire il contestuale cambio di destinazione d’uso, tenuto conto dell’imprescindibile unitarietà dell’intervento proposto e dell’onerosità dello stesso.

EDILIZIA PRIVATA: L. Vergine, EFFETTI DELLA DOMANDA IN SANATORIA EX ART. 36 DEL DPR 380/2001 IN CASO DI PREGRESSA ADOZIONE DELL’ORDINANZA DI DEMOLIZIONE. Breve nota alla sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia–Lecce.
...
La sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia –Sez. I di Lecce– esamina il caso del ricorso proposto avverso l’ordinanza di demolizione con l’unico motivo della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001.
Tale disposizione espressamente prevede che decorsi 60 giorni dall’istanza senza che l’amministrazione si pronunci si formi il silenzio-rigetto (III comma), che, se non impugnato, rende definitivo il provvedimento implicito di diniego.
La novità dell’arresto giurisprudenziale del Tar è rappresentato dal principio secondo cui anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato seguito, il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio (ordinanza di demolizione) in quanto –precisa il TAR– la mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
Questo indirizzo è conforme alla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria. Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento” (Cons. di Stato, sez. VI, 04.04.2017 n. 1565) (22.03.2018 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato seguito, il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio (ordinanza di demolizione) in quanto la mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
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La ricorrente ha impugnato l'ordinanza n. 25 del 25.11.2016 con la quale il Comune di Seclì le ha intimato la demolizione di un fabbricato in muratura della superficie di mq. 83,67, realizzato in assenza del previo rilascio del necessario titolo edilizio.
Nell’atto introduttivo la ricorrente ha allegato di avere presentato, in data 24.02.2017, istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed ha eccepito, come unico motivo di ricorso, la conseguente illegittimità sopravvenuta dell’atto impugnato.
Il Comune di Seclì si è costituito in giudizio e con memoria depositata in data 19.01.2018 ha evidenziato il formarsi del silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del 2001 sull’istanza presentata dalla ricorrente, essendo decorsi sessanta giorni dal deposito senza che l’Ente si sia espresso favorevolmente e non avendo, peraltro, la signora Mo. articolato alcuna osservazione dopo l’invio da parte del Comune del preavviso di diniego ex art. 10-bis della Legge n. 241 del 1990, né prodotto l’ulteriore documentazione preannunciata con mail del 18.05.2017.
Il Collegio all’esito del giudizio, sulla base delle difese assunte dalle parti, degli atti prodotti e dei principi applicabili alla materia, ritiene il ricorso infondato.
Invero, la ricorrente ha articolato quale unica doglianza l’illegittimità sopravvenuta del provvedimento impugnato, per effetto della presentazione della domanda ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001in relazione al fabbricato abusivo, ma su tale domanda, come dimostrato dall’Ente convenuto, si è formato il silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del 2001, provvedimento implicito che la signora Mo. non ha impugnato nei termini di legge, con conseguente consolidamento dell’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, sentenza n. 1565 del 2017) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.03.2018 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è possibile applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
L’oggetto del contendere riguarda la possibilità di applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
L
a questione va definita sulla base della natura (punitiva o ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la finalità prevista dal legislatore.
Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
   - “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme, per poi rivalersi sul responsabile dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso”;
   - “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
La natura ripristinatoria della sanzione di cui si controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n. 689/1981.

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4) L’oggetto del contendere riguarda la possibilità di applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001, possibilità negata dal Comune di Aramengo nel caso in esame, nonostante la richiesta in tal senso presentata dai ricorrenti.
4.1) Il citato art. 31 (“Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”) così dispone al comma 4-bis, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione: “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima…”.
Nel caso in esame la sanzione è stata irrogata nella misura massima in quanto gli abusi sono stati realizzati dai ricorrenti in area in cui “gli elementi di pericolosità geomorfologica sono tali da impedirne l’utilizzo”.
A sua volta l’art. 16 della legge n. 689/1981 così dispone al primo comma: “E' ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa, o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo oltre alle spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione”.
4.2) I ricorrenti sostengono:
   a) che l’istituto della riduzione della sanzione ha portata generale, come risulta dall’art. 12 della stessa legge n. 689/1981, secondo cui: “Le disposizioni di questo Capo si osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale…”; tale istituto è applicabile anche alle sanzioni pecuniarie in materia edilizia, non essendovi disposizioni in senso contrario, né incompatibilità, posto che tali sanzioni presentano natura punitiva (e non ripristinatoria) avendo finalità repressive e preventive; e ciò vale anche per la sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001;
   b) che il diniego opposto dall’Amministrazione alla richiesta di riduzione della sanzione è comunque illegittimo perché totalmente privo di motivazione.
4.3) Come emerge dalle stesse censure formulate nel ricorso, la questione va definita sulla base della natura (punitiva o ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la finalità prevista dal legislatore.
4.4) Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
   - “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme, per poi rivalersi sul responsabile dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso”;
   - “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
4.5) La natura ripristinatoria della sanzione di cui si controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n. 689/1981. Perciò il Comune di Aramengo ha legittimamente opposto un diniego alla richiesta in tal senso formulata dai ricorrenti, senza che fosse necessaria una particolare, più dettagliata motivazione.
5) In conclusione, le censure formulate nel ricorso risultano infondate e il ricorso stesso va respinto. Lo stesso vale per i motivi aggiunti, in cui sono formulate censure di illegittimità derivata (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 20.03.2018 n. 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ORDINE DI DEMOLIZIONE CONSERVA LA SUA EFFICACIA NEI CONFRONTI DELL’EREDE DEL CONDANNATO E NON È CONTRARIO ALLA CEDU.
Nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione mortis causa intervenuto dopo la irrevocabilità della sentenza di condanna, l’ordine di demolizione conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato stante la preminenza dell’interesse pubblico cui è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, ovverosia la tutela dell’assetto paesaggistico od urbanistico, rispetto a quello privatistico della conservazione del manufatto nel proprio patrimonio vantato dall’avente causa, non entrando in gioco, in ragione della diversa natura rivestita dalla ingiunzione demolitoria, il carattere personale della pena; ne discende, altresì, che l’ordine demolitorio non perseguendo, a differenza delle sanzioni penali detentive e pecuniarie, alcuna finalità punitiva, è del tutto conforme alla Convenzione e.d.u., essendo insuscettibile ad essere declinato in termini quantitativi che consentano di evidenziarne la particolare afflittività rispetto al patrimonio del condannato.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in esame è quello relativo alla natura, penale od amministrativa, dell’ordine di demolizione ed alla sua compatibilità con i principi fissati dalla giurisprudenza della Corte e.d.u. con riferimento, in particolare, agli artt. 7 e 1, protocollo n. 1 della Convenzione e.d.u.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il Tribunale, adito in funzione di G.E., aveva rigettato il ricorso con cui l’interessata, destinataria di ordine di demolizione delle opere edilizie abusive per le quali era stata pronunciata nei suoi confronti sentenza penale di condanna da parte dello stesso Tribunale, divenuta irrevocabile, aveva richiesto la revoca dell’ingiunzione demolitoria sul presupposto, per quanto qui interessa, della sua sopravvenuta estinzione per prescrizione e della propria estraneità al procedimento penale, essendo stata la pronuncia di condanna e la conseguente sanzione accessoria resa nei confronti di altro soggetto, deceduto, cui era subentrata jure successionis.
Avverso tale sentenza aveva proposto ricorso per cassazione l’interessata, in particolare sostenendo che l’ordine di demolizione non può ricadere su di un soggetto estraneo all’illecito penale, tale essendo la condizione della stessa, erede del condannato deceduto, e che sotto tale profilo l’ordinanza impugnata si poneva in contrasto con i principi sia sovrannazionali (art. 7 Cedu) che interni (art. 42 c.p.) secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che non abbia commesso, dovendo la pena seguire la persona e non potendo ricadere su soggetti ad essa estranei: anche considerando la natura amministrativa dell’ordine di demolizione, trattasi pur sempre di una pena accessoria alla condanna penale, tanto è vero che la stessa viene revocata nel caso di improcedibilità dell’azione penale o per morte del reo quando il decesso interviene in corso di causa.
La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso dell’interessata, ha ricordato che è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato: esso conserva, pertanto, la sua efficacia anche nei confronti dell’erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui siano emanati, dall’ente pubblico cui è affidato il governo del territorio, provvedimenti amministrativi con esso assolutamente incompatibili (Cass. pen., Sez. III, 11.12.2009, n. 47281, A., CED, 245403; Id., Sez. III, 23.10.2015, n. 42699, C., CED, 265193 che ha ritenuto legittimamente eseguibile l’ordine di demolizione di immobile conferito, dall’erede dell’autore dell’abuso, in fondo patrimoniale, oggetto di successiva azione revocatoria esperita dai creditori).
È chiaro dunque che la titolarità del manufatto, a qualunque titolo conseguita, fa sì che anche i terzi subiscano le conseguenze della demolizione, allo stesso modo in cui sono soggetti agli effetti della acquisizione gratuita del manufatto con la relativa area di sedime al patrimonio indisponibile del Comune, d.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 31, in quanto la natura pubblicistica dell’ordine che colpisce il bene abusivo in ragione della lesione arrecata all’ambiente, prescinde dalle vicende traslative di natura civilistica (Cass. pen., Sez. III, 11.04.2014, n. 16035, A., CED, 259802; Id., Sez. III, 23.10.2015, n. 42699, C., CED, 265193).
Conclusione questa che peraltro vanifica, per i Supremi Giudici, alla radice l’ulteriore rilievo difensivo relativo all’eccessiva severità della pena ritenuta dalla Corte di Strasburgo quale elemento costitutivo della natura penale della sanzione: non perseguendo l’ordine di demolizione, a differenza delle sanzioni pecuniarie applicate nella fattispecie sottoposta all’esame dei giudici europei, alcuna finalità punitiva ne consegue l’insuscettibilità della medesima ad essere declinata in termini quantitativi che consentano di evidenziarne la particolare afflittività rispetto al patrimonio del condannato.
Né d’altra parte potrebbe ritenersi, sempre con riferimento all’ordinamento sovrannazionale, che la pronuncia resa dalla Corte di Strasburgo in ordine alla violazione dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e del conseguente principio del ne bis in idem discendente dal sistema del doppio binario, amministrativo e penale, relativo alle norme di diritto interno volte alla repressione degli abusi di mercato in seguito alle modifiche apportate dalla L. 18.04.2005, n. 62 al D.Lgs. 24.02.1998, n. 58 per essere stati i ricorrenti perseguiti, dopo l’applicazione delle sanzioni amministrative particolarmente afflittive sul piano patrimoniale, nell’ambito di un procedimento penale per gli stessi fatti, possa avere ricadute dirette sulla fattispecie in esame (cfr. Cedu 04.03.2014, Grande Stevens c. Italia) nella quale in tanto scatta, nell’ottica di garantire le esigenze di celerità sottese alla riduzione in pristino dell’assetto del territorio, l’ordine di demolizione giudiziale in quanto non abbia trovato esecuzione quello amministrativo: lungi dall’attuare una duplicazione sanzionatoria per il medesimo fatto illecito, la sanzione in esame resta sempre la medesima, e dunque di natura amministrativa, ancorché irrogabile dal giudice penale all’esito dell’affermazione della responsabilità penale che peraltro opera a prescindere dal fatto come sopra evidenziato che l’opera abusiva sia di proprietà del soggetto condannato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9886 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: L’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo amministrativo– un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile”.
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico. L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile)”.
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione”.
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Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, tenuto conto che “l’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo amministrativo– un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1886).
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico. L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 30.04.2013, n. 2363).
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2018

EDILIZIA PRIVATA: Questo Consiglio ha a più riprese chiarito che nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
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 Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di costruire impugnato ed i successivi provvedimenti e cioè:
  a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38, d.P.R. 380/2001, in relazione alla porzione abitativa dell’immobile;
   b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del certificato di agibilità del 06.06.2010;
   c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del certificato di agibilità del 07.07.2011;
   d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n. 18/2012, in forza del quale è stato autorizzato l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di porzione rustica del fabbricato in questione,
un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimi non eseguono il provvedimento oggi impugnato, ma costituiscono autonomo esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di costruire non farebbe venire meno i plurimi titoli autorizzatori sui quali fonda la costruzione avversata dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo non potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla demolizione dell’immobile in questione con conseguente riduzione in pristino.
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7. L’odierno appello è improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.
8. Preliminarmente, è necessario chiarire la portata della sentenza n. 780/2006 di questo Consiglio, che -nel confermare la sentenza del TAR per il Veneto di annullamento del permesso di costruire n. 3/2005, rilasciato dall’amministrazione appellata a favore dell’originario controinteressato– ha respinto l’appello principale di quest’ultimo.
8.1. Nella specie il Consiglio:
   a) conveniva con le conclusioni raggiunte dal primo giudice in relazione al fatto che la superficie relativa alla sottozona E3, ricompresa nel fondo rustico dell’odierno appellato, su cui insisteva l’intervento, fosse inferiore ai minimi prescritti dalla disciplina regionale;
   b) rilevava come l’annullamento del permesso di costruire n. 3/2005, non potesse non travolgere l’intero provvedimento, stante la sua inscindibilità formale e la unitarietà strutturale e funzionale dell’intervento edilizio;
   c) aggiungeva, però, che restava: “…salva la potestà del Comune di valutare, in diverso contesto procedimentale, l'ammissibilità di interventi edificatori concernenti esclusivamente annessi rustici per attività aziendale”.
8.2. Tanto evidenziato, ritiene il Collegio che la pronuncia in questione non abbia concluso per la obbligatorietà della demolizione di tutto quanto edificato dall’odierno appellato.
La sopra riportata precisazione contenuta nel giudicato, infatti, ha legittimato l’amministrazione comunale ad adottare ulteriori provvedimenti salvaguardando gli annessi rustici.
Dall’esame degli eventi e delle iniziative procedimentali successivi al giudicato, risulta che all’indomani dell’adozione del permesso di costruire n. 39/2006, avente ad oggetto “la costruzione di un fabbricato ad uso annessi rustici in Z.T.O. E3, ai sensi dell’art. 6 della L.R. 24/1985”, quivi impugnato, l’amministrazione comunale ha emanato:
   a) in data 26.09.2009 un provvedimento sanzionatorio ex art. 38, d.P.R. 380/2001, in relazione alla porzione abitativa dell’immobile;
   b) in data 17.11.2009 un permesso di costruire avente ad oggetto l’annesso rustico ed il suo ampliamento con rilascio del certificato di agibilità del 06.06.2010;
   c) in data 26.12.2010 è stato rilasciato permesso di costruire con il quale è stato autorizzato l’ampliamento della superficie con destinazione agricolo-produttiva, utilizzando porzioni in precedenza previste ad uso residenziale, con rilascio del certificato di agibilità del 07.07.2011;
   d) in data 24.05.2012 è stato rilasciato permesso di costruire n. 18/2012, in forza del quale è stato autorizzato l’ampliamento della casa di abitazione con utilizzo di porzione rustica del fabbricato in questione.
In particolare, dall’esame di quest’ultimo titolo edilizio -che ha ad oggetto “ampliamento di casa di abitazione in zona agricola mediante utilizzo di porzione rustica di fabbricato esistente”- emerge che lo stesso è stato adottato anche in forza delle ll.rr. Veneto n. 14/2009 e 13/2011, ossia in forza di una disciplina che modifica sensibilmente la materia de qua e che spezza del tutto ogni possibile collegamento tra l’esercizio del potere edilizio cristallizzatosi con il provvedimento impugnato in prime cure con quello esercitato successivamente dall’amministrazione e culminato con il citato permesso n. 18/2012.
8.3. A questo punto occorre chiarire che l’eventuale annullamento del permesso di costruire n. 39/2006, non avrebbe portata caducante rispetto ai successivi provvedimenti autorizzatori rilasciati dall’amministrazione comunale.
Questo Consiglio (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 21.09.2015, n. 4404) ha a più riprese chiarito che nell’ambito del procedimento amministrativo, occorre distinguere tra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante; per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi:
   a) il primo dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale;
   b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi.
Pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo.
8.4. Nella fattispecie non si rinviene tra il permesso di costruire impugnato ed i successivi provvedimenti sopra elencati un rapporto di consequenzialità necessaria, in quanto quest’ultimi non eseguono il provvedimento oggi impugnato, ma costituiscono autonomo esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione.
Tali permessi, inoltre, non sono meramente confermativi dei precedenti e sono stati rilasciati in accoglimento di altrettanto autonome istanze, ed all’esito di un originale percorso istruttorio fondato su diverse basi normative.
Da ciò deriva che l’eventuale caducazione del permesso di costruire n. 39/2006, non farebbe venire meno i plurimi titoli autorizzatori sui quali fonda la costruzione avversata dall’odierno appellante. Conseguentemente, quest’ultimo non potrebbe ottenere il soddisfacimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo e rappresentato dalla demolizione dell’immobile in questione con conseguente riduzione in pristino (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 2637 del 2016).
8.5. La statuizione di improcedibilità non trova ostacoli neppure nella norma sancita dall’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., non essendo stata proposta la relativa domanda di accertamento o comunque una pertinente istanza che manifesti l’interesse della parte per un tale tipo di pronuncia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 15.06.2016, n. 2637; Ad. plen., n. 4 del 2015; Sez. IV, 28.12.2012, n. 6703, 07.11.2012, n. 5674 cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), cod. proc. amm.).
9. L’odierno appello deve, quindi, essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2018 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380/2001.
Con riguardo al calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, è corretta le decisione del comune di ancorarla al momento attuale, applicando le tariffe vigenti, e non a quello della realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un abuso di carattere permanente che non può consentire all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro legato al decorso del tempo.
La stima va effettuata in ogni caso al momento in cui il Comune irroga la sanzione pecuniaria, e non con riferimento alla data di accertamento dell’infrazione o di ultimazione dell’opera abusiva; ciò onde evitare che il responsabile dell’abuso possa ritrarre un indebito arricchimento per effetto dell’incremento del prezzo della costruzione successivo all’ultimazione dell’abuso e che la sanzione pecuniaria si concreti in un vantaggio economico rispetto all’alternativa costituita dalla sanzione demolitoria
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2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso non è fondato.
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3.4. Infine, con riguardo al calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, appare corretta le decisione del Comune di ancorarla al momento attuale, applicando le tariffe vigenti, e non a quello della realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un abuso di carattere permanente che non può consentire all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro legato al decorso del tempo.
Secondo la giurisprudenza, infatti, “la stima va effettuata in ogni caso al momento in cui il Comune irroga la sanzione pecuniaria, e non con riferimento alla data di accertamento dell’infrazione o di ultimazione dell’opera abusiva. Ciò onde evitare che il responsabile dell’abuso possa ritrarre un indebito arricchimento per effetto dell’incremento del prezzo della costruzione successivo all’ultimazione dell’abuso e che la sanzione pecuniaria si concreti in un vantaggio economico rispetto all’alternativa costituita dalla sanzione demolitoria” (TAR Puglia, Bari, III, 15.06.2015, n. 877; altresì, Consiglio di Stato, IV, 24.11.2016, n. 4943; TAR Veneto, II, 07.12.2017, n. 1114) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Di regola, al fine di sanare un manufatto abusivo è richiesta la sussistenza del requisito della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione dell’intervento che al momento della sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne discendono.
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2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso non è fondato.
3. Con le censure contenute nel citato ricorso per motivi aggiunti, da esaminare congiuntamente, si assume l’illegittimità della sanzione pecuniaria in quanto non si sostituirebbe, ma si aggiungerebbe a quella demolitoria, e comunque riguarderebbe un abuso non più attuale, visto che il nuovo strumento urbanistico comunale ha ridotto la fascia di rispetto cimiteriale; in ogni caso, la repressione dell’abuso sarebbe avvenuta a distanza di lungo tempo dalla sua commissione, ascrivibile peraltro ad un altro soggetto (il costruttore), in violazione dei principi di affidamento e buona fede dei destinatari dell’atto, come pure il calcolo della sanzione sostitutiva sarebbe stato effettuato prendendo in considerazione, illegittimamente, le tariffe attualmente in vigore, piuttosto che quelle vigenti all’epoca del commesso abuso.
3.1. Le censure sono infondate.
In primo luogo, va ribadito che la sanzione pecuniaria irrogata ai ricorrenti sostituisce quella demolitoria, come emerge con evidenza dallo stesso testo dell’ordinanza n. 259/2014 che richiama l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, che consente la conversione della misura ripristinatoria in quella pecuniaria laddove vi sia un pregiudizio per la parte eseguita in conformità in caso di esecuzione della demolizione; ciò è stato altresì confermato nella nota comunale, depositata in giudizio in data 03.04.2015 in esecuzione dell’ordinanza istruttoria n. 2988/2014.
3.2. Quanto all’intervenuta riduzione, attraverso l’approvazione del nuovo strumento urbanistico comunale, della fascia di rispetto cimiteriale e quindi alla sopraggiunta attuale conformità del fabbricato, va evidenziato che, di regola, al fine di sanare un manufatto abusivo è richiesta la sussistenza del requisito della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione dell’intervento che al momento della sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne discendono (cfr. Consiglio di Stato, VI, 18.07.2016, n. 3194; TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2017, n. 1706).
Trattandosi di fabbricato realizzato in violazione del limite, allora vigente, della fascia di rispetto cimiteriale, lo stesso non può essere oggetto di sanatoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento.
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
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3.3. Nemmeno possono essere accolti i rilievi formulati in relazione al lungo lasso di tempo trascorso tra l’abuso commesso e l’adozione dell’ordinanza di demolizione, poi convertita in sanzione pecuniaria, in violazione dei principi di affidamento e buona fede dei destinatari, che peraltro non hanno commesso direttamente l’abuso.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuta realizzazione di opere difformi rispetto a quanto autorizzato con i titoli edilizi e per la violazione della disciplina edilizia e urbanistica, determinandosi in tal modo la modifica dei parametri costruttivi, oltre che della localizzazione dell’edificio rispetto all’area di pertinenza.
Tale motivazione appare satisfattiva degli obblighi di legge, atteso che il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II, 03.11.2016, n. 2013; TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: IL RILASCIO DELLA AUTORIZZAZIONE ALL’OCCUPAZIONE TEMPORANEA DEL SUOLO PUBBLICO NON SCUSA L’IMPUTATO CHE COMMETTE ABUSI EDILIZI.
La valutazione dello stato soggettivo dell’imputato, al fine dell’accertamento della sua buona fede, idonea a escludere la colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni che possono aver determinato nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo, sicché è necessaria una siffatta indagine onde verificare la esistenza di uno stato di buona fede o la scusabilità dell’errore di diritto.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte sul tema dell’applicabilità della scriminante della buona fede nelle contravvenzioni edilizie in costanza di un convincimento soggettivo di liceità del proprio comportamento sotto il profilo urbanistico-edilizio.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato in relazione al reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma1, lett. b), contestatogli per avere realizzato, in assenza di titolo abilitativo e in contrasto con gli strumenti urbanistici, una pedana delle dimensioni di metri 6x5 e della superficie di 30 metri quadrati, utilizzata come area per il consumo di alimenti nell’anno 2015 e nell’anno 2016 per un tempo superiore a novanta giorni, ritenendo mancante l’elemento soggettivo di tale reato, in conseguenza del rilascio da parte della amministrazione comunale di autorizzazione alla occupazione del suolo pubblico per un periodo superiore a sei mesi, ai sensi della L.R. Emilia Romagna n. 15 del 2013, art. 7, lett. f).
Avverso tale decisione proponeva ricorso il PM, in sintesi sostenendo che era stato impropriamente ritenuto scusabile un errore sulla legge penale, eccependo l’irrilevanza dell’atto amministrativo favorevole adottato dalla amministrazione comunale a favore dell’imputato, trattandosi solamente della autorizzazione alla occupazione del suolo pubblico e non anche ad edificare, inidonea a scusare l’errore sulla legge penale ritenuto configurabile dal Tribunale, ricordando comunque l’orientamento interpretativo secondo cui è obbligo del privato verificare comunque, anche in caso di rilascio di provvedimento favorevole da parte della pubblica amministrazione, la conformità delle opere edilizie alle norme urbanistiche.
La tesi ha convinto i Supremi giudici, che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno accolto il ricorso del P.M., rilevando come la sentenza risultava fondata esclusivamente sul dato formale del rilascio della autorizzazione alla occupazione del suolo pubblico per un periodo non superiore a sei mesi, che avrebbe determinato nell’imputato la convinzione della liceità della sua condotta anche sul piano urbanistico-edilizio, in assenza di qualsiasi indagine a proposito delle conoscenze e delle informazioni assunte dall’imputato, nonché riguardo alle eventuali assicurazioni fornitegli dagli uffici amministrativi ai quali si era rivolto e alle prassi esistenti nella realtà territoriale di riferimento, cosicché risultava mancante il dato della evidenza della sussistenza della causa di proscioglimento che aveva determinato il G.I.P. a pronunciare la sentenza impugnata.
Nel caso in esame, il giudice, richiesto di emettere decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato, aveva disatteso tale richiesta e pronunciato la sentenza di proscioglimento impugnata, ritenendo, sia pur implicitamente, evidente la mancanza di rilevanza penale della condotta dell’imputato, in assenza, però, di qualsiasi approfondimento circa le sue conoscenze della disciplina applicabile, il suo stato soggettivo, la sua eventuale buona fede, che avrebbero potuto ipoteticamente consentire di addivenire a una sentenza di proscioglimento per l’erroneo, ma incolpevole, convincimento della liceità della condotta (v., per i precedenti in materia: Cass. pen., Sez. VI, 22.06.2011, n. 43646, S., CED, 251045) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.02.2018 n. 8410 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: LA VALUTAZIONE DI ORDINE ECONOMICO INERENTE AL COSTO DELLE SPESE DI DEMOLIZIONE NON GIUSTIFICA IL MANTENIMENTO DELL’OPERA ABUSIVA.
La valutazione cui deve conseguire la non eseguibilità della demolizione (ovvero, il prevalente interesse pubblico e l’assenza di contrasto del manufatto con rilevanti interessi urbanistici), ove la stessa sia di ordine economico, inerente al costo delle spese di demolizione, non può qualificare l’interesse al mantenimento dell’opera abusiva, posto che ove assunta con criterio di indefettibile interesse pubblico al mantenimento dell’opera finirebbe per tradursi in fattore di contrasto con l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso inoperante.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame concerne un tema assai rilevante nella pratica applicazione in sede esecutiva dell’ordine di demolizione, attinente alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali la P.A. può “bloccare” l’esecuzione di tale ordine in costanza di un interesse pubblico al mantenimento dell’opera.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, aveva revocato l’ordine di demolizione delle opere abusive, di cui alla sentenza di condanna divenuta irrevocabile, in presenza di acquisizione del bene al patrimonio del Comune e dell’adozione di una delibera comunale con la quale veniva dichiarato l’interesse pubblico al mantenimento dell’opere abusiva.
In particolare, il Consiglio comunale aveva dichiarato la prevalenza dell’interesse pubblico alla conservazione del manufatto perché da destinarsi a concessione in locazione o dismissione in conformità con quanto previsto dalla L.R. Campania n. 5 del 2013, art. 1, comma 65, e del regolamento edilizio approvato dal Comune. Sulla scorta di tali dati di fatto, il Tribunale, con il provvedimento impugnato, aveva revocato l’ordine di demolizione imposto con la sentenza di condanna.
Contro tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in particolare sostenendo che la delibera del Comune, con cui era dichiarato il prevalente interesse pubblico alla conservazione del manufatto, conteneva una generica indicazione della destinazione dell’opera a “concessione in locazione o dismissione... in conformità a quanto previsto dalla L.R. n. 5 del 2013”, senza, peraltro, farne corretta applicazione in quanto la legge citata, che disciplina il c.d. housing sociale, all’art. 1, comma 65 prevede, quale criterio per l’assegnazione delle opere in questione, “riconoscendo precedenza a coloro che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite, previa verifica che gli stessi non dispongono di altra idonea soluzione abitativa, nonché procedure di un piano di dismissione degli stessi”, non risultando, per contro, che il Comune aveva in concreto verificato se l’occupante avesse i requisiti per concorrere all’assegnazione e non disponesse di altra utile dimora.
La tesi del P.M. è stata accolta dai giudici di legittimità che, nell’annullare l’ordinanza del tribunale, hanno ricordato che il Consiglio comunale può dichiarare legittimamente la prevalenza di interessi pubblici ostativi alla demolizione alle seguenti condizioni:
   1) assenza di contrasto con rilevanti interessi urbanistici e, nell’ipotesi di costruzione in zona vincolata, assenza di contrasto con interessi ambientali: in quest’ultimo caso l’assenza di contrasto deve essere accertata dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo;
   2) adozione di una formale deliberazione del consiglio con cui si dichiari formalmente la sussistenza di entrambi i presupposti;
   3) la dichiarazione di contrasto della demolizione con prevalenti interessi pubblici, quali ad esempio la destinazione del manufatto abusivo ad edificio pubblico, ecc. (Cass. pen., Sez. III, 10.10.2008, n. 41339, C. e altra, inedita).
La natura eccezionale di tali ipotesi rispetto a quella che dovrebbe essere la ordinaria conseguenza, ovvero l’esito demolitorio, impone una interpretazione restrittiva dei presupposti che il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di verificarne la sussistenza, non potendosi fondare, la delibera comunale che dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato, su valutazioni di carattere generale (Cass. pen.,Sez. III, 29.01.2013 n. 11419, B., CED, 254421; Id., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, CED, 257140).
Il tribunale non aveva dunque per i Supremi Giudici fatto corretta applicazione dei principi ermeneutici sopra riportati ed in particolare quello affermato nella sentenza (Cass. pen., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, cit.), nella quale è stato ribadito il principio secondo cui l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato non può essere fondato su un “generico” riferimento alla destinazione, in questo caso a “concessione in locazione o dismissione... in conformità a quanto previsto dalla L.R. n. 5 del 2013”, genericamente enunciato, e da quanto affermato anche da Sez. III, 29.01.2013, n. 11419 B., cit., secondo cui non può giustificarsi l’interesse concreto nel caso in cui, di fatto, la delibera costituisce piuttosto atto di indirizzo politico in quanto rimanda a successivi atti amministrativi (anche solo al fine di verificare i presupposti applicativi della Legge Regionale c.d. sull’housing sociale) e dunque, rimanda, in definitiva, la valutazione dei presupposti di legge cui l’art. 31 cit. condiziona la non operatività della demolizione.
Dunque, per la S.C., la valutazione di ordine economico, inerente al costo delle spese di demolizione, non può qualificare l’interesse al mantenimento dell’opera abusiva, posto che ove assunta con criterio di indefettibile interesse pubblico al mantenimento dell’opera finirebbe per tradursi in fattore di contrasto con l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso inoperante (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2018 n. 8055 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: Rammentato in via preliminare che, secondo il principio “tempus regit actum”, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato (ordinanza di demolizione) va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”, Il Collegio ritiene di dover rilevare, in linea generale e con riferimento alla fattispecie odierna, che:
   - in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva;
   - né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
   - la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
   - sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum” del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica autorità, il che non può ammettersi;
   - posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o, si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o in difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché
     
qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche in sede giurisdizionale, alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento e sia al momento della presentazione della domanda;
     
mentre, nel caso di rigetto della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale, con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso;
   - il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del tutto autonomo e differente dal precedente procedimento sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito negativo del procedimento di accertamento di conformità urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in esito a un procedimento amministrativo sul quale non interferisce l’eventuale conclusione negativa del procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di una esplicita previsione legislativa, in una inutile e antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa.
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5. L’appello è infondato e va respinto.
Le impugnate statuizioni della sentenza di primo grado sono corrette e vanno confermate.
5.1. In via preliminare, anche in relazione a quanto dedotto dall’appellante nell’ultima parte del secondo motivo di impugnazione, specie sulla omessa considerazione, da parte del Tar, della avvenuta presentazione, da parte del F., della istanza di cui all’art. 36 del t.u. n. 380 del 2001, istanza che avrebbe un “effetto caducante” sulla ingiunzione a demolire contestata in primo grado, il Collegio ritiene di dover puntualizzare che l’avvenuta presentazione della istanza e il fatto che sia pendente, davanti al Tar del Lazio, un giudizio proposto dal Fu. avverso e per l’annullamento del diniego di accertamento di conformità n. 944/2012 opposto dal Comune sulla istanza del ricorrente medesimo avanzata ai sensi del citato art. 36 (v. sopra, p. 4., “in finem”), non assume rilievo ai fini di una eventuale pronuncia di (im)proseguibilità del presente gravame.
A questo proposito, rammentato in via preliminare che, secondo il principio “tempus regit actum”, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va condotta “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione” (sentenza n. 49 del 2016; si veda anche sentenza n. 30 del 2016) (così C. cost., n. 224 del 2016) e precisato che l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit. risulta datata 13.10.2011 e, quindi, è posteriore di alcuni mesi rispetto alla ordinanza di demolizione per la quale oggi è controversia, adottata il 09.05.2011, il Collegio ritiene di dover rilevare, in linea generale e con riferimento alla fattispecie odierna, che:
   - in difetto di preventiva istanza di parte non poteva esigersi che il Comune dovesse verificare d’ufficio la conformità urbanistica dell’opera in contestazione, atteso che un onere siffatto non è previsto nella disciplina vigente concernente i poteri di vigilanza e sanzionatori sull’attività edilizia abusiva;
   - né può ritenersi che la validità ovvero l’efficacia dell’ordinanza di demolizione risultino compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 cit. , con conseguente improcedibilità della impugnazione odierna per sopravvenuta carenza di interesse;
   - la giurisprudenza che ha riconosciuto l'obbligo di riadottare un provvedimento sanzionatorio dopo il rigetto della istanza di sanatoria si è formata in tema di condono edilizio, ossia in presenza di una richiesta che trova il suo fondamento in una disposizione di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi: ma quei principi non possono trovare applicazione quando sia stata formulata una istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia sulla base di una disposizione che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente;
   - sostenere che, nell'ipotesi di presentazione della istanza di accertamento di conformità, e di rigetto, esplicito o implicito, della istanza stessa, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, e questo perché la presentazione della istanza ex art. 36 cit. ha avuto un effetto caducante sull’ingiunzione a demolire, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, “ad libitum” del destinatario del provvedimento repressivo, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento sanzionatorio della pubblica autorità, il che non può ammettersi;
   - posto che la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano compromesse dalla presentazione della istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del menzionato d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza medesima comporta piuttosto un arresto dell’efficacia della misura ripristinatoria, che rimane soltanto sospesa, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, all’evidente fine di evitare, nel caso di accoglimento della istanza (o, si può aggiungere, nel caso di accoglimento del ricorso contro il diniego di accertamento di conformità ex art. 36 cit.), la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o in difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente: sicché qualora sia accolta la domanda di sanatoria (o se viene accolto, in sede giurisdizionale, il ricorso contro il “diniego ex art. 36”), l’ordine di demolizione decade per il venire meno del suo presupposto, vale a dire del carattere abusivo dell’opera realizzata, in ragione delle conformità dell’intervento, verificata in via amministrativa, o anche in sede giurisdizionale, alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento e sia al momento della presentazione della domanda; mentre, nel caso di rigetto della istanza, tacito o esplicito, divenuto inoppugnabile, la misura repressiva adottata a suo tempo riacquista la sua efficacia, che non era definitivamente cessata, ma soltanto sospesa, in attesa della conclusione del nuovo iter procedimentale, con la sola specificazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione decorre dal momento in cui il diniego perviene a conoscenza dell’interessato, il quale non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà prevista dalla legge e deve, pertanto, poter usufruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso;
   - il procedimento di verifica della compatibilità urbanistica dell’opera avviato a istanza di parte è un procedimento del tutto autonomo e differente dal precedente procedimento sanzionatorio/repressivo avviato d’ufficio e conclusosi con l’ordinanza di demolizione dell’opera eseguita in assenza o difformità del titolo abilitativo, di talché non vi sono ragioni per imporre all’Amministrazione comunale il riesercizio del potere repressivo a seguito dell’esito negativo del procedimento di accertamento di conformità urbanistica, atteso che il provvedimento di demolizione costituisce un atto vincolato (a suo tempo) adottato in esito a un procedimento amministrativo sul quale non interferisce l’eventuale conclusione negativa del procedimento ad istanza di parte ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001: un nuovo procedimento e provvedimento sanzionatorio si concretizzerebbe, infatti, in assenza di una esplicita previsione legislativa, in una inutile e antieconomica duplicazione dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.02.2018 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2018

EDILIZIA PRIVATAIl condono non salva l'immobile. Se è in zona sismica l'edificio abusivo può essere abbattuto. Una sentenza della Cassazione individua il pericolo di danno nel solo rischio di terremoto.
L'abuso edilizio compiuto in zona sismica che comprometta la stabilità di un edificio va abbattuto anche se è stato oggetto di condono. L'attualità del pericolo di danno deve valutarsi non già in riferimento allo stato asismico, bensì in relazione alla possibilità, sempre incombente nelle zone sismiche, di un movimento tellurico. Sicché dalla inosservanza delle prescrizioni tecniche deve desumersi una presunzione di instabilità della costruzione realizzata, e, quindi, una situazione di pericolo permanente, da rimuovere senza indugio alcuno.

È il principio espresso dalla Corte di Cassazione, II Sez. civile, con la sentenza 29.01.2018 n. 2115 con la quale è stato rigettato un ricorso contro la demolizione di un corpo di fabbrica realizzato sulla superficie sovrastante un immobile del tutto abusivo, con ripristino del lastrico solare preesistente.
I giudici di piazza Cavour ricordano che l'articolo 1127, secondo comma, c.c., fa divieto al proprietario dell'ultimo piano dell'edificio condominiale di realizzare sopraelevazioni precluse dalle condizioni statiche del fabbricato e consente agli altri condomini di agire per la demolizione del manufatto eseguito in violazione di tale limite.
Inoltre lo stesso dettato normativo impedisce altresì di costruire sopraelevazioni che non osservino le specifiche disposizioni dettate dalle leggi antisismiche. Fondando la necessità di adeguamento alla relativa normativa tecnica su una presunzione di pericolosità, senza che abbia rilievo, ai fini della valutazione della legittimità delle opere sotto il profilo del pregiudizio statico, il conseguimento della concessione in sanatoria relativa ai corpi di fabbrica elevati sul terrazzo dell'edificio. Atteso che tale provvedimento prescinde da un giudizio tecnico di conformità alle regole di costruzione.
Osservano ancora i cassazionisti che, in via generale, la salvaguardia delle condizioni statiche dell'edificio ha carattere assoluto. L'accertamento delle condizioni statiche non costituisce propriamente un limite all'esercizio del diritto a sopraelevare, ma un presupposto della sua esistenza. Il relativo divieto deve essere inteso non solo nel senso che le strutture del fabbricato devono consentire di sopportare il peso della sopraelevazione, ma anche nel senso che dette strutture devono permettere di sopportare –una volta eretta la nuova fabbrica– l'urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, quando le norme antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell'articolo 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere superata esclusivamente mediante l'allegazione della prova, incombente sull'autore della nuova costruzione, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante, sia idonea a fronteggiare il rischio sismico (articolo ItaliaOggi del 03.02.2018).
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MASSIMA
Osserva il collegio che, in via generale, l'art. 1127 c.c. (con particolare riferimento al disposto del comma 2°) prevede il rispetto di tre condizioni, di cui quella riguardante la salvaguardia delle condizioni statiche dell'edificio ha carattere assoluto.
L'accertamento delle condizioni statiche non costituisce propriamente un limite all'esercizio del diritto a sopraelevare, ma un presupposto della sua esistenza. Il relativo divieto deve essere inteso non solo nel senso che le strutture del fabbricato devono consentire di sopportare il peso della sopraelevazione, ma anche nel senso che dette strutture devono permettere di sopportare -una volta eretta la nuova fabbrica- l'urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica: pertanto, quando le norme antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell'art. 1127, comma 2, c.c., e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere superata esclusivamente mediante l'allegazione della prova, incombente sull'autore della nuova costruzione, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante, sia idonea a fronteggiare il rischio sismico (v. Cass. n. 3196/2008 e Cass. n. 10082/2013).
Con riferimento al ricorso in questione è importante rilevare che la prescrizione dell'art. 1127, comma 2, c.c. si applica anche con riferimento alle sopraelevazioni realizzate dal proprietario del lastrico solare (in relazione a quanto previsto dal 1° comma della stessa norma), qualità ricoperta, nella fattispecie, dal dante causa dei coniugi Os.-Pi. (odierni ricorrenti e originari convenuti), il quale aveva iniziato la costruzione (in assenza di concessione edilizia ed in violazione della normativa antisismica), al di sopra dell'immobile degli attori, di un altro piano, utilizzando la superficie di mq. 50 a lui donata dai genitori, non risultando, quindi, decisiva, ai fini dell'applicabilità della norma censurata di cui all'art. 9 della legge n. 1684/1962, la circostanza che gli immobili contigui interessati debbano risultare tra loro in aderenza.
Del resto,
l'inosservanza delle norme antisismiche comporta il diritto alla riduzione in pristino non solo quando risultino violate norme integrative di quelle previste dall'art. 873 c.c. e segg. in materia di distanze, ma anche quando emerga una concreta lesione o il pericolo attuale di una lesione all'integrità materiale del bene oggetto di proprietà, ovvero si sia verificata la violazione di altra specifica disposizione delimitativa della sfera delle proprietà (in senso ampio) contigue, che conceda in via autonoma la tutela diretta.
In particolare, l'attualità del pericolo di danno deve valutarsi non già in riferimento allo stato asismico, bensì in relazione alla possibilità, sempre incombente nelle zone sismiche, di un movimento tellurico, sicché dalla inosservanza delle prescrizioni tecniche dettate per prevenire le conseguenze dannose del sisma deve desumersi una presunzione di instabilità della costruzione realizzata, e, quindi, una situazione di pericolo permanente, da rimuovere senza indugio alcuno
(cfr. Cass. n. 2335/1981; Cass. n. 5024/1991 e, più recentemente, Cass. n. 24141/2007).
Da ciò consegue la superfluità di un accertamento di pericolo attuale e di una motivazione necessariamente specifica al riguardo, stante l'immanenza del pericolo, per il futuro, nel fatto stesso dell'edificazione effettuata in violazione della normativa antisismica.
Sulla base di tali presupposti, la Corte distrettuale ha -con corretta e compiuta motivazione- espressamente evidenziato, in più passaggi, nella sentenza impugnata, come -ai fini della pronuncia di merito da adottare in ordine all'azione così come esperita- non rilevava lo stato peculiare dell'immobile di proprietà degli originari attori, quanto lo stato di sopravvenuto pericolo derivante dalla realizzazione della fabbrica nuova soprastante di proprietà degli attuali ricorrenti, avvenuta in violazione delle relative norme urbanistiche, edilizie e, soprattutto, antisismiche.

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo e che, in ogni caso, la realizzazione della costruzione abusiva non può essere giustificata dalla mera necessità di evitare un danno alle cose.
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1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente ricordare, con riferimento al primo motivo di ricorso, quale sia, in linea generale, la posizione di questa Corte rispetto all'applicazione della scriminante dello stato di necessità ai reati urbanistici.
[applicabilità dell'art. 54 cod. pen. in tema di costruzione abusiva è stata costantemente esclusa sul presupposto che è di regola evitabile il pericolo di restare senza abitazione, sussistendo la possibilità concreta di soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di mercato e dello stato sociale ed in considerazione dell'ulteriore elemento, necessario per l'applicazione della scriminante, del bilanciamento tra il fatto commesso ed il pericolo che l'agente intende evitare (v. Sez. 3, n. 7015 del 09/04/1990, Sinatra, Rv. 184321).
Si è successivamente osservato che il danno grave alla persona, cui fa riferimento l'articolo 54 cod. pen., deve essere inteso come ogni danno grave ai diritti fondamentali dell'individuo, tra i quali non rientra soltanto la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma anche quella del diritto all'abitazione, dovendo però sussistere comunque tutti i requisiti richiesti dalla legge, la valutazione dei quali deve essere effettuata in giudizio con estremo rigore (Sez. 3, n. 11030 del 01/10/1997, Guerra, Rv. 209047. V. anche Sez. 3, n. 12429 del 06/10/2000, Martinelli, Rv. 217995).
Successivamente, per escludere l'applicabilità della scriminante in questione, si è posto l'accento sulla mancanza dell'ulteriore requisito della inevitabilità del pericolo, osservando che l'attività edificatoria non è vietata in modo assoluto, ma è consentita nei limiti imposti dalla legge a tutela di beni di rilevanza collettiva, quali il territorio, l'ambiente ed il paesaggio, che sono salvaguardati anche dall'articolo 9 della Costituzione.
Di conseguenza, se il suolo è edificabile, le disagiate condizioni economiche non impediscono al cittadino di chiedere il permesso di costruire. Se il suolo non è edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un'abitazione non può prevalere sull'interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell'ambiente (Sez. 3, n. 28499 del 29/05/2007, Chiarabini, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 19811 del 26/01/2006, Passamonti e altro, Rv. 234316; Sez. 3, n. 41577 del 20/09/2007, Ferraioli, Rv. 238258; Sez. 3, n. 35919 del 26/06/2008, Savoni e altro, Rv. 241094; Sez. 3, n. 7691 del 06/10/2016 (dep. 2017), Di Giovanni, non massimata; Sez. 3, n. 25036 del 03/03/2016, Botticelli, non massimata).
2. Tali principi vanno dunque ribaditi, richiamando peraltro l'attenzione sul fatto che l'art. 54 cod. pen. si riferisce, pur sempre, alla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo che non deve essere causato volontariamente dall'agente e non altrimenti evitabile. 
Sicché, anche volendosi richiamare a quelle decisioni di questa Corte che hanno interpretato in maniera estensiva la disposizione in esame, ricomprendendo nel concetto di danno alla persona anche il diritto all'abitazione, non può certo ritenersi giustificata la condotta di chi realizzi una costruzione abusiva al fine di evitare un mero danno alle cose.
Senza poi considerare che, come pure si è osservato, tale interpretazione estensiva dell'esimente dello stato di necessità si risolve, nella pratica, in una mera petizione di principio, dal momento che l'ulteriore requisito della inevitabilità del pericolo risulta difficilmente dimostrabile, stante la possibilità di richiedere il titolo abilitativo per la realizzazione dell'intervento edilizio (in tal senso si è espressa Sez. 3, n. 41577 del 20/09/2007, Ferraioli, Rv. 238258, cit. la quale esclude, in tali casi, anche l'ipotesi della putatività dell'esimente, perché l'omessa presentazione dell'istanza diretta ad ottenere il titolo edilizio sarebbe quanto meno determinata da negligenza).
3. Deve conseguentemente essere ribadito che in materia di abusivismo edilizio, non è configurabile l'esimente dello stato di necessità in quanto, pur essendo ipotizzabile un danno grave alla persona in cui rientri anche il danno al diritto all'abitazione, difetta in ogni caso il requisito dell'inevitabilità del pericolo e che, in ogni caso, la realizzazione della costruzione abusiva non può essere giustificata dalla mera necessità di evitare un danno alle cose.
4. Tale ultima evenienza è quella cui, sostanzialmente, fa riferimento il ricorso, ove l'unico richiamo al pericolo che si sarebbe inteso evitare è quello, peraltro del tutto eventuale, della caduta di pietre e massi sul fabbricato quale conseguenza dello smottamento di una vicina scarpata, senza alcun riferimento al pericolo, anch'esso del tutto ipotetico ed indiretto, per le persone.
La Corte territoriale, inoltre, ha chiaramente specificato che, sulla base della documentazione fotografica, quanto prospettato dall'imputato risultava indimostrato e, a fronte di tale accertamento in fatto, il ricorrente propone, in questa sede, una inammissibile valutazione alternativa delle emergenze processuali (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.01.2018 n. 2280).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum la regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere non solo coloro che hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. edilizia) ammette la proposizione dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del soggetto titolare del bene interessato il quale, ove estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse contrario alla definitiva regolarizzazione.
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L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività […] o in difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il rilascio del titolo in sanatoria in presenza della conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di cui trattasi la conformità delle opere abusive allo strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello strumento urbanistico adottato».
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7.- Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
8.- È indubbio che il Comune di San Pietro in Casale, allorché tra i motivi posti alla base della sospensione della D.I.A. ha identificato la carenza di titolo alla presentazione della medesima D.I.A. abbia inteso riferirsi, seppur implicitamente, alla carenza del titolo di proprietà che avrebbe legittimato l’intervento sanante di cui trattasi.
In tal senso, ad avviso del Collegio, non ci si trova al cospetto di un’integrazione postuma della motivazione del provvedimento quanto di un’indicazione che, seppur in modo sintetico, ha rilevato la carenza di presupposti per avvalersi della possibilità di ottenere un titolo postumo idoneo a sanare le opere abusivamente realizzate.
Sul punto, costituisce, invero, ius receptum la regola secondo cui alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere, non solo coloro che hanno a titolo richiedere la concessione edilizia o l’autorizzazione ex art. 11 t.u. edilizia, ma anche, «salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima»: la sanatoria, quindi, è fungibile ratione personarum, ma a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
E’ vero che in materia di sanatoria la normativa di riferimento (art. 36 T.U. edilizia ed anche la l.r. Em. Rom. n. 23 del 2004, art. 17) ammette la proposizione dell'istanza da parte non solo del proprietario ma anche del responsabile dell’abuso, ma tale ultima qualità non è di per sé sufficiente a radicare il titolo per la proposizione della relativa istanza, occorrendo comunque il consenso del soggetto titolare del bene interessato il quale, ove estraneo all'illecito, può astrattamente avere un interesse contrario alla definitiva regolarizzazione.
Nel caso di specie, la mancata acquisizione del consenso da parte del Condominio «Il Mu», odierno proprietario del bene, non può giustificarsi sulla base della asserita qualità di cointeressato che lo stesso Condominio rivestirebbe, dovendosi, al contrario, ritenere che il medesimo soggetto giuridico potrebbe astrattamente serbare un interesse alla rimessione in pristino dei luoghi e non già alla conservazione delle opere realizzate in difformità dal titolo abilitativo.
9.- Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta l’inapplicabilità delle misure di salvaguardia al caso di specie poiché non viene in rilievo una D.I.A. ordinaria bensì una D.I.A. in sanatoria volta ad ottenere l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La questione si porrebbe, ad avviso del ricorrente, poiché è vero che il R.U.E ha introdotto, anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia, la separazione acque bianche/acque nere ma lo stesso R.U.E., seppur adottato anteriormente alla presentazione della D.I.A. in sanatoria, è stato approvato in un momento successivo ad essa.
Tale circostanza deporrebbe, ad avviso della Er. s.r.l., per l’applicazione alla vicenda per cui è causa del pregresso assetto normativo comunale, ossia dell’art. 24 del previgente regolamento per il servizio di fognatura e depurazione approvato nel 1986.
9.1.- Il motivo non è meritevole di pregio.
9.2.- L’art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che «in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio attività […] o in difformità da essa […] il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
La predetta disposizione contiene talune differenze rispetto a quella omologa previgente contenuta nell’art. 13 della l. n. 47 del 1985, previsione quest’ultima che ammetteva il rilascio del titolo in sanatoria in presenza della conformità delle opere «agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Sul punto ritiene il Collegio che la predetta differenza semantica sia da giudicarsi del tutto irrilevante ai fini del rilascio del titolo in sanatoria, sul rilievo che ove si ammettesse quale limite e presupposto dell’accertamento di cui trattasi la conformità delle opere abusive allo strumento urbanistico soltanto approvato si finirebbe per assentire, con lo strumento della sanatoria, opere che in realtà non potrebbero essere autorizzate per il tramite di un ordinario permesso di costruire.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha nitidamente affermato che «il mutamento lessicale della formulazione normativa (di cui si è dato conto dianzi) deve considerarsi irrilevante, in quanto la conformità alla “disciplina urbanistica vigente” si riferisce sicuramente pure al rispetto delle norme di salvaguardia connesse alle prescrizioni dello strumento urbanistico adottato» (Cass. pen. Sez. III, n. 21781 del 2011; sul punto già Cass., sez. III, n. 291 del 2004).
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11.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato (TAR Emilia Romagna-Bolgna, Sez. II, sentenza 10.01.2018 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto abusivo deve essere eseguito anche nei confronti di terzi estranei al reato a cui è stata alienata la proprietà dell'immobile.
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.

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L'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen..
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
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1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep. 2011, Giustino e altri, Rv. 249129; Sez. 3, n. 45301 del 07/10/2009, Roscetti, Rv. 245213, sez. 3, n. 22853 del 29.03.2007, Coluzzi, rv. 236880).
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (Sez. 3, n. 37120 dell'11.05.2005, Morelli, Rv. 232175; Sez. 3, n. 42781 del 21.10.2009, Arrigoni, non massim.; Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Rv. 259802; Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Rv. 265193).
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670), atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/04/2003, Pasquale, Rv. 226573).
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge
» (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Rv. 265540; Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918; Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403, nonché da ultimo Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Rv. 267977, che ribadendo il principio in questione ha ritenuto infondata la questione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 249).

EDILIZIA PRIVATA: Per la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo, potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l’aspetto formale.
Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno degli elementi necessari, di per sé non sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie, ai cui fini occorre la conformità della domanda di sanatoria al relativo modello legale.
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Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di condono occorre considerare che l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, come indicato in motivazione.
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Se il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
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5. Parte ricorrente eccepisce ancora l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 35, comma 17, della l. n. 47 del 1985. In particolare, il ricorrente ha proposto nel 1986 una domanda di sanatoria e, in mancanza di alcuna risposta da parte del comune dei due anni successivi, si sarebbe formato il silenzio assenso.
Il motivo di impugnazione non risulta meritevole di accoglimento.
Come da costante orientamento della giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St. 4703/2017; Cons. St. 187/2017) per la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo, potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l’aspetto formale. Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno degli elementi necessari, di per sé non sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie, ai cui fini occorre la conformità della domanda di sanatoria al relativo modello legale (TAR Catania, 24.03.2016, n. 869; TAR Lecce, 12.04.2012, n. 625).
Nel caso di specie, l’incompletezza della documentazione depositata emerge dalle richieste di integrazioni formulate da parte del comune resistente (doc. 5 del fascicolo di parte resistente), tra le quali presenta particolare rilievo la mancanza del titolo di proprietà o di altra documentazione idonea.
Sul punto, occorre precisare che la volontà contraria del proprietario appare ostativa alla stessa possibilità per il ricorrente di ottenere il provvedimento ad effetti incrementativi di sanatoria, in base al prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa. Nel caso di specie il proprietario del bene immobile ha manifestato espressamente la propria contrarietà alla sanatoria dell’immobile, circostanza di per sé ostativa all’esito positivo della richiesta di condono formulata da parte ricorrente (di alcun valore è la mera variazione catastale, quale proprietà superficiaria, in mancanza di un titolo idoneo al trasferimento di un tale diritto dal dante causa al ricorrente).
L’originaria autorizzazione alla realizzazione del capannone contenuta nel contratto di locazione (da realizzarsi in senso conforme alla normativa urbanistica vigente) appare inidonea a consentire la realizzazione di un immobile difforme dalla normativa edilizia per poi chiederne la regolarizzazione; in sostanza altro è il consenso a realizzare un bene, altro è il consenso alla regolarizzazione o al condono (specie se si considera l’espresso dissenso manifestato dal proprietario).
La motivazione del provvedimento appare sufficiente per descrivere la violazione posta in essere nel caso di specie dal ricorrente. Il riferimento all’abusività deve, in particolare, essere collegato alla documentazione richiesta (doc. 5 del fascicolo di parte resistente ove emerge anche la consegna delle richieste di integrazione sia al ricorrente stesso che alla moglie) e non prodotta dal ricorrente, con la conseguenza che il rigetto dell’istanza di condono appare adeguatamente motivato con la mancanza della documentazione richiesta che si traduce nell’abusività dell’immobile per contrasto con la normativa edilizia.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, non destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata. La giurisprudenza amministrativa ha infatti evidenziato che non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955): quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060, cit.).
Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di condono occorre considerare che l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, come indicato in motivazione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.01.2018 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Parere in merito all'applicabilità del regime di pagamento sanzionatorio ridotto di cui all'art. 16, comma 1, della legge 689/1981 all'oblazione prevista per i titoli abilitativi in sanatoria dall'art. 22 della l.r. 15/2008 – Comune di Rieti (Regione Lazio, nota 03.01.2018 n. 3176 di prot.).

dicembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione di lavori edilizi in difformità dal permesso di costruire - Effetti - Completamento opere - Limiti alla disponibilità dell'immobile abusivo - Vincolo di asservimento del fondo agricolo - Necessità di contestazione - Artt. 10, 30 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reato di esecuzione di lavori edilizi in difformità dal permesso di costruire, per individuare la natura e la sussistenza di detta difformità non è necessario attendere il completamento dell'opera ove, da quanto già realizzato, si possa desumere che il manufatto, una volta ultimato, assumerebbe caratteristiche diverse da quelle progettate (Cass. Sez. 3, n. 13592 del 30/01/2008, Dinolfo).
Né può essere escluso il pericolo che la libera disponibilità dell'immobile abusivamente realizzato possa aggravare o protrarre le conseguenze dell'illecito ovvero agevolarne la commissione di altri (cfr. Sez. 3, n. 39731 del 28/09/2011, Rainone e altro, Rv. 251304) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57954 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Destinazione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale - Delibera comunale che dichiara l'esistenza di un interesse pubblico prevalente sul restauro dell'assetto urbanistico violato - Incidenza delle delibere delle amministrazioni comunali - Incompatibilità con la loro demolizione - Necessità di precisa individuazione dell'immobile - Verifiche e poteri del giudice dell'esecuzione - Fattispecie: violazione di sigilli, plurime violazioni urbanistiche e reato paesaggistico - Art. 31 e 44 d.P.R. n. 380/2001 - delitto paesaggistico di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Art. 349 cod. pen..
La delibera comunale che dichiara l'esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell'assetto urbanistico violato, sottraendo l'opera abusiva al suo normale destino di demolizione previsto per legge, non può fondarsi su valutazioni di carattere generale o riguardanti genericamente più edifici, ma deve dare conto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta di conservazione del singolo manufatto, precisamente individuato (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia, relativa a fattispecie nella quale la Corte ha reputato legittimo il rigetto, da parte del giudice dell'esecuzione, di istanza di sospensione dell'ordine di demolizione, in presenza di due delibere comunali aventi per oggetto i criteri per individuare l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive e i criteri per locare gli immobili già acquisiti al patrimonio comunale; conf. Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone; Sez. 3, n. 30170 del 24/05/2017, Barbuti; cfr. anche Sez. 3, n. 11419 del 29/01/2013, Bene, nella quale è stato chiarito che "Il giudice dell'esecuzione, al quale sia richiesto di revocare l'ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna, ha il potere di sindacare la delibera di acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio comunale, che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici rispetto al ripristino dell'assetto urbanistico violato") (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57942 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di "totale difformità" - Particolare tenuità del fatto e ordine di demolizione.
Ai fini della integrazione del reato di cui all'articolo 44, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere considerato in "totale difformità" qualsiasi intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentite per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso di costruire, dovendosi, a tal fine, considerare che i parametri normativi di riferimento enunciati dall'articolo 31 d.p.r. n. 380 del 2001 sono tra loro alternativi e non cumulativi e che, per stabilire l'entità della difformità, è necessario confrontare il realizzato con l'autorizzato nel senso che il giudice deve svolgere un preciso raffronto tra l'opera approvata e quella eseguita (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Comune di Montjovet – Scia per la realizzazione di un’autorimessa – Abuso edilizio – Richiesta di sanatoria – Parere (Legali Associati per Celva, nota 29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Un cittadino ha presentato una SCIA per la realizzazione di un’autorimessa a servizio del proprio edificio residenziale.
A distanza di anni dalla conclusione dei lavori, su segnalazione del confinante, è stato effettuato sopralluogo per rilevare il segnalato abuso edilizio. Dal sopralluogo è emerso che parte dell’autorimessa era stata adibita a servizio igienico e a taverna, quest’ultimo locale così definito in quanto all’interno dello stesso era presente un cucinino (fornelli, lavandino), un forno, una stufa a legna, un divano, un tavolo con panche e sedie e vari suppellettili.
Il proprietario dell’edificio ha presentato richiesta di rilascio di permesso di costruire in sanatoria definendo cantina quel locale che nel corso del sopralluogo era stato identificato quale taverna e che lui stesso aveva così definito in documenti presentati in precedenza all’ufficio tecnico; non di poco conto il fatto che tale difformità d’uso sia stata di recente evidenziata al Comune anche dal vicino di casa sulla base della propria conoscenza diretta, con il quale il proprietario ha in essere contenzioso edilizio riguardante la costruzione in parola che ad oggi lo ha visto soccombere con obbligo di demolizione di una parte dell’autorimessa oltre che di altre opere pertinenziali.
Il progetto di sanatoria non evidenzia l’esecuzione di opere successive al sopralluogo effettuato dal Comune e nulla menziona in merito al fatto che la taverna sia poi diventata cantina.
Si ipotizza che il locale non possedendo i requisiti igienico-sanitari (luce e aerazione diretta dall’esterno) non potesse essere definito taverna e per questa ragione sia stato rinominato in cantina.
Si chiede se il Comune possa procedere al rilascio del permesso di costruire in sanatoria del locale cantina, sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato che il medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in caso affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano essere applicate.
Riferimenti normativi: LR 11/1998
Quesiti: Si chiede se il Comune possa procedere al rilascio del permesso di costruire in sanatoria del locale cantina, sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato che il medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in caso affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano essere applicate.

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha, più volte, chiarito che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
L’ordine di demolizione non esige né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile: ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare.

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Sia l’ordine di demolizione che l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione non sono riconducibili al paradigma dell’autotutela e non richiedono, pertanto, motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata, che impongono la rimozione dell’abuso o l’applicazione della sanzione.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
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Configurando l’abuso edilizio un illecito permanente è legittima l’applicazione della sanzione vigente al momento dell’adozione del provvedimento, senza che sia ravvisabile alcuna violazione del principio di irretroattività.
Invero:
   - "il calcolo dell’ammontare della sanzione pecuniaria dovrà essere effettuato tenendo conto del momento in cui la stessa viene irrogata, in applicazione del principio generale per cui gli interventi abusivi sono sanzionabili in base alla disciplina vigente al momento in cui avviene la repressione…Ne consegue che ai fini della determinazione della sanzione da infliggere per la realizzazione di opere edilizie abusive, deve tenersi conto del valore delle stesse al tempo della relativa irrogazione e non a quello corrente al momento della commissione dell’abuso, atteso che solo così operando l’autore dell’abuso non gode di un lucro rispetto all’alternativa sanzione della demolizione”;
   - "il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di consumazione dell’abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività”.
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La quantificazione della sanzione risulta effettuata secondo i parametri di legge: il calcolo del costo di produzione è stato correttamente basato su norme della l. 392/1978; la loro abrogazione ad opera della l. 431/1998 è irrilevante in quanto la legge n. 392 del 1978, recante la disciplina delle locazioni di immobili urbani, è richiamata dall’art. 93 L.R. 61/1985 e dall’art. 12 l. 47/1985 ai soli fini della determinazione della sanzione pecuniaria sulla base di un valore, il costo di produzione, disciplinato dalla legge medesima. Essa perciò è applicabile in virtù di un rinvio formale e non dinamico.
In altri termini la norma sanzionatoria fa proprio quel meccanismo di calcolo del costo di produzione attualizzato e lo rende indifferente alle successive modifiche apportate alla legge medesima.
Tale interpretazione è più aderente a criteri di logica e ragionevolezza in quanto il destinatario della sanzione pecuniaria, commisurata ad una valutazione attualizzata ottiene, con l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la definitiva disponibilità di un bene anch'esso rivalutato che compensa, in tal modo, il maggior onere pecuniario della sanzione.
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Il ricorrente ha impugnato il provvedimento in epigrafe indicato con cui gli è stata irrogata una sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione, pari a circa 33 milioni di lire, per aver realizzato opere in difformità dalla concessione edilizia (ampliamento della casa al mare): a sostegno del ricorso ha dedotto plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere.
Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia contrastando le avverse pretese.
Il ricorso non merita accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
La giurisprudenza ha, più volte, chiarito che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. L’ordine di demolizione non esige né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile: ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (Ad Plen. n. 9/2017; Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV, 12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n. 3750).
Analoghi principi valgono, ad avviso del Collegio, per l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione prevista dall’art. 93 della L.R.V. n. 61 del 1985.
E, invero, sia l’ordine di demolizione che l’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione non sono riconducibili al paradigma dell’autotutela e non richiedono, pertanto, motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata, che impongono la rimozione dell’abuso o l’applicazione della sanzione.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
Quanto ai dedotti vizi formali e procedimentali, il Collegio rileva che, nel caso di specie, non era necessaria la comunicazione di avvio del procedimento di irrogazione della sanzione né la previa diffida a ripristinare lo stato dei luoghi poiché è stato lo stesso interessato a chiedere l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione ex art. 93 della L.R.V. n. 61 del 1985.
Configurando l’abuso edilizio un illecito permanente è legittima l’applicazione della sanzione vigente al momento dell’adozione del provvedimento, senza che sia ravvisabile alcuna violazione del principio di irretroattività (cfr. TAR Veneto n. 473/2013 secondo cui “il calcolo dell’ammontare della sanzione pecuniaria dovrà essere effettuato tenendo conto del momento in cui la stessa viene irrogata, in applicazione del principio generale per cui gli interventi abusivi sono sanzionabili in base alla disciplina vigente al momento in cui avviene la repressione…Ne consegue che ai fini della determinazione della sanzione da infliggere per la realizzazione di opere edilizie abusive, deve tenersi conto del valore delle stesse al tempo della relativa irrogazione e non a quello corrente al momento della commissione dell’abuso, atteso che solo così operando l’autore dell’abuso non gode di un lucro rispetto all’alternativa sanzione della demolizione”; Cons. St. n. 4943/2016 secondo cui “il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è, in conformità al principio del tempus regit actum, quello vigente al momento della sanzione, non già quello in vigore all’epoca di consumazione dell’abuso e la natura della sanzione demolitoria, finalizzata a riportare in pristino la situazione esistente e ad eliminare opere abusive in contrasto con l’ordinato assetto del territorio, impedisce di ascrivere la stessa al genus delle pene afflittive, cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività”).
La quantificazione della sanzione risulta effettuata secondo i parametri di legge: il calcolo del costo di produzione è stato correttamente basato su norme della l. 392/1978; la loro abrogazione ad opera della l. 431/1998 è irrilevante in quanto la legge n. 392 del 1978, recante la disciplina delle locazioni di immobili urbani, è richiamata dall’art. 93 L.R. 61/1985 e dall’art. 12 l. 47/1985 ai soli fini della determinazione della sanzione pecuniaria sulla base di un valore, il costo di produzione, disciplinato dalla legge medesima. Essa perciò è applicabile in virtù di un rinvio formale e non dinamico: in altri termini la norma sanzionatoria fa proprio quel meccanismo di calcolo del costo di produzione attualizzato e lo rende indifferente alle successive modifiche apportate alla legge medesima.
Tale interpretazione è più aderente a criteri di logica e ragionevolezza in quanto il destinatario della sanzione pecuniaria, commisurata ad una valutazione attualizzata ottiene, con l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la definitiva disponibilità di un bene anch'esso rivalutato che compensa, in tal modo, il maggior onere pecuniario della sanzione (cfr.: Cons. Stato, V, 30.09.1980 n. 800; TAR Veneto 23.04.1982 n. 393; TAR Veneto n. 1140/2001).
Per quanto sin qui esposto il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.12.2017 n. 1114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

novembre 2017

EDILIZIA PRIVATAPrivata dimora e proprietà privata sono concetti non sovrapponibili, in quanto il primo è molto più circoscritto del secondo, basti pensare ai beni privati destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale».
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art. 614 cod. pen..
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei seguenti, indefettibili elementi:
   «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
   b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
   c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
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1. Il primo motivo merita accoglimento nella parte relativa al vizio di motivazione.
L'ordinanza impugnata premette che l'aggressione è avvenuta in un tratto di strada, che conduce all'abitazione della persona offesa, avente le caratteristiche di spazio aperto al pubblico non delimitato da alcuna recinzione. Riconduce, tuttavia, tale luogo al perimetro di tutela delineato dall'art. 614 cod. pen., qualificandolo come pertinenza dell'abitazione di proprietà del D'Am..
Specifica, poi, che l'area è destinata a sosta e parcheggio delle auto riservata ai soli proprietari degli immobili, come si evince dalla documentazione fotografica, prodotta dall'indagato, che indica la natura di "proprietà privata" della zona in questione.
Tali argomentazioni sono, per un verso, giuridicamente erronee e, per altro verso, sganciate dalla nozione di privata di dimora come delineata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
Sotto il primo profilo va osservato che privata dimora e proprietà privata sono concetti non sovrapponibili, in quanto il primo è molto più circoscritto del secondo, basti pensare ai beni privati destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076).
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art. 614 cod. pen. (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, cit., in motivazione).
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei seguenti, indefettibili elementi:
   «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
   b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
   c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare
» (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, cit., in motivazione) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 24.11.2017 n. 53438).

ottobre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di sostituzione edilizia su immobili condonati.
Dal quadro normativo vigente in Regione Lombardia, si ricava che gli interventi di sostituzione edilizia, previsti e disciplinati dall’art. 3 della legge regionale 16.07.2009 n. 13 (Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia) e dall’art. 5 della legge regionale 13.03.2012 n. 4 (Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia), non possono essere realizzati con riferimento ad immobili a loro volta realizzati in assenza di titolo o in totale difformità dallo stesso, e ciò sebbene per tali immobili sia stato poi rilasciato un provvedimento di condono (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
... quanto al ricorso introduttivo:
per l'annullamento:
   - del provvedimento del Dirigente del settore Pianificazione del Territorio del Comune di Lissone prot. n. 12708 in data 11.03.2016, intitolato a "Comunicazione motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza ai sensi art. 10-bis della Legge 241/1990 e s.m.i.", ad oggetto "Denuncia di inizio attività prot. 9447 del 24/02/2016 per "Sostituzione dei fabbricati esistenti a prevalente uso commerciale/capannone con nuovo edificio residenziale di 4 piani fuori terra con mantenimento del volume esistente" in via Como - Foglio 15, mapp.le 221-227-228-229";
   - del provvedimento del Dirigente del settore Pianificazione del Territorio del Comune di Lissone prot. n. 13914 in data 18.03.2016, recante "Riscontro ad integrazione del 16/03/2016 prot, 13403";
   - di ogni atto preordinato e connesso.
quanto ai motivi aggiunti depositati in data 16.06.2016:
   -   del provvedimento del Dirigente del settore Pianificazione del Territorio del Comune di Lissone prot. n. 15490 in data 30.03.2016 avente ad oggetto “Comunicazione conclusione del procedimento mediante annullamento e diniego di Denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 2 della legge 241/1990 e s.m.i.”, in ordine alla DIA prot. n. 9447 del 24.02.2016;
   - dell'art. 45 delle n.t.a. del Piano delle Regole della variante al P.G.T. adottata con delibera C.C. di Lissone n. 33 dell’01.04.2016;
   - di ogni atto preordinato e connesso;
...
11. Con un’unica censura contenuta nel ricorso introduttivo e ribadita nei motivi aggiunti, gli interessati contestano l’argomentazione utilizzata dall’Amministrazione per paralizzare la loro iniziativa.
In particolare, Secondo il Comune di Lissone, nel caso specifico, l’intervento di sostituzione edilizia non sarebbe effettuabile, atteso che l’immobile da sostituite è stato assentito con provvedimento di condono e che gli immobili condonati non potrebbero godere di alcun beneficio diverso dalla possibilità di continuare a rimanere in essere con le loro proprie caratteristiche strutturali e funzionali.
Secondo i ricorrenti, invece, gli immobili condonati sarebbero assoggettabili alla medesima disciplina riguardante tutti i fabbricati regolarmente assentiti, non sussistendo alcuna valida ragione per riservare loro un trattamento diverso. Ne conseguirebbe che, contrariamente da quanto ritenuto dal Comune, la loro volumetria sarebbe utilizzabile al fine di effettuare interventi di sostituzione edilizia.
12. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
13. Preliminarmente si deve osservare che
nella relazione tecnica allegata alla DIA del 24.02.2016, i ricorrenti hanno descritto l’intervento oggetto del presente giudizio, come <<intervento di sostituzione dei fabbricati esistenti a prevalente uso commerciale/capannone con edificio residenziale di n. 4 piano fuori terra più soppalco non abitabile mantenendo il volume esistente>>, ed hanno ascritto lo stesso alla categoria della “nuova costruzione”.
14.
Il Comune nei provvedimenti impugnati ha a sua volta qualificato tale intervento come “sostituzione edilizia” di cui all’art. 27, terzo comma, lett. e), punto 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005.
Questa qualificazione –oltre a non essere incompatibile con quella fornita nella relazione tecnica,
posto che, come si vedrà, la “sostituzione edilizia” ricade nella più ampia categoria della “nuova costruzione– non è stata contestata dai ricorrenti i quali, nei loro atti difensivi, si limitano a sostenere che –contrariamente da quanto ritenuto dal Comune– gli interventi di sostituzione edilizia sarebbero realizzabili anche con riferimento ad edifici condonati.
15.
Il Collegio, pertanto, in mancanza di contrari elementi fattuali e giuridici dedotti dalle parti, ritiene di non potersi discostare dalla qualificazione effettuata dall’Amministrazione ed accettata dai ricorrenti.
16. Ciò premesso, deve ora osservarsi che,
nella Regione Lombardia, gli interventi di sostituzione edilizia sono previsti e disciplinati dall’art. 3 della legge regionale 16.07.2009, n. 13 (Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia) e dall’art. 5 della legge regionale 13.03.2012, n. 4 (Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia).
17. Con queste norme,
il legislatore regionale ha, fra l’altro, inteso incentivare la realizzazione di interventi volti alla demolizione di vecchi edifici non in linea con i livelli raggiunti dall’attuale evoluzione tecnologica (soprattutto per quanto concerne la materia del risparmio energetico) e la loro sostituzione con edifici moderni rispondenti ai parametri individuati dai più recenti approdi scientifici.
18. In particolare,
l’art. 3, terzo comma, della legge regionale n. 13 del 2009 ammette la possibilità di realizzare –anche in deroga alle disposizioni quantitative contenute negli strumenti urbanistici- interventi di sostituzione di edifici non residenziali, ubicati in zone a prevalente destinazione residenziale, con nuovi edifici, destinati esclusivamente a residenza, di volumetria non superiore a quella esistente.
19.
Questa possibilità è stata poi ribadita dall’art. 5 della legge regionale n. 4 del 2012.
20.
Il legislatore regionale è poi ulteriormente intervenuto in materia con l’art. 17, secondo comma, della legge regionale 18.04.2012, n. 7 (Misure per la crescita, lo sviluppo e l'occupazione), il quale ha aggiunto il punto 7-bis all’art. 27, comma 1, lett. e), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), ascrivendo alla categoria della “nuova costruzione” gli interventi di sostituzione edilizia di cui alla precedente normativa.
21. Ciò premesso, va ora osservato che
l'art. 5, terzo comma, lett. c), della citata legge regionale n. 13 del 2009 prevede che le disposizioni di favore contenute negli articoli precedenti non si applicano con riferimento agli <<... edifici realizzati in assenza di titolo abilitativo o in totale difformità, anche condonati>>.
22. Dal combinato disposto di queste norme si ricava dunque che
gli interventi di sostituzione edilizia non possono essere realizzati con riferimento ad immobili a loro volta realizzati in assenza di titolo o in totale difformità dallo stesso, e ciò sebbene per tali immobili sia stato poi rilasciato un provvedimento di condono.
23.
In tale quadro appare evidente come, contrariamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, vi sono specifiche disposizioni normative di rango primario che vietano la realizzazione di interventi di sostituzione edilizia che abbiano ad oggetto edifici condonati.
24. Si deve pertanto ritenere che –siccome non è contestato che l’immobile in riferimento al quale gli stessi ricorrenti intendono realizzare un intervento di sostituzione edilizia è stato costruito abusivamente e successivamente condonato– tale intervento non sia realizzabile, stante la sussistenza delle disposizioni ostative di cui sopra si dato conto.
25. Per queste ragioni la censura in esame è infondata; di conseguenza, il ricorso ed i motivi aggiunti devono essere respinti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.10.2017 n. 1991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell’ordinanza di demolizione adottata a distanza di anni dall’abuso.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Adottata a distanza di anni dall’abuso – Motivazione – Esclusione.
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino (1).
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   (1) La questione era stata rimessa dalla Cons. St., sez. VI, ord., 24.03.2017, n. 1337.
Ha ricordato l’Adunanza plenaria che sul punto si sono formati due orientamenti.
In base a un primo orientamento (ad oggi maggioritario) l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso. In base all’orientamento in parola deve infatti escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso (Cons. St., sez. VI, 05.05.2016, n. 1774; id. 23.10.2015, n. 4880; id. 11.12.2013, n. 5943).
Aggiungasi che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. St., sez. IV, 28.02.2017, n. 908).
In base ad un diverso (e minoritario) orientamento, l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera. Deve tuttavia essere fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato: ipotesi -questa- in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione la quale indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Cons. St., sez. IV, 02.11.2016, n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti simile a quella appena richiamata si è affermato che, quanto meno in alcuni ‘casi-limite’, l’ingiunzione di demolizione debba essere assistita da un’adeguata motivazione circa lo specifico interesse pubblico sotteso alla riduzione in pristino dell’area. Ciò si renderà necessario, in particolare: i) quando il proprietario del bene sia pacificamente persona diversa da quella che ha commesso l’abuso; ii) quando l’intervenuta alienazione della res non palesi finalità elusive; iii) quando fra il commesso abuso e l’ordine di demolizione sia intercorso un rilevante lasso di tempo, sì da ingenerare nel proprietario uno stato di affidamento in ordine alla desistenza da parte dell’amministrazione dall’adozione di atti pregiudizievoli (Cons. St., sez. IV, n. 1016 del 2014; id., sez. V, n. 3847 del 2013).
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria la fattispecie in esame non è riconducibile al quadro generale dell’autotutela, non venendo in rilievo l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimamente adottato ovvero del provvedimento di sanatoria rilasciato in assenza dei necessari presupposti legittimanti, ma la diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante (laddove –tuttavia– l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione). Si tratta, in definitiva, dei casi di doverosa –se pure tardiva– attivazione dell’ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Ad avviso dell’Alto Consesso non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17.10.2017 n. 9 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione di questa Adunanza Plenaria il ricorso in appello proposto dai signori Fi., An. e Fa.Ba. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio con cui è stato respinto il ricorso da loro proposto avverso l’ordinanza del Sindaco del Comune di Fiumicino con la quale è stata loro ingiunta la demolizione di un immobile realizzato sine titulo oltre trent’anni prima dalla loro comune dante causa, la madre Co.Fi..
2. Come si è anticipato in narrativa,
viene chiesto a questa Adunanza Plenaria di chiarire la questione dell’onere motivazionale che grava in capo all’amministrazione in sede di adozione di un’ingiunzione di demolizione (nel caso in esame, conseguente alla realizzazione di un immobile in area vincolata nella radicale assenza di un valido titolo edilizio) e se in particolare, decorso un considerevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, gravi in capo all’amministrazione un onere motivazionale aggiuntivo, che non resti limitato al solo richiamo alla normativa urbanistica violata e alla conseguente necessità di ripristinare l’ordine giuridico compromesso.
Viene altresì chiesto di stabilire se uno specifico onere di motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e concreto alla demolizione sia altresì ravvisabile nell’ipotesi in cui l’attuale proprietario del bene non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento del bene non denoti intenti elusivi della normativa in tema di onere di ripristino.
3. L’ordinanza di rimessione ha correttamente –sia pur sinteticamente– richiamato gli argomenti essenziali che sostengono le due principali tesi attualmente in campo.
3.1. In base a un primo orientamento (ad oggi maggioritario)
l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso. In base all’orientamento in parola deve infatti escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 10.05.2016, n. 1774; id., VI, 23.10.2015, n. 4880; id., VI, 11.12.2013, n. 5943).
Si è osservato al riguardo che
l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Si è inoltre osservato al riguardo che,
laddove si annettesse rilievo in siffatte ipotesi al decorso del tempo –sia pure, al solo fine di incidere sul quantum di motivazione richiesto all’amministrazione-, si perverrebbe in via pretoria a delineare una sorta di ‘sanatoria extra ordinem’, la quale opererebbe anche nelle ipotesi in cui il soggetto interessato non abbia potuto –o voluto– avvalersi delle disposizioni normative in tema di sanatoria di abusi edilizi (in tal senso: Cons. Stato, VI, 15.01.2015, n. 13).
3.2. In base a un diverso (e minoritario) orientamento,
l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera. Deve tuttavia essere fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato: ipotesi -questa- in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione la quale indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse -evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità- idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2016, n. 4577).
In base a un’opzione per molti aspetti simile a quella appena richiamata
si è affermato che, quanto meno in alcuni ‘casi-limite’, l’ingiunzione di demolizione debba essere assistita da un’adeguata motivazione circa lo specifico interesse pubblico sotteso alla riduzione in pristino dell’area. Ciò si renderà necessario, in particolare: i) quando il proprietario del bene sia pacificamente persona diversa da quella che ha commesso l’abuso; ii) quando l’intervenuta alienazione della res non palesi finalità elusive; iii) quando fra il commesso abuso e l’ordine di demolizione sia intercorso un rilevante lasso di tempo, sì da ingenerare nel proprietario uno stato di affidamento in ordine alla desistenza da parte dell’amministrazione dall’adozione di atti pregiudizievoli (in tal senso: Cons. Stato, IV, sent. 1016 del 2014; id., V, sent. 3847 del 2013).
A conclusioni non dissimili è pervenuta quella parte della giurisprudenza secondo cui
il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia nei confronti dell’amministrazione che del dante causa (in tal senso: Cons. Stato, IV, 04.03.2014, n. 1016; id., V, 15.07.2013, n. 3847; id., V, 24.11.2013, n. 2013).
4. Ad avviso di questa Adunanza Plenaria il dato di fondo da cui occorre prendere le mosse è costituito dall’oggettiva non riconducibilità della fattispecie in esame al quadro generale dell’autotutela.
Ed infatti, non viene qui in rilievo l’ipotesi in cui l’amministrazione abbia, a distanza di tempo dal rilascio, disposto l’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimamente adottato ovvero del provvedimento di sanatoria rilasciato in assenza dei necessari presupposti legittimanti.
Al contrario, il caso che qui rileva si presenta in termini sensibilmente diversi e concerne la diversa ipotesi in cui l’edificazione sia avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante (laddove –tuttavia– l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione).
Si tratta, in definitiva, dei casi (frequenti nella pratica) di doverosa –se pure tardiva– attivazione dell’ordine di demolizione di fabbricati privi ab origine di un qualunque titolo legittimante e giammai ammessi a sanatoria.
Al riguardo ci si limita a rilevare che:
   - nel caso di ritiro tardivo in autotutela di un atto amministrativo illegittimo ma favorevole al proprietario, si radica comunque un affidamento in capo al privato beneficiato dall’atto in questione e ciò giustifica una scelta normativa (quale quella trasfusa nell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990) volta a rafforzare l’onere motivazionale gravante in capo all’amministrazione. Si tratta di stabilire sino a che punto e in che termini l’ordinamento si debba far carico di tutelare un siffatto stato di legittimo affidamento;
   - al contrario, nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
In definitiva,
non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
5. Va d’altra parte osservato che, anche nelle sue declinazioni più estreme, la tesi maggiormente orientata al riconoscimento delle ragioni e delle prerogative proprietarie non giunge a riconoscere l’illegittimità dell’ordine di demolizione quale diretta conseguenza della sua tardiva emanazione, né postula una sorta di ‘sanatoria extra ordinem’ quale effetto dell’omessa o tardiva adozione del provvedimento demolitorio.
Ed infatti, le decisioni riconducibili a tale approccio pervengono soltanto –in maniera più o meno incisiva– a delineare in capo all’amministrazione che abbia omesso per un considerevole lasso di tempo di adottare l’ordine di demolizione un onere di motivazione sia in ordine alle ragioni di interesse pubblico –concreto e attuale– sottese alla demolizione, sia in ordine alla comparazione fra l’interesse pubblico al ripristino della legittimità violata e l’interesse privato alla permanenza in loco del manufatto.
La stessa sentenza della Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato n. 1016 del 2014 (invocata dagli appellanti a sostegno delle proprie tesi) non ha affermato l’illegittimità ex se dell’ordine di demolizione tardivamente adottato, ma ha soltanto individuato una serie di “casi-limite” in cui graverebbe comunque sull’amministrazione l’obbligo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni sottese alla tardiva attivazione del potere ripristinatorio (la sentenza in questione ha individuato tali “casi-limite” nelle ipotesi in cui: i) il proprietario attuale non abbia commesso l’abuso; ii) l’alienazione in suo favore non palesi intenti elusivi; iii) fra il commesso abuso e il provvedimento demolitorio sia intercorso un notevole lasso di tempo).
5.1. Si osserva comunque al riguardo che non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
5.2. Una chiara conferma di quanto appena rappresentato si desume dal terzo periodo del comma 4-bis dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001 (per come introdotto dal comma 1, lettera q-bis), dell’articolo 17 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133), secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La disposizione appena richiamata chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l’amministrazione del potere di adottare l’ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche –e diverse– conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del ritardo nell’adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo.
6. Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
6.1. Deve quindi ribadirsi che, in questi casi, nemmeno si pone un problema di affidamento, che presuppone una posizione favorevole all’intervento riconosciuta da un atto in tesi illegittimo poi successivamente oggetto di un provvedimento di autotutela.
Un condiviso orientamento ha sottolineato al riguardo l’oggettiva differenza che sussiste fra:
   - (da un lato) l’adozione di determinazioni sfavorevoli di segno opposto rispetto ad altre precedenti e di segno favorevole per l’interessato (come l’annullamento in autotutela del titolo edilizio o del provvedimento di sanatoria) e
   - (dall’altro) l’adozione dell’ordine di demolizione in caso di interventi realizzati in radicale assenza del permesso di costruire (articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001).
In tale secondo novero di ipotesi è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
7. A conclusioni del tutto analoghe (in punto di insussistenza di un obbligo di motivazione nelle ipotesi che qui rilevano) è pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio anche prendendo le mosse da angoli visuali diversi da quello dell’applicabilità o meno delle categorie dell’autotutela decisoria.
7.1. E’ stato in primo luogo affermato che
il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione. Ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; id., VI, 06.03.2017, n. 1060).
7.2. E’ stato inoltre affermato che
il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione. Inoltre, il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
7.3. E’ stato, ancora, affermato che
non occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione. Ed infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; id., VI, 13.12.2016, n. 5256).
Si è altresì osservato –e in modo parimenti condivisibile- che
l’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile. Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; id., IV, 12.10.2016, n. 4205; id., IV, 31.08.2016, n. 3750).
Deve pertanto essere confermato, anche da questi diversi angoli visuali, che,
nelle ipotesi che qui rilevano di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
   - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico;
   - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti.

7.4. L’ordinanza di rimessione si è altresì soffermata sulla possibile sussistenza di un obbligo per l’amministrazione di motivare l’ordine di demolizione in relazione alla concretezza ed attualità dell’interesse pubblico alla demolizione. Le considerazioni sopra esposte -che evidenziano la non riconducibilità della fattispecie all’autotutela decisoria- escludono la rilevanza delle questioni attinenti all’onere motivazionale.
8. L’ordinanza di rimessione si sofferma inoltre sul caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi.
8.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
Del resto, la principale (se non l’unica) ragione che potrebbe indurre a valorizzare la richiamata alterità soggettiva è quella relativa allo stato soggettivo di buona fede e di affidamento che caratterizza la posizione dell’avente causa.
Tuttavia –e per le ragioni dinanzi esposte retro, sub 7.1 e 7.3– tali stati soggettivi non possono essere in alcun modo valorizzati ai fini motivazionali
In definitiva
l’Adunanza plenaria ritiene di confermare l’orientamento secondo cui gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 26.07.2017, n. 3694).
9. A conclusioni del tutto analoghe a quelle appena rassegnate deve giungersi anche in relazione all’ipotesi in cui sia pacifico che l’alienazione dell’immobile oggetto di abuso sia stata realizzata in circostanze che inducono ad escludere qualunque intento elusivo.
Anche in questo caso ci si limita ad osservare che tale circostanza –inerente in ultima analisi allo stato soggettivo dell’avente causa– non può in alcuno modo rilevare sulla doverosità delle conseguenze connesse alla commissione dell’abuso in quanto tale.
10. In conclusione l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato enuncia il seguente principio di diritto: “
il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di costruzioni abusive.
E' legittima l'ordinanza di demolizione basata sul presupposto dell'assenza del titolo paesaggistico, ex D.Lgs. n. 42/2004, di una pergotenda che, in ragione delle sue dimensioni, è idonea ad alterare l'aspetto dell'edificio, e dunque ha un impatto sull'estetica e sulla "fotografia" del paesaggio a prescindere infatti dalla sua natura precaria e amovibile (di per sé irrilevante per l'applicazione delle disposizioni dell'indicato Codice dei beni culturali e del paesaggio).
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Ritenuto che i motivi di appello non sono fondati, poiché:
   - la sentenza impugnata ha correttamente considerato dirimente il fatto che l’ingiunzione n. 17 del 22.03.2016 (sulla quale si è nel corso del giudizio trasferito l’interesse a ricorrere) trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che sanziona la violazione del vincolo paesaggistico;
   - come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, mentre l’ingiunzione di demolizione oggetto del ricorso introduttivo era basata sul solo difetto di titolo edilizio, la successiva ordinanza n. 17 del 2016 risulta basata sul presupposto dell’assenza del titolo paesaggistico, in quanto in essa si fa espresso riferimento al fatto che la parte ricorrente aveva presentato un’istanza ai sensi dell’art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, e che tale istanza era stata dichiarata archiviata per mancata integrazione documentale (con nota n. 4561 del 03.03.2016);
   - il Comune di Sant’Agnello è collocato in un’area geografica ‒la penisola sorrentina‒ interamente sottoposta al vincolo paesaggistico, e ciò importa che anche per l’opera in contestazione si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica ‒atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio‒ in mancanza della quale l’applicazione della riduzione in pristino è doverosa;
   - a prescindere infatti dalla sua (peraltro contestata da controparte) natura precaria e amovibile (di per sé irrilevante per l’applicazione delle disposizioni del codice n. 42 del 2004), la pergotenda oggetto dell’ingiunzione, in ragione delle sue dimensioni, è idonea ad alterare l’aspetto dell’edificio, e dunque ha un impatto sull’estetica e sulla “fotografia” del paesaggio;
   - l’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato;
   - da ultimo, quanto all’asserito vincolo discendente dal cosiddetto ‘giudicato’ cautelare, è dirimente considerare che l’ordinanza cautelare del giudice amministrativo è un provvedimento meramente interinale, destinato ad essere superato dal giudizio di merito;
   - per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.10.2017 n. 4736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distinzione tra variante essenziale e variante minore o leggera: chiarimenti dal Tar Campania.
Ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio costituisce variante essenziale.
Con la sentenza 02.10.2017 n. 4605, la IV Sez. del TAR Campania-Napoli illustra le differenze che intercorrono tra la nozione di “variante essenziale” e il concetto di “variante minore o leggera”.
Costituisce variante essenziale”, ricorda il Tar Napoli, “ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative”.
Invece, “
ai fini dell'individuazione della categoria di variante minore o leggera, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a s.c.i.a. (ex d.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la s.c.i.a. (ex d.i.a.) costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti leggere minori o leggere
” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
1. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
1.1. Risulta fondato, in particolare, il vizio di difetto di motivazione dedotto dall’appellante sotto il profilo della violazione delle garanzie e dei presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, ai sensi del combinato disposto dell'articolo 21-nonies della l. n. 241/1990 e degli articoli 22 e 23 del d.P.R. n. 380/2001.
2. Occorre anzitutto procedere all’inquadramento della tipologia di intervento in contestazione che è stato realizzato sull’immobile mediante la presentazione di una scia.
Ed invero
l’errore sui requisiti soggettivi o oggettivi della DIA, poiché è frutto di una dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a riceverla, per il solo fatto che quest’ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare un’eventuale responsabilità amministrativa, non già la convalida –recte la sanatoria- della DIA mancante di un requisito essenziale.
Anche argomenti di ordine testuale e sistematico consentono di confermare che il privato non può accreditarsi, mediante DIA, un titolo edilizio per opere per le quali è richiesta la più complessa procedura del rilascio del permesso di costruire.
A tale riguardo
appaiono evidenti le analogie fra il caso in decisione e l’ipotesi di una DIA priva dei requisiti essenziali e per questo inefficace (Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2014, n. 1413), o quella prevista dall’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 secondo cui la DIA non produce effetti quando l’intervento edilizio incide su interessi sensibili e l’Autorità, cui ne è affidata la tutela, non l’abbia autorizzato o, ancora, se le dichiarazioni sostitutive di atto notorio ad essa allegate non sono veritiere (Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.2013 n. 5513).
In tale ipotesi, allora, il provvedimento, nel rimuovere incidentalmente la scia, in sostanza verifica che le opere edili non sono legittimabili con tale strumento ed ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all’attività di vigilanza edilizia, tanto più che nessun affidamento può vantare la ricorrente, per quanto detto in precedenza (cfr. Tar Bari, II, n. 147 del 2017).
2.1. Su queste premesse è bene precisare, in punto di fatto, che l’unico elemento ostativo alla validazione della scia n. 273 del 2016 (che ha comportato per connessione la declaratoria di inefficacia di quella successiva n. 767 del 2016) è rappresentato dall’abbassamento della porzione di solaio da quota +13,71 ml a quota +13,05, che secondo l’amministrazione comunale realizza un potenziale cambio di destinazione d’uso che conduce ad annoverare l’intervento fra quelli di ristrutturazione, non assentibili con scia.
2.2. Secondo la tesi del ricorrente la ragione dell’intervento risiede nel fatto che il solaio riproposto a quota +13,05 è funzionale alla struttura della scala ed all’utilizzo dell’ascensore, poiché a quella quota (+13,05) vi è il pianerottolo della scala e lo sbarco della porta dell’ascensore, i cui lavori sono stati ritualmente assentiti.
2.3. Va considerato che
l’abbassamento di quota del solaio, anche se lascia immutata la superficie utile, può, in presenza di elemento concorrente, costituire l’indice di un cambio di destinazione d’uso.
Tuttavia, nel caso di specie, l’assenza di ulteriori contestazioni o rilievi in merito al contestato cambio di destinazione d’uso rendono il provvedimento impugnato privo di adeguato supporto motivazionale.
2.4. Su queste premesse fattuali, vale osservare che
costituisce variante essenziale ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
2.5.
Ai fini, invece, dell'individuazione della categoria di variante minore o leggera, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a s.c.i.a. (ex d.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la s.c.i.a. (ex d.i.a.) costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti leggere minori o leggere.
3. Come già rilevato in sede cautelare,
l’Amministrazione, quando interviene a distanza di tempo dalla formazione di un titolo abilitativo astrattamente idoneo alla realizzazione di alcuni lavori, deve illustrare in maniera diffusa le ragioni, anche di interesse pubblico, che giustificano il ritiro dell’abilitazione, ovvero le altre ragioni che impongono il provvedimento sanzionatorio con l’ordine di riduzione in pristino.
Nella specie tale motivazione non può ritenersi sufficiente in quanto non si evincono i profili di asimmetria sostanziale tra quanto assentito con la d.i.a. e quanto realizzato.
3.1.
La d.i.a., una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Pertanto, deve considerarsi illegittima l’adozione, da parte di un’Amministrazione comunale, di un provvedimento repressivo-inibitorio della d.i.a. (già consolidatasi) oltre il termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione della d.i.a. e senza le garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (cfr. Cons. Stato, n. 2842 del 2016 e n. 4780 del 2014).
4. Ne consegue l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento della ulteriori censure. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

settembre 2017

EDILIZIA PRIVATA: Questa Corte ha in passato, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio.
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima.

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La legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
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Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato- ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto.
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
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E' illegittimo e non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
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1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la Corte territoriale abbia adeguatamente dato conto del fatto che le opere realizzate -consistenti in una pavimentazione eseguita previa spianatura del terreno esistente e con posa in opera di erborelle amovibili, in un'area dell'ampiezza di 700 metri quadri, parzialmente destinata a viabilità secondo la variante al P.R.G., in due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché in un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30- avessero significativamente inciso sull'assetto urbanistico della zona de qua attraverso una trasformazione permanente del suolo; e che, come tali, esse fossero qualificabili come "nuova costruzione", tanto da richiedere il preventivo rilascio di un permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto, il ricorso introduttivo argomenta nel senso che l'intervento dovesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia", realizzata a servizio del fabbricato. E da tale qualificazione sarebbe derivato che le opere avrebbero potuto essere assentite con permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 ovvero con la D.I.A. sostitutiva o Super-D.I.A. che ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), del predetto decreto, nella versione all'epoca vigente, poteva essere adottata, in luogo del permesso di costruire, proprio in relazione agli "interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c)".
2.1. La tesi difensiva è, però, manifestamente infondata.
In primo luogo è opportuno osservare che la stessa D.I.A. presentata dalle due imputate aveva qualificato l'intervento edificatorio non come "ristrutturazione edilizia", quanto piuttosto come "manutenzione straordinaria"; ciò a riprova del fatto che la denominazione prospettata in ricorso configuri, all'evidenza, un tentativo di giustificare ex post il ricorso allo strumento della D.I.A. in luogo del permesso di costruire. Tanto è vero che la sentenza di secondo grado non si è in alcun modo confrontata, sia pure criticamente, con tale tesi, mai avanzata nel corso del giudizio di appello.
Al di là di tale osservazione preliminare, rileva il Collegio che la illegittimità della D.I.A. presentata dalle ricorrenti fosse stata correttamente riscontrata dai giudici di appello sulla base di una serie di concreti elementi, che le argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso introduttivo non sono riuscite a confutare.
Secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, infatti, costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso. E secondo l'art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. sono qualificati come "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
In questa prospettiva, deve risolutamente escludersi che l'intervento edilizio contestato a Ma. e Ti. Di Re. potesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia".
Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, in luogo dell'originaria corte costituente pertinenza del fabbricato circostante, era stata realizzata, mediante livellamento e successiva pavimentazione, una vasta area destinata a parcheggio, con l'erezione di due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché di un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30.
Un intervento complessivo, quello appena descritto, pacificamente riconducibile, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla nozione di "nuova costruzione", secondo quanto ricavabile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1, lett. d) ed e), del citato d.P.R., avuto riguardo alla significativa incidenza delle opere sull'assetto urbanistico del territorio, riscontrata dai giudici di appello anche alla stregua della documentazione fotografica in atti.
In passato, del resto, questa Corte ha, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio (Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 12/01/2017, Palma, Rv. 268847) e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, dep. 15/12/2014, Langella e altro, Rv. 261521).
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001. Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 266291).
2.2. Né potrebbe argomentarsi, in contrario, seguendo il percorso ricostruttivo svolto dalle ricorrenti che la legittimità del ricorso alla D.I.A. possa ritenersi dimostrata dal fatto che il comune di Chieri aveva assentito la presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché subordinatamente al rilascio del menzionato atto d'obbligo.
In proposito, è appena il caso di rilevare che la legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
3. Parimenti infondato è, poi, il secondo profilo di doglianza, con il quale le ricorrenti deducono che in ogni caso l'approvazione della D.I.A. in sanatoria avrebbe realizzato sostanzialmente un accertamento di conformità.
Secondo quanto può ricavarsi dalla lettura della sentenza e dai motivi di ricorso, infatti, Ma. e Ti. Di Re. avevano presentato una D.I.A. in sanatoria secondo la procedura stabilita dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, a norma del quale "la realizzazione di interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla denuncia di inizio attività" consente al responsabile dell'abuso o al proprietario dell'immobile di "ottenere la sanatoria dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio", sempre che l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (comma 4).
Tale disciplina, invero, si presenta del tutto distinta da quella dettata dall'art. 36 dello stesso decreto, a mente del quale "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (comma 1).
Permesso in sanatoria il cui rilascio "è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16".
Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso (comma 2). Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata (comma 3).
Ed anzi, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, cui deve essere data assoluta continuità, gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato- ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto (Sez. 3, n. 41425 del 29/09/2011, dep. 14/11/2011, Eramo, Rv. 251327; Sez. 3, n. 28048 del 19/05/2009, dep. 09/07/2009, Barbarossa, Rv. 244580; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, dep. 05/03/2009, Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, dep. 20/12/2006, Cariello, Rv. 235413).
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
Sotto altro profilo, deve altresì osservarsi, con riferimento all'atto d'obbligo sottoscritto dalla legale rappresentante della società committente, il quale, secondo le ricorrenti avrebbe concorso al perfezionamento della fattispecie sanante, che anche con riferimento tale aspetto il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte ritiene che sia illegittimo e non determini l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, dep. 29/12/2015, Carratù e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, dep. 18/05/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003, dep. 09/01/2004, P.M. in proc. Fannmiano, Rv. 226871).
Ne consegue la mancata integrazione della fattispecie sanante, anche a prescindere dal fatto che l'intervento edilizio incidesse su un'area parzialmente destinata a tratti di viabilità e che, per tale motivo, le opere realizzate si ponessero in conflitto con la disciplina della relativa macrozona del Piano di edilizia economica popolare; ciò che avrebbe, comunque, impedito, anche sotto tale concorrente profilo, l'accertamento di conformità, richiedendo l'art. 36 del d.P.R. citato la piena conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43155).

EDILIZIA PRIVATA: Premesso che il ricorrente presentava, dapprima, una SCIA in data 16.10.2015 e successivamente, in data 16.11.2015 una richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un gazebo su suolo pubblico dinanzi alla propria attività commerciale laddove, in entrambe le istanze, precisava che non sarebbe stata realizzata alcuna opera in cemento armato, è palese che la realizzazione di una piattaforma di forma rettangolare in calcestruzzo sulla sede stradale antistante l’attività commerciale dell’esponente costituisce una evidente difformità dell’intervento rispetto a quanto autorizzato dal Comune che, nel rispetto del regolamento comunale, autorizzava la realizzazione sul suolo pubblico di pedane in legno sulle quali posizionare il gazebo, assicurando in tal modo il raccordo tra la quota del piano stradale ed il marciapiede.
Del resto solo una struttura in legno poteva assicurare che si trattasse di struttura precaria e facilmente rimovibile, come tale compatibile con la destinazione dell’area pubblica oggetto di occupazione che, nel caso del ricorrente, è quella a parcheggio pubblico.
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Quanto al preteso omesso esame della variante depositata il 29.06.2016 presso lo sportello unico per l’edilizia, rileva il collegio che non si tratta di una modifica dell’originario progetto, sub specie di variante in corso d’opera o di richiesta di autorizzazione in sanatoria, bensì di una nuova richiesta di deposito sismico ai sensi dell’articolo 93 del d.p.r. 380 del 2001 che in alcun modo rileva ai fini del superamento della contestata difformità tra il basamento realizzato -in calcestruzzo- e quello autorizzato -pedana in legno- donde la sostanziale irrilevanza della nuova richiesta di deposito sismico, come tale inidonea ad incidere sulla legittimità dell’ordine di demolizione e dei presupposti provvedimenti di sospensione dei lavori, tutti incentrati sulla predetta, pacifica, difformità del basamento realizzato rispetto a quello autorizzato.
In altre parole il deposito in questione rileva ai fini del procedimento autorizzatorio di competenza regionale, avente ad oggetto la regolarità dell’intervento dal punto di vista sismico e, come tale, non integra i presupposti della variante architettonica o della richiesta di sanatoria sicché nessun obbligo di riesame preventivo poteva ritenersi sussistente in capo al Comune prima dell’adozione dell’ordine di demolizione.
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N
on risponde al vero che le disposizioni in materia di costruzioni in zone sismiche richiedano necessariamente la realizzazione di fondamenta in cemento armato.
Il deposito previsto dall’art. 93 del d.p.r. numero 380 del 2001 per le zone sismiche ha infatti portata generale ed è riferito a qualunque tipologia di costruzioni, a prescindere dai materiali utilizzati. Ne discende che anche le costruzioni in legno sono soggette all’obbligo del deposito sismico.
La caratteristica delle opere costruttive incide invece sull’operatività dell’art. 65 del d.p.r. numero 380 del 2001 atteso che solo per le opere di conglomerato cementizio armato è prescritto l’obbligo di denuncia al competente ufficio tecnico regionale.
A conferma di quanto precede deve ancora evidenziarsi che il d.m. del 14.01.2008, recante il compendio di norme sulle caratteristiche tecniche costruttive, contempla una sezione dedicata esclusivamente alle costruzioni di legno in zona sismica (cfr. il
capitolo 7 rubricato “Progettazione per azioni sismiche” al punto 7.7 rubricato “Costruzioni di legno”).
Ne discende, conclusivamente, che dal richiamo contenuto nel titolo autorizzatorio (comunale) all’obbligo del deposito sismico non può inferirsi alcuna valutazione circa le caratteristiche dei materiali impiegati per la costruzione, ben potendo trattarsi anche di costruzioni in legno, secondo quanto peraltro espressamente indicato nella relazione presentata dal ricorrente ai fini del rilascio del titolo autorizzatorio.
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Manifestamente infondata è la tesi per cui il deposito sismico presso la regione potrebbe contenere elementi progettuali integrativi rispetto all’originario progetto depositato presso il competente ufficio comunale poiché, ove si accedesse a tale tesi, quest’ultimo si vedrebbe spogliato del potere di verificare la compatibilità dei materiali utilizzati per la costruzione rispetto alle prescrizioni edilizie che, come noto, disciplinano, a seconda delle zone, anche le tipologie dei materiali consentiti, tanto è vero che la dichiarazione di asseverazione del professionista, da presentare ai sensi dell’art. 20 del d.p.r. 380 del 2001, deve attestare anche la conformità del progetto alle norme antisismiche e quindi illustrare le caratteristiche costruttive dell’intervento.

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Con ricorso notificato il 27.09.2016 e depositato il successivo 17 ottobre, il signor Bernardo Angelo ha impugnato dinanzi all’intestato Tribunale amministrativo regionale per il Molise gli atti indicati in epigrafe con i quali il Comune di Bojano, avendo accertato che l’esponente stava eseguendo le opere di posizionamento di un gazebo su suolo pubblico –già autorizzato con provvedimento n. 9 del 05.05.2016- in difformità rispetto al progetto approvato dal Comune, dapprima sospendeva i lavori e successivamente ne ordinava la rimessione in pristino.
In particolare, la polizia municipale in data 22.06.2016, a seguito di sopralluogo, constatava la realizzazione -ai fini della installazione del gazebo- di una piattaforma di forma rettangolare in calcestruzzo, sulla sede stradale antistante l’esercizio pubblico del ricorrente, con la funzione di raccordo tra la quota del piano stradale ed il marciapiede, in violazione di quanto previsto dall’articolo 7 della delibera di consiglio comunale numero 32 del 28.08.2015 -recante il regolamento per l’autorizzazione all’installazione di gazebo su aree comunali- il quale prescrive che l’attacco a terra del gazebo, di carattere precario e facilmente amovibile, debba essere costituito da una pedana in legno, aderente al suolo, al fine di raccordare la differenza di quota tra il piano della strada e quello del marciapiede. Ciò, in generale, al fine di non arrecare pregiudizio alle aree comunali che, in particolare, nella parte antistante l’attività commerciale dell’esponente sono destinate a parcheggio.
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Il ricorso è infondato.
L’articolo 7 della delibera di consiglio comunale numero 32 del 28.08.2015 recante il regolamento “per il rilascio di autorizzazioni al posizionamento di gazebo, pedane, tavoli e sedie su area pubblica antistante di esercizi commerciali” prescrive espressamente, con riferimento ai gazebo, che “…2. L’attacco a terra, di carattere precario, deve essere costituito da una pedana in legno, aderente al suolo, che nasconda l’ancoraggio terra e raccordi la differenza di quota tra il piano della strada e quello del marciapiede. 3. Tale struttura, interamente e facilmente amovibile, è composta da un telaio in legno o ferro”.
Conformemente a tale previsione regolamentare, il ricorrente presentava, dapprima, una SCIA in data 16.10.2015 e successivamente, in data 16.11.2015 una richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un gazebo su suolo pubblico dinanzi alla propria attività commerciale. In entrambe le istanze precisava che non sarebbe stata realizzata alcuna opera in cemento armato.
E’ dunque evidente che la realizzazione di una piattaforma di forma rettangolare in calcestruzzo sulla sede stradale antistante l’attività commerciale dell’esponente costituisce una evidente difformità dell’intervento rispetto a quanto autorizzato dal Comune con provvedimento numero 9 del 2016 che, nel rispetto del regolamento comunale, autorizzava la realizzazione sul suolo pubblico di pedane in legno sulle quali posizionare il gazebo, assicurando in tal modo il raccordo tra la quota del piano stradale ed il marciapiede.
Del resto solo una struttura in legno poteva assicurare che si trattasse di struttura precaria e facilmente rimovibile, come tale compatibile con la destinazione dell’area pubblica oggetto di occupazione che, nel caso del ricorrente, è quella a parcheggio pubblico.
A fronte di tale dato oggettivo, univocamente comprovato dalla documentazione in atti, il ricorrente articola una serie di censure che tuttavia non colgono nel segno.
Quanto al preteso omesso esame della variante depositata il 29.06.2016 presso lo sportello unico per l’edilizia, rileva il collegio che non si tratta di una modifica dell’originario progetto, sub specie di variante in corso d’opera o di richiesta di autorizzazione in sanatoria, bensì di una nuova richiesta di deposito sismico ai sensi dell’articolo 93 del d.p.r. 380 del 2001 che in alcun modo rileva ai fini del superamento della contestata difformità tra il basamento realizzato -in calcestruzzo- e quello autorizzato -pedana in legno- donde la sostanziale irrilevanza della nuova richiesta di deposito sismico, come tale inidonea ad incidere sulla legittimità dell’ordine di demolizione e dei presupposti provvedimenti di sospensione dei lavori, tutti incentrati sulla predetta, pacifica, difformità del basamento realizzato rispetto a quello autorizzato.
In altre parole il deposito in questione rileva ai fini del procedimento autorizzatorio di competenza regionale, avente ad oggetto la regolarità dell’intervento dal punto di vista sismico e, come tale, non integra i presupposti della variante architettonica o della richiesta di sanatoria sicché nessun obbligo di riesame preventivo poteva ritenersi sussistente in capo al Comune prima dell’adozione dell’ordine di demolizione.
Tale circostanza è stata peraltro debitamente esplicitata in sede istruttoria da parte del Comune atteso che nelle premesse dell’ordinanza di demolizione si richiama altresì la relazione dell’ufficio urbanistica del 20.07.2016 protocollo numero 1085 nella quale si rileva che “non si può dar seguito alla variante strutturale proposta in data 29.06.2016 con nota di prot. 9579 in quanto le opere, costituendo anche variante architettonica, non sono consentite dal regolamento adottato con D.C.C. n. 32/2015".
Ne discende che alcuna violazione dell’obbligo di provvedere può configurarsi nel caso di specie né tantomeno una violazione dell’obbligo di valutare i contributi istruttori esibiti dal ricorrente, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 10 della legge numero 241 del 90 e, in generale, dell’articolo 97 della costituzione.
La stessa regione Molise, nell’accertare, con nota protocollo numero 6571 del 13.04.2017, la conformità della variante strutturale alla normativa tecnica sismica, precisava che l’esito positivo della verifica non poteva intendersi come sostitutivo della valutazione urbanistica di competenza comunale, evidenziando che quanto realizzato non era comunque conforme a quanto previsto dall’articolo 7, comma 2, del regolamento comunale.
In conclusione, non solo la variante strutturale è stata espressamente esaminata dal comune nel corso dell’istruttoria prodromica all’adozione dell’ordine di demolizione, ma deve convenirsi con quanto rilevato sia dal comune che dalla regione circa l’irrilevanza di tale atto a sanare l’assenza di idoneo titolo edilizio in quanto atto rilevante ai soli fini del deposito sismico e comunque in contrasto con il regolamento comunale, con conseguente abusività della piattaforma in calcestruzzo poiché realizzata in violazione di quanto previsto dall’articolo 7, comma 2, del regolamento approvato con delibera di consiglio comunale numero 32 del 2015 e della stessa autorizzazione numero 9/2016.
Con ulteriore motivo di censura il ricorrente deduce la contraddittorietà dell’azione amministrativa per avere il comune sanzionato la realizzazione di un’opera -rappresentata da una piattaforma in cemento armato- implicitamente imposta come condizione al punto 13 dell’autorizzazione comunale n. 9 del 2016 laddove viene prescritto, prima dell’inizio dei lavori, l’obbligo di procedere al deposito sismico e strutturale ai sensi della legge regionale numero 20 del 1996 e dell’articolo 93 del d.p.r. numero 380 del 2001.
La doglianza è infondata in quanto non risponde al vero che le disposizioni in materia di costruzioni in zone sismiche richiedano necessariamente la realizzazione di fondamenta in cemento armato.
Il deposito previsto dall’articolo 93 del d.p.r. numero 380 del 2001 per le zone sismiche ha infatti portata generale ed è riferito a qualunque tipologia di costruzioni, a prescindere dai materiali utilizzati. Ne discende che anche le costruzioni in legno sono soggette all’obbligo del deposito sismico sicché quanto previsto al punto 13 dell’autorizzazione numero 9/2016 non rappresenta altro che una prescrizione riproduttiva dell’obbligo legale di cui al richiamato articolo 93 valevole per tutte le tipologie costruttive.
La caratteristica delle opere costruttive incide invece sull’operatività dell’articolo 65 del d.p.r. numero 380 del 2001 atteso che solo per le opere di conglomerato cementizio armato è prescritto l’obbligo di denuncia al competente ufficio tecnico regionale.
A conferma di quanto precede deve ancora evidenziarsi che il decreto ministeriale del 14.01.2008, recante il compendio di norme sulle caratteristiche tecniche costruttive, contempla una sezione dedicata esclusivamente alle costruzioni di legno in zona sismica (cfr. il capitolo 7 rubricato “Progettazione per azioni sismiche” al punto 7.7 rubricato “Costruzioni di legno).
Ne discende, conclusivamente, che dal richiamo contenuto nel titolo autorizzatorio all’obbligo del deposito sismico non può inferirsi alcuna valutazione circa le caratteristiche dei materiali impiegati per la costruzione, ben potendo trattarsi anche di costruzioni in legno, secondo quanto peraltro espressamente indicato nella relazione presentata dal ricorrente ai fini del rilascio del titolo autorizzatorio.
Manifestamente infondata è poi la tesi per cui il deposito sismico presso la regione potrebbe contenere elementi progettuali integrativi rispetto all’originario progetto depositato presso il competente ufficio comunale poiché, ove si accedesse a tale tesi, quest’ultimo si vedrebbe spogliato del potere di verificare la compatibilità dei materiali utilizzati per la costruzione rispetto alle prescrizioni edilizie che, come noto, disciplinano, a seconda delle zone, anche le tipologie dei materiali consentiti, tanto è vero che la dichiarazione di asseverazione del professionista, da presentare ai sensi dell’articolo 20 del d.p.r. 380 del 2001, deve attestare anche la conformità del progetto alle norme antisismiche e quindi illustrare le caratteristiche costruttive dell’intervento.
In definitiva l’introduzione nel distinto -seppur collegato- procedimento di autorizzazione sismica di modifiche alle caratteristiche costruttive dell’intervento, deve ritenersi non coperta dal titolo edilizio in quanto sottratta alle verifiche istruttorie di competenza comunale, prodromiche al rilascio dell’autorizzazione, come la stessa regione non ha mancato di evidenziare con la nota protocollo numero 6571 del 13.04.2017.
Infondato è anche il terzo motivo di censura in quanto non può ritenersi sussistente un contrasto dell’articolo 7 del regolamento comunale con la disciplina regionale e nazionale in materia di norme antisismiche atteso che la previsione della realizzazione della pedana di appoggio in legno, anziché in cemento armato, in zona sismica, non viola alcuna norma della legislazione antisismica, sia perché, come si è visto, è lo stesso decreto ministeriale del 14.01.2008 ad ammettere la realizzazione in zona sismica di costruzioni in legno (cfr. punto 7.7), sia perché, in ogni caso, la valutazione circa l’idoneità di una struttura di supporto in legno rispetto ai parametri tecnici previsti dalla normativa antisismica è rimessa alla competente struttura regionale, con la precisazione che appare tutt’altro che manifestamente illogico prevedere che un semplice gazebo abbia come struttura di appoggio una pedana in legno, in zona peraltro tutelata dal punto di vista paesaggistico.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve conseguentemente essere respinto (TAR Molise, sentenza 14.09.2017 n. 304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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Va premessa la differente natura dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis applicabile al caso che ci occupa) e che, nella prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)".
Per tali osservazioni alla fattispecie dell'accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della legge n. 326 del 2003", poiché, come anche precisato, "A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; ...".
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione sull'erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è formata in tema di condono edilizio, ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente", per cui "Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego”.
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6.2. Del pari infondato è il secondo motivo di gravame.
Il Collegio intende aderire all’orientamento, anche di recente riaffermato da questo Consiglio di Stato, secondo cui “L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Va premessa, a tal riguardo, la differente natura dell’istanza di sanatoria (anche detta richiesta di accertamento della cd. doppia conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) rispetto alla domanda di condono edilizio di cui alle leggi n. 47 del 1985, n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003 (quest’ultima è quella ratione temporis applicabile al caso che ci occupa) e che, nella prospettazione del ricorrente, appaiono assimilate a sostegno dell’asserzione della conseguente inefficacia del procedimento in atto per la sanzione dell'opera abusiva.
Al riguardo la giurisprudenza, con valutazione che il Collegio condivide e da cui non vi è qui motivo per discostarsi, ha chiarito che “dalla presentazione della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 non possono trarsi le medesime conseguenze della domanda di condono poiché "...i presupposti dei due procedimenti di sanatoria -quello di condono edilizio e quello di accertamento di conformità urbanistica- sono non solo diversi ma anche antitetici, atteso che l'uno (condono edilizio) concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) l'altro (sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 oggi art. 36 DPR n. 380/2001) l'accertamento ex post della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza preventivo titolo abilitativo agli strumenti urbanistici (violazione formale)" (TAR Lazio, sez. I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207 e la sentenza del TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.09.2010, n. 17282 in quest'ultima citata).
Per tali osservazioni alla fattispecie dell'accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all'art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell'art. 32 della legge n. 326 del 2003" (Tar Lazio, sez. I-quater, 02.03.2012, n. 2165), poiché, come anche precisato, "A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47" (attuale art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001) "...non perde efficacia l'ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli art. 38 e 44 l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio; ..." (Tar Lazio, sez. I-quater, 24.01.2011, n. 693).
Si correla a questo quadro quanto affermato dalla Sezione, con la sentenza del 06.05.2014, n. 2307, sull'erroneità della ricostruzione per cui la presentazione dell'istanza di sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 successivamente alla ordinanza di demolizione, comporterebbe la necessaria formazione, anche sub specie di silenzio-rigetto, di un nuovo provvedimento idoneo a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, cosicché l'Amministrazione sarebbe tenuta, in ogni caso, ad adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, assegnando un nuovo termine per adempiere, poiché questa giurisprudenza "si è formata in tema di condono edilizio (Cons. Stato VI, 26.03.2010, n. 1750), ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente, consente, a determinate condizioni e per un limitato periodo di tempo, la sanatoria degli abusi commessi", non potendo trovare applicazione tali principi "al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell'opera sulla base di una disciplina preesistente", per cui "Sostenere...che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento".
Da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l'istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego
” (Consiglio di Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Ciò premesso, nella vicenda in esame si rileva che: l'ordinanza di demolizione è stata impugnata anteriormente alla presentazione dell'istanza di accertamento di conformità; nel corso del giudizio si è formato il silenzio-rigetto sull'istanza di sanatoria, di cui non risulta –o almeno di ciò l’appellante non ha fornito la prova– esservi stata impugnazione; all’esito di tutto ciò l'ordinanza di demolizione ha riacquistato piena efficacia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.09.2017 n. 4269  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di parte.
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del successivo art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. n. 241 del 1990, il mancato preavviso di diniego non produrrebbe, comunque, effetti vizianti ove il comune, come nel caso di specie, per le considerazioni suesposte, non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico.

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6.3. Del tutto infondato si rivela, altresì, l’ultimo motivo di impugnazione teso a censurare il vizio di motivazione, di istruttoria, nonché la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Dai documenti versati agli atti –contrariamente a quanto prospettato dall’appellante- si evince che l’amministrazione ha puntualmente ottemperato all’obbligo di motivazione del provvedimento, dando conto delle ragioni che hanno condotto al diniego dell’istanza di condono e all’ordine di demolizione: l’essere, le opere (di rilevanti dimensioni e con forte impatto sul paesaggio), state realizzate in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, in assoluto contrasto con lo strumento urbanistico vigente e con i vincoli paesaggistici imposti dal piano e con decreto ministeriale.
È poi pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che i provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di parte (ci si limita a riportare l’ultimo precedente specifico in argomento: Consiglio di Stato, sez. IV, 05.05.2017, n. 2065).
Del pari, altrettanto indiscusso, è che la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, di un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della relativa domanda.
Ad ogni modo in applicazione del successivo art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. n. 241 del 1990, il mancato preavviso di diniego non produrrebbe, comunque, effetti vizianti ove il comune, come nel caso di specie, per le considerazioni suesposte, non avrebbe potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati, attesa l’assoluta insanabilità delle opere sotto il profilo urbanistico e paesaggistico.
7. L’appello, pertanto, per le suesposte considerazioni, non merita accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.09.2017 n. 4269  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla illegittimità dell'ordinanza di demolizione di un balcone realizzato in spregio alla distanza legale di mt. 1.50 dal confine ex art. 905 cod. civ..
Sebbene i provvedimenti impugnati facciano riferimento ad una pretesa difformità dell’opera rispetto al progetto, il loro specifico rinvio agli atti istruttori chiarisce che la contestazione mossa all’odierno ricorrente riguarda unicamente il rispetto delle distanze legali dal balcone dell’unità immobiliare confinante.
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella specie, non occorresse osservare la distanza minima di un metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c., giacché la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia una via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che entrambi fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è irrilevante la loro collocazione, non richiedendosi in particolare che si fronteggino o che da tale via siano separati, poiché l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione della strada pubblica con uno spazio che espone il fondo del vicino all’indiscrezione di tutti i passanti, sicché i due fondi possono anche essere contigui.
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel balcone della controinteressata, poiché il balcone realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi l’affaccio (c.d. prospectio).

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Col ricorso in esame, corredato di istanza cautelare, il sig. Ro.Pa. impugna l'ordinanza n. 47AE/15 del 04.08.2015, con cui il Comune di Anzio gli ha ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi in relazione alla realizzazione di un balcone in via ... n. 3, primo piano int. 1, in pretesa pretesa difformità dalla D.I.A. dallo stesso presentata, nonché l’ordinanza n. 48AE/15 di pari data, con cui il Comune gli ha irrogato, per la medesima vicenda, una sanzione amministrativa dell’importo di euro 516,00
...
Il ricorso è fondato.
Con le ordinanze impugnate è stato ingiunto al ricorrente il ripristino dello stato dei luoghi ed irrogata una sanzione pecuniaria “per difformità alla DIA prot. 32917 del 29.07.2013”, individuata mediante rinvio per relationem agli atti istruttori richiamati nel preambolo e allegati al provvedimento; dagli stessi emerge che, in sede di verifica dell’esecuzione dei lavori di realizzazione di un balcone previsto negli elaborati grafici della denuncia, sarebbe stato accertato il mancato rispetto delle distanze minime dalla proprietà confinante (cfr. la relazione tecnica prot. 1652/16 del 02.07.2015 dell’Unità Abusivismo Edilizio, all’esito del sopralluogo del precedente 10 giugno: “tra la linea esteriore di predetta opera e il fondo confinante (balcone proprietà Ni.Fe.) non vi è la distanza di m 1.50, così come previsto dall’art. 905 del Codice Civile, essendo il distacco di m 1.19”).
Parte ricorrente propone cinque ordini di censura:
   (i) non vi è difformità tra quanto denunciato e quanto realizzato, poiché la misura del distacco era facilmente ricavabile dal progetto, sicché (tanto più che la questione dei distacchi era già stata sollevata dal proprietario confinante) il Comune soltanto ora verrebbe a contestare, in realtà, il rispetto nello stesso progetto delle norme sulle distanze, per la qual cosa avrebbe dovuto, piuttosto, procedere alla revoca o all’annullamento del silenzio assenso sulla D.I.A.;
   (ii) i rilievi e le misurazioni sono stati effettuati dai tecnici comunali senza la partecipazione dell’interessato e senza dargliene alcun avviso, in violazione del suo diritto al contraddittorio procedimentale;
   (iii) non sussiste alcuna violazione dell’art. 905 c.c.: nel caso concreto non si tratta di una veduta diretta (art. 905 c.c.), ma obliqua (art. 906 c.c., che prescrive una distanza di 75 cm), trattandosi di due balconi affiancati l’uno all’altro, e comunque, anche se si trattasse di veduta diretta, il fatto che entrambi i balconi affaccino su una via pubblica (ancorché questa non li separi) importerebbe comunque l’esenzione dal rispetto delle distanze a mente dell’art. 905 ultimo comma c.c.. In ogni caso, l’ordine di demolizione avrebbe dovuto interessare anche il balcone della vicina, poiché il principio della prevenzione non si applicherebbe ai distacchi tra vedute o balconi;
   (iv) la demolizione parziale del balcone pregiudicherebbe la sua parte eseguita in conformità;
   (v) il Comune non ha osservato l’obbligo di contestare immediatamente la violazione, in contrasto con gli articoli 27 del d.P.R. n. 380/2001 e 14, comma 1, della legge n. 689/1981.
Tanto premesso, anzitutto va osservato che, sebbene i provvedimenti impugnati facciano riferimento ad una pretesa difformità dell’opera rispetto al progetto, il loro specifico rinvio agli atti istruttori (“tali difformità sono meglio indicate nei citati atti”) chiarisce che la contestazione mossa all’odierno ricorrente riguarda unicamente il rispetto delle distanze legali dal balcone dell’unità immobiliare confinante; ciò tenuto conto anche del fatto, rilevante ai sensi dell’art. 116 c.p.c., che l’amministrazione non ha mai dato riscontro alle ordinanze con cui la Sezione ha chiesto di chiarire se le rilevate difformità rispetto alla D.I.A. riguardassero il mancato rispetto delle distanze previste in progetto.
Che la distanza tra i due balconi sia inferiore ai 150 centimetri è pacifico. Nella perizia giurata prodotta dal ricorrente, corredata da grafici e rilievi fotografici, si afferma che il balcone di proprietà del ricorrente è posto a 75 cm dal confine tra i due fabbricati, mentre il balcone della controinteressata si trova a 49 cm del confine medesimo (sicché la distanza che li separa sarebbe di 124 cm; maggiore è la distanza dalla finestra più vicina della controinteressata, che la perizia quantifica in 190 cm).
Sennonché, è corretto l’assunto del ricorrente che, nella specie, non occorresse osservare la distanza minima di un metro e mezzo prescritta dall’art. 905 c.c. per l’apertura di vedute dirette verso il fondo o sopra il tetto del vicino e per la costruzione di balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino.
Trattandosi della costruzione di un balcone che corre di fianco a quello del vicino sul medesimo fronte strada prospiciente una pubblica via, infatti, non potrebbe comunque farsi luogo all’applicazione dell’art. 905 c.c., giacché, come correttamente osservato nel terzo motivo di ricorso, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che per l’applicazione della norma secondo cui il divieto di aprire vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un metro e mezzo “cessa allorquando tra i due fondi vi sia una via pubblica” (art. 905, comma 3, c.c.) occorre che entrambi fondi siano confinanti con la via pubblica, ma è irrilevante la loro collocazione, non richiedendosi in particolare che si fronteggino o che da tale via siano separati, poiché l'esonero dal divieto è giustificato dall'identificazione della strada pubblica con uno spazio che espone il fondo del vicino all’indiscrezione di tutti i passanti, sicché i due fondi possono anche essere contigui (cfr. Cass., sez. II, 20.02.2009, n. 4222, ove ultt. citt.).
Può aggiungersi che neppure potrebbe parlarsi di veduta sulla proprietà del vicino, identificata dal Comune nel balcone della controinteressata, poiché il balcone realizzato dal ricorrente non consente di esercitarvi l’affaccio (c.d. prospectio).
Tanto basta all’accoglimento del ricorso, assorbita ogni altra censura, con conseguente annullamento, per l’effetto, degli atti impugnati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 07.09.2017 n. 9626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima l'ordinanza di demolizione laddove:
  
a) l’attestazione che le due fioriere in metallo e le due panchine dello stesso materiale sono infisse al suolo in modo non temporaneo fa piena prova sino a querela di falso, in quanto si tratta di attestazione contenuto in atto pubblico;
   b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza comunque una alterazione della situazione preesistente;
   c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico.

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... per l'annullamento previa sospensiva dell'ordinanza n. 61/2017 del 20/04/2017 con cui il Comune di Casalecchio di Reno (BO) Area Servizi al Territorio - Servizio pianificazione e rigenerazione urbana ha ingiunto la rimozione di n. 2 fioriere e di n. 2 panchine entrambe in metallo dall'area esterna all'esercizio di parrucchieri con insegna "Vi." posto in via ... n. 61 Casalecchio di Reno (BO) e di qualsiasi atto presupposto, connesso e/o conseguenziale.
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- Rilevato che il ricorso è –ad avviso del Collegio- manifestamente infondato in quanto
   a) l’attestazione che le due fioriere in metallo e le due panchine dello stesso materiale sono infisse al suolo in modo non temporaneo fa piena prova sino a querela di falso, in quanto si tratta di attestazione contenuto in atto pubblico;
   b) il posizionamento in via fissa e permanente di quattro manufatti dianzi indicati in area incontestatamente soggetta a vincolo paesaggistico era necessariamente soggetto a richiesta di autorizzazione paesaggistica, comportando esso all’evidenza comunque una alterazione della situazione preesistente;
   c) l’asserita assenza di un interesse pubblico alla rimozione dei manufatti predetti costituisce affermazione apodittica e chiaramente infondata, nella specifica condizione normativa dell’area in oggetto, in quanto sottoposta a vincolo paesaggistico a tutela del correlato interesse pubblico;
   d) la notifica dell’impugnata ordinanza comunale è stata perfezionata nei confronti dell’attuale ricorrente non quale persona fisica, ma per la sua correlazione con l’esercizio di parrucchieri sito in via ... n. 61 –come si ricava dal testo dell’atto- per modo che non sussiste l’asserita strumentale censura di difetto di legittimazione passiva (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 07.09.2017 n. 625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto
Pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
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6. È infondato il motivo sub b).
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare” (Cons. Stato, V, 11.06.2013, n. 3235) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.09.2017 n. 4243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAll'accertamento dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige né una speciale motivazione sull'interesse pubblico.
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Non è consentito, nell’ambito del giudizio ordinario di legittimità, censurare i provvedimenti amministrativi per vizi di merito.
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Con il 2º motivo, la ricorrente deduce il difetto di motivazione dell’ordinanza di demolizione, per carente individuazione dell’interesse pubblico.
Il motivo è palesemente infondato perché all'accertamento dell'abuso edilizio scaturisce con carattere vincolato l'ordine di demolizione che, per tale sua natura, non esige né una speciale motivazione sull'interesse pubblico (che è in re ipsa), né la comparazione con quello del privato (giurisprudenza pacifica, ex multis TAR Piemonte, sez. I, 16.03.2017 n. 376).
Con il 3º motivo la ricorrente lamenta la inopportunità del provvedimento impugnato trattandosi di opere modestissime senza alcuna incidenza sul piano urbanistico.
Il motivo è inammissibile non essendo consentito, nell’ambito del giudizio ordinario di legittimità, censurare i provvedimenti amministrativi per vizi di merito.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto solo in parte e, per l’effetto, il provvedimento impugnato deve essere annullato nella parte in cui estende l’efficacia dell’ordine di demolizione anche alle opere estranee alla categoria edilizia della ristrutturazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.09.2017 n. 9576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2017

EDILIZIA PRIVATA Il Collegio non ignora il diffuso e persuasivo orientamento per cui, anche per effetto della dequotazione dei vizi formali introdotta dall’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato.
Tuttavia il ridetto canone antiformalistico deve ritenersi recessivo nei casi in cui (trattandosi di contro-operare rispetto ad una risalente situazione di fatto, relativa alla sistemazione della copertura dei locali-deposito di proprietà della ricorrente, che, in fatto, assume di essersi limitata ad una semplice operazione di ripavimentazione della stessa, senza alcuna alterazione dello stato di fatto esistente da tempo immemorabile) solo la partecipazione dell’interessato, in chiave cooperativa o contraddittoria, poteva garantire che gli accertamenti, le misurazioni, le verifiche ed i riscontri (unilateralmente e solitariamente valorizzati dall’Ente) fossero valutati in coerenza con l’affidamento riconnesso al consolidato status quo ante.

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FATTO
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito, An. Di Do., come in atti rappresentata e difesa, premetteva di essere proprietaria, nel centro urbano di Vallata (AV), di un fabbricato ad uso abitazione (distinto in Catasto Fabbricati al foglio 17, p.lla 130), con antistante un deposito interrato (distinto in Catasto al foglio 17, p.lla 131), avente copertura a livello dell'area pubblica limitrofa.
Detta copertura, praticabile ma non carrabile, assolveva ad una duplice funzione: a) evitare infiltrazioni nel locale deposito sottostante, realizzato con volte in pietra; b) consentire il collegamento del fabbricato con la proprietà pubblica.
Tanto premesso, esponeva che in data 05.11.2015, con nota assunta al prot. n. 7031, aveva provveduto a dare comunicazione all'Ente dell’esercizio di attività edilizia libera, ai sensi dell'art. 6, comma 2, del D.P.R. 380/2001 e s.m.i., segnatamente esplicitando di voler realizzare interventi di manutenzione ordinaria sulla sua proprietà, consistenti in: a) sistemazione della pavimentazione esterna; b) rappezzi di intonaco esterno; c) tinteggiatura esterna.
Precisava che, a seguito di tale comunicazione, senza che il Comune di Vallata sollevasse obiezioni di sorta, decorso un congruo termine, aveva proceduto alla sostituzione della pavimentazione ammalorata esistente sull'area antistante la propria abitazione, apposta sulla copertura a livello del suolo del sottostante locale deposito.
Peraltro, successivamente alla esecuzione dei lavori, in data 07.01.2016, l'Ufficio Tecnico Comunale ed il Comando Polizia Municipale, dichiaratamente a seguito di una segnalazione privata, avevano effettuato un accertamento sui luoghi, constatando l’apposizione, senza la prescritta autorizzazione, di tre fioriere infisse sulla pavimentazione tramite tasselli in ferro.
Ne era seguita la nota prot. n. 672 del 29.01.2016, con la quale l'U.T.C. aveva sollecitato la rimozione delle fioriere nonché successiva ordinanza –conseguente a vana interlocuzione procedimentale– recante ingiunzione di provvedere ad horas alla rimozione dei manufatti de quibus, disattesa la quale il Comune aveva da, ultimo, provveduto alla comminata esecuzione in danno.
L’intera vicenda era stata, in ogni caso, oggetto di impugnativa dinanzi all’intestato Tribunale (con ricorso rubricato al n. RG n. 872/2016).
Sennonché, con successiva nota prot. 2809 del 05.05.2016, l'U.T.C. del Comune di Vallata aveva comunicato (contestualmente alla partecipazione dell’avvenuta rimozione in danno delle fioriere di cui si è detto) che, da una verifica più approfondita in loco, si era riscontrato che ricorrente avrebbe pavimentato parte del suolo pubblico per circa mq. 6,00, con conseguente diffida alla rimozione della pavimentazione entro venti giorni.
La ricorrente aveva, peraltro, riscontrato la nota de qua, criticamente evidenziando: a) che l'attività posta in essere era consistita esclusivamente nella sostituzione della pavimentazione preesistente, ormai dissestata, apposta su un locale deposito di proprietà, costruito agli inizi del secolo scorso; b) che la pavimentazione rispettava le dimensioni e la giacitura di quella preesistente da tempo immemorabile, senza che mai alcuno avesse avuto alcunché da contestare; c) che l'area pavimentata era stata anche delimitata, in maniera unilaterale, dal Comune di Vallata, alcuni mesi prima, allorché l'Ente aveva proceduto alla pavimentazione dell'adiacente area comunale e, pertanto, gli spazi erano predeterminati senza possibilità di modifiche; d) che qualsiasi presunta verifica effettuata unilateralmente dal Comune doveva ritenersi arbitraria e priva di efficacia.
Vane le riassunte rimostranze, in data 13.06.2016 le era stata notificata l'ordinanza n. 23, prot. 3602 del 10.06.2016 del Responsabile dell'U.T.C. del Comune di Vallata, con la quale si ingiungeva “di demolire le opere abusive descritte in premessa (presunta pavimentazione in pietra bocciardata di parte di suolo pubblico per circa mq. 6,00) e di ripristinare lo stato dei luoghi a proprie cure e spese, entro e non oltre il termine di giorni 60 dalla notifica”.
Avverso tale, lesiva determinazione insorgeva, lamentandone l’illegittimità sotto plurimo profilo.
2.- Il Comune di Vallata, benché ritualmente intimato, non si costituiva in giudizio.
Alla pubblica udienza del 24.05.2017, sulle reiterate conclusioni del difensore di parte ricorrente, la causa veniva riservata per la decisione.
DIRITTO
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto, nei sensi delle considerazioni che seguono.
Osserva il Collegio che –tra le varie ed articolate ragioni di doglianza (con le quali la ricorrente, in sostanza, mira a contestare la correttezza, la completezza e l’esattezza degli accertamenti e delle verifiche compiute dall’Amministrazione nell’apprezzamento del ritenuto sconfinamento della realizzata pavimentazione in area pretesamente pubblica)– debba darsi prioritaria ed assorbente considerazione a quella con la quale si lamenta la pretermissione del necessario momento partecipativo, essendo stata l’ordinanza impugnata notificata –all’esito della mera comunicazione delle verifiche– senza la prescritta comunicazione di avvio del relativo procedimento e, soprattutto, senza l’effettiva partecipazione della ricorrente (che pure aveva vanamente fatto istanza di accesso endoprocedimentale agli atti istruttori unilateralmente adottati dall’Amministrazione) alle misurazioni ed ai riscontri assunti a presupposto della contestata misura ingiuntiva.
In proposito, il Collegio, beninteso, non ignora il diffuso e persuasivo orientamento per cui, anche per effetto della dequotazione dei vizi formali introdotta dall’art. 21-octies l. 07.08.1990 n. 241, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive, l’asserita violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce l’annullamento del provvedimento, specie quando emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 12.08.2016, n. 3620): tuttavia il ridetto canone antiformalistico deve ritenersi recessivo nei casi –come quello oggetto di controversia– in cui (trattandosi di contro-operare rispetto ad una risalente situazione di fatto, relativa alla sistemazione della copertura dei locali-deposito di proprietà della ricorrente, che, in fatto, assume di essersi limitata ad una semplice operazione di ripavimentazione della stessa, senza alcuna alterazione dello stato di fatto esistente da tempo immemorabile) solo la partecipazione dell’interessato, in chiave cooperativa o contraddittoria, poteva garantire che gli accertamenti, le misurazioni, le verifiche ed i riscontri (unilateralmente e solitariamente valorizzati dall’Ente) fossero valutati in coerenza con l’affidamento riconnesso al consolidato status quo ante.
I rilievi che precedono acquistano significato con l’ulteriore osservazione che, alla luce delle attoree doglianze, non emerge de plano che il contenuto della contestata ordinanza (la quale si fonda, in fatto, sulla riscontrata “invasione” della proprietà pretesamente pubblica per soli 6 mq) fosse vincolato nel senso della pedissequa ingiunzione ripristinatoria: e ciò proprio a ragione delle obiettive difficoltà ed incertezze nella misura degli effettivi sconfinamenti, che solo una verifica congiunta, ed assunta in contraddittorio, avrebbe consentito di ritenere validata da congruo apprezzamento istruttorio, effettuato in presenza del soggetto concretamente interessato.
Ne discende che il ricorso debba essere accolto, con assorbente valorizzazione della argomentata regola partecipativa, spettando all’Amministrazione, in prospettiva conformativa, l’onere di procedere alla integrale rinnovazione del procedimento, previa attivazione di effettivo contraddittorio procedimentale con la ricorrente, che dovrà prendere parte anche alle nuove verifiche istruttorie.
2.- In tali sensi dovendosi accogliere il gravame (con assorbimento di tutti gli altri motivi di doglianza proposti), sussistono i presupposti –restando, allo stato, impregiudicato l’apprezzamento del merito dei contestati abusi– per dichiarare irripetibili (in difetto di costituzione dell’Ente intimato) spese e competenze di lite, fatto salvo il diritto al rimborso del contributo unificato versato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.08.2017 n. 1359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3), con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza.
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto, era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque, divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né, trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire al demolizione, né una sanzione accessoria di questa, non può fondatamente tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata, riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo proprietario.
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Il ricorso è affidato a due motivi di doglianza.
Con il primo motivo il ricorrente sostiene che, poiché con l’ordinanza dirigenziale n. 22 del 03.03.2012 il Comune ha proceduto all'acquisizione a titolo gratuito al proprio patrimonio disponibile del solo manufatto abusivo senza alcun riferimento all'area di sedime sulla quale insisteva l'abuso, una volta che è stato abbattuto l'edificio l'acquisita titolarità del diritto di proprietà dell'amministrazione resistente sull’area di sedime mancherebbe di presupposto, soprattutto sotto il profilo dell'emissione di un apposito provvedimento che avrebbe dovuto legittimare l'immissione nel possesso e sancire espressamente l'acquisto originario del diritto di proprietà.
Con il secondo motivo di impugnazione, sull’assunto che nella fattispecie acquisitiva in questione la perdita del diritto di proprietà assumerebbe i connotati di una sanzione accessoria e tenderebbe a soddisfare anche un eventuale interesse dell’amministrazione ad utilizzare per un fine pubblicistico l'opera abusiva ovvero l'area di sedime sulla quale esisteva, il ricorrente argomenta che, non essendo stato manifestato dall'amministrazione nessun interesse per il suolo, che sarebbe in stato di abbandono e non destinatario di alcun intervento di urbanizzazione o di riqualificazione, si verterebbe di un caso di sviamento di potere, in quanto il Comune, anziché utilizzare il frutto di un comportamento illecito per un fine pubblico a vantaggio della collettività, avrebbe posto in essere un’attività meramente repressiva e sanzionatoria.
Le censure, che si prestano ad essere esaminate congiuntamente, sono infondate.
L'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3), con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza (ex multis, C.d.S., sez. VI, 04.03.2015, n. 1064; sez. IV, 18.11.2014, n. 5666; sez. VI, 08.02.2013, n. 718).
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto, era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque, divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né, trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire al demolizione, né una sanzione accessoria di questa (cfr. C. Cost., sent. n. 345 del 1991), non può fondatamente tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata, riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo proprietario.
In ordine, infine, agli ulteriori profili di doglianza introdotti con la memoria del 16.05.2017, se ne deve rilevare l’inammissibilità in quanto introdotti con atto non notificato.
In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato perché infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.08.2017 n. 4096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe è innegabile che qualunque struttura sia utile a sostenere quella sovrastante, risulta parimenti evidente che il citato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 subordina il mantenimento dell’opera abusiva, ferma l’applicazione della sanzione pecuniaria, alla condizione che la rimozione dell’intervento pregiudichi la stabilità della porzione di fabbricato legittimamente costruita.
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Il citato art. 34 va interpretato, in modo coerente con la valenza derogatoria della disposizione rispetto alla regola generale della demolizione degli interventi e delle opere realizzati ”in difformità”, nel senso che la sanzione pecuniaria si applica soltanto se sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente impossibile» procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, per le sue conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio.
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Al riguardo è corretto, come osserva il Comune appellato, per avvalorare la difendibilità della scelta di non disporre una verificazione o una CTU, che in questa situazione la CTU o la verificazione sarebbero state un aggravamento istruttorio inutile, posto che le perizie prodotte dai ricorrenti non avevano in effetti accertato che la rimozione della chiusura al primo piano avrebbe pregiudicato la parte del fabbricato realizzata legittimamente, ma solo che tale chiusura esercitava un effetto benefico (un contributo migliorativo al comportamento dinamico della porzione di edificio legittima), senza però che della permanenza di tale chiusura si attestasse la necessità in termini strutturali.
Ora, se è innegabile che qualunque struttura sia utile a sostenere quella sovrastante, risulta parimenti evidente che il citato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 subordina il mantenimento dell’opera abusiva, ferma l’applicazione della sanzione pecuniaria, alla condizione che la rimozione dell’intervento pregiudichi la stabilità della porzione di fabbricato legittimamente costruita.
In definitiva, la valutazione compiuta in via amministrativa in ordine alla insussistenza dei presupposti per ammettere la proprietà al pagamento della sanzione pecuniaria in luogo della eliminazione della volumetria abusiva risulta essere stata formulata in maniera motivata e non irragionevole, e l’apprezzamento del primo giudice in ordine alla non ammissione della CTU o della verificazione risulta non irragionevolmente esercitato.
Del resto, il citato art. 34 va interpretato, in modo coerente con la valenza derogatoria della disposizione rispetto alla regola generale della demolizione degli interventi e delle opere realizzati ”in difformità”, nel senso che la sanzione pecuniaria si applica soltanto se sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente impossibile» procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, per le sue conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI, 09.04.2013 n. 1912) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.08.2017 n. 4013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, per giurisprudenza costante, va distinto l’interesse di fatto del vicino, del proprietario dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in qualità di parte necessaria del processo nella veste di controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino (o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
   - la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria sfera giuridica.
Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze processuali, ma dev'essere condotto sulla scorta o del c.d. elemento sostanziale (individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d. elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione); in conformità a ciò, il proprietario finitimo di un fabbricato, in ordine al quale sia stata ordinata la demolizione di una scala interna, non riveste una posizione giuridica di contro interesse nel giudizio instaurato per l'annullamento dell'ordinanza;
   - pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica;
   - se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione non sono normalmente configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la qualità di controinteressato in senso formale e quindi di contraddittore necessario nel processo amministrativo impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica.
In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di controinteressato in senso formale, cioè di (unico) contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

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9. – Va anzitutto scrutinata l’eccezione preliminare sollevata dalla parte intervenuta ad opponendum che sostiene la inammissibilità del ricorso perché alla stessa non notificaoa nella qualità di controinteressato.
L’eccezione non ha pregio.
Come è noto, per giurisprudenza costante, va distinto l’interesse di fatto del vicino, del proprietario dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in qualità di parte necessaria del processo nella veste di controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino (o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
   - la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria sfera giuridica. Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze processuali, ma dev'essere condotto sulla scorta o del c.d. elemento sostanziale (individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d. elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione); in conformità a ciò, il proprietario finitimo di un fabbricato, in ordine al quale sia stata ordinata la demolizione di una scala interna, non riveste una posizione giuridica di contro interesse nel giudizio instaurato per l'annullamento dell'ordinanza (così Cons. Stato, Sez. V, 03.07.1995 n. 991);
   - pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso. Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (così, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011 n. 3380);
   - se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione non sono normalmente configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (così, Cons. Stato, Sez. III, 12.12.2014 n. 6138).
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la qualità di controinteressato in senso formale e quindi di contraddittore necessario nel processo amministrativo impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica. In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di controinteressato in senso formale, cioè di (unico) contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del ricorso (cfr., in tal senso, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 11.01.2017 n. 12, TAR Marche, Sez. I, 11.12.2015 n. 871, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.12.2015 n. 1850, TAR Campania Napoli, Sez. VI, 03.03.2015 n. 1356 e TAR Liguria, Sez. I, 12.02.2015 n. 176).
Nel caso di specie, quindi, correttamente la Pe. ’90 non ha notificato il ricorso introduttivo (che è dunque ammissibile) al Signor Ca.Fe. e, altrettanto correttamente, quest’ultimo è intervenuto in giudizio
ad opponendum per poter illustrare nel corso del processo le proprie ragioni e valutazioni in ordine alla ammissibilità e fondatezza degli atti di gravame (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il diffusissimo orientamento giurisprudenziale, il ricorso proposto contro l’atto di accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale atto di accertamento della competente autorità amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione.

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13. – Passando ora ad esaminare i due ulteriori gravami proposti con ricorsi recanti entrambi motivi aggiunti, va segnalato come con il primo dei due mezzi di impugnazione la Pe. '90 ha chiesto l’annullamento dell’atto di accertamento di inottemperanza all’ordine di demolizione n. 95/2015, adottato dal Comune di Fiano Romano in data 11.04.2016 prot. n. 11401.
Con tale atto gli uffici comunali, dopo aver nuovamente ripercorso nella parte in premessa l’intera vicenda che, a partire dal rilascio del permesso di costruire n. 36 del 19.06.2008, aveva condotto, attraverso le già note peripezie giudiziarie, all’emanazione dell’ordinanza di demolizione n. 95 dell’01.10.2015, si limitavano:
   1) a ricordare come “in data 05/04/2016 al prot. 10808 è stata prodotta, dal Responsabile del Procedimento Geom. Br. Di Gi., puntuale relazione (allegata al presente atto) relativa al sopralluogo condotto in data 01/04/2016, dal quale si evince con certezza che il fabbricato oggetto di ordinanza 95/2015, distinto in catasto, con l'area di sua stretta pertinenza, al foglio 22, particella 1069, non è stato demolito, e che si è accertato inoltre che l'immobile è occupato da diverse famiglie”;
   2) a dare atto di avere accertato “ai sensi dell'art. 15 della L.R. 15/2008, l'inottemperanza all'Ordinanza n. 95 del 01/10/2015, attraverso la quale veniva disposta la demolizione con ripristino dello stato dei luoghi del fabbricato residenziale insistente sul terreno attualmente distinto in catasto al foglio 22, particella 1069, corrispondente alla superficie coperta del fabbricato stesso ed all'area di sua stretta pertinenza con complessiva consistenza pari a mq 800, constando il fabbricato di 13 appartamenti, ciascuno di consistenza tra 2,5 e 3 vani catastali, disposti su 5 livelli fuori terra”;
   3) ad avvisare che “tenuto conto dell'avvenuta ultimazione delle opere e della presenza di vincolo paesaggistico, il presente atto di accertamento dell'inottemperanza, previa notifica, costituisce, ai sensi dell'art. 15, comma 3, della L.R. 15/2008, titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; l'acquisizione, secondo quanto disposto dall'art. 15, comma 6, della L.R. 15/2008, avviene "... a favore dell'ente cui compete la -vigilanza sull'osservanza del vincolo ..." "... che procede alla demolizione delle opere abusive e al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso”;
   4) e nel contempo ad “applicare alla Pe. '90 spa, valutata l'entità delle opere, una sanzione pecuniaria pari a euro 18.000,00 (diciottomila/00) ai sensi dell'art. 15, c. 3, L.R. 15/2008, il quale prevede che "... l'accertamento dell'inottemperanza comporta, altresì, l'applicazione di una sanzione pecuniaria da un minimo di 2 mila euro ad un massimo di 20 mila euro, in relazione all'entità delle opere".
14. – Dei quattro punti sopra riprodotti, attraverso i quali si è ritenuto di scomporre per comodità l’atto impugnato con il primo ricorso recante motivi aggiunti dalla Pe. '90, i primi tre attengono ad un ordinario accertamento di inottemperanza all’ordine di ingiunzione a demolire n. 95 dell’01.10.2015 rispetto al quale va dichiarata la inammissibilità del gravame.
Sul punto è sufficiente richiamare il diffusissimo orientamento giurisprudenziale a mente del quale il ricorso proposto contro l’atto di accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale atto di accertamento della competente autorità amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione (cfr., tra le ultime, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 06.02.2017 n. 749, TAR Lazio, Sez. I, 04.05.2016 n. 5123 e TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, 13.05.2015 n. 458).
Ne deriva che in parte qua il primo ricorso recante motivi aggiunti è inammissibile per originaria carenza di interesse, in quanto prodotto avverso un verbale di accertamento di ottemperanza che, in quanto atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2017

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio ritiene di aderire all’orientamento, tuttora maggioritario, della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A., sicché in sede di emissione dell’ordinanza di demolizione non si richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
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Ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, l’art 31 del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e all’individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico, non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima della traslazione della proprietà.
Rimane salva, naturalmente, la facoltà di rivalsa del privato sul dante causa. Opinare diversamente consentirebbe di eludere in modo agevole la normativa edilizia, a danno del territorio e della collettività locale. 
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3.3. Infine, sulla necessità, o meno, di un obbligo motivazionale “rinforzato”, segnatamente in ordine all’esistenza e alla indicazione di un interesse pubblico attuale e concreto alla applicazione della sanzione demolitoria, anche in relazione a una comparazione di detto interesse con gli altri interessi coinvolti, questo Collegio di appello ritiene condivisibili le argomentazioni e le conclusioni alle quali è giunto il Tar.
La Sezione ben conosce l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, fermo il carattere dovuto dell’ingiunzione a demolire, in presenza della constatata realizzazione di un’opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso) e, in linea di principio, la sufficienza della motivazione limitata all’affermazione dell'accertata abusività dell'opera, la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi.
In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si ritiene che si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Tuttavia, con riferimento al caso di specie questo Collegio, come fondatamente osservato dal Tar, ritiene che l’orientamento suindicato non possa trovare applicazione.
Prima di tutto, e in termini generali, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento, tuttora maggioritario, della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A., sicché in sede di emissione dell’ordinanza di demolizione non si richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (così, ex multis, Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del 2014 e 6702 del 2012).
Nella fattispecie, l’ordinanza di demolizione irrogata alla società Ze. risulta sufficientemente motivata attraverso l’individuazione della struttura e delle sue caratteristiche, e mediante l’indicazione del carattere abusivo dell’intervento compiuto per l’assenza del necessario permesso di costruire, risultando così in re ipsa l’interesse pubblico ai corretti uso e gestione del territorio.
Per quanto riguarda il reiterato rilievo difensivo di parte appellante incentrato sull’assai lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto (tra l’altro, nemmeno da parte della ricorrente ma direttamente dal costruttore e comunque dal precedente proprietario e dante causa; e in disparte la soluzione da dare alla questione, non necessaria per decidere, sulla data effettiva della esecuzione dei lavori oggetto dell’ordinanza di demolizione), e l’emissione dell’ordinanza impugnata, tale elemento non assume rilievo nel senso prospettato dalla società appellante e ciò perché non risulta comprovato che il Comune fosse sin da epoca risalente a conoscenza dell’abuso commesso –si sostiene- negli anni 1963-1965, durante la costruzione del fabbricato.
Neppure risulta comprovata la conoscenza dell’abuso, da parte del Comune, con riferimento alla data della presentazione della istanza di sanatoria.
E’ esatto infatti quanto afferma la difesa civica e, cioè, che il Comune ha attivato il procedimento di repressione dell’abuso edilizio –illecito permanente- non appena la società ha rinunciato alla istanza di sanatoria, il che è avvenuto nel giugno del 2014, come risulta in atti.
Tra l’istanza di archiviazione della sanatoria e l’adozione della misura repressiva impugnata in primo grado, datata 27.04.2015, è dunque trascorso meno di un anno (senza considerare che l’avviso di avvio del procedimento di repressione dell’abuso edilizio è stato consegnato alla società Ze. il 16.02.2015), periodo di tempo, come appare evidente, tale da non far sorgere in capo al privato un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva o, perlomeno, tale da subordinare la legittimità dell’ingiunzione di demolizione a una motivazione rinforzata sull’interesse pubblico prevalente alla demolizione della struttura.
Sul punto vanno aggiunte altre due considerazioni.
La prima attiene al fatto che il fabbricato ricade in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. d.m. 14.12.1959, recante dichiarazione di notevole interesse pubblico del complesso insulare di Chioggia; cfr., ora, l’art. 157, lett. c), del t.u. n. 42 del 2004; v. anche l’art. 167 del t.u. cit., oltre a essere posta all’interno della conterminazione lagunare – l. n. 366 del 1963), e in tale ipotesi la prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato è comunque da considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost. (sulla tutela del paesaggio inserita dall’art. 9 Cost. tra i propri principi fondamentali, così da assurgere a valore primario o assoluto, si può fare rinvio a Corte cost., n. 367/07), sicché sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 4610 del 2012).
La seconda annotazione riguarda la legittimazione passiva della società Ze. rispetto all’ordine di demolizione, e si collega con il profilo di censura d’appello basato sulla affermata, omessa considerazione dell’affidamento della società ricorrente in ordine alla “legittimità” dell’immobile acquistato.
Il Collegio –in disparte le considerazioni difensive comunali che inducono a dubitare della fondatezza della tesi della buona fede di parte appellante in quanto nuova proprietaria; e precisato che la circolare comunale del 29.01.2008 si riferiva agli interventi edilizi realizzati prima del 1967 al di fuori del centro abitato, mentre l’edificio in esame rientra nel centro abitato, fatto coincidere con il perimetro individuato dal d.m. del 14.12.1959-, ritiene che la legittimazione passiva non sia esclusa per il fatto che la realizzazione dell’abuso sia avvenuta, come si sostiene, prima dell’acquisto della proprietà da parte della ricorrente.
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, infatti, l’art 31 del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e all’individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico, non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima della traslazione della proprietà (cfr. Consiglio di Stato, VI, n. 3210 del 2017; V, n. 40 del 2007).
Rimane salva, naturalmente, come il Comune appellato non manca di rilevare, la facoltà di rivalsa del privato sul dante causa.
Opinare diversamente consentirebbe di eludere in modo agevole la normativa edilizia, a danno del territorio e della collettività locale.
In conclusione, non sussistono né il difetto di motivazione e neppure la carenza di istruttoria rilevati nell’atto di appello che, dunque, va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2017 n. 3789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua divisione in tre ambienti e bagno”, sicché deve ritenersi che tali difformità non possano qualificarsi quali interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire e, pertanto, rientranti nell’ambito di applicazione del suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001.
Ciò in quanto il concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza.

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L’applicazione della sanzione demolitoria deve ritenersi doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, per il risolutivo rilievo che l’area sulla quale insiste l’immobile oggetto dell’intervento per cui è causa è soggetta a vincolo paesistico in quanto, come disposto dall’art. 32, comma 3, del medesimo D.P.R., qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi del suddetto art. 31, comma 1.
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32, comma 1, lettera a) e comma 3.
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Quanto alla parte del provvedimento con il quale è stata disposta la demolizione delle opere abusive occorre evidenziare che, come sostenuto dal Comune resistente, il provvedimento sanzionatorio risulta adottato sulla base di una pluralità di motivazioni e non solo sulla base della riscontrata insufficienza della qualità di locatario di parte ricorrente e, pertanto, non può ritenersi meramente consequenziale all’annullamento del suddetto titolo edilizio del 2001.
Ed invero nel provvedimento impugnato il Comune di Caserta dà innanzitutto atto della realizzazione di opere realizzate in difformità dall’autorizzazione edilizia n. 126/2001, oggetto di accertamento da parte di un tecnico comunale congiuntamente alla squadra di Polizia Edilizia VV.UU., nonché oggetto dell’ordinanza di sospensione dei lavori richiamata nel medesimo provvedimento, in riferimento alle quali parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura né ha provato, come era suo onere, trattandosi di prova rientrante nella sua piena disponibilità, ai sensi dell’art. 64 c.p.a., che tali opere corrispondessero a quelle oggetto della concessione edilizia in sanatoria del 27.12.2001; parte ricorrente non ha infatti prodotto tale richiesta di sanatoria, né il relativo progetto e la relazione tecnica.
Inoltre, premesso che, come specificato dal Comune anche nelle memorie difensive, nel provvedimento prot. n. 6065 del 27.01.2004, oggetto di impugnazione, si dà anche atto che la zona su cui insiste l’immobile è soggetta a vincolo paesistico e che sul punto è intervenuta la nota del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 14.02.2002, occorre rilevare che anche in riferimento a tali circostanze parte ricorrente non ha dedotto alcuna censura.
In riferimento alla disposta demolizione parte ricorrente si è limitata a richiamare l’applicazione dell’art. 34 del DPR n. 380/2001 che prevede, per gli interventi edilizi realizzati in difformità dal titolo concessorio, l’alternatività tra la rimozione e/o l’applicazione di una sanzione pecuniaria raddoppiata al costo di costruzione.
Al riguardo, premesso che il Comune di Caserta nel provvedimento impugnato, dopo aver elencato le opere realizzate in difformità dall’autorizzazione edilizia in possesso di parte ricorrente, ha rappresentato che le opere realizzate hanno determinato “una trasformazione prospettica ed un cambio di destinazione d’uso del sottotetto con la sua divisione in tre ambienti e bagno”, deve ritenersi che tali difformità non possano qualificarsi quali interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire e, pertanto, rientranti nell’ambito di applicazione del suddetto art. 34 del DPR n. 380/2001. Ciò in quanto il concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi tra le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza (cfr. TAR Napoli Sez. VIII, 04.09.2015, n. 4338), circostanze non ravvisabili nella fattispecie oggetto di gravame.
Inoltre, l’applicazione della sanzione demolitoria deve ritenersi doverosa, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001, per il risolutivo rilievo che l’area sulla quale insiste l’immobile oggetto dell’intervento per cui è causa è soggetta a vincolo paesistico, circostanza questa non contestata da parte ricorrente, in quanto, come disposto dall’art. 32, comma 3, del medesimo D.P.R., qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi del suddetto art. 31, comma 1 (cfr. TAR Napoli, Sez. IV, 09.01.2014, n. 96).
Ed invero l’art. 32, comma 3, nel testo applicabile, ratione temporis, alla fattispecie per cui è causa, dispone: “3. Gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali.”
Il precedente comma 1, richiamato dal comma 3 del medesimo art. 32, a sua volta, prevede: “1. Fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell'articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali
.”
Più specificatamente, considerato che nella fattispecie oggetto di gravame è stato accertato, tra l’altro, un cambio di destinazione d’uso del sottotetto, mutamento di destinazione d’uso che ha comportato una variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968, l’intervento deve ritenersi realizzato in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32, comma 1, lettera a) e comma 3.
Conclusivamente, alla luce dei su esposti motivi, il ricorso deve ritenersi fondato limitatamente alla parte del provvedimento che dispone l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 126/2001 e, pertanto, va accolto per quanto di ragione di parte ricorrente, mentre deve ritenersi, infondato e, pertanto, va respinto relativamente alla parte del provvedimento con cui si dispone la demolizione delle opere abusive (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.07.2017 n. 3941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di costruzione abusiva - Cessazione con il totale esaurimento dell'attività illecita - Nozione di "ultimazione" dell'edificio - Requisiti di agibilità o abitabilità - Concetto unitario di costruzione e valutazione di un'opera edilizia abusiva - Opera realizzata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Giurisprudenza.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale esaurimento dell'attività illecita e, quindi, soltanto quando siano terminati i lavori di rifinitura (Sez. 3, n. 3183 del 18/01/1984, con richiamo a numerosi precedenti conformi, nonché, più recentemente, Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, secondo cui deve ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali) ovvero, se precedente, con il provvedimento di sequestro, che sottrae all'imputato la disponibilità di fatto e di diritto dell'immobile (Sez. 3, n. 5654 del 16/03/1994).
Sicché, in virtù del concetto unitario di costruzione la valutazione di un'opera edilizia abusiva va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, Prevosto; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2001, Forte; nello stesso senso, Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato).
Gli stessi principi valgono per il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, che ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Sez. 3, n. 40265 del 26/05/2015, Amitrano; Sez. 3, n. 28934 del 26/03/2013, Borsani; Sez. 3, n. 16393 del 17/02/2010, Cavallo; Sez. 3, n. 28338 del 30/04/2003, Grilli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.07.2017 n. 36605 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione dell'opera abusiva - Efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del condannato - Natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio - Giurisprudenza - Art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione dell'opera abusiva, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo del territorio, provvedimenti amministrativi con esso assolutamente incompatibili (Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Curcio); (sulla natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, Cass. Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2017 n. 34550 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che il responsabile del competente ufficio comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso […] ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che verrà acquisita di diritto, ai sensi del comma 3>>.
Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali che non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità amministrativa. Pertanto, una volta accertata la realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio, l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione, indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza; e una volta accertata, l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio comunale.
Sicché, in applicazione delle norme illustrate, il Comune non poteva far altro che ingiungerne la demolizione, senza obbligo di effettuare alcuna comparazione degli interessi coinvolti, né alcuna valutazione circa la sanzione appropriata da applicare.

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13. Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto, a dire delle ricorrenti, l’Amministrazione, prima di applicare la sanzione demolitoria, prevista da tale norma, avrebbe dovuto avrebbe dovuto valutare la gravità dell’illecito ed avrebbe dovuto dar conto delle risultanze di tale valutazione nel corpo motivazionale del provvedimento.
14. Con il terzo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 giacché, secondo le interessate, l’Amministrazione avrebbe dovuto illustrare nell’atto impugnato le ragioni di interesse pubblico che l’hanno indotta a prevedere l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
15. Infine con il quarto motivo, viene dedotto il vizio di eccesso di potere per violazione dei principi di legalità, imparzialità, trasparenza e ragionevolezza non avendo l’Amministrazione effettuato una corretta comparazione degli interessi coinvolti.
16. Anche queste censure sono infondate per le ragioni di seguito esposte.
17. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che il responsabile del competente ufficio comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso […] ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che verrà acquisita di diritto, ai sensi del comma 3>>.
18. Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
19. Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali che non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità amministrativa. Pertanto, una volta accertata la realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio, l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione, indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza; e una volta accertata, l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio comunale.
20. Ciò premesso che, nel caso di specie, come visto, è stata realizzata un’opera senza titolo (peraltro di non trascurabili dimensioni); sicché, in applicazione delle norme illustrate, il Comune di Uboldo non poteva far altro che ingiungerne la demolizione, senza obbligo di effettuare alcuna comparazione degli interessi coinvolti, né alcuna valutazione circa la sanzione appropriata da applicare.
21. Ne consegue, che come anticipato, tutte le censure in esame non possono essere condivise.
22. Per queste ragioni il ricorso va respinto (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 04.07.2017 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2017

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, il Foia all'angolo. Dopo la denuncia niente accesso per avere i documenti. Il garante privacy sul Freedom of information act: possibile agire in base alla legge 241/1990.
Strada sbarrata al Foia nelle pratiche di abusivismo edilizio. Chi denuncia una difformità della costruzione (ad esempio un ampliamento in difformità dal piano regolatore nella casa del proprio vicino) non può invocare l'accesso civico generalizzato (dlgs 33/2013) per avere dall'ufficio tecnico comunale le copie dell'eventuale procedimento edilizio di accertamento dell'abuso.
Non si può neanche avere copia dell'atto iniziale del procedimento di ispezione edilizia (comunicazione di avvio del procedimento).

È quanto precisato dal garante della privacy, con il provvedimento 28.06.2017 n. 295, reso noto solo ora, con il quale l'autorità di settore ha dato parere negativo all'accesso generalizzato.
Al massimo chi denuncia può cercare di avere le copie in base a un altro tipo di accesso, quello documentale disciplinato dalla legge 241/1990, ma deve dimostrare di avere un interesse diretto, concreto e attuale.
E, a questo proposito, aggiungiamo che non basta la curiosità di sapere come si è mosso l'ufficio comunale.
Nel caso specifico un cittadino ha segnalato all'ufficio tecnico comunale un presunto abuso edilizio commesso dal vicino e, in seguito, ha chiesto copia degli atti del comune per vedere che fine aveva fatto la propria denuncia.
Essendoci un potenziale conflitto con la privacy del denunciato, il responsabile della trasparenza di un comune ha chiesto al garante il parere previsto dall'articolo 5, comma 7, del dlgs n. 33/2013.
Tra l'altro il cittadino in questione ha presentata una richiesta di accesso agli atti, senza precisare se si trattava di una richiesta di accesso documentale, ai sensi della legge n. 241/1990 oppure di accesso civico (Foia) ai sensi dell'articolo 5 del dlgs n. 33/2013.
E il comune ha applicato promiscuamente sia le regole dell'accesso documentale sia quelle dell'accesso del Foia.
In ogni caso la persona denunciata (controinteressato) si è opposta all'accesso, sottolineando che gli atti riguardano esclusivamente la propria sfera personale e privata.
Il comune ha accolto l'accesso limitatamente a un unico documento, e cioè alla copia della comunicazione di avvio del procedimento. Per gli altri documenti il comune ha fatto rinvio ad altri enti competenti per il procedimento.
Per la cronaca la pratica di abuso edilizio è stata archiviata e cioè alla denuncia non è seguita nessuna sanzione.
Il controinteressato non è rimasto soddisfatto e ha chiesto il riesame contestando l'accoglimento parziale della richiesta (in sostanza riteneva non dovesse essere fornita neanche la copia della comunicazione di avvio del procedimento).
La vicenda è, quindi, approdata all'ufficio del garante, che, innanzi tutto, ha criticato la condotta del comune, in quanto ha confuso due distinti istituti: l'accesso civico e l'accesso documentale.
Sulla base di questo rilievo si nota che i comuni, in caso di dubbio, dovranno immediatamente chiedere precisazioni a chi fa una domanda generica di accesso, e questo per impostare correttamente fin dall'inizio la pratica: il richiedente deve prendere posizione, anche se non è da escludersi che si faccia una richiesta multipla, invocando diverse normative.
In ogni caso accesso documentale (legge 241/1990) e accesso civico generalizzato (dlgs 33/2013 noto come Foia) costituiscono procedimenti diversi, ai quali si applicano diversi termini, limiti e strumenti di ricorso e revisione.
Comunque il garante non si è limitato a rilievi procedurali e ha ritenuto di pronunciare il suo parere a fronte dell'importanza della questione.
Al garante, in effetti, la legge chiede di valutare se, nel caso singolo, l'accesso civico comporti un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali (dlgs n. 33/2013, articolo 5-bis, comma 2, lett. a).
Se la risposta è sì, l'accesso civico generalizzato va negato. Come è successo nella vicenda in esame.
Ebbene, il garante ha ritenuto che la conoscenza dei dati personali, anche quelli contenuti nella copia della comunicazione di avvio del procedimento, attivato a seguito della denuncia per opere edilizie abusive da parte di altro soggetto, potrebbe integrare, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui le informazioni fornite possono essere utilizzate da terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali previsto dall'articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del dlgs n. 33/2013.
Tradotto gli atti del fascicolo della pratica di abuso edilizio non si possono conoscere con l'istituto del Foia, che è riservato alle richieste di copia da parte di chi non ha un interesse diretto rispetto agli atti stessi, senza necessità di esprimere una motivazione all'accesso.
Resta, in ogni caso, salva la possibilità per il denunciante l'abuso di avere copia del documento, ma solo in base alla legge 241/1990 e, pertanto, solo se dimostra l'esistenza di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso (articolo 22 della legge n. 241/1990) (articolo ItaliaOggi del 22.08.2017).
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MASSIMA
La disciplina di settore contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 prevede che «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis» (art. 5, comma 2).
Ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico, è previsto che «l'Autorità nazionale anticorruzione, d'intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, adott[i] linee guida recanti indicazioni operative» (art. 5-bis, comma 6).
In proposito, l'Autorità Nazionale Anticorruzione-ANAC, d'intesa con il Garante, ha approvato le citate «Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all'art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013» (in G.U. Serie Generale n. 7 del 10/01/2017. Cfr. anche Provvedimento del Garante recante «Intesa sullo schema delle Linee guida ANAC recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico» n. 521 del 15/12/2016, in www.gpdp.it, doc. web n. 5860807.
Nelle predette Linee guida è specificato, fra l'altro, che «L'accesso generalizzato deve essere anche tenuto distinto dalla disciplina dell'accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 (d'ora in poi "accesso documentale"). La finalità dell'accesso documentale ex l. 241/1990 è, in effetti, ben differente da quella sottesa all'accesso generalizzato ed è quella di porre i soggetti interessati in grado di esercitare al meglio le facoltà –partecipative e/o oppositive e difensive– che l'ordinamento attribuisce loro a tutela delle posizioni giuridiche qualificate di cui sono titolari. […] Tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel caso dell'accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all'operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni» (par. 2.3. Cfr. anche TAR Roma, Lazio, sez. III, 21/03/2017, n. 3742).
Con particolare riferimento al caso sottoposto all'attenzione del Garante, risulta che la richiesta di accesso agli atti aveva a oggetto documenti attinenti a un procedimento amministrativo e che, considerando il contenuto della notifica inviata al controinteressato, il Comune ha istruito la richiesta di accesso agli atti come istanza formulata ai sensi della l. n. 241/1990 –cosa che ha portato il controinteressato a invocare l'inesistenza dell'interesse qualificato dell'istante–, salvo poi aver riscontrato l'istanza di accesso richiamando la disciplina e i limiti sia in materia di accesso ai documenti amministrativi ai sensi della l. 241/1990, che in materia di accesso civico ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013.
Nel caso sottoposto all'attenzione del Garante, pertanto, contrariamente a quanto affermato nelle citate Linee guida dell'ANAC, l'amministrazione destinataria dell'istanza non ha tenuto distinta la disciplina dell'accesso civico (d.lgs. n. 33/2013) da quella dell'accesso ai documenti amministrativi (l. 241/1900), confondendo i relativi piani.
Pertanto, richiamando in ogni caso l'attenzione del Comune sulla necessità di rispettare i diversi procedimenti previsti dalle singole normative di settore che regolano gli istituti richiamati (accesso documentale e accesso civico) –ai quali, peraltro, si applicano diversi termini, limiti e strumenti di ricorso e revisione– si ritiene opportuno fornire le seguenti indicazioni, atteso il carattere rilevante della questione, e considerando, fra l'altro, che il controinteressato ha presentato richiesta di riesame del provvedimento di accoglimento parziale ai sensi dell'art. 5, comma 9, del d.lgs. n. 33/2013.
Nel procedimento relativo alle richieste di accesso civico, è previsto che «Nei casi di accoglimento della richiesta di accesso, il controinteressato può presentare richiesta di riesame […]» e che il Garante sia sentito dal responsabile della prevenzione della corruzione nel caso di richiesta di riesame laddove l'accesso generalizzato sia stato negato o differito per motivi attinenti alla tutela della «protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia» (artt. 5, commi 7 e 9; 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013).
Per i profili di competenza di questa Autorità, si evidenzia che per «dato personale» si intende «qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale» (art. 4, comma 1, lett. b), del Codice).
Ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, si ricorda che l'accesso civico può essere rifiutato, fra l'altro, «se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela [della] protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia» (art. 5-bis, comma 2, lett. a)).
Al riguardo, si rappresenta che
la «disciplina in materia di protezione dei dati personali prevede che ogni trattamento –quindi anche una comunicazione di dati personali a un terzo tramite l'accesso generalizzato– deve essere effettuato "nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale […]", ivi inclusi il diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, all'oblio, nonché i diritti inviolabili della persona di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Nel quadro descritto, anche le comunicazioni di dati personali nell'ambito del procedimento di accesso generalizzato non devono determinare un'interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà delle persone cui si riferiscono tali dati ai sensi dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dell'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e della giurisprudenza europea in materia» (Linee guida ANAC, cit., par. 8 intitolato «I limiti derivanti dalla protezione dei dati personali»).
Si evidenzia, inoltre, che «
Ai fini della valutazione del pregiudizio concreto, vanno prese in considerazione le conseguenze –anche legate alla sfera morale, relazionale e sociale– che potrebbero derivare all'interessato (o ad altre persone alle quali esso è legato da un vincolo affettivo) dalla conoscibilità, da parte di chiunque, del dato o del documento richiesto, tenuto conto delle implicazioni derivanti dalla previsione di cui all'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013 […]. Tali conseguenze potrebbero riguardare, ad esempio, future azioni da parte di terzi nei confronti dell'interessato, o situazioni che potrebbero determinare l'estromissione o la discriminazione dello stesso individuo, oppure altri svantaggi personali e/o sociali. In questo quadro, può essere valutata, ad esempio, l'eventualità che l'interessato possa essere esposto a minacce, intimidazioni, ritorsioni o turbative al regolare svolgimento delle funzioni pubbliche o delle attività di pubblico interesse esercitate, che potrebbero derivare, a seconda delle particolari circostanze del caso, dalla conoscibilità di determinati dati» (ivi).
Nel merito, deve essere in generale ricordato che la normativa di settore prevede che «Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico […] sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell'articolo 7», sebbene il loro ulteriore trattamento vada in ogni caso effettuato nel rispetto dei limiti derivanti dalla normativa in materia di protezione dei dati personali (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013).
Si evidenzia, inoltre, che, come indicato anche nelle citate Linee guida dell'ANAC, l'accesso "generalizzato" è servente rispetto alla conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013) (cfr. par. 8.1).
Di conseguenza,
quando l'oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'ente destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell'interessato (ivi).
In tale quadro, allo stato degli atti e ai sensi della normativa vigente, nel caso sottoposto all'attenzione del Garante,
si ritiene che la conoscenza dei dati personali contenuti nella «copia della comunicazione di avvio del procedimento» attivato a seguito della denuncia dell'istante per opere edilizie realizzate in difformità alla normativa vigente da parte di altro soggetto (procedura peraltro archiviata dal Comune destinatario dell'accesso), unita al citato regime di pubblicità degli atti oggetto dell'accesso civico, potrebbe integrare, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui le informazioni fornite possono essere utilizzate da terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali previsto dall'art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013.
Resta, in ogni caso, salva la possibilità per l'istante di accedere al predetto documento, laddove dimostri l'esistenza di «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso», ai sensi degli artt. 22 ss. della l. n. 241 del 07/08/1990.

EDILIZIA PRIVATANon c'è dubbio che la nozione di privata dimora sia più ampia di quella di abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma. L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato" a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
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1. La soluzione della questione controversa sottoposta alle Sezioni Unite ("Se, ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen., i luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di privata dimora") comporta che venga correttamente definita la nozione di "privata dimora".
A tale nozione si fa riferimento non solo nell'art. 624-bis, ma anche in altre norme, sia di carattere sostanziale (artt. 614, 615, 615-bis, 624-bis, 628, terzo comma, n. 3-bis, 52, secondo comma, cod. pen.), sia di carattere processuale (art. 266, comma 2, cod. proc. pen.).
L'orientamento maggioritario, richiamato nell'ordinanza di rimessione, partendo dalla considerazione che il concetto di privata dimora sia più ampio di quello di abitazione, ne dà una interpretazione estensiva, tanto da ricomprendervi tutti i luoghi, non pubblici, nei quali le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata.
Si è ritenuto, pertanto, configurabile il delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen. in ordine al furto commesso:
   - all'interno di un ristorante in orario di chiusura (Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283);
   - in un bar-tabacchi in orario di chiusura (Sez. 5, n. 6210 del 24/11/2015, Tedde, Rv. 265875);
   - all'interno di un cantiere edile allestito nel cortile di un immobile in cui erano in corso lavori di ristrutturazione (Sez. 5, n. 2768 del 01/10/2014, Baldassin, Rv. 262677);
   - all'interno di un'edicola (Sez. 5, n. 7293 del 17/12/2014, Lattanzio, Rv. 262659);
   - in uno studio odontoiatrico (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio, Rv. 249850);
   - in una farmacia durante l'orario di apertura (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009, Apprezzo, Rv. 244980);
   - all'interno di un ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5, n. 22725 del 05/05/2010, Dunca, Rv. 247969);
   - in una baracca di un cantiere edile adibito a spogliatoio (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010, Truzzi, Rv. 248356).
Della nozione di "privata dimora" si è data una interpretazione ancora più ampia in tema di rapina, ritenendo sussistente la circostanza aggravante prevista dall'art. 628, terzo comma, n. 3-bis, cod. pen., nell'ipotesi in cui la condotta delittuosa venga commessa, nell'area aperta al pubblico, nei confronti dei clienti di un istituto di credito (Sez. 2, n. 28405 del 05/04/2012, Foglia, Rv. 253413), o all'interno di un supermercato durante l'orario di apertura (Sez. 2, n. 24761 del 12/052015, Porcu, Rv. 264383).
2. Secondo tale indirizzo, cui si richiama anche la sentenza impugnata, gli elementi identificativi del luogo di privata dimora sarebbero uno di carattere strutturale (vale a dire l'astratta possibilità di inibire l'accesso al pubblico attraverso dispositivi di sbarramento, quali portoni, saracinesche o altri meccanismi; senza escludere che, in determinate ore del giorno, sia liberamente consentito detto accesso) e l'altro di carattere funzionale (la natura privata, cioè, dell'attività che vi si svolge; specificandosi che atti della vita privata non sono soltanto quelli della vita intima o familiare, ma anche quelli dell'attività professionale o lavorativa, o quelli posti in essere a contatto con altri soggetti, quali l'acquisto di merce in un supermercato, la fruizione di una prestazione professionale, il compimento di operazioni bancarie).
2.1. Ritiene il Collegio che l'ampliamento della nozione, propugnato dall'indicato orientamento, contrasti sia con il dato letterale sia con la ratio e la interpretazione sistematica della norma.
Non c'è dubbio che la nozione di privata dimora sia più ampia di quella di abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma. L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato" a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
2.2. L'indirizzo interpretativo sopra richiamato, inoltre, nel dare rilievo al "luogo in sé", si limita a far riferimento allo svolgimento in esso di atti della vita privata, siano essi lavorativi, professionali o di altro genere, senza ulteriori approfondimenti.
Si ritiene, cioè, configurabile il reato di furto in abitazione, disciplinato dall'art. 624-bis cod. pen., tutte le volte in cui l'azione delittuosa venga commessa in un luogo nel quale si svolgano atti della vita privata, a prescindere dall'orario e dalla presenza di persone (tra le altre, Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283; Sez. 5, n. 6210 del 24/11/2015, Tedde, Rv. 265875; Sez. 5, n. 428 del 30/06/2015, Feroleto, Rv. 265694).
In altre decisioni, invece, rendendosi evidentemente conto della portata troppo estensiva, nella interpretazione della norma, del generico riferimento ai luoghi in cui si svolgano atti della vita privata, si cerca di delimitarne l'applicazione.
Si afferma, invero, che non commette il reato di furto in abitazione il soggetto che si introduca all'interno di un esercizio commerciale in orario notturno, trattandosi di un locale non adibito a privata dimora in ragione del mancato svolgimento di attività commerciali che caratterizza le ore di chiusura (Sez. 4, n. 11490 del 24/01/2013, Pignalosa, Rv. 254854).
Secondo altre pronunce il criterio discretivo da applicare è rappresentato dall'accertamento della prevedibile presenza di persone nel luogo di svolgimento di atti della vita privata, a prescindere dall'orario (notte o giorno) e dalla chiusura o meno dell'esercizio (Sez. 5, n. 10747 del 17/11/2015, Casalanguida, Rv. 267560; Sez. 5, n. 18211 del 10/03/2015, Hadovic, Rv. 263458; Sez. 5, n. 55040 del 20/10/2016, Rover, Rv. 268409; Sez. 4, n. 12256 del 26/01/2016, Cisulli, Rv. 266701; Sez. 5, n. 10440 del 21/12/2015, Fernandez, Rv. 266807).
Tali soluzioni risultano non condivisibili, in quanto si fa dipendere l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più grave (previsto dal legislatore per il reato di furto in abitazione, al fine di apprestare una più intensa tutela al luogo in cui l'azione delittuosa viene commessa) da elementi estranei alla fattispecie e, per di più, vaghi, incerti ed accidentali (di carattere temporale o di effettivo esercizio dell'attività ivi svolta).
L'esigenza di maggior tutela dei luoghi destinati a privata dimora non viene meno solo perché il furto è commesso in orario notturno o diurno, in orario di apertura o di chiusura, oppure in presenza o in assenza di persone.
E' stato, in proposito, incisivamente osservato che lo "spostamento del baricentro della previsione normativa dal luogo del commesso reato al momento della consumazione" determinerebbe una inaccettabile "tutela ad intermittenza" (Sez. 5, n. 428 del 2015, cit.).
2.3. Che il luogo destinato a privata dimora debba avere determinate "caratteristiche", che non possono essere certamente quelle del mero svolgimento in esso di atti della vita privata, è confermato dal dato sistematico nella sua evoluzione.
Il Codice Zanardelli faceva riferimento, in ordine al reato di violazione di domicilio (art. 157), «all'abitazione altrui o alle appartenenze di essa».
Dopo però che la dottrina maggioritaria, sotto la vigenza di quel codice, aveva già ritenuto che il termine abitazione andasse interpretato estensivamente come ogni luogo adibito ad uso domestico, nel quale si fossero compiuti atti caratteristici della vita privata, il codice Rocco, nell'art. 614, introduceva la nozione di "altro luogo di privata dimora", affiancandola a quella di abitazione, e nella Relazione si precisava che la tutela apprestata dalla norma riguardava «tutti i luoghi che servano, in modo permanente o transitorio, alla esplicazione della vita privata».
Per il reato di furto la tutela (più intensa in termini di trattamento sanzionatorio) rimaneva, però, limitata alla sola abitazione: l'art. 625, primo comma, n. 1, cod. pen., prevedeva, infatti, come circostanza aggravante, «se il colpevole, per commettere il furto, si introduce o si trattiene in un edificio o in altro luogo destinato ad abitazione».
Con la legge 26.03.2001, n. 128, venne inserito nel codice penale l'art. 624-bis. Previa abrogazione dell'art. 625, primo comma, n. 1, cod. pen., è stata introdotta una ipotesi autonoma di reato definita in rubrica come "Furto in abitazione e furto con strappo", con l'evidente scopo di ampliare la tutela penale non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche personale.
E ciò è tanto vero che l'approvazione della legge n. 128 del 2001 era stata preceduta dalla presentazione al Parlamento, da parte del Governo, del disegno di legge n. 5925, nel quale il reato di furto in abitazione, attraverso la previsione nel codice penale di un art. 614-bis, era stato inserito nel Libro II, Titolo XII ("Delitti contro la persona"), al fine di rafforzare «la tutela del domicilio non tanto nella sua consistenza oggettiva, quanto nel suo essere proiezione spaziale della persona, cioè ambito primario ed imprescindibile alla libera estrinsecazione della personalità individuale».
Tale originaria impostazione non poteva non riflettersi nella formulazione del "nuovo" art. 624-bis, pur mantenendosi la collocazione dello stesso nei reati contro il patrimonio.
Si è visto già come, a fronte della rubrica che fa riferimento al furto in abitazione, il testo normativo ricomprende qualsiasi luogo destinato in tutto in parte a privata dimora o nelle pertinenze di esso.
L'ampliamento dell'ambito di applicabilità della "nuova" fattispecie anche a luoghi che non possano considerasi abitazione in senso stretto risulta dettato, da un lato, dalla necessità di superare le incertezze manifestatesi in giurisprudenza in ordine alla definizione della nozione di abitazione e, dall'altro, di tutelare l'individuo anche nel caso in cui compia atti della sua vita privata al di fuori dell'abitazione.
Deve, però, trattarsi, come si evince dalla ratio della norma, di luoghi che abbiano le stesse caratteristiche dell'abitazione, in termini di riservatezza e, conseguentemente, di non accessibilità, da parte di terzi, senza il consenso dell'avente diritto.
2.4. Tale interpretazione della norma è conforme ai principi enucleabili dalla giurisprudenza costituzionale in tema di privata dimora.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere le questioni di costituzionalità sollevate in relazione all'art. 266, comma 2, cod. proc. pen. con riferimento alle intercettazioni eseguite «nei luoghi indicati dall'art. 614 del codice penale», vale a dire nell'abitazione o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi.
E, per stabilire se detti luoghi avessero la copertura dell'art. 14 Cost., il Giudice delle leggi ne ha individuato ambito, limiti e caratteristiche.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 135 del 2002, evidenziava che il domicilio, cui fa riferimento l'art. 14 Cost., viene in rilievo «nel panorama dei diritti fondamentali di libertà come proiezione spaziale della persona, nella prospettiva di preservare da interferenze esterne comportamenti tenuti in un determinato ambiente: prospettiva che vale, per altro verso, ad accomunare la libertà in parola a quella di comunicazione (art. 15 Cost.), quali espressioni salienti di un più ampio diritto alla riservatezza della persona».
Nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità sollevata, la Corte costituzionale, con la sentenza sopra indicata, dopo aver inquadrato la libertà domiciliare nel sistema delle libertà fondamentali, sottolineava che il problema di costituzionalità si poneva con riferimento a forme di «intrusione nel domicilio in quanto tale», avendo la libertà di domicilio «una valenza essenzialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da interferenze esterne, pubbliche o private, determinati luoghi in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo».
Tali principi venivano ancor di più rimarcati nella sentenza n. 149 del 2008.
Il Giudice delle Leggi osservava, infatti, che la tutela del domicilio prevista dall'art. 14 Cost. viene in rilievo sotto due aspetti: «come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi».
Perché sia operativa la tutela costituzionale del domicilio è necessario, quindi, che si tratti di un luogo in cui sia inibito l'accesso ad estranei e sia tale da garantire la riservatezza ovvero la impossibilità di essere "percepito" dall'esterno anche senza necessità di una intrusione fisica. Laddove, invece, il luogo sia accessibile visivamente da chiunque, venendo meno la caratteristica della riservatezza, si rimane fuori «dall'area di tutela prefigurata dalla norma costituzionale de qua».
2.5. Gli elementi, delineati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti il "domicilio" e ritenuti indefettibili per garantire la copertura costituzionale dell'art. 14 Cost., si rinvengono anche nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234269.
Dopo aver premesso che la nozione di domicilio di cui all'art. 14 Cost. è più estesa di quella ricavabile dall'art. 614 cod. pen., le Sezioni Unite sottolineano che, quale che sia il rapporto tra le due disposizioni, «il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza».
Non c'è dubbio che «il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona ed il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive,  indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia questo o meno presente».
Sulla base di tali considerazioni le Sezioni Unite introducono, come elemento caratterizzante la nozione di privata dimora, il requisito della stabilità, «perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità».
2.6. La interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale sopra richiamate e dalla sentenza Prisco delle Sezioni Unite, consente di delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi:
   a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
   b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
   c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare.
3. Non resta che applicare le linee tracciate in precedenza in relazione alla nozione di privata dimora, contenuta nell'art. 624-bis cod. pen., ai luoghi di lavoro.
E' indiscutibile che nei luoghi di lavoro il soggetto compia atti della vita privata. Ma ciò non è sufficiente, come invece ritiene l'indirizzo interpretativo maggioritario, per affermare che tali luoghi rientrino nella nozione di privata dimora e che, per i reati di furto in essi commessi, trovi applicazione la norma rubricata come furto in abitazione (con conseguente tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio).
I luoghi di lavoro, generalmente, sono accessibili ad una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell'avente diritto: ad essi è quindi estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per definizione, alla "intrusione" altrui. Si pensi agli esercizi commerciali o agli studi professionali o agli stabilimenti industriali accessibili a un numero indeterminato di persone, che possono pertanto prendere contatto (e non solo visivo) con il luogo senza alcun filtro o controllo.
L'attività privata svolta in detti luoghi avviene a contatto con un numero indeterminato di altri soggetti e, talvolta, in rapporto con gli stessi.
Con riferimento ad essi è, pertanto, fuor di luogo parlare di riservatezza o di necessità di tutela della sfera privata dell'individuo.
L'orientamento che interpreta estensivamente la nozione di privata dimora si pone, quindi, in contrasto con la lettera e la ratio della norma.
Ritengono le Sezioni Unite che vada confermato l'orientamento che interpreta la disciplina dettata dall'art. 624-bis cod. pen. come estensibile ai luoghi di lavoro soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie dell'abitazione (accertamento questo riservato ai giudici di merito).
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l'accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento).
La conferma che i luoghi di lavoro, di per sé, non costituiscano privata dimora si ricava, infine, dal terzo comma dell'art. 52 cod. pen. (aggiunto dall'art. 1 della legge 13.02.2006, n. 59), nel quale si afferma che la disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nel richiamato secondo comma si fa riferimento, ai fini della presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall'art. 614 cod. pen. (vale a dire a quelli di privata dimora).
Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente, tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il terzo comma nell'art. 52 per estendere l'applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perché, secondo il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva dei luoghi di lavoro.
4. Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto:
"
Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen., i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all'art. 624-bis cod. pen. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare" (Corte di cassazione, Sezz. unite penali, sentenza 22.06.2017 n. 31345).

EDILIZIA PRIVATALa mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Altresì, cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione della acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto dipende dalle singole fattispecie: il proprietario incolpevole della singola particella sarà tenuto a non frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non potrà essere riferita al proprietario incolpevole la previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla demolizione.

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Rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
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In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
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Prive di pregio si appalesano le censure di carattere formale-procedimentale, in disparte l’irrilevanza delle stesse a fronte di un provvedimento di natura vincolata a contenuto conforme rispetto ai dettami di legge (art. 21-octies, II co., L. 241/1990).
Ed, invero, per giurisprudenza pacifica (cfr. da ultimo TAR Venezia, sez. I, 20/11/2015, n. 1240), la mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Del pari va ribadito il principio di diritto per cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione della acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto dipende dalle singole fattispecie: il proprietario incolpevole della singola particella sarà tenuto a non frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non potrà essere riferita al proprietario incolpevole la previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla demolizione.
Sul piano procedimentale –in disparte la corretta attivazione del meccanismo informativo-partecipativo ed i già svolti rilievi in punto di vizi formali non invalidanti– va ribadito l’assunto (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. IV, 27/03/2017, n. 1668) per cui rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Nel caso di specie, in particolare, le descritte opere risultano eseguite in assenza di atti abilitativi per costruire, ricadenti in zona P.I. , comportandone trasformazione urbanistica edilizia del territorio tanto da indurre il Comune di Capri a disporre la sanzione demolitoria prevista dall'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001. Oltre a ciò, le opere "abusive" risultano realizzate in violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni del Titolo I, Parte Terza del Dlgs 22/01/2004 n. 42. Infine, le stesse opere risultano ricadere in zona classificata a rischio sismico di classe III dal 28/11/2002 ai sensi della L. 64/1974 e della L.R. 9/83 e pertanto sanzionate in applicazione del decreto legislativo n. 42/2004 n. 42, violando, tra l'altro, l'articolo 146 della stessa norma s.m.i..
Ne discende altresì l’infondatezza della censura relativa al mancato parere della Commissione edilizia, atteso che in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (in termini TAR Napoli, sez. VI, 20/02/2017, n. 996) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla differenza tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime.
La vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime
.
  
Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
  
Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un 'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
  
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti minori. In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi,
la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti leggere'.
In altri termini,
una volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi dal paradigma normativo (art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione comunale, anche dopo la scadenza del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, rimane nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall'ordinamento e, più in generale, i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001 non prevede alcun termine decadenziale.
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In corso d'opera:
   - la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 e
   - la realizzazione di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il predetto immobile,

sono opere edilizie che non possono rientrare in una "
variante leggera", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n. 380 del 2001, poiché la variante ha avuto incidenza su superficie, volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le distanze tra edifici. Trattasi di affermazione, quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già questa Corte affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici
.
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Secondo l'attuale previsione normativa dell'art. 22, comma secondo, T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell'attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini dell'agibilità, tali segnalazioni certificate di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori".
La formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non rientrava, a giudizio della Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2. Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica sostanziale di parametri urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché di volumetria, ossia la volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile diruto.
Se può, invero, ritenersi in astratto condivisibile
l'affermazione per cui la volumetria e la cubatura del vano accessorio non può costituire variazione essenziale ai sensi dell'articolo 32 citato (posto che a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso variazioni essenziali quelle che incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile che la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla superficie e sui parametri urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici.
Tuttavia,
deve ritenersi configurabile la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), a fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante leggera in corso d'opera" autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati, ma non autorizzabile attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio di copertura di rilevante consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
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5. Al fine di inquadrare correttamente la questione, dev'essere premesso quanto segue.
La vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato. La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236; 25.09.2012 n. 49290).
Per quanto riguarda le c.d.
varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato. La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento -da rilasciarsi col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire- rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
Costituisce, poi, c.d.
variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo. Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un 'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d.
varianti minori. In proposito, l'art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi,
la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti —come si è visto— di 'varianti leggere'.
In altri termini,
una volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi dal paradigma normativo (art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l'amministrazione comunale, anche dopo la scadenza del termine fissato dall'art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, rimane nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall'ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2005 n. 3498; 12.09.2007 n. 4828; 18.12.2008 n. 6378; 12.02.2010 n. 781) e, più in generale, i poteri di controllo sulle attività edilizie per il quale l'art. 27 del d.p.r. n. 380/2001 non prevede alcun termine decadenziale (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.10.2007 n. 8951).
6. Tanto premesso, nel caso in esame, l'intervento edilizio contestato era consistito nell'aver realizzato su un preesistente fabbricato ricadente in zona sottoposta a vincolo paesaggistico:
   a) la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali;
   b) la realizzazione di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il predetto immobile, coperto con lo stesso solaio sub a).
Secondo quanto emerso in dibattimento, in occasione di un sopralluogo eseguito dalla PG in data 05.05.2010, erano stati riscontrati i predetti interventi non autorizzati, in quanto non previsti o in difformità dal p.d.c. rilasciato nel 2009 (p.d.c. n. 256/2009), il quale era stato preceduto dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 59/2009. Successivamente al sopralluogo era stata presentata richiesta di variante in corso d'opera, accolta dal Comune con il rilascio del p.d.c. n. 205 del 22/07/2011 avente ad oggetto la "esecuzione di lavori in variante a precedente titolo edilizio per lievi modifiche di prospetto e recupero fabbricato rurale esistente", titolo preceduto dal rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 96 dell'08/07/2011 e dal parere favorevole della soprintendenza del 06/07/2011.
Come visto,
i giudici di appello hanno escluso che detta variante potesse rientrare in quelle "leggere", dunque soggette all'art. 22, d.P.R. n. 380 del 2001, affermando che la variante ha avuto incidenza su superficie, volumetria, sagoma e sui parametri urbanistici, in cui vanno comprese le distanze tra edifici. Trattasi di affermazione, quest'ultima, che non costituisce una novità, avendo già questa Corte affermato che tra i "parametri urbanistici" vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Muoio e altro, Rv. 247686).
7. Orbene,
secondo l'attuale previsione normativa dell'art. 22, comma secondo, T.U. edilizia "Sono, altresì, realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell'attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini dell'agibilità, tali segnalazioni certificate di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori". La formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori.
Nella fattispecie in esame la difformità riscontrata non rientrava, a giudizio della Corte d'appello, nella previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2. Il recupero del fabbricato rurale ha comportato la modifica sostanziale di parametri urbanistico/edilizi, ossia la distanza degli edifici, nonché di volumetria, ossia la volumetria generata dal mancato abbattimento dell'immobile diruto.
Non hanno pregio, sul punto, le osservazioni difensive secondo cui quanto affermato dalla Corte d'appello in realtà si porrebbe in contrasto con la normativa di riferimento e con le caratteristiche tecniche del progetto. Ed invero, la circostanza che in fase di progettazione era stato previsto un collegamento diretto tra i due immobili mediante la realizzazione di una struttura frangisole nonché una precisa destinazione d'uso al fabbricato rurale quale deposito per attrezzi agricoli e concimi, non escluderebbe la assoggettabilità degli interventi edilizi alla categoria delle variazioni essenziali di cui all'art. 32, d.P.R. n. 380 del 2001.
Se può invero ritenersi in astratto condivisibile (anche se la verifica di quanto affermato dalla difesa comporterebbe un apprezzamento in fatto, sottratto alla cognizione di questa Corte di legittimità), l'affermazione per cui la volumetria e la cubatura del vano accessorio non può costituire variazione essenziale ai sensi dell'articolo 32 citato (posto che a norma del quale "Non costituiscono in alcun caso variazioni essenziali quelle che incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative"), è pur tuttavia innegabile che la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali, ha indubbiamente avuto incidenza sulla superficie e sui parametri urbanistici, tra cui, come detto, vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici (Sez. 3, n. 24236 del 24/03/2010 - dep. 24/06/2010, Muoio e altro, Rv. 247686).
Il permesso originario di costruire era stato rilasciato nell'agosto 2009 (n. 256/2009), previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica della competente Soprintendenza (n. 59/2009); il 05/05/2010, allorquando i lavori erano ancora in corso, erano infatti state accertate opere non previste nell'originario p.d.c. (la ricostruzione del solaio di copertura di mq. 32 circa con travetti prefabbricati poggianti sulle murature perimetrali; la realizzazione di un ulteriore vano adiacente al fabbricato preesistente delle dimensioni di mt. 2,00x3,00 e superficie utile di mq. 4,70 comunicante con il predetto immobile, coperto con lo stesso solaio sub a).
Successivamente al sopralluogo era stata presentata domanda di variante al permesso di costruire e la variante, previo nuovo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 96 dell'08/07/2011, era stata autorizzata con provvedimento comunale del 22/07/2011 n. 205.
Tuttavia, come correttamente affermato dalla Corte d'appello,
deve ritenersi configurabile la fattispecie penale di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), a fronte di una "variante essenziale" e non di una "variante leggera in corso d'opera" autorizzata allorquando i lavori non erano ancora ultimati, ma non autorizzabile attesa la riconducibilità dell'intervento alla previsione dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che, quantomeno, la ricostruzione del solaio di copertura di rilevante consistenza (mq. 32,00 circa, come si legge nello stesso capo di imputazione), rientrava nel novero delle cosiddette variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32, comma primo, lett. b) "aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato".
Il primo motivo dovrebbe essere, dunque, rigettato, ma l'intervenuto decorso del termine di prescrizione massima alla data del 03/11/2015 impone a questa Corte l'annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di demolizione (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2017 n. 30194).

EDILIZIA PRIVATA: Esplicherebbe efficacia sulla odierna vicenda il recente intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), pubblicato sulla G.U. n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017, che all'art. 2 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui all'articolo 4).
Tra gli interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di cui al punto A.31 del predetto allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime).

Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della riconducibilità degli interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente giudizio
(rientranti, come detto, nella categoria generale delle "varianti", non essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti essenziali e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31 del 2017 alcune specificazione in senso escludente per queste ultime, riferendosi genericamente ad "opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici"), a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando ovviamente efficacia ai sensi dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione, posto che l'attuale esclusione, per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, il quale disponeva che con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e quelle che possono essere regolate attraverso accordi di collaborazione tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
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8. Quanto al secondo motivo, con cui i ricorrenti si dolgono del travisamento probatorio cui la Corte territoriale sarebbe incorsa quanto al reato di cui all'art. 181, comma primo, D.Lgs. n. 42 del 2004, si legge nella sentenza impugnata che l'autorizzazione comunale in variante dell'08/07/2011 non sarebbe stata preceduta dall'imprescindibile parere vincolante della competente Soprintendenza, aggiungendosi anzi che quest'ultima, dopo aver ricevuto copia dell'autorizzazione comunale, avrebbe rilasciato parere favorevole con prescrizioni; la stessa autorizzazione comunale, si precisa, sarebbe stata rilasciata subordinatamente al rispetto di alcune prescrizioni (gli intonaci esterni dovevano essere di colore bianco; nelle aree libere circostanti il fabbricato doveva essere poste a dimora piante ad alto fusto tipiche dei luoghi) il cui adempimento non risulterebbe essere stato verificato.
In definitiva, dunque, secondo la Corte d'appello, il rilascio postumo di un qualsiasi diverso provvedimento avente efficacia autorizzatoria ai fini della tutela paesaggistica, ove lo si ritenesse possibile al di fuori delle ipotesi di condono edilizio), non produrrebbe l'estinzione del reato paesaggistico.
Risulta, dunque, fondato il motivo di ricorso, posto che effettivamente vi è stato travisamento probatorio nel caso in esame, posto che la Corte d'appello risulta aver considerato e valutato solo l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dall'organo competente in data 08/07/2011 (n. 96/2011), successivamente al rilascio dell'autorizzazione comunale, senza tuttavia aver tenuto conto del parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo in realtà espresso con nota prot. 11424 del 06/07/2011, antecedente al rilascio dell'autorizzazione comunale intervenuta in data 08/07/2011.
In ogni caso, si osserva, esplicherebbe efficacia sulla odierna vicenda il recente intervento normativo rappresentato dal d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), pubblicato sulla G.U. n. 68 del 22.03.2017, entrato in vigore il 06/04/2017, che all'art. 2 rinvia per la individuazione degli interventi e delle opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica all'Allegato «A» (oltre ad escludere quelli di cui all'articolo 4). Tra gli interventi rilevano, per quanto qui di interesse, quelli di cui al punto A.31 del predetto allegato A (opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici che non eccedano il due per cento delle misure progettuali quanto ad altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime).
Sarebbe dunque necessario procedere ad una verifica della riconducibilità degli interventi ed opere oggetto di contestazione nel presente giudizio (rientranti, come detto, nella categoria generale delle "varianti", non essendovi ragione di limitare l'ambito applicativo della previsione di cui alla lett. A31 alle sole varianti essenziali e non anche a quelle leggere, non operando il d.P.R. n. 31 del 2017 alcune specificazione in senso escludente per queste ultime, riferendosi genericamente ad "opere ed interventi edilizi eseguiti in variante a progetti autorizzati ai fini paesaggistici"), a quelli per cui non è oggi più necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 2 del citato d.P.R., esplicando ovviamente efficacia ai sensi dell'art. 2 cod. pen. l'intervento normativo in questione (v., per una ipotesi analoga in materia edilizia: Sez. 3, n. 9131 del 27/05/1997 - dep. 09/10/1997, Marcelletti, Rv. 209361), posto che l'attuale esclusione, per opera di tale ultimo provvedimento, attua quanto previsto dall'articolo 12, comma 2, del decreto-legge 31.05.2014, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall'articolo 25, comma 2, del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, il quale disponeva che con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, sarebbero state dettate disposizioni modificative e integrative al regolamento di cui all'articolo 146, comma 9, quarto periodo, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, al fine di ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità, operare ulteriori semplificazioni procedimentali nonché individuare le tipologie di interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica e quelle che possono essere regolate attraverso accordi di collaborazione tra il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e gli enti locali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
Trattandosi di accertamento comportante un apprezzamento di fatto,
la sentenza dovrebbe essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello. Tuttavia, l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine di prescrizione massima alla data del 03/11/2015, osta al rinvio, imponendosi anche per tale reato la declaratoria di annullamento senza rinvio per essere il reato paesaggistico estinto per prescrizione, con conseguente revoca dell'ordine di rimessione in pristino stato (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.06.2017 n. 30194).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione - Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale, sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la demolizione, presuppone che la valutazione effettuata dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il quale va precisamente individuato, dando atto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi escludere che possano assumere rilievo determinazioni di carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 - Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale - Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo, Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi. Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30170 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Opere abusive - Responsabilità del proprietario non committente - Onere della prova - Elementi indiziari - Compartecipazione morale.
In tema di reati urbanistici, la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto (quali la presentazione della domanda di condono edilizio, i rapporti di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario, la presenza di quest'ultimo "in loco" e lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi), è altrettanto vero, nel caso di specie, vi erano alcuni degli elementi sopra indicati (rapporti di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario; regime patrimoniale dei coniugi) che, aggiunti alla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo ed all'interesse specifico (e comune al coniuge dichiaratosi in via esclusiva committente) ad edificare la nuova costruzione, consentivano di ritenere provata detta compartecipazione morale (Cass. Sez. 3, n. 38492 del 16/09/2016, Avanzato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30157 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non sanabilità di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola.
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Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione metallica su pali in ferro e per il “livellamento della depressione presente nel terreno agricolo"........... “al fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno” medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio, trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza, ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88 della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016, TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III 1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, al quale va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
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11. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale la parte lamenta la mancanza di corrispondenza, quanto all’individuazione dell’illecito edilizio, tra la comunicazione di avvio del procedimento e l’ordinanza di rimessione in pristino, oltre che la genericità di quest’ultima nell’indicare le opere come meramente difformi dal permesso di costruire.
11.1 La ricorrente insiste, anzitutto, sulla circostanza che –a suo avviso– dalla comunicazione di avvio del procedimento si evincerebbe che le opere fossero state ritenute conformi al permesso di costruire, per cui la loro abusività veniva fatta dipendere soltanto dalla ritenuta decadenza dello stesso titolo edilizio. Nel provvedimento conclusivo, invece, si afferma la difformità delle opere dal permesso di costruire, benché decaduto.
Secondo la parte, la differente impostazione dell’ordinanza di demolizione rispetto alla comunicazione di avvio del procedimento avrebbe, perciò, frustrato le garanzie di partecipazione procedimentale.
11.2 La prospettazione della parte non può essere condivisa.
Al riguardo, va anzitutto evidenziato che, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede neppure la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, al quale va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez. V, 07.06.2015, n. 3051). E, nel caso oggetto del presente giudizio, il rilevamento dello stato dei luoghi non è oggetto di contestazione.
11.3 Peraltro, l’Amministrazione ha effettivamente inviato all’interessata la comunicazione dell’avvio di un procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, evidenziando –secondo quanto sopra riportato– che le opere fossero state realizzate in assenza di titolo abilitativo. La ricorrente è stata così messa pienamente in grado di partecipare al procedimento, presentando le proprie osservazioni, al fine di dimostrare il carattere non illecito delle opere.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla comunicazione di avvio del procedimento non potrebbe in ogni caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di partecipazione procedimentale dell’interessato. E ciò in quanto l’Amministrazione –nei procedimenti a iniziativa d’ufficio– è tenuta soltanto a rendere noto l’avvio dell’iter, ma non anche a comunicare lo schema finale del provvedimento che intende adottare. Tanto più quando avviene che, come nel caso di specie, il diverso tenore del provvedimento conclusivo dipenda proprio dalla necessità di chiarire profili (la corrispondenza o meno delle opere rispetto al precedente permesso di costruire) posti all’attenzione dell’Amministrazione dall’apporto partecipativo dell’interessato.
11.4 La parte lamentata poi la genericità dell’ordinanza di demolizione, nella parte in cui accerta la difformità delle opere rispetto al titolo, senza precisare se si tratti di difformità totale o parziale, e senza considerare che, secondo la tesi della parte, dovrebbe trovare applicazione analogica, pur in assenza della realizzazione di volumi edilizi, l’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, che imporrebbe di considerare irrilevante tale difformità.
La censura non può essere accolta.
Con l’uso del termine “difformità” l’amministrazione ha inteso affermare che le opere non fossero sorrette dal precedente permesso di costruire. Come detto, infatti, il titolo edilizio rilasciato nel 2012 si riferiva a una recinzione, mentre le opere sanzionate dal provvedimento impugnato consistono in una asfaltatura diretta ad allargare l’accesso carrabile e nella realizzazione di uno spazio adibito a parcheggio.
Ciò posto, deve tenersi presente che l’assenza di titolo e la totale difformità rispetto a questo sono del tutto assimilate quanto al trattamento sanzionatorio, per cui non è giuridicamente rilevante stabilire se si versi nell’una o nell’altra ipotesi. Conseguentemente, è pure irrilevante una eventuale improprietà terminologica del provvedimento su questo punto. E’, invece, radicalmente escluso che il tenore dell’ordinanza impugnata potesse ingenerare alcun dubbio circa la possibilità di ricondurre le opere alla fattispecie della mera difformità parziale dal permesso di costruire, tenuto conto degli atti del procedimento e della circostanza che sin dal verbale di sopralluogo era stata rilevato che le opere non fossero sorrette da alcun titolo. Nessuno spazio poteva trovare, quindi, l’applicazione analogica dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ipotizzata dalla ricorrente, al fine di pervenire alla qualificazione delle “difformità” come irrilevanti.
11.5 Il motivo va, quindi, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.

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2.7 Vanno respinte, al contrario, le ulteriori censure proposte.
2.8 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il quale si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere per carenza di motivazione, in quanto la demolizione sarebbe stata disposta dopo venti anni dalla realizzazione delle opere di cui si tratta.
2.9 Costituisce orientamento maggioritario, fatto proprio anche da questo Tribunale, quello in base al quale l'ordine di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso (Cons. Stato Sez. VI, 23.10.2015, n. 4880).
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (Cons. Stato Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
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3.3 Altrettanto infondato è il quarto motivo, diretto a sostenere la legittimità dell’innalzamento del fabbricato.
3.4 Non solo i ricorrenti non hanno contestato né l’innalzamento né la modifica della pendenza del tetto, ma va evidenziato come dette variazioni non sono mai state oggetto di richiesta di un provvedimento abilitativo o di una variante alla concessione originaria, circostanza quest’ultima che conferma il carattere abusivo degli stessi manufatti.
3.5 Nemmeno risulta dimostrato che l’eventuale demolizione della tettoia sarebbe di pregiudizio per la parte conforme.
3.6 Si consideri come costituisca orientamento consolidato che la sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità (TAR Campania Napoli Sez. IV, 24.04.2017, n. 2217 e TAR Campania Salerno Sez. I, 02.03.2016, n. 485, TAR Molise Campobasso Sez. I, 08.04.2016, n. 171) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che l’ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non richiede la comunicazione di avvio del procedimento, riconducibile ad esercizio di potere vincolato e che, ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al provvedimento successivo e relativo all’esecuzione dell’ordinanza gravata.
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3.7 E’ noto, altresì, che l’ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non richiede la comunicazione di avvio del procedimento, riconducibile ad esercizio di potere vincolato (Cons. Stato Sez. VI, 15.09.2015, n. 4293) e che, ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al provvedimento successivo e relativo all’esecuzione dell’ordinanza gravata (TAR Campania sez. IV del 06.10.2016, n. 4574 e Cons. Stato Sez. IV, 23.01.2012, n. 282) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it)

EDILIZIA PRIVATAIn sede di esame della istanza di accertamento di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico, per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento di conformità (ovvero del condono straordinario). La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla giurisdizione ordinaria».
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7.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dalle interessate, in sede di esame della istanza di accertamento di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico, per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; Sez. V, 11.03.2001, n. 1507), in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla giurisdizione ordinaria».
Pertanto, il Comune non poteva che attribuire rilevanza alla opposizione del signor Fu., che nel corso del procedimento ha fornito una documentazione tale da far ritenere ragionevole la sussistenza della sua legittimazione ad opporsi anche all’accertamento di conformità.
Poiché il provvedimento impugnato non doveva risolvere il conflitto venutosi a verificare tra le ricorrenti ed il signor Fu., ma doveva unicamente prendere atto della opposizione di quest’ultimo, adeguatamente motivata, il contestato diniego risulta adeguatamente istruito e motivato (e non si può nella presente sede giurisdizionale effettuare l’indagine sulla effettiva titolarità del bene, dovendosi unicamente verificare se l’atto impugnato sia legittimo) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 05.06.2017 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
Ed invero, in relazione ai primi due motivi di ricorso, concernenti l’assunta carenza di motivazione e la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, deve richiamarsi il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, per il quale: “Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto. Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa” (cfr., fra le tante, TAR Campania, sez. III, 22.08.2016, n. 4088) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2017

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.

La concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica posto che la circostanza di avere ottenuto detto provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
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7. - Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento repressivo sanzionatorio (ai sensi ai sensi dell’art. 7 l. 241/1990) che ha dato luogo all’ordinanza qui gravata, trova applicazione il costante insegnamento giurisprudenziale a mente del quale in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7129).
Ne deriva che, come la terza, anche la quarta censura non si presta ad essere accolta (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2017

EDILIZIA PRIVATAAlla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso di impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contradditorio, atteso che la qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
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Al fine di individuare i soggetti potenziali destinatari della sanzione demolitoria e, più in generale, dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, l’art. 31, comma 2, del D.P.R. 380/2001 non opera alcuna distinzione fra proprietario e responsabile dell’abuso: in materia edilizia, la misura dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere reale, in quanto è volta non già a sanzionare il comportamento ma principalmente a ripristinare l’ordine materiale (prima ancora che giuridico), alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un giusto titolo.
In altri termini, siccome non si tratta di punire una condotta ma di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei al comportamento illecito.
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In linea generale, la repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso: infatti, l'illecito edilizio ha carattere permanente e si protrae, conservandosi nel tempo l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell'opera.
I provvedimenti sanzionatori sono dunque sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività degli interventi ed alla sicura assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi, e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi del destinatario.
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia inizialmente avvantaggiato, non esercitando il potere sanzionatorio di cui è titolare o esercitandolo in misura meno afflittiva di quanto avrebbe dovuto, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem”.
In definitiva, non si rivela necessario specificare ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato.
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La società ricorrente censura il provvedimento del Responsabile del Servizio in data 17/05/2010, recante l’intimazione a demolire opere edilizie abusive e a ripristinare lo stato dei luoghi.
0. Deve essere rigettata l’eccezione, sollevata dal Comune, di inammissibilità del ricorso per omessa notifica a uno dei controinteressati (proprietario confinante, ovvero qualsivoglia Associazione portatrice di interessi collettivi a salvaguardia del patrimonio paesaggistico).
Alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso di impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contradditorio, atteso che la qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I-quater – 0903/2017 n. 3273; TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 30/12/2016 n. 2561; Consiglio di Stato, sez. VI – 19/01/2016 n. 168).
Nel merito il gravame è parzialmente fondato, per le ragioni di seguito precisate.
0.1 Va premesso anzitutto che, al fine di individuare i soggetti potenziali destinatari della sanzione demolitoria e, più in generale, dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, l’art. 31, comma 2, del D.P.R. 380/2001 non opera alcuna distinzione fra proprietario e responsabile dell’abuso: in materia edilizia, la misura dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere reale, in quanto è volta non già a sanzionare il comportamento ma principalmente a ripristinare l’ordine materiale (prima ancora che giuridico), alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un giusto titolo (Consiglio di Stato, sez. VI – 15/04/2015 n. 1927).
In altri termini, siccome non si tratta di punire una condotta ma di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei al comportamento illecito (TAR Puglia Lecce, sez. III – 20/06/2016 n. 995 che richiama la pronuncia del Consiglio di Stato appena citata; TAR Calabria Reggio Calabria – 20/01/2017 n. 47).
1. Il primo motivo è privo di pregio giuridico.
1.1 Oltre a quanto appena illustrato, osserva il Collegio che, in linea generale, la repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso (Consiglio di Stato, sez. VI – 05/05/2016 n. 1774): infatti, l'illecito edilizio ha carattere permanente e si protrae, conservandosi nel tempo l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell'opera.
1.2 I provvedimenti sanzionatori sono dunque sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività degli interventi ed alla sicura assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi, e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi del destinatario (Consiglio di Stato, sez. IV – 12/10/2016 n. 4205).
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia inizialmente avvantaggiato, non esercitando il potere sanzionatorio di cui è titolare o esercitandolo in misura meno afflittiva di quanto avrebbe dovuto, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem” (Consiglio di Stato, sez. VI – 13/12/2016 n. 5256; si veda anche sentenza Sez. I di questo TAR 21/11/2014 n. 1282, che risulta appellata ma la domanda cautelare è stata motivatamente respinta dal Consiglio di Stato con ordinanza della sez. VI – 15/07/2015 n. 3163).
1.3 In definitiva, non si rivela necessario specificare ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II – 09/01/2017 n. 201; sentenza sez. I – 27/03/2017 n. 425).
Nella fattispecie, tuttavia, non è configurabile la deroga appena citata, dato che l’abuso risulta accertato dall’autorità comunale, nella sua effettiva consistenza, in occasione del sopralluogo effettuato dall’Ufficio tecnico il 03/11/2009, poco tempo prima dell’emanazione del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’acquisizione dell’area di sedime (prevista dal legislatore nel caso di manufatti abusivi, decorsi 90 giorni dall’ordine di demolizione senza che il provvedimento sia stato eseguito) la giurisprudenza è costante nell’escludere ciò solo nel caso in cui le opere non appartengano al proprietario dell’area, il quale non possa procedere alla loro demolizione.
Viceversa, constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione (e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune) è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, né comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto: la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31 ss. D.P.R. n. 380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce la res abusiva, a prescindere dall’attuale titolarità del diritto di proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso.
D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il proprietario non possessore può “evitare” gli effetti della eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione da parte del possessore, dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.

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5. La quinta censura non è passibile di positivo scrutinio.
Secondo l’esponente, l’acquisizione dell’area di sedime (prevista dal legislatore nel caso di manufatti abusivi, decorsi 90 giorni dall’ordine di demolizione senza che il provvedimento sia stato eseguito) non sarebbe configurabile dal momento che la Società “Il Bo. sas” è divenuta proprietaria molto tempo dopo la realizzazione delle opere, per cui non può essere ritenuta responsabile dell’abuso e di conseguenza assoggettata alle previsioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 31.
Detto ordine di idee non merita condivisione.
5.1 La giurisprudenza è costante nell’escludere l’effetto di cui si discorre solo nel caso in cui le opere non appartengano al proprietario dell’area, il quale non possa procedere alla loro demolizione (cfr. sentenza Sezione 26/11/2015 n. 1593 e il precedente ivi citato).
Viceversa (come già osservato) constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione (e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune) è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, né comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto: la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31 ss. D.P.R. n. 380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce la res abusiva, a prescindere dall’attuale titolarità del diritto di proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso (Consiglio di Stato, sez. VI – 06/03/2017 n. 1060).
5.2 D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il proprietario non possessore può “evitare” gli effetti della eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione da parte del possessore, dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione (cfr. TAR Molise – 306/2016, che richiama TAR Sicilia, sez. II, 01/04/2015 n. 808).
Dette circostanze esulano, evidentemente, dalla situazione in esame.
6. La censura sull’erronea applicazione dell’art. 167 del D.Lgs. 42/2004 non interferisce con le conclusioni si qui raggiunte, alla luce del tempo di realizzazione delle opere. Per quelle più recenti, il profilo dell’esistenza del vincolo ambientale introduce un ulteriore dato ostativo al mantenimento del manufatto, mentre per quelle realizzate in epoca risalente (ove la circostanza sia confermata dal supplemento istruttorio demandato all’amministrazione) dovrà trovare applicazione il regime per tempo vigente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOgni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori.
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5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con sentenza in forma semplificata alla luce di recenti decisioni della Sezione che si sono pronunciate su fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori
”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria, sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in esame. Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare del permesso di costruire, committente, costruttore, direttore dei lavori).
Essi hanno acquistato la proprietà delle rispettive unità immobiliari solo in anni recenti, tra il 1984 e il 2008, mentre l’abuso edilizio è stato posto in essere all’epoca di realizzazione dell’intero fabbricato, tra il 1973 e il 1974, e comunque certamente prima del 1984, come dimostra il primo atto pubblico di vendita posto in essere dai titolari della concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito Notaio Piacentino in data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979, docc. 3 e 3-bis), che già aveva ad oggetto due unità immobiliari al piano terreno, in luogo dell’unica assentita dall’amministrazione, e due unità immobiliari al primo piano, nella stessa conformazione plano-volumetrica accertata attualmente dal Comune di Sangano e fatta oggetto del provvedimento sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto, l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è stato adottato nei confronti di soggetti privi della qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2, DPR 380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria ivi prevista.
6. In conclusione, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interventi edilizi realizzati prima dell'apposizione del vincolo paesaggistico - Permesso di costruire in sanatoria - Disciplina paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 20.04.2017 n. 12633 di prot.).
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Con la nota n. prot. 81219 del 16.02.2016, codesta Amministrazione regionale ha posto un quesito riguardante la disciplina applicabile ai casi di sanatoria edilizia ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 relativi ad abusi edilizi commessi antecedentemente all'apposizione del vincolo paesaggistico (è stato rappresentato il caso di un abuso edilizio commesso nel comune di Sutri, antecedentemente alla data di pubblicazione del VIR adottato, in area posta all'interno della "fascia di rispetto di un bene lineare tipizzato di interesse archeologico, di cui all'art. 13, lett. a), L.r. n. 24 del 1998", e per il quale è stato richiesto il permesso di costruire in sanatoria).
In particolare, è stato chiesto di chiarire ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in fatto.
2.– L’appello non è fondato.
3.– Con un primo motivo si afferma l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha avrebbe dichiarato l’inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito della presentazione, da parte degli appellanti, in data 25.02.2003, di una domanda di accertamento di conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che, in presenza di interventi, quali quelli di nuova costruzione, eseguita in assenza di un permesso di costruire, l’amministrazione deve ordinare la demolizione.
L’art. 36 dello stesso decreto che in presenza, tra l’altro, di tali abusi è possibile «ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
Il due procedimenti sono diversi e separati. La giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento che si condivide, ha affermato, infatti, che «l'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego» (Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in fatto.
2.– L’appello non è fondato.
...
4.– Con un secondo motivo si afferma l’erroneità della sentenza nella parte in cui non avrebbe ritenuto illegittimi gli atti impugnati per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e per la mancata indicazione del responsabile del procedimento.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che l’avvio del procedimento è comunicato, tra gli altri, ai soggetti «nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti». L’art. 8 dispone che con tale comunicazione deve essere indicato anche il nome del responsabile del procedimento.
L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della stessa legge prevede che: «Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Parte della giurisprudenza amministrativa, con orientamento che la Sezione condivide, assume che venendo in rilievo elementi conoscitivi nella disponibilità del privato, spetta a quest’ultimo indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a questo onere l’amministrazione «sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato». La tesi opposta porrebbe a carico della p.a. una probatio diabolica «quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento» (Cons. Stato, sez. VI, 04.04.2015, n. 1060; Id., VI, 29.07.2008, n. 3786; id., V, 18.04.2012, n. 2257).
Nel settore dell’edilizia la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che: «l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto» (Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
La parte non ha inoltre indicato alcun elemento probatorio rilevante atto a dimostrare, ai sensi dell’art. 21-ocites della legge n. 241 del 1990, che se avesse partecipazione al procedimento avrebbe inciso sul contenuto della determinazione finale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia», non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
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I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto.
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5. Questo Collegio, sebbene la questione non sia strettamente rilevante per la decisione del ricorso in appello, non può non rilevare che l’affermazione contenuta nella sentenza appellata (secondo la quale l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse) non può essere condivisa.
Questo Consiglio ha, al contrario, affermato: “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il « Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia », non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria” (Consiglio di Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393).
I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto
” (Consiglio di Stato, VI, 06.05.2014, n. 2307).
6. La censura dedotta è fondata e, consequenzialmente, va accolto il ricorso in appello e annullati i provvedimenti impugnati in primo grado in quanto viziati da eccesso di potere per difetto di istruttoria (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.04.2017 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2017

EDILIZIA PRIVATAParziali difformità: le violazioni entro il 2% sono irrilevanti.
Il comma 2-ter dell'art. 34 del D.P.R.n. 380/2001 -a norma del quale "non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali"- non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia vera e propria.
Il che a significare non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti.

In tal senso si esprime la Sez. VI del Consiglio di Stato nella sentenza 30.03.2017 n. 1481 in fattispecie nella quale si trattava di difformità consistenti nell'altezza esterna del fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta -ad avviso della ricorrente- di una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in progetto per la quale era stata presentata istanza per ottenere la sanatoria dell'abuso ai sensi dell'art. 34 T.U. 06.06.2001 n. 380 e, subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15.11.2007 n. 33 della Puglia, ricevendo un diniego.
In primo grado il TAR aveva respinto il ricorso proposto contro il diniego ritenendo che l'intervento si dovesse considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la sanzione non demolitoria, di cui all'art. 34, comma 2, T.U. 380/2001 non fosse applicabile.
I giudici d'appello hanno invece ritenuto che:
   • la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento di repressione dell'abuso, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma viene a costituire, in sostanza, un'ipotesi ulteriore di sanatoria, denominata di solito "fiscalizzazione dell'abuso";
   • l'amministrazione, tenuta a decidere sull'istanza della ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l'abuso costituisse effettivamente una "parziale difformità", e in caso positivo se effettivamente non potesse essere demolito senza pregiudizio per la parte conforme;
   • la norma del comma 2-ter non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti;
   • in tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della norma, contenuta nell'articolo dedicato appunto alle conseguenze della "parziale difformità", stabilisce quando la stessa "non si ha", e quindi un caso in cui l'abuso esula;
   • nello stesso senso, è anche l'argomento storico: la norma è stata aggiunta in un momento successivo, con l'art. 5 del decreto legge 70/2011, cd. "Decreto sviluppo", il cui dichiarato scopo è "liberalizzare le costruzioni private", scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a difformità, anche fra le più lievi;
   • a identico risultato conduce l'argomento logico sistematico: se effettivamente il comma 2-ter contenesse la nozione normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe in via principale l'ordine di rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso.
La decisione conferma le conclusioni a cui eravamo giunti in questo commento al novellato art. 34: "Parziali difformità ex art. 34 TUE: la soglia del 2% secondo il DL Sviluppo", ossia che il legislatore nazionale, cui spetta dettare i principi fondamentali e generali dell'attività edilizia (art. 1 DPR 380/2001), ha ritenuto di non assoggettare a sanzione alcuna le variazioni al titolo comprese nella misura del 2% per altezza, distacchi, cubatura o superficie (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
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MASSIMA
... per la riforma della sentenza 16.09.2015 n. 1251 del TAR Puglia-Bari, Sez. III, resa fra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso per l’annullamento del provvedimento 25.06.2014 prot. n. 11.21992 del Comune di Corato, di reiezione dell’istanza proposta dalla Fe.Im. S.r.l. per la sanatoria del recupero a fini abitativi di vani sottotetto non abitabili siti a Corato, via ... 28 interni 36 e 37;
...
La ricorrente appellante è un’impresa di costruzioni che ha realizzato, in Comune di Corato (Ba), una lottizzazione denominata “Pandorea”, alla quale si accede per il viale omonimo, composta da varie unità abitative all’interno di villette di varia tipologia, sia unifamiliari sia plurifamiliari.
Per due di queste unità, di cui all’epoca dei fatti era ancora proprietaria, site all’interno di una villetta quadrifamiliare, al numero 28, interni 36 e 38, le veniva contestata una difformità nell’altezza esterna del fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta a suo dire all’impiego di una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in progetto.
Precisamente, secondo il provvedimento impugnato, di cui subito, al posto di una copertura di latero-cemento, priva di elementi a vista e caratterizzata da uno spessore del solaio finito pari a 0,20 mt, veniva impiegata, asseritamente per un migliore isolamento termico, una copertura di legno lamellare con elementi a vista, costituiti da travi e arcarecci di sostegno, spessa 0,375 metri, cui si aggiungono altri 0.165 metri per lo spessore delle travi; l’altezza risultava quindi incrementata del maggior spessore della diversa copertura (doc. 1 in primo grado ricorrente appellante, provvedimento impugnato, ove la descrizione dell’opera).
A fronte di ciò, la ricorrente appellante ha presentato al Comune istanza contestuale per ottenere la sanatoria dell’abuso ai sensi dell’art. 34 T.U. 06.06.2001 n.380 e, subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15.11.2007 n. 33, ricevendo un diniego con il provvedimento meglio indicato in epigrafe (doc. 1 in primo grado ricorrente appellante, cit.)
Con la sentenza di cui pure in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto contro il diniego predetto, ed ha in sintesi ritenuto che l’intervento si dovesse considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la sanzione non demolitoria, di cui all’art. 34, comma 2, T.U. 380/2001 non fosse applicabile, ma si desse luogo alla sola demolizione, e che per conseguenza, trattandosi di opera abusiva non sanabile, il recupero abitativo del sottotetto fosse precluso.
...
1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni e nei limiti di seguito esposti.
...
7. Tutto ciò posto, il primo motivo di appello è fondato e va accolto.
In proposito, va ricordato quanto detto in premesse, ovvero che la ricorrente appellante presentò al Comune un’istanza dall’oggetto duplice: in primo luogo, l’applicazione della sanzione non pecuniaria di cui all’art. 34 T.U. 380/2001, poi il recupero abitativo del sottotetto creato con l’abuso. Vanno quindi, per chiarezza, richiamate le norme di riferimento, incominciando dalla prima.
8. L’art. 34 in questione dispone per quanto interessa al comma 1 che “gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell'ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso”.
Alla regola fa un’eccezione al comma 2, stabilendo che “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione” pecuniaria, commisurata nel caso che interessa, di immobile abitativo, al doppio del costo di produzione.
Infine, al comma 2-ter, aggiunto con d.l. 13.05.2011 n. 70, prevede che “
ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
9.
La giurisprudenza ha chiarito –per tutte, la sentenza della Sezione 12.04.2013 n. 2001- che la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento di repressione dell’abuso, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma viene a costituire, in sostanza, un’ipotesi ulteriore di sanatoria, denominata di solito “fiscalizzazione dell’abuso”.
10.
Da ciò segue, secondo logica, che l’amministrazione, tenuta a decidere sull’istanza della ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l’abuso costituisse effettivamente una “parziale difformità”, e in caso positivo se effettivamente non potesse essere demolito senza pregiudizio per la parte conforme.
11. In concreto, nel provvedimento impugnato in primo grado, l’amministrazione stessa si è fermata al primo punto, per ragioni tuttavia errate. Contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, infatti, la norma sopra riportata del comma 2-ter non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti.
12.
In tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della norma, contenuta nell’articolo dedicato appunto alle conseguenze della “parziale difformità”, stabilisce quando la stessa “non si ha”, e quindi un caso in cui l’abuso esula.
13.
Nello stesso senso, è anche l’argomento storico: la norma, come si è visto, è stata aggiunta in un momento successivo, con l’art. 5 del decreto legge 70/2011, cd. “Decreto sviluppo”, il cui dichiarato scopo è “liberalizzare le costruzioni private”, scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a difformità, anche fra le più lievi.
14. Infine,
ad identico risultato conduce l’argomento logico-sistematico: se effettivamente il comma 2-ter contenesse la nozione normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe in via principale l’ordine di rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.03.2017 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In omaggio al consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’abuso edilizio costituisce illecito permanente, senza che il decorso del tempo privi il Comune del proprio potere/dovere di repressione dell’abuso, soprattutto nel caso di specie in cui l’autore dell’abuso è dante causa dei ricorrenti e le opere abusive –delle quali gli esponenti hanno ampiamente beneficiato nel corso degli anni- non appaiono certo, come già evidenziato, modeste o minimali, visto l’aumento di slp e di volume dell’edificio.
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, non vi è stata neppure prescrizione del potere di irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28 della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione.

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1.2 Nel secondo motivo di gravame, si sostiene in primo luogo che il decorso del tempo dall’abuso (circa sessanta anni) avrebbe ingenerato nel privato un affidamento meritevole di tutela.
La tesi non può trovare accoglimento, in omaggio al consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale l’abuso edilizio costituisce illecito permanente, senza che il decorso del tempo privi il Comune del proprio potere/dovere di repressione dell’abuso, soprattutto nel caso di specie in cui l’autore dell’abuso è dante causa dei ricorrenti e le opere abusive –delle quali gli esponenti hanno ampiamente beneficiato nel corso degli anni- non appaiono certo, come già evidenziato, modeste o minimali, visto l’aumento di slp e di volume dell’edificio (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 05.01.2015, n. 13; TAR Lazio, sez. I-quater, 27.05.2013, n. 5277 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.11.2011, n. 2786).
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, non vi è stata neppure prescrizione del potere di irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28 della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, 12.07.2013, n. 3565 e TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 20.06.2013, n. 1593).
In conclusione, deve rigettarsi anche il secondo motivo di ricorso
(TAR Lombardia, Sez. II, sentenza 30.03.2017 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Parere in merito alla divisione ereditaria di edifici ricadenti in zona agricola che comporti la realizzazione di edifici plurifamiliari come causa di esclusione della lottizzazione abusiva - Comune di Montopoli di Sabina (Regione Lazio, nota 28.03.2017 n. 159695 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell’ordinanza di demolizione adottata a distanza di anni dall’abuso che non è stato commesso dall’attuale titolare: rimessione all’Adunanza plenaria.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Motivazione – Necessità – Ordinanza adottata a distanza di anni dall’abuso che non è stato commesso dall’attuale titolare – Rimessione all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria la questione se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo debba essere congruamente motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che sulla questione si sono formati due orientamenti giurisprudenziali.
Secondo il primo maggioritario orientamento l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa (Cons. St., sez. VI, 10.05.2016, n. 1774; id. 11.12.2013, n. 5943; id. 23.10.2015, n. 4880; id., sez. V, 11.07.2014, n. 4892; id., sez. IV, 04.05.2012, n. 2592).
Ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (Cons. St., sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Un secondo orientamento (Cons. St., sez. IV, 04.02.2014, n. 1016) individua “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi” (Cons. St., sez. VI, 14.08.2015, n. 3933): considerazioni che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: Cons. St., sez. V, 09.09.2013, n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche Cons. St., sez. VI, 18.05.2015, n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013, n. 3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato -in relazione a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (Cons. St., sez. V, 15.07.2013, n. 3847, seguìta da id. 24.11.2013, n. 2013 e id., sez. IV, 04.03.2014, n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29.05.2006, n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”) (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 24.03.2017 n. 1337 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La sentenza appellata ha respinto il ricorso proposto dai sig.ri Ba.Fi., An. e Fa. per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Fiumicino prot. n. 14889 del 26.02.2014 con cui era stata ingiunta la demolizione delle opere edili abusivamente realizzate sull’immobile sito in quel Comune, località Isola Sacra, via ... n. 81-83.
Per quel che qui rileva, il ricorso è stato respinto alla luce di quell’orientamento giurisprudenziale ex multis: Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79) secondo il quale “
l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
Propongono ricorso in appello gli interessati evidenziando come, nonostante l’edificio fosse stato ultimato nel 1982, e sin da quel momento l’Amministrazione fosse a conoscenza dell’esistenza dello stesso, l’ordinanza era stata notificata soltanto a ben 32 anni dall’ultimazione del fabbricato in argomento. Tale inerzia aveva ingenerato una posizione di affidamento rispetto alla quale l’amministrazione avrebbe avuto l’onere di una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico prevalente che giustificasse il sacrificio dei ricorrenti i quali, peraltro, semplicemente ereditando la proprietà dell’edificio nel 2009, dalla dante causa Fi.Co., risultavano addirittura estranei a qualsivoglia realizzazione abusiva.
Veniva, quindi, in altri termini lamentato che, nonostante il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la risposta sanzionatoria, con il conseguente affidamento medio tempore maturato dagli attuali proprietari, l’Amministrazione comunale non avesse dato conto alcuno, con idonea motivazione, delle ragioni di attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse, diverso dal mero ripristino della legalità, sotteso al provvedimento sanzionatorio.
A sostegno del ricorso in appello gli interessati invocano la pronuncia della IV Sezione (04.02.2014, n. 1016) secondo la quale: “
Il provvedimento di rimozione dell’abuso è atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo; pertanto, le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato, salvo i casi in cui sia pacifico che:
   a) l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione, non è responsabile dell’abuso;
   b) l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi;
   c) tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e, più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi, sia intercorso un lasso temporale ampio
”.
Tale pronuncia costituisce l’esempio più approfondito di quel filone giurisprudenziale che valorizza il decorso del tempo come elemento influente sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio.
2. In effetti, nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, sembrano potersi individuare sul tema due orientamenti giurisprudenziali, ancorché non sempre compiutamente esplicitati.
Secondo il primo orientamento, che parrebbe maggioritario,
l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa (VI, 10.05.2016 n. 1774; VI, 11.12.2013 n. 5943; VI, 23.10.2015 n. 4880; V, 11.07.2014 n. 4892; IV, 04.05.2012 n. 2592). E si è precisato che ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (VI, 05.01.2015 n. 13).
3. E’ tuttavia presente un secondo orientamento giurisprudenziale, che, conforme a quello invocato dagli appellanti (IV, 04.02.2014, n. 1016), pur consapevole del prevalente indirizzo contrario,
individua tuttavia “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi (VI, 14.08.2015 n. 3933): considerazioni che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: V, 09.09.2013 n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche VI, 18.05.2015 n. 2512; V, 15.07.2013 n. 3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato -ma, si badi, in relazione a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (V, 15.07.2013 n. 3847, seguìta da V, 24.11.2013 n. 2013 e IV, 04.03.2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29.05.2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”).
4. Gli appellanti, in punto di fatto, evidenziano che i requisiti richiesti dall’orientamento a loro favorevole si riscontrano nel caso in esame:
   a) gli attuali proprietari dell’immobile, destinatari del provvedimento demolitorio, hanno acquistato il diritto reale de quo per successione ereditaria dalla dante causa Co.Fi., unica responsabile dell’abuso avvenuto nel 1982;
   b) la modalità di trasferimento della proprietà mortis causa evidentemente esclude qualsivoglia intento finalistico elusivo dell’esercizio dei poteri repressivi spettanti all’autorità amministrativa competente;
   c) tra la realizzazione dell’edificio in argomento e l’ordinanza di demolizione sono trascorsi ben 32 anni.
5.
Sussiste dunque un contrasto tra quel filone giurisprudenziale (richiamato dalla sentenza qui appellata) che ritiene ininfluente il decorso del tempo e quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a determinate condizioni, richiede invece una specifica motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento sanzionatorio.
Il Collegio ritiene comunque di dover osservare che,
nell’arco temporale decorrente dalla commissione dell’abuso (anno 1982) e l’adozione del provvedimento impugnato (anno 2014) sono intervenuti ben tre condoni edilizi disciplinati dalle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724 e 24.11.2003, n. 326.
Dagli elementi di fatto forniti dagli appellanti si desume che
la loro dante causa non ha ritenuto di avvalersi delle facoltà concesse dalle leggi richiamate e di ottenere il condono per l’immobile abusivamente realizzato, previa corresponsione delle somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata. Invero, nella prospettazione degli appellanti, il trasferimento mortis causa dell’immobile assorbirebbe l’omissione della presentazione delle domande di condono, realizzando una sorta di sanatoria extra ordinem, formatasi per il mero decorso del tempo (sia pure prolungato), ed esonerando ratione temporis gli appellanti da una presentazione, sia pur tardiva delle stesse (ammesso che -osserva la Sezione- una tale evenienza sia possibile).
Il Collegio ritiene ancora di dover evidenziare che la sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto dalla giurisprudenza per l’annullamento (in autotutela) di un preesistente provvedimento valutato in seguito illegittimo. La giurisprudenza invocata dagli appellanti estende, quindi, con una radicale innovazione di sistema, al “fatto illecito” (quale deve considerarsi una costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che originariamente era richiesto solo per un “atto illegittimo”.
E’ peraltro vero che un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la commissione dell’abuso (da parte di terzi) e la sanzione, tempo intercorso anche a causa dell’inerzia serbata dall’amministrazione, potrebbe essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento da parte del soggetto estraneo alla commissione dell’abuso; affidamento che, se non può certo elidere in radice il potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre circostanze fattuali che si assumano rilevanti.
In conclusione, il Collegio, ai sensi dell’articolo 99 c.p.a., rimette l’affare all’Adunanza plenaria, perché possa essere decisa la seguente questione: “
Se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”.

EDILIZIA PRIVATA: L’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere giustificata dalla circostanza che le opere abusive siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
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8. Deve rilevarsi l’infondatezza del motivo di cui al primo ricorso per motivi aggiunti con cui è stato impugnato il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione, con cui si è rilevato che tale atto non può essere adottato in pendenza di ricorso avverso l’ordinanza di demolizione. In assenza di provvedimento giurisdizionale di sospensione tale ultimo atto esplica pienamente i suoi effetti, per cui il destinatario è tenuto a eseguirlo.
Per identiche ragioni analoghe è infondato il secondo motivo, con cui i ricorrenti hanno dedotto che l’eventuale demolizione del manufatto comprometterebbe il proprio diritto di difesa da esercitare in sede di giudizio penale e di giudizio amministrativo.
Del tutto infondato il rilievo secondo cui, in presenza di sequestro, non era possibile procedere alla demolizione.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che l’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere cioè giustificata dalla circostanza che le opere abusive siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2016 n. 335) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate.
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L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.

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In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato originariamente assentito.

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1.1.- In data 28.10.2015 la Polizia Municipale ed il dirigente dell’U.T.C. di Mattinata effettuavano un sopralluogo nell’area in questione, predisponendo il relativo verbale.
1.2.- Successivamente il dirigente, con la censurata ordinanza n. 21 del 07.12.2015, riportando il contenuto del suddetto verbale di sopralluogo, accertava l’inefficacia delle D.I.A. presentate “… in quanto gli interventi previsti e realizzati incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia ed alterano la sagoma delle opere precedentemente approvate …” e, dunque, rilevava che detti interventi erano stati eseguiti “… in totale difformità da quanto autorizzato con il permesso di costruire n. 58/2006 …”, anche perché compiuti in difetto “… delle autorizzazioni previste in relazione ai vincoli esistenti sulla zona …”.
...
Sulla base di quanto esposto, va affermato che alcuna fattispecie tacita di autorizzazione può ritenersi formata correttamente poiché l’intervento non poteva essere assentito con DIA, tanto che la denunziata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non è meritevole di positiva delibazione.
Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del 02.12.2016).
13. - Né va tralasciato di considerare che l’intervento riferito all’interrato del lotto 3, quand’anche singolarmente valutato, per come realizzato, necessitasse, altresì, di nulla osta previsto dal R.D. n. 3267/1923 e dal R.D. n. 1126/1926, sussistendo sull’area anche il vincolo idrogeologico.
14. – Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato
” (ex multis, da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
17. – Alla luce delle suesposte considerazioni diventa superfluo -in quanto irrilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a supportare una conclusione di tipo diverso- soffermarsi ulteriormente sulla questione della destinazione d’uso degli immobili realizzati (con particolare riferimento alla eliminazione della ricezione e della camera per il personale, con consequenziale cambio di destinazione d’uso del lotto n. 3 di cui si fa menzione a pag. 5 -lett. e), in relazione agli interventi contemplati dalla DIA del 31.05.2007, ed a pag. 6 -punto 3 della censurata ordinanza), in quanto per consolidata giurisprudenza (ex pluribus, Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2011, n. 3382; Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2012, n. 3970; Cons. Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5), quando un provvedimento amministrativo negativo è sorretto da una pluralità di motivi è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento giurisdizionale.
18. – La natura e la corretta qualificazione degli interventi eseguiti (sottoposti al regime del permesso di costruire), consentono di concludere per la legittimità del provvedimento impugnato.
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato. L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato originariamente assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2015, n. 3179) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.03.2017 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sono sanabili opere edilizi abusive realizzate su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state edificate senza titolo, dunque abusivamente. È altrettanto pacifico che si tratta di opere che necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
   - da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia stata presentata);
   - dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento privato in un’area nella quale sono previsti soltanto interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti: questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe, evidenziando che “la normativa urbanistica statale e regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti che pongono in essere trasformazioni permanenti del territorio e che a nessun proprietario è precluso, in ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei piani regolatori” .
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 440 del 23.11.2016 con la quale il Dirigente del Comune di Nichelino (TO) ha ordinato la demolizione delle opere edilizie realizzate all'interno del lotto di terreno sito in Nichelino (TO), Via ..., censito al Catasto Terreni al foglio 22, mappale 173, ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché di ogni altro atto ad essa presupposto, consequenziale o connesso.
...
1) Con il provvedimento in epigrafe il Dirigente dell’Area tecnica del Comune di Nichelino ha ordinato la demolizione di opere edilizie abusive realizzate dal sig. Ott.Ce. -di etnia sinti- su un terreno di sua proprietà, in assenza di permesso di costruire e in contrasto con la disciplina urbanistica vigente nel predetto Comune, consistenti in un “fabbricato di civile abitazione ad un piano fuori terra costituito da muratura perimetrale in blocchi di laterizi intonacati fondati su un basamento in calcestruzzo…”, nonché in un “cancello carraio e pedonale per l’accesso al lotto…” e in “manufatti vari posti in adiacenza al fabbricato principale…”.
2) Di tale provvedimento l’interessato ha chiesto l’annullamento deducendo:
   - che le opere in questione, per quanto abusive, sono comunque conformi alla disciplina urbanistica, in quanto ricadono in area disciplinata da un piano particolareggiato finalizzato a interventi di edilizia residenziale pubblica in favore della popolazione nomade;
   - che dunque il ricorrente potrebbe chiedere al Comune un permesso in sanatoria;
   - che nell’immobile vivono il ricorrente e il suo nucleo familiare, i cui componenti presentano anche numerosi problemi di salute;
   - che il provvedimento impugnato, infine, viola l’art. 8 della CEDU e il principio di proporzionalità, in quanto non tiene conto delle condizioni personali del ricorrente e della sua famiglia, aventi risorse economiche limitate e comprovati problemi di salute.
...
5) Il ricorso è infondato.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state edificate senza titolo, dunque abusivamente. È altrettanto pacifico che si tratta di opere che necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
   - da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia stata presentata);
   - dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento privato in un’area nella quale sono previsti soltanto interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti: questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe, evidenziando che “la normativa urbanistica statale e regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti che pongono in essere trasformazioni permanenti del territorio e che a nessun proprietario è precluso, in ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei piani regolatori” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, n. 1223 del 05.10.2016, che richiama le precedenti n. 358/2016 e n. 551/2015).
6) In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.03.2017 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2017

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo restando tra l'altro il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
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La sanzione dell'ordine di demolizione, prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non potendo la tutela del territorio essere rinviata indefinitamente.
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione dell'istanza di condono in rapporto alla condanna giudiziale- che
per neutralizzare l'ordine di demolizione non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie, siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
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4.1. In ragione della loro stretta connessione, i motivi di impugnazione possono essere esaminati congiuntamente.
In proposito,
è invero principio del tutto consolidato che l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo restando tra l'altro il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio) (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche) (Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini e altro, Rv. 267024).
4.2. Ciò posto, dallo stesso contenuto del ricorso emerge che la procedura di sanatoria pende da circa venti anni, senza alcun apprezzabile risultato.
Né appare seriamente sostenibile, dati siffatti precedenti ed anche al di là delle comunque non impegnative dichiarazioni del tecnico comunale (al riguardo, nel provvedimento impugnato si dà invece espressamente atto che proprio dalle parole del funzionario pubblico poteva addirittura desumersi che alcuna rapida definizione delle pratiche edilizie era prevista), che essa possa concludersi in tempi ragionevolmente pronosticabili.
Infatti
la sanzione dell'ordine di demolizione, prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non potendo la tutela del territorio essere rinviata indefinitamente (Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050).
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione dell'istanza di condono in rapporto alla condanna giudiziale- che
per neutralizzare l'ordine di demolizione non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie, siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
4.3. In ragione di ciò, non vi è alcuna possibilità, pertanto, di confrontare l'ordine di demolizione con provvedimenti di segno diverso, tali da metterne in dubbio la perdurante piena efficacia.
4.4. Al riguardo, e con particolare attenzione al secondo motivo di ricorso, è poi appena il caso di aggiungere che -ferme le svolte considerazioni- non rileva il fatto dell'inutile pendenza ventennale della procedura amministrativa di sanatoria (tra l'altro, finora, ad evidente esclusivo vantaggio del privato che ha goduto del bene), atteso che, a fronte delle innegabili inefficienze di pubbliche autorità, si pone in ogni caso l'obbligo di porre in esecuzione un ordine di demolizione, nascente da una sentenza irrevocabile di condanna.
5. I motivi di censura appaiono quindi manifestamente infondati nella loro integralità, e ne va dichiarata l'inammissibilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8887).

EDILIZIA PRIVATAValutazione dell'abuso edilizio - Autonoma rilevanza dei i singoli interventi edilizi - Esclusione - Conformità del manufatto a tutti i parametri legali - Controllo di legittimità dell'atto amministrativo - Artt. 3, 6, 22, 37 e 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Nella valutazione dell'abuso edilizio, non è consentito frazionare i singoli interventi edilizi al fine di dedurre la loro autonoma rilevanza, ma occorre verificare l'ammissibilità e la legalità alla luce della normativa vigente, dell'intervento complessivo realizzato (Sez. 3, n. 45598 del 13/11/2013).
Sicché, il provvedimento è sorretto da motivazione congrua laddove si accerti la conformità tra il fatto (opere eseguite e/o in corso di esecuzione) e la fattispecie legale, alla luce dell'interesse sostanziale protetto, quale la tutela dell'assetto del territorio in conformità alla normativa urbanistica, attraverso il controllo di legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costituito o presupposto del reato, così verificando la conformità del manufatto a tutti i parametri legali, fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici, oltre che dal provvedimento autorizzatorio (Cass. S.U. n. 11635 del 21/12/1993, P.M. in proc. Borgia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8885 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
Una lettura sistematica della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore
, in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen.; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza.
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L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione da parte del pubblico ministero, a spese del condannato, sussistendo incompatibilità solo nel caso in cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera, l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
Oltre a ciò,
il giudice, nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio della sospensione della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale subordinazione è ostativa l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del comune, poiché anche questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto abusivamente costruito.
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4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. In relazione al primo profilo di censura, ed in ragione della particolare struttura semplificata del presente provvedimento, è del tutto opportuno e sufficiente ricordare che
è già stata anche ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le caratteristiche di detta sanzione amministrativa —che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso; configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del territorio; non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso— non consentono di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977).
Sì che va ribadito che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (ad es. Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv. 264736).
4.2. La Corte infine richiama ed integralmente condivide Sez. 3, n. 9949 del 20/01/2016, Di Scala -allo stato non massimata- che appunto conclude nel senso che
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
In ogni caso, ivi è comunque ribadito che l'art. 31 Testo Unico dell'edilizia disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone. Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309); resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291); non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza (cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
4.3. In relazione all'ulteriore, e sostanzialmente connesso, profilo di censura, la giurisprudenza del tutto consolidata della Corte è altresì nel senso che
l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione da parte del pubblico ministero, a spese del condannato, sussistendo incompatibilità solo nel caso in cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera, l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato (ex plurimis, Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015, Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep. 2008, Mancini, Rv. 238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposato, Rv. 230652; Sez. 3, n. 3489 del 03/11/2000, Mosca, Rv. 217999).
Oltre a ciò, è stato ricordato anche dal Procuratore generale che
il giudice, nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio della sospensione della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale subordinazione è ostativa l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del comune, poiché anche questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto abusivamente costruito (Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258517) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8882).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito alla necessità di accertamento di compatibilità paesaggistica quale presupposto per il permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36 d.P.R. 380/2001 per interventi realizzati prima del vincolo paesaggistico (Regione Lazio, nota 16.02.2017 n. 81219 di prot.).

EDILIZIA PRIVATALa struttura pubblicitaria può configurare abuso edilizio. Reato anche se non si tratta di un’abitazione.
Una costruzione edilizia, anche se non destinata a essere abitata, può generare un abuso: lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 14.02.2017 n. 6872.
Il caso esaminato è particolare in quanto, dopo aver scelto una località particolarmente visibile (e sottoposta a vincolo ambientale), un'impresa di commercializzazione di case prefabbricate aveva collocato più moduli, completi in ogni loro parte, per mostrare le qualità del prodotto.
In questo modo, le abitazioni, di più vani, avevano perso l'attitudine ad essere considerate abitazioni, ma conservavano il loro impatto fisico. Poiché le norme urbanistiche non prevedono che l'abuso abbia solo finalità abitative, è quindi iniziato un procedimento penale conclusosi con la condanna confermata dalla Cassazione.
La motivazione adottata dalla Suprema corte prende spunto dal rapporto della legge 10 del 1977 (Bucalossi) con le norme precedenti (del 1942) e sottolinea che dal 1977 in poi il territorio è tutelato indipendentemente dai vari usi che se ne possono fare. Così appunto un consistente uso pubblicitario, indipendentemente dal tipo di oggetto che si intenda valorizzare (sia esso un'abitazione prefabbricata o meno), esige un titolo edilizio.
Non è infatti il peso urbanistico che si intende limitare, bensì l'uso del territorio, anche per l'uso pubblicitario. Nel momento in cui si utilizza un'area per finalità diverse da quelle previste dal piano urbanistico si pone infatti un problema di “peso” dell'intervento, peso che va valutato dall'amministrazione e che fa scattare, in caso di assenza di titolo abilitativo, specifiche sanzioni. Tali sanzioni non si applicano per opere temporanee, destinate a essere rimosse dopo un allestimento provvisorio, ma sempre che la consistenza delle opere non alteri parametri di fruibilità del territorio.
Nel caso deciso dalla Cassazione ha avuto peso la particolare natura delle opere prefabbricate, alte fino a 12 metri anche se in gran parte in materiale precario (polistirolo) coerentemente alle finalità pubblicitarie. Anche se non abitate, ciò che si era realizzato esprimeva infatti stabilità e quindi un uso non temporaneo dell'area impegnata. La sentenza condanna anche il soggetto che aveva venduto e collocato le case pubblicitarie, ritenendo il venditore partecipe del disegno illecito di utilizzo non consentito del territorio.
Inoltre, per la loro fattiva partecipazione alla modifica dei luoghi, sono stati condannati anche gli impiantisti che avevano contribuito, da artigiani, a dotare la struttura pubblicitaria di attacchi ed impianti: secondo la Cassazione, infatti, anche chi realizza un pavimento, intonaci e infissi risponde dell'abusivismo se ha colposamente ignorato la circostanza che fosse necessario un titolo edilizio.
Anche tale coinvolgimento dei soggetti esecutori (dal venditore agli artigiani rifinitori) è del resto coerente all'ampliamento delle responsabilità che la legge 10 del 1977 (oggi il Dpr 380/2001) prevede per arginare l'abusivismo
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2017).
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MASSIMA
5.1 ricorsi sono infondati.
6. Per motivi di ordine logico devono essere esaminati i motivi che riguardano la sussistenza oggettiva dei reati.
6.1.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione né dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l'opera è destinata a soddisfare.
6.2. Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel definire gli interventi di "nuova costruzione", per i quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°, lett. b, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), individua -tra gli altri- i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e "che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee" (art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.).
La natura oggettivamente temporanea e contingente delle esigenze da soddisfare è richiamata anche dall'art. 6, comma 2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che, previa mera comunicazione dell'inizio lavori, possono essere liberamente eseguite.
6.3. Si tratta di criterio che significativamente, anche se ad altri fini, l'art. 812 cod. civ. utilizza per collocare nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti saldamente ancorati alla riva o all'alveo e destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di cui all'art. 136 cod. nav. e che, a norma dell'art. 815 cod. civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a registrazione.
6.4.
La oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla giurisprudenza di questa Corte per distinguere l'opera assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere dall'incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3,  Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497 del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994, Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009, quest'ultima con richiamo ad ulteriori precedenti conformi di questa Corte e del Consiglio di Stato).
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera (Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del 19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009 cit.).
6.5.
Il riferimento alla temporaneità e alla contingenza dell'esigenza, piuttosto che alle caratteristiche strutturali dell'opera edilizia ed al materiale impiegato per la sua realizzazione, deriva dal fatto che nella riflessione dottrinaria e giurisprudenziale del secondo dopoguerra si è venuta consolidando la consapevolezza che il territorio non può più essere considerato strumento destinato al solo assetto ed incremento edilizio (art. 1 L. 1150/1942), ma come luogo sul quale convergono interessi di ben più ampio respiro che dalle modalità del suo utilizzo (o del suo non utilizzo) possono trovare giovamento o, al contrario, pregiudizio, sì che la sua trasformazione urbanistica ed edilizia (così l'art. 1 L. 10/1977 che, si noti, operando un rivolgimento copernicano rispetto all'art. 1 L. 1150/1942, ha posto l'attività edilizia in secondo piano rispetto a quella urbanistica) costituisce oggetto di compiuta valutazione e comparazione degli interessi in gioco e, dunque, vera e propria attività di governo (così l'art. 117, comma 30 , Cost.), non sempre, e non solo, appannaggio esclusivo della collettività che lo abita.
6.6.
E' evidente, pertanto, che la temporaneità dell'esigenza che l'opera precaria è destinata a soddisfare è quella (e solo quella) che non è suscettibile di incidere in modo permanente e tendenzialmente definitivo sull'assetto e sull'uso del territorio.
6.7. Tanto premesso, risulta dalla lettura della sentenza impugnata che il modulo abitativo prefabbricato, al quale era asservito il manufatto di dodici metri composto di polistirolo, era stato collocato sopra una piattaforma di cemento realizzata all'interno del fondo di proprietà della Pe..
All'interno del medesimo fondo erano stati realizzati gli allacciamenti elettrici, idrici e fognari destinati a servire il manufatto sotto il cui pavimento erano stati predisposti gli alloggiamenti per le tubature idriche e gli impianti elettrici. Il bagno era munito di uno scaldabagno elettrico. Nel manufatto erano state inserite le scatole per gli interruttori elettrici ed i relativi interruttori. Sul perimetro del fondo erano state realizzate delle aiuole e piantati degli alberi a riprova, afferma la Corte, della duratura destinazione dell'immobile ad abitazione.
6.8. Non v'è dubbio che la Corte di appello ha fatto buon governo dei principi sopra indicati traendo dalle premesse in fatto testé illustrate conseguenze non manifestamente illogiche in ordine alla effettiva natura delle esigenze non temporanee che il manufatto, nella sua interezza e a prescindere dai materiali utilizzati, doveva soddisfare.
6.9. Le eccezioni sollevate dalla ricorrente non colgono nel segno sia perché valorizzano l'argomento della tipologia dei materiali utilizzati, sia perché non considerano che la natura modulare dell'abitazione prefabbricata, alla luce dell'inequivocabile dettato normativo sopra richiamato, non esclude la durevolezza delle esigenze abitative cui il manufatto era asservito.
L'ulteriore argomento difensivo secondo cui si trattava di manufatto posto in opera a scopi puramente pubblicitari, e dunque transitori, è stata smentita dalla Corte di appello con argomentazioni non oggetto di specifica censura da parte della ricorrente che si limita ad eccepire, al riguardo, un inammissibile travisamento della prova volto, di fatto, a creare un contatto diretto di questa Corte di cassazione con le fonti di prova allegate al ricorso.
6.10. Quanto ai profili di responsabilità di tutti gli imputati si deve osservare che la posa in opera del manufatto costituisce l'esecuzione di un accordo intercorso tra la proprietaria committente e il legale rappresentante della società venditrice, accordo per effetto del quale l'azione appartiene ad entrambi gli imputati. Il fatto che la posa in opera del manufatto sia stata giustificata con le (insussistenti) esigenze pubblicitarie indicate nel contratto di vendita costituisce ulteriore argomento che rafforza la prova della comune consapevolezza della necessità del titolo edilizio mancante.
6.11. In ogni caso,
assume valore dirimente il fatto che la società legalmente rappresentata dal Sa. non si è limitata alla vendita del manufatto, ma si è direttamente interessata anche alla sua posa in opera e alla realizzazione degli allacci, destinandovi due operai.
6.12.
Il che è più che sufficiente a qualificarla come "costruttore" ai sensi dell'art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in quanto tale, ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l'accertamento negativo, e a titolo di colpa nell'ipotesi in cui tale accertamento venga omesso (Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carafa, Rv. 263474; Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004, Cima, Rv. 230663).
6.13.
Anche gli operai, materiali esecutori dei lavori, rispondono del reato a titolo di concorrenti (in questo senso Sez. 3, n. 16751 del 23/03/2011, Iacono, Rv. 250147, secondo cui la natura di reati "propri" degli illeciti previsti dalla normativa edilizia non esclude che soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 29, comma primo, del decreto medesimo, possano concorrere nella loro consumazione, in quanto apportino, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole; nello stesso senso anche Sez. 3, n. 35084 del 25/02/2004, Barreca, Rv. 229651; Sez. 3, n. 48025 del 12/11/2008, Ricardi, Rv. 241799, secondo cui concorre nel reato anche si limita a svolgere lavori di completamento dell'immobile, quali la pavimentazione, l'intonacatura, gli infissi, sempre che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori).
6.14. Il Ca. ed il Di. non si erano limitati a collocare sul posto il manufatto ma erano intenti ad effettuare lavori di allaccio alle reti idrica ed elettrica che concorrevano a rendere oggettivamente stabile l'opera edilizia, realizzata in totale assenza di permesso di costruire e di qualsiasi altra autorizzazione. Sicché essi ne rispondono anche a titolo di colpa.
6.15. La argomentazioni sin qui svolte valgono a maggior ragione anche per il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, peraltro non oggetto di specifica impugnazione, al pari della muratura in pietra (della quale non v'è menzione nei ricorsi).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Responsabilità del committente, costruttore, direttore dei lavori, dirigente o responsabile del competente ufficio comunale - Individuazione - Concorso nel reato urbanistico - Extraneus - Profilo del dolo o della colpa - Profilo oggettivo e soggettivo - Artt. 29, 44, lett. c, d.P.R. 380/2001 e 142, 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati urbanistici, è indubbio che nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 -i cui autori sono individuati, dall'art. 29 d.P.R. cit., nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori- possa concorrere l'extraneus.
Anche se, il precetto penale è diretto non a chiunque, ma soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto; tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art. 29, compreso il sindaco che con la concessione edilizia illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi (cfr., ex multis, Sez. 3 n. 996 del 15/10/1988).
È necessario, però, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa).
Reati edilizi - Dirigente o del responsabile UTC - Obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - Emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari - Obbligo di impedire l'evento dannoso - Artt. 27 e 31 d.P.R. 380/2001.
In materia edilizia, l'art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 pone a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001).
Egli è quindi certamente titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l'evento dannoso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2017 n. 5439 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Svolgimento di attività in assenza di autorizzazioni - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Principio di retroattività della legge più favorevole e successione di leggi amministrative - Applicazione - Esclusione - Divieti esistenti ai momento del fatto.
Il principio di retroattività della legge più favorevole non trova applicazione in riferimento alla successione di leggi amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo svolgimento di attività, il cui carattere criminoso dipenda dall'assenza di autorizzazioni (tra le altre, Sez. 3, n. 25035 del 25/05/2011, dep. 22/06/2011, Pasinetti e altro; Sez. 3, n. 18193 del 12/03/2002, dep. 14/05/2002, Pata); in detta ipotesi rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti ai momento del fatto.
Sicché, a fronte di tale principio è irrilevante l'assenza di motivazione della sentenza impugnata posto che l'accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass., Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014, dep. 11/03/2015, Bianchetti).
Interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata - Difformità totale o parziale o in variazione essenziale - Qualificazione giuridica e individuazione della sanzione penale applicabile - Artt. 31, 32, 34 e 44, lett. c), del d. P.R. n. 380/2001.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Cass. Sez. 3, n. 37169 del 06/05/2014, dep. 05/09/2014, Longo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2017 n. 5435 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comporta la condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 l'aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando il vano sottoscala di accesso al piano rialzato.
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Il precedente 24.07.2003 la signora Pa. aveva presentato all’agenzia del territorio di Frosinone una denuncia di variazione, avente a oggetto il mutamento di destinazione d’uso di una delle cantine poste a piano primo sottostrada a “pranzo, cottura, Wc e ripostiglio” e la realizzazione di un porticato di mq. 11 circa e di un ripostiglio (ricavato nel vano sottoscala interno).
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A latere della vicenda relativa al condono si svolgeva peraltro anche un processo penale che si concludeva con la condanna della signora Ve. per aver realizzato le opere in questione senza titolo; in particolare la signora Ve. era condannata per il reato previsto dall’articolo 44, lettera b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (in pratica per aver trasformato un locale destinato a garage e cantina in abitazione e per aver realizzato un ripostiglio tamponando il vano sottoscala di accesso al piano rialzato) alla pena di mesi uno e giorni venti di arresto e all’ammenda di euro 8.000, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi (si vedano la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 245 del 27.02.2008, la sentenza della corte d’Appello di Roma n. 7951 del 03.12.2008 e la sentenza n. 42295 del 25.11.2009 con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma le cui statuizioni sono quindi ormai definitive) (TAR Lazio-Latina, sentenza 06.02.2017 n. 69 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Consolidata giurisprudenza esclude la necessità della partecipazione nei procedimenti di contrasto all’abusivismo edilizio, ovvero, sotto diversa angolazione prospettica, nega al vizio de quo carattere invalidante.
In ottica più generale, inoltre, il diritto vivente richiede che il privato, il quale lamenti il mancato coinvolgimento nell’azione amministrativa, indichi con sufficiente precisione quegli elementi, specie di fatto, che avrebbe potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato chiamato a partecipare: solo in tal modo, infatti, la censura de qua si rivela espressione di un’istanza di tutela sostanziale ed individuale (recte “soggettiva”) e non una mera critica di una formale e generale (recte “oggettiva”) disfunzione amministrativa.
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Quanto al merito, il Collegio, sulla scorta della natura vincolata dell’ordinanza di demolizione gravata, ritiene la superfluità della comunicazione di avvio.
Si premette che oramai consolidata giurisprudenza esclude la necessità della partecipazione nei procedimenti di contrasto all’abusivismo edilizio (ex multis C.d.S., IV, 26.08.2014, n. 4279), ovvero, sotto diversa angolazione prospettica, nega al vizio de quo carattere invalidante; in ottica più generale, inoltre, il diritto vivente richiede che il privato, il quale lamenti il mancato coinvolgimento nell’azione amministrativa, indichi con sufficiente precisione quegli elementi, specie di fatto, che avrebbe potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato chiamato a partecipare: solo in tal modo, infatti, la censura de qua si rivela espressione di un’istanza di tutela sostanziale ed individuale (rectesoggettiva”) e non una mera critica di una formale e generale (recteoggettiva”) disfunzione amministrativa.
Nello specifico della vicenda per cui è causa, a tenore delle previsioni del locale PRG la zona ove insiste il fabbricato è soggetta a radicale vincolo inaedificandi; di converso, le opere in questione concretano con ogni evidenza un intervento di nuova edificazione, giacché non si limitano all’elevazione di muri di contenimento, peraltro di rilevanti dimensioni, ma si sostanziano nella realizzazione di volumi coperti.
Alla luce di ciò, il Comune non poteva che ordinare la demolizione dell’opus, non disponendo di uno spazio di discrezionalità sotto alcun rispetto (an, quid, quomodo, quando), ma versando, al contrario, nella condizione di dover solo riscontrare nella realtà materiale la ricorrenza dei presupposti (edificazione in area inedificabile) al cui positivo riscontro la legge riconnette l’esercizio di un potere normativamente in toto conformato.
La natura interamente vincolata del potere nella specie speso rende, pertanto, applicabile il richiamato art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990: l’Amministrazione, mediante la produzione del verbale del sopralluogo nel corso del quale sono state rilevate le opere abusive e il preciso riferimento alle prescrizioni urbanistiche vigenti nell’area, ha assolto all’onere processuale delineato dalla disposizione in commento, dimostrando che il “contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Né, per vero, valgono in contrario senso le considerazioni formulate in primo grado dalla sig.ra Fi.: in disparte la, peraltro assorbente, considerazione circa la mancata riproposizione in appello delle medesime, con effetto di rinuncia ex lege (art. 101, comma 2, c.p.a.), non vi possono essere dubbi circa il “regime giuridico cui restano soggette le opere in contestazione”, inevitabilmente destinate alla demolizione in quanto la loro stessa esistenza è, a quanto consta, incompatibile con le vigenti prescrizioni urbanistiche (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2017 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dicembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: Ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso e del proprietario del bene.
Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria sostitutiva attraverso la rimozione delle opere abusive, si ritiene che il ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso (o del proprietario del bene) sia idoneo a determinare la perdita del potere di esigere il pagamento della sanzione già applicata.
Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza il prezzo di una sanatoria, non esiste un interesse pubblico che possa opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori acquisiti dal privato in violazione della disciplina urbanistica.
Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di verificare che:
   (a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo tecnicamente possibile ma anche non facilmente reversibile, e
   (b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non comportino pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita in conformità (peraltro è possibile che il privato accetti di modificare anche la parte conforme, se questo appare utile per eliminare in sicurezza le opere abusive).
Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001.
L’amministrazione subirebbe infatti un danno economico se accettasse di perdere l’importo della sanzione in cambio di un’eliminazione solo apparente dell’abuso, e d’altra parte non è possibile lasciare al privato la valutazione circa l’assenza di rischi per la sicurezza delle persone e delle cose.
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Nello specifico, è evidente che il ribassamento del soffitto fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio in legno non costituisce né un intervento irreversibile (essendo anzi facilmente reversibile) né un ostacolo all’utilizzo della superficie del locale per qualsiasi destinazione, comprese quelle incompatibili con la disciplina urbanistica. Si tratta in realtà di una misura che non cancella l’abuso edilizio, e in particolare non riduce la superficie lorda di pavimento e il connesso maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di terreno sulla copertura.
La rimozione radicale delle opere abusive non è stata proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi che un simile intervento potrebbe creare per la parte conforme dell’edificio.
Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento di riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è possibile qualificare come superfici non utili, e quindi urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è appena al di sotto del limite minimo ma comunque perfettamente idonea a consentire la generalità degli utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è possibile conseguire la sanatoria solo formalmente, ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica. L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
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Relativamente ai parametri utilizzati per calcolare l’importo di cui all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, la base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge 392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di produzione sono poi applicati diversi coefficienti in incremento o in riduzione.
Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art. 16, relativo alla tipologia dell’abitazione.
Nel caso del ricorrente, questo significherebbe non applicare il coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo della sanzione pecuniaria. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione, sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria.
Così formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi, il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando conseguentemente il principio di certezza del diritto.
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Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di produzione occorre fare riferimento alla situazione successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore economico rilevante è quello che risulta dal completamento dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può conservare il valore attuale del bene illegittimamente realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie edilizie di favore (come la definizione di locale seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni legittime.
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L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la copertura.
Non sembra tuttavia che questa situazione possa consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione. L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso) di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della propria obbligazione.

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... per l'annullamento dell’ordinanza del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo prot. n. 9128/2015 del 23.01.2015, con la quale è stato nuovamente ingiunto al ricorrente il pagamento di una sanzione pari a € 88.520,28 in luogo della demolizione delle opere abusive, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380;
...
1. Il Comune di Carobbio degli Angeli, con ordinanza del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 23.01.2015, ha nuovamente ingiunto al ricorrente Si.Fu. il pagamento di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle opere abusive, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380. L’importo della sanzione è stato quantificato in € 88.520,28.
2. L’intervento edilizio abusivo interessa un edificio residenziale situato nella frazione di S. Stefano, e consiste nella realizzazione di una cantina più ampia di quanto assentito e nella trasformazione della stessa in taverna o soggiorno abitabile (e quindi in superficie utile).
3. Questo intervento è stato ritenuto non sanabile, mentre per altre opere abusive eseguite nel medesimo edificio è stato concesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001. La domanda di sanatoria era stata presentata il 25.06.2012, ed era poi stata integrata l’08.01.2013.
4. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 02.03.2013, aveva già quantificato in € 88.520,28 la sanzione ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001. Tale provvedimento non è stato impugnato.
5. In data 04.05.2013 il ricorrente ha contestato direttamente presso gli uffici comunali le modalità di calcolo attraverso una perizia del geom. Ma.An.Br., proponendo una stima diversa. I punti di contrasto (riferiti agli art. 16-19-21-22 della legge 27.07.1978 n. 392) riguardavano (a) il livello di piano (seminterrato o piano terra), (b) lo stato di conservazione dell’immobile (mediocre o normale), e (c) la base di calcolo della sanzione pecuniaria (disapplicazione del coefficiente correttivo riferito alla tipologia di costruzione).
Modificando solo i parametri relativi al livello di piano e allo stato di conservazione, la sanzione sarebbe pari a € 57.226,02. Se poi venisse modificata anche la base di calcolo, non applicando al costo di produzione la maggiorazione collegata alla tipologia di costruzione, la sanzione sarebbe pari a € 40.875,73.
6. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 20.08.2014, ha respinto l’ipotesi di calcolo formulata dal ricorrente, confermando la sanzione in € 88.520,28. Contro questo provvedimento il ricorrente ha presentato ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con atto notificato il 19.12.2014.
7. Nello stesso tempo, il ricorrente, con nota del 19.11.2014, ha reiterato la richiesta di riduzione della sanzione, e, in alternativa, ha proposto un percorso di cancellazione dell’abuso edilizio mediante modifica dello stato dei luoghi (ribassamento del soffitto fino a 2,50 metri, ripristino della destinazione a cantina). L’eliminazione delle opere abusive avrebbe dovuto comportare l’inapplicabilità dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, e la conseguente liberazione del ricorrente dall’obbligazione pecuniaria.
8. Il Comune, con la citata ordinanza del 23.01.2015, ha respinto le richieste del ricorrente, confermando l’importo della sanzione.
9. Contro il suddetto provvedimento il ricorrente ha presentato impugnazione davanti a questo TAR, con atto notificato il 26.03.2015 e depositato il 17.04.2015. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
   (i) violazione delle garanzie procedimentali per omesso invio del preavviso di diniego;
   (ii) violazione dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, in quanto il Comune non ha consentito al ricorrente di sottrarsi alla sanzione pecuniaria rimuovendo le opere abusive;
   (iii) violazione degli art. 15-22 della legge 392/1978, in quanto vi sarebbero degli errori nel calcolo del costo di produzione delle opere abusive (in proposito, il ricorso rinvia a una nuova perizia del geom. Ma.An.Br., datata 12.10.2014).
10. Il Comune si è costituito in giudizio, eccependo l’inammissibilità del ricorso, e chiedendone la reiezione nel merito.
11. Questo TAR, con ordinanza 12.05.2015 n. 793, ha accolto la domanda cautelare in relazione al secondo motivo di ricorso, invitando il Comune a esaminare la proposta di cancellazione delle opere abusive finalizzata a ottenere la liberazione dalla relativa sanzione.
12. In esecuzione dell’ordine del TAR, il Comune ha invitato il ricorrente a chiarire le modalità scelte per l’eliminazione dell’abuso edilizio. Il ricorrente ha presentato un apposito progetto, che prevedeva la riduzione dell’altezza interna del locale destinato a soggiorno mediante l’installazione di un solaio in legno con innesti nella muratura, e contemporaneamente la mimetizzazione della costruzione all’esterno con la posa di terreno sulla copertura.
Il responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo, con provvedimento del 05.08.2015, ha ritenuto che la predetta soluzione non fosse idonea a ripristinare una situazione urbanisticamente conforme, in quanto lasciava invariata la maggiore superficie lorda di pavimento (87,05 mq) rispetto a quella assentita (45,00 mq).
13. Il provvedimento del 05.08.2015 non è stato impugnato.
14. Così riassunta la vicenda contenziosa, sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulle eccezioni preliminari
15. La sanzione pecuniaria ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, sostitutiva della demolizione, è stata definita nello stesso importo in tre distinti provvedimenti: il primo (02.03.2013) non impugnato; il secondo (20.08.2014) impugnato con ricorso straordinario; il terzo (23.01.2015) impugnato nel presente ricorso.
16. Non vi è stata acquiescenza rispetto al primo provvedimento, in quanto la richiesta di riesame ha tenuto aperto il canale di confronto con gli uffici comunali. L’amministrazione, pertanto, sia con il secondo sia con il terzo provvedimento, ha adottato decisioni fondate su una nuova valutazione dei fatti, che hanno ciascuna sostituito la precedente.
17. Proseguendo su questa linea, si può ritenere che non vi sia litispendenza rispetto al ricorso straordinario, in quanto il terzo provvedimento si presenta come la risposta finale dell’amministrazione alle plurime richieste e contestazioni del ricorrente. L’interesse a impugnare il secondo provvedimento sussisteva certamente in origine, ma è stato poi sostituito dall’interesse a impugnare il terzo provvedimento, che ha definitivamente impedito al ricorrente sia di cancellare la sanzione pecuniaria attraverso la rimozione delle opere abusive sia di ottenere una riduzione dell’importo dovuto.
18. Non sussisteva invece un autonomo onere di impugnazione del quarto provvedimento della serie, ossia del nuovo diniego emesso dal Comune il 05.08.2015 in seguito al supplemento istruttorio disposto da questo TAR con l’ordinanza cautelare. Per chiarire questo punto è necessario esaminare il primo motivo di impugnazione, che riguarda la violazione delle garanzie procedimentali.
Sulle garanzie procedimentali
19. In generale, l’omissione del preavviso di diniego in una procedura avviata da tempo e caratterizzata dalla continua interlocuzione tra il privato e gli uffici comunali non può essere considerata come un vizio autonomo del provvedimento finale.
20. Diverso è il problema del mancato esame dell’ultima proposta avanzata dal ricorrente, ossia della possibilità di ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria mediante la rimozione delle opere abusive. Qui, in effetti, l’interlocuzione tra il ricorrente e gli uffici comunali si è arrestata troppo presto, lasciando il dubbio di un’istruttoria inadeguata.
Questo difetto, tuttavia, non riguarda l’intero provvedimento (non incide, in particolare, sui criteri di calcolo della sanzione pecuniaria), e può essere oggetto di convalida in sede giudiziale tramite il meccanismo della motivazione ex post di cui all’art. 21-octies comma 2 della legge 07.08.1990 n. 241.
21. L’ordinanza cautelare, attivando immediatamente il suddetto meccanismo allo scopo di fare economia dei mezzi processuali, ha rimesso in termini le parti per completare il confronto anche su questo profilo della vicenda contenziosa. Tale confronto ha avuto esito negativo per il ricorrente, nel senso che il Comune ha confermato motivatamente la propria posizione.
Tuttavia, poiché il nuovo provvedimento appartiene all’attività processuale, non è necessaria un’autonoma impugnazione, potendovi essere diretta cognizione da parte del giudice, nella fase di merito, sugli atti conseguenti alle pronunce cautelari. La censura riguardante il mancato esame della proposta di rimozione delle opere abusive si trasforma quindi da formale a sostanziale, concentrandosi sulle ragioni che non hanno consentito questo percorso di sanatoria.
Sulla cancellazione delle opere abusive
22. Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria sostitutiva attraverso la rimozione delle opere abusive, si ritiene che il ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso (o del proprietario del bene) sia idoneo a determinare la perdita del potere di esigere il pagamento della sanzione già applicata. Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza il prezzo di una sanatoria, non esiste un interesse pubblico che possa opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori acquisiti dal privato in violazione della disciplina urbanistica.
23. Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di verificare che (a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo tecnicamente possibile ma anche non facilmente reversibile, e (b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non comportino pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita in conformità (peraltro è possibile che il privato accetti di modificare anche la parte conforme, se questo appare utile per eliminare in sicurezza le opere abusive).
24. Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001. L’amministrazione subirebbe infatti un danno economico se accettasse di perdere l’importo della sanzione in cambio di un’eliminazione solo apparente dell’abuso, e d’altra parte non è possibile lasciare al privato la valutazione circa l’assenza di rischi per la sicurezza delle persone e delle cose.
25. Nello specifico, è evidente che il ribassamento del soffitto fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio in legno non costituisce né un intervento irreversibile (essendo anzi facilmente reversibile) né un ostacolo all’utilizzo della superficie del locale per qualsiasi destinazione, comprese quelle incompatibili con la disciplina urbanistica. Si tratta in realtà di una misura che non cancella l’abuso edilizio, e in particolare non riduce la superficie lorda di pavimento e il connesso maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di terreno sulla copertura.
26. La rimozione radicale delle opere abusive non è stata proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi che un simile intervento potrebbe creare per la parte conforme dell’edificio.
27. Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento di riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è possibile qualificare come superfici non utili, e quindi urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è appena al di sotto del limite minimo ma comunque perfettamente idonea a consentire la generalità degli utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è possibile conseguire la sanatoria solo formalmente, ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica. L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
Sulla quantificazione della sanzione pecuniaria sostitutiva
28. Relativamente ai parametri utilizzati per calcolare l’importo di cui all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, si ritiene che il Comune abbia operato correttamente.
29. La base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge 392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di produzione sono poi applicati diversi coefficienti in incremento o in riduzione.
30. Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art. 16, relativo alla tipologia dell’abitazione. Nel caso del ricorrente, questo significherebbe non applicare il coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo della sanzione pecuniaria.
31. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione, sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria. Così formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi, il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando conseguentemente il principio di certezza del diritto.
32. L’art. 19 della legge 392/1978 individua il coefficiente 0,80 per le abitazioni situate al piano seminterrato. Il ricorrente sostiene che il locale abusivo sarebbe appunto seminterrato, tenendo conto della linea originaria del terreno.
33. Questa impostazione non può essere condivisa. Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di produzione occorre fare riferimento alla situazione successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore economico rilevante è quello che risulta dal completamento dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può conservare il valore attuale del bene illegittimamente realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie edilizie di favore (come la definizione di locale seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni legittime.
34. Nello specifico, le stesse cartografie prodotte dal ricorrente in occasione della domanda di sanatoria e la relativa documentazione fotografica (doc. 5 e 6 del Comune) chiariscono che il locale abusivo fuoriesce dal terreno su tre lati, ed è del tutto assimilabile per aspetto e funzionalità a una costruzione fuori terra.
35. L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la copertura.
36. Non sembra tuttavia che questa situazione possa consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione. L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso) di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della propria obbligazione.
37. Nello specifico, come riferito nel provvedimento del 23.01.2015 oggetto di impugnazione, le autocertificazioni e le dichiarazioni allegate alla domanda di sanatoria attestavano la conformità dell’impianto elettrico e dell’impianto termosanitario, e l’idoneità statica del locale. Su questa base, si può ritenere che alla data della domanda di sanatoria, e a maggior ragione alla data di conclusione dei lavori abusivi, l’immobile si trovasse in uno stato di conservazione e manutenzione normale.
Conclusioni
38. Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.12.2016 n. 1792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione delle opere abusive nelle aree naturali protette: il principio “tempus regit actum (parere 16.12.2016-593183, AL 20874/2016 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2017).
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L’Avvocatura distrettuale in indirizzo con la nota di riferimento ha rimesso a questo G.U. il proprio parere in ordine alla questione in oggetto, sollevata dall’ente Parco ... con nota del 09.03.2016 n. 1322, ritenuta rilevante ed avente portata di massima.
In particolare, l’ente Parco ha posto il quesito se prima della entrata in vigore della legge n. 426/1998 e della legge n. 296/2006, l’acquisizione delle proprietà delle aree soggette anche a vincolo di parco e sulle quali fu commesso un abuso edilizio, si verifichi esclusivamente in capo agli enti comunali allo scadere dei novanta giorni dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione da questi ultimi emanata. (...continua).

novembre 2016

EDILIZIA PRIVATA: PUÒ ESSERE ACCERTATO IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO SE L’INTERVENTO EDILIZIO È ANCORA IN CORSO D’OPERA?
Il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma1, lett. b), non presuppone necessariamente il completamento dell’opera, ma è altresì configurabile nel corso dell’esecuzione degli interventi edilizi, allorché la difformità risulti palese durante l’esecuzione dei lavori, in quanto dalle opere già compiute appare evidente la realizzazione di un organismo diverso da quello assentito.
La questione affrontata dalla Cassazione con la sentenza qui esaminata è di particolare interesse e riguarda l’individuazione delle condizioni in base alle quali può essere ritenuto configurabile un mutamento di destinazione d’uso quando ancora l’intervento edilizio non è ultimato.
La vicenda processuale trae origine dalla Corte d’Appello che aveva confermato quella del Tribunale con la quale l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), perché quale proprietario committente aveva realizzato in totale difformità dalla concessione edilizia in luogo dei previsti locali di sgombero sottotetto, due ulteriori unità immobiliari con destinazione residenziale prive dell’altezza minima prevista per l’abitabilità, indipendenti rispetto alle sottostanti unità abitative ed accessibili tramite scala esterna e con aperture finestrate, non previste in progetto, che avevano determinato le modifiche dei prospetti.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che l’affermazione di responsabilità era stata basata sulle dichiarazioni dell’agente accertatore che, pur privo delle necessarie conoscenze tecniche specifiche, aveva dichiarato che si era in presenza di un ipotizzabile cambio di destinazione d’uso, senza valutare la documentazione prodotta e le dichiarazioni rese dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale che comprovavano la sanabilità dell’opera.
La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando come era stato accertato che i servizi realizzati (di natura idraulica, elettrica, fognaria) all’interno delle parti del fabbricato destinate ad uso non abitativo fossero inequivocabilmente dimostrativi della diversa destinazione in corso di realizzazione, non assentita dal permesso di costruire e certamente idonea ad incidere sul carico urbanistico, sicché, nella specie, il reato era già sussistente, non occorrendo certamente il completamento degli interventi abusivi per configurarlo.
A tal proposito, i Supremi Giudici hanno fatto applicazione di un principio già affermato dalla Cassazione secondo cui il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire (del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), non presuppone necessariamente il completamento dell’opera, ma è altresì configurabile nel corso dell’esecuzione degli interventi edilizi, allorché la difformità risulti palese durante l’esecuzione dei lavori, in quanto dalle opere già compiute appare evidente la realizzazione di un organismo diverso da quello assentito (Cass. pen., Sez. III, 20.09.2007, n. 41578, B., in CED, n. 238000; Id., Sez. III, 30.01.2008, n. 13592, P.M. in proc. D., in CED, n. 239837).
Da qui la conclusione degli Ermellini secondo cui in corso d’opera, l’accertamento del mutamento di destinazione d’uso va effettuato sulla base della individuazione di elementi univocamente significativi, propri del diverso uso cui è destinata l’opera e non coerenti con la destinazione originaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.11.2016 n. 49840 - Urbanistica e appalti 2/2017).

EDILIZIA PRIVATA: SOLO LA DIFFORMITÀ PARZIALE RISPETTO ALL’ASSENTITO NON È SOGGETTA A SANZIONE PENALE IN CASO DI SUPERDIA.
In tema di reati edilizi, nel caso in cui la denuncia di inizio attività (DIA ora SCIA) si ponga quale titolo abilitativo esclusivo (d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 22, commi 1 e 2), solo l’esecuzione di interventi edilizi in difformità sostanziale da quanto stabilito dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti edilizi integra il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a).
Diversamente, nel caso in cui la DIA si ponga quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cosiddetta superDIA: d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3) è configurabile il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), sia nel caso di assenza del permesso di costruire o della DIA, sia nel caso di difformità totale delle opere eseguite rispetto alla DIA presentata, restando priva di sanzione penale la sola difformità parziale.

La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame sulla configurabilità del reato di costruzione edilizia abusiva in caso di interventi edilizi eseguibili con la c.d. DIA alternativa (ora SCIA) al permesso di costruire.
La vicenda processuale trae origine, per quanto qui di interesse, dalla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la quella di primo grado che aveva dichiarato l’imputato responsabile del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), il d.P.R. n. 380 del 2001, per aver realizzato opere in difformità rispetto alle previsioni progettuali -consistite in interventi di occupazione di un’area di superficie superiore a quella indicata, realizzazione dei muretti di divisione dei settori e di muretto di divisione esterno, omessa realizzazione di adeguato sistema di canalizzazione delle acque meteoriche- e con violazione della disposizioni in materia antisismica.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, sostenendo che, all’esito dell’istruttoria, era emerso che le divergenze tra la DIA e lo stato di fatto accertato non presentavano quelle caratteristiche di “integrale diversità” atte ad integrare la fattispecie criminosa, limitandosi, invece, a correzioni di poco conto che il tecnico incaricato della direzione dei lavori aveva ritenuto necessario effettuare in corso d’opera al fine di garantire la funzionalità della struttura; il Tribunale aveva, però, ritenuto configurabile la fattispecie criminosa di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), con violazione dei diritti di difesa per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, mentre la Corte di Appello aveva ritenuto integrata la fattispecie criminosa di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso per il mancato esame delle doglianze difensive, soffermandosi più specificamente sul regime sanzionatorio della c.d. superDIA.
Ha ricordato, in proposito, la Cassazione che la DIA prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3 (c.d. DIA alternativa o SuperDIA), non è istituto ontologicamente diverso da quello disciplinato dai due commi precedenti (c.d. DIA semplice, ora SCIA) dal quale non si distingue certo per il carattere dell’onerosità, che ben può essere comune e differisce da esso soltanto in relazione agli interventi assoggettabili (alternativamente) alla procedura.
Diverso, invece, è il connesso regime sanzionatorio.
Nei casi previsti dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, commi 1 e 2, -in cui la DIA (ora S.C.I.A.), si pone come titolo abilitativo esclusivo (non alternativo, cioè, al permesso di costruire)- la mancanza della denunzia di inizio dell’attività o la difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata non comportano l’applicazione di sanzioni penali ma sono sanzionate soltanto in via amministrativa (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, comma 6).
Dovendo ritenersi, però, che sia comunque punibile ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), -pure se preceduta da rituale denuncia d’inizio- l’esecuzione di interventi sostanzialmente difformi da quanto stabilito da strumenti urbanistici e regolamenti edilizi. La Cassazione ha, infatti, affermato che l’esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 22, commi 1 e 2, (ora S.C.I.A.), allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l’applicazione della sanzione penale prevista dal citato d.P.R. n. 380, art. 44, lett. a), atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora S.C.I.A.), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dallo stesso d.P.R. n. 380 del 2001, art. 37 (Cass. pen., Sez. III, 22.11.2006, n. 41619, C., in CED, n. 235413; Id., Sez. III, 20.01.2009, n. 9894, T., in CED, n. 243099).
Nei casi previsti dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3, invece- in cui la DIA (DIA alternativa o superDIA), ai sensi del successivo art. 44, comma 2-bis, si pone come alternativa al permesso di costruire, l’assenza sia del permesso di costruire sia della denunzia di inizio dell’attività ovvero la totale difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata integrano il reato di cui al successivo art. 44, lett. b) (Cass. pen.,Sez. III, 09.03.2006, n. 8303; Id., 26.01.2004, n. 2579, T.).
La disciplina sanzionatoria penale non è correlata alla tipologia del titolo abilitativo, bensì alla consistenza concreta dell’intervento. Ciò che conta non è la qualificazione dell’intervento data dal privato nella DIA presentata ma la esatta indicazione e descrizione, in tale denuncia, delle opere, poi, effettivamente eseguite (Cass. pen., Sez. III, 26.10.2007, n. 47046, in CED, n. 238463).
Non trova, comunque, sanzione penale la difformità parziale: le sanzioni di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, sono applicabili soltanto in caso di assenza o totale difformità dalla DIA, atteso che la esclusione dell’ipotesi di parziale difformità dal regime sanzionatorio opera sia in caso di edificazione con permesso di costruire che nella diversa ipotesi di opzione per la DIA (Cass. pen., Sez. III, 23.09.2004, n. 44248, in CED, n. 230147) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2016 n. 47970 - Urbanistica e appalti 2/2017).

EDILIZIA PRIVATA: Come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso.
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Mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso.
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7 - Su queste premesse è possibile esaminare le restanti singole censure, anche mediante accorpamento delle stesse per omogeneità delle tematiche involte.
La lamentata violazione degli artt. 7 e ss. legge 241/1990 (atteso che l’originaria contestazione di avviso della autotutela non contemplava il preteso spostamento verso l’esterno delle originarie pareti in ferro e vetri) si rivela infondata, poiché dalla disamina del complesso carteggio emerge la volontà dell’amministrazione comunale di sottoporre a verifica la totalità degli interventi eseguiti sull’albergo Ro..
Peraltro, come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/90 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, sez. IV, n. 3605/2016, sez. VI, n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147).
8 - La censura avente ad oggetto violazione degli artt. 3, 10, 22, DPR 380, art. 1 D.Lgs. 301/2000 (nonché la violazione delle leggi regionale n. 19 del 2001 e n. 16 del /2004, eccesso di potere, difetto di motivazione, violazione art. 31 e 32 DPR 380, violazione degli artt. 7 e 14 delle NTA della variante generale al PRG, violazione art. 124 e 12 delle NTA, eccesso di potere per difetto di istruttoria, errore sul presupposto, violazione dell’art. 33, co. 4 e 6-bis DPR 380/2001) risulta non convincente, poiché, come detto, gli interventi non possono essere considerati assentibili con D.I.A.; ne consegue la reiezione anche di tutte le altre censure (violazione degli artt. 33, comma 4, 34, 37 e 38 DPR 380/2001) che si fondano sulla tesi della validità abilitativa della D.I.A., con la specificazione che la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria, infatti, attiene alla fase dell'esecuzione dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto va ribadito che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso (ex multis, v. Sent. TAR Napoli, sez. IV, n. 3120/2015, cit., nonché TAR Napoli, sez. VII, 14.06.2010 n. 14156) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione dei manufatti (abusivi) in questione sulla base di una pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del codice civile.
Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei manufatti.
Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.

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Le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente.
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata, essendo certa esclusivamente la provenienza della dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune ai fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque titolo.
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Né ha pregio il deposito in giudizio di perizia giurata a firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale preesistenza.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i contrari elementi di prova oggettivi richiamati dall’amministrazione.
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... per l'annullamento del provvedimento 17.03.2014 prot. n. 75484 con il quale il Dirigente del Coordinamento Edilizia Privata del Comune di Verona ha negato alla ricorrente il permesso di costruire in sanatoria per opere di manutenzione straordinaria e del permesso di costruire per opere di ristrutturazione oggetto dell'istanza in data 08.06.2012 n. 4729;
...
2. Nell’udienza pubblica del 26.10.2016 parte ricorrente ha depositato copia di querela di falso proposta presso il tribunale di Venezia riguardo la veridicità della relazione di sopralluogo cui fanno riferimento i provvedimenti impugnati e ha chiesto la sospensione del processo ai sensi dell’art. 77 del codice del processo amministrativo.
Il collegio rigetta l’istanza di sospensione del processo.
Infatti la relazione di sopralluogo ha desunto la recente costruzione dei manufatti in questione sulla base di una pluralità di elementi di fatto, i quali sono assistiti dalla garanzia della prova privilegiata di cui all’art. 2700 del codice civile (per principi analoghi Consiglio di Stato III n. 4080 del 2016). Ossia parte ricorrente può provare in giudizio l’eventuale non veridicità degli elementi di fatto posti a supporto delle conclusioni riguardo la recente costruzione dei manufatti. Del resto la stessa parte ricorrente ha tentato in concreto di dimostrare nel presente giudizio tale non veridicità.
Inoltre parte ricorrente si è limitata a chiedere la sospensione del processo senza dimostrare la pregiudizialità dell’attivato giudizio sulla querela di falso rispetto al presente giudizio. Ne consegue che tale pregiudizialità risulta non dimostrata.
Ancora la recente costruzione dei manufatti è stata desunta, con i provvedimenti impugnati, da una pluralità di elementi ulteriori rispetto alla relazione di sopralluogo, quali:
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Anche sotto tale ulteriore profilo risulta pertanto la non pregiudizialità della querela di falso.
3. Col ricorso principale è stato impugnato il provvedimento di diniego di sanatoria.
Parte ricorrente lamenta eccesso di potere per travisamento dei fatti, carenza d’istruttoria e difetto di motivazione. Lamenta in particolare che il comune di Verona ha indebitamente svalutato il valore delle dichiarazioni sostitutive di notorietà rese da tre anziane signore che da quasi un secolo conoscono i luoghi, qualificandole come imprecise e generiche.
Ritiene, con riferimento ai contrari elementi probatori evidenziati dal comune, quanto segue:
- i mancati rilievi fotografici sarebbero dovuti alla folta vegetazione;
- la mancata indicazione dei manufatti nel progetto edilizio del 2004 si spiegherebbe in relazione alla diversità tra la zona di progetto e la zona in cui sono individuati i manufatti;
- la destinazione ad annessi rustici avrebbe giustificato la loro omissione nell’atto notarile di compravendita di terreni;
- il rilievo di un cantiere in attività nel primo verbale di accertamento non sarebbe sostenuto da elementi oggettivi.
Il ricorso principale è infondato.
Infatti le dichiarazioni sostitutive di notorietà possono costituire solo indizi che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione nell’ambito della quale è stata specificamente rilevata e motivata l’inattendibilità di quanto rappresentato dal richiedente (così Consiglio di Stato VI n. 3666 del 27.07.2015).
Il contenuto di quanto rappresentato nella dichiarazione sostitutiva non è assistito da garanzia privilegiata, essendo certa esclusivamente la provenienza della dichiarazione da parte di chi l’ha sottoscritta.
Nel caso di specie l’inattendibilità del contenuto della dichiarazione sostitutiva è stata dimostrata da una serie di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ossia:
- in data 22.12.2011 è stato effettuato un sopralluogo con cui si dà specificamente atto che alcuni dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria erano in corso di esecuzione;
- i manufatti oggetto di sanatoria non compaiono nei fogli dei rilievi aerei del comune di Verona del 1971;
- in data 18.05.2000 con atto notarile notaio Giulio Alessio tali terreni erano stati acquistati dalla ricorrente e nell’atto si fa specifico riferimento alla circostanza che i terreni sono privi di fabbricati. Inoltre i presunti fabbricati non sono stati accatastati;
- in data 17.09.2004 parte ricorrente presentava istanza di permesso di costruire avente ad oggetto fabbricati rurali annessi all’azienda agricola e in tale istanza non si faceva riferimento alla preesistenza dei manufatti per i quali è stata denegata la sanatoria. I manufatti preesistenti, pur essendo previsti su altra area di sedime, sono collocati sullo stesso terreno la cui planimetria è stata oggetto dell’istanza del 17.09.2004.
Ne consegue la correttezza e congruità della motivazione del diniego di sanatoria.
Il collegio evidenzia che parte ricorrente avrebbe dovuto provare che i manufatti sono stati costruiti anteriormente all’anno 1945, così come prescrive l’art. 3 del regolamento edilizio del comune di Verona ai fini della legittimazione di manufatti privi di qualunque titolo.
Non essendo stata raggiunta tale prova, la sanatoria, essendo stata richiesta dopo l’imposizione del vincolo, richiedeva necessariamente l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Si tratta tuttavia di manufatti che hanno comportato creazione di volumi. Conseguentemente il rilascio del permesso in sanatoria è inibito dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il diniego di sanatoria e la conseguente ordinanza di demolizione sono dunque atti dovuti e vincolati.
4. Sono infondate le censure proposte con motivi aggiunti di ricorso avverso l’ordinanza di demolizione sia perché sono proposti vizi d’invalidità derivata già proposti col ricorso principale sia perché l’amministrazione ha congruamente smentito la circostanza, invocata da parte ricorrente, che i manufatti preesistessero ad epoca anteriore alla seconda guerra mondiale.
Né ha pregio il deposito in giudizio in data 07.05.2015 di perizia giurata a firma dell’ing. Pi.Gi.Pu.Ma. che affermerebbe tale preesistenza.
Si tratta infatti di perizia che non è stata prodotta da parte ricorrente nel procedimento che ha condotto all’adozione dei provvedimenti impugnati né sussistevano impedimenti a che tale perizia fosse eventualmente prodotta nel momento in cui parte ricorrente, nell’ambito delle proprie facoltà partecipative, era abilitata a presentare memorie e documenti prima dell’adozione dei provvedimenti impugnati.
Il collegio prescinde dalla circostanza che il motivo di ricorso incentrato su tale perizia costituisce motivo nuovo di ricorso, proposto oltre il termine decadenziale di 60 giorni dalla conoscenza del provvedimento impugnato e dunque irricevibile per tardività. Infatti tale motivo di ricorso è comunque infondato.
Infatti tale perizia costituisce comunque il frutto di deduzioni di parte, che non sono idonee a provare la preesistenza dei manufatti all’anno 1945 e non smentiscono i contrari elementi di prova oggettivi richiamati dall’amministrazione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 1228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostante orientamento giurisprudenziale ha rilevato come l'art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di abitabilità dell'immobile condonato.
Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere eccezionale e derogatorio della disciplina del condono edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano della legittimità costituzionale, perché incidenti sul fondamentale principio della tutela della salute.
Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di una normativa di rango primario, costituendo una diretta applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265 (Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
Ne consegue che proprio il carattere della fonte, diretta attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, non autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono per le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene, questi ultimi non attuativi di norme di legge gerarchicamente sovraordinate.

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FATTO
Il Sig. Ca.Ve. e la Sig.ra Ca.El. hanno impugnato un provvedimento di annullamento degli effetti dell’attestazione di abitabilità e del successivo rigetto della richiesta di riesame, provvedimenti questi ultimi successivi ad un cambio di destinazione da residence a abitazione civile proposto dagli stessi ricorrenti.
Il provvedimento di annullamento degli effetti dell’attestazione di abitabilità risulta emanato in considerazione del fatto che non sarebbero stati dimostrati i requisiti igienico-sanitari di cui al DM del 05.07.1975, in quanto l'immobile avrebbe una superficie pari a soli 25 mq., inferiore ai 28 mq previsti dalla disposizione sopra citata.
I ricorrenti con l’unico motivo sostengono la violazione dell’art. 35, comma 20, della legge 28.02.1985 n. 47 e degli artt. 24 del D.p.r. n. 380/2001 e 149 della L. Reg. n. 65/2014, in quanto dette disposizioni consentirebbero, una volta intervenuto il condono edilizio, di ottenere l'attestazione di abitabilità anche in deroga delle norme regolamentari e, quindi, anche del DM del 05.07.1975.
Si è costituito il Comune di Firenze contestando le argomentazioni dei ricorrenti e chiedendo il rigetto del ricorso in considerazione della sua infondatezza.
All’udienza del 25.10.2016, uditi i procuratori delle parti costituite, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
DIRITTO
1. In ricorso è infondato e va respinto.
1.1 E’ necessario evidenziare che la fattispecie in esame risulta disciplinata dall’art. 3 del DM del 05.07.1975 nella parte in cui prevede che l'alloggio monostanza, per una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a mq. 28, e non inferiore a mq. 38, se per due persone.
1.2 Detta disposizione a parere dei ricorrenti risulterebbe derogabile nell’ipotesi di condono in considerazione di quanto previsto dall’art. 35, comma 20, della L. 47/1985 nella parte in cui dispone che "a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari.".
1.3 Le argomentazioni dei ricorrenti sono smentite da un costante orientamento giurisprudenziale che ha rilevato come l'art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985, nella lettura costituzionalmente orientata imposta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 256/1996, non può essere interpretato come diretto a sancire una forma di automatismo tra rilascio del condono e certificazione/attestazione di abitabilità dell'immobile condonato (in questo senso si veda TAR Liguria, Genova, n. 194 del 27/1/2012).
1.4 Si consideri, inoltre, che è proprio il carattere eccezionale e derogatorio della disciplina del condono edilizio a non consentire un’interpretazione estensiva delle disposizioni contenute nella L. n. 47/1985, non risultando ammissibili interpretazioni che avrebbero riflessi sul piano della legittimità costituzionale, perché incidenti sul fondamentale principio della tutela della salute (in questo senso TAR Toscana Sez. II, 03.04.2009, n. 559 e Cons. Stato, sez. V, 13.04.1999, n. 814).
1.5 Il DM del 05/05/1975 detta disposizioni integrative di una normativa di rango primario, costituendo una diretta applicazione dell’artt. 218 e ss del RD 27.07.1934 n. 1265 (Testo Unico Leggi Sanitarie) e, quindi, di una norma primaria diretta a prevedere dei requisiti minimi in materia igienico-sanitaria, applicabile ai locali d'abitazione.
1.6 Ne consegue che proprio il carattere della fonte, diretta attuazione del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, non autorizza la deroga prevista dalla normativa sul condono per le norme di tipo regolamentare, deroga al contrario applicabile nei confronti delle disposizioni integrative e supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene, questi ultimi non attuativi di norme di legge gerarchicamente sovraordinate.
1.7 Nel caso di specie è circostanza incontestata che il manufatto in questione non presenta le caratteristiche necessarie e sufficienti per assolvere alla destinazione d'uso abitativa, difettando di una superficie minima non inferiore a mq. 28, sicché l’Amministrazione non avrebbe potuto che annullare gli effetti della dichiarazione di abitabilità.
1.9 Il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.11.2016 n. 1575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ottobre 2016

EDILIZIA PRIVATA: RISARCIMENTO DEL DANNO - Proprietario confinante - Legittimazione a costituirsi parte civile - Condanna generica al risarcimento dei danni in favore della Parte Civile - Accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso - Nesso di causalità - Giurisprudenza.
La condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal giudice penale (come avvenuto nel caso di specie), non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013 - dep. 07/11/2013, Di Fatta e altri; Sez. 5, n. 191 del 19/10/2000 - dep. 10/01/2001, Mattioli F. P. ed altri; Sez. 6, n. 12199 del 11/03/2005 - dep. 29/03/2005, Molisso, secondo cui ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della P.C. non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia infatti costituisce una mera "declaratoria juris" da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione; proprio in tema di edilizia, Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009 - dep. 25/11/2009, Vespa, secondo cui il proprietario confinante è legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni (art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni (art. 871 cod. civ.), indipendentemente dalle distanze; fattispecie di mutamento di destinazione d'uso di un piano seminterrato da garage e cantina in miniappartamento) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2016 n. 44319 - link a www.ambientediritto.it).

luglio 2016

EDILIZIA PRIVATALa proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione ma fa conseguire all’atto uno stato di temporanea quiescenza, fino alla definizione del procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere conforme alla strumentazione urbanistica.
Una volta rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così, la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello stesso.

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L’eccezione è infondata.
La proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione, (cfr. Cons. di Stato, n. 1546/2014 e 4818/2013), ma fa conseguire all’atto uno stato di temporanea quiescenza, fino alla definizione del procedimento, espressa o tacita, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o difformità dal titolo edilizio, si accerti tuttavia essere conforme alla strumentazione urbanistica. Una volta rigettata l’istanza di sanatoria, il provvedimento di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così, la permanenza dell’interesse all’impugnazione dello stesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2016 n. 3407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Trasmissione Protocollo d'intesa in corso di stipula relativo all'attività estimativa per abusi edilizi prevista dal DPR 380/2001 (Agenzia delle Entrate, Ufficio provinciale di Milano-Territorio, nota 27.07.2016 n. 22078 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'applicazione dell'art. 39, comma 10-bis, della legge 724/1994 in tema di condono edilizio - Comune di Gaeta (Regione Lazio, parere 22.07.2016 n. 388728 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. dispone che “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle aree e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su quegli “edifici” ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità”;
   2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare”);
   3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a “vincolo per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione”;
   4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766” (rubricata “Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia gravate da usi civici;
   5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490” (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, a seguito dell’abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii.;
   7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
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Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) “colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) “aree” ed in quei particolari (e circoscritti) “edifici” specificamente indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380/2001.
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0. - Il ricorso è infondato nel merito e va respinto, così come manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla ricorrente, per le motivazioni di seguito riportate.
1. - Osserva la Sezione che il gravame si basa, essenzialmente, sulla censura di illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (inserito dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis del D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380/2001.
Difatti, ad avviso del Collegio, alcun eccesso di potere è imputabile, nel caso di specie, al civico Ente resistente, posto che quest’ultimo si è limitato ad irrogare (doverosamente e correttamente) la sanzione pecuniaria nella misura massima di euro 20.000,00, facendo applicazione dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm., (testualmente) “in ragione del sistema vincolistico dell’area”, atteso -come pure condivisibilmente rilevato dal Comune di Nardò- il carattere obbligatorio e vincolato della sanzione pecuniaria di cui al novellato art. 31, comma 4-bis, del T.U. Edilizia n. 380/2001 nell’ipotesi in cui ricorrano -come nella fattispecie in esame- i relativi (stringenti e tassativi) presupposti: si tratta, infatti, di abuso realizzato (come già evidenziato nella parte “Fatto”) in “zona già sottoposta a Vincolo Paesaggistico di cui al D.M. del 04.09.1975 … ovvero attualmente compresa nel P.P.T.R. adottato con D.G.R. n. 1435 del 02.08.2013” - così l’ordinanza n. 94/2015).
L’impugnazione dell’ordinanza n. 94 del 25.02.2015 è, poi, irricevibile per tardività (e, comunque, la relativa impugnazione è proposta solo in via tuzioristica -“ove occorra”-, senza prospettare alcuno specifico vizio della stessa). Peraltro, non risulta (agli atti del giudizio) che alcun gravame sia stato azionato neppure avverso il (presupposto) diniego di sanatoria edilizia ex Lege n. 47/1985.
1.1 - Ciò premesso, osserva la Sezione che la ricorrente deduce, sostanzialmente, che l’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico-, assoggettando alla sanzione pecuniaria massima di € 20.000,00 tutti gli abusi commessi “sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell’art. 27” del D.P.R. n. 380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive dimensioni delle opere (nel caso in esame, l’immobile misura “soli mq 37 per un volume pari a 111,48 mc”)-, contrasterebbe con i principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza, nonché con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della stessa Carta Fondamentale (assimilando, quoad poenam, una gamma di comportamenti che possono assumere natura ed entità estremamente variabile).
La previsione di una “pena in misura fissa” contrasterebbe, inoltre, con il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, nonché con i principi inerenti alla funzione giurisdizionale di cui agli artt. 101 e 102 della Costituzione ed alla funzione rieducativa della pena di cui al successivo art. 27, primo e terzo comma (essendo del tutto irragionevole l’automatismo “legislativo” della sanzione stessa). La sanzione nella misura fissa di euro 20.000,00, poi, risulterebbe, da un lato, eccessivamente gravosa nel caso di abusi di piccole dimensioni, dall’altro non potrebbe sortire alcuna efficacia dissuasiva rispetto ad immobili abusivi di enormi dimensioni.
1.2 - La questione di legittimità costituzionale prospettata, sia pure suggestivamente argomentata, è, ad avviso del Collegio, manifestamente infondata.
L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. dispone che “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle aree e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su quegli “edifici” ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità”;
   2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare”);
   3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a “vincolo per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione”;
   4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766” (rubricata “Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia gravate da usi civici;
   5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490” (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, a seguito dell’abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii.;
   7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato” (pertanto, destituita di ogni fondamento appare la prospettazione operata dalla ricorrente -v. pagg. 12 e 13 del ricorso introduttivo-, a mente della quale, sostanzialmente, il richiamo all’art. 27, comma 2, di cui al citato art. 31, comma 4-bis del D.P.R. n. 380/2001, comporterebbe l’applicazione della sanzione pecuniaria massima non solo agli abusi realizzati in aree ed immobili rientranti nei prefati sistemi vincolistici, ma anche “in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”).
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) “colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) “aree” ed in quei particolari (e circoscritti) “edifici” specificamente indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380/2001.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico– si appalesa manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate.
2. - Per tutto quanto innanzi esposto, il presente ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.07.2016 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2016

EDILIZIA PRIVATA: In base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, i provvedimenti demolitori “non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, essendo sufficiente che l'Amministrazione individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione, anche con mero richiamo alle disposizioni di legge delle quali viene fatta applicazione”, con la conseguenza che il Comune, una volta accertata l’abusività delle opere de quibus, realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, non aveva alcun obbligo di motivare il provvedimento di demolizione in relazione a quanto rilevato nella succitata relazione tecnica.
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In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato “in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere un’ordinanza di demolizione, atteso che, nello schema giuridico delineato dal testo unico dell'edilizia, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, dal momento che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia”.
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di demolizione non preclude all’interessato la possibilità di presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve ritenersi legittimo.
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Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di rigetto, per espressa previsione normativa, trova applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza di parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato nella nota della Soprintendenza, con la conseguenza che l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art. 10-bis.

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Infine, per quanto concerne la censura relativa al fatto che l’Amministrazione comunale non avrebbe proceduto a confutare analiticamente la relazione tecnica allegata alla SCIA del 16.04.2012, la Sezione rileva che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, i provvedimenti demolitori “non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, essendo sufficiente che l'Amministrazione individui con chiarezza le ragioni giuridiche assunte a fondamento della decisione, anche con mero richiamo alle disposizioni di legge delle quali viene fatta applicazione” (Cons. Stato, Sez. IV, 16.06.2008, n. 2977), con la conseguenza che il Comune, una volta accertata l’abusività delle opere de quibus, realizzate in assenza dei richiesti titoli abilitativi, non aveva alcun obbligo di motivare il provvedimento di demolizione in relazione a quanto rilevato nella succitata relazione tecnica.
6. Con il secondo motivo di gravame la società ricorrente ha dedotto l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per violazione dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004; violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990; eccesso di potere sotto i profili del presupposto erroneo, del travisamento dei fatti, del difetto d’istruttoria e della motivazione errata e contraddittoria; nonché violazione dell’art. 15 del regolamento edilizio.
Secondo la società ricorrente, infatti, gli interventi de quibus non avrebbero comportato la creazione di superfici utili e volumi o l’aumento di quelli legittimamente assentiti e sarebbero, quindi, sanabili ai sensi dell’art. 167, lett. a) e c) del d.lgs. n. 42 del 2004, con la conseguenza che il Comune, prima di adottare il contestato provvedimento demolitorio, avrebbe dovuto comunicare alla società ricorrente il preavviso di diniego di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, consentendo alla società di depositare una istanza di sanatoria paesaggistica ai sensi del succitato art. 167.
Detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato “in caso di abusivismo edilizio, non sussiste a carico del Comune l'onere di verificare la sanabilità dell'opera prima di emettere un’ordinanza di demolizione, atteso che, nello schema giuridico delineato dal testo unico dell'edilizia, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, dal momento che l'esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell'esecuzione di un'opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia” (Cons. di Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4279).
In altri termini, una volta accertata la natura abusiva delle opere, l’Amministrazione non ha l’obbligo di valutarne in via preventiva la sanabilità, e ciò sia perché tale valutazione non è esplicitamente richiesta dalla normativa di settore sia perché l’adozione di una ordinanza di demolizione non preclude all’interessato la possibilità di presentare una successiva domanda di sanatoria.
Ne deriva, quindi, che la mancanza di una preventiva valutazione, da parte dell’Amministrazione comunale, in merito alla sanabilità delle opere de quibus ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non risulta una circostanza adeguata a viziare l’impugnato provvedimento demolitorio, con la conseguenza che il medesimo deve ritenersi legittimo.
Infine, per quanto concerne la censura relativa alla mancata comunicazione, da parte del Comune, del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la Sezione deve rilevare che l’istituto del preavviso di rigetto, per espressa previsione normativa, trova applicazione esclusivamente nei “procedimenti ad istanza di parte” mentre, nel caso di specie, il procedimento che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza di demolizione non è stato avviato sulla base di un’istanza della società ricorrente ma in ragione di quanto rilevato nella nota della Soprintendenza di Napoli e Provincia n. 14402 del 27.08.2012, con la conseguenza che l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo di adottare il preavviso di rigetto di cui al predetto art. 10-bis (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 28.06.2016 n. 1521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Inoltre,
la valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza.
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1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è stabilmente assestata nell'affermare che
in tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così questa sez. 3, n. 33540 del 19.06.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme sez. 4 n. 19714 del 03.02.2009, Izzo F., rv. 243961).
Questa Corte di legittimità
non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori. Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E' dunque pacifico che in tema di reati edilizi,
l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa (Sez. 3, 27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi; 10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Rv. 257676; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv. 261522).
Inoltre,
la valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza (sez. 3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
Alla stregua di tali principi, nella fattispecie in esame, i giudici del merito -con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici- hanno ricondotto all'imputata l'attività di edificazione illecita in oggetto sui rilievi che essa era "proprietaria esclusiva" del fondo oggetto dei lavori abusivi, ne aveva la disponibilità giuridica e di fatto, ed avesse sicuro interesse all'esecuzione delle opere.
Essa, inoltre, non ha dimostrato che non avesse avuto piena conoscenza dei lavori abusivi e che non fosse stata messa in condizione di esprimere il suo dissenso.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nel caso in oggetto, da logico e coerente apparato argomentativo e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera, indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna.
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali- (che riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo comma della legge n. 47 del 1985) prevede, infatti, testualmente che "
per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna".
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come presupposto -diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47 del 1985, art. 19 ed attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, per la confisca dei terreni abusivamente lottizzati- la pronuncia di una sentenza di condanna o ad essa equiparata e non il mero accertamento della commissione dell'abuso edilizio, come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione.
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5. Vanno, inoltre, eliminati l'ordine di demolizione e la disposta confisca, alla stregua delle argomentazioni che seguono.
Con riferimento all'ordine di demolizione, va osservato che questa Corte ha affermato che,
in materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera, indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna (Sez. 3, n. 10/2/2006, Cirillo, Rv. 233673; Sez.3, n. 8409 del 30/11/2006, dep. 28/02/2007, Rv. 235952; Sez. 3, n. 756 del 02/12/2010, dep. 14/01/2011, Rv. 249154; Sez. 3, n. 50441 del 27/10/2015 Rv. 265616).
L'art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001- interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali- (che riproduce l'omologa disposizione di cui all'art. 7, ultimo comma della legge n. 47 del 1985) prevede, infatti, testualmente che "
per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Trattasi di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna" (vedi, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 24.07.1996, ric. Monterisi).
L'ordine di demolizione in oggetto ha, pertanto, come presupposto -diversamente da quanto già previsto dalla stessa L. n. 47 del 1985, art. 19 ed attualmente dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, per la confisca dei terreni abusivamente lottizzati- la pronuncia di una sentenza di condanna o ad essa equiparata e non il mero accertamento della commissione dell'abuso edilizio, come nel caso dì sentenza dì estinzione per prescrizione (vedi Cass., Sez. 3 16.02.1998, n. 4100, ric. Maniscalco).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione impartito con la sentenza impugnata.
Con riferimento alla confisca, va osservato che questa Corte ha affermato che
non può essere disposta la confisca dell'area adibita a discarica abusiva, in caso di estinzione del reato (nella specie, per prescrizione), né a norma dell'art. 256, comma terzo, d.lgs. n. 152 del 2006, né a norma dell'art. 240, comma secondo, cod. pen. (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687; Sez. 3 n. 13741, 22.03.2013, non massimata).
Quanto al primo profilo, va rimarcato che il d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3, stabilisce, infatti, che
unicamente alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. consegue la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato.
Il tenore della disposizione richiamata è, quindi, estremamente chiaro nello stabilire che
la confisca è applicabile soltanto in caso di condanna o applicazione pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., tanto che la sua perentorietà è stata indicata tra le ragioni che consentono di escluderne l'applicabilità con il decreto penale di condanna (Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343; Sez. 3, n. 24659 del 19/03/2009, Rv. 244019).
Quanto al secondo profilo, questa Corte ha affermato che
un'area adibita a discarica abusiva non rientra certamente tra le ipotesi di cui all'art. 240, comma 2, cod. pen., sia perché la realizzazione e la gestione di una discarica, se debitamente autorizzata, è lecita, sia perché la disposizione che la prevede consente la soggezione a confisca obbligatoria solo se l'area appartenga all'autore o al compartecipe al reato (Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rv. 257687, cit.).
Nella specie, quindi,
la declaratoria di estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge anche la confisca disposta con la sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26428 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATANé può contestarsi la legittimità della sanzione pecuniaria se la sua irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole dalla realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che il potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta in essere e che le opere abusive non vengono legittimate per effetto del mero decorso del tempo, in assenza di un esplicito provvedimento che disponga in tal senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.

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Il ricorso, in effetti, non può essere accolto, alla luce della infondatezza delle censure dedotte.
Va, preliminarmente, rilevato che l’irrogazione nei confronti della società Casa di Cura Privata Ma./Vi. dei Pl. S.p.A. della sanzione contestata è legittima e coerente con le norme previste in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380/2001.
L’art. 36 dello stesso decreto, infatti, sancisce la possibilità di ottenere, nel caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso, il permesso in sanatoria, sempre che l’intervento realizzato sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della realizzazione dello stesso che della presentazione della domanda. Per gli interventi non in regola, per i quali è comunque preclusa la demolizione, l’art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prescrive l’applicazione di una sanzione pari al doppio del valore venale della parte dell’opera priva dei necessari titoli abilitativi edilizi.
Né può contestarsi la legittimità di tale sanzione se la sua irrogazione avviene a distanza di tempo ragguardevole dalla realizzazione dell’opera abusiva; ciò, dal momento che il potere repressivo dell’Amministrazione dinanzi ad abusi edilizi non è soggetto a termini di decadenza o di prescrizione, qualunque sia l’entità della violazione posta in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 04.05.2012, n. 1592) e che le opere abusive non vengono legittimate per effetto del mero decorso del tempo, in assenza di un esplicito provvedimento che disponga in tal senso.
Per tali ragioni, anche nei casi di protratta inerzia dell’Amministrazione nell’attività di vigilanza e accertamento delle violazioni edilizie, non può ritenersi sorto in capo al privato alcun affidamento meritevole di tutela circa la legittimazione dello stato dei luoghi.
Peraltro, nel caso di specie, deve osservarsi che è stata la stessa ricorrente ad ammettere esplicitamente la non piena conformità edilizia della struttura sanitaria, anche con riferimento al terzo piano del fabbricato, avendo richiesto il rilascio del permesso di costruire in parziale sanatoria di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 09.06.2016 n. 1354  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2016

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione.
DOMANDA:
Si chiede di sapere quali siano i provvedimenti da intraprendere per sanzionare l'inottemperanza ad una ordinanza di demolizione a firma del funzionario responsabile (titolare di posizione organizzativa) dell'area urbanistica.
RISPOSTA:
L’art. 17 del d.l. 133/2014, al fine di imprimere impulso alle attività di vigilanza urbanistico-edilizia e alla semplificazione delle procedure volte alla irrogazione delle sanzioni ripristinatorie conseguenti all’accertamento di reati legati all’abusivismo edilizio, ha integrato il comma 4 dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 con ulteriori tre commi, prevedendo, in particolare, una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro da comminarsi a carico del responsabile dell’abuso che risulti inadempiente, decorso il termine perentorio di novanta giorni dall’ingiunzioni stabilito per provvedere alla demolizione o alla rimessa in pristino dello stato dei luoghi.
La quantificazione della sanzione, di competenza del dirigente, trova una compiuta disciplina generale nell’art. 11 della legge n. 689/1981, “Modifiche al sistema penale”, secondo cui: “Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche”.
Tuttavia, nulla vieta, come negli altri casi di sanzioni amministrative pecuniarie di competenza degli enti locali, fissate dalla legge tra un limite minimo e un limite massimo, il consiglio, con atto regolamentare, stabilisca criteri ai quali il dirigente debba attenersi per la determinazione della sanzione.
Si ritiene invece che non possa essere modificata la disposizione prevista dalla norma che stabilisce la misura massima in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. 380/2001, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato.
L’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria non deve far ritardare, da parte del responsabile, l’adozione degli altri atti, previsti dalla normativa, tesi al ripristino della situazione precedente all’abuso: l’acquisizione dell’area, l’immissione in possesso, la trascrizione nei registri immobiliari e l’eventuale demolizione dell’opera acquisita
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATANon può sostenersi che le opere eseguite (da considerare unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere necessitanti del previo permesso di costruire, perché comportano una permanente e significativa trasformazione del territorio.
Invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in muratura necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una D.I.A./S.C.I.A..
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Nel caso di specie, i ricorrenti hanno presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
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L’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere, ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio, trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto distinti.
Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione della demolizione irrogata dal Comune per la verificata mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua sostituzione con la sanzione pecuniaria.
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Per giurisprudenza consolidata, l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in mancanza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento;
Ancora di recente si è precisato che per i provvedimenti di ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.

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Richiede un ulteriore approfondimento la questione del rapporto tra procedimento di rilascio del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia delle opere eseguite.
Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
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... per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, dell’ordinanza del Comune di Fondi n. 31 del 09.03.2015, notificata il 17.03.2015, recante ingiunzione di demolire le opere abusive ivi descritte, realizzate in loc. Torre Canneto;
...
1. I sigg.ri Gi.Ma. e Pa.Lu. espongono di essere proprietari di un fondo rustico in Fondi, loc. Torre Canneto, ubicato in zona soggetta a vincolo paesaggistico, e di aver richiesto al Comune di Fondi il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una recinzione di detto fondo.
1.1. In data 06.08.2013 il Comune rilasciava il nulla osta paesaggistico per la realizzazione della recinzione con muretto e rete soprastante su un solo lato (dalla parte di via L. Cristini), mentre per gli altri confini veniva autorizzata la messa in opera di paletti e rete metallica.
1.2. Gli esponenti in data 21.03.2014 comunicavano all’Amministrazione comunale l’inizio di lavori di manutenzione ordinaria, costituiti dalla sistemazione del giardino e dalla realizzazione del muro di cinta con cancello, e di seguito davano corso ai lavori.
1.3. In particolare, procedevano a realizzare la recinzione con cordolo in muratura per tutti i lati del lotto, nonché ad appoggiare sul terreno piastre precompresse da giardino (senza stabilità alcuna) ed a porre cancelli di entrata.
1.4. Con ordinanza n. 71 del 31.03.2014 la P.A. ingiungeva l’immediata sospensione dei lavori, cui faceva poi seguito l’ordinanza n. 31 del 09.03.2015, recante ingiunzione di demolizione delle opere eseguite (recinzione in muratura e paletti di ferro del terreno; al suo interno, pavimentazione in marmette prefabbricate di circa mq. 130, delimitata con cigli; due tratti di delimitazione dell’area, con all’interno parziale posa di brecciame), in quanto abusive.
...
3.3. Va premesso che, come già osservato in sede cautelare, è indiscutibile la difformità delle opere eseguite rispetto ai titoli vantati dai ricorrenti: questi, infatti, da un lato hanno presentato istanza di permesso di costruire in data 10.01.2013, ma ad oggi siffatto permesso non risulta rilasciato e, nonostante ciò, le opere sono state ugualmente realizzate.
Dall’altro, hanno ottenuto dal Comune di Fondi l’autorizzazione paesaggistica n. 365 del 06.08.2013, che però riguarda la realizzazione di un cordolo e del muro di recinzione solo dal lato di via L. Cristini, mentre per gli altri confini della proprietà consente soltanto la messa in opera di paletti e rete.
In terzo luogo, hanno presentato il 21.03.2014 comunicazione di inizio lavori di “manutenzione ordinaria”, ma è evidente che i lavori effettivamente eseguiti –per come descritti nella stessa comunicazione (riparazione della corte nel giardino; sostituzione del mattonato appoggiato senza malta cementizia, né leganti; realizzazione di muro di cinta con cancello)– esorbitano dalla manutenzione ordinaria.
3.4. Ciò premesso, le doglianze dedotte dai ricorrenti si rivelano destituite di fondamento giuridico, per le seguenti ragioni:
- non può sostenersi che le opere eseguite (da considerare unitariamente) rientrassero nell’ambito di applicazione della S.C.I.A., cosicché per esse non sarebbe prevista la sanzione demolitoria. Si tratta, invece, di opere necessitanti del previo permesso di costruire, perché comportano una permanente e significativa trasformazione del territorio;
- ed invero, ad avviso della giurisprudenza assolutamente prevalente, la realizzazione di un muro di recinzione in muratura necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente, a tal proposito, la presentazione di una D.I.A./S.C.I.A. (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 25.09.2013, n. 2017; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.04.2012, n. 1542; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 11.09.2009, n. 8644);
- nel caso di specie, come detto, i ricorrenti hanno presentato istanza di permesso di costruire, che, però, ad oggi non risulta rilasciato, né al riguardo è ipotizzabile la formazione del silenzio-assenso, ricadendo l’area oggetto di intervento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001);
- nessuna censura (di contraddittorietà o altro) può essere avanzata nei confronti dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata ai ricorrenti dal Comune di Fondi nel 2013, che “copre” la costruzione della recinzione in cordolo e muratura soltanto dal lato di via L. Cristini, non avendo detta autorizzazione formato oggetto di impugnativa da parte dei ricorrenti;
- l’accertamento di compatibilità paesaggistica delle opere, ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, non ha nulla a che vedere con la legittimità di queste sotto l’aspetto edilizio, trattandosi di profili che sono e debbono restare del tutto distinti. Pertanto, sono infondate le pretese dei ricorrenti che la P.A. non desse seguito al procedimento sanzionatorio edilizio in pendenza del procedimento ex art. 167 cit., e che l’accoglimento dell’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica comporterebbe la caducazione della demolizione irrogata dal Comune per la verificata mancanza del titolo abilitativo edilizio, e la sua sostituzione con la sanzione pecuniaria;
- per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1100; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.06.2013, n. 956; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 03.09.2010, n. 17302), l’ordinanza di demolizione rappresenta un atto dovuto e rigorosamente vincolato, che può dirsi sorretto da adeguata e sufficiente motivazione, ove la stessa sia rinvenibile già solo nella compiuta descrizione delle opere abusive, nella constatazione della loro esecuzione in mancanza del necessario titolo abilitativo edilizio e nell’individuazione della norma applicata, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento;
- ancora di recente si è precisato (C.d.S., Sez. V, 11.07.2014, n. 3568) che per i provvedimenti di ingiunzione di demolizione di opere edilizie non è necessaria una specifica motivazione, in aggiunta alla descrizione dell’abuso commesso ed alla sua identificazione oggettiva, la quale dia conto anche della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, o della comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati: ciò non comporta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, atteso che il provvedimento deve considerarsi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione, sicché, ricorrendo tali circostanze, la P.A. deve senza indugio emettere l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.
Questa Sezione, del resto, ha già avuto modo di osservare che l’interesse pubblico in re ipsa alla rimozione degli abusi edilizi consiste nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 08.09.2015, n. 603; id., 11.12.2013, n. 963).
4. Richiede un ulteriore approfondimento la questione del rapporto tra procedimento di rilascio del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e procedimento di conformità edilizia delle opere eseguite. Ciò, in ragione del rilascio da parte della Regione Lazio, con determinazione n. 400597 del 29.01.2016, del parere positivo circa la compatibilità delle opere stesse sotto il profilo paesaggistico.
4.1. L’assunto del Collegio poc’anzi illustrato –secondo cui i due procedimenti in questione sono e devono restare distinti ed autonomi– trova conferma, anzitutto, nel dato normativo di riferimento e cioè nello stesso art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, nonché, in secondo luogo, nella determinazione della Regione Lazio del 29.01.2016, ora citata.
4.2. Dalla lettura dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, infatti, si evince che la compatibilità delle opere sotto il profilo paesaggistico –comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria– preclude la rimessione in pristino di esse, prevista per il caso in cui l’autorizzazione paesaggistica manchi o sia negata, ma, certo, non preclude la demolizione dei manufatti ex artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380/2001, per l’abusività degli stessi sotto l’aspetto edilizio.
In questo senso è, poi, decisiva la determinazione della Regione Lazio n. 400597 del 29.01.2016, la quale, nell’accertare la compatibilità dal lato paesaggistico delle opere, al par. 2 del dispositivo recita: “la presente determinazione è rilasciata ai soli fini paesaggistici. Il Comune dovrà accertare, nella propria competenza, l’ammissibilità o meno del progetto in ordine alle vigenti norme urbanistiche ed edilizie e a vincoli di altra natura, nonché alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali e sovra comunali”.
4.3. Alla luce di quanto appena visto, non può perciò ammettersi una ricaduta del parere favorevole della Regione (e di quello altrettanto favorevole emesso dalla Soprintendenza) sulla qualificazione dell’intervento sotto l’aspetto edilizio: qualificazione che resta rimessa in via esclusiva alla sfera di attribuzioni del Comune e che, nel caso di specie, appare corretta e condivisibile, visto che le opere eseguite non possono certo ritenersi dei semplici lavori di manutenzione ordinaria rispetto a quanto autorizzato nel 2013.
Dal punto di vista edilizio, appare evidente l’abuso commesso dai ricorrenti, i quali hanno eseguito opere che incidono sull’assetto del territorio, senza alcun titolo edilizio ed anzi in contrasto con l’autorizzazione del 2013: il richiamo, nell’ordinanza impugnata, alla possibilità di chiedere una sanatoria (evidentemente riferito alla sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001), lungi dal denotare un’ulteriore incongruità del provvedimento, come lamentato dai ricorrenti, è invece del tutto coerente con la normativa di settore, poiché l’ottenimento della sanatoria edilizia ex art. 36 cit. precluderebbe i successivi sviluppi del procedimento sanzionatorio, ed in particolare l’acquisizione gratuita.
5. In definitiva, pertanto, il ricorso è nel suo complesso infondato e da respingere (TAR Lazio-Latina, sentenza 18.05.2016 n. 317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori.
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Il Collegio deve innanzitutto esaminare le questioni di inammissibilità/improcedibilità del ricorso per carenza di interesse in relazione all’ordine di sospensione dei lavori ed al diniego di autorizzazione alla somministrazione di alimenti e bevande, rilevate d’ufficio, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., all’udienza di discussione del 23.03.2016.
In relazione all’ordinanza di sospensione dei lavori n. 07/2012, prot. n. 1345, emessa dal Comune di Caserta in data 21.02.2012, si osserva che la costante giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha sempre interpretato in termini categorici la disposizione di cui all'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 pervenendo al convincimento per cui (ex aliis, cfr. TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) “il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115, TAR Milano, Sez. II, 20.01.2015, n. 218, TAR Campania, Napoli, VIII, 26.02.2016, n. 1080)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.05.2016 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quand’anche sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem.
Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell’abuso non sanabile.
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L'ordine di demolizione, come i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”).
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L'interesse pubblico alla tutela della disciplina urbanistica non è negoziabile in ragione di un preteso affidamento individuale: la presenza di un manufatto abusivo non esaurisce infatti i suoi effetti, bilateralmente, nella sfera giuridica del destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda erga omnes l’intera collettività circostante.
Sicché, quand’anche l’asserito affidamento individuale davvero sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di effetti utili al fine superiore dell’esigenza generale di ripristinare l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano.

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5. Con il secondo motivo gli appellanti deducono la violazione del principio dell’affidamento perché la fattispecie riguarda un preteso abuso, risalente pacificamente a data anteriore al 1967, non eseguito dagli appellanti e concernente un manufatto accessorio di modeste dimensioni.
Il motivo non può trovare accoglimento alla luce della consolidata giurisprudenza, in particolare della recente pronuncia della Sezione (Cons. Stato, VI, 11.12.2013, n. 5943; 05.01.2015, n. 13) secondo la quale non sussiste necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quand’anche sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell’abuso non sanabile.
Ed è da ribadire, con la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V, 11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), che l'ordine di demolizione, come i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo” (Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880).
Più ancora vale rilevare che l'interesse pubblico alla tutela della disciplina urbanistica non è negoziabile in ragione di un preteso affidamento individuale: la presenza di un manufatto abusivo none esaurisce infatti i suoi effetti, bilateralmente, nella sfera giuridica del destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda erga omnes l’intera collettività circostante. Sicché, quand’anche l’asserito affidamento individuale davvero sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di effetti utili al fine superiore dell’esigenza generale di ripristinare l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano (cfr. Cons. Stato, VI, 28.01.2013, n. 498; 04.03.2013, n. 1268; 29.01.2015, n. 406) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.05.2016 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2016

EDILIZIA PRIVATAIl carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi, con la conseguenza che in tali circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere abusive.
Da quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un lungo lasso di tempo per l'adozione dei contestati provvedimenti non risulta una circostanza adeguata al fine di inficiare la loro legittimità, con la conseguenza che la censura in esame risulta priva di pregio.

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10. Con l'ottavo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l'illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, sotto altro profilo, nonché violazione del principio dell'affidamento del privato cittadino.
Secondo il ricorrente, infatti, il provvedimento de quo sarebbe stato adottato dal Comune a distanza di oltre sei anni dalla presentazione dell'istanza dell’08.06.2007, prot. n. 10058, concernente il permesso di costruire in sanatoria: operando in tal modo, quindi, l'Amministrazione comunale avrebbe violato l'affidamento che si sarebbe ingenerato nel ricorrente in ragione del decorso di un lungo lasso di tempo dalla presentazione della succitata istanza.
Anche detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “il carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi...” (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651), con la conseguenza che in tali circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere abusive (Cons. di Stato, Sez. VI, 20.06.2013, n. 3667): da quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un lungo lasso di tempo per l'adozione dei contestati provvedimenti non risulta una circostanza adeguata al fine di inficiare la loro legittimità, con la conseguenza che la censura in esame risulta priva di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 21.04.2016 n. 962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio - Criteri per l'identificazione del committente dei lavori - Assenza di titoli formali - Disponibilità del bene.
In tema di violazioni edilizie costituenti reato, il committente deve identificarsi in colui che ha la materiale disponibilità del bene oggetto dell’intervento abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato.
In altri termini, la paternità, esclusiva o in concorso con altri, dell’opera ben può essere attribuita anche a colui che, pur in assenza di titoli formali astrattamente legittimanti un potere decisionale, abbia, anche solo di fatto, la disponibilità del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una veste già di per sé implicante la disponibilità formale del bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l’attribuibilità al medesimo dei lavori comporta, in capo all’accusa, un onere probatorio di minore portata perché in qualche modo coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia fornita la prova degli elementi fattuali univocamente indicativi, in contrasto con l’apparente formale estraneità del soggetto, della disponibilità di fatto del bene coinvolto.
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del coniuge mero comproprietario e non committente, si è affermato che la responsabilità per l’abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall’interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest’ultimo “in loco” e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi.

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Questa Corte ha in più occasioni affermato che in tema di violazioni edilizie costituenti reato, il committente deve identificarsi in colui che ha la materiale disponibilità del bene oggetto dell'intervento abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato (Sez. 3, n. 43608 del 15/09/2015, Rosati, Rv. 265159); in altri termini, la paternità, esclusiva o in concorso con altri, dell'opera ben può essere attribuita anche a colui che, pur in assenza di titoli formali astrattamente legittimanti un potere decisionale, abbia, anche solo di fatto, la disponibilità del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una veste già di per sé implicante la disponibilità formale del bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l'attribuibilità al medesimo dei lavori comporta, in capo all'accusa, un onere probatorio di minore portata perché in qualche modo coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia fornita la prova degli elementi fattuali univocamente indicativi, in contrasto con l'apparente formale estraneità del soggetto, della disponibilità di fatto del bene coinvolto (nella fattispecie, del fondo sul quale i manufatti sono stati edificati).
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del coniuge mero comproprietario e non committente, si è affermato che la responsabilità per l'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo "in loco" e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (tra le altre, Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261522) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.04.2016 n. 16163).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso edilizio e dolo.
Premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente, giacché la condotta illecita deve essere posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
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2. Con un secondo motivo lamenta l'illogicità della motivazione della sentenza con riferimento all'eccepita mancanza del dolo intenzionale; segnatamente la sentenza non ha fatto sul punto alcun riferimento a quanto sollevato con l'atto di appello.
Aggiunge come da un lato la attività del tecnico comunale al momento dell'approvazione del progetto sia meramente cartolare e dall'altro la sentenza abbia trascurato di considerare le conclusioni della sentenza del Tar che ha ritenuto assente ogni violazione della normativa urbanistica da parte dell'imputato. Non è stata raggiunta alcuna prova circa le pretese scorrette modalità delle verifiche condotte dall'imputato.
Anche l'affermazione dei benefici economici ricavati dall'impresa edilizia destinataria del provvedimento sarebbe erronea posto che anzi è stata applicata la sanzione prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo:
premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), giacché la condotta illecita deve essere posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri ed altri, Rv. 258893).
La sentenza si è sul punto limitata a richiamare la "tutt'altro che trascurabile entità delle violazioni commesse" e "i rilevanti benefici economici procurati all'impresa edilizia", tra i quali quelli relativi agli oneri di urbanizzazione, senza chiarire perché tali aspetti, lungi dall'essere compatibili con un dolo anche solo generico, dovrebbero essere univocamente indicativi dello scopo di favorire l'impresa costruttrice, sui cui eventuali legami o rapporti con l'imputato nulla è dato sapere.
La sentenza andrebbe dunque annullata con rinvio per nuova motivazione sul punto; sennonché la prescrizione del reato, nelle more intervenuta per decorso del termine scaduto in data 13/09/2014 (anche a volere, come contestato dal ricorrente, considerare la data di consumazione del 13/03/2007 indicata in imputazione) osta all'annullamento posto che il conseguente rinvio all'esame del giudice di merito è incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dall'art. 129 c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 23260 del 29/04/2015, Gori, Rv. 263668); sicché la sentenza impugnata deve essere, da un lato, annullata senza rinvio per essere il reato (unico residuato già all'esito del giudizio di primo grado) estinto appunto per prescrizione e, dall'altro, quanto alle statuizioni civili adottate (nella specie la condanna dell'imputato, confermata in appello, al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile), annullata con rinvio ai fini civili al giudice civile competente per valore in grado d'appello (da ultimo, Sez. 5, n. 594 del 16/11/2011, Perrone, Rv. 252665; Sez. 5, n. 15015 del 23/02/2012, P.G. e p.c. in proc. Genovese, Rv. 252487) (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2016 n. 15895).

EDILIZIA PRIVATA: Abusivismo con prescrizione limitata. Edilizia. Per le Sezioni unite, se il Comune non risponde in 60 giorni il conteggio riparte.
Più difficile la prescrizione dei reati urbanistici, per la sentenza 13.04.2016 n. 15427 delle Sezz. unite penali della Corte di Cassazione (tratta da www.lexambiente.it)).
Concludendo una vicenda di condoni edilizi nati dalla legge 47/1985 (cioè con procedure più volte prorogate fino al 31.12.1993), i giudici hanno cristallizzato due princìpi sulla prescrizione quinquennale:
- se si presenta al Comune istanza di accertamento di conformità (articolo 36, Dpr 380/2001), il processo è sospeso e quindi il quinquennio non decorre;
- la prescrizione ricomincia a decorrere se il Comune non si pronuncia entro 60 giorni.
È quindi inutile che l’imputato o il difensore chiedano al giudice di mantenere a lungo sospeso il processo, sperando nel fluire del quinquennio in attesa che l’ente si pronunci. Per meglio comprendere l’utilità della sentenza, giova ricordare che la condanna penale è un serio rischio per chi costruisce abusivamente, sia per le conseguenze professionali su imprese e tecnici sia perché gli articoli 31 e 44 del Dpr 380 prevedono che il giudice penale ordini la demolizione delle opere, se non ha già provveduto il sindaco.
Per frenare le macchine sanzionatorie amministrativa (comunale) e giudiziaria (penale), gli autori degli abusi ricorrevano a procedure intricate, chiedendo la sanatoria (possibile fino a tutto il 1993) o un "accertamento di conformità” nel caso in cui l’abuso risultasse genericamente sanabile: in tale situazione, per ragioni che la Cassazione ha più volte definito “imperscrutabili”, i procedimenti amministrativi si arenavano e non rispettavano i corretti tempi di decisione (60 giorni dall’istanza di accertamento). Così, facendo leva sull’inerzia dei Comuni, gli imputati ottenevano lunghe sospensioni dei processi, che si concludevano quando gli enti si pronunciavano sfavorevolmente.
Ma anche in caso di provvedimento sfavorevole gli imputati ottenevano vantaggi, perché con poca lealtà, chiedevano comunque di calcolare a loro favore gli anni passati in attesa del provvedimento. Tutto ciò rendeva agevole accumulare i cinque anni entro i quali si consuma il potere sanzionatorio penale (compreso, quindi, il potere del giudice di disporre la demolizione). In sostanza, attraverso labirinti penali ed amministrativi, si generava una sostanziale impunità.
Con la sentenza di ieri, la prescrizione penale resta di cinque anni, ma non subisce più interruzioni chieste per mera strategia processuale: l’imputato potrà far valere, come periodo valido ai fini del quinquennio, solo i primi 60 giorni dall’istanza di accertamento di conformità. Tutti gli altri periodi di sospensione del processo, ottenuti con poca trasparenza, non gli saranno utili ai fini del calcolo e quindi non danneggeranno il potere d’intervento della magistratura penale.
Non potendo intervenire sulla durata della prescrizione (una modifica normativa non potrebbe essere retroattiva), la Cassazione snellisce quindi il procedimento, restituendo linearità e tempi definiti ai poteri giudiziari e all’operato dei Comuni
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria e prescrizione del reato urbanistico.
Il periodo di sospensione del processo disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione di istanza per la concessione in sanatoria, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, deve essere considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio, e, in caso di successive istanze di rinvio del processo dinanzi al giudice penale ed all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, si applicano le disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, par. 3), del codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze del privato.
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   1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite sono le seguenti:
- "
se la sospensione del processo, prevista nel caso di presentazione della istanza di 'accertamento di conformità', ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 legge n. 47 del 1985), debba essere considerata ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio";
- "
se, in caso di sospensione del processo disposta su richiesta dell'imputato o del suo difensore oltre il termine previsto per la formazione del silenzio-rifiuto ex art. 36 d.P.R. cit., operi la sospensione del corso della prescrizione a norma dell'art. 159, primo comma, n. 3, cod. pen.".
   2. Occorre preliminarmente richiamare l'attenzione sulle differenze intercorrenti tra la disciplina del "condono edilizio", di cui alle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724, e 24.11.2003, n. 326 (quest'ultima di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 30.09.2003, n. 269), e quella della "sanatoria" conseguente ad accertamento di conformità, disciplinata dall'art. 36 del Testo Unico dell'edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), specificamente riguardante la questione sottoposta all'attenzione delle Sezioni Unite.
Come è noto, con la legge 28.02.1985, n. 47, si è individuata, per la prima volta, una disciplina organica dell'attività edilizia, sulla quale era in precedenza intervenuta la legge 28.01.1977, n. 10, operandosi una consistente revisione della normativa previgente.
L'entrata in vigore della legge n. 47/1985 venne accompagnata dalla previsione del primo condono edilizio, che aveva lo scopo di dare un netto taglio al passato, recuperando le opere abusive fino ad allora realizzate. Tale scelta legislativa, venne poi replicata, per ragioni di razionalizzazione della finanza pubblica, con la legge 23.12.1994, n. 724, e, successivamente, con la legge 24.11.2003, n. 326, la quale convertiva, con modificazioni, il decreto-legge 30.09.2003, n. 269.
La legge n. 724/1994 e la successiva legge n. 326/2003, pur prevedendo, per la definizione degli illeciti edilizi presi in considerazione, requisiti e formalità differenti, fanno comunque riferimento alle disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47 del 1985, alle quali hanno anche apportato modifiche.
   3. Come si rileva, dunque, dalla lettura delle menzionate disposizioni,
il condono edilizio si caratterizza per l'efficacia limitata nel tempo, poiché è finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi edilizi realizzati entro un limite temporale individuato dalla norma.
Il suo effetto estintivo, inoltre, consegue al pagamento di un'oblazione, formalizzato attraverso l'attestazione, da parte dell'autorità comunale, della congruità di quanto corrisposto a tale titolo.
Esso opera, peraltro, anche con riferimento ad interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici e produce effetti estintivi anche verso reati conseguenti alla violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in cemento armato.

La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 (e, in precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47 del 1985) opera, al contrario, su un piano del tutto diverso, in quanto destinata, in via generale, al recupero degli interventi abusivi previo accertamento della conformità degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica della sussistenza di altri requisiti di legge specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36,
la sanatoria può essere ottenuta quando l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati o non in contrasto con quelli adottati, tanto al momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento della presentazione della domanda, che può avvenire fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi -con adeguata motivazione- entro sessanta giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende respinta. L'istanza è subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di oblazione, secondo le modalità descritte nello stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il rilascio della sanatoria «estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti», con esclusione, quindi, di altri reati eventualmente concorrenti.
   4.
Si tratta, dunque, di istituti che hanno finalità ed ambito di applicazione del tutto differenti e che non possono essere confusi, come ha già rilevato la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 6331 del 20/12/2007, dep. 2008, Latteri, Rv. 238822; Sez. 3, n. 10307 del 28/09/1988, Serra, Rv. 179501; Sez. 3, n. 9797 del 22/06/1987, Scarcella, Rv. 176643), riconoscendo, tra l'altro, la specialità della disciplina del condono edilizio rispetto a quella della sanatoria conseguente all'accertamento di conformità (Sez. 3, n. 23996 del 12/5/2011, De Crescenzo, Rv. 250607).
A conclusioni analoghe è peraltro pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, rilevando l'antiteticità dei presupposti dei due procedimenti di sanatoria, per il fatto che il condono edilizio concerne il perdono ex lege per la realizzazione, senza titolo abilitativo, di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, comportante una violazione sostanziale, mentre la sanatoria riguarda l'accertamento postumo della conformità dell'intervento edilizio realizzato senza permesso di costruire agli strumenti urbanistici e riguarda una violazione formale (così, Cons. Stato, sez. 6, n. 466 del 02/02/2015).
   5. Entrambe le procedure, tuttavia, presuppongono periodi di sospensione, diversamente disciplinati, che assumono specifico rilievo riguardo al computo del termine massimo di prescrizione del reato.
In particolare, per ciò che concerne il condono edilizio, sono state individuate due distinte cause di sospensione del processo.
La prima, prevista dall'art. 44 legge n. 47/1985, definita "automatica", in quanto applicabile a tutti i procedimenti in cui risulti contestato un reato urbanistico o commessa una violazione di detta normativa, indipendentemente dalla presentazione o meno di una domanda di condono e quantificata in 223 giorni.
Detta quantificazione veniva effettuata dalle Sezioni Unite (sent. n. 1283 del 03/12/1996, dep. 1997, Sellitto, Rv. 206849), chiamate a risolvere il contrasto venutosi a creare in ordine al calcolo dei termini complessivi di sospensione del decorso della prescrizione in conseguenza della mancata conversione di vari decreti legge, succedutisi nel tempo prima della approvazione della legge n. 724/1994.
La seconda causa di sospensione, prevista dall'art. 38 della stessa legge, indicata come "obbligatoria" -ma subordinata all'accertamento di determinati presupposti, quali la presentazione di una domanda di condono relativa all'immobile abusivo oggetto del processo realizzato nei limiti temporali stabiliti ed il versamento della prima rata di oblazione autodeterminata- che non può superare i due anni.
Sull'applicabilità in concreto delle sospensioni previste dalle disposizioni sul condono edilizio si contrapponevano, tuttavia, opposti indirizzi giurisprudenziali, in quanto, secondo un primo orientamento, maggioritario, tanto la sospensione "automatica", quanto quella "obbligatoria" erano applicabili a tutti i procedimenti riguardanti i reati edilizi indicati agli artt. 38, comma 2, legge n. 47/1985 e 39, comma 8, legge n. 724/1994; e ciò indipendentemente dall'epoca di commissione degli illeciti (considerato il requisito temporale previsto per la condonabilità delle opere) e dall'effettiva sospensione disposta con provvedimento del giudice.
L'altro indirizzo, invece, escludeva l'applicabilità della sospensione ai reati la cui consumazione risultava, sulla base della contestazione e degli atti del procedimento, proseguita dopo il 31.12.1993, data individuata dalla legge n. 724/1994 quale termine ultimo per il completamento delle opere, che ne consentiva la condonabilità.
Le Sezioni Unite (sent. n. 22 del 24/11/1999, Sadini, Rv. 214792), chiamate a risolvere il contrasto, hanno ritenuto preferibile quest'ultimo indirizzo interpretativo, sulla base del dato letterale dell'art. 39, comma 1, legge n. 724/1994, il quale richiama, tra l'altro, il capo IV della legge n. 47/1985 -nel quale sono compresi gli artt. 44 e 38, che riguardano le due ipotesi di sospensione dei procedimenti penali e che fanno, a loro volta, riferimento agli artt. 35 e 31, concernenti la presentazione della domanda di condono- osservando come esso non sembri consentire una interpretazione diversa da quella secondo la quale la data del 31.12.1993 costituisce uno dei presupposti per la condonabilità e per la sospensione dei procedimenti penali.
Veniva ulteriormente rilevato che l'inesistenza di detto presupposto impediva non soltanto il condono delle opere abusive, ma anche la sospensione del procedimento penale e ciò indipendentemente dal fatto che il giudice avesse disposto o negato la sospensione del procedimento, dovendosi, nel primo caso, ritenere la sospensione inesistente per assenza, appunto, del suo fondamentale presupposto.
Analoga lettura delle richiamate disposizioni veniva successivamente offerta dalla Terza Sezione penale (Sez. 3, n. 21679 del 06/04/2004, Paparusso, Rv. 229319. V. anche Sez. 3, n. 47342 del 15/11/2007, Maffongelli, Rv. 238619; nonché Sez. 3, n. 40434 del 13/07/2006, Gambino, Rv. 236270, non massimata sul punto), osservandosi che, mentre l'art. 31 legge n. 47/1985, nella sua formulazione testuale, prevedeva una serie di requisiti esclusivamente in relazione alla possibilità di conseguire la concessione o la autorizzazione in sanatoria, l'art. 32, comma 25, decreto legge n. 269/2003, poi convertito dalla legge n. 326/2003 (come già l'art. 39 legge n. 724/1994), subordinava l'applicazione degli interi capi 4 e 5 della legge n. 47/1985 all'esistenza di determinati requisiti di condonabilità dell'opera.
   6. Conseguentemente, l'art. 44 legge n. 47/1985 veniva ritenuto applicabile nei soli casi di oggettiva presenza di detti requisiti, in assenza dei quali era esclusa anche l'applicabilità dell'art. 39 della legge medesima (il quale prevede l'estinzione dei reati conseguente alla mera effettuazione dell'oblazione, «qualora le opere non possano conseguire la sanatoria»), osservandosi che risulterebbe incongruo argomentare che la sospensione possa essere comunque finalizzata a conseguire il beneficio già previsto da tale ultima norma.
Va anche ricordato che,
in relazione al difetto dei requisiti di condonabilità, la possibilità di sospensione del processo era stata esclusa in caso di richiesta di condono presentata per violazioni edilizie relative a nuove costruzioni non residenziali, in quanto l'art. 32 legge n. 326/2003 limita l'applicabilità del condono edilizio alle sole nuove costruzioni residenziali (Sez. 3, n. 8067 del 19/01/2007, Zenti, Rv. 236084; Sez. 3, n. 14436 del 17/02/2004, Longo, Rv. 227959; Sez. 3, n. 3358 del 18/11/2003, dep. 2004, Gentile, Rv. 227178); in relazione a interventi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, rientranti tra quelli esclusi dal condono dall'art. 32, comma 26, lett. a), legge n. 326/2003 (Sez. 3, n. 9670 del 26/01/2011, Rizzo, Rv. 249606; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi, Rv. 235033; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci, Rv. 231315 ed altre conformi) o, più in generale, in caso di presentazione di domanda di sanatoria strumentale o dilatoria e inerente a un fabbricato non ultimato entro il termine stabilito (Sez. 3, n. 5452 del 17/03/1999, Somma G, Rv. 213369).
La sospensione è stata inoltre esclusa anche con riferimento al c.d. "condono paesaggistico" di cui all'art. 37 legge n. 308/2004, mancando una espressa previsione normativa ed in assenza di qualsivoglia correlazione con le disposizioni in tema di condono edilizio (Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, Rv. 246759, non rnassimata sul punto; Sez. 3, n. 32529 del 19/04/2006, Martella, Rv. 234934).
Si è chiarito, inoltre, che la sospensione riguarda soltanto la fase del giudizio e non anche quella delle indagini preliminari (Sez. 3, n. 48986 del 09/11/2004, Cerasoli, Rv. 230475).
In altre decisioni si è poi affermato che l'omessa sospensione del procedimento da parte del giudice non può essere dedotta quale vizio della decisione eventualmente presa, non determinandosi alcuna nullità, stante l'assenza di una previsione di legge in tal senso (Sez. 3, n. 19235 del 15/02/2005, Benzo, Rv. 231848; Sez. 3, n. 7847 del 27/05/1998, Todesco, Rv. 211354; Sez. 3, n. 11422 del 29/09/1997, Onolfo, Rv. 210101 ed altre conformi), osservandosi, tra l'altro, che la sospensione del processo opera indipendentemente dalla pronuncia del giudice, avente natura meramente dichiarativa, purché sussistano i presupposti di legge e può essere accertata anche in sede di giudizio finale (Sez. 3, n. 3871 del 22/10/2010, dep. 2011, Pisa, Rv. 249151, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 22921 del 06/04/2006, Guercio, Rv. 234475; Sez. 3, n. 6054 del 12/03/1999, Bartaloni, Rv. 213763 ed altre conformi)
Inoltre, qualora applicata, la sospensione deve riguardare l'intero procedimento quando il giudice di merito, riconoscendo il vincolo della continuazione, abbia proceduto unitariamente per varie ipotesi di reato, delle quali alcune soltanto siano divenute estinguibili a seguito di condono (v. per tutte Sez. U, n. 9080 del 09/06/1995, Luongo, Rv. 201861).
La possibilità di sospendere il procedimento a seguito della presentazione della domanda di condono edilizio (nella specie, ai sensi della legge n. 326/2003) è stata anche esclusa in caso di inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi, sul presupposto che la sospensione deve essere disposta con riferimento ai procedimenti in corso, mentre, impedendo l'inammissibilità del ricorso la formazione di un valido rapporto di impugnazione, non può ritenersi che tale condizione si sia verificata (Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 9536 del 20/01/2004, Mancuso, Rv. 227404; Sez. 3, n. 979 del 27/11/2003, dep. 2004, Nappo, Rv. 227950; Sez. 3, n. 5309 del 13/11/2003, dep.2004, Sciaccovelli, Rv. 227556).
   7. Alla luce di quanto affermato dalla sentenza Sadini delle Sezioni Unite, si è ricavato -considerando la formulazione "speculare" dell'art. 32, comma 25, d.l. n. 269/2003 rispetto all'art. 39 legge n. 724/1994, preso in esame nella menzionata decisione- un ulteriore principio generale, secondo il quale
il giudice, già prima di sospendere il processo in forza dell'art. 44 legge n. 47/1985, deve effettuare un controllo in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti per la concedibilità in astratto del condono, perché, diversamente opinandosi, si allungherebbero «inevitabilmente ed inutilmente i tempi del processo» e, nel caso in cui il giudice sospenda il processo in assenza dei presupposti di legge, la sospensione deve ritenersi inesistente (Sez. 3, n. 9670 del 26/01/2011, Rizzo, cit.; Sez. 3, n. 563 del 17/11/2005, dep. 2006, Martinico, Rv. 233011; Sez. 3, n. 35084 del 25/03/2004, Barreca, Rv. 229652, cit.; Sez. 3, n. 3350 del 13/11/2003, dep. 2004, Lasí, Rv. 227217).
L'ambito del controllo relativo alle condizioni legittimanti l'accesso alla procedura di sanatoria riguarda, secondo altra pronuncia, la data di esecuzione delle opere; lo stato di ultimazione delle stesse secondo la nozione fornita dall'art. 31 della legge n. 47/1985; il rispetto dei limiti volumetrici; eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla sanatoria, nonché la tempestività della presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate nel capo di imputazione (Sez. 3, n. 38071 del 19/09/2007, Termíniello, Rv. 237824; Sez. 3, n. 28517 del 29/05/2007, Marzano, Rv. 237140, non massímata sul punto).
Il successivo accertamento dell'inesistenza dei presupposti per l'applicazione del condono, tuttavia, non determina inevitabilmente l'inesistenza della sospensione, perché, a tal fine, deve ovviamente prendersi in considerazione la situazione prospettatasi al giudice nel momento in cui ha pronunciato la relativa ordinanza.
Sempre tenendo conto di quanto affermato nella sentenza Sadíní, si è del tutto correttamente rilevato come, in tale pronuncia, venga affermato che, in tema di condono edilizio, le cause di sospensione del processo penale sono soltanto quelle previste dalla legge, che richiedono determinati presupposti, in difetto dei quali la sospensione eventualmente disposta non può produrre risultati efficaci.
Ciò implica, tuttavia, che l'inesistenza di una valida causa di sospensione risulti dagli atti processuali o dalla stessa contestazione del reato e sia, conseguentemente, immediatamente rilevabile dal giudice, perché, altrimenti, il successivo accertamento della inesistenza dei requisiti per l'applicazione della causa estintiva della contravvenzione non farebbe venir meno la correttezza dell'iniziale ordinanza sospensiva (e, quindi, gli effetti ad essa connessi, della conseguente sospensione della prescrizione), avendo il giudice proceduto nella esatta osservanza di quanto previsto dalla legge (Sez. 3, n. 8536 del 18/05/2000, Zarbo, Rv. 217754; conf. Sez. 3, n. 29253 del 24/06/2005, Di Maio, Rv. 231951).
È di tutta evidenza che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate decisioni assumono particolare rilievo per ciò che concerne il computo dei termini di prescrizione, sulla decorrenza dei quali incide, in maniera significativa, la sospensione del procedimento.
   8. Per ciò che riguarda, invece, il diverso istituto della sanatoria conseguente ad accertamento di conformità, va osservato come il già menzionato art. 45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisca, al comma 1, che l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato orientamento, una ipotesi di silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240234; Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353), al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
Pur verificandosi tale evenienza, tuttavia, l'Amministrazione non perde il potere di provvedere, in quanto il silenzio-rigetto è esplicitamente previsto al solo fine di consentire all'interessato di adire il giudice (ex plurimis Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240233. V. anche Sez. 3, n. 11604 del 11/11/1993, Schiavazzi, Rv. 196069; Sez. 3, n. 16245 del 10/10/1989, Allegrini, Rv. 182627),
sebbene l'eventuale instaurazione di un procedimento amministrativo avviato mediante ricorso avverso il diniego di sanatoria non comporti alcuna estensione della durata della sospensione fino alla sua definizione (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, Rv. 265085; Sez. 3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiarello, Rv. 247692; Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, Rv. 245418, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 4614 del 13/01/1994, Cammariere, Rv. 197767; Sez. 3, n. 12779 del 02/12/1991, Leggio, Rv. 188743), come rilevato anche dalla Corte costituzionale nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità dell'art. 22, primo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (ord. n. 247 del 2000, la quale richiama anche la sentenza n. 85 del 1998 e l'ordinanza n. 309 del 1998).
Il provvedimento con il quale il giudice dispone la sospensione richiede, peraltro, il previo accertamento della effettiva sussistenza dei presupposti necessari per il conseguimento della sanatoria e, inoltre, la mancata sospensione -in assenza di espressa previsione normativa e non configurandosi pregiudizi al diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di giudizio- non determina alcuna nullità (Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, cit.).
La sospensione, inoltre, non opera con riferimento ai reati esclusi dagli effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione in sanatoria, diversamente da quanto previsto in materia di condono (Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997, dep. 1998, Casà, Rv. 209662).
   9.
Il richiamo, effettuato espressamente dall'art. 45 d.P.R. n. 380/2001 all'art. 36 dello stesso decreto, il quale prevede, all'ultimo comma, il termine di sessanta giorni entro il quale il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi sulla domanda di sanatoria, limita -evidentemente- la durata della sospensione a tale determinato lasso temporale. In tal senso si è, peraltro, più volte espressa anche la Corte costituzionale (ordd. nn. 304 e 201 del 1990; n. 423 del 1989).
Sebbene in precedenza (Sez. U, n. 10849 del 01/10/1991, Mapelli, Rv. 188579) si sia affermato che, in mancanza di impugnazione, la sospensione del procedimento, ai sensi dell'allora vigente art. 22 legge n. 47/1985, anche se disposta fuori dei limiti consentiti, produce i suoi effetti propri, tra cui la sospensione del corso della prescrizione, in una successiva pronuncia delle Sezioni Unite (n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv. 190245),
si è osservato come la sospensione dipenda direttamente dalla richiesta del titolo abilitativo in sanatoria e la sua durata corrisponda al tempo stabilito dalla legge per la definizione del procedimento, cioè per sessanta giorni dalla richiesta, con la conseguenza che il provvedimento del giudice, avente natura meramente dichiarativa, non può svolgere alcun ruolo preclusivo, cosicché non potrà assumere rilievo una sospensione disposta in mancanza delle condizioni stabilite, né un periodo di sospensione superiore a quello fissato dalla legge.
A tali principi si sono adeguate successive pronunce, le quali hanno considerato limitato il periodo di sospensione a soli sessanta giorni (Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, cit.; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353; Sez. 3, n. 2220 del 26/01/1999, Sasso, Rv. 212717), evidenziando anche la preclusione, per il giudice penale, a sindacare la legittimità del provvedimento della competente autorità amministrativa di diniego di rilascio del permesso di costruire in sanatoria (Sez. 3, n. 36902 del 13/05/2015, Milito, cit.; Sez. 3, n. 48523 del 18/11/2009, Righetti, cit.).
   10. Anche riguardo alla disciplina della sanatoria per accertamento di conformità, come già osservato con riferimento al condono edilizio, la prevista sospensione assume rilievo determinante ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato e proprio con riferimento ad essa è stato rilevato il contrasto che ha portato alla rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Si è infatti ritenuta, in una prima pronuncia (Sez. F, n. 34938 del 09/08/2013 Bombaci, Rv. 256714), l'illegittimità dell'ordinanza di sospensione dei termini di prescrizione per un tempo superiore alla durata della procedura amministrativa per la definizione della sanatoria e conseguente al differimento del procedimento penale, disposto su richiesta della difesa proprio in ragione della pendenza della procedura medesima.
La sospensione è stata infatti considerata in contrasto con il disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, con il limite temporale massimo di sessanta giorni fissato dalla legge per la definizione del procedimento finalizzato al rilascio del titolo abilitativo sanante, trascorso il quale la domanda si intende respinta.
A tale indirizzo interpretativo si è successivamente contrapposta altra decisione (Sez. 3, n. 41349 del 28/05/2014, Zappalorti, Rv. 260753), nella  quale, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della difesa e giustificato dalla pendenza del procedimento amministrativo, successivamente non perfezionatosi, di sanatoria edilizia di un immobile abusivo, l'operatività della sospensione ai fini del computo dei termini di prescrizione è stata estesa per l'intera durata del differimento.
Dichiarando di non condividere il diverso orientamento espresso dalla menzionata sentenza Bombaci, la Terza Sezione ricorda come le Sezioni Unite (n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509), sostanzialmente anticipando quanto poi espressamente stabilito dal legislatore con le modifiche apportate, nel 2005, all'art. 159 cod. pen., abbiano affermato che «
oggi il processo vive prevalentemente delle iniziative non solo istruttorie delle parti anche private, che hanno il potere di contribuire autonomamente a determinare tempi, modalità e contenuti delle attività processuali. Le parti non hanno più solo poteri limitativi dell'autorità del giudice, ma condividono con il giudice la responsabilità dell'andamento del processo. E debbono assumersi conseguentemente gli oneri connessi all'esercizio dei loro poteri».
La sentenza Zappalorti ritiene, dunque, del tutto incongrua un'interpretazione della norma «che consenta alla stessa parte che ha chiesto ed ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei presupposti legittimanti, di lamentare la correlata considerazione della sospensione della prescrizione proprio da tale rinvio derivante» (analoghe considerazioni erano state svolte, in precedenza, in Sez. 3, n. 26409 del 08/05/2013, C., Rv. 255579), pur distinguendo le diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato invece disposto per impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza di sanatoria e oltre il sessantesimo giorno dall'avvio del relativo procedimento amministrativo, sia disposto d'ufficio dal giudice, in mancanza di richiesta di parte, riconoscendo, in tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli sessanta giorni.
   11. Tale ultimo indirizzo interpretativo risulta pienamente condivisibile. Invero, la sentenza Bombaci, pur partendo da un presupposto corretto e, cioè, che la sospensione ex lege del procedimento, in pendenza della domanda di sanatoria, è limitato, come si è precisato in precedenza, a soli sessanta giorni, giunge a conclusioni errate laddove sembra fondare la riconosciuta illegittimità del differimento oltre il sessantesimo giorno sul presupposto che la decorrenza di detto termine comporti il silenzio-rigetto, considerando quindi ogni ulteriore rinvio (e la conseguente sospensione dei termini di prescrizione), anche se espressamente richiesto al giudice, come ingiustificato.
Una simile affermazione non tiene conto del fatto che, nonostante il decorso del termine ed il significativo silenzio dell'amministrazione competente, questa non perde il potere di rilasciare comunque, in presenza dei presupposti di legge, il permesso di costruire in sanatoria, cosicché una eventuale richiesta di rinvio in previsione dell'accoglimento della domanda già presentata risulterebbe pienamente giustificato, considerato, peraltro, i vantaggiosi effetti per l'imputato che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.
Al contrario, del tutto irragionevoli risulterebbero le conseguenze di una diversa lettura delle disposizioni richiamate che considerino non superabile, in ogni caso, il termine di sospensione di sessanta giorni.
Invero, detto termine di definizione del procedimento amministrativo di sanatoria non viene, in pratica, quasi mai rispettato per diverse ragioni, e gli effetti, decisamente negativi per il richiedente, conseguenti al fatto che dopo il decorso del temine la domanda si intende rifiutata, sono sostanzialmente compensati dalla più volte ricordata possibilità, per l'amministrazione competente, di rilasciare comunque la sanatoria anche oltre il sessantesimo giorno dalla presentazione della richiesta.
Ebbene, accedendo all'orientamento secondo il quale ogni ulteriore sospensione del procedimento, comunque disposta, sarebbe illegittima, si verrebbe a configurare una singolare situazione, nella quale, al fine di evitare il decorso dei termini di prescrizione, il giudice si vedrebbe costretto a proseguire comunque nella trattazione del processo, anche in presenza di una espressa richiesta in tale senso della parte.
Ciò detto, va chiarito che
devono comunque tenersi distinte l'ipotesi della sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 e quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza di parte.
Nel primo caso, infatti, vanno applicati i principi, richiamati in precedenza e sviluppati con riferimento tanto alla disciplina del condono che a quella sulla sanatoria per accertamento di conformità, i quali presuppongono, ai fini della legittimità della sospensione, la previa verifica, da parte del giudice, della oggettiva sussistenza dei presupposti di legge.
L'analisi effettuata dalla giurisprudenza è stata particolarmente approfondita, come si è visto, riguardo alla più ampia casistica sviluppatasi in relazione al condono, sebbene conclusioni non dissimili siano state tratte anche con riferimento alla sanatoria per accertamento di conformità.
Ne consegue che, a fronte di una situazione, risultante chiaramente dagli atti o dall'imputazione, che evidenzi, pacificamente e senza necessità di specifici accertamenti, l'assenza dei requisiti per l'accoglimento della domanda, come, ad esempio, in caso di plateale contrasto delle opere con le previsioni degli strumenti urbanistici, la sospensione, per il periodo di sessanta giorni indicato dalla legge per la definizione del procedimento amministrativo (o per quello, superiore, eventualmente indicato nel provvedimento che la dispone), non potrà operare e, se disposta comunque dal giudice, autonomamente e senza richiesta di parte, non potrà produrre effetti di sospensione dei termini di prescrizione.
Per contro, avranno in ogni caso effetti sospensivi del corso della sospensione i rinvii disposti in accoglimento di una richiesta dell'imputato o del suo difensore, dovendosi al riguardo condividere le osservazioni svolte dalla citata sentenza Zappalorti.
Ricorda infatti tale pronuncia che la giurisprudenza formatasi in tema teneva necessariamente conto di quanto stabilito dall'art. 159 cod. pen. prima degli interventi modificativi ad opera della legge 05.12.2005, n. 251 («
Il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge»), la quale, con l'art. 6, ne ha sostituito il testo che, come è noto, stabilisce ora, al primo comma, n. 3, che il corso della prescrizione rimane, tra l'altro, sospeso in caso di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori, ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore, disponendo che, nella prima ipotesi, l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, dovendosi avere riguardo, in caso contrario, al tempo dell'impedimento aumentato di sessanta giorni.
La disposizione è stata sempre interpretata nel senso che il rinvio dell'udienza, accordato su richiesta del difensore, determina la sospensione dei termini di prescrizione del reato, ritenendosi, peraltro, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 159 cod. pen., sollevata per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non indica il termine massimo di sospensione della prescrizione conseguente alla richiesta della difesa dell'imputato di un differimento dell'udienza, osservandosi che la previsione di rinvii del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata al soddisfacimento di esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento e tiene conto della libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, sicché è stato ritenuto logico, in tal caso, contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario derivante dal soddisfacimento di esigenze di parte, rimettendo alla sua determinazione la durata del rinvio in modo da tener conto delle esigenze dell'ufficio medesimo (Sez. 3, n. 45968 del 27/10/2011, Diso, Rv. 251629).
Si è inoltre osservato (Sez. 3, n. 29885 del 15/04/2015, Vuolo, Rv 264433) come, in tali casi, la durata del differimento sia discrezionalmente determinata dal giudice in considerazione delle esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà delle parti coinvolte nel processo, nonché dei principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite (n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262914) con riferimento a tutti i casi in cui il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio della udienza, pur in mancanza delle condizioni che integrano un legittimo impedimento per concorrente impegno professionale del difensore.
   12. In caso di rinvio su richiesta dell'imputato o del suo difensore, dunque, ai fini della sospensione dei termini di prescrizione operano i principi generali stabiliti dal codice di rito, i quali, peraltro, avranno effetto, a differenza di quanto avviene con riguardo alla sospensione prevista dal combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, anche con riferimento ai reati eventualmente concorrenti con la contravvenzione di cui all'art. 44 del medesimo decreto.
   13. Ne consegue che ai quesiti posti in apertura della presente parte motiva, al § 1, deve rispondersi affermativamente.
...
   15. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento al secondo e al terzo motivo di ricorso, perché le opere, come descritte nel capo di imputazione, necessitavano, per essere eseguite, del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Si tratta di un intervento edilizio che deve essere unitariamente considerato, diversamente da quanto affermato in ricorso, ove viene effettuata la disamina delle singole opere al fine di sostenere la soggezione delle stesse ad un diverso regime autorizzatorio, ponendosi così in contrasto con il principio, ripetutamente affermato, secondo il quale il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, dep. 2015, Prevosto, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011, dep.2012, Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non massimata, ed altre conformi).
Corretta risulta pertanto la soluzione adottata dalla Corte territoriale, la quale ha puntualmente analizzato la natura e consistenza dell'intervento realizzato, qualificando correttamente la condotta oggetto di contestazione, con motivazione adeguata, del tutto immune da salti logici o manifeste contraddizioni, che il ricorso denuncia senza ulteriori specificazioni, evidenziando, così, un'assoluta genericità (Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 13.04.2016 n. 15427 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione e autorizzazione a lottizzare postuma.
L'eventuale autorizzazione a lottizzare, concessa "in sanatoria", non estingue il reato di lottizzazione abusiva, non essendo espressamente prevista dalla legge come causa estintiva di tale reato.
Qualora essa intervenga il giudice non può, tuttavia, disporre la confisca, perché l'autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune.
Allo stesso modo la successiva approvazione di un piano di recupero urbanistico non può configurare un'ipotesi di sanatoria della lottizzazione.

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1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione di legge in relazione agli artt. 36, 44 e 45 d.P.R. 380/2001 e 2 l. 241/1990, per l'omessa sospensione del processo nonostante l'approvazione da parte del Comune di Genova di un aggiornamento del Piano Urbanistico Comunale e di una convenzione urbanistica con la società proprietaria del fabbricato, in attuazione della quale è in corso il rilascio del titolo di legittimazione delle opere che ne consentirebbe il mantenimento (rilasciato successivamente al deposito del ricorso e di cui è stato dato atto con i motivi aggiunti), giova ricordare che
l'eventuale autorizzazione a lottizzare, concessa "in sanatoria", non estingue il reato di lottizzazione abusiva, non essendo espressamente prevista dalla legge come causa estintiva di tale reato (Sez. 3, n. 23154 del 18/05/2006, Scalici, Rv. 234476; conf. Sez. 3, n. 4373 del 13/12/2013, Franco, Rv. 258921; Sez. 3, n. 43591 del 18/02/2015, Di Stefano, Rv. 265153).
Qualora essa intervenga (ma ciò è oggetto degli ulteriori rilievi formulati dai ricorrenti con il quarto motivo e con i motivi aggiunti a proposito della confisca) il giudice non può, tuttavia, disporre la confisca, perché l'autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune.
Allo stesso modo -secondo la giurisprudenza di questa Corte- la successiva approvazione di un piano di recupero urbanistico non può configurare un'ipotesi di sanatoria della lottizzazione (vedi Cass., Sez. 3, 05.12.2001, Venuti).
Ne consegue, sotto il profilo della incidenza sulla sussistenza della lottizzazione abusiva, l'irrilevanza dell'aggiornamento del Piano Urbanistico Comunale e della stipula della convenzione urbanistica tra il Comune e la proprietaria dell'edificio, inidonei, per le ragioni anzidette, anche nella ipotesi di rilascio di valido e legittimo titolo di legittimazione delle opere, ad estinguere il reato di lottizzazione abusiva, con la conseguente insussistenza di ragioni di sorta per disporre la sospensione del processo in attesa del rilascio di permesso di costruire in sanatoria.
2. Soccorrono le medesime considerazioni in ordine al secondo motivo di ricorso, mediante il quale è stata denunciata violazione di legge in relazione all'art. 30 d.P.R. 380/2001, per l'omessa considerazione da parte della Corte d'appello del complesso iter amministrativo relativo alla pianificazione urbanistica dell'area nella quale si trova il fabbricato oggetto della lottizzazione abusiva contestata ai ricorrenti.
Costoro, infatti, in considerazione della innovazione dello strumento urbanistico direttivo nell'anno 2000, con la esclusione della destinazione direzionale dell'area nella quale si trova il fabbricato oggetto dell'intervento edilizio e la previsione quale destinazione caratterizzante di tale area di quella residenziale (con la conseguente richiesta da parte della società proprietaria del fabbricato di un nuovo titolo autorizzativo per conformarsi a tale destinazione, in ordine alla quale il Comune di Genova non si era determinato nonostante il decorso del termine di cui all'art. 2 l. 241/1990), hanno prospettato l'insussistenza della contestata lottizzazione abusiva, per essere stato realizzato il manufatto solamente nella sua struttura essenziale e con la sola prefigurazione in vista del suo adeguamento, anche sotto il profilo concessorio, alle nuove destinazioni residenziali previste dal Piano Urbanistico Comunale vigente.
Risulta, tuttavia, assorbente, il dato, già evidenziato, della radicale difformità tra la concessione edilizia rilasciata alla proprietaria, la S.r.l. Ba. San Giuliano, dal Comune di Genova, n. 550 del 03/12/1991, che prevedeva la realizzazione di un fabbricato a destinazione direzionale di quattro piani (compreso il piano autorimessa seminterrato) su un'area della superficie di 926 metri quadrati, con altezza di metri 15,15 e volume totale di metri cubi 8492, e quanto effettivamente realizzato dagli imputati, e cioè una modifica di destinazione d'uso del fabbricato e varianti in corso d'opera mai assentite (tra cui: la realizzazione del fabbricato ad una quota d'imposta inferiore di circa m. 2,60; il frazionamento dell'edificio in undici unità immobiliari; il rimodellamento della sagoma dell'edificio con riduzione della superficie lorda da mq. 2392 a mq. 1927 e la contestuale variazione dei prospetti; la realizzazione di una rampa elicoidale per l'accesso alla rimessa al piano seminterrato; la diversa realizzazione delle sistemazioni esterne circostanti il fabbricato con inserimento di due piscine; la realizzazione di un locale fuori terra in calcestruzzo armato della superficie di 10 mq.; la mancata realizzazione del parcheggio pubblico previsto quale opera in convenzione; la trasformazione della pista provvisionale di accesso al cantiere in viale carrabile posto a servizio del fabbricato): una così rilevante discrepanza determina la verificazione di una lottizzazione abusiva, per la totale difformità di quanto realizzato rispetto al piano di lottizzazione,  irrilevante rimanendo, alla stregua dei principi ricordati, l'eventuale autorizzazione a lottizzare emessa successivamente, così come l'approvazione di un nuovo piano urbanistico-comunale, cui le opere abusive sarebbero astrattamente conformi, giacché ciò non determina comunque una sanatoria della lottizzazione abusiva o l'estinzione del reato, che non sono contemplate dall'art. 30 d.P.R. 380/2001.
Manifestamente infondato risulta poi il profilo della censura fondato sul rilievo che non sarebbe qualificabile come lottizzazione abusiva l'intervento edilizio realizzato dagli imputati, in quanto avente ad oggetto un fabbricato e non un terreno, giacché ricorre il reato di lottizzazione abusiva fisica o materiale quando l'intervento, per le sue dimensioni o caratteristiche, sia idoneo a pregiudicare la riserva pubblica di programmazione territoriale (Sez. 3, n. 9446 del 21/01/2010, Lorefice, Rv. 246340), consista esso nella realizzazione di un nuovo fabbricato o nella suddivisione in lotti di un terreno in vista della realizzazione di nuove costruzioni, e tale idoneità a pregiudicare la programmazione territoriale di quanto realizzato dagli imputati non è in alcun modo stato oggetto di censura.
3. Per le medesime considerazioni risulta manifestamente infondato anche il terzo motivo di ricorso, mediante il quale è stata prospettata errata applicazione degli artt. 30 e 44 d.P.R. 380/2001, per la ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva in capo a tutti gli imputati nonostante l'incertezza della situazione in ordine alla validità del piano di lottizzazione a causa della sua sopravvenuta incompatibilità con gli strumenti urbanistici.
Va ricordato che
è stato chiarito, quanto all'elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva, che "non è ravvisabile alcuna eccezione al principio generale stabilito per le contravvenzioni dall'art. 42, 4° comma, cod. pen., restando ovviamente esclusi i casi di errore scusabile sulle norme integratici del precetto penale e quelli in cui possa trovare applicazione l'art. 5 cod. pen. secondo l'interpretazione fornita dalla pronuncia n. 364/1988 della Corte Costituzionale. Conseguentemente va ammessa anche la cooperazione colposa nella realizzazione del reato e diviene irrilevante l'eventuale eterogeneità dell'elemento soggettivo accertato in capo ai diversi concorrenti" (così Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi, Rv. 232189; conf. Sez. 3, n. 38799 del 16/09/2015, De Paola, Rv. 264718).
Ora, nella vicenda in esame, i ricorrenti hanno intrapreso sulla base del piano di lottizzazione e della concessione edilizia del 1991, che contemplavano la realizzazione di un fabbricato indiviso con destinazione direzionale articolato su quattro piani, una ristrutturazione con mutamento della destinazione, realizzando anche tutte le anzidette varianti in corso d'opera mai assentite, in assenza di risposta da parte del Comune di Genova circa la variante riduttiva della suddetta concessione edilizia ed in difformità dall'originario piano di lottizzazione e dalla concessione edilizia ottenuta: tutto ciò comporta l'irrilevanza, sotto il profilo della consapevolezza di realizzare un'opera del tutto difforme dal piano di lottizzazione e dalla concessione, dei sopravvenuti mutamenti degli strumenti urbanistici e delle altre vicende amministrative e giurisdizionali, soprattutto in considerazione della importanza dell'opera e della veste qualificata dei ricorrenti (quale evidenziata dalla Corte d'appello), che non potevano non rappresentarsi (sia pure nel quadro di incertezza derivante dalle pronunce dei giudici amministrativi, dalla imposizione del vincolo storico ambientale e del nuovo Piano Urbanistico Comunale) di dare corso alla realizzazione di un'opera illegittima, stante la persistente palese e rilevante difformità della stessa rispetto al piano di lottizzazione ed alla concessione, in ordine ai quali non erano intervenute modifiche di sorta da parte degli organi comunali.
4. Per quanto riguarda, infine, le censure relative al mantenimento della confisca, nonostante l'approvazione della variante del Piano Urbanistico Comunale e la stipula di convenzione attuativa e, da ultimo, il rilascio (in data 24.02.2015) di permesso di costruire al fine di ripristinare l'iniziale destinazione d'uso del fabbricato con finalità direzionale, oggetto del quarto motivo e dei motivi aggiunti, va ribadito che
il provvedimento di confisca delle aree impartito con la sentenza di condanna per i reati di lottizzazione abusiva e di costruzione abusiva su area illecitamente lottizzata non è automaticamente caducato per effetto del successivo rilascio di permesso a costruire in sanatoria, in quanto il giudice dell'esecuzione penale ha il dovere di controllare la legittimità di tale provvedimento e, in particolare, la sussistenza dei requisiti per il rilascio del titolo abilitativo (così Sez. 3, n. 12350 del 02/10/2013, Pandiani, Rv. 259890).
E' solo per effetto di un legittimo rilascio della concessione in sanatoria per condono che è possibile rivisitare la questione riguardante la confisca dei manufatti abusivamente realizzati a seguito di lottizzazione abusiva e dunque confiscati, in quanto il titolo abilitativo sopravvenuto legittima soltanto l'opera edilizia come tale, ma non si estende alla possibilità di rivedere la questione riguardante la lottizzazione, perché la concessione non ha una funzione strumentale urbanistica di pianificazione dell'uso del territorio (Sez. 3, 21.04.1989, n. 6160, Greco, Rv. 181117), e dunque, ferma restando la sussistenza della lottizzazione abusiva, per poter escludere la confisca occorrerà verificare la legittimità del permesso di costruire ed anche la sua compatibilità e coerenza con gli strumenti di pianificazione del territorio.
Ora, nella specie, occorrerà verificare, in sede esecutiva, essendo una tale indagine preclusa in questa sede, la legittimità del rilascio del suddetto permesso di costruire (avente lo scopo di consentire il ripristino della iniziale destinazione d'uso direzionale del fabbricato), tenendo conto dei mutamenti frattanto apportati allo stato dei luoghi ed all'edificio, onde accertare la compatibilità di tale permesso con lo stato di fatto e la sua congruenza rispetto al suo scopo ed agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, e solo all'esito di una tale indagine potranno essere esclusi i presupposti per mantenere la confisca, per effetto ed in conseguenza della legittima sanatoria delle opere e della loro compatibilità con gli strumenti urbanistici.
Ne consegue la manifesta infondatezza anche di tali motivi di ricorso, non potendo allo stato essere esclusi i presupposti di detta confisca (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.04.2016 n. 15404).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 ) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
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Con il secondo motivo di ricorso si contesta il merito sia dell’ordine di demolizione sia del diniego di sanatoria: lo stesso è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei termini, sicché il ricorrente non può tardivamente rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse, potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
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L’ordine di demolizione è atto dovuto e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella specie, non può giammai legittimare.

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... per l'annullamento del provvedimento del 13.02.2010 prot. 616 a firma del responsabile dell'ufficio tecnico del Comune di Campodipietra con il quale il Comune ha respinto la richiesta di sanatoria, nonché di ogni atto prodromico o consequenziale, compresa l'ordinanza di demolizione del 05.11.2008 prot. 5148;
...
Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 38/2001 a mente del quale: <<Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale>>.
In sostanza, secondo il ricorrente, il Comune non avrebbe considerato che la demolizione parziale delle opere difformi comporterebbe pregiudizio anche delle porzioni di esso regolarmente assentite, in quanto queste sarebbero strutturalmente compenetrate con le prime.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile, in quanto esso non può che riferirsi all’ordine di demolizione che, tuttavia, parte ricorrente non ha impugnato nei termini (il provvedimento in questione è del 05.11.2008, mentre il ricorso è stato notificato, come detto, in data 16.04.2010), con la conseguenza che ogni doglianza non può che appuntarsi sul diniego di sanatoria, essendo il ricorrente decaduto dalla possibilità di far valere in via diretta eventuali vizi del provvedimento molitorio.
Né l’addotto vizio dell’ordine di demolizione potrebbe essere invocato come causa di illegittimità del successivo diniego di sanatoria, in quanto la denunciata violazione riguarda le modalità di reazione al rilevato abuso ovvero un profilo specificamente riguardante l’ordine di demolizione non suscettibile di riverberarsi sul diniego che, come si preciserà ulteriormente con riguardo al secondo motivo, costituisce il risultato di un procedimento autonomo.
Quand’anche poi si ipotizzasse l’ammissibilità di una tale censura, essa sarebbe comunque infondata, atteso che secondo la giurisprudenza, anche di questo Tribunale, <<L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 ) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001>> (cfr. ex multis: TAR Molise, 04.12.2015, n. 455; da ultimo anche TAR Lazio 4 febbraio 2016, sez. I-quater, n. 1677).
Con il secondo motivo di ricorso, il sig. -OMISSIS- contesta il merito sia dell’ordine di demolizione sia del diniego di sanatoria, rilevando, con riferimento al primo, che le violazioni contestate al sig. -OMISSIS- (1. modifica sostanziale dei prospetti, con diversa imostazione delle falde; 2. modifica del corpo scala che non risulta dai prospetti; 3. realizzazione di un porticato con pilastri in muratura e copertura in legno; 4. due piccoli locali destinati a deposito) non integrerebbero abusi, mentre, con riferimento al secondo, che la motivazione di esso non sarebbe coincidente con quella dell’ordinanza demolitoria, evidenziando quindi un’illegittima contraddittorietà.
Il motivo, nelle due censure in cui si articola è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
Come già rilevato, esso è inammissibile nella parte in cui è diretto a censurare l’ordine di demolizione, in quanto quest’ultimo provvedimento non è stato impugnato nei termini, sicché il ricorrente non può tardivamente rimetterlo in discussione attraverso l’impugnazione del diniego di sanatoria, nemmeno, come accennato, in via derivata. E infatti, tra i due provvedimenti non sussiste un nesso di presupposizione necessaria, atteso che, pur avendo lo stesso oggetto, essi sono il risultato di autonomi procedimenti e sono regolati da fonti normative diverse, potendo quindi accadere che essi si fondino su motivazioni non coincidenti (artt. 31 e 36 del d.P.R. 380/2001).
Con specifico riferimento alle violazioni rilevate con il provvedimento di diniego, poi, il ricorrente nemmeno le contesta nella loro oggettiva sussistenza, limitandosi a negare che le stesse costituiscano violazioni della normativa edilizia, non avvedendosi che le rilevate difformità attengono alle altezze, alla distanza dalle altre costruzioni, alla volumetria e al lotto minimo integrando violazioni tipiche e anche gravi della normativa edilizia.
Né parte ricorrente contesta la circostanza, rilevata nel provvedimento di diniego di sanatoria, che le opere realizzate fossero difformi sia alla disciplina edilizia vigente al momento in cui esse sono state realizzate sia a quella in vigore quando è stata proposta la domanda di sanatoria, in violazione del c.d. principio della doppia conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001. Tale disposizione prevede che: <<In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso….il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda>>.
Nel caso di specie è stata, invece, accertata la sussistenza di difformità edilizie tanto al tempo della loro realizzazione quanto a quella della proposizione dell’istanza di condono, con la conseguenza che il diniego di condono costituiva un atto dovuto (ex multis: TAR Veneto, sez. I, 20.11.2015, n. 1239).
Con riguardo a tale ultimo profilo, e si giunge così allo scrutinio del terzo motivo di censura, la valutazione demandata agli organi comunali sulla sanatoria edilizia non presuppone, come sostiene parte ricorrente, la comparazione di ipotetici interessi antagonisti e, cioè, tra l'interesse pubblico primario all'ordinato sviluppo del territorio con quello secondario del privato alla regolarizzazione edilizia del manufatto abusivo, essendo piuttosto intesa all'obiettivo riscontro della conformità dell'opera con la disciplina legale.
Tali considerazioni valgono, ovviamente, anche per l’ordine di demolizione che è atto dovuto e che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il lasso di tempo trascorso dalla sua realizzazione, anche quando rilevante come nella specie, non può giammai legittimare (cfr. ex multis da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII, 17.03.2016, n. 1454).
Peraltro, a quanto appena rilevato si aggiunge nella fattispecie che il sig. -OMISSIS- non ha mai provveduto ad integrare la documentazione dell’istanza di sanatoria, sebbene il Comune ne abbia a più riprese sollecitato l’invio per poter procedere al riesame dei provvedimenti impugnati, secondo quanto prescritto dall’ordinanza cautelare n. 143/2010 di questo Tribunale, con ciò sottraendosi ad un onere fissato nel suo stesso interesse.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Molise, sentenza 08.04.2016 n. 171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Domanda di condono edilizio ai sensi della Legge n. 47 del 1985 – Risposta a richiesta di parere in merito all'applicazione dell'art. 32 della Legge n. 47 del 1985 (Regione Emilia Romagna, nota 05.04.2016 n. 239384 di prot.).
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In merito alla richiesta di cui all'oggetto, acquisita agli atti di questo Ufficio con il --------, con la quale si pongono alcuni quesiti in merito alla applicazione dell'art. 32 della Legge n. 47 del 1985, si rileva quanto segue. (...continua).

URBANISTICA: Parere in merito alla divisione ereditaria di edifici ricadenti in zona agricola come causa di esclusione della lottizzazione abusiva – Comune di Cisterna di Latina (Regione Lazio, parere 05.04.2016 n. 176009 di prot.).

marzo 2016

EDILIZIA PRIVATASecondo il più recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di Stato, l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione in precedenza emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione materiale, con la conseguenza che la medesima ordinanza può essere portata ad esecuzione in caso di rigetto dell’istanza, dopo la maturazione del relativo termine di adempimento che riprende a decorrere dalla conoscenza del diniego.
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4. RITENUTA, per contro, l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità dell’appello nella sua interezza, sollevata dall’appellato Comune di Bolzano sotto il profilo che la mera presentazione di istanza di sanatoria per i vari abusi contestati, successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione e ripristino, renderebbe quest’ultima inefficace e, quindi, improcedibile l’impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto, secondo il più recente e qui condiviso orientamento del Consiglio di Stato, l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione in precedenza emessa, ma ne impedisce unicamente l’esecuzione materiale, con la conseguenza che la medesima ordinanza può essere portata ad esecuzione in caso di rigetto dell’istanza, dopo la maturazione del relativo termine di adempimento che riprende a decorrere dalla conoscenza del diniego (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 02.02.2015, n. 466) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.03.2016 n. 1204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interpretazione art. 34 DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 23.03.2016).

EDILIZIA PRIVATALa valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione complessiva e non atomistica degli interventi posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.
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Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto essere qualificata come nuova opera per consistenza e funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della volumetria e della superficie utile commerciale.
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in esame:
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo comporta lo snaturamento dei caratteri propri della pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
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Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è qualificabile come nuova opera assoggettata al previo rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era incompatibile con la destinazione agricola dell’area prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era necessario il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario ed autorizzato dei luoghi.

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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Abano Terme, a firma del Dirigente del V Settore 17.06.1999 prot. n. 16032, con cui si ordina alla Società ricorrente, relativamente al fabbricato ad uso commerciale-residenziale in Abano Terme, via ... n. 46, di demolire le opere pretestamente abusive entro il termine di 90 giorni.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Le censure proposte, che possono essere valutate unitariamente, si fondano sull’erroneo presupposto che l’abuso edilizio dovrebbe essere considerato come consistente nella mera apposizione di un telo di nylon, come tale qualificabile come opera amovibile, non soggetta al previo rilascio di un titolo edilizio, o tutt’al più qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria non sanzionabile con un’ordinanza di demolizione, irrilevante da un punto di vista urbanistico ed inoltre non soggetta al previo rilascio di un’autorizzazione paesaggistica perché costituente un intervento edilizio minore.
Tale ordine di idee non può essere condiviso.
Come è noto la valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione complessiva e non atomistica degli interventi posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2012 n. 3330; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.06.2014, n. 2985).
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto essere qualificata come nuova opera per consistenza e funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della volumetria e della superficie utile commerciale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in esame (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n. 5265):
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo comporta lo snaturamento dei caratteri propri della pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è qualificabile come nuova opera assoggettata al previo rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era incompatibile con la destinazione agricola dell’area prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era necessario il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario ed autorizzato dei luoghi.
Il ricorso in definitiva deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.03.2016 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di interventi edilizi del tutto priva di titolo comporta una consapevole deviazione dalle regole che governano l’uso del territorio, sicché sul semplice decorso del tempo non può fondarsi alcun affidamento.
Stante la natura permanente dell’illecito edilizio e l’interesse pubblico alla repressione di esso, la giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa effettivamente e attendibilmente trarre fonte.

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7c. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione di varie norme e principi, nonché eccesso di potere sotto diversi profili, in sostanza dolendosi della mancanza di una motivazione esaustiva circa il (preteso) affidamento ingenerato dal lungo periodo di inerzia del Comune di Lucca.
In realtà, come più volte sottolineato, gli abusi constatati dal Nucleo di Polizia edilizia nel 2009 risalgono (per ammissione dei ricorrenti stessi e dei periti da loro incaricati) al periodo 2001–2004, sicché manca in radice l’elemento tempo.
Quanto all’affidamento, la realizzazione di interventi edilizi del tutto priva di titolo comporta una consapevole deviazione dalle regole che governano l’uso del territorio, sicché sul semplice decorso del tempo non può fondarsi alcun affidamento. Stante la natura permanente dell’illecito edilizio e l’interesse pubblico alla repressione di esso, la giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa effettivamente e attendibilmente trarre fonte (Consiglio di Stato, IV, 13.06.2013, n. 3182) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Effetto acquisitivo del manufatto abusivo.
L’effetto acquisitivo si ricollega automaticamente al decorso infruttuoso del termine di novanta giorni entro il quale le opere abusive devono essere demolite. Tuttavia, tale effetto, ai sensi dell’art. 31 T.U.ED., presuppone che l’area da acquisire sia stata individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi all’interessato di verificare il rispetto dei limiti dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva.
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita e su tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con opportune osservazioni e/o produzioni documentali all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato da discrezionalità tecnica.
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime.

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8b. Con la seconda e la terza censura dei motivi aggiunti in esame si deducono i vizi di violazione del giudicato cautelare formatosi sull’ordinanza di questo Tar n. 79/2013 e di violazione delle disposizioni in materia di acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale.
Come si è già avuto modo di esporre, con la predetta ordinanza è stata respinta l’istanza cautelare sulla base della considerazione che il danno grave e irreparabile (collegato all’acquisizione dell’area) sarebbe derivato, eventualmente, da successivi atti dell’amministrazione, non già dall’ordinanza demolitoria che non specificava l’area da acquisire.
I ricorrenti sostengono che la nota d’avvio del procedimento di acquisizione –in cui il Comune di Lucca afferma di essere già proprietario dell’area in quanto il termine assegnato per ottemperare all’ingiunzione di demolizione è decorso infruttuosamente– viola il giudicato cautelare (l’ordinanza più volte richiamata non è stata impugnata) e pertanto deve considerarsi nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990.
Inoltre, le disposizioni che regolano l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e dell’area sarebbero state violate per mancata individuazione dell’area stessa.
Il Comune resistente osserva, in contrario, che la proprietà dell’area di sedime dell’opera abusiva viene automaticamente acquisita per il semplice decorso dei novanta giorni assegnati per l’esecuzione dell’ingiunzione di demolizione dell’opera stessa; l’atto dell’amministrazione volto a quantificare la misura dell’area ha carattere soltanto ricognitivo e dichiarativo e l’unica contestazione possibile in tale fase riguarda la misura dell’area acquisita.
Con riguardo alla violazione del giudicato cautelare si osserva che l’ordinanza n. 79/2013 ha rilevato soltanto l’assenza del pregiudizio grave e irreparabile, essendo questo da ricollegare a successive determinazioni dell’amministrazione volte a individuare l’area da acquisire e ad accertare l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione. Tuttavia, una valutazione complessiva del secondo e del terzo motivo di ricorso induce a ritenere illegittimo l’operato dell’amministrazione per le ragioni che saranno subito esposte.
È infatti indubbiamente da condividere la tesi secondo cui l’effetto acquisitivo si ricollega automaticamente al decorso infruttuoso del termine di novanta giorni entro il quale le opere abusive devono essere demolite. Tuttavia, tale effetto, ai sensi dell’art. 31 T.U.ED., presuppone che l’area da acquisire sia stata individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi all’interessato di verificare il rispetto dei limiti dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva (TAR Piemonte, I, n. 107/2013).
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita e su tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con opportune osservazioni e/o produzioni documentali all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato da discrezionalità tecnica (TAR Lazio-Roma, I, 04.04.2001, n. 2918).
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime (in tal senso, TAR Lecce, sez. III, 03.02.2010, n. 435; TAR Piemonte, sent. su menzionata).
È chiaro che nel caso in esame nulla di tutto ciò è accaduto. E quindi, se è senz’altro vero che l’ordinanza di demolizione è legittima anche in mancanza di individuazione dell’area da acquisire e che l’accertamento dell’inottemperanza ha carattere meramente ricognitivo, è altrettanto vero che presupposto dell’automatico effetto acquisitivo è la regolarità del procedimento, anche sotto il profilo partecipativo.
In altri termini, il destinatario della sanzione demolitoria deve essere posto nelle condizioni di scegliere a ragion veduta fra l’ottemperanza e l’inottemperanza all’ingiunzione, con piena consapevolezza delle conseguenze dell’una e dell’altra opzione; ed è evidente che tale consapevolezza non può ravvisarsi nelle situazioni in cui l’individuazione dell’area da acquisire non sia avvenuta né al momento dell’ordinanza di demolizione né successivamente.
In conclusione, la nota impugnata è illegittima per le assorbenti ragioni testé indicate e va di conseguenza annullata (tratto da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ente ha determinato di respingere l’istanza di accertamento di conformità, di cui si discute, non per ragioni sostanziali, attinenti cioè alla eventuale non sanabilità, sotto il profilo urbanistico, degli interventi realizzati, ma unicamente per ragioni formali, rappresentate, nello specifico, dalla dedotta carenza degli elaborati progettuali e della documentazioni tecnico amministrativa, allegati alla medesima istanza.
Un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti, l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la carenza documentale, nell’ottica della leale, reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli atti regolamentari o generali della medesima amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con esclusivo riferimento alla incompletezza della documentazione depositata dall’istante, trattandosi di circostanza che può legittimare solo una richiesta di integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a pronunciare sulla domanda”.

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... per l'annullamento provvedimento prot. n. 45796 del 21/11/2014 con cui il responsabile dell'area V del Comune di Capaccio ha disposto l'archiviazione dell'istanza di accertamento di conformità prot. n. 44940/14 del 17.11.2014;
- di ogni atto connesso e per l’accertamento dell’obbligo della P.A. di provvedere all’esame della pratica edilizia prot. n. 44940 del 17.11.2014 e sul connesso accertamento di compatibilità paesaggistica nonché per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato sull’istanza prot. n. 772 del 12.01.2015 con la quale il ricorrente ha chiesto l’annullamento in autotutela dell’impugnato provvedimento di archiviazione e sull’istanza prot. n. 44187 del 25.10.2010.
...
5.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento, alla stregua delle considerazioni che seguono.
In pratica, l’ente si sarebbe determinato a respingere l’istanza di accertamento di conformità, di cui si discute, non per ragioni sostanziali, attinenti cioè alla eventuale non sanabilità, sotto il profilo urbanistico, degli interventi realizzati, ma unicamente per ragioni formali, rappresentate, nello specifico, dalla dedotta carenza degli elaborati progettuali e della documentazioni tecnico amministrativa, allegati alla medesima istanza.
Ma un tale modo di procedere è sicuramente illegittimo, e comporta, ritenuti assorbiti gli altri vizi dedotti, l’accoglimento del ricorso, dovendo la constatazione, da parte del Comune, dell’incompletezza della richiesta di sanatoria (circostanza, tra l’altro, pure contestata dai ricorrenti anche con certificazioni provenienti dal protocollo dell’ente) condurre, in ogni caso, non già al diniego o all’archiviazione della stessa, quanto piuttosto ad una doverosa attività di integrazione della medesima.
In proposito la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la carenza documentale, nell’ottica della leale, reciproca, cooperazione procedimentale di cui alla legge n. 241 del 1990, può dar luogo ad una declaratoria di improcedibilità dell’istanza del privato solo laddove la pubblica amministrazione abbia preliminarmente formulato al soggetto interessato una specifica richiesta di integrazione della documentazione necessaria (in base alla legge, o agli atti regolamentari o generali della medesima amministrazione) ad un compiuto esame della fattispecie.
Pertanto, deve ritenersi illegittimo il diniego o l’archiviazione dell’istanza di rilascio della concessione edilizia in sanatoria di opere edilizie abusive motivato con esclusivo riferimento alla incompletezza della documentazione depositata dall’istante, trattandosi di circostanza che può legittimare solo una richiesta di integrazione documentale da parte dell’Autorità competente a pronunciare sulla domanda” (ex multis TAR Campania-Napoli, sez. IV, 05.08.2009, n. 4730).
6.- Le rassegnate conclusioni devono ritenersi satisfattive della pretesa azionata in giudizio con plurime domande, atteso che l’amministrazione è onerata a conformarsi a quanto statuito in sentenza (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.03.2016 n. 609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel procedimento penale per costruzioni prive di concessione o assistite da concessione illegittima, la violazione anche di norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni legittima i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del medesimo.
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Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici.
A maggior ragione non lo è in caso di intervento realizzato direttamente in base a denunzia di inizio di attività, atto non pubblico proveniente dal privato e non dalla pubblica amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione del programma progettuale ed è dunque riconducibile all'ideazione del committente.
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2. Il ricorso è inammissibile perché generico, proposto per motivi non consentiti dalla legge e manifestamente infondato.
3. L'imputato risponde del reato di cui agli artt. 40, cpv., 110, cod. pen., 44, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 perché, quale proprietario committente, in concorso con due pubblici ufficiali del Comune di Castiglione della Pescaia (che avevano archiviato il procedimento amministrativo finalizzato all'accertamento dell'abuso edilizio, così concorrendo alla sua realizzazione), con i progettisti, i direttori dei lavori e il titolare dell'impresa esecutrice degli stessi, aveva ristrutturato, mediante soprelevazione e suddivisione di due unità immobiliari, il villino di sua proprietà, sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza di valido titolo edilizio essendo illegittima la D.I.A. perché in contrasto con la normativa in materia di distanze tra fabbricati (art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 e 26 delle N.T.A. del P.R.G.), posto che la soprelevazione era stata realizzata ad una distanza inferiore a 10 metri rispetto al fabbricato adiacente.
3.1. Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato come, in realtà, l'intervento edilizio dovesse piuttosto qualificarsi alla stregua di una vera e propria nuova costruzione (in considerazione della realizzazione di un piano in più nel quale ospitare un nuovo appartamento, della costruzione di cantine e di un terrazzo, della radicale variazione della sagoma), attenendosi alla rubrica, aveva comunque evidenziato che il «manufatto presentava una ovvia imponenza con muro parapetto, pilastri orizzontali e verticali» ed una loggia certamente computabile ai fini delle distanze alla luce sia degli strumenti urbanistici del 2007, che del PRG del 2009 secondo il quale non dovevano essere computati ai fini delle distanze solo gli elementi decorativi, i balconcini, le pergole e i porticati (e ciò a prescindere dal fatto che l'opera, realizzata in epoca precedente al 2009, non era comunque conforme nemmeno alle definizioni del nuovo PRG).
3.2. In sede di appello l'imputato si è a lungo soffermato sulla natura dell'intervento (ristrutturazione) e sulle sue caratteristiche oggettive, oltre che su altri temi, alcuni dei quali del tutto superflui alla luce degli odierni motivi di ricorso.
In alcun modo, però, era stato devoluto alla Corte territoriale il tema, esclusivamente fattuale, della natura della "loggia" realizzata a seguito della soprelevazione e della sua attitudine a incidere sul calcolo delle distanze, oggetto del secondo motivo di ricorso.
E' pur vero che la sentenza impugnata affronta il tema ricostruendo il fatto (la descrizione della "loggia") e interpretando le norme ad esso applicabili, ma è altrettanto vero che il ricorrente, negletto il secondo argomento -indubbiamente più acconcio a questa fase di legittimità- si avventura nella diversa ricostruzione del fatto attraverso ampi, quanto inammissibili richiami alle prove raccolte nella fase di merito.
3.3. Gli altri vizi denunziati con il primo motivo di ricorso, altro non sono se non la riedizione, per molti versi alla lettera, dei corrispondenti motivi di appello, affastellati in modo generico e confuso (si eccepisce, per esempio, la illegittimità della costituzione della parte civile, sotto lo stesso capitolo dedicato alla insussistenza dell'elemento psicologico del reato), senza alcuna considerazione per gli argomenti spesi nella sentenza impugnata per confutarli.
3.4. E' sufficiente ribadire che, come anche ricordato dalla Corte di appello,
nel procedimento penale per costruzioni prive di concessione o assistite da concessione illegittima, la violazione anche di norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria, altezza delle costruzioni legittima i vicini confinanti ad esercitare l'azione civile, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del medesimo (Sez. 3, n. 5190 del 15/03/1991, De Bigontina, Rv. 187094; Sez. 3, n. 45295 del 21/10/2009, Vespa, Rv. 245270; Sez. 3, n. 21222 del 04/04/2008, Chianese, Rv. 240044).
3.5. Inoltre,
il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Tale responsabilità (che costituisce a carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001) non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 27261 del 08/06/2010, Caleprico, Rv. 248070).
A maggior ragione non lo è in caso di intervento realizzato direttamente in base a denunzia di inizio di attività, atto non pubblico (Sez. 3, n. 41480 del 24/09/2013, Zecca, Rv. 257690) proveniente dal privato e non dalla pubblica amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione del programma progettuale ed è dunque riconducibile all'ideazione del committente.
3.6. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.03.2016 n. 10106).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione non è una sanzione. Cassazione. I giudici italiani in contrasto con la Corte dei diritti dell’uomo.
Un modesto intervento abusivo nell’isola d’Ischia è l’occasione per delimitare i confini tra la Corte di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con la sentenza 10.03.2016 n. 9949 (tratta da www.lexambiente.it) la III Sez. penale della Corte di Cassazione utilizza un banale abuso edilizio per rivendicare la generica possibilità che la magistratura penale possa disporre la demolizione di opere illegittime. Demolizione e confisca possono infatti essere disposte dal giudice penale anche senza una sentenza di condanna.
Spesso accade che i reati urbanistici, in quanto contravvenzioni (e non delitti) si prescrivano in termini brevi (4 anni, che diventano 5 se nei quattro anni inizia un procedimento penale). Il giudice penale, quindi, deve dichiarare estinto il reato, ma può sempre disporre la demolizione o la confisca (in caso di lottizzazione) dell’immobile abusivo.
Queste sanzioni, tuttavia, sembrano contrastare con la Convenzione sui diritti dell’uomo che, nell’articolo 7 e nell’articolo 1 del Protocollo n. 1 consentono pene afflittive solo se vi è una condanna penale. Se il reato è prescritto, osservano i giudici europei, non vi è condanna penale e, in conseguenza, non è possibile che il giudice penale intervenga sugli immobili. Avviene così che, tutte le volte che un magistrato penale ha disposto la confisca di immobili abusivi, i costruttori hanno utilizzato la scappatoia della prescrizione per sottrarsi all’eliminazione del bene. Un diverso potere sanzionatorio spetta ai Comuni, ma è nota l’inerzia di tali enti.
L’antagonismo tra l’autorità giudiziaria italiana e la Corte europea dei diritti dell’uomo è giunto a livelli incandescenti: la nostra Corte costituzionale nel marzo 2015 (sentenza 49) ha sottolineato che il giudice penale può confiscare immobili abusivi anche in presenza di reati prescritti, qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi (e quindi anche se manca una sentenza di condanna). In senso opposto, si è espressa la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo sui ricorsi 19029/2011, 34163/2007 e 1828/2006.
I giudici nazionali, e in particolare la Cassazione (anche in questa sentenza), puntano ora sulla natura amministrativa della confisca, che quindi potrebbe avvenire anche senza una condanna penale. La confisca, secondo i giudici nazionali, è impermeabile a tutte le vicende estintive del reato e della pena: si confisca anche in caso di amnistia ed indulto, e finanche se muore il reo (dopo una sentenza irrevocabile).
Di fatto, quindi, i giudici penali intendono difendere a spada tratta l’assetto del territorio, compensando i brevi termini dell’estinzione del reato con la possibilità di confiscare o demolire l’immobile abusivo anche quando il reato è prescritto.
Ma altrettanto intransigente è la Corte dei diritti dell’uomo che non entra nel merito della pesantezza della sanzione penale, perché richiede che l’eliminazione dell’immobile sia la conseguenza di un accertamento effettivo, avvenuto con sentenza. L’abuso nell’isola d’Ischia sarà quindi demolito a meno che i giudici di Strasburgo non intervengano sul governo centrale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
In tema di reati edilizi, e specificamente in materia di ripristino o demolizione dello stato dei luoghi anteriore alla realizzazione del fabbricato abusivo, l’ordine di demolizione previsto dall’art. 31, ultimo comma, d.P.R. n. 380/2001 costituisce atto dovuto, espressivo di un potere autonomo e non meramente suppletivo del giudice penale.
Esso pertanto, ferma restando l’esigenza di coordinamento in fase esecutiva, non si pone in rapporto alternativo con l’ordine omologo impartito dalla pubblica amministrazione.
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4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Invero, il ricorso censura l'omessa dichiarazione della prescrizione, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., dell'ordine di demolizione, in quanto sanzione 'sostanzialmente penale', alla luce di una interpretazione 'convenzionalmente' conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
La tesi è fondata, come noto, su una decisione, del tutto isolata, di un giudice di merito (Tribunale Asti, ordinanza del 03/11/2014, Delorier), che ha dichiarato l'estinzione per decorso del tempo dell'ordine di demolizione, sul presupposto che si trattasse non già di una sanzione amministrativa, bensì di una vera e propria "pena", nella declinazione 'sostanzialistica' fornita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in tal senso, dunque, anche all'ordine di demolizione sarebbe applicabile l'art. 173 cod. pen. sulla prescrizione delle pene.
4.1. Ebbene, anche qualora si volesse accedere a tale ricostruzione, la censura proposta sarebbe palesemente infondata, in quanto non sarebbe decorso neppure il termine di cinque anni previsto per la prescrizione delle pene (principali).
Invero, se il dies a quo va individuato nella irrevocabilità della condanna (artt. 172, comma 3, e 173, comma 3, cod. pen.), che nella fattispecie è intervenuta il 20/04/2009, non risulta decorso il preteso termine di prescrizione dell'ordine di demolizione, in quanto l'ingiunzione è stata notificata il 13/01/2012.
4.2. In ogni caso, va evidenziato che la tesi della natura 'sostanzialmente penale' dell'ordine di demolizione, oltre ad essere, come si dirà, frutto di una applicazione del diritto eurounitario eccentrica rispetto al sistema costituzionale delle fonti, è infondata.
Al riguardo,
la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una serie di principi che hanno costantemente ribadito la natura amministrativa della demolizione, quale sanzione accessoria oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (ex multis, Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez. 3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511; si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monter); in tale quadro, coerentemente è stata negata l'estinzione della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi dell'art. 173 cod. pen., in quanto tale norma si riferisce alle sole pene principali, e comunque non alle sanzioni amministrative (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670); ed altresì è stata negata l'estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita dall'art. 28 l. 24.11.1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva ("il diritto a riscuotere le somme ... si prescrive"), mentre l'ordine di demolizione integra una sanzione 'ripristinatoria', che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio (Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Ebbene,
la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione risulta fondata su una serie di indici 'diagnostici' della "materia penale", ovvero la pertinenzialità rispetto ad un fatto-reato, la natura penale dell'organo giurisdizionale che la adotta, l'indubbia gravità della sanzione e l'evidente finalità repressiva; sulla base di tali indici si afferma la natura penale, facendone poi discendere una disinvolta operazione di applicazione analogica dell'art. 173 cod. pen..
4.3. Nel solco di quanto già evidenziato da questa Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, non ancora massimata), nel sindacato di legittimità dell'ordinanza del Tribunale di Asti,
il quadro normativo che disciplina la demolizione delle opere abusive esclude, innanzitutto, che ricorra l'indice, indiziante la natura penale della misura, della pertinenzialità rispetto ad un fatto reato; invero, l'art. 27 d.P.R. 380 del 2001 disciplina la c.d. demolizione d'ufficio, disposta dall'organo amministrativo a prescindere da qualsivoglia attività finalizzata all'individuazione di responsabili, sul solo presupposto della presenza sul territorio di un immobile abusivo; una demolizione, dunque, che ha una finalità esclusivamente ripristinatoria dell'originario assetto del territorio.
L'art. 31 T.U. edil. disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica, e non solipsistica, della disposizione, dunque,
impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché
è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep.2011), D'Avino, Rv. 249309; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza, cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/1/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
Del resto,
anche la dottrina più consapevole ha sottolineato la differente finalità e natura delle misure amministrative previste a salvaguardia dell'assetto del territorio: la demolizione, infatti, è connotata da una finalità ripristinatoria, l'acquisizione gratuita del bene e dell'area di sedime e le sanzioni pecuniarie alternative alla demolizione hanno una finalità riparatoria dell'interesse pubblico leso, le sanzioni pecuniarie previste in caso di inottemperanza all'ingiunzione a demolire sono connotate da una finalità punitiva.
Viene, dunque, esclusa una natura punitiva della demolizione, che non può conseguire automaticamente dall'incidenza della misura sul bene. In tal senso, non sembra ricorrere neppure l'ulteriore 'indice diagnostico' della natura penale, ovvero la finalità repressiva, essendo pacifico che ciò che viene in rilievo è la salvaguardia dell'assetto del territorio, mediante il ripristino dello status quo ante
(Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736: "In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva"); che non ricorra una finalità repressiva, del resto, è confermato altresì dalla possibilità di revoca della demolizione, allorquando gli interessi pubblici sottesi alla tutela del territorio siano diversamente ponderati dall'autorità amministrativa, divenendo incompatibili con l'esecuzione della misura ripristinatoria. L'attitudine di un interesse pubblico a paralizzare l'esecuzione della sanzione, dunque, sembra escluderne la asserita finalità repressiva.
4.4. L'altro profilo di perplessità che suscita l'interpretazione (asseritamente) conforme alla giurisprudenza 'eurounitaria' riguarda l'applicazione analogica della norma sulla prescrizione delle pene, che appare addirittura disinvolta.
4.4.1. L'applicazione analogica viene infatti fondata sulla sostanziale obliterazione ermeneutica dell'art. 14 delle Preleggi, sul rilievo che, poiché tale norma non può riferirsi a previsioni di favore, non occorre il presupposto dell'eadem ratio.
La delimitazione del divieto di analogia appare innanzitutto arbitraria, oltre che immotivatamente assertiva.
Se è vero, infatti, che il divieto di analogia in materia penale è considerato, dalla dottrina più attenta, relativo, concernente soltanto le norme penali sfavorevoli, nondimeno l'art. 14 Preleggi impedisce l'integrazione della norma mediante il procedimento analogico nei casi di norme eccezionali.
Al riguardo, la dottrina penalistica più accorta ritiene che il ricorso al procedimento analogico sia precluso rispetto alle cause di non punibilità (denominate anche "limiti istituzionali della punibilità") fondate su specifiche ragioni politico-criminali o su situazioni specifiche: in tal senso, l'analogia non sarebbe consentita rispetto alle immunità, alle cause di estinzione del reato e della pena, e alle cause speciali di non punibilità (ad es., il rapporto di famiglia rilevante ex art. 649 cod. pen.).
Già tale rilievo impedirebbe, dunque, l'applicazione analogica di una causa di esclusione della pena come la prescrizione disciplinata dall'art. 173 cod. pen..
4.4.2. Ma, in ogni caso, ciò che impedisce tale disinvolta operazione interpretativa è la carenza dei due presupposti dell'analogia, alla stregua della tradizionale e condivisa teoria generale del diritto: l'esistenza di una lacuna normativa e l'eadem ratio.
L'applicazione analogica, infatti, presuppone la carenza di un à norma nella indispensabile disciplina di una materia o di un caso (per riprendere la formula dell'art. 14 Prel.), che altrimenti la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimesso all'esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato.
Nel caso di specie, non sembra scorgersi una lacuna normativa, non potendo ritenersi indefettibile la previsione di una causa estintiva della sanzione amministrativa della demolizione in conseguenza del decorso del tempo.
L'opzione di individuare una lacuna normativa, dunque, è del tutto arbitraria, e rimessa alle personali e soggettive scelte dell'interprete.
Del resto, l'assenza di una causa di estinzione è comune alla demolizione e ad altre sanzioni amministrative, e sarebbe irragionevole, e comunque arbitraria, un'applicazione analogica della prescrizione alla prima e non alle altre; anche perché mentre la prescrizione (del reato e della pena) in materia penale è legata alla tutela di interessi individuali (libertà personale e dignità umana) ed alla progressiva erosione dell'attitudine risocializzante della pena, in ragione del decorso del tempo (tempori cedere), nella materia lato sensu amministrativa il legislatore ragionevolmente può decidere di non dare rilevanza, in una o più fattispecie sanzionatorie, al decorso del tempo quale causa estintiva, in ragione della prevalenza di interessi pubblicistici oggetto di privilegiata considerazione normativa (nel caso di specie, la prevalenza è attribuita al ripristino dell'assetto del territorio).
Inoltre, manca anche l'eadem ratio, l'elemento di identità fra il "caso" previsto ed il "caso" non disciplinato, sulla quale la tesi della natura intrinsecamente penale della demolizione sorvola.
L'art. 173 cod. pen., infatti, disciplina l'"estinzione delle pene dell'arresto e dell'ammenda per decorso del tempo" (così come, analogamente, l'art. 172 cod. pen. disciplina la prescrizione delle pene della reclusione e della multa); la causa di estinzione, dunque, è limitata alle sole pene principali, non è una norma 'di favore' generale, applicabile, ad esempio, anche alle pene accessorie. A conferma, peraltro, della natura eccezionale della disposizione, già solo per tale motivo insuscettibile di applicazione analogica.
Non si scorge un motivo, ragionevole (inteso non già nella declinazione 'soggettiva', bensì costituzionale, di parità di trattamento di situazioni analoghe) e ancorato a criteri oggettivi, dunque, per applicare analogicamente la prescrizione alla sanzione della demolizione, e non alle pene accessorie -la cui natura penale, peraltro, oltre ad essere normativamente sancita, non è revocabile in dubbio- ovvero agli effetti penali della condanna.
La diversa natura e finalità delle pene principali, da un lato, e della demolizione, dall'altra, non consentono, infatti, di individuare un elemento di identità tra i due "casi" che consenta un'applicazione analogica della norma sulla prescrizione: è stato già evidenziato che mentre le pene 'principali' hanno una natura lato sensu 'repressiva', ed una finalità rieducativa (recte, risocializzante), ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost., la demolizione non ha una natura intrinsecamente 'repressiva', né persegue finalità risocializzanti, perseguendo invece una finalità ripristinatoria dell'assetto del territorio sulla quale le esigenze individuali legate all'oblio per il decorso del tempo risultano necessariamente soccombenti rispetto alla tutela collettiva di un bene pubblico (Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, Sentenza n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque, deve negarsi innanzitutto la natura intrinsecamente penale della demolizione, ed in secondo luogo la legittimità di un procedimento analogico, in assenza dei due presupposti della lacuna normativa e dell'eadem ratio.
4.5. Non ricorrendo gli estremi di una legittima analogia legis, secondo i canoni interpretativi tradizionalmente desunti dall'art. 14 Prel., si deve prendere in considerazione l'ipotesi che l'operazione 'interpretativa' a fondamento dell'applicazione analogica della prescrizione alla sanzione della demolizione sia in realtà frutto di una analogia iuris, nella quale si è proceduto alla (invero arbitraria) formulazione ed applicazione di principi generali dell'ordinamento, secondo i canoni desunti dall'art. 12 Prel..
E tuttavia anche tale procedimento interpretativo sarebbe frutto di una soggettiva ed arbitraria opzione politica dell'interprete, in assenza di una inequivocabile lacuna normativa.
Innanzitutto l'analogia iuris presupporrebbe la necessità di risolvere un "caso dubbio" -e non sembra il caso dell'estinzione della sanzione della demolizione-; in secondo luogo imporrebbe l'individuazione di un principio generale applicabile al 'caso dubbio': e non sembra che l'estinzione di una sanzione amministrativa (ma neppure penale) per il decorso del tempo possa plausibilmente integrare un principio generale dell'ordinamento, sia nazionale che sovranazionale.
Va al riguardo sempre rammentato che l'integrazione dell'ordinamento è solo residuale e succedanea all'interpretazione, e, se il caso non è dubbio, non è necessario ricorrere all'applicazione dei principi, in quanto è sufficiente l'applicazione della disposizione scritta.
4.6. Particolarmente attuale appare il monito, espresso anche da consapevole dottrina, che il diritto 'eurounitario', ed in particolare il diritto proveniente dalla giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo, non venga adoperato dall'interprete alla stregua di un diritto à la carte, dal quale scegliere l'ingrediente ermeneutico ritenuto più adatto ad un'operazione di precomprensione interpretativa.
Il distorto utilizzo della giurisprudenza casistica delle Corti europee, infatti, può condurre, come nel caso dell'applicazione analogica della prescrizione alla demolizione, a compiere una "disanalogia", con la quale si universalizza arbitrariamente la portata di un principio affermato in un determinato contesto. In realtà, il principale ostacolo al procedimento analogico adoperato nell'applicazione della prescrizione alla demolizione risiede nel limite 'logico' del tenore lessicale della disposizione di cui all'art. 173 cod. pen.; una norma dall'univoco significato letterale, che non consente esiti ermeneutici contra legem, e che impedisce la (sovente malintesa) interpretazione conforme.
Per impedire forme di "normazione mascherata", infatti, il nostro sistema costituzionale delle fonti, come interpretato nel diritto vivente della Corte costituzionale, ha chiarito, fin dalle c.d. "sentenze gemelle" (n. 348 e 349 del 2007), che il diritto CEDU non è direttamente applicabile; il giudice comune, infatti, ha la sola alternativa di esperire una interpretazione "convenzionalmente conforme" della norma nazionale, ove percorribile, ovvero proporre una questione di legittimità costituzionale, adoperando il diritto CEDU quale parametro interposto di legittimità, ai sensi dell'art. 117 Cost. (Corte Cost. n. 80 del 2011).
Ebbene, nel caso di specie, poiché la norma sulla prescrizione delle pene non appare suscettibile né di applicazione analogica, né tanto meno di interpretazione 'convenzionalmente conforme', a tanto ostandovi l'univoco tenore lessicale (che limita la prescrizione alle pene 'principali'), il giudice comune, ove avesse avuto un fondato dubbio di costituzionalità della norma, per l'omessa previsione di una causa estintiva della demolizione, in virtù della ritenuta natura penale della stessa, avrebbe potuto percorrere l'unica strada della proposizione di una questione di costituzionalità.
5. Va dunque riaffermato il seguente principio di diritto: "
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.".

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lottizzazione senza condono.
Il condono copre le opere edilizie contro legge e non anche la lottizzazione abusiva. È così che se il reato è prescritto ma la confisca risulta confermata, il comune ordina al proprietario di consegnargli l'immobile: la sanatoria delle opere, infatti, è compatibile con la misura ablativa penale ma soltanto con l'eventuale autorizzazione a lottizzare concessa in sanatoria l'ente locale può rinunciare ad acquisire le aree al patrimonio indisponibile comunale.

È quanto emerge dalla sentenza 10.03.2016 n. 668, pubblicata dal TAR Sicilia-Palermo, Sez. II.
L'amministrazione si convince a non demolire i fabbricati. È evidente che l'autorizzazione a lottizzare in sanatoria non può estinguere il reato, ma dimostra soltanto ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici.
E nella specie non conta che sia intervenuta nelle more la concessione in sanatoria per le opere edilizie realizzate sui singoli lotti: il titolo abilitativo che è sopravvenuto, infatti, legittima soltanto il manufatto interessato, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione rispetto alle scelte generali di pianificazione urbanistica; la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue invece soltanto all'adozione di un provvedimento esplicito che «legittima» la lottizzazione, emesso dall'autorità amministrativa competente.
Nel nostro caso il comune rispetta l'articolo 19 della legge 47/1985 che vincola l'ente ad acquisire al proprio patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, benché oggetto di condono (articolo ItaliaOggi del 30.04.2016).
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MASSIMA
Nel merito, re melius perpensa rispetto alla fase cautelare, ritiene però il Collegio che il ricorso sia infondato.
Invero, per come emerge da un più attento esame della documentazione in atti, nel caso di specie il reato contestato ai ricorrenti era quello di lottizzazione abusiva e non di mera costruzione di opere abusive.
La confisca disposta dal giudice penale è quindi disciplinata dall’art. 19 l. n. 47/1985, applicabile ratione temporis, a norma del quale: “La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione abusiva. La sentenza definitiva è titolo per la immediata trascrizione nei registri immobiliari.”
Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, che il Collegio ritiene di condividere:
- in tema di lottizzazione abusiva, la sanatoria per condono edilizio delle costruzioni abusive eseguite non è incompatibile con il provvedimento di confisca delle aree lottizzate, esplicando influenza a tali effetti solo l'eventuale autorizzazione a lottizzare concessa in sanatoria. Invero, solo questa, pur non estinguendo il reato di lottizzazione abusiva, dimostra ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici e la volontà dell'amministrazione di rinunciare all’acquisizione delle aree al patrimonio indisponibile comunale;
- il rilascio della concessione in sanatoria per le opere edilizie realizzate sui singoli lotti non è incompatibile con la confisca del terreno lottizzato, poiché il titolo abilitante sopravvenuto legittima soltanto l'opera edilizia che ne costituisce l'oggetto, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione alle scelte generali di pianificazione urbanistica;
- la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue solo all'adozione di un provvedimento esplicito da parte della competente Autorità amministrativa autorizzatorio della lottizzazione
(cfr., in termini, da ultimo, Cass. pen. 29/10/2015, n. 43591).
Nel caso di specie risulta che il Comune ha concesso la sanatoria per le opere abusive, ma non per la lottizzazione.
Segue da ciò che l’Amministrazione ha operato legittimamente in base al disposto di cui all’art. 19 l. n. 47/1985 che lo vincolava ad acquisire al proprio patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, ancorché oggetto di sanatoria.
Il ricorso va quindi rigettato.

febbraio 2016

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione da parte del ricorrente della domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in funzione della repressione dell'abuso edilizio.
Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta.
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Il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di quel procedimento.
Tale semplice considerazione induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria.
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
   1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
   2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
   3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa;
   4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il procedimento non è definito, ma una volta negata la sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.

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... per l'annullamento, previa sospensione cautelare, dell’ordinanza n. 2 del 27.11.2014 (prot. n. 3864), notificata in data 18.12.2014, con la quale il Comune di Busso ha ordinato al ricorrente la demolizione di un manufatto realizzato nella parte retrostante il fabbricato di civile abitazione, contenente un serbatoio di acqua potabile avente struttura portante in muratura di mattoni e soprastante terrazzo.
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Il ricorso è improcedibile.
La presentazione da parte del ricorrente della domanda di rilascio del permesso in sanatoria comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti in funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n. 735; Tar Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Nel caso di specie, poi, il ricorrente ha prodotto il parere positivo espresso dalla Regione nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 167 d.lgs. n. 42/2004.
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale circostanza risulta viepiù vera nel caso di specie in cui la Regione e la Soprintendenza coinvolte nel procedimento di sanatoria hanno già espresso il loro assenso all’intervento, rendendo un’eventuale esecuzione dell’ordine di demolizione non più pienamente rispondente allo stesso interesse pubblico, quanto meno fino alla conclusione di quel procedimento.
Tale semplice considerazione, come di recente rilevato da questo Tribunale in un caso analogo (sentenza 20.11.2015, n. 441), induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: TAR Umbria Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni.
Né potrebbe sostenersi che una tale soluzione accorderebbe ai destinatari di un ordine di demolizione la possibilità di reiterare all’infinito le istanze di sanatoria per impedire l’esecuzione della demolizione, atteso che la pendenza della domanda di sanatoria inibisce la demolizione solo finché il procedimento non è definito, ma una volta negata la sanatoria nulla osta alla demolizione del manufatto.
In conclusione, il ricorso è da ritenersi improcedibile (TAR Molise, sentenza 26.02.2016 n. 105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe ragioni che militano per l’orientamento che depone per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
   1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
   2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
   3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa;
   4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni;
   5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile.

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... per l'annullamento dei seguenti atti: 1) l’ordinanza di demolizione di opere abusive prot. n. 2/2015, emessa dal Comune di Rocchetta al Volturno in data 08.01.2015, notificata al ricorrente in data 16.02.2015, con la quale è stata ordinata la demolizione delle dette opere a propria cura e spese; 2) ogni atto presupposto, connesso e conseguente;
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  III - La presentazione da parte del ricorrente della domanda di sanatoria edilizia comporta il venir meno dell'interesse alla decisione sul ricorso avverso l'ordinanza di demolizione e tutti gli atti intervenuti, in funzione della repressione dell'abuso edilizio. Ciò, tenuto conto della necessaria pronuncia del Comune su detta istanza, e considerato che, da un lato, il rilascio della sanatoria produce evidentemente l'improcedibilità del ricorso, dall'altro, uguale effetto si produce in caso di diniego di sanatoria, concentrandosi l'interesse nel contestare, con ricorso, l'eventuale provvedimento di diniego della sanatoria, nei termini e nei limiti in cui essa è stata richiesta (cfr.: Tar Campania Napoli III, 02.11.2015 n. 5083; Tar Campania Salerno I, 07.04.2015 n. 735; T.a.r. Liguria Genova II, 03.09.2014 n. 1334).
Ad ogni buon conto, il Comune non potrebbe non tener conto, nelle successive determinazioni, delle vicende conseguenti all’istanza di sanatoria edilizia, sicché sarebbe costretto, anche nell’eventualità di un diniego di sanatoria, a reiterare i provvedimenti sanzionatori, demolitori e ripristinatori.
Tale semplice considerazione induce a disattendere l’orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale, in materia di abusivismo edilizio, la presentazione dell'istanza ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) non costituirebbe fatto idoneo a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario, quindi, non determinerebbe, di per sé, l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'impugnazione originariamente proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma solo un arresto temporaneo dell'efficacia delle misure ripristinatorie, che dunque riacquisterebbero efficacia in caso di eventuale rigetto della sanatoria (cfr.: Cons. Stato VI, 14.03.2014 n. 1292).
La ragione che ha indotto la menzionata, peraltro autorevole, giurisprudenza a ritenere la sopravvivenza dell’interesse alla decisione del ricorso, anche dopo la presentazione della domanda di sanatoria edilizia è che, in caso di riesame negativo circa l'abusività dell'opera, conseguente all'istanza di sanatoria, si addiverrebbe alla formazione di un provvedimento di rigetto che non darebbe luogo ad alcuna modificazione sostanziale della preesistente realtà giuridica, quindi costituirebbe un mero atto confermativo del precedente provvedimento sanzionatorio.
Viceversa, le ragioni che militano per l’orientamento contrario, deponendo per l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza comunale demolitoria, a seguito dell’istanza di sanatoria edilizia, sono le seguenti:
1) il rigetto della sanatoria edilizia non è un atto meramente confermativo dell’ordinanza di demolizione del manufatto abusivo, avendo i due atti natura e qualità affatto dissimili (uno è un provvedimento autorizzatorio negativo, l’altro è un provvedimento sanzionatorio);
2) qualsiasi decisione assuma il Comune sull’istanza di sanatoria –ivi compreso il silenzio-rigetto– modifica strutturalmente l’interesse del ricorrente alla conservazione del bene della vita (nella specie, l’edificio o il manufatto di proprietà), producendo una nuova situazione di fatto, della quale il Comune non può non tener conto nelle sue ulteriori determinazioni;
3) il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (cfr.: Tar Umbria Perugia I, 04.09.2015 n. 362);
4) l’ordinanza demolitoria, comunque e sempre, precede e postula ulteriori provvedimenti di esecuzione della demolizione e di acquisizione al suolo comunale dell’area di sedime, sicché delle due l’una: in caso di diniego della sanatoria edilizia, i provvedimenti ulteriori possono essere adottati legittimamente e sono impugnabili solo per vizi propri; in caso di concessione del permesso di costruire in sanatoria, il Comune non potrà eseguire in alcun modo la demolizione, né applicare altre sanzioni;
5) appare ultronea ed eccessiva la preoccupazione del giudice amministrativo di evitare che la dichiarata improcedibilità del ricorso avverso l’ordinanza demolitoria inneschi una nuova sequenza di ricorsi avverso i provvedimenti demolitori successivi al diniego di sanatoria edilizia, con un paventato pericolo di abuso del processo; infatti, un ordine di demolizione fondato su un diniego di sanatoria edilizia divenuto incontestabile, sarebbe a sua volta un provvedimento incontestabile, almeno per i profili riferibili all’assenza del titolo edilizio, definitivamente accertata e non più ovviabile (TAR Molise, sentenza 26.02.2016 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti repressivi di abusi edilizi commessi per di più in area vincolata, attesa la loro natura di atto dovuto, si configurano come “espressioni di attività vincolata non condizionata a specifica motivazione che nella fattispecie è in re ipsa”.
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Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può non tenersi conto che l'intervento (abusivo) ricade in zona tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del Parco.
Infatti, secondo il principio "tempus regit actum", riguardante la successione delle leggi nel tempo, la legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della sua approvazione".
La corretta applicazione del principio tempus regit actum, comporta, quindi, che legittimamente l'amministrazione abbia tenuto conto delle modifiche normative intervenute sia successivamente al momento della realizzazione delle opere, sia durante l'iter procedimentale successivo all'istanza, non potendo, al contrario, considerare l'assetto 'cristallizzato' alla data cui risale l'intervento o a quello dell'atto che ha dato avvio all'iter procedimentale.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal sig. Ma.Pi. avverso ordinanza di demolizione di opere e manufatti abusivi e di ripristino dello stato dei luoghi adottate dal Direttore del Parco Regionale della Valle del Lambro - Istanza di sospensiva.
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Il Ministero riferente nella relazione istruttoria del 29.01.2015 richiamata in epigrafe respinge le censure avanzate dal ricorrente ritenendole infondate e sottolinea preliminarmente che il provvedimento sanzionatorio impugnato costituisce atto dovuto nell’esercizio del potere-dovere di repressione di un abuso edilizio realizzato in zona vincolata e che a norma dell’art. 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo n. 42/2004) in caso di violazione dello stesso codice il trasgressore è sempre obbligato al ripristino dello stato dei luoghi, come nel caso di specie, nel quale l’ordinanza del direttore del Parco regionale della Valle del Lambro è stata adottata proprio in applicazione di detta norma.
Lo stesso Dicastero ritiene poi non condivisibili le censure concernenti la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e di carenza motivazione dedotte nel gravame e a tal proposito richiama molteplici pronunce del Consiglio di Stato (ex multis Sezione VI sent. n. 1682 del 26.03.2013, Sez. IV sent. n. 734 del 17.02.2014) nonché il parere n. 3772/2933-2006 del 09.04.2008, con il quale questa Sezione ha avuto modo di affermare che gli atti repressivi di abusi edilizi commessi per di più in area vincolata, attesa la loro natura di atto dovuto, si configurano come “espressioni di attività vincolata non condizionata a specifica motivazione che nella fattispecie è in re ipsa”.
Soggiunge l’Amministrazione altresì testualmente quanto segue: “contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può non tenersi conto che l'intervento ricade in zona tutelata, anche se realizzato prima dell'istituzione del Parco. Infatti, secondo il principio "tempus regit actum", riguardante la successione delle leggi nel tempo, la legittimità dell'atto amministrativo e/o di un intervento va verificata con riferimento alla disciplina normativa vigente rispettivamente al momento della sua emanazione e/o della sua approvazione" (Cons. Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1900; 12.10.2011, n. 5515; sez. IV, 09.02.2012, n. 693).
''La corretta applicazione del principio tempus regit actum, comporta, quindi, che legittimamente l'amministrazione abbia tenuto conto delle modifiche normative intervenute sia successivamente al momento della realizzazione delle opere, sia durante l'iter procedimentale successivo all'istanza, non potendo, al contrario, considerare l'assetto 'cristallizzato' alla data cui risale l'intervento o a quello dell'atto che ha dato avvio all'iter procedimentale" (Cons. Stato, sez. II, 18.01.2012, n. 3708/2011) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche a voler prescindere dal rilievo che l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe, comunque, venir meno la necessità di acquisire preventivamente i titoli abilitativi normativamente richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l'ambito protetto”.
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L’art. 9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del D.P.R. 380/2001) stabilisce che per gli interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria”.
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La contestata ordinanza di demolizione costituisce atto necessario della procedura sanzionatoria, ossia un atto dovuto e rigidamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, e consequenziale all'accertata abusività della costruzione, motivo per cui non deve essere necessariamente preceduta dall'avviso dell'avvio del procedimento, e non esige una specifica e puntuale motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività dell'opera edilizia, e ciò anche senza considerare che l'atto impugnato è esaustivamente motivato, perché ha indicato tutti i presupposti di fatto su cui si fonda, oltre, sia pure genericamente, la normativa applicata.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da RI.Do., RI.Ma., RI.Ar., RI.Ma., per l’annullamento, previa sospensiva, dell’ordinanza del Comune di San Sebastiano al Vesuvio (NA) n. 39 del 01.06.2010, con cui è stata ingiunta ai ricorrenti, in qualità di proprietari del terreno, la demolizione delle opere abusive rilevate presso tale terreno, nonché (con ulteriore ricorso straordinario) del verbale di accertamento di ottemperanza all’ordinanza di demolizione impugnata, elevata dalla Polizia Municipale dello stesso Comune, prot. n. 1372 del 14.10.2010 .
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Analogamente, risulta priva di pregio la censura con la quale i ricorrenti hanno lamentato la circostanza che il manufatto in esame ricadrebbe in un'area già caratterizzata da molteplici insediamenti abitativi.
Infatti -anche a voler prescindere dal rilievo che l'eventuale elevata urbanizzazione dell'area non farebbe, comunque, venir meno la necessità di acquisire preventivamente i titoli abilitativi normativamente richiesti per procedere alla realizzazione dell'intervento edilizio de quo- la Sezione rileva che, in base ad una consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “la già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano giuridico; anzi, una situazione paesisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, … richiede per la legittimità dell'azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l'ambito protetto” (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2013, n. 2410).
Con riferimento alla asserita sproporzione della sanzione demolitoria (che, secondo i ricorrenti, rappresenterebbe un onere eccessivo rispetto alla possibilità di applicare una sanzione pecuniara), anche in tale direzione le censure degli interessati si palesano infondate, giacché “l’art. 9 Legge 28.02.1985 n. 47 (ndr. oggi art. 33 del D.P.R. 380/2001) stabilisce che per gli interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di concessione la sanzione pecuniaria va applicata solo se non sia possibile il ripristino dei luoghi; pertanto, legittimamente il sindaco ordina la demolizione di opere abusive anziché irrogare, per esse, una sanzione pecuniaria” (Consiglio di Stato, Sez. II, 01.06.1994, n. 541, vds. anche Sez. II, 17.04.2013 n. 2192/2011).
Non appare fondata, inoltre, l’asserita carenza motivazionale, atteso che la contestata ordinanza di demolizione costituisce atto necessario della procedura sanzionatoria, ossia un atto dovuto e rigidamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, e consequenziale all'accertata abusività della costruzione, motivo per cui non deve essere necessariamente preceduta dall'avviso dell'avvio del procedimento, e non esige una specifica e puntuale motivazione, bastando l'indicazione dell'abusività dell'opera edilizia (Cons. di Stato, Sez. VI, 24.09.2010, n. 7129), e ciò anche senza considerare che l'atto impugnato è esaustivamente motivato, perché ha indicato tutti i presupposti di fatto su cui si fonda, oltre, sia pure genericamente, la normativa applicata (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 25.02.2016 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 37, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che “resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”, e da tale norma discende che, poiché la denuncia di inizio attività è utilizzabile solo per gli interventi che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione della demolizione.
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... per l'annullamento del provvedimento comunale 20.07.2006 n. 16/06 di rimozione di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire e rimessa in pristino dello stato dei luoghi, nonché di ogni altro atto presupposto o conseguente, in particolare del diniego di autorizzazione delle opere eseguite in variante di cui al permesso di costruire prot. n. 7110 notificato il 13/07/2006.
...
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto.
Nel caso all’esame con deliberazione consiliare n. 2 del 21.02.2005, è stato introdotto l’art. 4.32 delle norme tecniche di attuazione che ha disciplinato le dimensioni, l’altezza e le modalità costruttive delle strutture pompeiane, prescrivendo la necessità del mantenimento della struttura orizzontale e non inclinata delle travi superiori.
La struttura realizzata in difformità di quanto assentito non è piana ed ha altezze superiori rispetto a quelle ammesse dallo strumento urbanistico.
Pertanto anche a voler qualificare la medesima come pertinenziale, nondimeno deve trovare applicazione la sanzione della demolizione, in quanto l’art. 37, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che “resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”, e da tale norma discende che, poiché la denuncia di inizio attività è utilizzabile solo per gli interventi che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione della demolizione (ex pluribus cfr. Tar Veneto, Sez. II, 14.03.2012, n. 371).
Parimenti priva di fondamento è la censura di violazione dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, di cui al secondo motivo, in quanto il diniego di sanatoria dà conto nella motivazione delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate, quando afferma che l’art. 22, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 241, contrariamente a quanto preteso dai ricorrenti, presuppone necessariamente la conformità agli strumenti urbanistici.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.02.2016 n. 211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce ius receptum l'affermazione secondo cui non sussiste obbligo per l’amministrazione di provvedere alla comunicazione prevista dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, poiché il procedimento sanzionatorio non prevede la possibilità di valutazioni discrezionali ma si risolve in un mero accertamento tecnico sull’esistenza delle opere abusivamente realizzate.
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Non può aver rilievo la circostanza che le opere abusive in questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto [...] il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento del privato.
Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra jus.
Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo.
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conseguenza che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione non emana un atto «a distanza di tempo» dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente e non esercita alcuna discrezionalità.
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... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 5 del 04.06.2007.
...
Il ricorso, poiché infondato, deve essere rigettato.
Con il primo motivo parte ricorrente deduce l'omessa comunicazione di avvio del procedimento da parte dell'amministrazione comunale intimata.
La doglianza non è meritevole di pregio.
Costituisce ius receptum l'affermazione, condivisa dal Collegio, secondo cui non sussiste obbligo per l’amministrazione di provvedere alla comunicazione prevista dall’art. 7. l. 241 del 1990 in materia di irrogazione di sanzioni per abusi edilizi, poiché il procedimento sanzionatorio non prevede la possibilità di valutazioni discrezionali ma si risolve in un mero accertamento tecnico sull’esistenza delle opere abusivamente realizzate (cfr., tra le tante, da ultimo, C.G.A., SS.RR., n. 47 del 2016).
Nel caso di specie, peraltro, parte ricorrente non ha offerto elementi significativi in ragione dei quali poter ritenere che ove la pretesa partecipativa si fosse realizzata il provvedimento avrebbe potuto avere un diverso contenuto dispositivo.
Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la violazione del principio del legittimo affidamento asseritamente ingenerato dall'amministrazione sul rilievo che l'immobile, al momento dell'adozione del provvedimento, risultava (in tesi) costruito da oltre vent'anni, oltreché destinato a civile abitazione e sottoposto agli adempimenti fiscali e catastali previsti dalla legge.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio di dover aderire, in continuità con la giurisprudenza della Sezione, alla tesi secondo cui «non può aver rilievo la circostanza che le opere in questione sono state realizzate da parecchi anni, in quanto [...] il mero decorso del tempo non è di per sé idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento del privato. Il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia, infatti, può essere esercitato in ogni tempo, atteso che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione o di decadenza, riguardando una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra jus (cfr., tra le diverse C.G.A., SS.RR. n. 1225 del 2015 e giurisprudenza amministrativa ivi richiamata). Né i provvedimenti attraverso i quali l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica richiedono alcuna particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse che impongano di dar corso al ripristino dello stato dei luoghi ed a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, in quanto la repressione degli abusi edilizi si connota come un preciso obbligo dell'Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 29.11.2011, n. 1701; 29.01.2013, n. 1039/12)
».
Nel caso di specie, l'aver parte ricorrente destinato l'immobile, manifestamente abusivo, a civile abitazione ed averlo anche ritenuto sottoposto agli obblighi fiscali, non può spiegare effetti sulla legittimità dell'operato dell'Amministrazione, tenuta a reprimere una condotta che rimane contra legem.
D'altronde, in tema di abusi edilizi ed urbanistici si è in presenza di illeciti di carattere permanente, caratterizzati dall’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conseguenza che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo di demolizione non emana un atto «a distanza di tempo» dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.04.2010, n. 2160) e non esercita alcuna discrezionalità (cfr. C.G.A., Sezioni riunite, 26.05.2015, n. 608/14).
Da ultimo, la censura involgente la statuizione del provvedimento inerente alla futura acquisizione dell'immobile è del tutto generica e comunque infondata considerato che l'amministrazione si è limitata a richiamare la fonte attributiva del potere di acquisizione gratuita, subordinando la stessa alla notificazione dell'accertamento inottemperanza all'ingiunzione demolitoria.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 23.02.2016 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl comune che, nell'esercizio della propria attività istituzionale in materia edilizia, richiede alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio) le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità, è tenuto a rifondere alla stessa i relativi costi sostenuti di perizia.
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N
on può il Comune validamente sostenere che l’onerosità del servizio potrebbe recare un eventuale depotenziamento dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono all’opportunità politica delle scelte operate dal legislatore, potendosi validamente sostenere anche il contrario, ossia che la gratuità dei servizi in commento comporterebbero il depotenziamento delle agenzie fiscali.

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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, proposto dal COMUNE DI SANT’OLCESE, in persona del Sindaco pro-tempore Sig. An.Ca., per l'annullamento delle note prot. n. 14343/2013/1991/2013 del 19/02/2013; prot. n. 2850.13 del 11/03/2013; prot. n. 2850/13/3842 del 03/04/2013; prot. n. 3842/13/6872 del 13/06/2013; prot. n. 2407/2013/2652-13; prot. n. 2924/2013/3009; prot. n. 3841; prot. n. 5832/13/6890; e di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale, compresa in parte qua, della Convenzione triennale per gli esercizi 2012-2014 sottoscritta il 30.07.2012 tra l'Agenzia delle Entrate ed il Ministero dell'Economia e delle Finanze.
...
Premesso:
Il Comune di Sant’Olcese, nell'esercizio della propria attività istituzionale in materia edilizia, richiede ordinariamente alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater del D.L. 06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di conversione 07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con note di analogo contenuto, l’Ufficio Provinciale della predetta Agenzia dava riscontro a diverse richieste (riferite a distinti interventi edilizi), richiamando il disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art. 64, comma 3-bis (comma aggiunto dall'art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), ai sensi del quale "…l'Agenzia del territorio è competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel considerare tale attività istruttoria una funzione istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013, comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad espletare le attività valutative richieste, nelle more del perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le direttive in materia, emanate dalla competente Direzione Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe, insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio gravame ai seguenti motivi di diritto:
   1. violazione e/o falsa applicazione del disposto dell'art. 64, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 300 del 1999; violazione dell'art. 23 della Costituzione; violazione del principio di riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia, tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni edilizie o procedimenti di accertamento di conformità, rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n. 380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss. della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni, come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del 03.05.2011.
Il disposto di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferito alle sole attività ulteriori rispetto a quelle, istituzionali, già previste da anteriori disposizioni normative… Diversamente, da un punto di vista logico-sistematico la disposizione in questione risulterebbe del tutto inutile. In secondo luogo, la previsione di legge in esame non predetermina alcun criterio, né alcun limite o controllo, idonei a circoscrivere l'ambito di discrezionalità dell’Amministrazione statale nel commisurare l'importo asseritamente dovuto e, ancor prima, la sfera di applicazione della ritenuta onerosità delle prestazioni in materia di valutazioni immobiliari. Ed anzi, la stessa entità degli oneri ..., fissata in virtù di una semplice convenzione tra Ministero dell’Economia e Agenzia del Territorio, costituisce implicita dimostrazione dell’assoluta discrezionalità -al limite dell’arbitrio- in base alla quale l'imposizione in esame potrebbe essere determinata".
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio della "riserva di legge".
   2. violazione dell'art. 97 della Costituzione; violazione del principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa; eccesso di potere; contraddittorietà; manifesta esosità; assenza di causa.
Le pretese avanzate dall’Agenzia delle Entrate contrasterebbero con il principio di ragionevolezza, poiché subordinano il rilascio di atti concernenti attività istituzionali al previo pagamento di “indebite somme di denaro”. Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del TAR Liguria (sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004), con la quale i giudici amministrativi si sono espressi in materia di provvedimenti tariffari in relazione a prestazioni rese dalla ASL nell'ambito di procedimenti di competenza del Comune, resi nell'interesse di singoli o della collettività.
Lamenta, inoltre, la "manifesta esosità" delle pretese economiche, affermando come, "nonostante la loro qualificazione in termini di mero rimborso-costi, la consistenza degli importi richiesti da parte dell’Agenzia -oltre 400 euro al giorno per persona- è tale da comportare che detti emolumenti debbano necessariamente intendersi come vere e proprie retribuzioni (per quanto eccessivamente sproporzionate) dell'attività svolta".
   3. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all'art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 300 del 1999.
Il comportamento dell’Agenzia non sarebbe in linea con la menzionata disposizione, ove si fa riferimento alle Agenzie quali strutture che svolgono attività di interesse nazionale, al servizio delle Amministrazioni pubbliche.
   4. Violazione delle disposizioni in materia di vigilanza urbanistica e di controllo dell'abusivismo edilizio.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente lamenta il fatto che sottoporre "ad oneri particolarmente gravosi per le Amministrazioni comunali l'attività di irrogazione delle sanzioni in materia di abusivismo edilizio ha come riflesso immediato il depotenziamento - e lo svilimento - dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali".
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art. 64 del D.Lgs. n.300/1999) avrebbe una portata più ampia di quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle sole attività "non rientranti nella normale attività istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più generale intervento, che ha eliminato la possibilità per l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale", facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per il carattere di generalità con il quale ha inteso regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere generale ed istituzionale della nuova previsione normativa non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione del principio di specialità. Pertanto, continua il Ministero, laddove previgenti norme espressamente dispongano che le valutazioni estimative dell'Agenzia vengono svolte gratuitamente, queste continueranno a dispiegare i propri effetti (come accade, ad esempio, per le attività in favore del concessionario della riscossione in relazione ai beni oggetto di incanto). Con riferimento all'ipotesi di cui trattasi, invece, non si rinvengono pregresse previsioni normative, che espressamente prevedano la gratuità del servizio.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene osservato come il principio di riserva di legge, di cui all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve contenere criteri e indicazioni per la determinazione dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il Ministero richiama i provvedimenti che hanno condotto all’individuazione, in seno alla predetta Convezione, dei criteri di determinazione dei costi da chiedere a rimborso. Precisa, in merito, che la quantificazione dei costi è effettuata sulla base di due fattori: il “costo standard per giorno-uomo” e il numero di “giorni-uomo” necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende dal grado di complessità della valutazione e, per questo, stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro 423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale, considerando le voci di costo che ragionevolmente sono necessarie per garantire lo svolgimento "normale" dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì, spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato costo standard.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il Ministero giudica generica ed apodittica la doglianza relativa alla presunta inosservanza del citato articolo 8. Inoltre, rammenta come, nel sistema di riforma delineato dal D.Lgs. n. 300/1999, alle agenzie fiscali è stata riservata una disciplina specifica, nell’ambito della quale l’art. 10 dello stesso decreto legislativo prevede che "le agenzie fiscali sono disciplinate, anche in deroga agli articoli 8 e 9, dalle disposizioni del Capo II del Titolo V del presente decreto ...".
Infine, in ordine all’ultima censura, viene rilevato “come l'attività di controllo e di vigilanza demandata dall'ordinamento non possa subire depotenziamenti o svilimenti a causa delle modalità fissate dal medesimo ordinamento per giungere alla repressione degli illeciti ed alla correlata irrogazione delle sanzioni”.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente tenta di delimitare l’alveo di applicazione del comma 3-bis dell’art. 64, D.Lgs. n. 300/19999, ai soli corrispettivi dovuti per l'erogazione di servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli, escludendo quelli connessi alle attività istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su cui si controverte, concernenti la valutazione immobiliare e tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis, è quello di limitare l'onerosità degli interventi dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente orientata della stessa, nel rispetto del principio della riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a quantificare la misura della prestazione patrimoniale imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità dell'importo dovuto. Il citato comma 3-bis, invece, non predeterminerebbe alcun criterio, lasciando al potere discrezionale dell’Amministrazione la possibilità di determinare unilateralmente il livello di imposizione, il cui concreto esercizio, sempre secondo il ragionamento della parte ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto sì che fosse impossibile commisurare la prestazione pecuniaria alla quantità e qualità del servizio reso dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione costituzionalmente orientata della norma in commento, offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare,
non è in dubbio che le prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate (ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione. Trattasi di prestazioni che (analogamente alle tariffe richieste da talune Amministrazioni per le attività di consulenza e supporto tecnico nei confronti dei privati e degli enti locali – vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui adozione non concorre la volontà della controparte, la quale si limita ad avvalersi di un servizio normativamente riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria", quando questa è istituita da un atto di autorità (sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia concorso (sent. 27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto alle fattispecie originariamente determinate, allorché vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia correlata ad un atto privato.
Quando si tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica" e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni della vita", la determinazione delle tariffe deve assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario della prestazione viene ad identificare come obbligatorie anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di monopolio.
Sicché,
quel che viene in considerazione sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto (sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", è necessario verificare se tale parametro rispetti il principio della riserva relativa di legge, la quale non esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita "in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994, e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie,
dalla citata norma emergono, non solo l'espressa compiuta identificazione dei soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e controlli sufficienti a impedire che il potere di imposizione sconfini nell'arbitrio. È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata Convenzione ministeriale, che si è occupata della determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche il secondo ordine di censure, non essendo richiesto all’ente impositore una particolare motivazione in ordine alla quantificazione dell’importo a rimborso, essendo sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che siano stati compiutamente indicati i costi, che direttamente o indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle attività richieste.
Peraltro, l’importo a rimborso, nella fase transitoria, ossia in attesa della stipula dei menzionati accordi, non può essere giudicato irragionevolmente oneroso, dal momento che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici territoriali una soglia massima commisurata al 50% della sanzione.
Assolutamente infondate appaiono il terzo e quarto motivo di diritto.
In particolare, l'art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 300/1999, ritenuto essere stato asseritamente violato, può, invero, essere derogato per espressa previsione dell’art. 10, ove è specificato che “le agenzie fiscali sono disciplinate, anche in deroga agli articoli 8 e 9, dalle disposizioni del Capo II del Titolo V del presente decreto legislativo ed alla loro istituzione si provvede secondo le modalità e nei termini ivi previsti”.
Con riferimento all’ultimo motivo di diritto,
non può il Comune validamente sostenere che l’onerosità del servizio potrebbe recare un eventuale depotenziamento dell'attività di controllo e vigilanza degli Enti locali.
Si tratta, infatti, di considerazioni che attengono all’opportunità politica delle scelte operate dal legislatore,
potendosi validamente sostenere anche il contrario, ossia che la gratuità dei servizi in commento comporterebbero il depotenziamento delle agenzie fiscali.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 03.02.2016 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe spese conseguenti alle richieste comunali alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio) circa le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità, sono in capo all'Amministrazione comunale stessa.
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Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato la quale non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo chiaramente finalizzata al ristoro degli oneri sopportati dall’Agenzia.
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, integrato da motivi aggiunti, proposto dal COMUNE DI GENOVA, in persona del Sindaco Prof. Ma.Do., per l'annullamento, quanto al ricorso principale:
1. delle note dell'Ufficio Provinciale di Genova dell’Agenzia delle Entrate, in materia di valutazioni immobiliari effettuate dalla citata Agenzia nel contesto delle "attività sanzionatorie" esercitate dal Comune di Genova in materia di abusi edilizi (in particolare, delle note prot. n. 1437/13/1837-13 del 15/02/2013; prot. n. 1440/13/1835-13 del 15/02/2013; prot. n. 1442/13/1825/2013 del 15/02/2013; prot. n. 1474/13/1916/2013 del 18/02/2013; prot. n. 2205/13/2826 del 02/04/2013; prot. n. 1474/3915 del 03/04/2013; prot. n. 3825/13/5942 del 24/5/2013; prot. n. 3823/13/5943 del 24/05/2013);
2. degli atti connessi e, in particolare, per l'annullamento in parte qua della "Convenzione Triennale per gli Esercizi 2012/2014", stipulata tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia del Territorio;
quanto ai relativi motivi aggiunti:
3. delle "note di addebito" notificate dall'Agenzia delle entrate, Direzione Centrale Amministrazione, Pianificazione e Controllo (in particolare, delle note prot. n. 24249 del 18/06/2013; prot. n. 26484 e n. 26487 del 04/07/2013; prot. n. 32196 del 05/09/2013; prot. n. 33322, n. 33304, n. 33320 e n. 33305 del 18/09/2013);
4. delle ulteriori comunicazioni dell'Agenzia delle entrate, Ufficio Provinciale di Genova, Settore Gestione Banche Dati e Servizi (in particolare, delle note prot. n. 4461/13/7783 del 05/07/2013; prot. n. 3877/13/7799 e n. 7209/13/7789 del 08/07/2013; prot. n. 8391/13/8615 del 30/07/2013; prot. n. 8575/13/8796 del 02/08/2013; prot. n. 5945/2013/9440 del 26/08/2013; prot. n. 6395/13/9394 e n. 7211/2013/9444 del 26/08/2013; prot. n. 74749/13/9966 del 12/09/2013; prot. n. 7724/10393 del 25/09/2013; prot. n. 8389/13/10505, n. 8390/13/10493 e n. 10097/13/10511 del 27/09/2013; prot. n. 6439/13/10729 del 02/10/2013; prot. n. 8387/13/10751 del 03/10/2013; prot. n. 8034/2013/10828 del 04/10/2013; prot. n. 10727/13/11091, n. 10580/2013/11104 e n. 9742/2013/11101 del 10/10/2013).
...
Premesso:
Il Comune di Genova, nell'esercizio della propria attività istituzionale in materia edilizia, richiede ordinariamente alla competente Agenzia delle Entrate (quale incorporante dell'Agenzia del Territorio, ex art. 23-quater del D.L. 06.07.2012, n. 95, inserito dalla Legge di conversione 07.08.2012, n. 135) le valutazioni degli incrementi del valore venale degli immobili, al fine di poter procedere alla liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero l'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Tale procedura è contemplata dagli artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380, nonché dagli artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16.
Con una serie di note di analogo contenuto, l’Ufficio Provinciale della predetta Agenzia dava riscontro a diverse richieste (riferite a distinti interventi edilizi), richiamando il disposto del D.Lgs. 30.07.1999, n. 300, art. 64, comma 3-bis (comma aggiunto dall'art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), ai sensi del quale "…l'Agenzia del territorio è competente a svolgere le attività di valutazione immobiliare e tecnico-estimative richieste dalle Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e dagli enti ad esse strumentali. Le predette attività sono disciplinate mediante accordi, secondo quanto previsto dall'articolo 15 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni. Tali accordi prevedono il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia, la cui determinazione è stabilita nella Convenzione di cui all'articolo 59" (Convenzione triennale tra il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia).
Il suddetto Ufficio Provinciale comunicava, pertanto, la necessità di procedere alla preliminare stipula di specifici accordi (“protocolli d’intesa”) per il rimborso dei costi sostenuti. A tali riscontri, il Comune di Genova, nel considerare tale attività istruttoria una funzione istituzionale obbligatoria, rappresentava all'Agenzia che un simile comportamento ostruzionistico avrebbe potuto arrecare gravi responsabilità per l'Ente locale.
Il menzionato Ufficio, con nota in data 02.04.2013, comunicava al Comune che avrebbe, comunque, proceduto ad espletare le attività valutative richieste, nelle more del perfezionamento dell'accordo, ma sempre dietro corresponsione di un rimborso dei costi, nel limite massimo del 50% della sanzione. Tale comunicazione richiamava le direttive in materia, emanate dalla competente Direzione Centrale Osservatorio Mercato Immobiliare e Servizi Estimativi dell’Agenzia delle Entrate.
Con successive note l'Agenzia ribadiva la propria posizione per altre singole pratiche.
Contro i citati atti, come meglio individuati in epigrafe, insorge il Comune di Genova, il quale affida il proprio gravame ai seguenti motivi di diritto:
   1. violazione o falsa applicazione art. 23 della Costituzione; violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. 30/07/1999, n. 300.
Il Comune ritiene che l’attività esercitata dall'Agenzia, tesa a fornire aggiornate valutazioni immobiliari ai fini dell'applicazione delle sanzioni pecuniarie per violazioni edilizie o procedimenti di accertamento di conformità, rientri nell’ambito delle funzioni istituzionali attribuitele dalla legge (artt. 33 e ss. del D.P.R n. 380/2001 e corrispondenti norme regionali, artt. 43 e ss. della Legge Regione Liguria n. 16 del 2008). Da tale evidenza discenderebbe il carattere gratuito delle prestazioni dovute in forza delle richiamate disposizioni, come confermato, a suo tempo, dalla stessa Direzione Centrale dell'Agenzia con nota prot. n. 27110 del 03.05.2011.
La previsione di cui al citato comma 3-bis dell'art. 64 del D.Lgs. n. 300/1999, deve, pertanto, "intendersi riferita alle sole attività ulteriori rispetto a quelle già previste da precedenti norme di legge e, quindi, non rientranti nella normale attività istituzionale dell'Agenzia. Ciò per almeno due ordini di ragioni:
- una prima ragione è di ordine logico-sistematico giacché, in caso contrario, il citato art. 3-bis [rectius comma 3-bis], nella parte in cui attribuisce la competenza alle valutazioni immobiliari e tecnico-estimative, sarebbe stato introdotto nell'art. 64 D.Lgs. n. 300/1999 del tutto inutilmente, trattandosi di previsioni già contemplate da precedenti norme di legge;
- la seconda ragione deve essere invece individuata nella necessità di fornire un’interpretazione dell'art. 64, comma 3-bis, che sia conforme a Costituzione.
A tale ultimo proposito, il Comune rammenta come le norme di legge, che contemplano l’imposizione di prestazioni patrimoniali, al fine di soddisfare il principio della riserva di legge ex art. 23 Costituzione, devono contenere un minimo di elementi necessari alla determinazione delle prestazioni. La norma in commento, invece, non predetermina alcun criterio, costituendo “implicita dimostrazione dell'assoluta discrezionalità con la quale l'imposizione in esame può essere determinata”.
Un'interpretazione costituzionalmente orientata della suddetta previsione legislativa, dunque, determinerebbe la necessità di limitarne l’applicazione alle sole ipotesi in cui l’attività dell'Agenzia non sia resa in attuazione di attività istituzionali, ma riguardi attività ulteriori, come l'erogazione di specifici servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli. Solo per queste ultime ipotesi, secondo il ricorrente, non opererebbe il principio della "riserva di legge".
Nell’ipotesi in cui non si ritenesse corretta l'interpretazione del sopra citato comma 3-bis dell'art. 64 D.Lgs. n. 300/1999, viene chiesto di sollevare preliminare questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale della suddetta norma, per la prospettata violazione dell'art. 23 della Costituzione e del principio della riserva relativa di legge.
   2. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo; violazione del principio di ragionevolezza, violazione art. 3 della Costituzione.
Il Comune ricorrente richiama una pronuncia del TAR Liguria (sentenza della Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004), con la quale i giudici amministrativi si sono espressi in materia di provvedimenti tariffari in relazione a prestazioni rese dalla ASL nell'ambito di procedimenti di competenza del Comune, resi nell'interesse di singoli o della collettività.
In particolare, viene richiamato il principio, espresso in tale pronuncia, secondo il quale le prestazioni rese dall'ente pubblico nell'interesse di un privato devono far carico al privato istante, in quanto beneficiario dell'attività. Il Comune sostiene che "quand'anche il pagamento debba intendersi dovuto, non si vede la ragione per cui non si debba fare applicazione del principio individuato dalla richiamata sentenza: l'eventuale costo della prestazione ... dovrebbe al più far carico unicamente allo stesso privato ... in quanto beneficiario dell'attività, mentre appare del tutto ingiustificato porre l'onere in questione in capo al Comune".
Inoltre, secondo l'ente locale, "sia nell’ipotesi in cui l'onere venisse posto in capo al Comune sia allorché venisse posto in capo al privato, la sanzione pecuniaria predeterminata per legge verrebbe comunque irragionevolmente modificata dall'obbligo di pagare un’ulteriore somma … non determinata per legge ma lasciata all'arbitrio dell'Amministrazione finanziaria”.
Anche in questo caso viene chiesto di sollevare preliminare questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale della citata norma, per la prospettata violazione:
- del principio di ragionevolezza e dell'art. 3 della Costituzione (laddove dalla sua interpretazione se ne dovesse ricavare come facente capo al Comune e non al privato l’onere di rifondere l’Agenzia dei costi sostenuti per l’attività in esame);
- dell’art. 23 della Costituzione e del correlato principio di determinatezza della sanzione.
   3. Violazione o falsa applicazione dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999 sotto ulteriore profilo.
Gli atti gravati violerebbero tale norma, poiché l'Agenzia ha chiesto il rimborso dei costi anche in assenza della stipula dell'accordo, che, invero, e a norma di legge, dovrebbe costituire il presupposto per esercitare la citata pretesa economica.
   4. Irragionevolezza e contraddittorietà intrinseca dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999; violazione dell'art. 3 della Costituzione; violazione del principio di leale collaborazione tra Enti pubblici; violazione art. 118 della Costituzione; illegittimità parziale della Convenzione triennale per gli esercizi 2012-2014 stipulata.
Con tale motivo di impugnazione il Comune ricorrente censura, in primo luogo, la contraddittorietà della norma, che, da una parte, stabilisce che l'attività svolta dall'Agenzia in favore dei Comuni debba essere regolata mediante accordi da stipulare con le singole Amministrazioni locali e, dall'altro, rimanda, per la determinazione dei costi, alla stipula di una Convenzione tra Agenzia e Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Il sistema delineato costituirebbe, inoltre, una violazione del principio di leale collaborazione tra enti, come ricavabile dall’art. 118 della Costituzione, poiché determina un’immotivata riduzione delle risorse attribuite ai Comuni per lo svolgimento delle attività di vigilanza in materia edilizia.
Si duole, poi, del fatto che la "determinazione dei costi contenuti nella Convenzione Triennale stipulata tra M.E.F. ed Agenzia ... è priva di qualsiasi motivazione e di qualsiasi collegamento a qualsiasi dato oggettivo certo. Si tratta invero della determinazione di un importo che appare elevato e sproporzionato e che sembra andare bel oltre la semplice individuazione dei costi sostenuti, rappresentando piuttosto un vero prezzo che l'Amministrazione Finanziaria pretende, così come potrebbe pretendere un qualsiasi operatore privato, trasformando di fatto l’attività svolta in una vera e propria attività commerciale, avente un effetto lucrativo ...".
In merito, il Comune conclude evidenziando che, se potesse rivolgersi al mercato per una simile attività, otterrebbe prezzi più vantaggiosi, considerando l’onerosità dei parametri individuati in sede di Convenzione M.E.F.- Agenzia, laddove è previsto che il "costo standard per giorno-uomo" è pari a 423,00 euro (da moltiplicare per i ''giorni-uomo di prodotto richiesto").
Il Ministero ritiene il ricorso infondato nel merito.
Ritiene, in particolare, che l'intervento legislativo di cui al D.L. n. 16/2012 (che ha aggiunto il comma 3-bis all’art. 64 del D.Lgs. n. 300/1999) avrebbe una portata più ampia di quella ritenuta dal ricorrente, il quale circoscrive l'ambito di applicazione del menzionato comma 3-bis alle sole attività "non rientranti nella normale attività istituzionale dell'Agenzia". In realtà, la descritta modifica normativa si inserisce nell’ambito di un più generale intervento, che ha eliminato la possibilità per l'Agenzia di effettuare attività estimative di natura "commerciale", facendo salve le sole attività di valutazione immobiliare a favore delle Amministrazioni dello Stato.
In tal senso, la normativa sopravvenuta si caratterizza per il carattere di generalità con il quale ha inteso regolamentare il settore, disciplinando in maniera uniforme la materia oggetto di intervento, tanto che le nuove competenze dell’Agenzia sono rivolte a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Nello stesso tempo, proprio il carattere generale ed istituzionale della nuova previsione normativa non esclude che, nel rapporto tra diverse norme succedutesi nel tempo, possano essere considerate ancora in vigore quelle che contemplino previsioni più specifiche, in ragione del principio di specialità.
Pertanto, continua il Ministero, laddove previgenti norme espressamente dispongano che le valutazioni estimative dell'Agenzia vengono svolte gratuitamente, queste continueranno a dispiegare i propri effetti (come accade, ad esempio, per le attività in favore del concessionario della riscossione in relazione ai beni oggetto di incanto). Con riferimento all'ipotesi di cui trattasi, invece, non si rinvengono pregresse previsioni normative, che espressamente prevedano la gratuità del servizio.
In tale ottica, privo di pregio sarebbe il richiamo della nota prot. n. 27110 del 03.05.2011, che faceva riferimento alla gratuità delle prestazioni valutative eseguite nell'ambito degli abusi edilizi, giacché la stessa era stata emanata in epoca precedente rispetto alla novella operata dal D.L. n. 16/2012.
Per quanto concerne gli asseriti profili di non conformità della nuova normativa con i dettami costituzionali, viene osservato come il principio di riserva di legge, di cui all'art. 23 Costituzione, secondo cui la norma deve contenere criteri e indicazioni per la determinazione dell'imposizione, sarebbe rispettato, prevedendo che sia la convenzione triennale con il M.E.F. a determinare il rimborso dei costi. Peraltro, viene rammentato che l'impugnata Convenzione ministeriale ha passato il vaglio della Corte dei Conti, venendo regolarmente registrata in data 19.09.2012.
Con riferimento al secondo ordine di censure, il Ministero giudica inconferente il richiamo alla citata sentenza del TAR Liguria, poiché quest’ultima fa riferimento ad attività effettuate su istanza di un privato. La questione in esame, invece, prescinderebbe da istanze del privato.
Né sarebbe corretta l'osservazione del Comune, secondo cui "la sanzione pecuniaria predeterminata per legge verrebbe modificata”, in quanto la somma da versare per l'espletamento dell'attività valutativa non ha rilevanza sanzionatoria, rivestendo la funzione di ristorare l'Amministrazione finanziaria dei costi sostenuti.
Avuto riguardo al terzo motivo di diritto, il Ministero puntualizza che gli accordi, cui fa riferimento il più volte citato comma 3-bis, sono funzionali alla regolamentazione delle attività da svolgere e non alla determinazione dei costi da rimborsare all'Agenzia, che è, invece, rimessa (dalla medesima disposizione) alla Convenzione M.E.F. – Agenzia. Per questo motivo, nella corrispondenza intercorsa con l'ente locale, l’Agenzia avrebbe legittimamente preteso il rimborso dei costi, pur in assenza dell'accordo con l’ente locale.
Per quanto riguarda, infine, il quarto ordine di doglianze, il Ministero richiama i provvedimenti che hanno condotto all’individuazione, in seno alla predetta Convezione, dei criteri di determinazione dei costi da chiedere a rimborso. Precisa, in merito, che la quantificazione dei costi è effettuata sulla base di due fattori: il “costo standard per giorno-uomo” e il numero di “giorni-uomo” necessari per la prestazione.
In ordine a quest'ultimo fattore, la determinazione dipende dal grado di complessità della valutazione ed per questo stabilita da ogni singolo Ufficio.
Il “costo standard per giorni-uomo” (fissato in euro 423,00) è stato, invece, determinato in sede convenzionale, considerando le voci di costo che ragionevolmente sono necessarie per garantire lo svolgimento "normale" dell'attività. E’ stato, in particolare, valutato l’apporto sia delle risorse umane, sia di quelle materiali e immateriali (che il Ministero indica compiutamente nella propria relazione), anche di quelle che incidono in maniera indiretta, in ogni caso in ragione dell'inerenza di tali voci alla produzione del servizio. Vengono, altresì, spiegati i motivi per i quali è stata esclusa una serie di ulteriori costi (di natura generale) che avrebbe ragionevolmente fatto lievitare l’importo riferito al citato costo standard.
Con nota prot. n. 37495 in data 29.10.2013 il Comune di Genova ha trasmesso all’Agenzia delle Entrate ricorso per motivi aggiunti avverso gli atti, in epigrafe indicati, concernenti note di addebito dell’Agenzia e comunicazioni, sopraggiunte in data successiva alla proposizione del ricorso. Con tale atto l’ente locale non introduce elementi sostanziali di novità rispetto al ricorso straordinario principale. L’Ufficio finanziario ha provveduto a trasmettere a questo Consiglio di Stato i menzionati motivi aggiunti, rimettendosi alle eccezioni già formulate nella relazione con la quale è stato chiesto il parere a questo Consiglio di Stato.
Con nota prot. n. 257224 in data 11.08.2015 il Comune di Genova ha inviato a questo Consiglio di Stato (e per conoscenza all'Agenzia delle Entrate e al Ministero dell'Economia e delle Finanze) le proprie repliche alla relazione ministeriale, alle quali non sono seguite osservazioni da parte del Ministero riferente.
In esse, con riferimento al primo motivo di diritto, viene evidenziato come non risulti contestato dalla richiamata relazione la natura di prestazione patrimoniale "imposta" (soggetta a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione) delle prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate, in costanza del fatto che le stesse sono somme richieste in ragione di attività istituzionale obbligatoria. Tali, importi, pertanto, sarebbero stati ingiunti in violazione del sopra richiamato principio costituzionale, in costanza di una norma di legge (art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999) che non predetermina alcun criterio, né alcun limite in ordine alla discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità dell'importo dovuto. Del tutto inconferenti, inoltre, sarebbero le argomentazioni del Ministero concernenti la successione delle leggi nel tempo, rispetto al dedotto vizio di violazione dell'art. 23 della Costituzione.
In merito alle eccezioni ministeriali relative al secondo motivo di diritto (riguardante l’attinenza al caso di specie della citata sentenza del Tar Liguria), sottolinea, fra l’altro, come il procedimento di "sanatoria" richieda necessariamente l'istanza del privato. Simili considerazioni vengono effettuate anche per quanto concerne i procedimenti sanzionatori, avviati in seguito ad attività illecite di singoli privati.
Nel ribadire quanto, nella sostanza, già dedotto nel ricorso principale, con riferimento al terzo motivo di diritto, evidenzia, in ordine al quarto motivo di doglianza, che il Ministero ha omesso di contestarne il merito, peraltro, introducendo ex post un apparato motivazionale teso a dimostrare le modalità di determinazione della tariffa applicata.
Considerato:
Il ricorso è infondato.
L’ente locale ricorrente, con articolate argomentazioni, tenta di delimitare l’alveo di applicazione del comma 3-bis dell’art. 64, D.Lgs. n. 300/1999, ai soli corrispettivi dovuti per l'erogazione di servizi resi non nell'interesse della collettività ma di singoli, escludendo quelli connessi alle attività istituzionali dell'Agenzia, comprese quelle su cui si controverte, concernenti la valutazione immobiliare e tecnico-estimativa, ex artt. 33 e ss. del D.P.R 06.06.2001, n. 380 e artt. 43 e ss. della L.R. Liguria 06.06.2008, n. 16, necessaria ai fini della liquidazione delle sanzioni pecuniarie previste per gli abusi edilizi, ovvero dell'oblazione dovuta nell'ambito di procedimenti per l'accertamento di conformità.
Il fine dell’esclusione di queste tipologie di attività dalla novella legislativa di cui all’art. 6 del D.L. 02.03.2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla Legge 26.04.2012, n. 44), che ha introdotto il citato comma 3-bis, è quello di limitare l'onerosità degli interventi dell'Agenzia alle sole ipotesi in cui l’attività sia eseguita a favore di terzi privati, con il conseguente trattamento gratuito delle richieste pervenute dalle altre Amministrazioni dello Stato, trattandosi, in questo caso, di attività resa in attuazione di obblighi istituzionali, che imporrebbero il venir meno del presupposto impositivo.
A sostegno dell’impostazione ermeneutica formulata dal ricorrente, quest’ultimo rammenta che, prima dell’intervento normativo in parola, la stessa Agenzia aveva fornito indicazione in tal senso nella citata nota prot. n. 27110 del 03.05.2011.
La necessità di circoscrivere l’ambito di applicazione della citata norma deriverebbe da una lettura costituzionalmente orientata della stessa, nel rispetto del principio della riserva di legge ex art. 23 Costituzione, la cui osservanza richiede, ad avviso del ricorrente, che siano almeno predeterminati, in via legislativa, criteri idonei a quantificare la misura della prestazione patrimoniale imposta e a delimitare l'ambito della discrezionalità dell'Amministrazione statale nel determinare l'entità dell'importo dovuto.
Il citato comma 3-bis, invece, non predeterminerebbe alcun criterio, lasciando al potere discrezionale dell’Amministrazione la possibilità di determinare unilateralmente il livello di imposizione, il cui concreto esercizio, sempre secondo il ragionamento della parte ricorrente (vds. quarto motivo di diritto), ha fatto sì che fosse impossibile commisurare la prestazione pecuniaria alla quantità e qualità del servizio reso dall'Agenzia.
Il Collegio ritiene che la pretesa interpretazione costituzionalmente orientata della norma in commento, offerta dal ricorrente, e le connesse censure dedotte avverso gli atti impugnati appaiono manifestamente infondate, alla stregua di quanto già rilevato dalla stessa Corte Costituzionale in diverse pronunce.
In particolare,
non è in dubbio che le prestazioni economiche richieste dall'Agenzia delle Entrate (ex Agenzia del Territorio) possano annoverarsi nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte, soggette a riserva relativa di legge, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione.
Trattasi di prestazioni che (analogamente alle tariffe richieste da talune Amministrazioni per le attività di consulenza e supporto tecnico nei confronti dei privati e degli enti locali – vds. nel senso sia la sentenza del TAR Liguria, Sez. I, n. 1076 del 07/07/2004, citata dal ricorrente, sia la sentenza della Corte Costituzionale n. 180/1996, richiamata, a sua volta, nella pronuncia del TAR ligure) sono determinate con unilaterale atto autoritativo, alla cui adozione non concorre la volontà della controparte, la quale si limita ad avvalersi di un servizio normativamente riservato alla mano pubblica e a corrispondere, in contropartita, una predeterminata prestazione economica.
Come è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale,
la prestazione si qualifica come "obbligatoria" quando questa è istituita da un atto di autorità (sent. 08.07.1957, n. 122) a carico del soggetto tenuto, senza che la volontà di questo vi abbia concorso (sent. 27.06.1959, n. 36).
Con riferimento a tale elemento, è da rilevare, nella giurisprudenza della Corte, un processo estensivo rispetto alle fattispecie originariamente determinate, allorché vennero annoverate tra le "prestazioni imposte" le tariffe telefoniche.
Non ostano, secondo tale orientamento, alla inclusione nella suddetta categoria, il carattere privatistico del rapporto in cui la prestazione si inserisce, né la circostanza che la richiesta del servizio (in esclusiva allo Stato) sia correlata ad un atto privato.
Quando si tratta di un servizio "riservato alla mano pubblica" e l'uso di esso "sia da considerare essenziale ai bisogni della vita", la determinazione delle tariffe deve assimilarsi ad una vera e propria imposizione patrimoniale.
La libertà di stipulare il contratto è meramente formale, in quanto si riduce alla possibilità di scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l'accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati. In base a questo indirizzo, il carattere unilaterale ed autoritario della prestazione viene ad identificare come obbligatorie anche le prestazioni su richiesta, quando esse siano connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di monopolio.
Sicché,
quel che viene in considerazione sotto il profilo costituzionale è solo la previsione, quale corrispettivo del servizio stesso, di un prezzo imposto (sent. 07-15.03.1994, n. 90), che, nel caso di specie, è comprensivo dell’ammontare dei costi sostenuti dall’Agenzia e che l’ente richiedente il servizio è chiamato a rifondere.
Appurato il carattere di prestazione obbligatoria del "rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia", è necessario verificare se tale parametro rispetti il principio della riserva relativa di legge, la quale non esige che la prestazione sia imposta "per legge" (da cui risultino espressamente individuati tutti i presupposti e gli elementi), ma richiede soltanto che essa sia istituita "in base alla legge" (sentenze nn. 236 e 90 del 1994, e n. 180/1996). Sicché, la norma costituzionale deve ritenersi rispettata anche in assenza di un'espressa indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a circoscrivere l'ambito di discrezionalità della pubblica amministrazione, purché gli stessi siano desumibili dalla destinazione della prestazione, ovvero dalla composizione e dal funzionamento degli organi competenti a determinarne la misura (sentenze n. 182/1994 e n. 507/1988), secondo un modulo procedimentale idoneo ad evitare possibili arbitrii.
Nel caso di specie,
dalla citata norma emergono non solo l'espressa compiuta identificazione dei soggetti tenuti alla prestazione e dell'oggetto, nonché dello scopo di questa, ma implicitamente anche quei limiti e controlli sufficienti a impedire che il potere di imposizione sconfini nell'arbitrio. È vero, infatti, che la norma in esame prescrive “il rimborso dei costi sostenuti dall'Agenzia”, la cui determinazione, in via convenzionale, è rimessa dalla stessa norma ad organi dell’Amministrazione, dotati di spiccata competenza tecnica, che forniscono garanzia di oggettività nella concreta determinazione dell'onere e di adeguata ponderazione tecnica dei molteplici elementi implicati nella valutazione. Quest’ultima presuppone che vengano motivatamente considerati i costi complessivamente sostenuti dall’Agenzia, restando, anche sotto tale profilo, soggetta ai controlli, non escluso quello contabile.
In merito, è appena il caso di sottolineare che l'impugnata Convenzione ministeriale, che si è occupata della determinazione dei costi, è stata sottoposta al vaglio della Corte dei Conti, prima di essere ritualmente registrata.
Alla luce di quanto sopra, deriva, quindi, che risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla parte ricorrente, in ordine alla pretesa violazione dell’art. 23 della Costituzione ad opera dell'art. 64, comma 3-bis, D.Lgs. n. 300/1999.
Per tali stessi motivi manifestamente infondato appare anche il secondo ordine di censure e la conseguente questione di costituzionalità.
Come evidenziato,
non assume alcun rilievo, ai fini dell’osservanza dell'art. 23 della Costituzione, la circostanza che una norma imponga determinate prestazioni economiche ad un privato o a un soggetto pubblico. Ciò premesso, il ragionamento del ricorrente appare contraddittorio nella parte in cui, con riferimento al primo motivo di diritto insiste sull’attività istituzionale dell’Agenzia in quanto svolta verso altro ente pubblico nell’interesse della collettività, salvo poi affermare che, laddove il pagamento dovesse intendersi dovuto, l'eventuale costo della prestazione “dovrebbe al più far carico unicamente allo stesso privato”, contraddicendosi nuovamente nel momento in cui ammette che tali valutazioni sono finalizzate, fra l’altro, all’applicazione di sanzioni o quando si afferma che le stesse incidono sulle risorse pubbliche a disposizione del Comune, richiamando nuovamente la circostanza che l’attività posta in essere dall’Agenzia è un’attività istituzionale resa nell'interesse della collettività.
Del tutto fuorviante, appare quindi, l’asserita violazione del principio della determinatezza della sanzione, poiché, come osservato, a prescindere dal surrettizio e contraddittorio ragionamento sviluppato dal ricorrente,
la menzionata pretesa economica ricade sull’ente e non sul privato e non ha alcuna valenza sanzionatoria, essendo chiaramente finalizzato al ristoro degli oneri sopportati dall’Agenzia.
Con riferimento al terzo motivo di diritto, con il quale il ricorrente si duole della circostanza che l'Agenzia ha chiesto il rimborso dei costi senza aspettare che fossero stipulati i prescritti accordi, è sufficiente constatare che la citata norma rimette la determinazione dei costi da rimborsare all'Agenzia alla Convenzione M.E.F. – Agenzia in ragione dei servizi richiesti. Gli accordi, di cui viene fatta menzione, sempre nella stessa norma, sono preordinati, ai sensi dell’art. 15 della Legge n. 241/1990, a “disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, che, pur rilevando nella fase attuativa, non incidono sulla legittimità della pretesa economica in ragione del presupposto individuato dalla norma.
Il fatto, poi, che la norma contempli espressamente la necessità che si formalizzino tali intese tra l’Agenzia e l’ente che richiede i servizi, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente nel quarto motivo, appare proprio finalizzato a dare la massima attuazione al principio di leale collaborazione tra enti.
Né tale principio può in qualche modo essere posto in discussione in ordine alla determinazione del quantum debeatur, atteso il principio dell’“obbligatorietà” delle prestazioni patrimoniali imposte. Né, ancora, all’ente impositore si richiede una particolare motivazione in ordine alla quantificazione dell’importo da chiedere a rimborso, essendo sufficiente, come dimostrato dal Ministero, che siano stati compiutamente indicati i costi, che direttamente o indirettamente hanno inciso per lo svolgimento delle attività richieste.
Peraltro, l’importo richiesto a rimborso, nella fase transitoria, ossia in attesa della stipula dei menzionati accordi, non può essere giudicato irragionevolmente oneroso, dal momento che l’Agenzia ha imposto ai propri uffici territoriali una soglia massima commisurata al 50% della sanzione.
P.Q.M.
esprime il parere che
il ricorso debba essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 03.02.2016 n. 224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa disattesa la censura laddove la ricorrente si duole della violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come già ripetutamente affermato dalla Sezione e dal giudice d'appello, dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune, anche a cagione dell'assenza di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
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In primo luogo, va disattesa la censura articolata con il quarto motivo con il quale la ricorrente si duole della violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta all'autorità procedente dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990.
L'infondatezza della censura in esame discende, invero, come già ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., tra le tante, sentenze n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d'appello (cfr. Cons. Stato, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune di Pozzuoli, anche a cagione dell'assenza -come di seguito meglio evidenziato- di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all'Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all'art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, secondo cui "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In secondo luogo, deve osservarsi che con il provvedimento impugnato il Comune di Pozzuoli ha contestato alla ricorrente di aver eseguito in assenza di alcun titolo in area paesaggisticamente vincolata una palazzina di due piani della superficie di 100 mq. con antistante tettoia di 30 mq. oltre a un altro manufatto in muratura della superficie di 20 mq. e ne ha ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
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Risulta legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 DPR 380/2001) la quale sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
In altri termini, non è richiesto un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
Resta poi fermo (cfr. censura con la quale parte ricorrente lamenta che l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3 anni dalla realizzazione dell’intervento) che non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”: e ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui la presenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa.
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Con il primo motivo la ricorrente lamenta che per l’intervento edilizio realizzato non sarebbe stato necessario il permesso di costruire bensì la sola DIA trattandosi di un intervento di risanamento conservativo e/o ristrutturazione edilizia di un preesistente vetusto comodo rurale con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto adottare la misura rispristinatoria.
Segnatamente, si sarebbe trattato di un intervento di parziale demolizione e ricostruzione del preesistente manufatto senza determinare alcun aumento dell’originario volume.
Il motivo non può essere accolto.
Parte ricorrente non ha fornito alcun elemento probatorio dal quale possa trarsi la conclusione della affermata legittima preesistenza dei manufatti in questione (ossia del fatto che essi risalgano al periodo nel quale per realizzare nuove opere non era necessario munirsi preventivamente del titolo edilizio e di quello paesaggistico).
In argomento la giurisprudenza ha affermato che l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Il Comune di Pozzuoli avendo, dunque, rilevato l’esistenza di un’intera palazzina di due piani con annessa tettoia oltre a un manufatto in muratura di 20 mq. ne ha legittimante ingiunto la demolizione ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 380. Si tratta, infatti, di opere soggette a permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 oltre che all’autorizzazione paesaggistica, stante l’idoneità, per caratteristiche e dimensioni, a concretare una significativa trasformazione dello stato dei luoghi in zona paesaggisticamente vincolata.
Da quanto precede deriva che l’intervento realizzato non può essere, come vorrebbe la ricorrente, derubricato da intervento di nuova costruzione a intervento di risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio che avrebbe dovuto esaurirsi, al più, nell'applicazione delle misure di cui all'articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001.
Viceversa, risulta legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 del medesimo testo unico) la quale sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già evidenziate emergenze, ben lumeggiate nel provvedimento impugnato, un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria. Resta poi fermo (cfr. censura con la quale parte ricorrente lamenta che l’ordinanza è stata adottata a distanza di 3 anni dalla realizzazione dell’intervento) che non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr. Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013, n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012): e ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui la presenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.02.2016 n. 932 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le sanzioni ripristinatorie e demolitorie hanno carattere reale e prescindono pertanto dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile, sicché l’estraneità agli abusi edilizi assume rilievo sotto altro profilo (ad esempio, è esclusa a carico del proprietario incolpevole l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede civile per la tutela della propria posizione nei confronti del proprietario o di altri soggetti.

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1.4 Nel quarto mezzo di gravame, l’esponente evidenzia di non avere mai realizzato opere edilizie all’intero del locale di via ... e di occupare soltanto il piano terra dell’immobile, non avendo invece la disponibilità del primo e del secondo piano.

Sul punto, preme però rilevare che, come insegna costante giurisprudenza, le sanzioni ripristinatorie e demolitorie hanno carattere reale e prescindono pertanto dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (cfr., fra le più recenti, Cassazione Penale, sez. III, 15.12.2015, n. 49331), sicché l’estraneità agli abusi edilizi assume rilievo sotto altro profilo (ad esempio, è esclusa a carico del proprietario incolpevole l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale, cfr. Corte Costituzionale n. 345/1991).
L’ordinanza impugnata, peraltro, è stata notificata anche al proprietario dei locali, sicché nulla vieta che sia quest’ultimo a dare esecuzione al provvedimento, né all’associazione conduttrice sono precluse azioni in sede civile per la tutela della propria posizione nei confronti del proprietario o di altri soggetti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.02.2016 n. 344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: OGGETTO: Interpretazione disposto di cui all'art. 5, comma 8, L.R. 31/2014 - rateizzazione monetizzazione aree a standard (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 05.02.2016).

gennaio 2016

EDILIZIA PRIVATASulla realizzazione, senza titolo edilizio, di un locale esterno (sostanzialmente un ampliamento del bar) mediante tensostruttura posta davanti al parcheggio.
La predetta tensostruttura è costituita da profilati di alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura costituita da una tenda scorrevole in materiale impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq. L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a 3.30 metri (lato bar).
(a) le tensostrutture, comprese quelle dotate di tende retrattili, sono utilizzate normalmente per creare locali protetti all’esterno degli edifici in muratura, o in aree dove non possono essere realizzati edifici in muratura. Lo scopo è di consentire lo svolgimento di attività lavorative, o di attività comunque diverse dalla semplice residenza.
Per struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente amovibili, e anzi sono appositamente progettate per agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni, occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere considerata pertinenza minore quando il volume della stessa sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile. Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e sanzionatorio più favorevole.
Nello specifico, questa condizione non risulta dimostrata, ma sul punto potranno essere svolti approfondimenti a cura degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una diversa destinazione d’uso.
Persa la funzione di ambiente di lavoro (nello specifico, per cessazione dell’attività del bar, o per trasformazione in esercizio pubblico di altro tipo), la tensostruttura deve essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire, come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR 380/2001.
Qualora non vengano superati i limiti delle pertinenze minori, e sia regolato l’uso delle tende retrattili per contenere l’impatto dell’involucro, è invece applicabile la disciplina sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 380/2001;
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(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi applicabile la procedura di accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono né permanenti né trasformabili, e dunque non sono urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in muratura.
Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto quelle riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico, peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in un’opera diversa e urbanisticamente nuova.

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... per l'annullamento:
(a) nel ricorso introduttivo: - dell’ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del 28.03.2013, con la quale è stata ingiunta la demolizione di una tensostruttura realizzata mediante profilati in alluminio, dotata di serramenti in alluminio e vetro, e coperta da una tenda scorrevole in materiale impermeabile;
(b) nei motivi aggiunti:
- del provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 5636 del 17.04.2014, con il quale è stato negato l’accertamento di compatibilità paesistica;
- dell’ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 24 del 02.05.2014, con la quale è stata nuovamente ingiunta la demolizione dell’opera abusiva;
...
1. Il ricorrente Se.Pa., titolare del pubblico esercizio denominato “Bar Colibrì”, situato in via Brescia nel Comune di Rodengo Saiano, ha realizzato senza titolo edilizio un locale esterno (sostanzialmente un ampliamento del bar) mediante tensostruttura posta davanti al parcheggio.
2. La predetta tensostruttura è costituita da profilati di alluminio a L rovesciata, fissati da un lato alla parete esterna del bar e dall’altro al terreno, ed è dotata di serramenti in alluminio e vetro, e di una copertura costituita da una tenda scorrevole in materiale impermeabile. La superficie coperta è pari 45,70 mq. L’altezza interna varia da 2,40 metri (lato parcheggio) a 3.30 metri (lato bar).
3. L’area è classificata tra gli ambiti residenziali consolidati a media densità edificatoria, ed è sottoposta a vincolo ambientale.
4. Il Comune, qualificando l’opera abusiva come nuova costruzione (veranda), ne ha ingiunto la demolizione con ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 11 del 28.03.2013.
5. In seguito, il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica del 17.04.2014, ha negato l’accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42, rilevando la formazione di nuova superficie e volumetria utile.
La Soprintendenza, preventivamente interpellata, aveva in un primo momento dato parere di compatibilità favorevole (19.12.2013), ma poi, su richiesta degli uffici comunali, si è pronunciata nuovamente (31.01.2014), e ha precisato che formazione di nuova superficie e volumetria utile è un ostacolo insuperabile alla sanatoria paesistica, rimettendo sul punto ogni valutazione al Comune.
6. Confermando la qualificazione dell’opera abusiva come nuova costruzione, il Comune, con ordinanza del responsabile dell’Area Tecnica n. 24 del 02.05.2014, ha ribadito la necessità della demolizione.
7. Contro questi provvedimenti il ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 30.05.2013 e depositato il 14.06.2013, integrato da successivi motivi aggiunti. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) travisamento, in quanto la tensostruttura, per le caratteristiche strutturali e funzionali, non dovrebbe essere qualificata come nuova costruzione, ma come semplice opera di copertura, priva di volumetria, essendo le tende retrattili;
(ii) contraddittorietà, in quanto è stata esclusa la compatibilità paesistica nonostante il parere favorevole della Soprintendenza, che nel primo pronunciamento non aveva rilevato alcun sostanziale pregiudizio per i valori paesistici tutelati.
8. Il Comune si è costituito, chiedendo la reiezione del ricorso.
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) le tensostrutture, comprese quelle dotate di tende retrattili, sono utilizzate normalmente per creare locali protetti all’esterno degli edifici in muratura, o in aree dove non possono essere realizzati edifici in muratura. Lo scopo è di consentire lo svolgimento di attività lavorative, o di attività comunque diverse dalla semplice residenza. Per struttura, materiali e funzione, le tensostrutture si prestano a un utilizzo prolungato, ma sono anche facilmente amovibili, e anzi sono appositamente progettate per agevolare le operazioni di installazione e smontaggio;
(b) queste caratteristiche impediscono di far ricadere le tensostrutture nell’attività edilizia libera, ma anche di equipararle pienamente alle nuove costruzioni in muratura;
(c) tenendo conto della funzione, la qualificazione preferibile è quella ex art. 3, comma 1-e.5, del DPR 06.06.2001 n. 380 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro). Tenendo poi conto delle dimensioni, occorre valutare se si tratti di interventi pertinenziali ex art. 3, comma 1-e.6, del medesimo testo unico.
Sotto questo secondo profilo, la classificazione spetta ai singoli comuni, fermo restando che un’opera non può essere considerata pertinenza minore quando il volume della stessa sia superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
(d) da questo inquadramento discendono importanti conseguenza per quanto riguarda la disciplina applicabile. Innanzitutto, se la tensostruttura non supera i limiti dimensionali fissati per le pertinenze minori dalla legge o dai regolamenti comunali, non può essere considerata nuova costruzione, e quindi ricade in un regime autorizzatorio e sanzionatorio più favorevole. Nello specifico, questa condizione non risulta dimostrata, ma sul punto potranno essere svolti approfondimenti a cura degli uffici comunali;
(e) in ogni caso, in quanto manufatto leggero utilizzato come ambiente di lavoro ai sensi dell’art. 3, comma 1-e.5, del DPR 380/2001, la tensostruttura non produce una volumetria e una superficie assimilabili a quelle delle costruzioni in muratura. I diritti edificatori incorporati nelle tensostrutture sono giuridicamente limitati, in quanto non si trasmettono al suolo e non possono dare origine a una diversa destinazione d’uso. Persa la funzione di ambiente di lavoro (nello specifico, per cessazione dell’attività del bar, o per trasformazione in esercizio pubblico di altro tipo), la tensostruttura deve essere rimossa;
(f) per altri aspetti, tuttavia, non essendo prefissato il momento della rimozione, la tensostruttura non può dirsi funzionalmente precaria. Si tratta dunque di un’opera che rimane subordinata al rilascio del permesso di costruire, come ogni altra nuova costruzione.
In caso di installazione abusiva, è applicabile la procedura di accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 del DPR 380/2001 (per una fattispecie relativa ai tunnel-serra v. TAR Brescia Sez. I 17.06.2015 n. 852). Qualora non vengano superati i limiti delle pertinenze minori, e sia regolato l’uso delle tende retrattili per contenere l’impatto dell’involucro, è invece applicabile la disciplina sanzionatoria più favorevole di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 380/2001 (v. TAR Brescia Sez. I 04.06.2014 n. 600);
(g) sempre in caso di installazione abusiva, è poi applicabile la procedura di accertamento di compatibilità paesistica ex art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 42/2004. Non sussiste la preclusione rappresentata dalla formazione di nuova superficie e volumetria utile, in quanto, come si è visto, i diritti edificatori delle tensostrutture non sono né permanenti né trasformabili, e dunque non sono urbanisticamente utili come quelli delle costruzioni in muratura. Le uniche valutazioni appropriate sono pertanto quelle riferite all’impatto sul paesaggio. Nello specifico, peraltro, la Soprintendenza ha già chiarito che non sono pregiudicati i valori paesistici oggetto di tutela;
(h) se la disciplina urbanistica lo consente, la tensostruttura può essere sostituita da un fabbricato in muratura, previa acquisizione dell’autorizzazione paesistica. Non vi sono impedimenti particolari collegati al precedente abuso edilizio, in quanto la tensostruttura in tale ipotesi verrebbe rimossa, o comunque inserita in un’opera diversa e urbanisticamente nuova.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto nei limiti sopra evidenziati.
11. La pronuncia determina l’annullamento degli atti impugnati, e vincola il Comune a riesaminare la posizione del ricorrente nel rispetto delle indicazioni esposte ai punti precedenti. Il termine ragionevole per tale adempimento è fissato in novanta giorni dal deposito della presente sentenza.
12. La complessità delle valutazioni in materia di abusi edilizi e la particolarità dei problemi posti dall’edificazione tramite tensostrutture consentono la compensazione delle spese di giudizio.
13. Il contributo unificato è a carico dell’amministrazione ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.01.2016 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Tipi di sanatoria edilizia ordinaria ex DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

EDILIZIA PRIVATALaddove si tratti di interventi edilizi eseguiti in area assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985 e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
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L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo.

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Per le opere residue, il ricorso è invece destituito di fondamento.
Non convince il primo mezzo di gravame, ove si lamenta che il Comune ha omesso di qualificare gli abusi commessi in termini di totale difformità o variazioni essenziali rispetto alla concessione edilizia n. 125/1990, in quanto “Laddove si tratti di interventi edilizi eseguiti in area assoggettata a protezione vincolistica ex l. n. 431 del 1985 e n. 1497 del 1939 -ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001- non assume rilievo la distinzione tra interventi eseguiti in difformità parziale o totale ovvero in variante essenziale rispetto al titolo, dal momento che la disposizione richiamata prevede espressamente che tutti gli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali” (cfr. TAR Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 640).
Nemmeno convince il terzo mezzo di gravame, col quale si lamenta la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, in quanto “L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l'ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 14.05.2015, n. 2411) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2016 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremesso che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha implicato un rinvio mobile alla disciplina del procedimento di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale indispensabile per la positiva conclusione del procedimento di condono”, deve ritenersi applicabile l'art. 146 d.lvo n. 42/2004 “in relazione a tutte le istanze (formulate in ogni tempo e che ancora non avevano dato luogo a un accoglimento o a un rigetto) volte ad ottenere una autorizzazione paesaggistica, per opere già realizzate o ancora da realizzare (…).
Né si ravvisa l'incompatibilità della disciplina dell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 con l'istituto del condono edilizio (…) sotto il profilo che il comma 4 dell'art. 146 vieta (salve le ipotesi eccezionali di cui al successivo art. 167, commi 4 e 5) il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica postuma, in quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 deve essere interpretata in via sistematica, in coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio, il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo.

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Con l’istanza in ordine alla quale si è formato il silenzio-inadempimento lamentato con il ricorso in esame, la parte ricorrente chiedeva al Comune di Montecorvino Pugliano di porre in essere le azioni necessarie a garantire la validità del provvedimento di concessione in sanatoria n. 02/03 del 25.03.1986, essendo stata omessa l’acquisizione del preventivo atto di assenso paesaggistico.
L’amministrazione comunale intimata, senza contestare nel merito le deduzioni attoree, evidenzia l’opportunità che “la soluzione venga trovata congiuntamente con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Salerno e Avellino”, anch’essa parte del giudizio, sollecitando il Tribunale all’adozione di una pronuncia di tipo propulsivo nei confronti di tutte le amministrazioni coinvolte.
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che il ricorso sia meritevole di accoglimento: invero, l’incertezza delle modalità procedimentali da osservare al fine di dare riscontro all’istanza di parte ricorrente, intesa ad attuare la regolarizzazione della concessione edilizia in sanatoria n. 02/03 del 25.03.1986, emessa in carenza del relativo e necessario titolo paesaggistico, non esimeva l’amministrazione comunale dall’attivarsi tempestivamente in tal senso, potendo rilevare esclusivamente ai fini del regolamento delle spese di giudizio.
Deve quindi ordinarsi al Comune intimato di attivare il procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in ordine alle opere de quibus, previa acquisizione del parere obbligatorio e vincolante della competente Soprintendenza, nel rispetto delle indicazioni interpretative fornite dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4492 dell’11.09.2013), secondo cui, premesso che il parere ex art. 32 l. n. 47/1985 “ha natura e funzioni identiche all'autorizzazione paesaggistica ex art. 7 l. 29.06.1939, n. 1497”, il quale “ha implicato un rinvio mobile alla disciplina del procedimento di gestione del vincolo paesaggistico, costituente una fase procedimentale indispensabile per la positiva conclusione del procedimento di condono”, deve ritenersi applicabile l'art. 146 d.lvo n. 42/2004 “in relazione a tutte le istanze (formulate in ogni tempo e che ancora non avevano dato luogo a un accoglimento o a un rigetto) volte ad ottenere una autorizzazione paesaggistica, per opere già realizzate o ancora da realizzare (…) Né si ravvisa l'incompatibilità della disciplina dell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 con l'istituto del condono edilizio (…) sotto il profilo che il comma 4 dell'art. 146 vieta (salve le ipotesi eccezionali di cui al successivo art. 167, commi 4 e 5) il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica postuma, in quanto:
- nei casi in esame si verte in fattispecie non già di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, bensì di concessione edilizia in sanatoria, rispetto alla quale l'autorizzazione paesaggistica costituisce presupposto procedimentale;
- la disciplina contenuta nell'art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 deve essere interpretata in via sistematica, in coordinamento con l'istituto speciale del condono edilizio, il quale, per definizione, presuppone l'anteriorità dell'intervento abusivo rispetto al rilascio del titolo sanante, sicché, in tale ipotesi, l'autorizzazione paesaggistica (e il parere soprintendentizio) si dovranno basare sulla valutazione della compatibilità con lo stato dei luoghi degli interventi abusivi oggetto dell'istanza di sanatoria, in relazione alle specifiche competenze delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo
” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 12.01.2016 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono, il comune deve approfondire. Il Cds sul rifiuto per un'installazione tardiva.
Non basta accertare che un termoconvettore è stato installato tardivamente per rigettare la richiesta di condono edilizio. Per rifiutare il beneficio occorrono infatti indicazioni più precise sull'effettiva abitabilità del manufatto prima del 31.12.1993.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 11.01.2016 n. 54.
Un utente ha trasformato abusivamente una cantina in un monolocale presentando domanda di condono edilizio e dichiarando che tutti i lavori sono stati effettuati prima del 31.12.1993. Il comune ha rigettato la richiesta evidenziando carenze documentali e indicazioni verbali generiche di alcuni vicini di casa. Ma anche accertando che successivamente a quella data l'interessato avrebbe installato nell'abitazione un termoconvettore.
I giudici di palazzo Spada hanno censurato questa decisione. Dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio, specifica il collegio, risulta evidente che l'immobile in questione aveva una propria autonomia strutturale già alla data del 31.12.1993. Non è sufficiente il successivo sopralluogo dei vigili che nel 1995 hanno riscontrato il montaggio in corso di un termoconvettore per inficiare questa dichiarazione, prosegue la sentenza.
La questione avrebbe dovuto essere meglio approfondita eventualmente acquisendo agli atti specifiche dichiarazioni di testimoni in grado di chiarire definitivamente se il locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993 (articolo ItaliaOggi del 19.01.2016).
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MASSIMA
5. Nel merito, l’appello è fondato.
Dall’esame del provvedimento impugnato e dalla documentazione fotografica prodotta in giudizio, risulta che l’immobile in questione –alla data del 31.12.1993- aveva una propria autonomia strutturale.
I lavori eseguiti nel corso del 1995 hanno riguardato la separazione dell’impianto idraulico e di quello di riscaldamento, rispetto a quelli già esistenti nell’unità immobiliare principale rimasta in proprietà dell’attuale appellante e non venduta, a differenza dell’immobile in questione.
Il diniego di condono ha attribuito rilevanza decisiva agli esposti dei condomini (il primo dell’11.08.1995), i quali hanno lamentato il fatto che erano allora in corso i lavori di allacciamento dell’acqua e del gas, mentre la relazione di data 28.10.1995 della polizia municipale di Torrile si dà atto dello svolgimento di lavori idraulici relativi al montaggio di un termoconvettore.
Ritiene al riguardo la Sezione che l’istruttoria posta a base del diniego non risulta adeguata, come dedotto dall’appellante.
Gli accertamenti specifici posti in essere dal Comune hanno riguardato infatti unicamente il montaggio –dopo la data del 31.12.1993- del termoconvettore, i cui lavori di per sé sono compatibili con una precedente destinazione dell’immobile ad abitazione.
Gli esposti dei vicini, oggettivamente rilevanti e da valutare del corso del procedimento, non sono stati oggetto di un esame in relazione alla preesistente situazione di fatto.
In presenza della dichiarazione posta a base della istanza di condono e di risultanze di per sé inevitabilmente equivoche (perché si trattava di ricostruire quale fosse la situazione alla data del 31.12.1993), il Comune non avrebbe dovuto interpretare acriticamente il contenuto degli esposti nel senso più sfavorevole al richiedente, ma avrebbe dovuto chiedere ai sottoscrittori dell’esposto se alla data del 31.12.1993 il locale in questione fosse destinato a cantina o ad abitazione.
Il vizio di cui è affetto l’atto impugnato in primo grado è di inadeguata istruttoria, sicché –in sede di esecuzione della presente sentenza– il Comune dovrà rinnovare il procedimento:
a) con l’acquisizione in loco, ove sia possibile, delle dichiarazioni di coloro che erano a conoscenza delle circostanze (non solo di coloro che hanno sottoscritto l’esposto, ma se del caso anche di altri proprietari o residenti nell’edificio), allo scopo di chiarire se il locale in questione era già abitato prima del 31.12.1993;
b) verificando comunque se il medesimo locale –oltre che ‘abitato’- era ‘abitabile’, e cioè se a quella data vi era quanto meno un servizio igienico e quant’altro vada considerato indispensabile perché vi fosse tale abitabilità.

In considerazione del fatto che è comunque onere del richiedente dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per il condono (anche perché è del tutto logico che egli e non l’Amministrazione sia in possesso di elementi oggettivi circa l’ultimazione delle opere), in sede di rinnovazione del procedimento l’Amministrazione dovrà consentire all’interessato la produzione di ulteriori elementi (quali fatture, bollette, ricevute, ecc.) volti a ricostruire i fatti effettivamente accaduti e, in sede di conclusione del procedimento, dovrà complessivamente valutare l’esito dell’istruttoria.
6. Per le suesposte considerazioni, l’appello va accolto e, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va accolto, con il conseguente annullamento dell’atto impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune.

dicembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: In merito al provvedimento sanzionatorio della realizzazione del manufatto abusivamente realizzato, è infondato l’asserito vizio concernente il difetto di motivazione laddove, nel provvedimento di rigetto della domanda di condono, l’ente comunale afferma che essa non può essere accolta in quanto “l’aumento di altezza di una parte del piano sottotetto ha comportato l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario, non consentito dalle norme del vigente Piano di Recupero”, richiamando, l’atto in questione, le valutazioni svolte dall’ufficio tecnico comunale.
Dunque, ingiungendosi, nell’ordinanza di demolizione, la rimozione della maggiore altezza della parte di sottotetto, deve concludersi che la motivazione è conforme ai parametri di adeguatezza necessari per consentire l’esercizio del diritto di difesa e il controllo giurisdizionale avendo, la P.A., chiaramente indicato le ragioni poste a fondamento degli atti censurati.
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Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione».
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.

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3.3.– Con il terzo motivo sia assume che erroneamente l’amministrazione e la sentenza impugnata avrebbero ritenuto che l’intervento contestato non sarebbe consentito dagli strumenti urbanistici.
In relazione all’asserito contrasto con il piano di recupero, si deduce che sarebbe mancata una adeguata istruttoria e che il sottotetto avrebbe subito rispetto all’iniziale concessione edilizia n. 13 del 19998 una «ininfluente modifica del grado di inclinazione del solaio».
In relazione alla mancata applicazione di quanto previsto, per le zone BE, dal superiore piano regolatore generale, si rileva che questo, consentendo le «ricostruzioni previa demolizione» ricomprenderebbe, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dal primo giudice, anche gli interventi di «ristrutturazione» e che, comunque, l’intervento in questione sarebbe consistito in una vera e propria ricostruzione integrale previa demolizione dell’esistente.
Il motivo non è fondato.
In relazione al piano di recupero, l’art. 27 per la zona A5 nella quale ricade il fabbricato («edifici compatibili con i caratteri originari in particolari condizioni di degrado») ammette gli interventi di ristrutturazione edilizia «nei limiti di cui al precedente art. 10 ‘soffitte e sottotetti’ purché ciò non comporti l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario» e l’art. 10 dispone che «è prescritta la conservazione delle caratteristiche degli edifici preesistenti da demolire parzialmente o totalmente per quanto riguarda (…) l’altezza di imposta della copertura».
Nella fattispecie in esame risulta, invece, provata «l’alterazione sostanziale del profilo altimetrico originario». Sul punto, l’appellante, nonostante si tratti di elementi nella sua disponibilità, si limita genericamente ad affermare che il sottotetto ha un subito «una ininfluente modifica del grado di inclinazione del solaio».
In relazione al piano regolatore generale, gli appellanti non hanno dimostrato, pur vendendo ancora una volta in rilievo elementi nella loro disponibilità, che, in effetti, l’intervento in questione si sia risolto in una «demolizione e ricostruzione».
3.4.– Con il quarto motivo, si deduce che il primo giudice avrebbe erroneamente applicato le risultanze della verificazione disposta al fine di stabilire se la demolizione delle opere abusive avrebbe comportato pregiudizio per le parti del manufatto conformi a legge. Sul punto, si afferma che il verificatore avrebbe accertato la fattibilità tecnologica ma, per la mancata conoscenza delle strutture del manufatto, non sarebbe stato in grado di accertare se effettivamente la disposta demolizione recherebbe pregiudizio alle parti rimanente dell’edificio.
Il motivo non è fondato.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che si applica la sanzione pecuniaria «soltanto nel caso in cui sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione». Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (Cons. Stato, sez. VI, 09.04.2013, n. 1912).
Nella fattispecie in esame, il verificatore, nominato in primo grado, ha ritenuto di non potere fornire una risposta al quesito perché si è in presenza di «un’opera da demolire della quale non è ben noto lo stato di integrità, non si conoscono i materiali e le relative caratteristiche, non si conoscono esattamente le fasi costruttive e gli schemi strutturali che ne hanno caratterizzato l’edificazione».
A tale proposito, il verificatore ha valutato criticamente l’apporto conoscitivo fornito dalle perizie di parte che hanno fornito elementi di natura «empirica» e non «analitica».
La verificazione disposta in primo grado non è, pertanto, riuscita a pervenire a risultati univoci per l’assenza di dati conoscitivi che sarebbe stato onere dell’appellante fornire.
In definitiva, in presenza di un elemento che deve essere provato dal privato non si può dedurre un vizio della verificazione tecnica per censurare la sentenza e l’operato della pubblica amministrazione. Sarebbe stato onere dell’appellante, si ribadisce, dimostrare l’esistenza del pregiudizio alle parti dell’edificio non abusive anche mediante la messa a disposizione dei dati necessari al verificatore (
massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2015 n. 5846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittimo disporre l'acquisizione gratuita, o, in ipotesi, effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di demolizione. Essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una misura prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze.
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di conoscenza, che presuppone la previa notifica del provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di inottemperanza.
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La presentazione dell'istanza di sanatoria dell'abuso edilizio determina l’obbligo dell’amministrazione di procedere prioritariamente all’esame della domanda di condono, paralizzando il corso dei procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione dell’istanza di sanatoria.
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato.

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... per l'annullamento della determina dirigenziale n. 63026/14 del 29.04.2014 notificata il 07.05.2014 con la quale il Comune di Cercola ha dichiarato l'accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione n. 39 del 2005 e disposto l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere realizzate;
...
2.1. Deve il Collegio confermare la delibazione di fondatezza del ricorso già tratteggiata nella sede monitoria, in accoglimento del primo mezzo di gravame, con il quale il ricorrente deduce illegittimità della disposta ed impugnata acquisizione gratuita al patrimonio delle opere da lui realizzate, sostenendo che la presupposta ordinanza di demolizione n. 39/2005 è stata notificata solo alla comproprietaria signora Silvestro Raffaella, sua moglie, ma non anche a lui.
Ritiene al riguardo che l’omessa notifica del provvedimento di demolizione rende inapplicabile nei confronti dei comproprietari pretermessi la sanzione acquisitiva.
2.2. La doglianza è fondata, rispondendo ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell’irrogazione della sanzione dell’acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell’ordinanza di demolizione, l’inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l’irrogazione della sanzione acquisitiva.
Il Consiglio di Stato ha di recente suggellato l’orientamento che deponeva nei tratteggiati sensi (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 30.01.2014 n. 711; TAR Lazio–Roma, Sez. I–quater, n. 1788/2011; TAR Sicilia-Palermo, Sez. II 11.11.2014 n. 2783) avendo ribadito che “È illegittimo disporre l'acquisizione gratuita, o, in ipotesi, effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di demolizione. Essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una misura prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.04.2015 n. 1927 ).
L’inottemperanza richiede e postula un indefettibile dato di conoscenza, che presuppone la previa notifica del provvedimento da ottemperare.
Se fa difetto tale incombente non può neanche parlarsi di inottemperanza.
In punto di fatto deve il Collegio valutare, ex artt. 64, co. 4, c.p.a. e 116 c.p.c., l’inerzia del Comune che non ha ottemperato all’ordine istruttorio disposto con ordinanza n. 4420/2015 (debitamente notificata al Comune a cura del ricorrente in data 21-23/09/2015), non depositando copia dell’ordinanza demolitoria così come notificata, nonché la ulteriore documentazione relativa alla domanda di condono prot. n. 18219/04.
Ragion per cui va ritenuta provata la dedotta circostanza della omessa notifica dell’ordinanza di demolizione al comproprietario ricorrente.
Il mancato adempimento da parte del Comune degli incombenti istruttori disposti con riferimento alla pendenza dell’istanza di condono induce a dar credito alle allegazioni del ricorrente anche riguardo alle censure con le quali si deduce la violazione degli artt. 38 e 44 della legge n. 47 del 1985 che contemplerebbero la sospensione dei procedimenti sanzionatori in pendenza della definizione delle domande di condono.
Al riguardo è da osservare che per il manufatto in questione risulta presentata domanda di condono in base alla legge n. 326 del 2003.
Orbene, per effetto degli artt. 38, 43 e 44 della legge n. 47 del 1985, richiamati dall’art. 32, co. 25, del decreto-legge n. 269 del 2003, la presentazione dell'istanza di sanatoria dell'abuso edilizio determina l’obbligo dell’amministrazione di procedere prioritariamente all’esame della domanda di condono, paralizzando il corso dei procedimenti per l’applicazione delle misure repressive fino alla definizione dell’istanza di sanatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 03/05/2005, n. 2137).
Infatti, in caso di accoglimento l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l'autorità amministrativa è tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato (cfr. Cons. St., sez. VI, 11/09/2013, n. 4496).
Sancisce l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione adottata in pendenza dell’esame della domanda di condono la costante giurisprudenza d’appello (Consiglio di Stato, Sez. V, 23.06.2014 n. 3143; Consiglio di Stato, Sez. V, 24.04.2013 n. 2280; Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012 n. 5553), seguita anche dalla Sezione in numerosissimi casi (cfr. ex multis, TAR Campania–Napoli, Sez. III, 14.08.2013, n. 4122; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.02.2013 n. 843).
Sulla medesima scia si sono infatti poste la Sezione ed il Tribunale (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 07.12.2010, n. 27066, ID, 13.07.2010, n. 16690; TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 26.08.2010 , n. 17238) e più di recente TAR Campania-Napoli, Sez. III 07.09.2012, n. 3786) (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.12.2015 n. 5876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione delle opere abusive e di ripristino dello stato dei luoghi ha carattere essenzialmente reale, per cui esso deve essere disposto nei confronti di tutti i soggetti che vantano attualmente un diritto reale sul bene, nella qualità di eredi o aventi causa dell’originario proprietario, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione dell’illecito, che peraltro ha natura permanente, tant’è che il manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio ai valori tutelati dalle misure repressive fino alla sua rimozione.
L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che impongono l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione richieda una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico o una comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo.
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Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente la demolizione delle opere abusive, dagli interventi eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34 contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione, qualora essa non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in totale difformità quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale, per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti mutamento della destinazione d'uso implicante variazione degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero violazione non procedurali delle norme in materia di edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto, da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e modificando la sagoma dell’edificio.
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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L’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo.
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La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione impugnata e neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza.

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... per l'annullamento dell’ordinanza dirigenziale n. 91 del 09/06/2009, concernente l’eliminazione delle opere abusive realizzate relative al tetto del fabbricato sito in Via ... n. 11, in difformità del permesso di costruire n. 51/04; nonché degli atti connessi.
...
1. Nel merito i ricorrenti deducono che:
- i lavori sarebbero stati realizzati dal dante causa, per cui i ricorrenti sarebbero estranei all’abuso;
- mancherebbe una adeguata istruttoria ed una congrua motivazione; l’abuso, consistente in una maggiore altezza del sottotetto, non sarebbe di tale gravità da giustificare la demolizione;
- sarebbe stata presentata istanza per accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001; l’intervento, realizzato in zona E agricola, sarebbe conforme allo strumento urbanistico;
- il disposto ripristino dello stato dei luoghi configgerebbe con l’interesse pubblico, oltre che con quello privato dei ricorrenti.
1.1. L'ordine di demolizione delle opere abusive e di ripristino dello stato dei luoghi ha carattere essenzialmente reale, per cui esso deve essere disposto nei confronti di tutti i soggetti che vantano attualmente un diritto reale sul bene, nella qualità di eredi o aventi causa dell’originario proprietario, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione dell’illecito, che peraltro ha natura permanente, tant’è che il manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio ai valori tutelati dalle misure repressive fino alla sua rimozione (cfr. Cons. St., sez. VI, 15/04/2015, n. 1927).
1.2. L'ingiunzione di demolizione rappresenta un atto dovuto qualora sia accertata la realizzazione dell´opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, per cui è sufficientemente motivata con la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che impongono l’applicazione della pertinente sanzione.
In particolare è da escludere che tale determinazione richieda una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico o una comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi neppure ammettere l'esistenza di un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che non può essere legittimata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. VI, 05/01/2015, n. 13).
1.3. Il d.P.R. n. 380 del 2001 distingue, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al permesso di costruire, per i quali l'art. 31 prevede tassativamente la demolizione delle opere abusive, dagli interventi eseguiti in parziale difformità, per i quali l’art. 34 contempla una sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione, qualora essa non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Lo stesso art. 31 classifica tra gli interventi eseguiti in totale difformità quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
In base all’art. 32 sussiste altresì variazione essenziale, per gli interventi effettuati su immobili assoggettati a vincoli paesaggistici ed ambientali, qualora risulti mutamento della destinazione d'uso implicante variazione degli standards, ovvero aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, ovvero modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato o della localizzazione dell'edificio, ovvero mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito, ovvero violazione non procedurali delle norme in materia di edilizia antisismica.
Orbene l’intervento descritto nel provvedimento impugnato è chiaramente idoneo a mutare la destinazione del sottotetto, da non abitabile ad abitabile, e quindi determina un aumento della cubatura utile ricavando un piano ulteriore e modificando la sagoma dell’edificio (cfr. TAR Campania, sez. II, 04/02/2013, n. 699).
Pertanto si palesa appropriata l’applicazione della misura repressiva prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
1.4. E’ appena il caso di rilevare che l’ingiunzione di demolizione prescinde dalla conformità urbanistica del manufatto abusivo ed è giustificata dal mero difetto (o dalla difformità) del titolo abilitativo (cfr. Cons. St., sez. IV, 26/08/2014, n. 4279).
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di presentare tempestivamente, sussistendo i presupposti della conformità urbanistica e, se del caso, della compatibilità paesaggistica, apposita istanza di sanatoria, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché agli artt. 146, co. 4, e 167, co. 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 in caso di interventi in aree vincolate.
Sennonché nella specie non risulta che l’istanza di sanatoria sia stata accolta; né risulta che sia stato tempestivamente e ritualmente impugnato il diniego sia pure tacito, mentre semmai emerge che la creazione di superfici utili o volumi è ostativa al rilascio della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167, co. 4, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Giova infine soggiungere che la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della ordinanza di demolizione impugnata e neppure ne determina la definitiva inefficacia, limitandosi unicamente a sospenderne temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza (cfr. Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
2. In conclusione l’impugnativa va quindi respinta. Non vi è luogo ad una pronuncia sulle spese attesa la mancata costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.12.2015 n. 5866 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Tutela del paesaggio e interventi in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi di totale difformità di lavori dal provvedimento abilitativo, per cui è configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito dello stesso lotto.
Lo spostamento da un luogo ad un altro determina, invero, una vera e propria alterazione della costruzione autorizzata, che integra un'opera sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del DPR 380/2001, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione.
E non può essere revocato in dubbio che opere "spostate", in modo significativo (tra i nove ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato integrino una difformità totale, e come tali debbano considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate" dal provvedimento originario (esse invero risultano sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
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Per di più,
nel caso di specie, risultando l'area sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la distinzione tra "totale difformità" e "parziale difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004, possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
in tema di tutela del paesaggio, anche a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
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Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha ribadito, infatti, che
in presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
E, dall'altro, che occorresse, per l'intervento "diverso", nuova autorizzazione paesaggistica.
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2.1. Risulta pacificamente in punto di fatto (non venendo neppure sostanzialmente contestato dai ricorrenti) che le opere erano state posizionate in modo diverso rispetto a quanto previsto in progetto.
Il Tribunale ha dato atto che i consulenti, dopo aver eseguito le coordinate dei sei aerogeneratori, come risultanti dalle tavole tecniche, avevano proceduto a localizzare le opere in corso di realizzazione con sistema di rilevazione satellitare. E, attraverso tale ineccepibile metodo operativo, che trovava peraltro conforto nei rilievi effettuati dall'ausiliario forestale, dott. Cr., si era accertato una indiscutibile divergenza tra il dato delle coordinate di progetto con quello delle opere in corso. Risultava, infatti, uno spostamento significativo delle opere, oscillante tra i 9 metri ed i 28 metri, rispetto a quanto era stato autorizzato con il progetto.
Sulla base di tale accertamento, ineccepibilmente il Tribunale ha ritenuto che fosse configurabile il fumus del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001 (pag. 15 ord.).
La giurisprudenza di questa Corte, a partire da quella più datata, ha costantemente ritenuto che la costruzione realizzata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato integri un'opera autonoma a sé stante in quanto non riferibile, per la sua diversa ubicazione, all'opera autorizzata. E tale costruzione integra pertanto l'ipotesi di totale difformità di lavori dal provvedimento abilitativo (Cass. sez. 3 n. 5224 del 20/03/1981), per cui è configurabile il reato di costruzione abusiva e non quello di costruzione in difformità delle prescrizioni o modalità esecutive, qualora la costruzione sia effettuata in un'area diversa da quella risultante dal progetto approvato, anche se tale spostamento sia stato di pochi metri e nell'ambito dello stesso lotto (Cass. sez. 3 n. 3178 del 27/01/1982).
Lo spostamento da un luogo ad un altro determina, invero, una vera e propria alterazione della costruzione autorizzata, che integra un'opera sostanzialmente autonoma ed abusiva in quanto non legittimata dalla preventiva autorizzazione dell'autorità comunale.
Anche la giurisprudenza più recente ha ribadito che,
ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 44 del DPR 380/2001, si considera in "totale difformità" l'intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l'organismo programmato e quello che è stato realizzato con l'attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione (Cass. sez. 3 n. 40541 del 18/06/2014).
E non può essere revocato in dubbio che opere "spostate", in modo significativo (tra i nove ed i ventotto metri), rispetto al progetto approvato integrino una difformità totale, e come tali debbano considerasi completamente abusive, non essendo "legittimate" dal provvedimento originario (esse invero risultano sottratte al controllo dell'assetto del territorio e rimesse alla scelta autonoma e discrezionale del soggetto agente).
Ha già osservato il Tribunale, inoltre, che contrariamente all'assunto difensivo l'intervento non può considerarsi di "variante di tipo non sostanziale" neppure ai sensi e per gli effetti della disciplina speciale prevista dal D.L.vo 03.03.2011 n. 28, in quanto l'art. 5, comma 3, esclude dalle categorie degli interventi sostanziali, oltre quelli che non comportano variazioni delle dimensioni fisiche degli apparecchi, della volumetria delle strutture, quelli che non comportano "variazioni dell'area destinata ad ospitare gli impianti stessi".
2.2. Per di più,
nel caso di specie, risultando l'area sottoposta a vincoli paesaggistici, perde rilevanza la distinzione tra "totale difformità" e "parziale difformità".
Il Tribunale, dopo aver ricordato che i vincoli di tipo paesaggistico, ai sensi dell'art. 134 D.L.vo 42/2004, possono essere di tre diverse tipologie (tra cui quelli derivanti dai PUTT), ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3 n. 41078 del 20/09/2007), secondo cui,
in tema di tutela del paesaggio, anche a seguito dell'entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42, l'individuazione di beni paesaggistici spetta sia al Ministero dei beni culturali ed ambientali mediante appositi decreti ministeriali, sia alle Regioni mediante appositi atti amministrativi, leggi regionali ovvero mediante la compilazione dei Piani Urbanistici Territoriali.
In applicazione di tale principio si è ritenuto che il Piano Urbanistico Territoriale Tematico della Regione Puglia, riconducibile alla categoria dei piani urbanistico territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, costituisca un intervento di pianificazione a carattere generale efficace su tutto il territorio regionale, non limitato alle aree ed ai beni elencati dall'art. 82, quinto comma, DPR n. 616 del 1977 ovvero alle aree già sottoposte ad uno specifico vincolo paesistico.
Il PUTT/P, quindi, oltre gli effetti di direttiva nei confronti della pianificazione comunale, produce anche effetti diretti nei confronti dei privati, con vincoli generali e particolari, purché pertinenti alla specifica tematica del piano stesso ed estende la sua portata, oltre che ai beni vincolati, anche a zone non soggette al regime di tutela paesistica, ma ugualmente ritenute meritevoli di considerazione in quanto espressione della più generale potestà urbanistica regionale in materia paesaggistico-ambientale.
Il Tribunale ha accertato che l'impianto in corso di realizzazione insistesse in ATE di Tipo C, e che all'interno di tale ambito gli interventi di trasformazione fossero ammessi solo se compatibili con la qualificazione paesaggistica.
Del resto in data 17/05/2010 la stessa Regione Puglia non esprimeva parere favorevole (salvo poi a modificarlo inopinatamente dopo pochi mesi) per gli aerogeneratori 1, 2, 3, 4, 5, in quanto collocati in ATE di Tipo C e in contrasto con i relativi indirizzi di tutela (2.02) del PUTT.
Da tutto ciò consegue, da un lato, che, a seguito dello spostamento dell'ubicazione dell'opera, comunque si rendesse necessario nuovo permesso di costruire (da conseguire con ricorso alla procedura dell'autorizzazione unica).
Anche di recente la giurisprudenza di questa Corte ha ribadito, infatti, che
in presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma terzo, D.P.R. 06.06.2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Cass. sez. 3 n. 37169 del 06/05/2014; sez. 3 n. 1486 di 03/12/2013 ed in precedenza Sez. 3 n. 16392 del 17/02/2010). E, dall'altro, che occorresse, per l'intervento "diverso", nuova autorizzazione paesaggistica.
Perfino gli interventi eseguibili mediante dia (ora scia) necessitano, infatti, del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 8739 del 21.01.2010), configurandosi in mancanza il reato di cui all'art. 181 D.L.gs. n. 42 del 2004 (Cass. pen. sez. 3 n. 15929 del 12.01.2006).
Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che fosse configurabile il fumus sia del reato di cui all'art. 44, lett. c), DPR 380/2001, sia del reato di cui all'art. 181 D.L.vo 42/2004 (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2015 n. 49669).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire.
Si è in presenza di "varianti essenziali" al permesso di costruire (e non già in presenza di un'ipotesi di "difformità totale") laddove le prime sono caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate da un consistente, nei termini e nelle percentuali individuate dalla legge regionale, aumento della superficie utile lorda e della cubatura assentite, e dal regolamento edilizio.
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In materia urbanistica, la nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire costituisce una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale, sanzionata dall'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Pertanto non rileva nella fattispecie la novella ex art. 17, comma 1, lett. n) decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164 che, tra l'altro, nell'affermare che il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito, fa salve, in ogni caso, le diverse previsioni da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, pacificamente disattese nel caso di specie e la cui violazione trova presidio proprio nella fattispecie ex art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 che punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti edilizi nonché dalla normativa urbanistica statale e regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
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2. L'inammissibilità del primo motivo di ricorso deriva dal fatto che esso è del tutto disarticolato rispetto alle ragioni della decisione.
Il tribunale non ha infatti ritenuto che gli abusi fossero consistiti in una modificazione della destinazione d'uso tale da determinare un'ipotesi di difformità totale ma esclusivamente in una "variazione essenziale" al permesso di costruire e alle successive varianti, avendo affermato che sono state disattese le norme, di cui all'articolo 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e di cui all'articolo 6 L.R. Piemonte n. 56 del 1977 e successive modifiche in quanto dagli interventi è derivato un aumento di entità superiore al 5% della superficie utile lorda e della volumetria, oltre ad essere state disattese le previsioni di cui all'articolo 20, comma 2, lett. d), del regolamento edilizio (al piano interrato -destinato a locale di sgombero/cantina/deposito- erano stati realizzati locali con caratteristica di finiture di civile abitazione ed in particolare un locale taverna dotato di forno pizza, tavolo frigorifero, cronotermostato ed un locale camera arredata con letto matrimoniale addossato alla parete ed un locale sauna-idromassaggio attrezzato con vasca idromassaggio e sauna, oltre a un locale deposito, ufficio, relax e locale tecnico ospitante gli impianti tecnologici) nonché dell'articolo 20, comma 2, lett. e) del regolamento edilizio (al primo piano (sottotetto) si constatava l'accorpamento di tutta la manica di "sottotetto non accessibile" alla camera e al bagno con conseguente incremento di superficie utile lorda ed inoltre l'incremento dell'altezza del colmo della falda di copertura al lato nordovest con maggiore altezza interna dei locali in misura eccedente il progetto autorizzato).
Il tribunale ha osservato che
si è, nel caso di specie, in presenza di "varianti essenziali" al permesso di costruire (e non già in presenza di un'ipotesi di "difformità totale") caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 d.p.r. n. 380 del 2001 e rappresentate da un consistente, nei termini e nelle percentuali individuate dalla legge regionale, aumento della superficie utile lorda e della cubatura assentite, e dal regolamento edilizio.
Nel pervenire a tale conclusione, il tribunale si è attenuto alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale,
in materia urbanistica, la nozione di variazione essenziale dal permesso di costruire costituisce una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale, sanzionata dall'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, n. 41167 del 17/04/2012, Ingrosso, Rv. 253599).
Pertanto non rileva nella fattispecie la novella ex art. 17, comma 1, lett. n), decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164 che, tra l'altro, nell'affermare che il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito, fa salve, in ogni caso, le diverse previsioni da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, pacificamente disattese nel caso di specie e la cui violazione trova presidio proprio nella fattispecie ex art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 che punisce, tra l'altro, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dai regolamenti edilizi nonché dalla normativa urbanistica statale e regionale, richiamata dal titolo IV del d.P.R. n. 380 del 2001, con particolare riferimento all'art. 32 TUE.
Né, in presenza di una definizione del processo con il rito abbreviato e dunque allo stato degli atti, la ricorrente può reclamare il mancato accesso -peraltro del tutto discutibile in considerazione dei risultati probatori conseguiti come in precedenza segnalati e del tutto sottovalutati con l'articolazione della doglianza- ad alternative istruttorie o a sospensioni del processo in attesa di una sanatoria o di una regolarizzazione degli abusi
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.12.2015 n. 49583).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è una “pena” ma una sanzione amministrativa e dunque non è soggetto alla prescrizione.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso.
Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen.
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2015 n. 49331).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione non si prescrive. L’ordine di demolizione del manufatto abusivo è una sanzione amministrativa e non si prescrive.
Cassazione. La rimozione dell’abuso edilizio è una sanzione amministrativa che ha scopo di tutelare il territorio.

Con la sentenza 15.12.2015 n. 49331, la Corte di Cassazione ricorda che l’ordine di demolizione anche, se arriva dal giudice penale, non ha finalità punitive. L’intervento non può dunque essere considerato una sanzione penale, nel senso indicato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma ha il solo scopo di tutelare il territorio riportando i luoghi nello stato in cui erano prima dell’abuso.
La Suprema corte accoglie il ricorso del Pm contro l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato estinto per «decorso del tempo» l’ordine di demolizione di alcuni immobili abusivi. Alla base della scelta la convinzione che l’atto, qualificato come pena secondo i principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, fosse ormai prescritto come indicato dall’articolo 173 del codice penale che prevede l’estinzione delle pene, dell’arresto e dell’ammenda dopo 5 anni. Una conclusione che parte da premesse sbagliate.
Il Procuratore della Repubblica chiede alla Cassazione di annullare un’ordinanza adottata senza tenere conto che l’ordine di demolizione, come affermato anche dalla dottrina, é una sanzione amministrativa di tipo ablatorio, accessoria alla sentenza di condanna impartita dal giudice penale. Il Pm nel suo ricorso sottolinea le differenze esistenti tra l’ordine di demolizione e la confisca, applicabile in caso di lottizzazione abusiva: distinguo che sottraggono la prima alla prescrizione.
l ricorso è fondato su solide ragioni. Per la Suprema corte il Tribunale si è concentrato, sbagliandone l’interpretazione sulla giurisprudenza di Strasburgo, senza considerare la vigente disciplina urbanistica (Dpr 380/2001) che regola la procedura di demolizione degli immobili abusivi. Nel mirino finisce il solo immobile “irregolare” che può essere demolito d’ufficio a prescindere dall’accertamento delle responsabilità. L’ordine di demolizione come sanzione amministrativa non presuppone, infatti, la sussistenza di un danno né un elemento psicologico del responsabile dell’abuso ed è applicabile, anche in caso di violazioni incolpevoli, tanto alle persone fisiche come a quelle giuridiche e agli enti di fatto e in alcuni casi persino “trasmissibile” agli eredi del responsabile o a chi acquista la disponibilità del bene.
Il provvedimento finalizzato alla demolizione ha una sua autonomia rispetto a quanto avviene in sede di processo penale tanto è vero -sottolinea la Cassazione- che neppure il sequestro penale dell’immobile è di ostacolo alla sua “distruzione”. Una lettura che non si pone in contrasto con le norme Cedu: per l’interpretazione di Strasburgo la demolizione, a differenza della confisca, non è una pena (sentenza 20.01.2009 caso Sud Fondi contro Italia)
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
3. Nel concentrare, infatti, l'attenzione sull'analisi della giurisprudenza della Corte EDU, il Tribunale ha del tutto omesso di considerare nel suo complesso l'articolata procedura relativa alla demolizione degli immobili abusivi delineata dalla vigente disciplina urbanistica.
L'art. 27 del d.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il potere dovere di vigilare, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale, al fine di assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il medesimo articolo, al comma 2, stabilisce che il dirigente o il responsabile dell'ufficio tecnico comunale, «quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi".
Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al R.D. 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora d.lgs. n. 42 del 2004), il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.
Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora articoli 13 e 14 del d.lgs. n. 42 del 2004) o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del Titolo Il del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora Parte Terza del d.lgs. n. 42 del 2004), il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662.
Si tratta, in tali casi, della c.d. demolizione d'ufficio, la quale non è preceduta da alcuna attività procedimentale finalizzata all'individuazione di soggetti responsabili o alla irrogazione di sanzioni, in quanto la norma attribuisce, al responsabile dell'ufficio tecnico ed agli altri soggetti indicati, la possibilità di diretta azione per la demolizione del manufatto abusivo durante tutto il corso della sua esecuzione ed in tutti i casi di contrasto con la disciplina urbanistica e gli strumenti urbanistici, da eseguirsi con le modalità indicate dall'art. 41 d.P.R. 380/2001.
Al di fuori delle ipotesi sopra ricordate, l'art. 27, comma 3, d.P.R. 380/2001 stabilisce che, «qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere».
li successivo comma 4 dispone, inoltre, che «gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti».
Per le opere eseguite da amministrazioni statali provvede l'art. 28 d.P.R. 380/2001, imponendo al responsabile del competente ufficio comunale, qualora ricorrano le ipotesi di cui all'articolo 27, di informare immediatamente la regione e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, al quale compete, d'intesa con il presidente della giunta regionale, la adozione dei provvedimenti previsti dal richiamato articolo 27.
4. Le disposizioni in precedenza ricordate prevedono, dunque, un immediato intervento demolitorio, effettuato d'ufficio sul solo presupposto della presenza sul territorio di un immobile abusivo, perché eseguito in assenza di titolo abilitativo o in difformità dalle norme urbanistiche o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, che prescinde da qualsivoglia accertamento di responsabilità, riguarda esclusivamente l'immobile ed ha, quale unico scopo, la sua eliminazione ed il ripristino dell'originario stato del territorio.
A ciò si aggiunge, per gli interventi diversi da quelli soggetti a demolizione d'ufficio, la possibilità di interventi cautelari urgenti di cui all'art. 27, comma 3, e la particolare procedura di segnalazione dell'abuso da parte della polizia giudiziaria di cui all'art. 27, comma 4, che vede distinti gli obblighi di segnalazione all'autorità giudiziaria ed a quella amministrativa per l'adozione dei provvedimenti di competenza di quest'ultima.
Il successivo art. 31 d.P.R. 380/2001 disciplina, inoltre, l'ingiunzione alla demolizione delle opere eseguite in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, disposizioni applicabili, secondo quanto disposto dal comma 9-bis del medesimo articolo, anche agli interventi eseguiti in base a d.i.a. sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R. 380/2001.
Accertata l'esecuzione di tali interventi, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve ingiungere al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che, in caso di inottemperanza , viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3 (il comma 4 stabilisce, inoltre, che l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente).
I successivi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, introdotti dalla legge 164/2014, prevedono anche, in caso di accertata inottemperanza, l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, la quale, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.
Le regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione. I proventi delle sanzioni spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
L'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del comune ha, quale finalità, la demolizione a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
Il comma 8 dell'art. 31 individua i poteri sostitutivi del competente organo regionale in caso di inerzia.
L'art. 31, al comma 9, infine, dispone che, per le opere abusive cui esso si riferisce, «il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita».
5. Come si evince dal complesso delle disposizioni appena richiamate,
la disciplina urbanistica individua la demolizione dell'abuso edilizio come un'attività avente finalità ripristinatorie dell'originario assetto del territorio imposta all'autorità amministrativa, che deve provvedervi direttamente nei casi previsti dall'art. 27, comma 2, o attraverso la procedura di ingiunzione.
Si tratta, come osservato anche dalla più attenta dottrina, di sanzioni amministrative che prescindono dalla sussistenza di un danno e dall'elemento psicologico del responsabile, in quanto applicabili anche in caso di violazioni incolpevoli, sono rivolte non solo alle persone fisiche, ma anche alle persone giuridiche ed agli enti di fatto e sono generalmente trasmissibili nei confronti degli eredi del responsabile (v., ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30.05.2011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene (v., ad es. Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 6554 del 24.12.2008. V. anche n. Cass. Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti, Rv. 245918).
La particolarità della demolizione ha portato, sempre in dottrina, anche a dubitare della riconducibilità della stessa nel novero delle sanzioni amministrative propriamente dette ed ha indotto ad operare anche una condivisibile distinzione tra natura «ripristinatoria» della demolizione, natura «riparatoria» dell'interesse pubblico leso dell'acquisizione gratuita e delle sanzioni pecuniarie alternative alla demolizione e natura «punitiva» delle sanzioni pecuniarie aggiuntive alla riduzione in pristino, nonché quelle conseguenti all'inottemperanza all'ingiunzione a demolire.
6. Va altresì rilevato che, considerato il complesso delle disposizioni sopra richiamate,
i provvedimenti finalizzati alla demolizione dell'immobile abusivo adottati dall'autorità amministrativa risultano completamente autonomi rispetto alle eventuali statuizioni del giudice penale e, più in generale, alle vicende del processo penale, tanto è vero che si è affermato, ad esempio, come il sequestro penale dell'immobile non sia ostativo alla demolizione (v., ad es,. Consiglio di Stato Sez. 6, n. 3626 del 09.07.2013; Sez. 4, n. 1260 del 06.03.2012. V. anche Cass. Sez. 3, n. 17188 del 24/03/2010, Marinelli, Rv. 247152; Sez. 3, n. 9186 del 14/01/2009, RM. in proc. Mancini e altro, Rv. 243098)
7.
Per ciò che concerne, in particolare, la demolizione ordinata dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R., 380/2001, va rilevato, in primo luogo, che la disposizione si pone in continuità normativa con il previgente art. 7 della legge 47/1985 (Sez. 3, n. 32211 del 29/05/2003, Di Bartolo, Rv. 225548) e costituisce atto dovuto del giudice penale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez.3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511 ed altre prec. conf. Ma si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo, Rv. 206659).
La disposizione, inoltre, si pone come norma di chiusura del complesso sistema sanzionatorio amministrativo in precedenza descritto (cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308 del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699).
Quanto alla sua natura, va osservato che trattasi di una sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio ed ha carattere reale.
Per tali ragioni, l'ordine di demolizione impartito dal giudice può essere revocato dallo stesso giudice che lo ha emesso quando risulti incompatibile con un provvedimento adottato dall'autorità amministrativa, indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza
(Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972; Sez. 3, n. 3456 del 21/11/2012 (dep.2013), Oliva, Rv. 254426; Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050 Sez. 3, n. 73 del 30/04/1992, Rizzo, Rv. 190604; Sez. 3, n. 3895 del 12/02/1990, Migno, Rv. 183768), ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto (Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep. 2011), D'Avino, Rv. 249309; Sez. 3, n. 6579 del 01/04/1994, Galotta ed altri, Rv. 198063; Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699, cit.).
Il giudice può inoltre emettere l'ordine di demolizione anche nell'ipotesi dell'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. indipendentemente dall'accordo delle parti ed esso resta eseguibile indipendentemente dal decorso del termine previsto dall'art. 445, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 18533 del 23/3/2011, Abbate, Rv. 250291), dovendosi escludere la sua natura di pena accessoria (Sez. 3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv. 240539; Sez. 6, n. 2880 del 10/06/2002 (dep. 2003), Gobbi, Rv. 223716; Sez. 3, n. 64 del 14/1/1998, P.M. in proc. Corrado F, Rv. 210128 ed altre prec. conf.), il che determina anche la inapplicabilità della sospensione condizionale della pena (Sez. 3, n. 34297 del 05/07/2007, Moretti, Rv. 237220; Sez. 3, n. 36555 del 09/07/2002, Prencipe, Rv. 222485; Sez. 3, n. 2294 del 18/06/1999, Neri F, Rv. 215070 ed altre prec. conf.).
In caso di omessa statuizione da parte del primo giudice, l'ordine può essere impartito dal giudice dell'appello (Sez. 5, n. 13812 del 11/11/1999, Giovannella F ed altro, Rv. 214608) o direttamente dalla Corte di cassazione (Sez. 3, n. 18509 del 15/1/2015, RG. in proc. Gioffrè, Rv. 263557; Sez. 3, n. 1365 del 18/09/1992, P.M. in proc. Marchese, Rv. 192057).
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce, come si è accennato in precedenza, la demolizione (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802; Sez. 3, n. 801 del 2/12/2010 (dep. 2011), Giustino e altri, Rv. 249129; Sez. 3, n. 45301 del 7/10/2009, Roscetti, Rv. 245213 ed altre prec. conf.), così come la sua locazione (Sez. 3, n. 37051 del 08/07/2003, Moressa, Rv. 226319) e l'ordine demolitorio non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317; Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 (dep. 2000), Barbadoro G, Rv. 215601).
La sua efficacia, poi, si estende all'intero manufatto, comprensivo di aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna per il reato edilizio (Sez. 3, n. 38947 del 9/7/2013, Amore, Rv. 256431; Sez. 3, n. 21797 del 27/4/2011, Apuzzo, Rv. 250389 ed altre prec. conf.). Esso opera anche in caso di avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale (Sez. 3, n. 26149 del 09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, Sentenza n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321).
8.
La natura dell'ordine di demolizione impartito dal giudice è stata presa in considerazione anche con riferimento alla questione oggetto del presente procedimento, concernente la eventuale estinzione dello stesso per il decorso del tempo.
Si è così stabilito che
l'ordine impartito dal giudice, che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non è soggetto alla prescrizione quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative dall'art. 28 della l. 689/1981, che riguarda le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176) e, stante la sua natura di sanzione amministrativa, non si estingue neppure per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del 7/7/2015, Formisano, non ancora massimata; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670), atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv. 226573).
9. I principi in precedenza menzionati sono pienamente condivisi dal Collegio, che ad essi intende dare continuità. Essi non si pongono, inoltre, in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU che il provvedimento impugnato richiama.
Va a tale proposito rilevato come questa Corte abbia già avuto modo di affermare la compatibilità dell'ordine di demolizione e del sequestro eseguiti dopo la cessione a terzi del manufatto abusivo con le norme CEDU, come interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403).
Si è in quell'occasione precisato che proprio considerando le argomentazioni sviluppate dalla Corte di Strasburgo poteva ricavarsi che
la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Si osservava, inoltre, che
la sentenza «nel mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive incompatibili con le disposizioni degli strumenti urbanistici eventualmente accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi. Sembra quindi confermato che la invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha escluso un sequestro o un ordine di demolizione dell'opera contrastante con le norme urbanistiche nei confronti di chiunque ne sia in possesso, anche qualora si tratti di terzo acquirente estraneo al reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai ricorrenti».
10. Tali considerazioni vanno qui ribadite, ricordando anche come autorevole dottrina abbia recentemente ricordato, nel commentare la «sentenza Varvara» (Corte EDU Varvara c. Italia, del 29/10/2013) e la lettura datane dalla Corte Costituzionale (sent. 49/2015), che le sentenze della Corte europea non vanno interpretate ricorrendo all'apparato concettuale e linguistico proprio del diritto interno, in quanto la Corte, quando non utilizza termini che richiamano espressamente il significato che essi hanno nel diritto nazionale, utilizza nozioni definite «autonome», rilevando anche come un diverso approccio potrebbe portare a incomprensioni o distorsioni foriere di gravi conseguenze.
11. Alla luce delle considerazioni sopra svolte deve dunque pervenirsi alla conclusione che
l'ordine di demolizione dell'immobile abusivo impartito dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, diversamente da quanto sostenuto nell'impugnato provvedimento, non ha affatto natura di sanzione penale nel senso individuato dalla normativa CEDU, ostandovi non soltanto la qualificazione giuridica attribuitagli attraverso l'analisi giurisprudenziale, dianzi ricordata, ma anche il fatto che la demolizione imposta dal giudice, come si è più volte rilevato in precedenza, non ha finalità punitive.
L'intervento del giudice penale si colloca, come pure si è detto, a chiusura di una complessa procedura amministrativa finalizzata al ripristino delle originario assetto del territorio alterato dall'intervento edilizio abusivo, nell'ambito del quale viene considerato il solo oggetto del provvedimento (l'immobile da abbattere), prescindendo del tutto dall'individuazione di responsabilità soggettive, tanto che la demolizione si effettua anche in caso di alienazione del manufatto abusivo a terzi estranei al reato, i quali potranno poi far valere in altra sede le proprie ragioni.
L'intervento del giudice penale, inoltre, non è neppure scontato, dato che egli provvede ad impartire l'ordine di demolizione se la stessa ancora non sia stata altrimenti eseguita.

12. Va conseguentemente affermato il seguente principio di diritto:
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio e sanatoria ordinaria: diversità di presupposti e finalità.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui sussiste il principio di “doppia conformità”) e l’istituto straordinario del condono edilizio operano, infatti, su presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da apposite normative che non possono, evidentemente, sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione (anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella prevista.

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Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed assorbenti le argomentazioni difensive con cui l’appellante sottolineava come la nuova configurazione del manufatto (in posizione rialzata rispetto al progetto originariamente assentito) fosse stata già oggetto di sanatoria, con successiva richiesta di condono edilizio solo per estinguere il reato paesaggistico.
Dette argomentazioni appaiono ragionevoli e non smentite dalla documentazione in atti, in cui si rinvengono certificato di assenza di danno ambientale (rectius: paesaggistico) in data 06.02.2003, concessione edilizia in sanatoria n. 2.653/1 del 26.03.2003, per “innalzamento quota d’imposta di fabbricato” e permesso di costruire in variante n. 2653/3 del 04.05.2004.
In tale contesto la domanda di condono edilizio, depositata il 04.03.2004, appare plausibilmente riconducibile all’intento enunciato dall’appellante, o a finalità tuzioristiche in rapporto ad eventuali iniziative dell’Amministrazione in via di autotutela (in effetti annunciate il 31.03.2003, ma della cui eventuale conclusione non si ha notizia).
L’atto di condono edilizio del 09.10.2006, in effetti, non poteva validamente riferirsi solo alle fondamenta e al piano interrato, posto che –come rilevato nella sentenza appellata– l’art. 32, comma 25, del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326, circoscrive l’oggetto della sanatoria alle “opere abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003”: circostanza, quest’ultima, non sussistente nel caso di specie.
Sotto il profilo in questione, pertanto, le conclusioni della medesima sentenza, nella parte riferita all’annullamento del condono edilizio, sono condivisibili, mentre non può dirsi altrettanto per l’affermazione, secondo cui tutti gli atti antecedenti al condono sarebbero stati assorbiti da quest’ultimo, il cui “travolgimento determinerebbe il venir meno dell’unico titolo legittimante l’intervento avversato”.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui sussiste il principio di “doppia conformità”) e l’istituto straordinario del condono edilizio operano, infatti, su presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da apposite normative che non possono, evidentemente, sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione (anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella prevista.
E’ vero che detta sanatoria e le successive varianti erano state oggetto del ricorso introduttivo e dei primi motivi aggiunti del controinteressato, signor Se.Sa.; ma tali argomentazioni difensive non sono state riproposte in appello, mentre l’improcedibilità risulta sostanzialmente contestata dall’appellante, che sottolinea le differenti sequenze procedimentali della sanatoria e del condono edilizio, con conseguente sopravvivenza della prima all’annullamento del secondo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.12.2015 n. 5624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASpecie in tema di misure pecuniarie, solo un provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria può sortire l’effetto di porre nel nulla, indistintamente, gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione all’abuso, mentre, per converso, un suo diniego non comporta l’onere per il comune di riattivare un procedimento sanzionatorio ormai completamente definito.
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- Rilevato che la ricorrente impugna una cartella esattoriale emessa dal concessionario per la riscossione del comune di Lamezia Terme con riferimento ad un’ordinanza-ingiunzione per il pagamento di una sanzione edilizia notificata il 17.12.2012 e non impugnata, formulando censure sia sul merito della pretesa, sia sulla ritualità formale della cartella;
- Ritenuto che, in materia edilizia, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo consente allo stesso una cognizione limitata alla sola legittimità dell’iscrizione a ruolo, per la mancanza del titolo legittimante o per l’esistenza di fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, senza possibilità di vagliare eventuali vizi dell’esecuzione, che devono essere fatti valere con l’opposizione agli atti esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c., da attivarsi nel caso in cui si contesti la ritualità formale della cartella esattoriale o si adducano vizi di forma del procedimento di esecuzione esattoriale, compresi quelli strettamente inerenti alla notifica della cartella o riguardanti i successivi avvisi di mora (cfr. Cass. civ, Sez. II, 22.02.2010 n. 4139; TAR Marche 17.05.2010 n. 389);
- Considerato che la parte ricorrente, nella parte ammissibile del gravame, sostiene che gli effetti dell’ordinanza ingiunzione sono venuti a meno in seguito alle due SCIA in sanatoria, da lei presentate al comune di Lamezia Terme in data 27.04.2012 ed in data 18.11.2012 e da questo mai decise;
- Ritenuto che, specie in tema di misure pecuniarie, solo un provvedimento favorevole all’esito dell’istanza di sanatoria può sortire l’effetto di porre nel nulla, indistintamente, gli atti sanzionatori in precedenza adottati in relazione all’abuso, mentre, per converso, un suo diniego non comporta l’onere per il comune di riattivare un procedimento sanzionatorio ormai completamente definito (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 18.04.2013 n. 335) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 10.12.2015 n. 1865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione ai lavori eseguiti su manufatti originariamente abusivi che non siano stati sanati, né condonati (ed anche se illegittimamente sanati o condonati), sono configurabili le fattispecie di illecito previste dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nello loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente.
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Nondimeno i primi due motivi di gravame non hanno alcun fondamento e tanto anche sotto altro e concorrente profilo.
Se anche, come sostiene il ricorrente attraverso uno dei profili della doglianza, egli ha eseguito lavori in relazione ad una preesistente veranda, anch'essa abusiva, l'illecito edilizio deve comunque ritenersi ampiamente sussistente, avendo questa Corte reiteratamente affermato il principio secondo il quale,
in relazione ai lavori eseguiti su manufatti originariamente abusivi che non siano stati sanati, né condonati (ed anche se illegittimamente sanati o condonati), sono configurabili le fattispecie di illecito previste dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nello loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano, Rv. 234472; Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2008, dep. 19/01/2009, P.M. in proc. Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014, Stewart ed altro Rv. 259665; Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014 Rossignoli ed altri, Rv. 261330) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48221 - tratto da www.lexambiente.it).

novembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: In tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali di cui agli articoli 1667, 1668 e 1669 del Cc, integrano, senza escluderne l’applicazione, i principi generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che, nel caso in cui l’opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il committente, convenuto per pagamento del prezzo, può, al fine di paralizzare la pretesa avversaria, opporre le difformità e i vizi dell’opera, in virtù del principio inadimplenti non est adimplendum, richiamato dal secondo periodo dell’ultimo comma dell’articolo 1667 del Cc, anche quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.
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1.= Con l'unico motivo di ricorso Sa.Cr.Gi. e Sa.Cr.Ro. denunciano la violazione di norma di diritto in relazione all'art. 1460 cc. (art. 360 n. 3 cpc.).
Secondo i ricorrenti, avrebbe errato il Tribunale di Cagliari laddove ha affermato che l'art. 1460 cc non poteva trovare applicazione alla fattispecie oggetto del giudizio perché i committenti di un'opera, convenuti in giudizio per il pagamento del saldo del prezzo pattuito, possono legittimamente sollevare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 cc. nel caso in cui l'opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche e risulti non perfettamente funzionante anche qualora non si siano avvalsi della garanzia per difformità e vizi dell'opera di cui all'art. 2226 cc o siano decaduti per non aver denunciato tempestivamente le difformità e i vizi medesimi ovvero l'azione sia prescritta.
1.1.= Il motivo è infondato.
Questa Corte ha ripetutamente precisato che
in tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali di cui agli artt. 1667, 1668 e 1669 cod. civ. integrano -senza escluderne l'applicazione- i principi generali in materia di inadempimento delle obbligazioni, con la conseguenza che, nel caso in cui l'opera sia stata realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche, il committente, convenuto per il pagamento del prezzo, può -al fine di paralizzare la pretesa avversaria- opporre le difformità e i vizi, dell'opera, in virtù del principio "inadimplenti non est adimplendum", richiamato dal secondo periodo dell'ultimo comma dell'art. 1667 cod. civ., anche quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta (Cass. n. 4446 del 20/03/2012).
Tuttavia,
è opportuno evidenziare che l'art. 1667 cc., ma lo stesso vale per la normativa di cui all'art. 2226 cc., specifica che il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia purché le difformità o i vizi siano stati denunziati entro (otto giorni e/o) sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna. Ciò significa che il committente convenuto per il pagamento del corrispettivo non ha possibilità di opporre le difformità e i vizi dell'opera, in virtù del principio "inadimplenti non est adimplendum", se i vizi o le difformità non siano stati denunciati nei tempi previsti.
D'altra parte, se così non fosse, verrebbe vanificata la portata dell'art. 2226 cc. e/o dell'art. 1667 cc, cioè, la necessità di una tempestiva denuncia dei vizi e delle difformità da parte del committente, perché sarebbe facilmente superabile.
Ora, la decisione impugnata si è uniformata, correttamente, a questi principi.
Come è stato affermato:
a) gli opponenti non hanno mai contestato che gli impianti di riscaldamento commessi al Meloni fossero stati effettivamente dallo stesso installati nelle abitazione di loro proprietà;
b) gli opponenti non hanno fornito in giudizio compiuta dimostrazione dell'avvenuto inoltro di tempestiva denuncia entro il termine di otto giorni dalla scoperta del vizio, relativo ad un mal funzionamento della caldaia, denunciato, come sembra, con lettera del 20.10.2004 e, cioè, quasi un anno dopo l'avvenuta consegna dell'opera.
Sicché, alla luce delle emergenze istruttorie ed, in particolare, considerata l'irrimediabile tardività della denuncia dei vizi da parte dei committenti, odierni ricorrenti, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto che nel caso concreto non potesse trovare applicazione la normativa di cui all'art. 1460 cc..
In definitiva, il ricorso va rigettato e i ricorrenti, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 cpc, condannati in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo.
Il Collegio, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del DPR 115 del 2002 da atto che sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma i-bis dello stesso art. 13 (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 30.11.2015 n. 24400).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sanabilità di interventi realizzati su opere abusive, sulle quali penda procedimento di condono, questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che siano stati espressi i pareri delle competenti amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi, non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o parere favorevole, che sia)”.

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La seconda questione attiene alla sanabilità di interventi realizzati su opere abusive, sulle quali penda procedimento di condono.
Al riguardo, questo Tribunale ha avuto modo di chiarire che:
- “non può … dubitarsi della legittimità dell’ordine [di demolizione] impartito dall’amministrazione posto che in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del comune di ordinarne la demolizione, senza quindi che possa assumere rilievo ultroneo natura e consistenza delle lavorazioni”;
- “quanto sopra non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985” ove ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica;
- “detta norma consente … il completamento sotto la propria responsabilità di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi” e “per i lavori di completamento delle opere di cui all’art. 32 (ovvero per quelli ricadenti in aree assoggettate a vincoli rimuovibili), solo dopo che siano stati espressi i pareri delle competenti amministrazioni”;
- sicché “anche ove qui si vertesse in tale ultima ipotesi, non si sarebbe potuto dar corso a lavorazione alcuna senza far ricorso alla procedura sopra descritta e senza quindi aver acquisito la previa autorizzazione paesaggistica (o parere favorevole, che sia)” (TAR Campania, Napoli, VI, sent. 24017/2010).
Le considerazioni sopra riportate sorreggono dunque la legittimità della determinazione, soprintendentizia prima e comunale poi, di non sanare opere realizzate su un manufatto allo stato attuale non legittimo (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.11.2015 n. 2530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, la Cassazione chiarisce quando un reato urbanistico è penale.
La consistenza dell'intervento abusivo è solo uno dei parametri.
La consistenza dell'intervento abusivo -tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione ai fini dell'applicazione dell'articolo 131-bis del Codice penale per le violazioni urbanistiche e paesaggistiche.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 27.11.2015 n. 47039.
GLI ALTRI ELEMENTI DA CONSIDERARE. “Riguardo agli aspetti urbanistici –sottolinea la Cassazione- assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento”.
Per la suprema Corte “Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, (...) la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali)” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Asti, con sentenza del 13/04/2015 ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Al.DE. per essere il reato a lui ascritto non punibile per particolare tenuità.
Il predetto era chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 181 d.lgs. 42/2004 e 44, lett. c), d.P.R. 380/2001, per aver eseguito, in assenza del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, su terreno di proprietà comunale, una tettoia poggiante su un immobile di proprietà di Pi.LA. ed oggetto di ordine di demolizione e su tre pilastri in legno di cm. 20x20 imbullonati nella pavimentazione, con copertura di onduline, con occupazione di circa m. 5,15 per 6,00, con altezza di intradosso centrale di m. 3,50 circa e di intradosso laterale di m. 2,83 circa, nonché di una tettoia poggiante sull'immobile e cinque pilastri in legno di cm. 10x10 imbullonati, con occupazione di m. 4,50x6,00 circa, altezza di intradosso interno m. 2,45, altezza di intradosso esterno m. 2,05 circa (in Carmagnola, nel febbraio 2013, accertamento in sede di sopralluogo il 25/07/2013).
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un unico motivo di ricorso lamenta l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione, rilevando, in primo luogo, che il giudice del merito avrebbe pronunciato sentenza ai sensi dell'art. 469 cod. proc. pen. nonostante la motivata opposizione del Pubblico Ministero, ritenendo erroneamente non riferibile al comma 1-bis della menzionata disposizione codicistica la previsione di cui al primo comma, che subordina la pronuncia della sentenza predibattimentale alla non opposizione delle parti.
Per tali ragioni, rileva, emettendo sentenza predibattimentale nonostante l'opposizione di una delle parti, il Tribunale sarebbe incorso in una nullità di cui all'art. 178 cod. proc. pen..
Rileva, poi, che la sentenza sarebbe caratterizzata da una non corretta valutazione dei presupposti di applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., che sarebbero mancanti in considerazione della natura e consistenza dell'opera realizzata e della abitualità del comportamento desumibile dalla permanenza della condotta posta in essere.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
19.
Per ciò che concerne, in particolare, le violazioni urbanistiche e paesaggistiche, che qui interessano, deve ritenersi che la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione.
Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, come si è accennato in precedenza, la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
20. Date tali premesse, deve rilevarsi come la valutazione operata dal giudice del merito nel riconoscere la particolare tenuità del fatto risulta limitata e parziale, in quanto si sofferma, come rilevato anche in ricorso, esclusivamente sulle caratteristiche costruttive e dimensionali delle opere e sulla loro destinazione. La verifica effettuata, inoltre, tralascia completamente di considerare alcuni dati fattuali individuabili dalla mera lettura dell'imputazione, la cui sussistenza non viene posta in discussione e rispetto ai quali la motivazione della sentenza impugnata si pone palesemente in contraddizione.
21. Sebbene assuma aspetto decisivo, ai fini del giudizio di particolare tenuità della condotta, per le ragioni dianzi dette, la contestuale violazione della disciplina urbanistica e paesaggistica, per il fatto che la contestazione dell'art. 181 d.lgs. 42/2004 sia stata del tutto ignorata, va anche rilevato che, a fronte della positiva valutazione sulla non particolare modificazione del territorio e sulla destinazione dell'intervento, nulla si dice sul fatto che, nell'imputazione, viene precisato che le opere sono state eseguite su area di proprietà comunale, né si considera che l'imputazione medesima specifica che le tettoie sono state realizzate in adiacenza di immobile (di proprietà di altro soggetto) oggetto di ordine di demolizione e, pertanto, verosimilmente abusivo.
Si tratta, anche in questo caso, di un dato non indifferente, che avrebbe dovuto essere oggetto di specifica valutazione, atteso che,
secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve, in generale, ritenersi preclusa ogni possibilità di intervento su immobili abusivi non condonati o sanati, perché essi, anche quando siano riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014, Rossignoli e altri, Rv. 261330; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014, Stewart e altro, Rv. 259665; Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.M. in proc. Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi, Rv. 235382; Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano, Rv. 234472). Una simile condotta, pertanto, si risolverebbe in un ulteriore aggravamento di un abuso preesistente.
22. In ricorso viene, infine, correttamente censurata anche
la errata qualificazione delle opere realizzate come precarie, come evidenzia il riferimento del giudice del merito alla loro «provvisorietà», dedotta sulla base delle caratteristiche costruttive, essendo tali, invece, quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità (cfr. art. 6 d.P.R. 380/2001), ciò in quanto tale precarietà risulta esclusa dalla stabile destinazione alle esigenze abitative riconosciuta dal Tribunale e stigmatizzata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.11.2015 n. 47039).

URBANISTICAIn base all'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 “Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti,
è configurata una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre “la destinazione a scopo edificatorio”, mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. “materiale”, o anche solo “negoziale” e tali da giustificare l’adozione di severe misure repressive (art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, “ove non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva –figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive)– non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca casistica giurisprudenziale,
una lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di complessi ad uso commerciale o direzionale– previa suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento –programmato o in corso di realizzazione– ma alle finalità ed alle conseguenze dello stesso, in termini di “peso insediativo” sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici.
La norma di riferimento, sopra riportata
, per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di un’ampia porzione di territorio (“di terreni”), non esclude in sé che la lottizzazione possa avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in una situazione, che rende oggettivamente più difficile la configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed assorbenti, nel caso di specie, le censure riferite ad omessa puntuale individuazione dei presupposti della lottizzazione abusiva, quali desumibili dal citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla citata norma “
Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti,
è configurata una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre “la destinazione a scopo edificatorio”, mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. “materiale”, o anche solo “negoziale” e tali da giustificare l’adozione di severe misure repressive (art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, “ove non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva –figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive)– non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca casistica giurisprudenziale,
una lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di complessi ad uso commerciale o direzionale– previa suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento –programmato o in corso di realizzazione– ma alle finalità ed alle conseguenze dello stesso, in termini di “peso insediativo” sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici (cfr. in senso sostanzialmente conforme, tra le tante, Cons. Stato, VI, 29.01.2015, n. 410; 07.08.2015, n. 3911, 26.05.2015, n. 2649).
La norma di riferimento, sopra riportata, per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di un’ampia porzione di territorio (“di terreni”), non esclude in sé che la lottizzazione possa avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in una situazione, che rende oggettivamente più difficile la configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nella situazione in esame non è contestata la preesistenza di due immobili, su cui risulta effettuata una ristrutturazione con mutamento di destinazione d’uso, con nuove opere di urbanizzazione che appaiono, tuttavia, limitate alla realizzazione di parcheggi (oltre all’ammodernamento di altre infrastrutture già esistenti), in un contesto che già sotto tale profilo non avalla, con la necessaria consistenza di elementi indiziari, l’ipotesi lottizzatoria, non emergendo la finalità caratteristica di sottoporre a nuova edificazione terreni non urbanizzati, corrispondenti a porzioni di un certo rilievo del territorio.
La stessa Amministrazione, con la prima ordinanza di sospensione dei lavori n. 396 del 05.05.2009, preannunciava ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 (comunicazione di avvio del procedimento) l’adozione di “provvedimenti sanzionatori” e –non senza intrinseca contraddittorietà– ingiungeva la demolizione di quanto realizzato, senza però contestare la lottizzazione. Il giudice di primo grado interpretava quindi l’atto in questione come mero ordine di sospensione dei lavori, ormai privo di efficacia.
La misura tipica, di cui all’art. 30 del T.U., veniva quindi emessa con l’impugnata ordinanza n. 30 del 25.01.2010, cui faceva seguito la mera ricognizione di intervenuta acquisizione dell’area, con atto n. 36057 del 24.06.2010.
Nella citata ordinanza n. 30 del 2010, in particolare, appaiono recepite le conseguenze di un’ipotesi di reato (lottizzazione abusiva) emersa in sede penale, ma che in via amministrativa non appare suffragata da nuovi accertamenti, in quanto la descrizione dell’intervento coincide con quella, già in precedenza formulata per la sospensione dei lavori.
Non modifica sostanzialmente tale stato di fatto la generica enunciazione secondo cui –sulla base di non meglio precisati “approfondimenti e valutazioni tecniche”– le opere realizzate sarebbero apparse “riconducibili ad opere di urbanizzazione che per la loro entità, o, in altri termini, per le loro caratteristiche dimensionali e funzionali” avrebbero comportato “uno stravolgimento dei luoghi, finalizzato allo svolgimento di attività incompatibili con la normativa vigente”; tali opere pertanto, “nella loro complessità”, avrebbero determinato una “trasformazione edilizia ed urbanistica tale, da configurare una lottizzazione abusiva”.
La motivazione così sintetizzata, in effetti, appare in buona parte tautologica e tale da non evidenziare i concreti elementi in base ai quali le edificazioni preesistenti, con l’aggiunta di parcheggi e nella nuova dimensione direzionale, avrebbero tanto profondamente modificato l’assetto del territorio da essere equiparabili all’introduzione di un nuovo insediamento in area non ancora urbanizzata (come avrebbe potuto ritenersi, ad esempio, in presenza di un centro direzionale o commerciale di consistenti dimensioni, realizzato in località inedificata, o interessata in precedenza da sporadiche costruzioni rurali, con esigenze infrastrutturali del tutto diverse).
Molto meno incisiva, rispetto a quella in astratto descritta, è la situazione sottoposta a giudizio, in cui non è contestato che i fabbricati, resi oggetto di mutamento di destinazione d’uso, fossero già in precedenza estranei all’uso agricolo dei terreni, così come non è contestato che gli stessi non siano stati radicalmente trasformati, rispetto all’originaria consistenza e che fossero già serviti –tranne per quanto riguarda i parcheggi– da opere di urbanizzazione primaria.
In tale contesto –pur restando salvi i provvedimenti che l’Amministrazione è tenuta ad adottare, in presenza di opere edilizie sprovviste dei necessari titoli abilitativi e non assentibili– il Collegio ritiene che non siano stati adeguatamente rappresentati i presupposti della lottizzazione abusiva, con conseguente illegittimità dei provvedimenti impugnati e con assorbimento di ogni ulteriore motivo di gravame.
L’appello può dunque essere accolto, con le conseguenze precisate in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.11.2015 n. 5328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può configurarsi come elemento meramente accessorio dell'edificio, la realizzazione di una canna fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.”.
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in cotto.
Né peraltro, la costruzione di canne fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che le stesse producono una modifica dei prospetti dell’edificio.
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Non appare rilevante, in favore del ricorrente, il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso di un significativo intervallo temporale tra la realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera ragionevolmente certa la colpevole inerzia dell’amministrazione.

Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di specie, non può sostenersi essersi verificata.
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L’attribuzione all’opera (abusiva) contestata di un nome diverso da quello in concreto pertinente, non è da sola sufficiente per compromettere la legittimità dell’atto sanzionatorio, soprattutto laddove, al di là del profilo nominalistico, l’amministrazione ne individui esattamente la collocazione, la consistenza, i materiali e le caratteristiche. Nel caso specifico, non vi sono dubbi né contestazioni sull’esatta identificazione di questi elementi.
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La consistenza e la natura dei due manufatti difformi dalla licenza di costruzione non possono che risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono obiettivamente destituite di fondamento.

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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 28.11.2012 del Dirigente del settore, notificata il successivo 6 dicembre, con cui si intima la demolizione di opere asseritamente abusive.
...
6.- I tre motivi di censura possono essere trattati congiuntamente, in relazione agli evidenti profili di connessione argomentativa negli stessi presenti.
6.1.- Va, in primo luogo, smentita la premessa dalla quale poi generano le molteplici censure a vario titolo sollevate dal ricorrente, ossia le modeste dimensioni della canna fumaria.
Come rilevato dal sopralluogo dell’U.T.C., condotto in data 19.05.2012 –che si ritiene opportuno riportare integralmente- risultano i seguenti manufatti: “A margine dell'ala del piano seminterrato posta in aggetto alla facciata est del fabbricato per civile abitazione strutturato su quattro livelli, risulta ubicata una canna fumaria che si eleva per circa ml. 3,00 sul terrazzo a livello del piano rialzato, distante dalla facciata circa mt. 4,10. Su tale facciata risultano esposte ad altezza superiore rispetto alla sommità della canna fumaria ed in direzione della stessa, una finestra appartenente al primo piano ed un'altra appartenente al secondo piano. I piani seminterrato e rialzato costituiscono l'appartamento abitato dal sig. De Si. come sopra generalizzato.
La suddetta canna fumaria, rivestita con scaglie di pietra, si erge, come già accennato, a margine del terrazzo lato est del piano rialzato incastonata nel parapetto che delimita il terrazzo; ai lati della canna fumaria si elevano sul parapetto, due pilastrini rivestiti con mattoncini di cotto di altezza circa mt. 1,50 mentre altri due risultano posizionati ai margini ed in aderenza alla parete retrostante; sulla sommità dei suddetti pilastrini e nella parte alta della canna fumaria risulta ancorata tramite traverse, una tettoia di legno lamellare reticolare priva di copertura, costituente ingombro di superficie circa mq. 20
.”.
Quanto sopra lascia intendere che l’opera, per la superficie che occupa e per l’altezza che sviluppa non può essere minimizzata. In ogni caso, a prescindere dalle dimensioni, la stessa è conseguente ad una evidente intervento in difformità ad una licenza di costruzione.
6.2.- E’ quindi applicabile, al caso di specie, quell’orientamento giurisprudenziale (Tar Venezia, sez. II, 825/2013) secondo cui “
non può configurarsi come elemento meramente accessorio dell'edificio, la realizzazione di una canna fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.” (cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 4005/2012).
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in cotto.
6.3.-
Né peraltro, la costruzione di canne fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che le stesse producono una modifica dei prospetti dell’edificio.
Ciò è tanto più rilevante sotto il profilo urbanistico ove si consideri che il comune di Trecase è incluso nell’ambito del Piano Territoriale Paesistico dell’area Vesuvio, di cui al decreto ministeriale 14.12.1995, redatto ai sensi dell'art. 1-bis della legge 08.08.1985 n. 431.
Nello specifico, come emerge dalla stessa relazione peritale di parte, la proprietà del ricorrente ricade in zona R.U.A. (Recupero Urbanistico-Edilizio Restauro Paesistico-Ambientale), con possibilità di interventi di ristrutturazione edilizia e di adeguamento igienico-sanitario e tecnologico delle unità abitative.
Quest’ultima circostanza, tuttavia, non è comunque idonea a superare l’esigenza, anche ai fini del rispetto dei vincoli paesaggistico-ambientali, di ottenere il preventivo nullaosta, laddove, com’è accaduto, si verifichino alterazioni prospettiche e volumetriche rispetto al preesistente stato dei luoghi.
6.4.-
Né, in favore del ricorrente, appare rilevante il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso di un significativo intervallo temporale tra la realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera ragionevolmente certa la colpevole inerzia dell’amministrazione.

Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di specie, non può sostenersi essersi verificata (TAR Umbria, Perugia, sez. I, 21.01.2010, n. 23).
6.5.- Non risolutiva appare poi la censura relativa all’erronea qualificazione che il comune avrebbe formulato sull’altro manufatto, indicato erroneamente come “tettoia”, in luogo del più appropriato “pergola pompeiana”.
L’attribuzione all’opera contestata di un nome diverso da quello in concreto pertinente, non è da sola sufficiente per compromettere la legittimità dell’atto sanzionatorio, soprattutto laddove, al di là del profilo nominalistico, l’amministrazione ne individui esattamente la collocazione, la consistenza, i materiali e le caratteristiche. Nel caso specifico, non vi sono dubbi né contestazioni sull’esatta identificazione di questi elementi.
Sicché la censura non può essere seguita.
7.- Infine, con il quarto motivo il ricorrente censura, in via subordinata, la violazione dell’art. 12 Legge n. 47/1985 e dell’art. 34 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere per difetto di motivazione, lo sviamento nella forma sintomatica dell’ingiustizia manifesta.
Nell’ipotesi in cui si ritenga che le opere realizzate siano comunque soggette al controllo dell’amministrazione comunale, il ricorrente si duole del fatto che quest’ultima non avrebbe comunque valutato l’incidenza della disposta demolizione sull’intera struttura né avrebbe in alcun modo esaminato l’eventualità di applicare, in luogo della più invasiva misura demolitoria, una sanzione pecuniaria, come espressamente contemplato dall’art. 12 L. n. 47/1985, recepito dall’art. 34 d.p.r. 380/2001.
La censura non può essere presa in considerazione.
Come appurato in esito all’esame delle precedenti censure,
la consistenza e la natura dei due manufatti difformi dalla licenza di costruzione non possono che risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono obiettivamente destituite di fondamento.

8.- Per quanto sopra, il ricorso va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 23.11.2015 n. 5424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusi edilizi e della data certa di commissione degli stessi, la presentazione di dichiarazioni sostitutive di atto notorio non sono sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale consistenza.
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Benché in giurisprudenza non manchino sul punto diversi indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce all’orientamento già affermato in diverse pronunce della Sezione secondo il quale la qualità di utilizzatore di un immobile realizzato abusivamente in assenza di titolo abilitativo sul demanio o sul patrimonio di enti pubblici, è sufficiente ad individuarlo come destinatario dell’ordine di ripristino senza che vi sia la necessità di accertare chi ha concretamente realizzato l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione”.
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente dall’averli realizzati.
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Sono infondate le censure di cui al secondo motivo, con le quali i ricorrenti lamentano la mancata considerazione del lungo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso, il formarsi di un legittimo affidamento a causa della tolleranza da parte dell’Amministrazione che non è intervenuta prima a reprimere gli abusi nonostante ne fosse a conoscenza ed il difetto di motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato, rispetto al quale non può assumere rilevanza l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti, e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.

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Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
La censura di cui al primo motivo con la quale i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, perché l’ordine di demolizione non è stato rivolto nei confronti degli autori degli abusi, ma nei loro confronti che sono gli assegnatari degli alloggi, non può essere condivisa.
In primo luogo va osservato che non è stata data una prova certa circa la data della commissione degli abusi, dato che sono state allegate solo delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio prodotte dagli stessi interessati che non sono sufficienti a tal fine, essendo eventualmente necessari inconfutabili atti o documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrano la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione dei manufatti nella loro attuale consistenza.
In secondo luogo, benché in giurisprudenza non manchino sul punto diversi indirizzi interpretativi, il Collegio aderisce all’orientamento già affermato in diverse pronunce della Sezione (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 30.01.2014, n. 121; id. 15.02.2013, n. 222), secondo il quale la qualità di utilizzatore di un immobile realizzato abusivamente in assenza di titolo abilitativo sul demanio o sul patrimonio di enti pubblici, è sufficiente ad individuarlo come destinatario dell’ordine di ripristino senza che vi sia la necessità di accertare chi ha concretamente realizzato l’abuso.
Come è stato osservato infatti “l’ordine di demolizione non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo integrante responsabilità a carico del suo destinatario, né è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio avendo la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi conseguente alla rimozione delle opere abusive. Per tale ragione l’ordine di demolizione deve essere rivolto a colui che abbia la disponibilità materiale dell’opera abusiva, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, aspetto che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell’ordine di demolizione” (in tali termini, con riferimento alla disciplina di cui all’art. 35, cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 31.07.2012, n. 3710; id. 24.07.2012, n. 3567).
Atteso che la speciale disciplina di cui all’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, che non prevede l'irrogazione di sanzioni pecuniarie, trova la sua giustificazione nella peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici in assenza di un idoneo titolo abilitativo, e che l’eliminazione degli abusi è necessaria per ripristinare il corretto assetto del territorio, il Collegio ritiene che l’ordine di demolizione possa pertanto essere legittimamente rivolto anche a chi abbia l’oggettiva disponibilità dell’area sulla quale sono stati rinvenuti i manufatti abusivi, indipendentemente dall’averli realizzati.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere respinte.
Sono parimenti infondate le censure di cui al secondo motivo, con le quali i ricorrenti lamentano la mancata considerazione del lungo lasso di tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso, il formarsi di un legittimo affidamento a causa della tolleranza da parte dell’Amministrazione che non è intervenuta prima a reprimere gli abusi nonostante ne fosse a conoscenza ed il difetto di motivazione.
Tali doglianze non possono essere accolte in quanto, come è stato osservato, l’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, essendo volto a tutelare le aree demaniali o di enti pubblici dalla costruzione di manufatti da parte di privati configura un potere di rimozione che ha carattere vincolato, rispetto al quale non può assumere rilevanza l'approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti, e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr. Tar Liguria, 05.06.2014, n. 873).
Inoltre l’assunto secondo il quale l’Amministrazione avrebbe tollerato l’abuso nonostante fosse a conoscenza dello stesso è priva di riscontri.
Infatti non sono significativi, al fine di comprovare tale evenienza, né la circostanza che dei dipendenti dell’ente gestore delle unità abitative di edilizia residenziale pubblica siano transitati attraverso lo scoperto condominiale in occasione dei rinnovi dei contratti, perché è verosimile, come controdedotto dal Comune, che gli stessi non fossero consapevoli dell’abusività dei manufatti, emersa solo in tempi recenti, né la circostanza che uno dei contratti, quello della Sig.ra Si.Br., menzioni, quale oggetto della locazione, anche il garage, atteso che, come chiarito dal difensore del Comune in sede di trattazione orale, per il rinnovo dei contratti sono utilizzati dei moduli prestampati che recano anche l’indicazione del garage.
Per tutti gli altri contratti tale indicazione è stata cancellata con un tratto di penna, mentre solo per un errore materiale la medesima non è stata cancellata nel contratto della Sig.ra Si.Br..
Fermo restando che la menzione del garage nel contratto è comunque inidonea a sanare il carattere abusivo delle opere, è evidente che essendo dovuta ad un errore, non è neppure idonea a comprovare la consapevolezza e la tolleranza delle stesse.
Pertanto in un contesto nel quale la menzione del garage è dovuta ad un errore, tale circostanza risulta inidonea a comprovare la consapevolezza e la tolleranza dell’opera abusiva da parte del Comune, fermo restando che un’eventuale menzione del garage nel contratto anche se voluta non potrebbe comunque sanare il carattere abusivo delle opere.
Ciò premesso, tenuto conto che il mero trascorrere del tempo non può sanare l’abusività dei manufatti, che non è ravvisabile un affidamento incolpevole meritevole di tutela in capo ai ricorrenti, e che il Comune ha accertato che i garage realizzati limitano gli spazi scoperti comuni del condominio da parte degli altri assegnatari degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non sufficientemente ampi per consentire che ogni unità abitativa sia munita di garage, circostanza quest’ultima che rende comunque prevalente l’interesse pubblico alla demolizione rispetto a quello privato di chi utilizza i manufatti abusivi, il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio esclusiva di stato. La Consulta: i criteri li fissa il governo.
In tema di condono edilizio «straordinario» spettano alla legislazione statale e non a quella regionale, le scelte di principio sul versante della sanatoria amministrativa, la decisione sul se disporre, nell'intero territorio nazionale, di un condono straordinario e l'individuazione delle volumetrie massime condonabili.

Questo è il principio espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 19.11.2015 n. 233 di in merito alla legittimità costituzionale sollevate dal presidente del consiglio dei ministri degli articoli 25, 26 e 27 della legge n. 65/2014 della Regione Toscana.
Ricordano i giudici della corte costituzionale che si è in presenza di una normativa riferibile ad opere e interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla stessa legge regionale Toscana, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente alla materia «governo del territorio» nel cui ambito alle regioni spetta l'adozione di una disciplina legislativa di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
In particolare, per tali opere e interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli articoli 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale l'applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie, per le ipotesi in cui la valutazione discrezionale dell'autorità comunale competente per territorio conduca ad escludere la persistenza di un interesse attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle somme corrispondenti alle sanzioni amministrative pecuniarie (differenziate a seconda dell'epoca di realizzazione e ultimazione delle opere e degli interventi edilizi, e ricadenti all'esterno della perimetrazione dei centri abitati) «non determina la legittimazione dell'abuso» (articolo ItaliaOggi del 21.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEsula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato».
A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale.

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SENTENZA
... nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26, 27, 207 e 208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9-15.01.2015, depositato in cancelleria il 13.01.2015 ed iscritto al n. 3 del registro ricorsi 2015.
...
1.2.– Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri censura gli artt. 207 e 208 della legge della Regione Toscana n. 65 del 2014.
Le norme censurate disciplinano le conseguenze di opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati, in assenza di titolo abilitativo o in difformità dal medesimo, rispettivamente in data anteriore al 01.09.1967, ossia al momento dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.942, n. 1150), o in data anteriore al 17.03.1985, corrispondente all’entrata in vigore della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), sul primo condono edilizio.
In particolare, il citato art. 207 differenzia la disciplina a seconda della collocazione degli immobili. Se essi ricadono all’interno della perimetrazione dei centri abitati (come definita all’epoca della realizzazione della condotta), si prevede che il Comune possa valutare la persistenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità urbanistica violata mediante rimessione in pristino: in caso di esito positivo di tale scrutinio, è disposta l’applicazione delle sanzioni, ripristinatorie e pecuniarie, di cui agli artt. 196, 199, 200 e 206 della medesima legge regionale; in caso di valutazione negativa in ordine alla persistenza dell’interesse pubblico, si prevede esclusivamente l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in misura ridotta per le opere e gli interventi conformi agli strumenti urbanistici comunali attualmente vigenti, e con la possibilità di consentire, con apposito piano operativo, ulteriori interventi su tali immobili.
Se, invece, gli immobili ricadono all’esterno della perimetrazione dei centri abitati (sempre come definita all’epoca della realizzazione dell’opera), si prevede che siano considerati «consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
L’art. 208, per le opere e gli interventi edilizi anteriori al 17.03.1985, detta una disciplina analoga a quella innanzi descritta, ma differenziando le sanzioni pecuniarie a seconda che le opere o gli interventi siano stati realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, ed escludendo, questa volta, distinzioni tra manufatti ricadenti o non all’interno della perimetrazione dei centri abitati.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene, in primo luogo, che tali disposizioni, in quanto limitanti l’applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 196, 199, 200 e 206 della legge regionale impugnata alle sole opere per le quali sia ritenuto persistente l’interesse pubblico alla rimessione in pristino e, se anteriori al 01.09.1967, solo se ricadenti all’interno del perimetro del centro abitato, si porrebbero in contrasto con gli artt. 27, 31, 33, 34 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia – Testo A), che configurano l’esercizio del potere comunale di vigilanza e repressione degli abusi edilizi come un obbligo e non come una facoltà, senza che sia necessario accertare la ricorrenza attuale di ragioni di pubblico interesse e senza prevedere alcun termine di decadenza o di prescrizione per l’esercizio dei poteri repressivi comunali.
Di qui la prospettata violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi fondamentali nella materia del governo del territorio.
Considerati i descritti effetti conservativi legati all’irrogazione di mere sanzioni pecuniarie, la medesima norma costituzionale sarebbe stata violata, a giudizio dell’Avvocatura generale dello Stato, anche per l’introduzione di una «surrettizia forma di condono», con conseguente invasione della competenza legislativa statale, essendo sottratta alla potestà legislativa regionale qualsiasi forma di sanatoria straordinaria delle opere abusive.
Per tale ragione, le norme censurate interferirebbero con le disposizioni in materia di sanzioni civili e penali previste dal testo unico sull’edilizia in tema di reati edilizi, e violerebbero così anche l’art. 117, secondo comma, lettera s) (rectius: lettera l), Cost., che riserva alla potestà legislativa esclusiva statale la materia «ordinamento civile e penale».
...
3.– Il secondo motivo di ricorso è fondato, poiché gli impugnati artt. 207 e 208 della legge regionale n. 65 del 2014 sono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.– È opportuno sottolineare preliminarmente che il tenore letterale delle disposizioni impugnate consente agevolmente di definire l’oggetto dell’intervento legislativo regionale e l’ambito materiale cui questo risulta ascrivibile. Infatti, le rubriche delle due disposizioni, e, in particolare, i commi 1 e 4 dell’art. 207 ed il comma 1 dell’art. 208 fanno esplicito riferimento a «sanzioni ed opere per interventi edilizi abusivi», e ad opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati «in assenza di titolo abilitativo o in difformità dal medesimo».
Si è in presenza di una normativa riferibile ad opere e interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla stessa legge regionale, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente alla materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis e da ultimo, sentenze n. 272 e n. 102 del 2013), nel cui ambito alle Regioni spetta l’adozione di una disciplina legislativa di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (sentenze n. 167 del 2014 e n. 401 del 2007).
In particolare, per tali opere ed interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli artt. 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale (delineata sulla falsariga di quella prevista in generale dalle norme statali del testo unico sull’edilizia), l’applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie, per le ipotesi in cui la valutazione discrezionale dell’autorità comunale competente per territorio conduca ad escludere la persistenza di un interesse attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle somme corrispondenti alle sanzioni amministrative pecuniarie –differenziate a seconda dell’epoca di realizzazione ed ultimazione delle opere e degli interventi edilizi, con esclusione di quelli anteriori al 01.09.1967 e ricadenti all’esterno della perimetrazione dei centri abitati– «non determina la legittimazione dell’abuso» (comma 3 di entrambi gli articoli), le norme impugnate producono due evidenti effetti sostanziali.
Il primo di essi consiste −in considerazione dell’esclusione della sanzione demolitoria (e della succedanea acquisizione gratuita delle aree al patrimonio comunale, in caso di inadempimento dell’ordine di demolizione), in generale prevista per gli immobili abusivi dal testo unico sull’edilizia e dalle corrispondenti norme della stessa legge della Regione Toscana− nella conservazione, in mano privata, del patrimonio edilizio esistente.
Il secondo effetto, di non minore portata, consiste nella possibilità di eseguire ulteriori interventi edilizi –sotto forma di «demolizione e ricostruzione, mutamento della destinazione d’uso, aumento del numero delle unità immobiliari, incremento di superficie utile lorda o di volume» (attività rispettivamente previste dai commi 7 e 6 degli artt. 207 e 208)– previa emanazione di appositi piani operativi, che diventano addirittura superflui per gli immobili ultimati al di fuori dei centri urbani e prima del 01.09.1967. Anzi, il comma 4 dell’art. 207 si spinge a definire tali ultimi manufatti quali «consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
La combinazione di queste due conseguenze produce, per tutti gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti tipici di un «condono edilizio straordinario», che si differenzia, in quanto tale, dall’istituto a carattere generale e permanente del «permesso di costruire in sanatoria», disciplinato dagli artt. 36 e 45 del testo unico sull’edilizia.
In tema di condono edilizio “straordinario”, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che spettano alla legislazione statale, oltre ai profili penalistici (integralmente sottratti al legislatore regionale: sentenze n. 49 del 2006, n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004), le scelte di principio sul versante della sanatoria amministrativa, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum: la decisione sul se disporre, nell’intero territorio nazionale, un condono straordinario, e quindi la previsione di un titolo abilitativo edilizio straordinario; quella relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria; infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili (nello stesso senso, sentenze n. 225 del 2012 e n. 70 del 2005).
Nel rispetto di tali scelte di principio,
competono alla legislazione regionale l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale (sentenze n. 225 del 2012, n. 49 del 2006 e n. 196 del 2004).
Ne consegue che le norme impugnate si pongono in contrasto con i consolidati princìpi espressi dalla giurisprudenza costituzionale in materia.
Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» (sentenza n. 290 del 2009) oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato» (sentenza n. 117 del 2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale.
Il che è appunto quanto si verifica in applicazione delle norme impugnate.
Esse producono un effetto di sanatoria amministrativa straordinaria di immobili abusivi, non solo senza alcuna limitazione volumetrica, ma anche al di là delle modalità e, soprattutto, dei tempi disciplinati dalle precedenti normative statali.
Il riferimento, in particolare, è alla legge n. 47 del 1985, la cui efficacia è stata estesa dall’art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), cui ha fatto seguito l’art. 32 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24.11.2003, n. 326, pure contenente misure di regolarizzazione di immobili abusivi.
In applicazione di tali norme statali, ben sarebbe stato possibile procedere, nei tempi e nei modi da quelle previsti, alla sanatoria delle stesse opere e degli stessi interventi edilizi oggetto della disciplina censurata. Sicché, consentirlo invece ora, alla luce delle disposizioni regionali impugnate, significa introdurre un nuovo condono extra ordinem, al di fuori di qualsiasi previa e necessaria cornice di principio disciplinata dalla legge statale.
3.2.– Il contrasto delle norme impugnate con i principi che governano il riparto di competenze in materia di condono edilizio “straordinario” non è attenuato dalla subordinazione degli effetti sostanziali, da queste prodotti, alla valutazione discrezionale, che le stesse disposizioni demandano all’amministrazione comunale competente per territorio, in ordine alla sussistenza di un perdurante interesse pubblico alla rimessione in pristino.
La difesa regionale sostiene che, nel corso degli ultimi anni, la rigidità della disciplina statale concernente la repressione degli abusi edilizi sarebbe stata «attenuata dalle previsioni interpretative giurisprudenziali dei giudici amministrativi». Questi ultimi avrebbero seguito il principio secondo cui anche le sanzioni edilizie devono essere applicate previa comparazione e valutazione di prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata rispetto all’affidamento del privato. Sicché, qualora sia trascorso un lungo lasso di tempo tra realizzazione e accertamento dell’abuso, l’irrogazione delle sanzioni sarebbe subordinata ad una motivazione specifica sulla sussistenza di un pubblico interesse attuale alla eliminazione dell’opera.
Il legislatore regionale, per parte sua, avrebbe appunto dettato norme conformi a tale principio, discendente dall’interpretazione giurisprudenziale ritenuta «ormai pacifica» della legge nazionale.
Tale argomento è privo di pregio.
Innanzitutto, l’affermazione relativa alla sussistenza di un “diritto vivente”, nei termini prospettati dalla difesa regionale, è smentita dalla constatazione della coesistenza (se non proprio della prevalenza), nella giurisprudenza amministrativa, di un opposto orientamento, secondo cui l’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio.
Secondo tale indirizzo, non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia ordinata la demolizione di un manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione. Ciò perché la repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata, non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione (in questi termini, ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 05.01.2015, n. 13; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 30.12.2014, n. 6423; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 01.10.2014, n. 4878; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 28.01.2013, n. 496).
Ma, quand’anche una diversa opzione ermeneutica potesse considerarsi talmente affermata da costituire approdo “pacifico” nella giurisprudenza amministrativa, è assorbente il rilievo per cui un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe essere rimesso al legislatore regionale, ma solo a quello statale. In relazione a scelte così delicate in materia edilizia, valgono evidenti esigenze di uniforme trattamento sull’intero territorio nazionale (analogamente, sentenza n. 164 del 2012), e solo la legge statale può ovviamente assicurarle.
Per queste ragioni, le questioni di legittimità costituzionale promosse avverso gli artt. 207 e 208 della legge della Regione Toscana n. 65 del 2014 sono fondate, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..
L’accoglimento del ricorso sotto il profilo descritto determina l’assorbimento delle altre censure mosse alle norme impugnate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 207 e 208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio) (Corte Costituzionale, sentenza 19.11.2015 n. 233).

EDILIZIA PRIVATA: Il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di iniziare i lavori ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone che: <<Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l'esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che, attraverso la propria opera, abbia concorso alla realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori (ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza laddove: “Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è responsabile della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistica-edilizia".

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... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008, nei confronti della Società ricorrente nonché degli ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale diniego di condono.
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1.- Con l’impugnato provvedimento sono state respinte tre domande di condono edilizio del 15/11/2014 ed è stata ingiunta “la demolizione dell’intero fabbricato composto da 4 piani oltre il terrapieno, delle ulteriori tettoie e gazebi realizzati sui terrazzi e dei garage lungo Via C., realizzati in totale difformità dall’autorizzazione n. 81/99 ed in assenza di permesso di costruire e di nulla osta BB.AA., sopra dettagliatamente descritti, sull’area sita alla Via C. n. 102, individuati in catasto al foglio di mappa n. 21 particella n. 308, 792 e 793”.
L’ingiunzione di demolizione è stata formulata (oltre che nei confronti dei committenti dei lavori e comproprietari del bene) anche nei riguardi della Società ricorrente, “nella qualità di impresa esecutrice” (ed, altresì, dei direttori dei lavori).
1.1- Ciò posto, deve essere disattesa la censura con cui la Società ricorrente sostiene che non poteva essere considerata destinataria dell’ordine di demolizione.
Si fa leva sulla considerazione secondo cui il T.U. edilizia pone in rilievo la figura del “costruttore”, senza ulteriore specificazione e non potendo ricomprendervi l’imprenditore nel campo dell’edilizia, che va più propriamente definito appaltatore (si afferma quindi che, per “costruttore”, deve intendersi il soggetto che prometta in vendita un immobile da costruire, secondo l’accezione adoperata dall’art. 1, primo comma, lett. b), del d.lgs. n. 122/2005).
La tesi è priva di pregio.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone che: <<Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l'esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che, attraverso la propria opera, abbia concorso alla realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori (ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza [cfr., di recente, Cass. pen., Sez. III, 22.04.2015 n. 16802: “Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è responsabile della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistica-edilizia (così Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004 (dep. 2005), Cima, Rv. 230663)”].
Nella specie, non è contestato che la Società ricorrente avesse assunto l’incarico di eseguire i lavori, portandoli a compimento, in virtù della comunicazione d’inizio lavori prot. n. 18652 del 14/12/2000, richiamata nel provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi la conservazione di una situazione “contra legem”.
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... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008, nei confronti della Società ricorrente nonché degli ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale diniego di condono.
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1.2- Anche le ulteriori censure vanno respinte.
Giova premettere che il ricorso promosso da alcuni dei proprietari avverso lo stesso provvedimento è stato respinto da questa Sezione con sentenza del 21.07.2015 n. 3829.
Alla stregua di quanto già statuito in quella pronuncia, vanno disattesi i rilievi critici formulati dalla ricorrente in ordine all’applicazione, nella specie, dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
L’accertamento compiuto dal Comune ha infatti verificato che: “Dal confronto dei grafici e dei rilievi fotografici allegati all’autorizzazione 81/99, con un esame visivo dell’attuale stato dei luoghi si rileva una totale difformità del fabbricato realizzato rispetto alla predetta autorizzazione edilizia” (cfr. pag. 2 del provvedimento).
Nello stesso provvedimento sono di seguito descritte le modifiche apportate, riguardanti:
- i prospetti di via C. e via Suor L.R. (che presentano, rispettivamente, 4 piani oltre il terrapieno e 3 livelli fuori terra), da cui “è rilevabile la modifica delle quote dei solai d’interpiano”;
- un ulteriore piano in ampliamento al vano preesistente in copertura e un aumento di superficie e volume al lato sud al secondo impalcato;
- l’aumento di unità abitative;
- un manufatto in c.a. lungo via C. con quattro aperture, adibito presumibilmente a deposito/garage;
- la completa modifica dei prospetti e della sagoma in conseguenza delle variazioni delle quote dei solai e dell’ulteriore piano realizzato in copertura;
- la presenza di tettoie in legno e ferro su vari lati;
- la sistemazione dell’area di pertinenza e di quella adiacente, con percorsi pavimentati, scale di collegamento tra le quote e arredo giardino per le unità abitative.
Risulta da ciò palese la realizzazione di un organismo totalmente diverso dal fabbricato preesistente (per il quale era stata rilasciata l’autorizzazione n. 81/99, per interventi di manutenzione straordinaria e restauro conservativo), tenendo conto che:
- l’edificio era “composto da terrapieno di altezza 3.00 mt, piano terra e primo piano, nonché un vano di circa 30 mq. sul lato nord ovest prospiciente via Capodivilla al piano secondo” (cfr. il provvedimento impugnato);
- i lavori di cui alla citata autorizzazione n. 81/99 consistevano “principalmente nella demolizione e ricostruzione dei solai, senza modifiche dei prospetti, senza aumenti di volumetrie, superficie e numero delle unità immobiliari” (cfr. ancora il provvedimento impugnato).
La veridicità dell’accertamento (debitamente effettuato dall’U.T.C., dotato di specifiche competenze) non è scalfita dalle deduzioni della parte ricorrente, mostrandosi aderente alla realtà delle cose ed immune dai vizi di legittimità dedotti la ricostruzione dei presupposti di fatto, compiuta dal Comune resistente ed ampiamente illustrata nella congrua motivazione che correda il provvedimento impugnato.
In particolare, si palesa l’avvenuta realizzazione di due sopraelevazioni a fini residenziali, di mq. 138 e mq. 135, con incremento dunque dei volumi e variazione della sagoma e dei prospetti, visibili dall’esterno ai fini della verifica della difformità.
Ciò giustifica l’ingiunzione di demolizione delle opere abusivamente realizzate, concernente l’intero fabbricato che si connota quale un organismo edilizio integralmente diverso dal precedente, assoggettato perciò nella sua interezza alla sanzione demolitoria, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (che riunisce nell’unica disposizione le fattispecie dell’assenza del permesso di costruire e della totale difformità dal titolo rilasciato).
Quanto all’asserito difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico e alla rilevanza del decorso del tempo, è consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi la conservazione di una situazione “contra legem” (cfr., per tutte, Cons. Stato – Sez. V, 28.04.2014 n. 2196).
2.- Conclusivamente, il ricorso va dunque respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva, il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della struttura discende dal fatto stesso che non vi è stata la demolizione di quanto costruito, né occorre un’ulteriore motivazione al riguardo, dal momento che le ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione non solo sono in re ipsa, ma sono proprio quelle desumibili dalla perdurante esistenza del manufatto, a seguito della mancata esecuzione dell’ordine di demolizione.
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto, non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati.

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FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Va preliminarmente affermata la natura di atto dovuto dei provvedimenti impugnati col ricorso introduttivo del giudizio.
Ed infatti, nel caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva, il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della struttura discende dal fatto stesso che non vi è stata la demolizione di quanto costruito, né occorre un’ulteriore motivazione al riguardo, dal momento che le ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione non solo sono in re ipsa, ma sono proprio quelle desumibili dalla perdurante esistenza del manufatto, a seguito della mancata esecuzione dell’ordine di demolizione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.07.2014 n. 3565).
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto, non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati. (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è misura eccezionale, alternativa alla demolizione, che si applica solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con la precisazione che la detta impossibilità può essere rilevata d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma comunque in una fase successiva all’ingiunzione, a carattere diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione, quest’ultimo da emettere sulla base di specifici accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad intervenire nella fase esecutiva.
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FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
...
Sono invece fondati i motivi aggiunti.
Risulta che il ricorrente, con atto del 29.04.2010, antecedente all’adozione dell’ordine di demolizione del 26.07.2010, ha chiesto la conversione della sanzione demolitoria in quella pecuniaria, osservando che la demolizione avrebbe compromesso la stabilità del fabbricato.
Orbene, in tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è misura eccezionale, alternativa alla demolizione, che si applica solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con la precisazione che la detta impossibilità può essere rilevata d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma comunque in una fase successiva all’ingiunzione, a carattere diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione, quest’ultimo da emettere sulla base di specifici accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad intervenire nella fase esecutiva (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 16.05.2014 n. 2718) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, tutelato l’interesse dei vicini. Consiglio di Stato. I confinanti sono sempre legittimati a ricorrere per impugnare il permesso violato senza necessità di provare un danno specifico.
La demolizione, con ripristino della legittimità edilizia, costituisce la sanzione normale e prioritaria, di carattere vincolato, nei confronti degli abusi edilizi, pertanto il proprietario di un immobile confinante è sempre legittimato a ricorrere per impugnare il permesso edilizio violato, senza necessità di provare un danno specifico, essendo titolare di un interesse legittimo al rispetto del corretto assetto urbanistico e ambientale.
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.11.2015 n. 5226, ha ribadito la legittimazione processuale dei proprietari confinanti nei procedimenti riguardanti i permessi di costruire assentiti nella medesima zona, non solo a impugnarne la legittimità o regolarità, ma altresì nel caso in cui la concreta realizzazione dell’opera possa sfociare in un abuso edilizio, sollecitando l’amministrazione competente ad adottare la sanzione della demolizione e dell’acquisizione dell’area.
Il caso deciso dai giudici amministrativi trae origine dalla contestazione di un abuso edilizio, da parte dell’ufficio tecnico e dalla polizia municipale di un Comune lombardo, per la realizzazione di lavori in parziale difformità dal titolo edilizio concesso per la ristrutturazione di un fabbricato e il recupero del sottotetto a fini abitativi, a fronte del quale l’ente locale ha adottato due ordinanze di demolizione successive, la prima totale, la seconda parziale, con applicazione della sanzione pecuniaria.
Verso le due le ordinanze sono stati depositati opposti ricorsi, poi riuniti, davanti al Tar della Lombardia, da parte dei proprietari dell’immobile, verso quella di demolizione totale, nonché da parte del proprietario di un fabbricato contiguo in qualità di controinteressato, all’esito dei quali il tribunale amministrativo regionale ha statuito respingendo il primo e accogliendo il secondo.
I giudici di Palazzo Spada, nel confermare la legittimità della sentenza di primo grado, hanno ribadito come, pur essendo l’amministrazione comunale titolare del potere amministrativo di reprimere gli illeciti urbanistici, i proprietari di immobili confinanti o limitrofi con quelli interessati da un permesso di costruzione sono titolari di un interesse legittimo oppositivo, tutelato dall’ordinamento, a fronte di titoli edilizi incidenti sul proprio diritto di proprietà, modificando le condizioni dell’area, nonché l’assetto edilizio, urbanistico e ambientale della zona, senza necessità, ai fini della legittimazione processuale, di provare di aver subito un danno specifico, in quanto il danno verso la collettività è insito nella violazione stessa.
Come nel caso deciso, non solo spetta la legittimazione a impugnare il permesso di costruire riconosciuta a coloro che presentano uno stabile collegamento, bensì il terzo confinante ha un interesse attivo processuale, a che l’amministrazione disponga correttamente del potere di repressione degli illeciti urbanistici, giungendo fino alla completa eliminazione del fabbricato abusivo che lede il proprio interesse al corretto assetto urbanistico ed ambientale dei luoghi, oltre all’acquisizione dell’area al patrimonio dell’ente.
Inoltre, prosegue il ragionamento della decisione in esame, statuito che il confinante ricorre per la tutela del proprio specifico interesse di proprietario nella medesima area in cui sono stati compiuti gli abusi, non per l’interesse generale al rispetto della legalità, la sanzione della demolizione costituisce la conseguenza principale e normale, quindi di carattere vincolato, all’accertamento dell’abuso edilizio, senza necessità che l’ente locale fornisca giustificazione in base una particolare motivazione.
Al contrario, sottolinea il Collegio sancendo l’illegittimità della seconda ordinanza comunale che ha sostituito l’ingiunzione di demolizione totale delle opere con quella di demolizione parziale, con aggiunta della sanzione pecuniaria, è quando l’amministrazione adotta una misura sanzionatoria diversa, rispetto al pieno ripristino dell’ordine edilizio violato, a fronte dell’accertamento dell’abuso, che si richiede l’espletamento di un’istruttoria idonea e approfondita, sostenuta da una motivazione congrua
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2015).
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MASSIMA
2. Come detto in narrativa, sono state impugnate in primo grado -da diverse parti, espressione di posizioni sostanziali e processuali divergenti- due ordinanze di demolizione (l’una totale, l’altra parziale, con applicazione della sanzione pecuniaria) adottate dal Comune di Borno per opere realizzate in difformità dal permesso di costruire.
3. La società interveniente ha formulato due eccezioni preliminari, che il Collegio ritiene entrambe infondate.
3.1 Quanto all’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo n. 135/2007, in linea di principio,
i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione sono sempre legittimati a impugnare i titoli edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico e ambientale della zona. Né è necessaria la prova di un danno specifico, perché il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia (da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, ove riferimenti ulteriori).

EDILIZIA PRIVATA: La condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad esempio, l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo.
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7. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso.
Va a tale proposito ricordato come questa Corte abbia già specificato (Sez. 3, n. 23998 del 12/05/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che
la condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad esempio, l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del 02/05/1988, Rurali, Rv. 178593).
Più in generale, si è precisato che
l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore, rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384).
Tale onere di informazione non può ritenersi superato per la sola esistenza dei provvedimenti amministrativi, menzionati dai ricorrenti, in presenza di un consolidato indirizzo giurisprudenziale che escludeva, come si è visto, la possibilità di ristrutturazione dei ruderi e che la Corte territoriale ha giustamente posto in evidenza, unitamente all'inosservanza del richiamato onere di informazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' notorio che, se per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta alla vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento nel privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
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Sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua propriet, onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a., che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss..
Come rettamente ha precisato il TAR, il soggetto così legittimato può pretendere l’esercizio di tali poteri vincolati e doverosi (donde l’incomparabilità di tal pretesa alle vicende dell’autotutela spontanea) e la relativa definizione mercé un provvedimento espresso, anche magari esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'istante.
Quindi, il silenzio serbato dalla P.A. integra gli estremi del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in sede giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della vicinitas con la funzione non discrezionale della vigilanza edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie in esame dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto, non così legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A. stessa, ma proprio per questo non ha titolo per rendere coercibile l’omesso esercizio di tal funzione.
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... per la riforma della sentenza del TAR Campania–Salerno, sez. II, n. 2237/2014, resa tra le parti e concernente il silenzio serbato dal Comune intimato sull’istanza del sig. An.Vi. per l’adozione di atti di verifica sulla legittimità di opere edilizie;
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- Considerato altresì che, nel merito, l’appello non ha pregio e va disatteso, con la doverosa premessa che lo specifico oggetto del contendere è l’inerzia procedimentale (silenzio) del Comune intimato sull’istanza del sig. A.Vi. e NON la concreta legittimità dell’attività edilizia dell’appellante, argomento, questo, che il Collegio non può trattare, neppure incidenter tantum, sia per il divieto di cui all’art. 30, c. 2, I per., c.p.a. (il potere amministrativo sul punto o non è stato ancora esercitato o non è nella cognizione del Giudice d’appello), sia perché, quand’anche si volesse entrare nel merito della fondatezza della pretesa azionata con il rito del silenzio, già dal contenuto stesso dell’istanza del 01.07.2014 s’evince la permanenza, in capo a detto Comune, della necessità di adempimenti istruttori di esso per l’esatta definizione del procedimento invocato e, dunque, l’inibizione posta al riguardo dal successivo art. 31, c. 3, onde scolora ogni deduzione dell’appellante sulla richiesta dell’“annullamento” d’alcunché);
- Considerato ancora che la dedotta “definitività” del titolo edilizio in capo all’appellante, se è intesa con riferimento al lungo tempo trascorso dal relativo rilascio, di per sé sola non inibisce l’invocata attivazione del procedimento comunale preordinato all’accertamento dell’esistenza -o meno- di abusi edilizi, essendo notorio (cfr., p.es., Cons. St., IV, 04.03.2014 n. 1016) che, se per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia della P.A. preposta alla vigilanza si sia ingenerata un certo qual affidamento nel privato, né l’attività di vigilanza, né la repressione dell’abuso sono preclusi, ma quest’ultima soggiace ad un onere di congrua motivazione anche sul pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato;
- Considerato pure che, se tal “definitività” si vuol intendere a guisa di decadenza dall’impugnazione del titolo, anche questo dato è inopponibile all’istanza d’attivazione dei poteri di vigilanza edilizia, stante l’evidente diversa qualità degli interessi protetti implicati nell’una vicenda rispetto all’altra, nonché la non sovrapponibilità, né tampoco la coincidenza dell’interesse del privato ad impugnare a quello pubblico connesso ai e garantito dai predetti poteri vincolati di vigilanza, proprio per questo non essendo qui applicabile il principio per cui l’uso strumentale della formazione del silenzio non rimette in termini il privato decaduto dall’azione impugnatoria;
- Considerato che erronea s’appalesa tutta la ricostruzione del procedimento di vigilanza edilizia, che l’appellante tenta con le categorie dell’autotutela spontanea -in particolare con riguardo alla natura discrezionale dell’attivazione dei procedimenti amministrativi di secondo grado-;
- Considerato infatti che sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà (arg. ex Cons. St., IV, 29.04.2014 n. 2228), onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a. (cfr. così Cons. St., IV, 02.02.2011 n. 744; id., VI, 17.01.2014 n. 233), che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss.;
- Considerato di conseguenza che, come rettamente ha precisato il TAR, il soggetto così legittimato può pretendere l’esercizio di tali poteri vincolati e doverosi (donde l’incomparabilità di tal pretesa alle vicende dell’autotutela spontanea) e la relativa definizione mercé un provvedimento espresso, anche magari esplicitando l'erronea valutazione dei presupposti da parte dell'istante;
- Considerato, quindi che il silenzio serbato dalla P.A., come nella specie è accaduto con l’istanza del sig. A.Vi., integra gli estremi del silenzio-rifiuto ed è sindacabile in sede giurisdizionale, grazie appunto alla combinazione della vicinitas con la funzione non discrezionale della vigilanza edilizia, la qual cosa differenzia la fattispecie in esame dalla vicenda in cui un qualunque altro soggetto, non così legittimato, segnali un abuso edilizio alla P.A. stessa, ma proprio per questo non ha titolo per rendere coercibile l’omesso esercizio di tal funzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.11.2015 n. 5087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36 del Dpr 380/2001, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
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Secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).

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La censura è infondata.
L’art. 36 del Dpr 06.06.2001, n. 380, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione
>> (TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644).
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
Pertanto, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta istanza, valutato come significativo (nonostante, per definizione, risulti privo di motivazione), la tesi della ricorrente per la quale la presentazione di una istanza di sanatoria paralizzerebbe il potere repressivo del Comune sino alla definizione della predetta istanza non è condivisibile.
Sul punto, secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Pertanto le argomentazioni di parte ricorrente nel senso da ultimo precisato, non tengono conto che, ai sensi dell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine di settanta giorni dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, si forma il silenzio-diniego ed, in tal caso, è onere del ricorrente impugnare tale silenzio -che a tutti gli effetti costituisce un provvedimento tacito- a pena di inammissibilità o improcedibilità del ricorso proposto avverso i successivi provvedimenti repressivi adottati dall’Autorità comunale (ordinanza di demolizione e/o l’atto di acquisizione al patrimonio comunale, a seconda dello stato di avanzamento del procedimento).
D’altronde, nella fattispecie in esame, l’affermazione della ricorrente secondo cui l’istanza di autorizzazione in sanatoria per i lavori oggetto dell’impugnato provvedimento demolitorio e del successivo accertamento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 37, D.P.R. 380/2001 sarebbe meritevole di accoglimento (con il conseguente diritto ad ottenere il permesso di costruire in sanatoria), in considerazione del fatto che l’immobile insisterebbe in una zona completamente mutata da un punto di vista urbanistico e sarebbe risalente nel tempo risulta poi stata smentita per tabulas dai sopravvenuti provvedimenti di diniego, dalla ricorrente ritualmente impugnati con i primi ed i secondi motivi aggiunti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
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Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento consolidato di questa Sezione in tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”.
Ed una siffatta impostazione trova il conforto di pacifica giurisprudenza per la quale:
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato;
- In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio e secondo condivisa giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito, emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative della commessa trasgressione, rincara la lesione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che, perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
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Anche tale censura è infondata.
In proposito, secondo pacifica e condivisa giurisprudenza: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento consolidato di questa Sezione in tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa” (cfr. TAR Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed una siffatta impostazione trova il conforto di pacifica giurisprudenza per la quale: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745); ed, ancora: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 22.03.2013, n. 354; TAR Veneto n. 1068 del 2013) e secondo condivisa giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045).
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito, emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative della commessa trasgressione, rincara la lesione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che, perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
Nella fattispecie, poi, alle stregua di quanto rilevato nella precedente censura, la valutazione della c.d. doppia conformità urbanistica richiesta dall’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001 -contrariamente a quanto infondatamente dedotto- non può dirsi essere stato omessa dall’Amministrazione atteso che il provvedimento di tacito diniego dell’istanza di sanatoria, pur risultando, per espressa volontà legislativa di per sé privo di motivazione, è impugnabile non per difetto di motivazione, bensì unicamente per il suo contenuto di rigetto (Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n. 9278), circostanza questa puntualmente avveratasi nel caso di specie atteso che i sopravvenuti provvedimenti espressi di diniego sono stati impugnati dalla ricorrente con i motivi aggiunti di cui appresso.
Inoltre il su riferito carattere vincolato caratterizzante il potere di irrogazione delle sanzioni in materia urbanistico-edilizie esclude che, in ogni caso, possa trovare ingresso qualsivoglia censura di disparità di trattamento per circostanza dell’identità dell’intervento edilizio in questione rispetto agli altri realizzati nei fondi limitrofi e che, però, non sarebbero stati oggetto di alcun provvedimento sanzionatorio da parte dell’Amministrazione comunale intimante; invero il parametro di riferimento per valutare la legittimità dell’attività repressiva posta in essere dall’Autorità urbanistica resta sempre e soltanto l’ordinamento senza che possa ammettersi il paragone o il confronto con altri casi apparentemente analoghi in relazione ai quali l’atteggiamento della predetta Autorità possa essere apparso più blando o tollerante.
Altrettanto ininfluente ai fine della sussistenza dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso si rivela la dedotta circostanza che la costruzione sarebbe stata effettuata svariati anni prima e sarebbe stata destinata a salvaguardare per preservare, il piano sottostante la stessa dalle intemperie, causa di infiltrazioni continue, atteso che nel nostro ordinamento non ha alcuna cittadinanza il c.d. “abuso di necessità”, apprestando un meccanismo di tutela “oggettivo” che, prescinde cioè dai motivi particolari per i quali è stato commesso l’abuso dovendosi apprestare un sistema sanzionatorio a presidio di beni e valori di assoluto rilievo primario
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa.
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati.
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In una prospettiva sostanzialistica che valga ad impedire che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento diventi un mero adempimento burocratico in grado soltanto di ritardare il corso dell’azione amministrativa, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio del procedimento, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbero introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
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Anche tale censura è infondata
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente da cui il Collegio non ha motivo per discostarsene rileva che: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
D’altronde, in una prospettiva sostanzialistica che valga ad impedire che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento diventi un mero adempimento burocratico in grado soltanto di ritardare il corso dell’azione amministrativa, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio del procedimento, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbero introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C.di S., sez. V, 02.04.2009, n. 2737)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ribadirsi che il nostro ordinamento non conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini della irrogazione della sanzione urbanistica.
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La censura è infondata.
Con un primo profilo di censura parte ricorrente deduce che, dovendo la costruzione salvaguardare il piano sottostante dalle intemperie, causa infiltrazioni continue e l’edificio sarebbe stato realizzato per scopi di abitazione primaria e non per fini speculativi.
Tuttavia, deve ribadirsi che il nostro ordinamento non conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini della irrogazione della sanzione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa veranda del furbo non blocca il progetto.
Chi rispetta le norme edilizie non può essere penalizzato per colpa dei furbi. Così, se il vicino ha realizzato una veranda abusiva e il comune non l'ha contestata, l'ufficio tecnico dell'ente non può invece bloccare i lavori del progetto confinante conforme alle norme statali e locali per il mancato rispetto delle distanze minime tra i fabbricati: altrimenti il risultato sarebbe far arretrare la costruzione di chi ha diritto a edificare soltanto per la presenza del manufatto contro legge e dunque capovolgendo «ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite».

È quanto emerge dalla sentenza 05.11.2015 n. 5164, pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il comune ha evidentemente chiuso un occhio sull'opera contro legge costruita dal vicino e ora non può dichiarare illegittimo dell'altro corpo di fabbrica e deciderne la demolizione perché troppo prossimo alla veranda abusiva.
Spese di giudizio compensate per la peculiarità della questione (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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MASSIMA
3. Alla luce di quanto esposto, deve ritenersi che non risulta smentito agli atti del giudizio che lo stato dei luoghi differisce da quello rappresentato solo limitatamente all’edificio di altro proprietario e che comunque le verande insistenti su tale diversa proprietà non sono strutturate ai fini portanti, ma risultano ricavate dalla chiusura parziale delle balconate esistenti con vetro e alluminio preverniciato e sono state determinate dall’UTC dell’Amministrazione come aventi carattere provvisorio ovvero temporaneo.
Ora, se il Comune non aveva contestato l’abusività di tali verande, non poteva poi censurare la parte del corpo di fabbrica per cui è controversia per mancato rispetto delle distanze da alcune verande abusive, tanto più che l’edificio realizzato da parte ricorrente risulta eseguito in conformità ai Permessi di costruire rilasciati e le distanze tra gli edifici sono rispettate in ragione sia della temporaneità delle verande, sia del fatto che le mensole balcone per la esiguità della larghezza non concorrono alla determinazione delle distanze.
3.1 Ove si aderisse al non condivisibile assunto che la distanza legale debba essere misurata tenendo conto anche delle opere abusive confinanti, quale, appunto, la veranda citata, si perverrebbe al risultato aberrante che, a causa dell’illecito ampliamento dell’edificio in proprietà altrui, parte ricorrente si vedrebbe costretta ad arretrare il proprio manufatto rispetto alla sua legittima ubicazione originaria.
La Società ricorrente si era in ogni caso munita dell’Autorizzazione sismica del 06/05/2014, ma comunque il Collegio ritiene di dover aderire all’orientamento in base al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite (Cons. Stato, IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR Campania, Napoli, IV, 21.07.2005, n. 10142).
3.2 I provvedimenti impugnati devono, dunque, reputarsi illegittimi, posto che
la presenza di un manufatto abusivo non può essere di ostacolo al ius aedificandi di chi ha presentato un progetto in conformità delle norme locali e statali (TAR Abruzzo, L’Aquila, 17.02.2004, n. 138), in disparte le già accennate contraddizioni che hanno inficiato l’operato del Comune sì da integrare il denunciato vizio del difetto di istruttoria.
La Sezione ritiene, dunque, di dover aderire all’orientamento in base al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite (Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR Campania, n. 10142 del 2005; n. 8720 del 2010 confermata dal Cons. Stato n. 3968 del 2015).
4. Alla luce di quanto sopra deve ritenersi che il ricorso in esame vada accolto con conseguente annullamento dei provvedimenti oggetto di impugnazione.

EDILIZIA PRIVATA: La disposta misura repressivo-ripistinatoria perde la propria efficacia in seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria.
Nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di demolizione, e prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di accertamento di conformità obbliga, infatti, l’amministrazione comunale a riattivare comunque il procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il diniego oppostogli.

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Come evidenziato retro, in narrativa, sub n. 4, dopo l’emissione del provvedimento repressivo-ripristinatorio, e prima dell’esperimento dell’impugnazione, Gr.Lu. e Gr.An., in data 28.01.2014 (prot. n. 3095), hanno rassegnato al Comune di Aversa domanda di sanatoria ex art. 37 del d.p.r. n. 380/2001.
Al riguardo, il Collegio ritiene di dover aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la disposta misura repressivo-ripistinatoria perde la propria efficacia in seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria (cfr., ex multis, Const. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n. 1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n. 172; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n. 1519; Salerno, sez. I, 23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; 04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n. 885; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche, Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691).
Ed invero, nella specie, la richiesta di riesame dell’abusività degli interventi eseguiti ha comportato la formazione di un nuovo provvedimento espresso di rigetto, il quale è valso comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, cosicché l’amministrazione comunale è rimasta obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere.
Ciò posto, nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di demolizione, e prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di accertamento di conformità obbliga, infatti, l’amministrazione comunale a riattivare comunque il procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il diniego oppostogli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 05.06.2009, n. 3105; sez. III, 18.06.2009, n. 3354; sez. VII, 02.07.2009, n. 3673; 09.07.2009, n. 3829; sez. IV, 15.11.2013 n. 5114; sez. VIII, 09.01.2014, n. 63; 07.02.2014, n. 883; 14.05.2014, n. 2668; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1455; 09.04.2009, n. 605; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 16.04.2014, n. 617; TAR Emilia Romagna, Parma, 09.07.2014, n. 274; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 05.08.2014, n. 2132; TAR Liguria, Genova, sez. II, 03.09.2014, n. 1336; TAR Umbria, Perugia, 03.12.2014, n. 590)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per consolidata giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere controversie circa i diritti reali su di esso vantati da terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo, quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di legittimazione formalmente idoneo.
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza, dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai terzi controinteressati.
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I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come, appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente confliggente posizione di qualificata disponibilità dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo che questi, sulla base di detta posizione, ove incontroversa, abbiano manifestato il proprio dissenso.
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma 1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione non solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva (afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa, cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente).
E tanto è coerente con la diversa ottica dei due procedimenti: l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, presuppone necessariamente la verifica della posizione giuridica che consente la legittima esplicazione del ius aedificandi e, come tale, sottende un rapporto qualificato di disponibilità con l’immobile; l’altro, disciplinato dai successivi artt. 36 e 37, presuppone, invece, un abuso commesso e, quindi, ben può riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un collegamento soggettivamente qualificato non già con l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con la possibilità di sanarne gli effetti.

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6. Osserva, innanzitutto, il Collegio che, in sede di presentazione della domanda di sanatoria ex art. 37 del d.p.r. n. 380/2001, prot. n. 3095, del 28.01.2014, Gr.Lu. e Gr.An. hanno allegato, oltre alla planimetria catastale, quale titolo di proprietà, copia del testamento pubblico dell’11.02.1999, rep. n. 34, col quale Ma.An. ha lasciato loro in legato “la porzione della casa colonica sita in Aversa con ingresso dal viale Kennedy, n. 39/A, costituita da un appartamento al piano terra e da un appartamento al primo piano, individuata in catasto al foglio 5, particella 707, sub 6 e 7, con la proprietà esclusiva della corte annessa attualmente recintata”.
Ebbene, a fronte del titolo di legittimazione esibitogli, avente per oggetto l’immobile attinto dalle opere contestate (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), il resistente Comune di Aversa ha esorbitato dai propri poteri istruttori, avendo svolto, in assenza di formali e specifiche contestazioni da parte dei terzi controinteressati (non rinvenibili ex actis), ulteriori e autonome indagini circa la sussistenza di diritti vantati da questi ultimi (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.03.2001, n. 1507; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 04.11.2003, n. 376; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 16.12.2003, n. 1801; 24.03.2004, n. 500) ed avendo annesso rilievo indebitamente preclusivo ad una controversa civilistica con i medesimi insorta (sul punto, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.04.2002, n. 199; TAR Campania, Salerno, sez. II, 17.11.2003, n. 1536).
In questo senso, giova rammentare che, per consolidata giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere controversie circa i diritti reali su di esso vantati da terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo, quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di legittimazione formalmente idoneo (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005, n. 3730; 07.09.2007, n. 4703; 07.09.2009, n. 5223; 24.03.2011, n. 1770; sez. IV, 22.11.2013, n. 5563; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 28.04.2010, n. 1168; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 15.06.2010, n. 2841; TAR Campania, Napoli, sez. II, 18.11.2008, n. 19795; sez. VI, 03.12.2010, n. 26792; sez. VIII, 16.12.2010, n. 27527; sez. II, 31.07.2012, n. 3666; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 25.01.2012, n. 32; TAR Abruzzo, Pescara, 09.02.2012, n. 52; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 26.03.2012, n. 328; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 27.09.2012, n. 1569; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 24.04.2013, n. 1150).
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza, dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai terzi controinteressati (nel caso in esame –come detto– neppure attivatisi, se non nella presente sede processuale); certezza che, all’evidenza, non sussiste in pendenza di un contenzioso civile non ancora definito (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 15.09.2011, n. 2220), quale quello evocato nella gravata nota del 18.12.2014, prot. n. 2949.
7. I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come, appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente confliggente posizione di qualificata disponibilità dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo che questi, sulla base di detta posizione, ove incontroversa –e non è tale il caso di Ma.An. e di Ma.Al.–, abbiano manifestato il proprio dissenso –e neppure tale è il caso di Ma.An. e di Ma.Al.– (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 17.02.2012, n. 358).
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma 1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione non solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva (afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa, cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente). E tanto è coerente con la diversa ottica dei due procedimenti: l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, presuppone necessariamente la verifica della posizione giuridica che consente la legittima esplicazione del ius aedificandi e, come tale, sottende un rapporto qualificato di disponibilità con l’immobile; l’altro, disciplinato dai successivi artt. 36 e 37, presuppone, invece, un abuso commesso e, quindi, ben può riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un collegamento soggettivamente qualificato non già con l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con la possibilità di sanarne gli effetti (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 196; TAR Puglia, Bari, sez. III, 09.07.2011, n. 1057; Lecce, sez. III, 25.09.2014, n. 2409; TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.03.2013, n. 486; 28.05.2014, n. 800; 26.02.2015, n. 235)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
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La gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse privato al mantenimento in loco della res, in quanto costituisce –come già evidenziato– atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti.
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L'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
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Il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata sanzione demolitoria.

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1.5. Privo di pregio si rivela anche l’ulteriore profilo di censura volto a denunciare la mancata instaurazione del contraddittorio procedimentale previamente all’adozione della misura repressivo-ripristinatoria.
Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
2. I superiori approdi –quanto, precipuamente, al mancato consolidamento degli effetti della d.i.a. presentata per interventi esulanti dal relativo regime abilitativo e, quindi, quanto alla diretta irrogabilità della sanzione reale, senza l’intermediazione delle garanzie dell’autotutela, operanti in esito al prodursi degli effetti anzidetti (cfr. art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990)– inducono a ripudiare anche il motivo di impugnazione inteso a denunciare l’omessa ponderazione tra l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi e il confliggente affidamento dei privati (non responsabili dell’abuso) nella conservazione delle opere eseguite.
Al riguardo, occorre rimarcare che la gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse privato al mantenimento in loco della res, in quanto costituisce –come già evidenziato– atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432).
Tale conclusione neppure resta menomata dalla dedotta circostanza che i ricorrenti non sarebbero responsabili dell’abuso contestato (avendo acquistato da terzi l’immobile già nelle condizioni emerse in sede di accertamento).
L'ordinanza di demolizione può, infatti, legittimamente essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina, 06.08.2009, n. 780; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.12.2009, n. 8704; sez. IV, 09.04.2010, n. 1890; sez. III, 23.04.2010, n. 2106; sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
3. I nominati in epigrafe non possono, poi, fondatamente dolersi del fatto che le unità immobiliari abusivamente adibite ad appartamenti residenziali avrebbero, dapprima, conseguito l’autorizzazione di abitabilità ed usabilità, prot. n. 99, dell’11.02.2008 e, poi, contraddittoriamente, formato oggetto della gravata misura repressivo-ripristinatoria.
Rileva, in questo senso, il Collegio che il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata sanzione demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Frazionamento e predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di edifici aventi natura e destinazione residenziale - Reato di lottizzazione abusiva - Configurabilità - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con l'originaria vocazione dell'area (Sez. 3, n. 15605 del 31/03/2011 - dep. 19/04/2011, Manco e altri, Rv. 250151, che, peraltro, ha specificato come il mero possesso della qualifica di imprenditore o bracciante agricolo non sarebbe, di per sé, sufficiente ad escludere il reato).
Lottizzazione abusiva - Sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato - Confisca del bene lottizzato.
In tema di lottizzazione abusiva, il giudice, anche quando pronuncia sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato, può disporre, sulla base di adeguata motivazione sull'attribuibilità del fatto all'imputato, la confisca del bene lottizzato, atteso quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, anche considerata la pronuncia della Corte EDU del 29.10.2013 nel caso Varvara c/Italia: Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015 - dep. 22/04/2015, Boezi e altri, Rv. 263585; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015 - dep. 17/07/2015, Giallombardo, Rv. 264337) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi o urbanistici - Sequestro preventivo di manufatto abusivo - Valutazione del giudice degli effetti pregiudizievoli del reato.
In tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che, al fine di disporre il sequestro preventivo di manufatto abusivo, il giudice di merito ha il dovere di compiere in ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a. in relazione a costruzioni non assistite da concessione edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici) ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca un elemento neutro sotto il profilo dell'offensività (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003 - dep. 20/03/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 223722).
Reati edilizi o urbanistici - Opere edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo - Limiti all'uso e godimento dell'opera abusiva - Sequestro disposto per la violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 - Requisito del periculum - Confiscabilità ex art. 44, c. 2, d.P.R. n. 380/2001 - 146 e 181, D.Lgs. n. 42 del 2004 - Finalità residenziali vietate dallo strumento urbanistico in zona a vocazione agricola - Fattispecie: uso esclusivamente residenziale di un manufatto realizzabile solo per finalità agricole.
In materia di reati edilizi o urbanistici, non rileva il successivo utilizzo dell'immobile ai fini abitativi, laddove si consideri che il sequestro è stato disposto per la violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 (sotto il duplice profilo della configurabilità dell'illecito lottizzatorio che della totale difformità degli interventi edilizi rispetto al titolo abilitativo, dovendosi qui ribadire che in materia edilizia è ipotizzabile il sequestro preventivo anche dell'immobile abusivamente costruito e già ultimato, atteso che le esigenze cautelari ravvisabili sono sia il paventato aumento del carico urbanistico sia le ulteriori conseguenze dovute all'uso ed al godimento dell'opera abusiva al di fuori di ogni controllo prescritto in funzione della tutela degli interessi pubblici coinvolti, come ben descritto dal tribunale del riesame nel caso di specie: Sez. 3, n. 9058 del 22/01/2003 - dep. 26/02/2003, P.M. in proc. Sferratore L., Rv. 224173).
Quanto, infine, al requisito del periculum, deve, in particolare osservarsi come la natura permanente del reato previsto dall'art. 44, comma primo, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, legittima il sequestro preventivo delle opere edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo anche nel caso di ultimazione dei lavori, in quanto l'esecuzione di interventi edilizi in zona vincolata ne protrae nel tempo e ne aggrava le conseguenze, determinando e radicando il danno all'ambiente ed al quadro paesaggistico che il vincolo ambientale mira a salvaguardare (Sez. 3, n. 30932 del 19/05/2009 - dep. 24/07/2009, Tortora, Rv. 245207), soprattutto in contesti, come quello sub iudice, nei quali l'attività edilizia non si esaurisce in sé, ma comporta un protrarsi dell'aggravio urbanistico tenuto conto del maggior "consumo del territorio" derivante dall'utilizzo per fini esclusivamente residenziali di un immobile che, per destinazione originaria del programma di fabbricazione, poteva essere utilizzato solo per finalità rurali.
E non v'è dubbio che l'utilizzo da parte del proprietario lottizzatore abusivo di un immobile con finalità residenziali vietate dallo strumento urbanistico, in zona a vocazione agricola, determina un incremento del carico urbanistico, concetto non normativamente definito che ha come presupposto il rilievo che agli insediamenti umani ed primari (abitazioni, uffici, opifici, negozi etc.) sono correlati insediamenti secondari di servizi (gas, luce, strade etc.) che devono essere calibrati sui primi.
Le opere edilizie abusive possono comportare una sproporzione tra il numero degli abitanti, o di coloro che svolgono una attività sul territorio, e le strutture collettive originariamente predisposte. Ora l'insediamento abusivamente introdotto nella zona agricola dall'indagato deve considerarsi primario e, di conseguenza, determina un aggravio, anche se non apparentemente rilevante, del carico urbanistico.
Tanto premesso, non può certamente ritenersi inadeguata né apparente, ai fini che qui rilevano agli effetti dell'art. 325 cod. proc. pen., la motivazione sul punto fornita dal tribunale del riesame che, proprio all'esito di una valutazione "in concreto" sull'eventuale ulteriore pregiudizio all'assetto urbanistico del territorio, discendente dall'uso dell'opera abusiva (nella specie, ad uso esclusivamente residenziale di un manufatto realizzabile solo per finalità agricole), ha ritenuto sussistere il periculum, anche evidenziando la confiscabilità ex art. 44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a www.ambientediritto.it).

ottobre 2015

EDILIZIA PRIVATA: Sulla corretta quantificazione della sanzione ex art. 37 DPR 380/2001 per l'esecuzione abusiva di opere di tombinamento di un fosso.
Le opere eseguite (tombinamento di un fosso in assenza di d.i.a.) contribuiscono oggettivamente ad un miglioramento complessivo della fruibilità della villa che si giova di una più ampia e meglio accessibile area pertinenziale e, pertanto, la tesi dei ricorrenti secondo la quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per stimare il valore dell’incremento del valore della villa appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza possa ritenersi aumentato quantomeno in misura corrispondente a quanto speso per i materiali e la manodopera.

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... per l'annullamento del provvedimento comunale 13.07.2009 n. 7173 di applicazione sanzione pecuniaria riferita all’esecuzione di opere di tombinamento di un fosso in assenza di d.i.a. ed atti connessi.
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I ricorrenti, proprietari di una villa sita nel Comune di Loreggia, hanno effettuato, senza alcun titolo abilitativo, il tombinamento di un fosso sul lato nord della proprietà per una lunghezza di circa 180 m. mediante la posa di tubazioni in calcestruzzo, pozzetti e il riempimento di materiale vegetale.
Poiché le opere, stante il divieto di realizzare il tombinamento o la chiusura di fossi prevista dalla valutazione di compatibilità idraulica recepita dallo strumento urbanistico, non sono state ritenute sanabili, il Comune ha applicato la sanzione di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380, che prevede una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi, quantificata in € 21.600,00.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti contestano la correttezza della quantificazione dell’ammontare della sanzione lamentando in via principale l’erroneità del criterio adottato dal Comune che, anziché valutare l’incremento di valore prima e dopo l’esecuzione dei lavori, si è riferito al costo sostenuto per l’esecuzione delle opere, e sostengono che pertanto il calcolo corretto dell’aumento del valore venale dell’immobile non avrebbe dovuto essere riferito all’incremento di valore della villa, ma a quello relativo alla sola striscia di terreno recuperata a seguito del tombinamento.
Secondo la loro prospettazione il Comune avrebbe dovuto tener conto del solo valore della superficie del terreno agricolo recuperato, applicando una sanzione finale di € 2.040,00.
In via subordinata, lamentano il difetto di istruttoria deducendo che il Comune, senza effettuare una ricerca di mercato, ha arbitrariamente valutato in € 10.800,00 il costo dell’opera senza considerare gli effettivi costi sostenuti ammontanti invece ad € 6.000,00,.
Si è costituito in giudizio il Comune replicando alle censure proposte e concludendo per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza n. 1165 del 17.12.2009, è stata accolta la domanda cautelare.
Alla pubblica udienza dell’08.10.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto.
Le opere eseguite contribuiscono oggettivamente ad un miglioramento complessivo della fruibilità della villa che si giova di una più ampia e meglio accessibile area pertinenziale e pertanto la tesi dei ricorrenti secondo la quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per stimare il valore dell’incremento del valore della villa appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza possa ritenersi aumentato quantomeno in misura corrispondente a quanto speso per i materiali e la manodopera.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere respinte.
Parimenti infondata è anche la censura di cui al secondo motivo, perché dalla documentazione versata in atti, e non contestata dai ricorrenti, risulta che il Comune, contrariamente a quanto dedotto, non si è determinato in modo arbitrario nello stimare il costo delle opere, ma si è riferito ad una somma inferiore a quella dei costi medi rilevabili sul mercato, come comprovano i due preventivi di spesa acquisiti dal Comune da due diverse ditte che, calcolando analiticamente i lavori da eseguire e i materiali da utilizzare, hanno quantificato in € 11.700,00, ed € 14.100,00, i costi complessivi necessari all’esecuzione del tombinamento, e ciò è sufficiente a comprovare la non arbitrarietà della stima e l’inattendibilità dei dati forniti dai ricorrenti che si sono limitati a depositare in giudizio una fattura priva dell’esposizione analitica dei costi secondo la quale la spesa sostenuta è stata di € 6.000,00.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.10.2015 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (cfr. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”).
Segue da ciò che in questa materia non occorre il previo invio della comunicazione di avvio del procedimento, peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990, n. 241.
Su quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va ribadito che dalla natura dovuta del potere repressivo degli abusi edilizi discende la non necessità dell'invio dell’avviso di avvio del procedimento.
Va poi considerata l'innovazione apportata dalla legge 11.02.2005, n. 15 che, nel modificare la l. n. 241 del 1990, ha introdotto l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
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Ai fini della verifica di legittimità dell’emanazione di un ordine di rimozione di un immobile abusivo realizzato su area demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto sia sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo, senza che necessiti l’accertamento su chi abbia effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi, restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate”.
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa, che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzato (cfr. Cons. Stato, IV, 12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive realizzate su terreno demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione….”).

La sentenza sul punto merita di essere confermata.
E difatti:
- sull’illegittimità derivata, è sufficiente rinviare alle considerazioni sviluppate sulle censure relative al diniego di condono (v. sopra, p. 7.1. ss.);
- sul X e il XII motivo, riproposti ed esaminabili in maniera congiunta dato che riguardano, nella sostanza, vizi d’insufficiente motivazione, in primo luogo occorre precisare che l’ordine di rimozione delle opere abusive non solo richiama in modo esplicito il diniego di condono edilizio che ne costituisce il presupposto, ma consta di diverse pagine, nelle quali viene ricostruito l'iter che ha condotto l'Amministrazione a emanare il provvedimento in contestazione, con l’indicazione delle ragioni per le quali le opere in argomento sono state considerate illegittime, dell'attività istruttoria svolta, delle caratteristiche del chiosco e delle opere che compongono l'organismo edilizio da considerarsi nel suo complesso e in modo unitario –cosa che la sentenza non ha mancato di sottolineare (v. pag. 9)- e delle sanzioni applicate con le disposizioni di riferimento.
E’ comunque il caso di ribadire, con la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V, 11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), che “l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è "in re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”);
- segue da ciò che in questa materia non occorre il previo invio della comunicazione di avvio del procedimento, peraltro esclusa anche alla luce dell'art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990, n. 241 (cfr. motivo sub XIII, su ordine di demolizione del battuto di cemento e asserita violazione dei diritti partecipativi).
Su quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va ribadito che dalla natura dovuta del potere repressivo degli abusi edilizi discende la non necessità dell'invio dell’avviso di avvio del procedimento (v., “ex multis”, Cons. Stato, IV, 17.02.2014, n. 734, ed ivi, indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
Va poi considerata l'innovazione apportata dalla legge 11.02.2005, n. 15 che, nel modificare la l. n. 241 del 1990, ha introdotto l'art. 21-octies il quale al comma 2 dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
In tema di applicazione del citato art. 21-octies, secondo comma, alle ingiunzioni di demolizione, e di “dequotazione” dei vizi formali del procedimento, che non incidono sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se quest’ultimo ha natura vincolata, v. Cons. Stato, IV, 13.03.2014, n. 1208, cui si rinvia anche ai sensi degli articoli 74 e 88, comma secondo, lett. d), Cod. proc. amm..
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto compiute sopra emerge che, anche in presenza di un formale avviso di avvio del procedimento riferito al “battuto di cemento”, il contenuto finale dell’ordinanza emanata, stante il carattere unitario delle opere, da considerare nel loro complesso, come è stato puntualmente rilevato in sentenza (v. fine pag. 14), non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato, tenuto conto della “modificazione del territorio per l’innanzi inedificato” conseguente alla realizzazione del “battuto di cemento” (v. sent. cit.), eseguito per poter installare le opere abusive oggetto del diniego di condono. Inoltre l’appellante non fornisce alcuna indicazione sul contenuto specifico delle osservazioni, pertinenti all’oggetto del procedimento, che avrebbe potuto presentare al Comune a questo riguardo;
- sub XI (ingiunzione di rimozione non preceduta dal parere della Commissione locale per il paesaggio), rilevato in via preliminare che l’art. 2, lett. e), della legge regionale Liguria 05.06.2009, n. 22 -Attuazione degli articoli 159, comma 1, 148 e 146, comma 6, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e successive modifiche e integrazioni, prevede che “le Commissioni esprimono pareri obbligatori in relazione ai procedimenti… e) di irrogazione dei provvedimenti sanzionatori di cui all’articolo 167 del Codice”, ai fini del rigetto del motivo è decisivo osservare, prima di tutto, che la non conformità edilizia dell’opera costituisce ragione che sorregge in via autonoma la sanzione urbanistica demolitoria, e in secondo luogo che il cenno all’art. 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio contenuto nelle premesse dell’ordine di rimozione è del tutto marginale alla luce dell’“impianto motivazionale complessivo" sul quale si basa il provvedimento medesimo, il quale si concreta in un ordine di demolizione senza che sia contemplata, per converso, alcuna misura rivolta alla tutela diretta di profili di carattere paesaggistico.
Infine, come è stato ricordato sopra, al p. 7.2., cui si rinvia, la Commissione locale per il paesaggio si era espressa –in modo legittimo- in sede consultiva sull’istanza di condono: di qui la condivisibilità di argomentazioni e statuizioni della sentenza sul punto, sembrando evidente il carattere “pleonastico e sovrabbondante” di un parere aggiuntivo della Commissione.
7.5. Da tutte le considerazioni su esposte e a fronte della legittimità dei provvedimenti impugnati non residua alcun margine per accogliere la richiesta di risarcimento dei danni, reiterata con l’appello.
8. Come si è accennato sopra, ai punti 2. e 4., il Comune ha proposto appello in via incidentale contestando la sentenza nella parte in cui, in accoglimento del motivo aggiunto, ha disposto l’annullamento dell’ordine di rimozione delle opere per cui è causa in quanto rivolto alla signora El.Mi. quale legale rappresentante della Ra. s.a.s., poiché “il sistema sia del testo unico dell’edilizia sia della legge regionale 16/2008 contempl(a) come unico destinatario dell’ordine di demolizione dell’abuso realizzato su aree demaniali o di enti pubblici il responsabile dell’abuso (art. 35 d.p.r. 380/2001 e art. 51 l.r. 16/2008) (sicché, secondo il Tribunaleamministrativo,) accertata la sostanziale estraneità della ricorrente alla realizzazione dell’abuso l’amministrazione non poteva ingiungere la demolizione dell’opera nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza e repressione dell’abusivismo edilizio…” (v. pag. 15 sent.).
L’appello incidentale è fondato e va accolto.
Il motivo aggiunto proposto in primo grado andava respinto.
In modo legittimo l’ordine di rimozione risulta impartito alla signora Mi., quale legale rappresentante della Ra., vale a dire al soggetto che ha la disponibilità materiale del manufatto abusivo e al quale spetta di rimuovere l’opera, quantunque sia incontroverso che il chiosco non sia stato materialmente realizzato dalla Mi..
L’appellata in via incidentale sostiene di non essere né proprietaria, né responsabile dell’esecuzione dell’opera da rimuovere realizzata, come detto, su area demaniale.
Ora, il Collegio non ignora che l’art. 31, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, prevede che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali ingiunge “al proprietario e al responsabile dell'abuso” la rimozione o la demolizione. La norma si riferisce alle opere realizzate su area privata. E che l’art. 35 del t.u. n. 380 del 2001, invece, nel disciplinare il caso specifico degli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, dispone che il dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina “al responsabile dell'abuso” la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo. In altre parole al proprietario deve solo essere data comunicazione dell’ordine.
Né s’ignora che la legge regionale della Liguria 06.06.2008, n. 16 (Disciplina dell'attività edilizia), all’art. 51, intitolato “interventi abusivi realizzati da privati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti pubblici”, richiamato nelle premesse dell’ordine di rimozione, dispone che “qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti privati, di interventi in assenza di permesso di costruire o di DIA obbligatoria o alternativa al permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimi, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di Enti pubblici, il responsabile dello SUE ordina al responsabile dell'abuso la demolizione o il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi dell'articolo 56, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo”.
Il Collegio anzitutto rileva -coerentemente al costante orientamento giurisprudenziale in tema di c.d. sanzioni edilizie, e quale che sia il riferimento normativo tra i testé ricordati- la natura reale delle misure ripristinatorie in questione, tese alla oggettiva reintegrazione dell’ordine violato: dunque tali da prescindere dall’imputazione soggettiva del comportamento di realizzazione dell’abuso, e da seguire la titolarità del bene anche nei passaggi successivi al momento della realizzazione.
Ritiene coerentemente il Collegio che, ai fini della verifica di legittimità dell’emanazione di un ordine di rimozione di un immobile abusivo realizzato su area demaniale, la qualità di "utilizzatore" del manufatto sia sufficiente per essere destinatari dell’ordine medesimo, senza che necessiti l’accertamento su chi abbia effettivamente realizzato l'abuso.
In questo senso, per "responsabile" dell'abuso deve intendersi non solo chi ha posto in essere materialmente la violazione contestata ma anche colui che è subentrato nella titolarità del bene, in modo da potersi avvalere nel tempo successivo alla realizzazione dell'utilità derivante dal bene stesso senza titolo: sicché il fatto che il soggetto che attualmente ha la disponibilità materiale del bene non sia l’autore materiale dell'abuso preesistente non lo esime dal dovere immanente di ripristino dello stato dei luoghi, restando ai rapporti interprivati l’eventuale facoltà di rivalsa nei confronti del responsabile dell’abuso.
La figura del responsabile dell'abuso edilizio non si identifica cioè solo in colui che ha materialmente eseguito l'opera ritenuta abusiva, ma si riferisce, necessariamente, anche a colui che di quell'opera ha la successiva materiale disponibilità e pertanto, quale detentore e utilizzatore, deve provvedere alla demolizione restaurando così l'ordine violato.
Diversamente opinando, attraverso il passaggio del bene ad altro soggetto sarebbe facilmente eludibile la regola che impone il ripristino dello stato dei luoghi, “si perverrebbe alla situazione paradossale per cui le opere abusive dovrebbero ritenersi immuni da eventuali misure ripristinatorie (e quindi di fatto sanate) per effetto della mera alienazione da parte di colui che le ha realizzate” (così il Comune, in modo condivisibile).
Del resto, l’abuso edilizio costituisce alterazione permanente dell’ordine urbanistico e l’ordinanza di demolizione persegue lo scopo di ripristinare l’ordine medesimo e con esso di tutelare l’interesse pubblico leso a prescindere dall’individuazione dell’autore dell’abuso medesimo: e per applicare queste misure di amministrazione attiva è superfluo l’accertamento del dolo o dalla colpa, che sono elementi propri dell’illecito penale e del suo accertamento.
In modo legittimo, dunque, l’ordine di rimozione di opere abusive eseguite su area demaniale ha come destinatario il soggetto “utilizzatore”, il quale ha la disponibilità materiale del manufatto, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzato (conf. Cons. Stato, IV, 12.04.2011, n. 2266, in tema di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive realizzate su terreno demaniale: “…l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell'opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione….”).
Da ciò discende la riforma, in parte qua, della sentenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015 n. 4880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce variante essenziale del progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione.
Quanto all’unica motivazione di tale provvedimento (qualifica di variante essenziale del progetto presentato), appaiono fondate le argomentazioni esposte in primo grado dall’appellante e riproposte in questa sede, trattandosi di modifiche “riduttive” al progetto originario (si è rinunciato a due unità immobiliari), laddove la semplice “variazione della sagoma dell’edificio si appalesa del tutto inidonea a … fondare la qualificazione di variante come … essenziale”.
Non può non trascurarsi, del resto, che nella specie la legge regionale abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il concetto di “sagoma” nel novero delle modifiche che determinano variazioni essenziali al progetto, così come non vi include tutte quelle variazioni, come quelle di cui al caso di specie, che finiscono per ridurre i parametri edificatori originariamente assentiti al fine di alleggerire il carico volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio di dissesti del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il titolo richiesto deve qualificarsi come variante non essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670; id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496, secondo la quale “costituisce variante essenziale del progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione”).
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Quanto all’unica motivazione di tale provvedimento (qualifica di variante essenziale del progetto presentato), appaiono fondate le argomentazioni esposte in primo grado dall’appellante e riproposte in questa sede, trattandosi di modifiche “riduttive” al progetto originario (Prestige ha rinunciato a due unità immobiliari), laddove la semplice “variazione della sagoma dell’edificio si appalesa del tutto inidonea a … fondare la qualificazione di variante come … essenziale” (cfr. Cons. St., sez. V, 30.07.2002, n. 4081; Cons. St., sez. VI, 12.11.2014, n. 5552).
Non può non trascurarsi, del resto, che, come fondatamente rilevato dall’appellante, nella specie la legge regionale abruzzese n. 52/1989 (art. 5) non include il concetto di “sagoma” nel novero delle modifiche che determinano variazioni essenziali al progetto, così come non vi include tutte quelle variazioni, come quelle di cui al caso di specie, che finiscono per ridurre i parametri edificatori originariamente assentiti al fine di alleggerire il carico volumetrico dell’edificio e diminuire il rischio di dissesti del terreno.
Trattandosi, pertanto, di documentata diminuzione dell’impatto urbanistico rispetto al progetto originario il titolo richiesto deve qualificarsi come variante non essenziale (cfr. Cons. St., sez. VI, 09.06.2010, n. 3670; id., sez. V, 30.07.2002, n. 4081 e 18.10.2001, n. 5496, secondo la quale “costituisce variante essenziale del progetto edilizio l’aumento della cubatura e non già la sua diminuzione”)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.10.2015 n. 4823 - link a www.giustizia-amministratva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto;
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento;
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime;
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati.
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Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che, non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in ragione della natura vincolata della relativa attività repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.

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Le prime due censure con le quali è dedotta la violazione degli artt. 7, 10 e ss., L. n. 241 del 1990 e succ. modif. e int., la violazione del giusto procedimento, di correttezza e di buon andamento dell’azione amministrativo, oltre all’eccesso di potere per difetto di istruttoria, sì come afferenti ad un unico iter logico-argomentativo, possono trattarsi congiuntamente e sono entrambe infondate.
Al riguardo parti ricorrenti lamentano di essere stati impediti nella effettiva esplicazione del diritto di partecipazione procedimentale ed, in particolare della possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di presentare memorie scritte e documenti, ai sensi dell’art. 10, L. n. 241/1990, per essere stata la comunicazione di avvio del procedimento loro notificata il 27.04.2008 mentre l’ordinanza di demolizione sarebbe stata emanata già il giorno seguente, senza neppure il rispetto del termine, comunque incongruo (per la giurisprudenza non potendo essere inferiore a dieci giorni), di giorni 7, fissato nello stesso avviso dell’Autorità procedente.
La censura è infondata.
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio rileva che: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
Alla stregua della riferita giurisprudenza, ne deriva che, non essendo prescritta la comunicazione di avvio dei procedimento di irrogazione di sanzioni urbanistiche, in ragione della natura vincolata della relativa attività repressiva degli abusi edilizi, nella fattispecie il Comune resistente non aveva alcun obbligo di inviare la predetta comunicazione agli interessati e, pur avendola inviata, in ogni caso, il mancato rispetto del termine di 10 giorni assegnato non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che ai sensi dell’art. 21-octies della L. 07.08.1990, n. 241 il contenuto dispositivo del predetto provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.10.2015 n. 4904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nella situazione di parziale difformità delle opere realizzate rispetto ai permessi di costruire in precedenza rilasciati e quindi da considerare non presidiate dal corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi originariamente per la disporre una preventiva irrogazione di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere applicata, in alternativa alla riduzione in pristino unicamente allorquando, in sede di esecuzione della demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente possibile eliminare le parti difformi della struttura senza compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del fabbricato.
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In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”;
In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare;
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.
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A prescindere che nessuna norma prevede che il provvedimento di riduzione al pristino lo stato dei luoghi debba contenere l’indicazione della data di realizzazione degli abusi, la natura “permanente” dell’illecito urbanistico rende irrilevante l’epoca della realizzazione degli stessi attesa la sussistenza dell’interesse pubblico in re ipsa alla reintegrazione dell’ordine urbanistico violato nel momento in cui le violazioni vengono accertate dall’Autorità urbanistica.
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Con la quarta censura è dedotta la violazione di legge e l’eccesso di potere (per manifesta ingiustizia, contraddittorietà, illogicità), in quanto l’Amministrazione procedente, nel considerare le opere parzialmente difformi dai titoli abilitativi, non avrebbe tenuto conto di tutti gli aspetti funzionali, pregiudizievoli per la restante struttura (comunque ritenuta regolare e legittima), che potrebbero scaturire dalla demolizione come sanzione principale rispetto alla subordinata sanzione pecuniaria.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Invero, nella situazione di parziale difformità delle opere realizzate rispetto ai permessi di costruire in precedenza rilasciati e quindi da considerare non presidiate dal corrispondente titolo abilitante, giusta l’art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, alcun spazio può esservi originariamente per la disporre una preventiva irrogazione di una sanzione meramente pecuniaria la quale può essere applicata, in alternativa alla riduzione in pristino -come peraltro implicitamente ammesso anche dai ricorrenti- unicamente allorquando, in sede di esecuzione della demolizione, ci si renda conto che non è tecnicamente possibile eliminare le parti difformi della struttura senza compromettere quelle conformi o, addirittura, la statica del fabbricato.
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Con la sesta censura si deduce la violazione di legge e l’eccesso di potere per carenza di motivazione e di istruttoria, atteso che, nell’emanazione dell’atto impugnato l’Amministrazione procedente non avrebbe effettuato un’adeguata comparazione tra sacrifici imposti ai privati incisi e finalità di interesse pubblico perseguito dalla medesima, non valutando l’esistenza di un pubblico interesse concreto alla demolizione delle opere edilizie abusive, non bastando il mero accertamento dell’abusività della costruzione.
L’ordine di idee di parte ricorrente non è condivisibile.
Secondo quanto in precedenza statuito da questa Sezione: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”>> (TAR Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634) ed una siffatta impostazione consegue a pacifica giurisprudenza, per la quale: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235); infine: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
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Con l’ottava censura si deduce la violazione di legge, l’eccesso di potere, il difetto di istruttoria e di motivazione, non contenendo l’impugnata ordinanza di demolizione l’indicazione circa l’epoca di costruzione degli abusi riscontrati.
Tale censura non ha miglior sorte delle precedenti in quanto, a prescindere che nessuna norma prevede che il provvedimento di riduzione al pristino lo stato dei luoghi debba contenere l’indicazione della data di realizzazione degli abusi, la natura “permanente” dell’illecito urbanistico rende irrilevante l’epoca della realizzazione degli stessi attesa la sussistenza dell’interesse pubblico in re ipsa alla reintegrazione dell’ordine urbanistico violato nel momento in cui le violazioni vengono accertate dall’Autorità urbanistica; nella fattispecie deve altresì rilevarsi che le opere sono state ingiunte di demolizione non in quanto prive di permesso di costruire, ma in quanto realizzate in maniera (parzialmente) difforme rispetto ai pregressi titoli abilitativi, per modo che la datazione degli abusi è, in ogni caso, necessariamente da collocare in epoca successiva al rilascio dei permessi di costruire (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 20.10.2015 n. 4904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell'azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta.
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all'emissione dell'ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l'ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva.
L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
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Con una prima censura si sostiene la illegittimità dell’ordine di demolizione, in relazione alla violazione dell’articolo 34 del d.p.r. 380 del 2001, in quanto il Comune avrebbe dovuto comminare la sanzione pecuniaria in relazione al pregiudizio che la demolizione apporterebbe alla parte conforme al titolo edilizio.
Tale censura è infondata.
La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons. Stato, sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013 ), e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata. In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell'azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del 2012).
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all'emissione dell'ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l'ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva (Tar Lazio I-quater n. 316 del 2014, 5277 del 2013; n. 762 del 2013).
L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (Tar Lazio I-quater n. 3105 del 2012) .
Ne deriva l’infondatezza della censura relativa alla violazione dell’articolo 34 del d.p.r. 380 del 2001, che potrà essere eventualmente applicato dall’Amministrazione, qualora ne ricorrano i presupposti, anche su istanza di parte, nella fase esecutiva della demolizione
(TAR Lazio-Roma, Sez. IV, sentenza 14.10.2015 n. 11671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico opere consistenti in sbancamento del terreno, realizzazione di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso», di un riporto di terra e materiali di risulta e di muro di contenimento in pietra abbisognano del permesso di costruire, trattandosi di opere che, considerate nel loro complesso, obiettivamente comportano una trasformazione del territorio, quanto meno per ciò che riguarda quelle non accessorie, quali i singoli edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, è necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
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La giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione, che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare
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Analoghi principi sono stati affermati con riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi, in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze dannose o pericolose e che la sanzione specifica della rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso.
Si è ulteriormente specificato che la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
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I principi appena richiamati, tuttavia, riguardano il proprietario o comunque colui che materialmente dispone delle opere e che, pertanto, può provvedere all'adempimento della condizione apposta alla concessione del beneficio, mentre per altri soggetti coinvolti, quali il direttore dei lavori o gli esecutori materiali, la possibilità di adempiere sarebbe necessariamente subordinata alla volontà del proprietario.

Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha infatti chiarito come
il giudice, nel disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione.

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RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 21/11/2014 ha confermato la decisione con la quale, in data 27/11/2012, il Tribunale di Grosseto - Sezione Distaccata di Orbetello aveva affermato la responsabilità penale di Em.FA. e Do.TU. in ordine ai reati di cui agli artt. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, perché, quali esecutori materiali, realizzavano (unitamente al proprietario del terreno), in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed in assenza del permesso di costruire e dell'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo, opere consistenti in sbancamento del terreno, realizzazione di manufatti, di un marciapiede, di uno «scannafosso», di un riporto di terra e materiali di risulta e di muro di contenimento in pietra (Monte Argentario 11/10/2010).
Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente ricorso per cassazione tramite il loro difensore di fiducia.
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CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è solo in parte fondato.
Va rilevato, con riferimento al primo ed al secondo motivo dì ricorso, che la sentenza impugnata è immune da censure per ciò che riguarda la natura delle opere, la necessità dei titoli abilitativi, che si è accertato non essere stati richiesti e la datazione degli interventi.
La mera descrizione degli interventi contenuta nel capo di imputazione ne evidenzia la assoggettabilità al permesso di costruire, trattandosi di opere che, considerate nel loro complesso, obiettivamente comportano una trasformazione del territorio, quanto meno per ciò che riguarda quelle non accessorie, quali i singoli edifici.
Certamente, per tutti gli interventi, nessuno escluso, era necessaria l'autorizzazione paesaggistica.

Per ciò che concerne la loro datazione, la Corte del merito ha rilevato che, all'atto dell'accertamento, le opere erano in corso di esecuzione e che i due manufatti in muratura non risultano preesistenti non essendo neppure censiti in catasto, osservando anche che tale tesi difensiva era stata prospettata solo nel giudizio di appello e non anche nel corso del giudizio abbreviato.
A fronte di tali affermazioni, che non presentano cedimenti logici o manifeste contraddizioni, i ricorrenti oppongono generiche censure prive di ogni correlazione con la decisione, cosicché i motivi di ricorso devono ritenersi inammissibili per difetto di specificità.
2. A conclusioni diverse deve pervenirsi per ciò che concerne il terzo motivo di ricorso.
Il Tribunale ha infatti subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena, nei confronti di tutti gli imputati, alla riduzione in pristino dei luoghi entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, disponendo la restituzione delle opere in sequestro agli aventi diritto al fine di consentire lo spontaneo adempimento a quanto disposto.
La Corte territoriale ha confermato la statuizione sul punto, respingendo le censure degli appellanti, rilevando che la destinazione ad abitazione dei manufatti non assumeva rilievo ai fini della riduzione in pristino, osservando anche come il proprietario, sebbene destinatario di un ordine di demolizione emesso dal Comune di Porto Santo Stefano (n. 57/2010), non vi avesse comunque adempiuto e che tale evenienza rafforzava l'esigenza di subordinare la concessione del beneficio della sospensione condizionale alla rimessione in pristino.
3. Ciò posto, occorre preliminarmente ricordare che
la giurisprudenza di questa Corte riconosce ormai pacificamente, per ciò che riguarda la disciplina urbanistica, la legittimità della sospensione condizionale subordinata alla demolizione, che appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep .2014), Russo, Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/05/2013, Farina Rv. 255466; Sez. 3, n. 38071 del 19/9/2007, Terminiello, Rv. 237825; Sez. 3, n. 18304 del 17/01/2003, Guido, Rv. 22471; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 2000), Pagano, Rv. 216444).
Analoghi principi sono stati affermati con riferimento alla rimessione in pristino, cui pure può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi, in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze dannose o pericolose e che la sanzione specifica della rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso (Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca, Rv. 261164; Sez. 3, n. 38739 del 28/05/2004, Brignone, Rv. 229612; Sez. 3, n. 29667 del 14/06/2002, Arrostuto S, Rv. 222115; Sez. 3, n. 23766 del 23/03/2001, Capraro A, Rv. 219930).
Si è ulteriormente specificato che la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto abusivo non è impedita dall'eventuale acquisizione del manufatto al patrimonio del comune a seguito dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato (cfr. Sez. 3, n. 4444 del 12/01/2012, Seoni, Rv. 251972. V. anche Sez. 3, n. 26149 del 9/6/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito e altro, Rv. 226321).
4.
I principi appena richiamati, tuttavia, riguardano il proprietario o comunque colui che materialmente dispone delle opere e che, pertanto, può provvedere all'adempimento della condizione apposta alla concessione del beneficio, mentre per altri soggetti coinvolti, quali il direttore dei lavori o gli esecutori materiali, la possibilità di adempiere sarebbe necessariamente subordinata alla volontà del proprietario.
Di tale evenienza ha già tenuto conto questa Corte, che ha infatti chiarito come
il giudice, nel disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione (Sez. 3, n. 17991 del 21/01/2014, Ciccone e altri, Rv. 261497).
A tale principio, pienamente condiviso dal Collegio, deve essere dunque data continuità, rilevando come, nel caso in esame, la subordinazione della condizionale alla rimessione in pristino sia stata erroneamente disposta nei confronti dei ricorrenti.
Invero sebbene la decisione del giudice del merito risulti corretta per ciò che concerne il proprietario del terreno -il quale potrà comunque provvedervi, per quanto si è detto in precedenza, anche a seguito dell'acquisizione ope legis della proprietà dell'abuso e dell'area di sedime all'amministrazione comunale in conseguenza dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione (cfr. ex pl. Sez. 3, n. 22237 del 22/4/2010, Gotti, Rv. 247653)- ma non anche per soggetti diversi che, come nel caso di ricorrenti, meri esecutori materiali, non dispongono liberamente dell'area e dei manufatti abusivi (Corte di Cassazione, Sez. III, penale, sentenza 13.10.2015 n. 41051).

EDILIZIA PRIVATANell'adozione dell'ordinanza comunale di demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi deve qualificarsi controinteressato in senso sostanziale il vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera abusiva sanzionata, circostanza che nella fattispecie concreta ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406 direttamente interessato alla rimozione della recinzione de qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo.
Altresì, il soggetto medesimo riveste in concreto anche la natura di controinteressato in senso formale, ovvero agevolmente identificabile, essendo il mappale espressamente indicato nella planimetria allegata al provvedimento impugnato ed essendo, inoltre, richiamato nello stesso ricorso.

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... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi n. 72/2015, prot. n. 4794, in data 06/05/2015 emessa dal Servizio Urbanistica del Comune di Cassola, notificata l'11/05/2015.
...
- Considerato che l’eccezione di inammissibilità per mancata instaurazione del contradditorio sollevata dal Comune di Cassola è fondata, in quanto il ricorso non è stato notificato ad alcun controinteressato, mentre, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale (v. C.d.S., IV, 06.06.2011, n. 3380, V, 03.07.1995, n. 991), deve qualificarsi controinteressato in senso sostanziale il vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera abusiva sanzionata, circostanza che nella fattispecie concreta ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406 direttamente interessato alla rimozione della recinzione de qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo;
- Rilevato, altresì, come il soggetto medesimo rivesta in concreto anche la natura di controinteressato in senso formale, ovvero agevolmente identificabile, essendo il mappale espressamente indicato nella planimetria allegata al provvedimento impugnato ed essendo, inoltre, richiamato nello stesso ricorso;
- Ritenuto pertanto che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, mentre le spese di lite possono essere compensate, tenuto conto di alcune oscillazioni giurisprudenziali in materia (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.10.2015 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso avverso l’ordinanza di demolizione proposto successivamente alla presentazione dell’istanza di permesso a costruire in sanatoria.
In materia edilizia, la presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 d.P.R. 06.06.2001 n. 380), anteriormente/posteriormente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione (o del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per abusi edilizi) produce l’effetto di rendere inammissibile/improcedibile l’impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto dall’istanza consegue la perdita di efficacia di tale ordinanza ed il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, e comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
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In pendenza del procedimento volto alla verifica della sanabilità dell’opera abusiva, l’Amministrazione non può adottare, né comunque porre in esecuzione, provvedimenti sanzionatori demolitori, dovendo preventivamente pronunziarsi sulla sanabilità dell’opera (mediante accertamento di conformità urbanistica).
Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in pendenza del predetto procedimento amministrativo (di accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata inammissibile.
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È inammissibile l’impugnazione di un atto di avvio di un procedimento di diniego, avendo esso carattere endoprocedimentale ed essendo pertanto insuscettibile di recare qualsivoglia pregiudizio al ricorrente.
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- Rilevato che nell’atto introduttivo del giudizio, notificato all’Amministrazione resistente in data 10.07.2015, i ricorrenti impugnavano l’ordinanza di demolizione specificata in epigrafe, avverso la quale articolavano censure di violazione di legge (art. 97 Cost. e 7 l. 47/1985, d.l.vo 42/2004, 20 d.P.R. 380/2001, 3 l. 241/1990), nonché d’eccesso di potere, sotto plurime figure sintomatiche, facendo altresì presente che, in data 07.07.2015, prot. 21845, la ricorrente Di Do.Cl., anche nell’epigrafata qualità, aveva richiesto al Comune di Pontecagnano Faiano permesso di costruire in sanatoria, corredato della già rilasciata autorizzazione paesaggistica, n. 112/2012 del 12.07.2012; nonché impugnavano –nei sensi di cui in epigrafe– il verbale di sequestro preventivo, dell’11.05.2015;
- Rilevato che si costituiva in giudizio il Comune di Pontecagnano Faiano, concludendo per il rigetto del gravame, perché infondato, nonché rappresentando che –quanto alla sanatoria richiesta in data 07.07.2015– erano stati comunicati ai ricorrenti, con atto prot. 29169 dell’11.09.2015, i motivi ostativi all’accoglimento della medesima;
- Rilevato che, all’udienza in camera di consiglio del 23.09.2015, il ricorso era trattenuto in decisione;
- Rilevato che lo stesso può essere deciso con sentenza breve, perché è chiaramente inammissibile, per carenza originaria d’interesse ad agire, quanto all’impugnativa dell’ordinanza di demolizione di cui sopra, laddove –quanto all’impugnativa, per quanto tuzioristica, del verbale di sequestro preventivo, redatto dal Comando di Polizia Municipale di Pontecagnano Faiano, in data 11.05.2015– inammissibile, per difetto di giurisdizione;
- Rilevato, in particolare, che tale conclusione, quanto all’ordinanza di demolizione, discende dall’applicazione del consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, espresso, da ultimo, nella massima seguente: “In materia edilizia, la presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia ex art. 13 l. 28.02.1985 n. 47 (ora, art. 36 d.P.R. 06.06.2001 n. 380), anteriormente/posteriormente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione (o del provvedimento di irrogazione delle altre sanzioni per abusi edilizi) produce l’effetto di rendere inammissibile/improcedibile l’impugnazione stessa, per carenza di interesse, in quanto dall’istanza consegue la perdita di efficacia di tale ordinanza ed il riesame dell’abusività dell’opera, sia pure al fine di verificarne la eventuale sanabilità, e comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito od implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 02/02/2015, n. 325);
- Rilevato che tale conclusione non può essere revocata in dubbio, sol perché il Comune di Pontecagnano Faiano ha comunicato ai ricorrenti, ex art. 10-bis della l. 241/1990, le ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza di p. di c. in sanatoria, atteso che trattasi d’atto endoprocedimentale non lesivo, inidoneo, come tale, a far cessare la pendenza della domanda in questione (cfr. le ulteriori massime che seguono: “In pendenza del procedimento volto alla verifica della sanabilità dell’opera abusiva, l’Amministrazione non può adottare, né comunque porre in esecuzione, provvedimenti sanzionatori demolitori, dovendo preventivamente pronunziarsi sulla sanabilità dell’opera (mediante accertamento di conformità urbanistica). Ciò comporta: che la domanda giudiziale volta all’annullamento dell’ordinanza di demolizione proposta in pendenza del predetto procedimento amministrativo (di accertamento della conformità urbanistica) va dichiarata inammissibile” (TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 06/03/2015, n. 632); “È inammissibile l’impugnazione di un atto di avvio di un procedimento di diniego, avendo esso carattere endoprocedimentale ed essendo pertanto insuscettibile di recare qualsivoglia pregiudizio al ricorrente” (TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 07/07/2006, n. 1735);
- Rilevato altresì –quanto al verbale di sequestro preventivo di cui sopra– che la relativa impugnazione, sia pur dichiaratamente tuzioristica (“per quanto possa occorrere”) è, in ogni caso, inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A. (“La cognizione del verbale di sequestro preventivo non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, essendo la stessa demandata a quella del giudice penale, per cui, limitatamente, al medesimo, il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo” – TAR Lazio–Roma, Sez. I, 11/01/2013, n. 253), spettando la giurisdizione in materia al G.O. penale, innanzi al quale la causa potrà essere riassunta nel termine di cui all’art. 11 c.p.a.
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.10.2015 n. 2188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente concorso alla perpetrazione dell’illecito.
Ne consegue che l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi, commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità, non implica l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene.

2. Nel merito, il ricorso è fondato in parte, alla stregua della motivazione che segue.
2.1. Col primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, posto che il ricorrente non sarebbe il “soggetto giuridicamente responsabile” dei pretesi abusi edilizi, in quanto tale responsabilità andrebbe ricondotta alla società Mu.Ri. S.r.l., intestataria del permesso di costruire n. 146/2008, per effetto di voltura disposta dal Comune resistente in data 03.07.2009.
2.2. La doglianza è infondata.
Invero, dagli atti di causa risulta che il ricorrente è proprietario della superficie su cui insiste la parte dell’immobile ritenuta abusiva, mentre la Mu.Ri. s.r.l. è meramente comodataria di tale area. Orbene, l’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del testo unico dell’edilizia, va notificato anche al proprietario, sicché quest’ultimo è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall’aver materialmente concorso alla perpetrazione dell’illecito. Ne consegue che l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi, commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità, non implica l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180; TAR Lazio, Latina, 01.09.2008, n. 1026; TAR Campania, sez. II, 19.10.2006, n. 8673) (TAR Basilicata, sentenza 07.10.2015 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento di destinazione d'uso del sottotetto.
In tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne.
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso, precisando che l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso richiede il permesso di costruire.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "
elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'arti. 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In particolare, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001.
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In tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio.
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3.2. A prescindere, poi, dalla novità della doglianza sollevata dal Ma., il tema centrale e risolutivo, al quale sfuggono i ricorrenti, è costituito dal mutamento di destinazione d'uso del sottotetto in conseguenza dei lavori abusivi eseguiti e delle difformità realizzate, in ordine alle quali, nella loro storicità, non vi è neppure contestazione.
Questa Corte ha affermato che, in tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri, Rv. 247919).
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011, Truppi, Rv. 251637), precisando che l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso richiede il permesso di costruire (Sez. 3, n. 37862 del 16/06/2014, PMT in proc. Duranti ed altri, non mass.).
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243101).
In particolare, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 6581 del 19/12/2000, dep. 19/02/2001, Muccio, Rv. 218702; Sez. 3, n. 17359 del 08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
I ricorrenti obiettano come tale destinazione non si fosse in concreto realizzata, in quanto non voluta, ma a parte l'istanza di sanatoria tendente a regolarizzare il pregresso abuso, dimostrativa della perpetrazione di esso ed anche della direzione finalistica della condotta, la destinazione della soffitta ad uso abitativo è stata desunta dalla divisione del locale in stanze mediante tre metrature, dall'inserimento di un bagno di grandi dimensioni e munito addirittura vasca idromassaggio e di finiture di pregio, inidonee per un locale di sgombero, dall'apertura di finestre che ne aumentavano la luminosità, dalla modifica dell'impianto elettrico e di quello idrico preesistenti, dall'inserimento addirittura di termosifoni per il riscaldamento, dalla realizzazione di una scala di ampie dimensioni per accedervi, sicché non si comprende cosa altro occorra per dedurre, sulla base di massime di esperienze generalizzate, l'esecuzione di lavori diretti ad assegnare all'immobile una destinazione d'uso diversa da quella originaria.
Né poteva ipotizzarsi la presentazione di qualsiasi variante posto che, al cospetto di una modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non sono ammesse varianti stante la chiara preclusione in tal senso desumibile dall'art. 22, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001.
I Giudici del merito hanno pertanto correttamente applicato la normativa urbanistica pervenendo alla conclusione di ritenere ampiamente configurati i reati ascritti anche con riferimento alle altre ipotesi di abuso edilizio indicate nel capo di imputazione e tutte sostanzialmente finalizzate alla modifica della destinazione d'uso del sottotetto, violazione già di per sé autosufficiente per l'affermazione della responsabilità penale e compiuta nell'esclusivo interesse della proprietaria dell'immobile, circostanza che esclude, come sarà più chiaro in seguito, la sua buona fede.
3.2. I ricorrenti hanno eccepito che la responsabilità penale non poteva essere affermata per difetto dell'elemento soggettivo del reato e la proprietaria, committente dei lavori, ha in particolare sostenuto di aver agito in assenza di colpa perché inconsapevole di commettere gli abusi, avendola il direttore dei lavori sempre rassicurata in merito alla esecuzione delle opere non previste nella Dia, dicendole che si trattava di lavori legittimi e regolarizzabili mediante una variante finale, ma tale asserzione non è stata convalidata dalla Corte territoriale che ha osservato che l'imputata, se anche avesse agito fidandosi delle assicurazioni del direttore dei lavori, aveva comunque l'onere di accertare, con la necessaria diligenza, se davvero le opere difformi e non previste nella Dia, di cui ella era ampiamente consapevole, stante la loro macroscopica diversità rispetto al progetto allegato alla Dia stessa, fossero legittime e assentibili.
Dalla testimonianza della figlia della ricorrente si è appreso infatti che la Ra. chiedeva spiegazioni al direttore dei lavori circa le difformità riscontrate sentendosi rispondere che in effetti si trattava di lavori non regolari che però sarebbero stati regolarizzati in seguito.
L'imputata, di fronte alla palese violazione dell'atto abilitativo presentato in Comune (violazioni apprese proprio dal direttore dei lavori), aveva allora il dovere e la concreta possibilità di verificare la correttezza di quanto veniva eseguito rivolgendosi direttamente ai tecnici comunali preposti al controllo dell'attività edilizia.
La Corte distrettuale ha perciò ritenuto provato che l'imputata ha agito in modo negligente anche se il coimputato l'aveva rassicurata ed il fatto che quest'ultimo, a dibattimento, abbia confermato di aver tranquillizzato la Ra. circa la regolarità della procedura che aveva deciso di intraprendere, cioè eseguire delle opere non previste dalla Dia confidando di poterle regolarizzare con una variante finale, non esonera la ricorrente da responsabilità per colpa ed esclude che si sia potuto verificare, in capo ad entrambi i ricorrenti, qualsiasi errore di fatto o errore sulla violazione di norme extrapenali, essendo entrambi perfettamente consapevoli della difformità dei lavori eseguiti rispetto alla Dia presentata.
Questa Corte ha stabilito che, in tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio (Sez. 3, n. 36852 del 10/06/2014, Messina, Rv. 259950).
Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti erano consapevoli dell'illegittimità dei lavori eseguiti e la Ra. ha inosservato l'obbligo di richiedere un'adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 05.10.2015 n. 39907).

settembre 2015

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CAPRI (Napoli) - demolizione di manufatti abusivi - art. 27, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia" - art. 167, decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 23.09.2015 n. 22200 di prot.).
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La Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il comune e la provincia di Napoli, con nota prot. 11941 del 30.07.2015, chiede chiarimenti circa le competenze del Soprintendente in merito all'esecuzione delle opere per il ripristino dello stato dei luoghi che, ricadenti in ambito territoriale tutelato ai fini paesaggistici, risultano essere stati modificati o alterati per effetto di interventi abusivi non sanati.
Espone in fatto l'avvenuta esecuzione di opere abusive ...

EDILIZIA PRIVATALa sanzione alternativa alla demolizione, nella prassi frequentemente definita come “sanatoria ex art. 34 dpr 380/2001”, è contemplata solo per le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, se la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
- la difformità solo parziale e non totale;
- il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in caso di demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la demolizione è ineludibile.

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Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto che anche a voler considerare corrette le misurazioni dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte, infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n. 380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, a norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della “sanatoria” invocata (quando l’altezza realizzata superi di più del 2% quella progettata,) irrilevante essendo che vi sia pregiudizio in caso di demolizione.
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... per l'annullamento:
- del diniego di sanatoria a firma del Dirigente del Settore Urbanistica, Sezione Edilizia Privata ed Economica del Comune di Corato, recante il prot. 11.21992 del 25.06.2014, notificato alla ricorrente in data 30.06.2014 e con il quale è stata rigettata in via definitiva l’istanza di sanatoria inoltrata dalla Fe.Im. s.r.l., ai sensi e per gli effetti dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. 380/2001, nonché contestualmente, ai sensi e per gli effetti della L.R. Puglia n. 33/2007 per il recupero ai fini abitativi del vano sottotetto (cfr istanza presentata in data 3006 2014, protocollata al n. 3673 ed identificata come pratica edilizia n. 15/2014),
- ove lesivi degli interessi della società ricorrente, dei seguenti atti presupposti e/o connessi, richiamati ob relationem nel summenzionato provvedimento ancorché trattasi di atti del tutto sconosciuti e mai notificati alla Fe.Im. srl: a) ordinanza di demolizione dirigenziale n. 39/2012 del 27.03.2012; b) ordinanza dirigenziale n. 3 1/2012 del 26.03.2012;
- di ogni altro atto, connesso, presupposto e/o consequenziale a quello impugnato, ancorché non conosciuto, ivi compresi, ove occorra ed ove lesivi degli interessi del ricorrente, le eventuali ulteriori relazioni istruttorie endoprocedimentali, la proposta del responsabile del procedimento con riserva, in ogni caso, di formulare in merito ed ove necessario appositi motivi aggiunti;
- nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente, con la consequenziale condanna del Comune di Corato, ad ottenere ad ottenere il rilascio della sanatoria de qua, conformemente a quanto richiesto con l’istanza/pratica edilizia recante il n. 15/2014.
...
La società odierna ricorrente ha realizzato, sulla scorta dei titoli edilizi rilasciatile in virtù di un piano di lottizzazione regolarmente approvato, un fabbricato destinato a civile abitazione composto da quattro unità abitative (la ricorrente non precisa, in ricorso, quanti piani fuori terra contempli il progetto, ma dagli allegati grafici prodotti, verosimilmente si tratta di edificio ad un piano f.t. e sottotetto –in progetto- non abitabile, sito in v. ... n. 28, identificato al foglio 48, p.lla 717).
In sede di realizzazione del manufatto, il piano sottotetto è stato edificato, per due delle unità immobiliari (interni n. 36 en. 38 identificati, catastalmente dai subalterni 3 e 4) con maggiore altezza rispetto a quella di progetto (dalle fotografie prodotte si evince chiaramente che il sottotetto è già utilizzato a vani abitativi).
La società ha, pertanto, inoltrato una richiesta di “sanatoria” (rectius: di applicazione di sanzione non demolitoria) ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, ritenendo che le difformità realizzate fossero lievi e assoggettabili alla normativa invocata.
Contestualmente, nell'istanza di che trattasi, ha anche richiesto, ai sensi della L.R. n. 33/2007, cosi come modificata dall'art. 1 della L.R. n. 38/2013, il recupero, ai fini abitativi, del vano sottotetto; il tutto, comunque, sempre previa definizione di sanatoria, ai sensi del summenzionato art. 34, comma 2.
Con il provvedimento impugnato, il Comune ha negato l’applicazione della sanzione pecuniaria e, conseguentemente escluso la possibilità del recupero a fini abitativi del sottotetto, in quanto, pacificamente, la normativa regionale la esclude in caso di opere abusive.
...
Il ricorso non è fondato.
La questione su cui le parti controvertono va risolta esclusivamente in punto di diritto.
Recita l’art. 34 cit., rubricato “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”: “1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell'ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività (1).
2-ter. Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali (2)
.”
In estrema sintesi la sanzione alternativa alla demolizione, nella prassi frequentemente definita come “sanatoria ex art. 34”, è contemplata solo per le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, se la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
   - la difformità solo parziale e non totale;
   - il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in caso di demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la demolizione è ineludibile.
Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto che anche a voler considerare corrette le misurazioni dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte, infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n. 380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, (Cons. St. Sez. IV, 27.11.1010, n. 8260; 10.04.2009, n. 2227, Sez. V, 21.03.2011, n. 1726), a norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della “sanatoria” invocata (quando l’altezza realizzata superi di più del 2% quella progettata,) irrilevante essendo che vi sia pregiudizio in caso di demolizione.
Tale circostanza è tranciante e dirimente e non può che porre fine al dibattito delle parti.
Risulta, infatti, del tutto irrilevante la motivazione esposta nel provvedimento (che, pure, dà piena contezza di tale elemento ostativo), atteso che il diniego impugnato ha natura vincolata, sicché anche ai sensi dell’art. 21-ocites l. n. 241/1990, l’atto impugnato è esente da ogni censura.
E’ peraltro, evidente che, risultando l’opera abusiva, non potrà trovare applicazione la normativa regionale invocata sul recupero dei sottotetti.
Del tutto irrilevante, infine, è l’eventuale sanatoria concessa per analoghe costruzioni, la quale, ben lungi dal fornire elemento a sostegno della illegittimità dell’atto impugnato, può al più rivelare pregresse illegittimità dell’operato dell’Ente su cui deve valutarsi l’esercizio dei poteri di rimozione in autotutela (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 16.09.2015 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione del manufatto abusivo e acquisto del bene per successione a causa di morte.
L'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, perciò,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente.
Invero, se ne ricorresse la fattispecie,
il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
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L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, ha carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.
E nemmeno l'ordine di demolizione di un immobile abusivo può essere revocato o sospeso in conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità.
Parimenti,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia ancora pendente il procedimento per il reato edilizio.
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L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria.
Pertanto nell'ipotesi di acquisto dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell'erede del condannato, stante la preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale della stessa.
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Peraltro,
nel ribadire che l'esecuzione di un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto che continui ad arrecare pregiudizio al territorio, questa Corte ha già avuto modo di precisare che tale principio è conforme alle norme CEDU.

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1. Il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. E' stato precisato da questa Corte di legittimità che
l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato (cfr. sez. 3 n. 42781 del 21.10.2009, Arrigoni, caso in cui la Corte ha precisato in motivazione che, comunque, la mancata condanna del terzo per concorso nell'abuso edilizio non implica necessariamente una posizione di buona fede rispetto ad esso).
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, perciò,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (sez. 3, n. 22853 del 29.3.2007, Coluzzi, rv. 236880, occasione in cui la Corte ha ulteriormente precisato che il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione).
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 31, comma 9, infatti, ha carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso, né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (sez. 3, n. 37120 dell'11.5.2005, Morelli, rv. 232175; conf. sez. 3, n. 16035 del 26.2.2014, Attardi, rv. 259802).
E nemmeno l'ordine di demolizione di un immobile abusivo può essere revocato o sospeso in conseguenza dell'avvenuta donazione del cespite, in epoca successiva alla sentenza di condanna, in quanto il donatario riceve il bene nelle condizioni giuridiche in cui si trova al momento del perfezionamento dell'atto di liberalità (cfr. sez. 3, n. 38941 del 09.07.2013, DE Martino, rv. 256383).
Parimenti,
l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivamente realizzato non è impedita dall'esistenza di un diritto di comproprietà sul bene di cui sia titolare il coimputato nei cui confronti sia ancora pendente il procedimento per il reato edilizio (così sez. 3, n. 45301 del 7.10.2009, Roscetti, rv. 245213, in un caso in cui era stata respinta la richiesta, presentata dal correo non ancora giudicato, avente ad oggetto la sospensione dell'ordine di demolizione impartito con sentenza già divenuta irrevocabile nei confronti del coimputato).
3. Nello specifico del caso che ci occupa il G.E. di Torre Annunziata ha operato un buon governo del costante dictum di questa Corte di legittimità secondo cui
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria (cfr. ex multis sez. 3, n. 3861 del 18.01.2011, Baldinucci ed altri, rv. 249317).
Pertanto nell'ipotesi di acquisto dell'immobile per successione a causa di morte, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell'erede del condannato, stante la preminenza dell'interesse paesaggistico o urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell'avente causa del condannato, mentre passa in secondo piano l'aspetto afflittivo della sanzione e, quindi, il carattere personale della stessa (sez. 3, n. 3720 del 24.11.1999 dep. il 27.1.2000, Barbadoro, rv. 215601).
Peraltro,
nel ribadire che l'esecuzione di un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato non è preclusa dall'intervenuta cessione a terzi del medesimo, operando gli stessi nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto che continui ad arrecare pregiudizio al territorio questa Corte ha già avuto modo di precisare, diversamente da quanto opina il ricorrente, che tale principio è conforme alle norme CEDU, come interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (cfr. sez. 3, n. 48925 del 22.10.2009, Viesti ed altri, rv. 245918).
Peraltro, in ogni caso, la circostanza che Re.An. fosse nel possesso dell'immobile, rende la stessa soggetto passivo legittimato a ricevere la notifica dell'ingiunzione alla demolizione del manufatto abusivo originariamente di proprietà del marito deceduto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2015 n. 36383).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio non ignora che la preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l’amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla domanda in parola, volta, in caso di suo accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire l'esercizio del potere repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato: difatti, fermo restando che, anche in caso di diniego della richiesta sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi, l’esecuzione della misura repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo titolo abilitativo edilizio.
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L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati, l’individuazione delle violazioni accertate e della normativa applicata.
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L’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
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In disparte il rilievo, di per sé dirimente, che le opere riguardate dal provvedimento di demolizione impugnato risultano compiutamente identificate nella loro localizzazione territoriale e spaziale, il Collegio osserva che la lamentata omissione dell’area di sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.

9. Venendo ora a scrutinare i motivi di impugnazione avverso l’ordinanza di demolizione n. 11 del 17.05.2011, priva di pregio si rivela la censura secondo cui illegittimamente l’amministrazione comunale intimata avrebbe avviato l’iter repressivo-ripristinatorio prima di aver definito il procedimento di sanatoria instaurato con la domanda del 13.07.2010, prot. n. 7495.
Al riguardo, il Collegio non ignora che la preesistenza della domanda di sanatoria rende illegittima la successiva irrogazione della sanzione demolitoria, per non essersi l’amministrazione comunale preventivamente pronunciata sulla domanda in parola, volta, in caso di suo accoglimento, a privare le opere del loro carattere di abusività, ovvero, in caso di suo rigetto, a consentire l'esercizio del potere repressivo.
E tanto, in omaggio al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa, che impedisce di previamente sanzionare ciò che potrebbe essere sanato: difatti, fermo restando che, anche in caso di diniego della richiesta sanatoria, l'amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi, l’esecuzione della misura repressivo-ripristinatoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 vanificherebbe a priori l'interesse ad ottenere, ove ne sussistessero le condizioni, la legittimazione delle opere abusive, precludendo ogni valutazione circa il mantenimento o l’eliminazione di queste ultime, e determinerebbe l'inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo titolo abilitativo edilizio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2005, n. 5851; 16.01.2007, n. 226; 06.07.2009, n. 4335; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.05.2005, n. 3400; sez. I, 01.12.2005, n. 12727; 24.06.2005, n. 5254; 11.01.2006, n. 230; 08.06.2006, n. 4388; sez. II, 05.09.2007, n. 8575; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 14.06.2005, n. 3402; sez. III, 07.07.2008, n. 2056; 29.03.2010, n. 878; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.01.2006, n. 223; Salerno, sez. II, 04.05.2006, n. 597; Napoli, sez. IV, 02.10.2006, n. 8429; 06.12.2006, n. 10434: sez. VI, 28.03.2007, n. 312; sez. III, 21.05.2007, n. 5425; 06.06.2007, n. 5961; sez. IV, 08.10.2007, n. 9123; 21.03.2008, n. 1461; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; sez. IV, 03.04.2008, n. 2846; sez. VI, 30.04.2008, n. 3070 sez. VII, 07.05.2008, n. 3517; sez. IV, 06.03.2009, n. 1305; sez. VI, 13.07.2009; TAR Basilicata, Potenza, 03.03.2007, n. 137; TAR Liguria, Genova, sez. I, 16.05.2007, n. 785; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 06.12.2007, n. 1937; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 17.12.2007, n. 3704).
10. Infondato è pure l’ordine di doglianze in base al quale, in difetto di motivazione, la misura demolitoria sarebbe stata irrogata senza aver compiutamente valutato la tipologia di abuso contestato, l’applicabilità della sanzione alternativa pecuniaria (trattandosi asseritamente di opere eseguite in parziale difformità dal progetto assentito) e le deduzioni fornite dall’interessato in sede di contraddittorio procedimentale, nonché senza aver individuato l’area di sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
10.1. Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie, e a dispetto di quanto asserito da parte ricorrente– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.2 e 2.5), l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite in totale difformità dalla d.i.a. del 11.06.2007, prot. n. 5418, nonché in assenza di permesso di costruire) e della normativa applicata (art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001) (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 30.05.2006, n. 3283; sez. VI, 25.08.2006, n. 4996; sez. IV, 14.05.2007, n. 2441; sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 24.01.2008, n. 367; sez. VI, 09.01.2008, n. 49; sez. IV, 24.01.2008, n. 57; sez. VIII, 15.05.2008, n. 4556; sez. III, 05.06.2008, n. 5255; sez. IV, 08.07.2008, n. 7798; sez. VI, 14.07.2008, n. 8761; sez. IV, 04.08.2008, n. 9720; sez. II, 07.10.2008, n. 13456; sez. IV, 29.09.2008, n. 11820 sez. VI, 27.10.2008, n. 18243; sez. III, 04.11.2008, n. 19257; sez. IV, 28.11.2008, n. 20564; 02.12.2008, n. 20794; sez. VI, 17.12.2008, n. 21346; 23.02.2009, n. 1032; 25.02.2009, n. 1100; sez. IV, 06.03.2009, n. 1304; 24.03.2009, n. 1597; 18.06.2009, n. 3368; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.01.2008, n. 57; 19.02.2009, n. 1318; 09.03.2009, n. 1768; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 13.03.2008, n. 475; TAR Lazio, Roma, sez. II, 05.09.2008, n. 8117; 06.03.2009, n. 2358; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.04.2009, n. 781).
10.2. Ciò posto, giova, poi, chiarire che gli abusi accertati a carico del D’A. si sono sostanziati nell’ampliamento (per una volumetria complessivamente pari a circa mc. 630,00) del manufatto preesistente, demolito e ricostruito, il quale è risultato eseguito in totale difformità dalla la d.i.a. del 11.06.2007, prot. n. 5418, e per il quale, stante la relativa natura e consistenza, ossia trattandosi di intervento comportante la creazione di un organismo edilizio integralmente diverso da quello originario –anziché di parziali difformità, come, invece, erroneamente inferito da parte ricorrente–, si imponeva il preventivo rilascio di apposito permesso di costruire (sul punto, cfr., TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 04.07.2013, n. 3427).
Ebbene, l’art. 31 del d.p.r. n. 380/2001, cui risulta senz’altro riconducibile la fattispecie in esame (opere eseguite in assenza di permesso di costruire), non contempla l'irrogazione di una sanzione diversa da quella demolitoria (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 07.09.2009, n. 4899).
La sanzione alternativa pecuniaria è, infatti, prevista unicamente per le diverse ipotesi di opere di ristrutturazione eseguite in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire ovvero di opere di nuova costruzione eseguite in parziale difformità dal permesso di costruire, mentre non è prevista dal comma 2 dell’art. 31 cit. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire.
Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, –recita la disposizione richiamata– accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”: in altri termini, nello schema giuridico delineato dal legislatore, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali sulla sanzione da irrogare, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è ‘in re ipsa’ l'interesse pubblico alla sua rimozione (TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.01.2009, n. 443; sez. VIII, 11.10.2011, n. 4645).
10.3. Con riguardo al profilo di censura incentrato sull’omessa considerazione delle deduzioni fornite in sede di contraddittorio procedimentale dall’interessato con nota del 04.04.2011 (prot. n. 3035), è agevole obiettare che l’ordinanza di demolizione, per la sua cennata natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
Si aggiunga che l'obbligo di motivazione ex art. 3 della l. n. 241/1990 non avrebbe potuto tradursi –a discapito dei principi di efficacia e celerità dell’agire amministrativo– in un interminabile confronto dialettico e in una analitica replica alle osservazioni del 04.04.2011 (prot. n. 3035) (cfr. TAR Abruzzo, L'Aquila, 26.07.2004, n. 836; sez. I, 06.06.2007, n. 285; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, 14.05.2005, n. 459; TAR Liguria, Genova, sez. II, 07.07.2005, n. 1022; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 07.04.2006, n. 772; TAR Lazio, Roma, sez. I, 04.08.2006, n. 6950; 14.09.2007, n. 8951), avendo esso per oggetto i presupposti fattuali che, all’esito dell’istruttoria procedimentale, avevano evidenziato, in logica e insuperata antitesi alle anzidette osservazioni, nonché in senso confermativo delle preannunciate determinazioni, la legittimità della divisata irrogazione della sanzione demolitoria.
10.4. Infine, il D’A. neppure può fondatamente lamentare l’omessa individuazione dell’area di sedime gratuitamente acquisibile al patrimonio comunale.
Sul punto, in disparte, il rilievo, di per sé dirimente, che le opere riguardate dal provvedimento impugnato risultano compiutamente identificate nella loro localizzazione territoriale e spaziale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2.2 e 2.5), il Collegio osserva che la lamentata omissione non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, concernendo indicazioni riferibili al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 04.09.2015 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di demolizione non all'autore, ma al proprietario e al responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore motivazione.
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In materia di condono edilizio, la formazione del silenzio-assenso presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una situazione difforme da quella reale.

per la riforma
- quanto al ricorso n. 5148 del 2015, della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n. 744/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune;
- quanto al ricorso n. 5149 del 2015, della sentenza del Tar Sardegna - Cagliari: Sezione II n. 745/2015, resa tra le parti, concernente concernente diniego condono edilizio - sgombero immobile per acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune.
...
A) Un primo gruppo di doglianze si incentra sulla incolpevolezza degli appellanti rispetto alla realizzazione delle opere abusive e all’estraneità alle ordinanze di demolizione, indirizzate, come si è detto, al padre Edmondo e al fratello Salvatore.
Esse sono infondate.
Giova innanzitutto puntualizzare che le pronunce in sede penale intervenute a carico degli attuali appellanti hanno accertato la prosecuzione degli abusi edilizi per i quali erano stati assolti per prescrizione il padre e il fratello, e che per tale ragione in data 10.10.2014 l’Ufficio esecuzioni penali e misure di sicurezza presso la Procura della Repubblica di Cagliari ha incaricato, come si è ricordato, il Sindaco di Cagliari di provvedere alla demolizione del fabbricato abusivo e al ripristino dell’area su cui esso insiste.
E’ quindi infondato il motivo di fondo sotteso all’intero ricorso, volto a evidenziare la pretesa incolpevolezza degli appellanti rispetto agli abusi edilizi commessi da altri: al contrario, l’attività illecita si è protratta anche dopo il passaggio della proprietà a loro favore.
In ogni caso, vale ricordare il principio consolidato in giurisprudenza, condiviso dal Collegio, secondo il quale in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario stesso si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 04.05.2015, n. 2211 e 30.03.2015, n. 1650).
L’art. 31, comma 2, del T.U. indirizza, infatti, l’ordine di demolizione non all'autore, ma al proprietario e al responsabile dell'abuso, in forma non alternativa, ma congiunta e simultanea, così rendendo palese che entrambi questi soggetti sono chiamati a ripristinare il corretto assetto edilizio violato dall’abuso: le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono, quindi, che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati, non tanto e non solo come conseguenza dell’edificazione senza titolo, quanto come conseguenza dell’inottemperanza all’ordine che ad essi è stato impartito.
Quanto sopra risulta giustificato dall'obbligo per l'Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l'esecuzione di opere realizzate senza titolo, esecuzione che ha carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio corrisponde un'esigenza obiettiva di rimessa in pristino, da sola costituente ragione sufficiente dell’intervento sanzionatorio, senza necessità di ulteriore motivazione.
Nella fattispecie in esame, ben lungi dall’attivarsi per ricondurre a legalità l’assetto edilizio, gli attuali proprietari pretendono la salvezza incondizionata della propria posizione e il mantenimento integrale dell’immobile abusivo: le censure esaminate devono quindi essere respinte, rendendo superflua ogni ulteriore indagini circa l’effettiva conoscenza delle pregresse ordinanze da parte degli stessi soggetti e circa la connessa posizione di buona fede e di affidamento, quest’ultima clamorosamente smentita dalla presentazione delle istanze di condono, attestanti una non veritiera data di ultimazione del manufatto.
B) Quanto a quest’ultimo punto (la data di ultimazione dei lavori, successiva al 01.10.1983), è sufficiente richiamare il contenuto dei verbali di sopralluogo sopra citati, dai quali emerge che fino al 09.01.1984 esisteva solo una recinzione sul lotto poi interessato dall’edificazione, poi attestata nell’aprile 1984.
Da tale circostanza, neppure contestata dagli interessati, deriva l’infondatezza delle censure attinenti alla formazione del preteso silenzio-assenso, formazione che presuppone l’esistenza di tutte le condizioni e i presupposti richiesti dalla legge, con l’ovvia conseguenza che il silenzio-assenso non si può formare nel caso in cui l'interessato abbia indicato una situazione difforme da quella reale (per tutte, Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015, n. 876).
Ancora sul punto, è appena il caso di aggiungere che il pregiudizio asseritamente risentito dai ricorrenti per effetto del ritardo nella risposta all’istanza di condono non costituisce elemento di illegittimità del diniego e dei conseguenti provvedimenti, anzi ha consentito agli interessati di permanere nell’indebito godimento di un immobile realizzato senza titolo.
C) Le considerazioni che precedono sono ampiamente sufficienti ad evidenziare l’infondatezza dell’appello, dal momento che i provvedimenti impugnati in primo grado si manifestano correttamente motivati anche solo in base ad esse.
Per completezza, il Collegio ritiene di aggiungere che anche l’ulteriore censura, relativa alla pretesa inconferenza del richiamo al Piano territoriale pesistico Molentargius Monte Urpinu e alle connesse esigenze di tutela, pure richiamate dal Comune nella motivazione dei provvedimenti di rigetto delle istanze di condono, non è fondata.
Sostengono gli appellanti che alla data di presentazione delle domande di condono (giugno 1986) il suddetto piano non era ancora entrato in vigore, essendo stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale solo in data 24.12.1992.
La tesi non ha pregio poiché tale piano, approvato con decreto regionale 12.01.1979, è stato pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS) il 16.01.1979, e tale pubblicazione ne costituisce la condizione di efficacia legale, avendo il dPR 22.05.1975, n. 480 trasferito alla Regione Sardegna le funzioni relative all’adozione e all’approvazione dei piani territoriali paesistici, con i connessi adempimenti e conseguenze (cfr. Cass. civ. sez. I, 09.04.2015, n. 7139) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2015 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

agosto 2015

EDILIZIA PRIVATA: Il condono non blocca i lavori. Consiglio di Stato. La presentazione della domanda non impedisce altre modifiche all’immobile.
Nell’attesa della definizione di una domanda di condono edilizio, è possibile modificare l’immobile, purché sia ancora percepibile l’iniziale abusività da sanare.
Lo sottolinea il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la sentenza 14.08.2015 n. 3943, che esamina un’ipotesi frequente, connessa alla lunga durata delle pratiche di condono (nel caso deciso, pari a oltre 18 anni).
Mentre il Comune decide sull’esito della domanda di condono, all’edificio iniziale possono aggiungersi altri abusi edilizi: in questo caso, il Comune non può rifiutare di pronunciarsi sulla domanda iniziale di condono affermando solo che l’opera è stata modificata. Anche se i nuovi interventi sono consistenti, tutte le volte che l’abuso iniziale da sanare sia ancora leggibile, vi è l’onere per il Comune di pronunciarsi in modo esplicito, salva l’adozione di sanzioni per le modifiche successive alla domanda di sanatoria.
Questa conclusione è stata adottata dai giudici amministrativi prendendo atto della circostanza che manca un’espressa norma che impedisca di modificare immobili sui quali pende una domanda di sanatoria edilizia: in conseguenza, la realizzazione di modifiche all’immobile oggetto di domanda di sanatoria non può, da sola, giustificare un diniego del condono.
Vi può essere un’archiviazione del condono solo nel caso in cui le modifiche successive abbiano inciso in modo radicale sui beni e cioè quando l’amministrazione non è più in grado di valutare la sussistenza dei presupposti per la concessione del condono. Le domande di sanatoria edilizia, a cominciare da quella del febbraio 1985, possono ancora riservare sorprese a distanza di decenni, quando la domanda risulti incompleta e non sia possibile acquisire d’ufficio dati ed elementi (articolo 9-bis, Dpr 380/2001).
In particolare, vi possono essere richieste anche a distanza di decenni, quando vi siano vincoli di tutela o di inedificabilità o quando manchino allegati essenziali alla domanda di sanatoria (versamento dell’oblazione; descrizione delle opere abusive; documentazione fotografica circa lo stato dei lavori; certificato di residenza o di iscrizione alla Camera di commercio per ottenere riduzioni; perizia giurata per opere superiori a 450 metri cubi). In questi casi, infatti, non opera il termine biennale di formazione del silenzio-assenso (Consiglio di Stato, sentenza 5090/2013).
Nel caso esaminato dai giudici, nei 18 anni tra la data di presentazione della domanda di condono e quella dell’adozione del provvedimento di risposta da parte dell’amministrazione, gli interessati avevano realizzato altri interventi abusivi, cioè alcuni nuovi vani, soppalchi, chiusura di balconi ed aumento unità immobiliari. Ma tali opere, per la loro autonoma identificabilità, non potevano impedire una valutazione di quelle originariamente oggetto della domanda di condono.
Quindi l’amministrazione comunale dovrà da un lato verificare se ci sono i presupposti per il condono delle opere “originariamente” realizzate, dall’altro accertare la natura degli interventi successivi ed applicare in relazione ad essi le sanzioni demolitorie o pecuniarie previste dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità (a certe condizioni) di realizzare ulteriori opere edilizie successivamente alla presentazione dell'istanza di condono edilizio, laddove l'istanza medesima non sia stata ancora istruita e conclusa.
La questione posta all’esame della Sezione attiene alla incidenza di interventi realizzati su immobili successivamente alla presentazione di domande di condono edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell'oblazione, il presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la norma, «l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di completamento con assunzione del rischio da parte di chi li effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di divieto, la realizzazione di detti interventi non può da sola giustificare il diniego del condono, occorrendo verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni oggetto del condono impedendo all’amministrazione di valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero all’applicazione delle sanzioni previste in caso di accertata “autonoma” abusività.

1.– Le parti indicate in epigrafe, in data 18.01.1995, hanno presentato al Comune di Afragola cinque domande di condono edilizio, ai sensi della legge 23.12.2004, n. 724 (Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica), tutte riferite al medesimo fabbricato, sito in Via ... ed aventi ad oggetto le seguenti opere: a) piano terra destinato a locali commerciali e ad abitazione; b) primo e secondo piano composto, ciascuno, da due appartamenti per civile abitazione.
L’amministrazione comunale ha rigettato le suddette istanze con provvedimento del 28.02.2011, prot. n. 822, rilevando, in esito agli accertamenti istruttori disposti, la sussistenza di uno stato di fatto diverso da quello riferito nelle suddette istanze, conseguente all’esecuzione di opere ulteriori, descritte nello stesso provvedimento.
L’amministrazione comunale, con ordinanza del 12.04.2011, prot. n. 84084, ha, conseguentemente, disposto la demolizione dei manufatti ritenuti abusivi.
2.– Le parti interessate hanno impugnato detto provvedimento innanzi al Tribunale amministrativo regionale della Campania, facendo valere specifici vizi degli atti, riproposti in sede di appello.
3.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 22.03.2013, n. 1616, ha rigettato il ricorso, rilevando come gli interventi aggiuntivi eseguiti, da valutare unitariamente, abbiano determinato «un radicale stravolgimento del fabbricato oggetto del condono».
4.– I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello deducendo come: i) sarebbe stato necessario valutare singolarmente le domande presentate; ii) le singole opere realizzate non hanno la rilevanza indicata nella sentenza impugnata e non avrebbero realizzato alcun aumento di volumetria; iii) nessuna norma di legge vieta la realizzazione di interventi successivamente alla proposizione della domanda di condono; iv) sarebbe stata omessa la comunicazione di avvio del procedimento.
...
6.– L’appello è fondato nei sensi di seguito indicati.
7.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla incidenza di interventi realizzati su immobili successivamente alla presentazione di domande di condono edilizio. Si tratta di stabilire se tali interventi possano o meno giustificare il rigetto della domanda.
Il legislatore, all’art. 35 della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), ha previsto che: «decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell'oblazione, il presentatore dell'istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le opere oggetto della domanda. A tal fine, prosegue la norma, «l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione».
Questa norma autorizza esclusivamente, quando sussistono i presupposti da essa indicati, la realizzazione di lavori di completamento con assunzione del rischio da parte di chi li effettua, nel caso di rigetto della domanda di condono.
La disposizione riportata non si occupa della diversa fattispecie in cui il soggetto che ha presentato la domanda di condono abbia realizzato interventi non di rifinitura ma nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di sanatoria.
La Sezione ritiene che, in mancanza di una espressa norma di divieto, la realizzazione di detti interventi non può da sola giustificare il diniego del condono, occorrendo verificare se essi hanno inciso in modo radicale sui beni oggetto del condono impedendo all’amministrazione di valutare, per la diversità degli immobili, la sussistenza dei presupposti per la concessione del condono.
La Sezione rileva, inoltre, che, se si ritiene possibile tale valutazione, in ogni caso l’autorità pubblica dovrà esercitare i propri poteri repressivi applicando le sanzioni previste dalla legge in relazione alla effettuazione degli interventi successivi.
In definitiva, le opere realizzate dopo la presentazione della domanda di condono possono condurre, ricorrendo i presupposti indicati, al rigetto della domanda stessa ovvero all’applicazione delle sanzioni previste in caso di accertata “autonoma” abusività.
8.– Nella fattispecie in esame, dal provvedimento impugnato, risulta quanto segue.
In relazione alla domanda di condono presentata da E.A. con riferimento al piano terra-rialzato è stato riscontrata la realizzazione di: una cucina sull’area cortilizia del fabbricato; un vano, in adiacenza alla scala, avente una superficie non residenziale di mq 26,41; due soppalchi; «una superficie utile di mq 130 circa oltre balconi per una superficie non residenziale di mq 17 circa».
In relazione alle domande di condono presentate da S.G. e S.M. con riferimento al primo piano, è stata riscontrata la suddivisione della superficie tra tre appartamenti e non tra due come era indicato nella domanda di condono. Inoltre, è stato riscontrato un «incremento di superficie utile» di circa mq 13,35 ottenuti «convertendo porzioni di balconi in superficie utile».
In relazione alle domande di condono presentate da S.M. e M.M. con riferimento al secondo piano, sono state svolte analoghe considerazioni a quelle effettuate con riguardo al primo piano.
Da quanto esposto non risulta che gli interventi successivi, singolarmente considerati, abbiano inciso in maniera così radicale sugli immobili oggetto delle domande di condono da rendere oggettivamente impossibile il loro esame.
In relazione alla prima domanda di condono, gli interventi abusivi successivi (ad eccezione dei mq 130 di cui non è stata dimostrata la mancata inclusione nella domanda stessa) sono bene individuati e suscettibili di essere oggetto di autonomo intervento sanzionatorio.
In relazione alle altre due domande indicate, risulta anche in questo caso ben identificato un aumento di superficie per “trasformazione” del balcone ed una ripartizione delle superfici tra tre e non tra due appartamenti, suscettibili anch’esse di divenire oggetto di un autonomo potere sanzionatorio.
In definitiva,
dagli atti del giudizio risulta che nel periodo temporale, pari a diciotto anni, che va dalla data di presentazione delle domande di condono a quello dell’adozione del provvedimento di risposta da parte dell’amministrazione, le parti hanno realizzato altri interventi abusivi. Tali opere, per la loro autonoma identificazione, non risulta che possano impedire una valutazione di quelle originariamente oggetto della domanda di condono.
L’amministrazione comunale dovrà, pertanto, da un lato, verificare se sussistono i presupposti per il condono delle opere “originariamente” realizzate, dall’altro, accertare la natura degli interventi successivi posti in essere dagli appellanti ed applicare in relazione ad essi le sanzioni demolitorie o pecuniarie previste dalla legge
(
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.08.2015 n. 3943 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario acquisire il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso.
A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi. Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa sul principio tempus regit actum, principio che obbliga l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico vigente al momento di valutazione della la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo paesaggistico.
Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al suddetto vincolo.
Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che l’opera sia abusiva.
Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio tempus regit actum.

19. Si deve ora passare all’esame dei primi motivi aggiunti con i quali sono stati impugnati il parere negativo sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, rilasciato dal Comune di Abbiategrasso, ed il provvedimento del Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Milano, il quale ha dichiarato l’improcedibilità della relativa istanza.
20. Il Collegio può omettere lo scrutinio delle eccezioni di rito sollevate dall’Amministrazione resistente stante l’infondatezza nel merito delle censure dedotte.
21. Con il primo motivo dei primi motivi aggiunti, il ricorrente sostiene che, in realtà, le opere oggetto del presente giudizio non necessiterebbero di autorizzazione paesaggistica in quanto realizzate prima dell’introduzione del vincolo. La domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica sarebbe stata, quindi, presentata a scopo meramente cautelativo; per questa ragione, le Autorità interessate, invece che pronunciarsi nel merito per respingerla, avrebbero dovuto limitarsi a rilevare l’inutilità della domanda stessa.
22. Ritiene il Collegio che il motivo sia infondato.
23. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario acquisire il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 22.07.1999 n. 20; id., sez. VI, 07.05.2015, n. 2297; id., 17.01.2014, n. 231).
24. A sostegno di questa conclusione vi sono due elementi. Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è necessario vagliare l'attuale compatibilità dell’opera abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di carattere formale ma strettamente connesso al primo, si basa sul principio tempus regit actum, principio che obbliga l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico vigente al momento di valutazione della la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo paesaggistico.
25. Pertanto, in linea di massima, chi presenta una domanda di sanatoria di un’opera abusivamente realizzata in zona assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando l’anteriore realizzazione dell’opera medesima rispetto al suddetto vincolo.
26. Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che l’opera sia abusiva.
27. Se l’opera è stata invece legittimamente realizzata, la successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa applicabile. Vale anche in questa ipotesi il principio tempus regit actum (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.08.2015 n. 1891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004, relativamente agli aspetti paesaggistici – Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 04.08.2015 n. 558474 di prot.).
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Con nota inviata il 16.06.2015, prot. n. 128924, (acquisita agli atti del Servizio in data 16.06.2015, prot. n. PG.2015.421736) il Comune di XXX pone un quesito in merito all'applicazione dell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004, chiedendo se tale forma di sanatoria si debba coordinare con l’istituto dell’accertamento di compatibilità di cui all’art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio (da qui in avanti Codice).
In particolare, si chiede come procedere per la regolarizzazione di opere, eseguite in parziale difformità durante i lavori in attuazione di titoli abilitativi rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge 28.01.1977, n. 10, in caso di vincolo paesaggistico sopravvenuto.
Nella nota si fa riferimento al parere espresso da questi Servizi regionali del 17.04.2012, prot. n. PG/2012/95795, che qui si intende parzialmente rivisto. (... continua).
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ATTENZIONE:
- col suddetto parere la Regione Emilia Romagna si ravvede per quanto espresso con un precedente pronunciamento e si allinea alla Regione Lombardia ed alla Regione Piemonte:
EDILIZIA PRIVATAOggetto: Sanatoria di interventi edilizio-urbanistici abusivi realizzati prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico - Risposta a richiesta di parere (Regione Emilia Romagna, parere 17.04.2012 n. 95795 di prot.).

luglio 2015

EDILIZIA PRIVATAE' sufficiente per il rigetto della sanatoria edilizia l’esistenza del solo vincolo paesaggistico alla data di valutazione della stessa.
... per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione II, n. 1383/2013, resa tra le parti, concernente demolizione opere abusive.
...
DIRITTO
7. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso per la sussistenza di due vincoli: cimiteriale e paesaggistico.
8. Con il secondo motivo del ricorso in appello i ricorrenti, per quel che è dato intendere, sostengono che il vincolo paesaggistico sarebbe divenuto inefficace per il decorso del tempo, ossia per il decorso quinquennio dalla data di adozione (novembre 1999).
Ma i ricorrenti non indicano alcuna norma, o principio, in base alla quale i vincoli di natura paesaggistica dovrebbero essere equiparati ai vincoli urbanistici.
Ove, al contrario, con la censura in esame i ricorrenti abbiano inteso sostenere l’inefficacia del vincolo, per mancato completamento dell’iter procedimentale, è sufficiente a confutare l’assunto il richiamo alla decisione di questa Sezione, 21.03.2005, n. 121 (richiamata anche dalla difesa del Comune di Monfumo), che il Collegio condivide.
Richiamando anche la sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale, la Sezione, infatti, ha affermato che:
<<- l’efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939, l’elenco delle località, predisposto dalla commissione ivi prevista e nel quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato nell’albo dei Comuni interessati;
- i beni immobili soggetti a vincoli paesistici per il loro intrinseco valore “in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo essenziale le qualità indicate dalla legge costituiscono una “categoria originalmente di interesse pubblico”; il che non consente l’assimilabilità dei vincoli paesistici a quelli urbanistici e determina la inconferenza di qualsiasi richiamo o raffronto rispetto all’art. 2 della legge n. 1187 del 1968";
- nemmeno sul piano costituzionale si profila una esigenza di inefficacia dei vincoli paesistici oltre un certo tempo né si pone un problema di durata della misura cautelativa o anticipatoria, né un profilo di indennizzabilità anch’esso collegato alla durata, in quanto il legislatore ha attribuito un effetto immediatamente vincolante per i soggetti contemplati dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 fin dal momento della ricognizione delle “qualità connaturali secondo il regime proprio del bene”, cioè dalla compilazione e pubblicazione dell’elenco con valore costitutivo del regime giuridico dell’immobile da parte delle commissioni al termine del primo sub procedimento (ciò al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili compresi nell’elenco delle bellezza di insieme e quindi compromettere il paesaggio);
- pur non essendo previsto nella legge n. 1497 del 1939 un termine di durata del vincolo o entro cui doveva concludersi il procedimento, vi erano, peraltro, già nel sistema amministrativo allora vigente, strumenti giuridici di tutela delle posizioni dei soggetti interessati, quali, in primo luogo, la diffida a provvedere e, di seguito, l’istituto processuale del silenzio-rifiuto, con i conseguenti rimedi della giustizia amministrativa fino al giudizio di ottemperanza; tali rimedi risultano rafforzati con la legge 07.08.1990, n. 241 con cui è stato codificato il dovere per la pubblica amministrazione di concludere i procedimenti iniziati d’ufficio, come quello in esame, mediante l’adozione di un provvedimento espresso
>>.
9. Alla luce delle predette argomentazioni, il secondo motivo di ricorso è pertanto infondato.
10. È principio giurisprudenziale recepito quello secondo cui “ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza” (Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2010, n. 7498; idem 31.03.2011, n. 1981).
11.
Alla luce del predetto principio il ricorso in esame deve essere respinto essendo sufficiente per il rigetto della sanatoria l’esistenza del solo vincolo paesaggistico (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.07.2015 n. 3663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'opera abusiva.
DOMANDA:
L'art. 31 del DPR 380/2001 al comma 4 sancisce, in caso di inottemperanza entro i termini stabiliti, l'acquisizione di diritto gratuita al patrimonio del comune del bene del'aerea di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe.
La domanda che si rivolge è questa: l'acquisizione di quanto sopra descritto è una procedura obbligatoria e necessaria al fine di procedere alla demolizione del manufatto abusivo, ovviamente sempre a spese dell'inadempiente? Quali sono i presupposti per non ricorrere all'acquisizione gratuita del bene e a chi compete tale decisione?
RISPOSTA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, ai sensi dell'art. 31 DPR 380/2001, "avviene di diritto e in automatico, non ha alcun carattere di discrezionalità", avendo natura meramente dichiarativa, ed è subordinata unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e del decorso del termine di legge per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, che opera automaticamente con riguardo non solo all'opera abusiva e all'area di sedime, ma anche alle pertinenze (Consiglio di Stato 2368/2014, TAR Salerno, sent. 1318/2014).
L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione al termine dei 90 giorni previsti, costituisce titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione gratuita nei registri immobiliari dell’area acquisita a patrimonio comunale, previa notifica all’interessato. Il verbale di accertamento di inottemperanza, di cui sopra, ha carattere endoprocedimentale e meramente dichiarativo, in quanto viene redatto automaticamente per effetto dell’inottemperanza alla demolizione.
L’ordine di demolizione, che costituisce il presupposto per l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, può essere impugnato davanti al giudice amministrativo. Quindi la semplice scadenza dei 90 giorni per ottemperare alla demolizione determina l’automatica applicazione della sanzione amministrativa del trasferimento di proprietà al Comune che, a sua volta, è presupposto necessario affinché l’amministrazione possa provvedere alla demolizione. Non esistono presupposti per non ricorrere all'acquisizione gratuita del bene, salvo i casi in cui le opere siano state realizzate solo in parziale difformità dal permesso di costruire.
In tali fattispecie, è possibile non procedere alla demolizione del manufatto laddove, dopo attenta analisi e valutazione da parte della P.A., risulti che le parti difformi non possano essere eliminate senza compromettere la stabilità dell'edificio o delle parti conformi: è allora possibile convertire la demolizione in sanzione pecuniaria (cd. “fiscalizzazione dell’abuso”), che rimane pertanto assoggettata alla valutazione di natura tecnico-edilizia- strutturale del dirigente o responsabile dell'ufficio comunale preposto (art. 34 del D.P.R. 380/2001) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito alla procedura da seguire per il condono c.d. differito a seguito di procedure immobiliari esecutive ai sensi dell'art. 40, comma 6, della legge 47/1985 - Comune di Sutri (VT) (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 15.07.2015 n. 7278 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Secondo giurisprudenza l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
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Il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si espresso nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.

3) Nel secondo motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, per aver l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.
La censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129).
In ogni caso il Collegio, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, riterrebbe applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
4) Privo di pregio è anche il terzo motivo di ricorso incentrato sull’affermata circostanza che il provvedimento gravato sarebbe stato adottato nei confronti del ricorrente quale “probabile committente dei lavori”, in base quindi a un mero giudizio probabilistico.
L’ordinanza di demolizione è stata rivolta contro il ricorrente anche sulla base della non contestata circostanza che lo stesso è proprietario dell’area e la qualità di proprietario è sufficiente a radicare la legittimazione passiva nei confronti dell’ordine di demolizione di opere abusive.
Secondo giurisprudenza, infatti, l'ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell'abuso, considerato che l'abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l'ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Piemonte, I, 25.10.2006, n. 3836; TAR Campania, Salerno, II, 15.02.2006, n. 96; TAR Lazio, Roma, II, 02.05.2005, n. 3230; TAR Valle d'Aosta, 12.11.2003, n. 188).
5) Nel quarto motivo di ricorso parte ricorrente ha lamentato il difetto di motivazione dell’atto gravato, in quanto, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione degli abusi (la struttura a suo dire sarebbe stata inaugurata nel 2008) e l’adozione dell’ordine di demolizione (del 30.03.2011), l’amministrazione avrebbe dovuto indicare specifiche ragioni di interesse pubblico alla rimozione degli abusi.
Il motivo è infondato.
In primo luogo parte ricorrente non ha dato prova della risalenza delle opere.
In ogni caso, il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si espresso (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2015 n. 3489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2015

EDILIZIA PRIVATAPer consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”, senza, quindi, che “di esso occorra farsi carico in sede di adozione del provvedimento recante la sanzione della demolizione” e fermo “che eventuali e comprovati pregiudizi arrecati contra ius (nel caso in sede di esecuzione di ufficio) a parti non ricomprese fra le opere da demolirsi in puntuale esecuzione dei contenuti del provvedimento qui al vaglio costituirebbero un danno ingiusto risarcibile a mezzo dei rimedi all’uopo previsti”.
9d- Né, infine, può conferirsi utile rilievo alla (peraltro mera) notazione (pag. 6 del ricorso) in ordine ad una possibile compromissione statica delle parti legittime per effetto degli imposti abbattimenti.
Ferma l’assoluta genericità della “notazione”, non sostanziante nemmeno una formale denuncia, in ogni caso per consolidata e condivisa giurisprudenza “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania, questa settima sezione, n. 2191 del 17.04.2015, sesta sezione, sentenze n. 1122 del 20.02.2014, 07.11.2013, n. 4489 e 05.06.2013, n. 2903, 09.10.2013, n. 4821, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sezione seconda, 13.04.2011, n. 702), senza, quindi, che “di esso occorra farsi carico in sede di adozione del provvedimento recante la sanzione della demolizione” (in tali espressi sensi, da ultimo, Tar Campania, questa Settima Sezione, n. 2191 del 17.04.2015 cit. e, Sezione Seconda, n. 233 del 15.01.2015) e fermo “che eventuali e comprovati pregiudizi arrecati contra ius (nel caso in sede di esecuzione di ufficio) a parti non ricomprese fra le opere da demolirsi in puntuale esecuzione dei contenuti del provvedimento qui al vaglio costituirebbero un danno ingiusto risarcibile a mezzo dei rimedi all’uopo previsti” (Tar Campania, ancora questa settima sezione, n. 2191 del 17.04.2015 e, sesta sezione, n. 6678 del 17.12.2014) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 29.06.2015 n. 3438 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’orientamento giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché costante nel ritenere che:
- Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento;
- L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime;
- Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa;
- L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
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La giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che possono andare a detrimento della celerità e speditezza dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>>.
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Dalla abusività di opere edilizie scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
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In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”.
La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.

Con la prima censura è dedotta la violazione dell’art. 7, L. 07.08.1990, n. 241 e succ. mod.; L. 28.01.1977, n. 10; L. 28.02.1985, n. 47; L. 23.12.1994, n. 724; art. 97 Cost.).
Secondo parti ricorrenti, nella specie, la comunicazione da loro ricevuta, non sarebbe adeguatamente motivata con gravissimo pregiudizio, in quanto non messi in condizione di contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione, con riguardo al suo ambito di incidenza, alla concreta eseguibilità del provvedimento demolitorio (contenente al suo interno madornali errori che dimostrerebbero una totale disinformazione) ed alle connesse valutazioni delle sanzioni pecuniarie alternative.
La censura è infondata.
Al riguardo deve rammentarsi che l’orientamento giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del procedimento è pressoché costante nel ritenere che: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di numero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato si nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, L. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302 e 09.12.214, n. 6425); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383).
Pur con tali premesse, tuttavia, nella fattispecie in esame il Comune -documentato dalla difesa resistente nella memoria del 10.2.2014- ha ritenuto di dover comunicare ad entrambi i ricorrenti l’avvio del procedimento (senza, però, che questi ultimi abbiano presentare memorie), ma, alla stregua della su riferita giurisprudenza, la censura è infondata atteso che un’eventuale inadeguatezza della comunicazione inviata, in ogni caso, non influisce sulla legittimità dell’impugnata ordinanza.
Inoltre la giurisprudenza, onde evitare che inutili formalismi che possono andare a detrimento della celerità e speditezza dell’azione amministrativa è approdata al convincimento che: <<l’art. 21-octies, comma 2, L. n. 241 del 1990, come modificato dalla L. n. 13 del 2005 (il quale ormai pone in capo all’Amministrazione -e non al privato- l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del provvedimento non poteva essere diverso) va interpretato nel senso che, onde evitare di gravare la P.A. di una probatio diabolica, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la P.A. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato>> (C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
Orbene se, alla stregua di siffatta giurisprudenza, dolendosi per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, il privato deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione, ciò a maggior ragione deve valere nel caso in cui -come nella specie- la comunicazione in parola vi sia stata (cfr. nota 21637 del 03.07.2013), ma il ricorrente lamenta che essa non sarebbe adeguatamente motivata con gravissimo pregiudizio nei suoi confronti, in quanto non messo in condizione di contraddire sulla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione. Nella fattispecie, non esplicitandosi lo specifico profilo di inadeguatezza della comunicazione inviata, non si mette il giudice in condizione di esaminare le ragioni per le quali la comunicazione de qua non sarebbe funzionale allo scopo per il quale essa è prevista.
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Pertanto il Comune risulta avere correttamente valutato la tipologia delle opere, dalla cui abusività scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura, non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato - Sez. V, 28.04.2014, n. 2196).
Inoltre parti ricorrente esprimono perplessità sulla legittimità del censurato intervento repressivo, a distanza di circa venti anni dalla realizzazione dell’immobile, previa rilascio di regolare concessione edilizia, senza tener conto, però che, secondo condivisa giurisprudenza: <<In tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che è “in re ipsa”>> (TAR Campania, Napoli, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed, ancora: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.06.2015 n. 3405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in parola.
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La sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia abusivamente realizzata e della relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7, terzo comma, L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero organismo edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso in cui l'abuso riguardi solo una parte dello stesso.
Pertanto, in detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si verifica nei limiti delle parti abusive, con esclusione delle altre parti dell'immobile e dell'area non interessate dall'abuso.

9. L’appello principale è fondato nella misura in cui evidenzia l’erroneità della sentenza di primo grado che ha rilevato una lesione del diritto di partecipazione procedimentale dei destinatari del provvedimento impugnato che non risulta sussistente, né rilevante.
Occorre, al riguardo, rammentare l’orientamento di questo Consiglio (Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470; Id., Sez. II, 19.03.2008, n. 3702; Id., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049) secondo il quale: “In tema di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, tenendo presente che ciò che appare necessario è che al privato sia data la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l'adozione dell'ordine in parola”.
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10. L’appello incidentale proposto degli originari ricorrenti è in parte inammissibile ed in parte fondato. Sotto il primo profilo deve rilevarsi che il generico richiamo ivi contenuto ai motivi non esaminati dal primo giudice non è sufficiente a devolverne la cognizione al giudice d’appello, essendo invece necessaria una loro puntuale rappresentazione, sicché in questa parte l’appello incidentale è inammissibile.
L’unica doglianza non esaminata dal TAR, che può essere conosciuta dall’odierno giudicante è, quindi, quella relativa alla denunciata illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone di acquisire al patrimonio del comune l’intero immobile e l’area di sedime.
La censura in questione deve ritenersi fondata: infatti, la sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia abusivamente realizzata e della relativa area di sedime, contemplata dall'art. 7 terzo comma L. 28.02.1985 n. 47, presuppone che l'intero organismo edilizio sia abusivo e non è applicabile nel caso in cui l'abuso riguardi solo una parte dello stesso; pertanto, in detta ipotesi, l'acquisizione gratuita si verifica nei limiti delle parti abusive, con esclusione delle altre parti dell'immobile e dell'area non interessate dall'abuso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.06.2015 n. 3051 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASottotetto senza titolo, la sanzione è salatissima.
Sono dolori quando il comune scopre che dopo i lavori il sottotetto è diventato utilizzabile senza titolo. Se i locali sopra l'ultimo piano dell'edificio risultano di fatto trasformati in una pertinenza degli appartamenti senza che lo preveda il permesso di costruire scatta la sanzione pecuniaria laddove risulta impossibile la demolizione dell'opera. Ma la multa è salatissima perché viene ragguagliata all'intera superficie del sottotetto: le opere contro legge, infatti, imprimono all'area un cambio di destinazione urbanistica non autorizzato rendendo fuorilegge l'intero locale.

È quanto emerge dalla sentenza 16.06.2015 n. 2980, pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di stato.
Volumi utilizzabili.
Altro che 34 mila euro, come chiedeva: ne pagherà oltre 270 mila l'impresa edile che ha costruito un fabbricato più alto di quanto assentito. Ormai abbattere lo stabile è impossibile, perché il resto del manufatto è in regola: dunque lo scontro con il comune è sul quantum della multa.
Parla chiaro l'articolo 34, comma 2, del testo unico sull'edilizia: la sanzione deve essere calcolata sulla «parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire».
Secondo la società, la volumetria del sottotetto regolarmente autorizzata non può essere considerata ai fini del calcolo della sanzione: in fin dei conti si tratterebbe solo dello sforamento dell'altezza dei locali. In realtà i lavori hanno reso utilizzabile ai fini residenziali un volume che non lo era sulla base dei titoli edilizi rilasciati.
Ed è dunque il cambio di destinazione d'uso che legittima la sanzione più grave (articolo ItaliaOggi del 27.06.2015).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di lavori abusivi tali da comportare utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati e, dunque, da imprimere a tutta la superficie utile una destinazione urbanistica differente da quella assentita, giustifica il procedimento di calcolo della sanzione pecuniaria basato sull’integrale volume della predetta superficie.
In tal senso, invero, a norma dell’art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, la sanzione va calcolata sulla parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire e quindi, nella descritta ipotesi, su tutta la superficie (nella specie costituita da un sottotetto).

... per la riforma della sentenza del TAR Veneto, Sezione II, n. 1355/2009, resa tra le parti, concernente irrogazione sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione.
...
Conformemente a quanto eccepito dal comune resistente, il primo motivo di gravame va dichiarato inammissibile, stante il divieto di “nova” in appello, sancito dall’art. 104 del codice del processo amministrativo.
Ed invero, in primo grado, la ricorrente aveva lamentato, per quanto qui rileva (secondo motivo, lett. c), che “All’interno (del sottotetto) le altezze vanno da un minimo di 1,40/1,70 mt. a livello d’imposta della falda del tetto ad un massimo nella parte centrale di mt. 3,30 (all. sez. dimostrativa). La sua utilizzazione rimane come precedentemente quale accessorio (ripostigli, lavanderia e stenditoio) del resto in conformità ai progetti approvati.
L’ufficio invece e in modo contradditorio, ritenendo la superficie del sottotetto utilizzabile sia pur come accessorio in forza della variante urbanistica di cui alla DOC n. 21/2006 assoggettava il sottotetto integralmente alla sanzione degli abusi non sanabili. Ma se anche l’aumento volumetrico derivato dalla sopraelevazione ha permesso l’utilizzazione del sottotetto, l’ordinanza tuttavia sanzionava l’intero volume, come se si fosse trattato di un abuso non sanabile. Il tutto in violazione della variante urbanistica di cui alla Doc. 21/2006 che invece riconosceva in via di sanatoria quel volume.
La variante riconosceva dunque il volume non computato urbanisticamente in sede di rilascio del permesso di costruire, e ne consentiva perciò la sua utilizzazione. Residuava il sopralzo tecnico di 0,77 cm secondo l’ordinanza, di cm 0,55 per la ricorrente, salva l’ulteriore riduzione ex L.R. 21/1996, soggetta alla sanzione alternativa. Solo questa porzione al massimo è assoggettabile a sanzione, contrariamente a quanto sancito dall’ordinanza impugnata che va dunque annullata e intanto sospesa
”.
In appello è stato, invece, dedotto che la sanzione pecuniaria avrebbe dovuto essere commisurata alla superficie realizzata in esubero rispetto a quella assentita. E poiché nel caso di specie l’abuso non ha comportato alcun incremento di superficie, essendosi sostanziato unicamente in una maggiore altezza, non avrebbe potuto essere applicata alcuna sanzione.
E’ evidente, quindi, la diversità di causa petendi.
Il secondo motivo non merita accoglimento.
Ed invero, indipendentemente dalla circostanza che i titoli edilizi rilasciati consentissero l’esecuzione di un sottotetto con un’altezza, dalla quota del pavimento all’imposta di falda, superiore a 60 cm., come sostiene l’appellante, ciò che ai fini di causa ha carattere assorbente, è che i detti titoli non consentivano l’accesso al sottotetto dai piani sottostanti, come emerge incontrovertibilmente dal fatto che l’istanza di sanatoria della L., datata 20/07/2006, aveva ad oggetto anche “la realizzazione di vani accessori ai sottostanti appartamenti, mediante utilizzo del sottotetto”.
I lavori abusivamente realizzati hanno, dunque comportato, l’utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati. In altre parole, attraverso i lavori abusivamente eseguiti si è impressa a tutto il sottotetto una destinazione urbanistica differente da quella assentita.
Il che giustifica il procedimento di calcolo della sanzione pecuniaria basato sull’integrale volume del sottotetto, atteso che, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. 06/06/2001, n. 380, la sanzione va calcolata sulla “parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire” e quindi, nella specie, giusta quanto poc’anzi rilevato, su tutto il sottotetto.
L’appello va, in definitiva, respinto (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2015 n. 2980 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’articolo 30, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, della c.d. lottizzazione abusiva “
sostanziale” o “materiale” o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione di opere edilizie finalizzate alla trasformazione urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in violazione della normativa vigente nella zona, realizzando quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto della funzione pianificatoria dei Comuni”.
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con la destinazione programmata del territorio comunale”.
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in considerazione nel caso di specie, posto che le opere di allacciamento che la ricorrente intende realizzare riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del Parco naturale regionale e classificate dallo strumento urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...) integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di modeste dimensioni”.
Peraltro, la giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle opere di urbanizzazione”.
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Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i summenzionati principi giurisprudenziali, l’operato del Comune risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria ad esso relativa.
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Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la lottizzazione abusiva si configura attraverso la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di opere autorizzate.

10.2 Parimenti esente dalle censure allegate dalla ricorrente è la valutazione compiuta dal Comune, il quale ha ritenuto che la realizzazione di allacciamenti alle reti idrica e fognaria dei fabbricati dismessi avrebbe dato luogo a una lottizzazione abusiva.
Al riguardo, giova tenere presente che l’articolo 30, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 distingue due diverse fattispecie di lottizzazione abusiva, una delle quali –rilevante ai fini del presente giudizio– ricorre, secondo la disposizione normativa ora richiamata, “quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni (...) in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Si tratta, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, della c.d. lottizzazione abusiva “sostanziale” o materiale” o “reale”, la quale “consiste nell'avvio della realizzazione di opere edilizie finalizzate alla trasformazione urbanistica in zone non adeguatamente urbanizzate e in violazione della normativa vigente nella zona, realizzando quindi un aggravio del carico urbanistico senza il rispetto della funzione pianificatoria dei Comuni” (così, tra le ultime, TAR Toscana, Sez. III, 30.03.2015, n. 509; si tratta di principio pacifico nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: cfr, ex multis, Cass. pen., Sez. III, n. 38733 del 2012).
Deve, poi, tenersi presente che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, è ravvisabile una lottizzazione abusiva sia “in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione di un piano esecutivo e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione”, sia anche “allorquando detto intervento non potrebbe in nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con la destinazione programmata del territorio comunale” (Cass. pen., Sez. III, n. 38733 del 2012).
Proprio quest’ultima fattispecie deve essere presa in considerazione nel caso di specie, posto che le opere di allacciamento che la ricorrente intende realizzare riguardano, come detto, aree ricadenti nel perimetro del Parco naturale regionale e classificate dallo strumento urbanistico comunale come zona agricola, ossia ambiti nei quali non è consentito, di norma, dare vita a nuovi insediamenti.
Ciò posto in linea generale, deve poi evidenziarsi che tra le variegate condotte attraverso le quali può realizzarsi la lottizzazione abusiva materiale vi è il caso della “(...) integrazione delle infrastrutture primarie, che non siano esclusivamente funzionali alla utilizzazione di un singolo fabbricato, quale il singolo allacciamento alla rete fognaria, alla rete viaria ed altre strutture analoghe di modeste dimensioni” (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2004, n. 20373; Id. 09.01.2013, n. 5870).
Peraltro, la giurisprudenza ritiene in concreto possibile rilevare una lottizzazione abusiva anche in relazione ad un solo edificio, “laddove si configuri un'esigenza di raccordo con il preesistente aggregato urbano e di potenziamento delle opere di urbanizzazione” (Cass. pen., Sez. III, n. 27705 del 2011; Cons. Stato, Sez. V, 15.02.2001, n. 790).
Facendo applicazione nel caso di specie di tutti i summenzionati principi giurisprudenziali, che il Collegio pienamente condivide, l’operato del Comune di Montevecchia risulta corretto.
E invero, la richiesta di allacciamento riguardava una pluralità di fabbricati, i quali –come detto– versano in stato di abbandono da molti anni e non costituiscono, sulla base di tutte le circostanze sopra evidenziate, un insediamento che può considerarsi attualmente rilevante dal punto di vista urbanistico.
Si è detto, inoltre, che l’area non risulta coltivata ed è soggetta a una disciplina pianificatoria particolarmente restrittiva che non ne consente l’urbanizzazione.
Alla luce di tali elementi, ritiene il Collegio che l’allacciamento alle reti idrica e fognaria del sopra descritto complesso di immobili fatiscenti e abbandonati non trovi altra spiegazione se non quella di dare avvio alla trasformazione dell’ambito per realizzarvi un nuovo insediamento, in violazione della disciplina pianificatoria ad esso relativa.
La censura va quindi respinta.
10.3 Anche il riferimento, operato dalla ricorrente, alla previsione dell’articolo 38, comma 1, delle NTA del PTC del Parco naturale, vigente all’epoca del ricorso, non coglie nel segno.
La suddetta disposizione, concernente le “Reti di distribuzioni, impianti e infrastrutture” subordina al previo espletamento delle procedure di cui all’articolo 14 delle stesse NTA (concernente la “dichiarazione di compatibilità ambientale”), gli interventi aventi ad oggetto “L’utilizzazione o l’attraversamento di terreni interessati dal presente P.T.C. per la posa di linee e reti di servizi pubblici, elettrodotti, oleodotti, gasdotti e simili, fatti salvi gli allacciamenti alle singole utenze delle relative centraline o cabine, nonché lo sviluppo, il potenziamento, la modificazione di ubicazione o percorso di quelli esistenti”.
Secondo la ricorrente, gli allacciamenti richiesti rientrerebbero nella prevista esenzione dalle procedure di compatibilità ambientale e, quindi, anche sotto tale profilo il permesso sarebbe stato negato illegittimamente dal Comune.
Al riguardo –in disparte ogni altra considerazione– è sufficiente rilevare che la nota comunale impugnata non si pone in contrasto con la suddetta disposizione del PTC, in quanto è volta unicamente a evidenziare che, di fatto, la realizzazione degli allacciamenti darebbe luogo a una lottizzazione abusiva.
Si tratta di affermazione corretta, poiché il risultato –illecito– della realizzazione di una lottizzazione abusiva ben può essere conseguito anche attraverso attività che, considerate in sé, prescindendo dalla loro correlazione e dal contesto fattuale, siano da ritenere consentite, e siano state finanche autorizzate dalle amministrazioni competenti.
E invero, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza, la lottizzazione abusiva si configura attraverso la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio in violazione delle prescrizioni espresse dagli strumenti urbanistici e delle leggi, anche mediante l’esecuzione di opere autorizzate (Cass. pen., Sez. III, 26.06.2009, n. 26586; v. anche Id., 24.09.2013, n. 41479) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.06.2015 n. 1312  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn generale la lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi in cui venga posta in essere “qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una lottizzazione abusiva materiale quando vengano realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando, pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento e della vendita in lotti di un'area, quando essi per dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino la loro destinazione a scopo edificatorio”.

6. Ciò premesso, è anzitutto infondato il primo motivo di ricorso, che nega in radice l’esistenza della contestata lottizzazione, nella forma definita di lottizzazione “cartolare” (ricorso, p. 12 § 3 c).
In proposito, è sufficiente osservare che in generale la lottizzazione abusiva si ravvisa in tutti i casi in cui venga posta in essere “qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata”.
Nell’ambito di tale assai ampio concetto, si ravvisa poi una lottizzazione abusiva materiale quando vengano realizzate opere senza titolo le quali trascendano, anche per la loro maggiore importanza, l’abuso isolato; si ravvisa invece lottizzazione cartolare, o negoziale, quando, pur in mancanza di opere ricorrano i casi del “frazionamento e della vendita in lotti di un'area, quando essi per dimensioni, per natura del terreno e per numero evidenzino la loro destinazione a scopo edificatorio” (per tutto ciò, molto puntualmente, la recente C.d.S. sez. IV 19.06.2014 n.3115)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In termini generali, il mero fatto che un abuso perduri da lungo tempo non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di intervenire per sanzionarlo.
11. Infondato è ancora il quinto motivo, fondato sulla presunta tolleranza dell’abuso da parte del Comune. In termini generali, infatti, il mero fatto che un abuso perduri da lungo tempo non priva, di per sé, l’amministrazione del potere di intervenire per sanzionarlo: così per tutte, da ultimo, C.d.S. sez. V 07.08.2014 n. 4213.
E’ poi appena il caso di ricordare che la sentenza di questo TAR sez. I 28.04.2014 n. 448, citata a proprio favore dal ricorrente (memoria 18.04.2015 p. 4 rigo dodicesimo), appare in realtà non esattamente pertinente, poiché decide un caso in cui non era accertata l’esistenza stessa dell’abuso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.06.2015 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

maggio 2015

EDILIZIA PRIVATA: IMPUGNAZIONE AL TAR DEL DINIEGO DEL CONDONO EDILIZIO ED INSUFFICIENZA AD ESCLUDERE L’ESECUTIVITÀ DELLA DEMOLIZIONE.
L’impugnazione davanti al TAR del provvedimento di diniego del condono non è sufficiente per poter disporre la sospensione dell’esecuzione dell’ingiunzione a demolire, dovendo, in ogni caso, l’interessato prospettare quali sono gli elementi concreti sulla base dei quali possa ritenersi concretamente probabile l’emanazione entro breve tempo di un provvedimento amministrativo o giurisdizionale contrario all’ordine di demolizione.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla idoneità e sufficienza della mera impugnazione davanti al Giudice amministrativo del provvedimento con cui l’amministrazione comunale opponga il proprio diniego al rilascio del c.d. condono edilizio.
La vicenda processuale segue all’impugnazione del provvedimento del G.I.P. presso il Tribunale, in funzione di giudice dell’esecuzione, con la quale veniva rigettata l’istanza di revoca e/o sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive realizzate. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare sostenendo che il mancato accertamento da parte del giudice sull’applicabilità in concreto delle norme sul condono edilizio e l’erronea affermazione di irrilevanza della prospettata pendenza di un procedimento giurisdizionale amministrativo avverso il diniego espresso dall’autorità amministrativa alla domanda di condono edilizio.
La tesi è stata ritenuta manifestamente infondata dalla Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato la sua consolidata giurisprudenza secondo cui l’ordine di demolizione può essere revocato esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con atti amministrativi o giurisdizionali resi dall’autorità competente e che abbiano conferito all’immobile altra destinazione o abbiano provveduto alla sua sanatoria (Cass. pen., Sez. III, n. 17066 del 04.04.2006 - dep. 18.05.2006, S., in CED, n. 234321), mentre può essere sospeso solo quando sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che, nell’arco di brevissimo tempo, sia adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con l’ordine di demolizione, non essendo sufficiente una mera ed ipotetica possibilità che si potrebbe verificare in un tempo lontano ed incerto, e, in particolare la semplice pendenza della procedura amministrativa o giurisdizionale (ex plurimis: Cass. pen., Sez. III, n. 16686 del 05.03.2009 - dep. 20.04.2009, M., in CED, n. 243463).
Quanto, poi, alla insufficienza della mera impugnazione al TAR per giustificare la sospensione dell’ingiunzione a demolire, la Cassazione, già in precedenza, ha giudicato inidonea a tal fine la semplice presentazione di un ricorso al TAR dopo oltre dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza che ebbe a disporre l’ordine di demolizione (Cass. pen., Sez. III, n. 42978 del 17.10.2007 - dep. 21.11.2007, P., in CED, n. 238145) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, ordinanza 27.05.2015 n. 22105 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: - “L'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto l'interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della legalità è in re ipsa, non ravvisandosi alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non potendosi consentire l'utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà edificatorie sul territorio, soltanto perché le autorità preposte al controllo siano eventualmente intervenute a reprimerle con ritardo”;
- “L'ordine di demolizione delle opere abusive non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto per il quale non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; tale ordine, infatti, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica e ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati”;
- l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria;
- “Nella motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima inottemperanza”.

II. Nemmeno fondate risultano le censure, per vizi propri, sollevate avverso la susseguente ordinanza demolitoria, in quanto:
- infondata è la censura di cui al quinto mezzo, in ordine al preteso difetto motivazionale, atteso che, come da consolidato orientamento giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, “L'ordinanza di demolizione non deve essere sorretta da una specifica motivazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione, in quanto l'interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi ed al ripristino della legalità è in re ipsa, non ravvisandosi alcun affidamento del privato meritevole di tutela, e non potendosi consentire l'utilizzo libero ed indiscriminato delle facoltà edificatorie sul territorio, soltanto perché le autorità preposte al controllo siano eventualmente intervenute a reprimerle con ritardo” (cfr. TAR Catania–Sicilia - sez. I, 12.03.2015, n. 756);
- parimenti non persuade quanto dedotto col sesto mezzo, in ordine alla pretesa obliterazione del principio del contraddittorio, in quanto, come da convincente insegnamento giurisprudenziale, “L'ordine di demolizione delle opere abusive non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto per il quale non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; tale ordine, infatti, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, anche di natura urbanistica e ambientale, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati” (cfr. TAR Campobasso–Molise - sez. I, 27.03.2015, n. 141);
- nemmeno coglie nel segno il settimo mezzo, col quale si denuncia la mancata indicazione delle norme urbanistiche violate e la mancata qualificazione dell’abuso, in quanto, come da costante insegnamento giurisprudenziale (TAR Napoli–Campania - sez. VI, 12.03.2015, n. 1521), l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto; l'atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria;
- è parimenti infondato l’ottavo ed ultimo motivo di ricorso, circa la mancanza di indicazioni relative alla successiva acquisizione, in quanto, come da preciso insegnamento giurisprudenziale, “Nella motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica definizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza alla predetta ingiunzione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento della medesima inottemperanza” (cfr. TAR Napoli–Campania - sez. VI, 10.02.2015, n. 978) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1038 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittima l’ordinanza di demolizione ancorché mancante dell'indicazione dell’area di sedime da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale in caso di inottemperanza poiché, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la predetta indicazione anche in un momento successivo.
Il settimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione per la mancata indicazione dell’area di sedime da acquisire gratuitamente al patrimonio comunale in caso di inottemperanza, deve essere respinta, perché, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, deve essere ammessa la predetta indicazione anche in un momento successivo (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13; Consiglio di Stato, Sez. IV, 25.11.2013, n. 5593; Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 05.12.2014, n. 6381; Tar Lazio, Roma, Sez. I 19.06.2014, n. 6497) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità dell'ordine di demolizione laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso (52 anni) e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato.
La qualificazione delle riscontrate difformità in termini di variante essenziale (e, dunque, di abuso totale) risulta viziata da difetto di motivazione e di istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in una posizione leggermente diversa da quanto indicato in linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45 metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in considerazione del fatto che nel progetto approvato con la licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la qualificazione di tali difformità in termini di variante essenziale e, dunque, di abuso totale.
Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti le indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del presente giudizio.
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A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale trascorso dalla commissione del supposto abuso (risalente alla fine degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso tale approdo affermando che “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l´affermazione dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato.

5. L’appello merita accoglimento.
6. Il Comune di Bologna ha ravvisato nella fattispecie in esame una ipotesi di variazione essenziale rispetto al titolo edilizio, rilevando che l’edificio era stato realizzato su un diverso mappale rispetto a quello di progetto, oltre che con difformità rispetto al progetto stesso. Muovendo da tale premessa, il Comune ha ritenuto che le difformità riscontrate dessero luogo ad un abuso totale e, di conseguenza, richiamando l’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2011 e l’art. 40 l.r. n. 23 del 2004, ha ordinato la demolizione dell’edificio.
7. La qualificazione delle riscontrate difformità in termini di variante essenziale (e, dunque, di abuso totale) risulta, tuttavia, viziata da difetto di motivazione e di istruttoria.
Risulta dagli atti, invero, che la differenza tra l’edificio licenziato nel 1958 (licenza edilizia n. 13294 del 1958) e l’edificio realizzato consiste soltanto nella maggiore superficie di mq. 3,194 per 2 piani (per un totale di circa mq. 6,55) e nel fatto che il fabbricato è stato costruito in una posizione leggermente diversa da quanto indicato in linea di massima nel progetto (uno spostamento di circa 45 metri).
Il carattere lieve di tali difformità, anche in considerazione del fatto che nel progetto approvato con la licenza edilizia del 1958 mancavano quote o misure che vincolassero l’esatta localizzazione dell’edificio (essendo presenti solo indicazioni di massima), rende immotivata la qualificazione di tali difformità in termini di variante essenziale e, dunque, di abuso totale.
8. Va, peraltro, rilevato che, anche a ritenere vincolanti le indicazioni (di massima) contenute nel progetto approvato relative alla localizzazione dell’edificio, la fattispecie di indebita traslazione della localizzazione dell’edificio sul lotto è stata introdotta solo con l’art. 8 della legge n. 47 del 1985 (oggi trasporto nell’art. 32, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001), in epoca cioè ampiamente successiva rispetto alla realizzazione dell’intervento oggetto del presente giudizio.
9. A ciò deve aggiungersi il notevole lasso temporale trascorso dalla commissione del supposto abuso (risalente alla fine degli anni ’50) e l’adozione del provvedimento di demolizione (avvenuta nel 2010).
Deve, al riguardo ricordarsi come la giurisprudenza, anche quella maggiormente rigorosa nell’affermare che l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico), fa presente che tale obbligo motivo sussiste “nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell´abuso edilizio ed il protrarsi dell´inerzia dell´amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato”.
Questo Consiglio di Stato ha, in epoca recente, condiviso tale approdo (Consiglio di Stato sez. V 15/07/2013 n. 3847) affermando che “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l´affermazione dell´accertata abusività dell'opera; ma deve intendersi fatta salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Alla luce di tale orientamento, tenuto conto della limitate entità delle difformità riscontrate e del notevole lasso di tempo trascorso dal supposto abuso, il provvedimento impugnato si appalesa illegittimo laddove non fornisce alcuna adeguata motivazione né sulle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a rilevare nella fattispecie una variante essenziale, né tanto meno sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato.
10. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve, pertanto, essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.05.2015 n. 2512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta.
Quanto al primo motivo, va ribadito che, così come ha avuto occasione di affermare questo Tribunale in fattispecie analoghe alla presente (fra le tante, sez. III, 30.07.2009 n. 1392; sez. III, 14.12.2005, n. 1593; sez. I, 10.12.2001, n. 180) non può legittimamente formarsi il silenzio-assenso sulla domanda di condono edilizio relativamente ad opere che, come nel caso in esame, siano state realizzate in contrasto con vincoli d’inedificabilità assoluta (cfr., altresì, C.G.A., 28.01.2002, n. 39).
Il 16° comma dell'art. 26 della legge regionale 10.08.1985, n. 37, infatti, esclude espressamente che possa formarsi un provvedimento implicito di silenzio-assenso sulle istanze di condono "nei casi di insanabilità di cui al decimo comma" dell'art. 23, e cioè nelle ipotesi in cui, appunto, le opere abusivamente realizzate ricadano nella fascia di inedificabilità assoluta dei 150 metri dalla battigia (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati, considerato, altresì, che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime.
Con riguardo al dedotto vizio di violazione delle garanzie partecipative, è sufficiente richiamare, sul punto, la consolidata giurisprudenza, anche di questo Tribunale, secondo cui i provvedimenti repressivi di abusi edilizi non devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati, considerato, altresì, che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime (cfr. ex plurimis: Cons. Stato, IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Sicilia, Palermo, II, 06.06.2007, n. 1617; 27.03.2007, n. 979; III, 20.03.2006, n. 608; 20.04.2005, n. 577; Catania, III, 03.03.2003, n. 374; TAR Campania, IV, 12.02.2003, n. 797; 14.06.2002, n. 3499; 28.03.2001, n. 1404) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio, pur conoscendo quell’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza sulla specifica questione della rilevanza del lunghissimo lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e l’esercizio del potere repressivo che ravvisa un onere di congrua motivazione -avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di un pubblico interesse diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato, aderisce al diverso indirizzo giurisprudenziale maggioritario secondo cui il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica può essere esercitato in ogni tempo e i relativi provvedimenti non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all'interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione antecedente alla violazione, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso allo scopo di ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche nel caso in cui l'abuso sia commesso in data risalente, non sussistendo alcun affidamento legittimo del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto contra jus che il tempo non può consolidare, né legittimare l'interessato a dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Quanto al quinto motivo, il Collegio, pur conoscendo quell’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza sulla specifica questione della rilevanza del lunghissimo lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e l’esercizio del potere repressivo che ravvisa un onere di congrua motivazione -avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso- circa la sussistenza di un pubblico interesse diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (v. Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705), aderisce, anche rispetto al caso di specie, al diverso indirizzo giurisprudenziale maggioritario secondo cui il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica può essere esercitato in ogni tempo e i relativi provvedimenti non necessitano di alcuna specifica motivazione in ordine all'interesse pubblico a disporre il ripristino della situazione antecedente alla violazione, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso allo scopo di ripristinare l'assetto urbanistico-edilizio violato, anche nel caso in cui l'abuso sia commesso in data risalente, non sussistendo alcun affidamento legittimo del contravventore a vedere conservata una situazione di fatto contra jus che il tempo non può consolidare, né legittimare l'interessato a dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; V, 11.01.2011, n. 79; IV, 31.08.2010, n. 3955; IV, 01.10.2007, n. 5049 e n. 5050; V, 07.09.2009, n. 5229; IV, 10.12.2007, n. 6344; VI, 19.10.1995, n. 1162; V, 12.03.1996).
Ne consegue, anche, che, nel caso di specie, non è configurabile la responsabilità ex art. 1218 c.c. in capo al Comune intimato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12 comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto.
RITENUTO che il secondo ricorso per motivi aggiunti è infondato.
Parte ricorrente, invero, reitera le stesse censure proposte avverso il presupposto diniego di sanatoria, di cui è stato già effettuato il vaglio con esito negativo.
Residua l’esame della censura specifica, di cui al secondo motivo, con la quale si aggiunge che solo una porzione dell’immobile in cui è inserita l’unità abitativa di proprietà di parte ricorrente, ricadrebbe entro i 150 m dalla battigia e che l’eventuale demolizione della parte non sanabile pregiudicherebbe la staticità dell’edificio nella sua interezza e, per tale ragione, sarebbe applicabile la sanzione pecuniaria in alternativa a quella demolitoria.
Invero, secondo un consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12 comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto (per tutte TAR Sicilia, Palermo, III, 11.06.2014, n. 1503).
Nella specie nessuna dimostrazione di tal fatta è stata fornita dalla ricorrente, che si è limitata ad affermazioni generiche (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 06.05.2015 n. 1096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di misure demolitorie il principio generale è che non sia necessaria alcuna specifica motivazione sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
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E' stata in giurisprudenza dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso, il suo accertamento e l'adozione della misura sanzionatoria e sul punto sono emersi diversi orientamenti giurisprudenziali.
Il Collegio aderisce alla prevalente tesi che non richiede alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo dall'abuso o dal suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza: di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell'obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva poi che consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni.
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa.

Altrettanto destituito di fondamento è il quarto e ultimo motivo.
In materia di misure demolitorie il principio generale è che non sia necessaria alcuna specifica motivazione sull'esistenza di un interesse pubblico in quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis Cons. Stato, VI, 28/06/2004, n. 4743; id., sez. V, 10/07/2003, n. 4107; TAR Napoli, Sez. IV, 04/02/2003, n. 617; 15/07/2003, n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n. 496; id. Sez. IV, 28/12/2012, n. 6702).
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell'abuso, il suo accertamento e l'adozione della misura sanzionatoria e sul punto sono emersi diversi orientamenti giurisprudenziali.
Il Collegio, anche riguardo al caso di specie, aderisce alla prevalente tesi che non richiede alcuna specifica motivazione sull'interesse pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo dall'abuso o dal suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, Sez. VI, 21/10/2013, n. 5088; id., Sez. VI, 04/10/2013, n. 4907; Cons. Stato Sez. VI, 28/01/2013, n. 496; id., Sez. IV, 16/04/2012, n. 2185; id. Sez. IV, 28/12/2012, n. 6702, id., Sez. VI, 27/03/2012, n. 1813; id., Sez. IV, 27/10/2011, n. 5758; id., Sez. IV, 20/07/2011, n. 4403; id., Sez. V, 27/04/2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; id., Sez. V, 11/01/2011, n. 79; id., Sez. V, 09/02/2010, n. 628; TAR Milano Sez. II, 08/09/2011, n. 2183; TAR Lazio Sez. I-quater, 23/06/2011, n. 5582; TAR Napoli Sez. III, 16/06/2011, n. 3211; id., Sez. VIII, 09/06/2011, n. 3029).
Nel caso di abusi edilizi, infatti, vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell'ordinamento e che confida nell'omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza: di contro, l'abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell'obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell'Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22/02/2010, n. 860).
Si rileva poi che consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all'apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni (TAR Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n. 2679).
Inoltre, nel caso di specie, i manufatti abusivi ricadono in zona sottoposta oltre che a vincolo paesaggistico, a vincolo assoluto d’inedificabilità e ciò induce a escludere, già in via autonoma, la necessità di motivare l'esistenza di un interesse pubblico alla demolizione la cui prevalenza sull'interesse privato deve considerarsi in re ipsa (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 05.05.2015 n. 1080 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'abuso edilizio commesso dall'inquilino e sulle possibili conseguenze sul proprietario di casa.
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
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Come ha già osservato questo Consesso, l’ordine di demolizione è legittimamente, in caso di locazione, notificato anche al proprietario il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza.
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Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario, che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione dominicale la circostanza della stipulazione del contratto di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità immobiliare locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i profili, di vigilanza sull’immobile.
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario ne sia stato notiziato.
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Essendo indubbio che a partire da una certa data o da un certo momento i proprietari erano venuti ben a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sula loro proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione, come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può convenire con la parte appellante), siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.

L’appello è infondato.
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento.
La tesi svolta in appello evidenzia che il Comune era consapevole di tale estraneità: l’amministrazione prima aveva diffidato e ordinato il ripristino al solo conduttore e solo successivamente, dopo tre mesi, si era rivolto anche ai proprietari; l’amministrazione era ben quindi a conoscenza della materiale indisponibilità dei proprietari, che permane tuttora.
Viene citata anche la relazione del 17.01.2012, dalla quale emergerebbe che, sulla base della segnalazione del Maresciallo della stazione forestale di Aymavilles del 16.08.2007 e del contratto di locazione, “solo a seguito di specifica richiesta dell’Ufficio, questa Amministrazione comunale ha desunto che l’area oggetto di deposito era locata e in disponibilità del predetto”.
I motivi di appello sono infondati, tenendo conto della posizione che in ogni caso ricopre il proprietario non autore dell’abuso edilizio e i suoi indiscutibili doveri, quanto meno, in modo sicuramente pregnante, a partire dal momento in cui sia venuto a conoscenza in modo formale della realizzazione abusiva sul suo immobile.
L’art. 77 della legge regionale n. 11 del 16.04.1998, mutuando la normativa nazionale del Testo unico dell’edilizia sul punto (art. 31), prevede al secondo comma, in continuità procedimentale con il primo comma che disciplina l’ordine di demolizione e ripristino dell’abuso edilizio, che “ove il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione e, in ogni caso, al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni, l’immobile oggetto dell’abuso e l’area di pertinenza dello stesso, determinata sulla base delle norme urbanistiche vigenti, e comunque non superiore a dieci volte l’area di sedime, sono acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune”.
Come ha già osservato questo Consesso (Cons. Stato, V, 26.02.2013, n. 1179), l’ordine di demolizione è legittimamente, in caso di locazione, notificato anche al proprietario il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza (in tal senso, anche Cons. Stato, V, 31.03.2010, n. 1878; VI, 10.12.2010, n. 8705).
Se, nella specie, può ammettersi la completa estraneità e ignoranza nel momento della realizzazione dell’abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell’abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario, che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa dell’abuso realizzato.
Non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione dominicale la circostanza della stipulazione del contratto di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e del godimento dell’immobile, non fa affatto venire meno in assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull’entità immobiliare locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i profili, di vigilanza sull’immobile (così Cassazione civile, sezione III, 27.07.2011, n. 16422).
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza dell’abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario ne sia stato notiziato.
Il giudice di primo grado ha argomentato rilevando che, pur potendosi dare per dimostrato e ammesso che la parte proprietaria fosse del tutto estranea alla realizzazione delle opere abusive e ignorasse del tutto l’abuso fino alla data di comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, a partire da quella data (23.06.2008) e certamente a decorrere dalla successiva data del suo accesso agli atti (05.08.2009), la stessa parte proprietaria avrebbe dovuto attivarsi per la riduzione in pristino o quanto meno, dissociarsi completamente dalla condotta della parte conduttrice. Successivamente, in data 14.09.2009, avveniva il sopralluogo di verifica, con la presenza del signor C.S. in rappresentanza dei proprietari, che pertanto, a quel punto, erano pienamente a conoscenza di tutte le circostanze fattuali.
Anche la relazione comunale citata dall’appello, risalente al 17.01.2012, non può essere riportata a favore; con essa, certamente il Comune non si riferisce al periodo della stesura della relazione (anno 2012), essendo noto l’abuso ai proprietari almeno dal 2009; in essa si fa riferimento chiaramente a fatti accertati nel 2007 (epoca in cui era verosimile che i proprietari fossero nella ignoranza dell’abuso), mentre, come detto, è innegabile che successivamente, non tanto con la comunicazione del 23.06.2008, ma certamente con l’accesso presentato e esercitato in data 05.08.2009, poi con il sopralluogo del 14.09.2009, poi con l’ordinanza del 21.09.2009 notificata nei loro confronti, i proprietari erano oramai venuti a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sulla loro proprietà.
Essendo indubbio quindi, che a partire da una certa data o da un certo momento, i proprietari erano venuti ben a conoscenza dell’abuso edilizio realizzato sula loro proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del testo unico dell’edilizia della demolizione o dell’acquisizione (come prevede anche la legge regionale della Valle d’Aosta), come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso (e in ciò si può convenire con la parte appellante), siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa.
Perché vi siano misure concretanti le “azioni idonee” ad escludere l’esclusione di responsabilità o la partecipazione all’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso”, tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale, diffide ad eliminare l’abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.
Rispetto a tale necessaria attività di dissociazione, che il primo giudice ha ritenuto insussistente tanto da relegarla ad una mera intenzione di fatto rimasta inattuata, risulta soltanto la mera dichiarazione, non documentata, peraltro, da parte degli appellanti, risalente al 13.04.2012, con cui essi dichiarano che “stanno formalizzando la risoluzione del contratto di locazione de quo”.
Rispetto a tale motivo di rigetto del ricorso originario, in realtà l’appello non deduce adeguatamente, al fine di sostenere e dimostrare una maggiore e sufficiente attività dissociativa.
Nel giudizio amministrativo, costituisce invece specifico onere dell’appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza appellata, posto che l’oggetto di tale giudizio è costituito da quest’ultima e non dal provvedimento gravato in primo grado, e che il suo assolvimento esige la deduzione di specifici motivi ed argomentazioni di contestazione della correttezza del percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata (per tale principio, Cons. Stato, IV, 13.12.2013, n. 6005).
E’ infondato il motivo di appello con cui si lamenta la omessa pronuncia per non avere il primo giudice esaminato e trattato il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria: è evidente come la sentenza, nell’esaminare il motivo con il quale si deduceva la estraneità dei proprietari rispetto all’abuso in relazione a tutte le circostanze fattuali, abbia esaminato tale censura sub specie di vizio di violazione di legge (sulla base della asserita violazione delle norme che stabiliscono la responsabilità dell’autore dell’abuso), accertando i medesimi fatti e le stesse censure (di asserito mancato accertamento dei fatti a sostegno della istruttoria circa la reale responsabilità dei proprietari inerti) riproposte poi come vizio di eccesso di potere, riproposto in modo ridondante, come ripetitivo del precedente, oltre che infondato, è il motivo di omessa pronuncia.
Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello va respinto, con conferma dell’appellata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.05.2015 n. 2211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso: secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, <<chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento>>, e con riguardo alla data di realizzazione di opere, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera.
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La giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.

Elemento centrale del giudizio odierno consiste nello stabilire se le opere indicate nell’istanza di Permesso di costruire e, precedentemente, nell’ordine di demolizione n. 28 del 20.09.2010 costituiscano o meno manufatti abusivi, realizzati, cioè, ex novo in violazione delle disposizioni urbanistiche ovvero, come sostenuto dal ricorrente, si tratti solo di parti dell’edificio preesistenti oggetto di semplici interventi di manutenzione.
Ciò premesso, in linea di principio l’onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso (Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2012, n. 478): secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, <<chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento>>, e con riguardo alla data di realizzazione di opere, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica Amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell’opera (cfr. da ultimo TAR Molise, 13.03.2015, n. 107; TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814; Consiglio di Stato, sez. IV, 27.11.2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania, sez. VIII – 02.07.2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez. I – 08.04.2010, n. 1506; TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814).
Ritiene il Collegio che tale onere sia stato assolto nella fattispecie con il deposito da parte della ricorrente in data 02.01.2015 della Consulenza Tecnica d’Ufficio eseguita nell’ambito del procedimento civile (contrassegnato dal numero di RG 1111/2010) pendente innanzi al Tribunale di Campobasso civile tra lo stesso sig. -OMISSIS- e la società proprietaria di un terreno confinante, avente ad oggetto i terreni e le opere su cui verte anche il presente giudizio.
La relazione preparata dal CTU incaricato dal Tribunale, esamina dettagliatamente lo stato dei luoghi, confrontandoli con le risultanze catastali ed evidenzia che queste ultime non corrispondono perfettamente ai primi. Con particolare riferimento alla particella catastale 564 (fg. 24) su cui in particolare insisterebbero, secondo quanto rilevato nell’ordinanza di demolizione n. 28/2010, gli ampliamenti abusivamente realizzati per i quali è stato richiesto il Permesso in sanatoria, la relazione premette che i rilievi aerofotogrammetrici eseguiti nel 1963 testimoniano l’esistenza, già a quel tempo, di una costruzione nella zona in questione.
Ciò che più rileva, però, è la specifica considerazione del consulente tecnico (contenuta alla pag. 12 della relazione de 14.09.2014) secondo cui la contestazione effettuata in quel giudizio in base alla quale sarebbero stati realizzati sulla particella 564 interventi edilizi successivi alla costruzione “non è stata riscontrata, in quanto, dall’analisi del fabbricato, non risultano effettuati di recente ampliamenti o opere rientranti nella straordinaria manutenzione, ma solo opere, sia interne che esterne, ordinaria manutenzione come riscontrato anche dal tecnico comunale”.
Ne consegue che il presupposto dell’assenza di titoli abilitativi per gli interventi realizzati sulla predetta particella su cui si fonda l’ordine di demolizione e, per quello che interessa nel presente giudizio, anche il gravato diniego di rilascio del Permesso in sanatoria risultano smentiti dalla ripetuta relazione di CTU, in modo convincente e circostanziato evidenziando taluni elementi fattuali (stile architettonico e materiali adoperati) che depongono univocamente per la conclusione secondo cui gli ultimi interventi edilizi sul fabbricato di proprietà del ricorrente risalirebbero ad oltre 50 anni fa.
Ciò sottrae eventuali ampliamenti realizzati sul corpo di fabbrica del ricorrente alla disciplina edilizia autorizzativa introdotta a partire dalla l. n. 765/1967 e dal conseguente obbligo di munirsi di eventuali titoli abilitativi.
E infatti, la giurisprudenza consolidata evidenzia che l'obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 1942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani. Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale (TAR Umbria, Sez. I, 10 maggio 2013, n. 281; TAR Campania, sez. VI, 15 settembre 2010, n. 17416; TAR Umbria, sez. I, 14 luglio 1981, n. 250) (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza di demolizione di opera abusiva allorché il comune ne sia a conoscenza (per iscritto) da oltre 10 anni e, nel frattempo, nulla ha fatto per reprimerlo.
La struttura abusiva in questione esiste da oltre 10 anni ed  il Comune era pienamente informato, come dimostrano le richieste, riferite espressamente anche alla tenda parasole, rivolte al ricorrente dallo stesso ente comunale di corrispondere il pagamento dei canoni di concessione per l’occupazione del suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale che non può non confluire nella complessiva positiva valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi.

Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve pertanto ritenere che l'ordine di demolizione si presenti comunque illegittimo dal momento che esplicitamente postula che per la sua realizzazione sia necessario il Permesso di costruire, trattandosi, per quanto più sopra esposto, di affermazione non corretta sul piano giuridico; né si può considerare in senso contrario la circostanza che l’area in questione è sottoposta a vincolo paesaggistico, atteso che la semplice menzione della circostanza che l’area in questione sia sottoposta a vincolo paesaggistico non costituisce un autonomo motivo dell’atto gravato tale da giustificare da solo il provvedimento negativo.
Anzi, al contrario, il mero riferimento a tali circostanze, in assenza di alcuna specificazione in ordine alla mancanza di autorizzazione paesaggistica e alla deduzione di tale circostanza come presupposto della misura sanzionatoria, non è sufficiente a far considerare l’aspetto dell’assenza di titolo paesaggistico quale motivazione della misura sanzionatoria, che si concentra invece sul profilo della necessità del permesso di costruire (cfr. TAR Campania, n. 6197/2014, cit.).
Alle considerazioni appena esposte, deve anche aggiungersi l’ulteriore rilievo, già evidenziato in sede cautelare, che la struttura in questione esiste da oltre 10 anni e che il Comune era pienamente informato, come dimostrano le richieste, riferite espressamente anche alla tenda parasole, rivolte al ricorrente dallo stesso ente comunale di corrispondere il pagamento dei canoni di concessione per l’occupazione del suolo pubblico.
Tale situazione ha indubbiamente creato nel ricorrente un affidamento in ordine alla acquiescenza dell’ente comunale che non può non confluire nella complessiva positiva valutazione del ricorso, come già ritenuto in una recente pronuncia di questo stesso Tribunale da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi (cfr. TAR Molise 17.02.2014, n. 114).
Per tutte le suesposte ragioni che assorbono ogni altro profilo di doglianza il ricorso deve essere accolto e la gravata ordinanza deve quindi essere annullata (TAR Molise, sentenza 04.05.2015 n. 181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2015

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità che il PRG inibisca la demolizione di un fabbricato, ancorché lesionato dal sisma, avente interesse storico riconosciuto dal medesimo strumento urbanistico e sulla possibilità che quest'ultimo obblighi la ricostruzione dell'immobile illegittimamente demolito.
Nel merito deve riconoscersi che la demolizione non potesse venire effettuata, nonostante le documentate lesioni strutturali dell’immobile causate dal sisma.
Invero, non è contestato come l'immobile ricadesse in zona classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed edifici di interesse storico, architettonico e ambientale diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1 – Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in scala 1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale conservato è classificato di interesse storico”.
E costituisce d’altra parte fatto notorio –ai sensi e per gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo– la possibilità di salvaguardare le strutture di immobili pericolanti con diverse soluzioni progettuali, anche a carattere cautelativo e provvisorio (tramite puntellamenti, in legno o metallo, fasciature o cerchiature esterne), fino a veri e propri interventi di stabile consolidamento, che nel caso di specie avrebbero potuto essere concordati con l’Amministrazione, se il privato interessato –benché preavvertito per le vie brevi dell’illegittimità dell’iniziativa– non avesse anticipato un intervento di integrale demolizione di una struttura, ancora presente sull’area (non essendo controverso che gli eventi sismici non avessero determinato il crollo totale dell’edificio).
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
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La legge regionale dispone:
- da un lato che "su motivata richiesta dell’interessato, viene disposto che lo Sportello unico per l’edilizia possa limitarsi ad irrogare una “sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere….qualora accerti, con apposita relazione tecnica, l’impossibilità della restituzione in pristino, a causa della compromissione del bene tutelato”;
- dall'altro che "Qualora le opere abusive siano state eseguite su immobili vincolati, in base alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per l’edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio, la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando criteri e modalità, diretti a ricostituire l’originario organismo edilizio ed irroga una sanzione pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi ogni apprezzamento sulla via più opportuna da seguire è rimesso all’Amministrazione comunale.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale, con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non sia possibile”.
Nella situazione in esame si segnalano, in effetti, cause di forza maggiore, riconducibili ad eventi sismici verificatisi nella Regione, ma non è controverso un conclusivo intervento umano, che ha impedito ulteriori verifiche da parte dei competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del Collegio, tale valutazione deve essere rimessa al prudente apprezzamento dei predetti organi amministrativi: un apprezzamento che –soprattutto con riferimento ad immobili vincolati– ben potrebbe estendersi dal “ripristino tipologico” (come definito dall’art. 34 N.T.A ed ammesso per tale categoria di beni), alla fattispecie di ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”; la norma considera altresì l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs. n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di un fabbricato non impedisce dunque, di per sé, la remissione in pristino, anche intesa come integrale ricostruzione, ove siano note o facilmente desumibili le caratteristiche tipologiche dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in presenza di edifici vincolati, la cui presenza sul territorio (anche con identità diversa da quella originaria, ma fedelmente riprodotta) sia comunque ritenuta significativa, nonché idonea a garantire la persistenza dei valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale riguardo, come la puntuale riproduzione di strutture, di per sé irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta ammissibile anche per un immobile di altissimo valore artistico e storico, come il settecentesco teatro “La Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art. 10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per “opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra cui non può non essere compresa la demolizione, ove non previamente autorizzata) prevede che si imponga al responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
Talché, il Collegio ritiene che la demolizione –benché integrale e da qualunque evento causata– non sia ontologicamente inconciliabile con la rimessa in pristino dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo della ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente demoliti, purché di conosciute caratteristiche e consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da giustificare la riproduzione delle strutture originali, di per sé non recuperabili.

... per la riforma della sentenza del TAR EMILIA ROMAGNA–sezione staccata di Parma, sez. I, n. 374/2014, resa tra le parti, concernente sanzione pecuniaria e ordine di rimessa in pristino stato dei luoghi;
...
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Parma, n. 374/14 del 22.10.2014 è stato respinto il ricorso proposto avverso l’ordinanza n. 8 del 04.02.2013, con cui veniva irrogata una sanzione pecuniaria di €. 20.000,00 e disposto il ripristino dello stato dei luoghi, a seguito dell’avvenuta demolizione di un edificio di interesse storico, parzialmente crollato a seguito di eventi sismici.
Nella citata sentenza si ricostruiva la seguente cronologia dei fatti:
- 13.06.2012, registrazione, nel protocollo del Comune di Casalgrande, della comunicazione –depositata il giorno precedente– di avvenuto, parziale crollo dell’edificio in questione, del cui rudere si preannunciava la demolizione;
- 12.06.2012, diffida verbale del Responsabile del Servizio Urbanistica ed edilizia privata del Comune a non effettuare detta demolizione;
- 15.06.2012, diffida formale a non demolire, notificata il successivo giorno 19;
- 21.06.2012, comunicazione di già avvenuta demolizione, completata il precedente giorno 14;
- 09.10.2012, comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio e ripristinatorio;
- 04.02.2013, emissione dell’atto impugnato.
Nella medesima sentenza l’impugnazione dell’atto da ultimo indicato era ritenuta manifestamente infondata, essendo la demolizione di cui trattasi vietata dagli strumenti urbanistici (art. 49, comma 7, NTA al PRG); la rimessa in pristino, in presenza di opere abusive su immobili vincolati, risultava inoltre prevista dall’art. 10 della legge regionale n. 23 del 21.10.2004, che sarebbe stata puntualmente applicata nel caso di specie.
La fedele ricostruzione, infine, avrebbe dovuto ritenersi possibile, oltre ad essere conforme al citato art. 49, comma 7, NTA.
...
La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la legittimità, o meno, della completa demolizione di un fabbricato –già gravemente lesionato per eventi sismici– nonostante una previa comunicazione del competente ufficio comunale di inammissibilità di tale intervento, con riferimento alla normativa di zona (classificata A2.1 –“ville e parchi”– nel vigente piano regolatore generale - P.R.G.), nonché all’interesse storico dell’edificio, riconosciuto dal medesimo P.R.G..
Posto, inoltre, che detta demolizione risultasse non consentita, deve ulteriormente essere stabilito se, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, potesse anche venire disposta la ricostruzione del fabbricato, pur essendo lo stesso, ovviamente, non ripristinabile nella propria autentica identità, ma solo riproducibile “nello stesso luogo, con le stesse dimensioni (altezza, larghezza, lunghezza) e analoghe caratteristiche formali e architettoniche, relativamente alla parte esterna” con “tecniche costruttive” e “materiali edilizi” rapportati all’”edificio originario, salvo gli adeguamenti richiesti dalla normativa di settore”, come si legge nell’impugnata ordinanza n. 1684 del 04.02.2013, che recepiva in tal modo il parere della Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio.
In rapporto a quanto sopra deve essere esaminata, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità, sollevata dal Comune di Casalgrande, per omessa enunciazione di censure avverso la sentenza appellata, come previsto dall’art. 101, comma 1, cod. proc. amm. Detta eccezione (oltre a non trovare concreto riscontro nell’atto di appello) risulta comunque infondata, in quanto la citata norma del codice del processo amministrativo –secondo cui “il ricorso in appello deve contenere….le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”– deve trovare lettura coordinata con l’effetto devolutivo del gravame e con il principio di sinteticità, di cui all’art. 3, comma 2, dello stesso codice, nella misura in cui le censure avverso la sentenza appellata si traducano in mere contestazioni, riferite alla motivazione di quest’ultima: l’effetto devolutivo dell’appello, che comporta integrale rivalutazione delle questioni controverse, che vengano in tale sede riproposte, implica infatti modifica o integrazione di detta motivazione ove necessario (cfr. in tal senso Cons. St., sez. IV, 19.09.2012, n. 4974; Cons. St., sez. V, 17.09.2012, n. 4915; Cons. St., sez. VI,, 08.10.2013, n. 4934 e 22.07.2014, n. 3903; Cons. St., sez. III, 10.04.2012, n. 2057).
Va dunque precisato che l’inciso, contenuto nell’art. 101, comma 1, c.p.a. non deve ritenersi impositivo di tali censure anche in assenza di contestazioni, propriamente riferibili al contenuto della sentenza stessa (come nel caso di ravvisate ragioni di inammissibilità o irricevibilità dell’impugnativa, la cui omessa contestazione implicherebbe formazione di giudicato parziale), fermo restando che i motivi di appello, riproduttivi delle censure prospettate in primo grado, possono contenere in modo più o meno esplicito argomentazioni –nella fattispecie ampiamente presenti– contrarie a quelle espresse nella sentenza appellata.
Nel merito –e con riferimento alla prima questione, in precedenza prospettata– deve poi riconoscersi che la demolizione non potesse venire effettuata, nonostante le documentate lesioni strutturali dell’immobile.
Non è contestato, in effetti, che quest’ultimo ricadesse in zona classificata “A2”, definita dall’art. 59 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. “complessi edilizi ed edifici di interesse storico, architettonico e ambientale diffusi sul territorio”, e più specificamente in zona “A2.1 – Ville e parchi”. Nel medesimo art. 59 è specificato come ciascun organismo edilizio fosse stato “identificato e perimetrato” e che quando “individuato nelle tavole in scala 1:2000 con apposita retinatura, l’edificio principale conservato è classificato di interesse storico”.
Nel provvedimento impugnato (ordinanza n. 1684/2013 cit.), in effetti, si fa specifico richiamo alla “retinatura grafica” apposta sull’edificio di cui trattasi “nella cartografia di base dello strumento urbanistico comunale vigente”; il valore storico dell’edificio era poi sottolineato nella diffida a non operare la totale demolizione del medesimo: diffida espressa con atto n. prot. 8642, trasmesso dal comune all’attuale appellante il 15.06.2012 e non reso oggetto di impugnativa. Nella medesima diffida si invitava il dott. V. alla “messa in sicurezza dell’area, al fine di salvaguardare l’incolumità delle persone”, che potessero accedervi, nonché alla “messa in sicurezza dell’edificio, al fine di evitare nuovi crolli”.
Costituisce d’altra parte fatto notorio –ai sensi e per gli effetti dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo– la possibilità di salvaguardare le strutture di immobili pericolanti con diverse soluzioni progettuali, anche a carattere cautelativo e provvisorio (tramite puntellamenti, in legno o metallo, fasciature o cerchiature esterne), fino a veri e propri interventi di stabile consolidamento, che nel caso di specie avrebbero potuto essere concordati con l’Amministrazione, se il privato interessato –benché preavvertito per le vie brevi dell’illegittimità dell’iniziativa– non avesse anticipato un intervento di integrale demolizione di una struttura, ancora presente sull’area (non essendo controverso che gli eventi sismici non avessero determinato il crollo totale dell’edificio).
Tale intervento non era consentito dal già citato art. 59 N.T.A., che nell’intera zona A2 ammette solo “manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro scientifico, restauro e risanamento conservativo”, con limitata possibilità di ristrutturazione edilizia, nel “rispetto dei caratteri architettonici e ambientali del luogo”, nonché di quelli dell’“edificio esistente”; negli edifici classificati di interesse storico, inoltre, sono consentiti “interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro scientifico, restauro e risanamento conservativo, ripristino tipologico e demolizione”.
Quanto al tipo di demolizione, cui da ultimo la norma fa riferimento, deve ritenersi che la disposizione sia riferita solo a superfetazioni o singole parti pericolanti, in coordinamento logico con quanto prescritto dall’art. 49, comma 7, delle medesime N.T.A,, secondo cui, in zona A, “Nel caso di fabbricati parzialmente crollati è possibile provvedere alla totale demolizione, senza possibilità di recupero dei volumi e delle superfici esistenti. Tale possibilità è limitata agli edifici incongrui e non è consentita per i beni storici o per gli edifici vincolati dal P.R.G.”.
Nella situazione in esame, la documentazione fotografica prodotta mostra un edificio lesionato, ma ben identificabile sotto il profilo strutturale, il cui valore storico si afferma (senza puntuali contestazioni di controparte) evidenziato da apposita retinatura grafica sulla cartografia di base, come previsto dall’art. 59, comma 2 N.T.A.; nel provvedimento impugnato, peraltro, il responsabile del settore precisa di avere illustrato il significato di tale retinatura al dott. V. nell’incontro in data 12.06.2012, ancora una volta senza che tale circostanza venga smentita (con gli effetti, di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.).
Il citato dott. V., a sua volta, produce “quattro schede, servite per la predisposizione del P.R.G.”, con descrizione della proprietà di cui trattasi, il cui “valore morfologico” risulta definito “nullo”, con possibilità di effettuazione di qualsiasi intervento edilizio.
Dette schede, tuttavia, non possono integrare né modificare le norme di piano, già in precedenza ricordate, circa la natura degli interventi effettuabili nell’area di cui trattasi, fermo restando che il valore morfologico (ovvero architettonico o artistico) appare indipendente dall’affermato valore storico-testimoniale dell’edificio, riconosciuto sul piano cartografico nei termini in precedenza illustrati e ribadito, con parere in data 29.10.2012, dalla Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio, che –previa approfondita indagine– ha riconosciuto all’edificio demolito “un interesse storico, in quanto testimone di un’architettura destinata a sede di un’attività casearia, tipica del periodo successivo alla seconda guerra mondiale”.
In tale contesto, sembra appena il caso di sottolineare l’irrilevanza di considerazioni puramente soggettive, esposte dalla difesa dell’appellante, circa il “valore nullo” ed il carattere di mera “superfetazione” dell’edificio demolito, in contrasto con l’apprezzamento di merito dell’Autorità competente, trasfuso nella disciplina urbanistica sia dell’area che dei singoli edifici.
Tenuto conto di quanto in precedenza esposto, il primo motivo di gravame può essere respinto, sotto il profilo dell’effettiva non conformità della demolizione dell’intero fabbricato, in rapporto alle norme di tutela allo stesso applicabili, anche in presenza di pur gravi lesioni, che tuttavia non impedivano l’immediata salvaguardia ed il successivo recupero di quanto ancora esistente, in ogni caso con progetto da sottoporre all’approvazione comunale.
Gli altri motivi di gravame investono la possibilità –fattuale e giuridica– di procedere ad integrale riedificazione di un edificio non più esistente, di cui non sarebbero ipotizzabili la restituzione in pristino, né il recupero dei valori tutelati, connessi all’identità originaria.
A sostegno di tali argomentazioni, l’appellante richiama il secondo comma dell’art. 10 della legge regionale dell’Emilia Romagna n. 23 del 21.10.2004 (Vigilanza e controllo dell’attività edilizia), nella parte in cui –su motivata richiesta dell’interessato– viene disposto che lo Sportello unico per l’edilizia possa limitarsi ad irrogare una “sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere….qualora accerti, con apposita relazione tecnica, l’impossibilità della restituzione in pristino, a causa della compromissione del bene tutelato”.
Il Comune resistente, invece, richiama la prima parte del medesimo comma, in cui è previsto quanto segue: “Qualora le opere abusive siano state eseguite su immobili vincolati, in base alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, lo Sportello unico per l’edilizia ordina la sospensione dei lavori e dispone, acquisito il parere della Commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio, la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile dell’abuso, indicando criteri e modalità, diretti a ricostituire l’originario organismo edilizio ed irroga una sanzione pecuniaria da 2.000 a 20.000 euro”.
In entrambi i casi, come è reso evidente dal testo delle norme richiamate, ogni apprezzamento sulla via più opportuna da seguire è rimesso all’Amministrazione, cui non è stato invece consentito, nel caso di specie, di valutare direttamente la situazione di fatto, conseguente ai danni provocati dal sisma, per circostanze sopravvenute imputabili all’appellante.
La stessa documentazione fotografica da quest’ultimo prodotta, infatti, dimostra l’esistenza –prima dell’ultima demolizione– di un edificio interessato da parziali crolli e in apparenza pericolante, ma dai tratti identificativi chiaramente ancora presenti, tali da rendere ipotizzabili sia il consolidamento che la fedele riproduzione della struttura. La disposizione normativa invocata dall’appellante, d’altra parte, richiedeva “motivata richiesta dell’interessato” (come sottolineato dal Comune resistente), nonché “apposita relazione tecnica” dello Sportello unico per l’edilizia: presupposti insussistenti nel caso di specie e non più ipotizzabili, avendo l’interessato operato, di propria iniziativa, la rimozione delle strutture rimaste.
La richiamata legge regionale, peraltro, riproduce nella parte sostanziale il contenuto dell’art. 160 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che richiama gli obblighi di “protezione e conservazione”, gravanti su chi detenga un bene culturale, con obbligo di reintegrazione a spese del responsabile, per eventuali danni subiti dal bene stesso e pagamento di una somma, “pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa….quando la reintegrazione non sia possibile”. Nella situazione in esame si segnalano, in effetti, cause di forza maggiore, riconducibili ad eventi sismici verificatisi nella Regione, ma non è controverso un conclusivo intervento umano, che ha impedito ulteriori verifiche da parte dei competenti organi amministrativi.
Si tratta di stabilire, in ogni caso, se il ripristino dello stato dei luoghi –se inteso come recupero del precedente tessuto edificatorio– possa definirsi “impossibile”, in presenza di totale demolizione di uno stabile.
Ad avviso del Collegio, tale valutazione deve essere rimessa al prudente apprezzamento dei predetti organi amministrativi: un apprezzamento che –soprattutto con riferimento ad immobili vincolati– ben potrebbe estendersi dal “ripristino tipologico” (come definito dall’art. 34 N.T.A ed ammesso per tale categoria di beni), alla fattispecie di ristrutturazione, prevista dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui detta norma inserisce tra gli interventi a carattere ristrutturativo "anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione” di un edificio, “con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”; la norma considera altresì l’ipotesi di immobili “eventualmente crollati o demoliti” e ne ammette la ricostruzione, “purchè sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con riproduzione anche della medesima sagoma, ove gli edifici da ricostruire fossero stati soggetti a vincoli, ai sensi del citato d.lgs. n. 42 del 2004.
La distruzione, volontaria o accidentale, di un fabbricato non impedisce dunque, di per sé, la remissione in pristino, anche intesa come integrale ricostruzione, ove siano note o facilmente desumibili le caratteristiche tipologiche dell’immobile: quanto sopra, soprattutto in presenza di edifici vincolati, la cui presenza sul territorio (anche con identità diversa da quella originaria, ma fedelmente riprodotta) sia comunque ritenuta significativa, nonché idonea a garantire la persistenza dei valori protetti.
Non sembra inutile ricordare, a tale riguardo, come la puntuale riproduzione di strutture, di per sé irrimediabilmente compromesse, sia stata ritenuta ammissibile anche per un immobile di altissimo valore artistico e storico, come il settecentesco teatro “La Fenice” di Venezia, distrutto da un incendio alla fine degli anni novanta del secolo scorso e ricostruito, con totale ripristino delle caratteristiche antecedenti all’evento.
Nella situazione in esame, analoga dimensione della restituzione in pristino appare prefigurata dal citato art. 10, comma 2, della legge regionale n. 23 del 2004, che, per “opere abusive eseguite su immobili vincolati” (opere, fra cui non può non essere compresa la demolizione, ove non previamente autorizzata) prevede che si imponga al responsabile dell’abuso di “ricostituire l’originario organismo edilizio”, senza alcun limite circa l’attuale sussistenza dello stesso, in tutto o in parte.
In contrario avviso rispetto a quanto sostenuto dall’appellante, pertanto, il Collegio ritiene che la demolizione –benché integrale e da qualunque evento causata– non sia ontologicamente inconciliabile con la rimessa in pristino dello stato dei luoghi, anche sotto il profilo della ricostruzione di fabbricati preesistenti interamente demoliti, purché di conosciute caratteristiche e consistenza: quanto sopra, soprattutto con riferimento agli edifici vincolati, la cui presenza sul territorio riveste particolare importanza per l’interesse pubblico, tanto da giustificare la riproduzione delle strutture originali, di per sé non recuperabili.
Anche il secondo e il terzo motivo di gravame –riferiti ad accesso di potere e violazione di legge (N.T.A. del P.R.G. –artt. 46 e 59–, art. 10, comma 2, L.reg. n. 23 del 2004; art. 160, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004, già in precedenza esaminati)– non possono quindi trovare accoglimento, sotto profili che sorreggono adeguatamente la legittima emanazione del provvedimento impugnato in primo grado, con assorbimento di ogni ulteriore ragione difensiva e conclusivo rigetto dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2015 n. 2139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione dell'opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro 90 giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza.
Ed invero, questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4, DPR 380/2001- costituisce soltanto titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non voglia spogliarsi del bene.

4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, si osserva che l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede -con riguardo alle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, ovvero con variazioni essenziali- un'articolata disciplina volta alla demolizione delle stesse; in particolare, l'autorità comunale ingiunge al proprietario ed al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione dell'intervento; viene quindi concesso un termine di 90 giorni per adempiere, decorso inutilmente il quale il bene e l'area di semine vengono acquisiti di diritto, e gratuitamente, al patrimonio del Comune; l'opera acquisita   infine demolita con apposita ordinanza, salvo che con deliberazione consiliare "non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali".
Lo stesso art. 31, inoltre, stabilisce che per le opere abusive di cui al medesimo articolo, il Giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se non sia stata altrimenti eseguita.
Questo complessivo dato normativo è prevalentemente interpretato nel senso che l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione dell'opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi (entro novanta giorni dalla notifica dell'ingiunzione a demolire emessa dall'Autorità amministrativa) determina l'automatica acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e dell'area pertinente, indipendentemente dalla notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza (Sez. 3, n. 45705 del 26/10/2011, Perticaroli, Rv. 251321; Sez. 3, n. 22237 del 22/04/2010, Gotti, Rv. 247653; Sez. 3, n. 39075 del 21/05/2009, Bifulco, Rv. 244891; Sez. 3, n. 1819 del 02/10/2008, dep. 19/01/2009, Ercoli, Rv. 242254); ed invero, questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4, cit.- costituisce soltanto titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non voglia spogliarsi del bene.
L'effetto ablatorio, quindi, si verifica ope legis, alla scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire, e senza che lo stesso debba esser previsto nella pronuncia di condanna; proprio come avvenuto nel caso di specie, atteso che il Comune di Milazzo ha emesso un'ordinanza ingiunzione di demolizione in data 14/10/2008, rimasta del tutto inattuata e poi indicata nel provvedimento qui impugnato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17134).

EDILIZIA PRIVATA: I rilevamenti tratti da Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione obiettiva -ad una certa data- circa il presunto stato di fatto dei luoghi.
Il Collegio, in conformità all’orientamento espresso da questa Sezione, ritiene in primo luogo di sottolineare che i prefati rilevamenti, tratti da Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione positiva al fine di comprovare il presupposto di fatto assunto a giustificativo del provvedimento impugnato (e cioè che ad una certa data -e, dunque, oltre il termine annuale normativamente stabilito ai fini dell’efficacia del titolo edilizio- i lavori non erano iniziati) e ciò, in particolare, tenuto conto:
della provenienza del suddetto rilevamento;
delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”);
della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio non risultano essere tratte dalle versioni più evolute del software, predisposte per scopi commerciali).

... per l'annullamento:
a) dell’ordinanza n. 6 del 17.04.2014, prot. n. 606, con la quale l’amministrazione comunale di Arzano ha dichiarato la decadenza di S.S., P.S., C.S. dal permesso di costruire n. 5 del 18.01.2012, avente ad oggetto lavori di ampliamento volumetrico residenziale in sopraelevazione al terzo piano ed ampliamento di un balcone al secondo piano del fabbricato sito alla via ... n. 23;
b) dell’ordinanza n. 4 del 18.04.2014, con la quale l’amministrazione comunale ha ingiunto a S.S., P.S., C.S. la demolizione delle opere contestate;
...  
1. Il ricorso merita accoglimento.
2. Come esposto nella narrativa in fatto e come emerge dalla documentazione versata in atti, il provvedimento dichiarativo gravato –adottato a breve distanza di tempo dal provvedimento di revoca di precedente, analoga determinazione– reca a proprio fondamento le evidenze tratte da Google Earth, tali da comprovare, ad avviso dell’amministrazione, che alla data del 19.06.2013 (e, dunque, oltre il termine annuale normativamente stabilito ai fini dell’efficacia del titolo edilizio), i lavori non erano iniziati, risultando il lastrico solare di copertura del fabbricato de quo integro.
2.1. Il Collegio, in conformità all’orientamento espresso da questa Sezione (cfr. sentenza n. 6118 del 27.11.2014; sentenza n. 5331 del 22.11.2013), ritiene, in primo luogo di sottolineare che i prefati rilevamenti, tratti da Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione positiva al fine di comprovare il presupposto di fatto assunto a giustificativo del provvedimento impugnato e ciò, in particolare, tenuto conto della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio non risultano essere tratte dalle versioni più evolute del software, predisposte per scopi commerciali).
2.2. Nel caso che ne occupa, peraltro, dalla documentazione prodotta dalla difesa di parte ricorrente emergono specifiche circostanze (prescrizioni contenute nel titolo edilizio (e, segnatamente, quella indicata al punto 10, lett. a); presentazione in data 10.09.2012 della comunicazione di inizio dei lavori; stipulazione in data 05.07.2012 del contratto di appalto avente ad oggetto la esecuzione dell’intervento assentito; nomina del direttore dei lavori; dichiarazione del direttore dei lavori e del titolare dell’impresa appaltatrice in merito al tempestivo inizio delle attività; fattura dell’impresa del 05.07.2012 e relativo assegno di pagamento del corrispettivo; richiesta del rilascio dell’autorizzazione sismica da parte del Genio Civile) che, congiuntamente considerate e associate all’operato complessivo dell’amministrazione avrebbero richiesto una più approfondita ponderazione al fine di verificare la sussistenza dell’effettiva volontà dei titolari del titolo edilizio a realizzare quanto progettato.
2.3. Né al fine di addivenire a diverse conclusioni può essere attribuito dirimente rilievo, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa dell’ente resistente, ai tempi di conclusione del procedimento di rilascio dell’autorizzazione sismica e ciò sia in quanto tale giustificativo si sostanzia in una inammissibile integrazione postuma della motivazione sia, soprattutto, alla luce delle comunicazioni intercorse tra gli interessati e l’amministrazione; il riferimento è, in particolare, alla nota inviata dagli interessati all’amministrazione comunale in data 10.09.2012 (all. 2 delle produzioni documentali di parte ricorrente), con la quale è stato espressamente attestato che i lavori avrebbero avuto “inizio solo al rilascio dell’autorizzazione sismica”, conformemente, peraltro, alle prescrizioni indicate nel permesso di costruire.
2.4. In tale quadro, infatti, l’operato dell’amministrazione non si ritiene conforme ai principi di correttezza e buona fede cui deve essere costantemente ispirato l'esercizio della funzione, ciò anche in considerazione della complessiva attività svolta, incluse le determinazioni assunte nell’esercizio del potere di autotutela decisoria.
3. Illegittimamente, dunque, l’amministrazione comunale ha adottato il provvedimento dichiarativo della decadenza del permesso di costruire gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 2380 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge.
Pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo; né si configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale dell’interessato.

L’abusività dell’intervento realizzato appalesa, inoltre, di per sé l’infondatezza del I motivo di gravame.
Al di là del fatto, che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, risulta documentato che il medesimo ha presenziato alle attività di controllo espletate dal personale della Polizia Municipale e che può imputare solo alla sua negligenza l’omessa (formale) conoscenza dell’avvio del procedimento sanzionatorio, peraltro avviato con tempestività dal Comune di Udine (vedi all. 2, 3 e 5 – fascicolo doc. Comune), il Collegio ritiene che il vizio di omessa comunicazione di avvio del procedimento non possa, in ogni caso, inficiare la legittimità del provvedimento impugnato.
Invero, pur avendo ritenuto in una recente pronuncia (TAR FVG, I, 19.12.2014, n. 658) di poter trarre dall’omesso invio di tale comunicazione argomenti a supporto della fondatezza dell’impugnazione proposta avverso l’ordine di demolizione di una pergotenda del tutto provvisoria e aperta su tutti i lati, adibita a protezione stagionale dalla pioggia e dal sole, questo Collegio ritiene che non sussistono validi motivi (non essendo stati esplicitati nemmeno nell’isolato revirement dianzi citato) per abbandonare l’orientamento consolidato, a mente del quale “l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall’avviso ex art. 7 l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo; né si configurano particolari esigenze o conseguenze connesse alla partecipazione procedimentale dell’interessato” (C.d.S. n. 2196/2014 cit.; in termini TAR FVG, I, n. 339/2013 e n. 498/2012) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 22.04.2015 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Invero, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.

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Ed infatti, come più sopra già si è accennato, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del 2011), già fatto proprio anche da questa Sezione (cfr. sentt. n. 813 del 2012, n. 758 del 2013 e n. 457 del 2014), il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.04.2015 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Le eventuali ravvisate illegittimità costituzionali di norme di rango primario non esonerano le amministrazioni dalla doverosa applicazione delle stesse norme (fino a quando non intervenga un’abrogazione o una dichiarazione di illegittimità costituzionale), a meno che esse non siano “disapplicabili” in ragione di un loro manifesto contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle amministrazioni, come al giudice, si impone comunque il dovere di interpretare ogni disposizione dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo costituzionalmente orientato, sicché, tra più opzioni interpretative legittimamente percorribili, risulterà sempre preferibile quella più rispettosa delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e dei valori costituzionali che lo informano.
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I nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 31 DPR 380/2001 (con i quali è stato inserito un ulteriore meccanismo di deterrenza rispetto all’inadempimento delle ingiunzioni a demolire) debbono ritenersi automaticamente applicabili in Sicilia.
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Il Consiglio ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria introdotta dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 sia “aggiuntiva”, ossia che essa si cumuli con le “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, sulla base delle osservazioni e delle considerazioni di seguito sviluppate.
Invero, va rilevato che nell’alveo semantico dell’imprecisa locuzione “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti” potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).
L
a sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta, all’evidenza, proprio al fine di incentivare la compliance (ossia la spontanea attivazione) dei privati rispetto all’ordine di demolizione, attraverso una coazione indiretta rappresentata da una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente sul patrimonio dei responsabili degli abusi eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non si possa più far luogo all’acquisizione e alla demolizione sarebbe una conclusione abrogans e contrastante, non solo con la lettera della legge, ma anche con la stessa, riferita politica legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno, ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del principio di specialità sia stato perimetrato direttamente dal Legislatore, segnatamente attraverso il ricorso alla precisazione “salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta comunque salva cioè applicabile”, posto che, diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel corto circuito logico al quale si è sopra accennato (ossia, si finirebbe per azzerare una delle due sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità tra la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima, l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi qualificabile come “misura” e non come “sanzione”, dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi, correlati all’operare del principio di specialità tra le sanzioni.
In conclusione,
l’avviso del Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso reale) a tutte le altre sanzioni e misure eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come sopra definito, con la sola eccezione delle eventuali previsioni che dovessero comminare una sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è giustificata dal termine “altre” contenuto nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il principio di specialità, qualora ne ricorressero in concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto italiano) e generica terminologia utilizzata dal Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i conditores iuris abbiano inteso far riferimento con l’uso della locuzione “altre misure”),
deve ritenersi che nell’insieme delle “altre misure” rientrino tutti gli effetti e gli atti di natura penale, amministrativa o civile correlati all’inottemperanza a un’ordinanza di demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le possibili fattispecie, spetterà alle singole amministrazioni verificare di volta in volta l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità delle “altre misure” con la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico.

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Q
uesto Consiglio osserva che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto –almeno dal punto di vista giuridico– un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione (indiretta dei responsabili degli abusi dei quali sia stata constata l’omessa demolizione) e di repressione delle condotte omissive prese in considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 si limita ad indicare la destinazione esclusiva e obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione delle sanzioni, ma non influisce sul regime giuridico della relativa dosimetria, che è quello dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe costituire un indice sintomatico di eccesso di potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo unico, ossia non si sta facendo riferimento alla comminatoria della sanzione per il caso di constata inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare collocazione all’interno dell’ingiunzione a demolire); piuttosto si intende richiamare e stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in rapporto alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente.

Contro la prima proposta, si osserva che la sanzione è un dispositivo giuridico consistente in una reazione dell’ordinamento a una condotta antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da ciò discende che
la concreta misura della sanzione da irrogare deve essere stabilita sempre successivamente alla condotta e non può mai essere predeterminata
(fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria stabilita ex ante dalla legge in misura fissa), pena il frontale contrasto con i fondamentali principi della personalità e della proporzionalità della sanzione, sui quali riposa anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo dell’art. 11, nella cui economia applicativa l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione, per la demolizione e la risistemazione dei luoghi, può unicamente rilevare nei termini della valutazione pro reo da effettuare, in relazione all'opera eventualmente svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31 accolla ai responsabili le spese della demolizione (ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno ingiusta la duplicazione della relativa pretesa dell’amministrazione, una prima volta in sede di sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio) avvenuta.
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Questo Consiglio osserva che la demolizione (ex art. 31) non si configura come un esito obbligato dell’acquisizione delle opere edilizie abusive e della relativa area di sedime. Lo stesso comma 5 dell’art. 31 prevede difatti la possibilità della conservazione delle opere in presenza di dichiarati interessi pubblici non contrastanti con quelli urbanistici e ambientali.
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Può tranquillamente affermarsi che la sanzione di cui al comma 4-bis dell’art. 31 non possa trovare applicazione ai casi previsti e disciplinati dall’art. 34 del Testo unico. Sebbene, infatti, anche quest’ultima previsione contempli un’ipotesi di demolizione, nondimeno prevale il principio di tassatività delle sanzioni amministrative, scolpito dall’art. 1, secondo comma, della citata L. n. 689/1981, in base al quale: “Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis dell’art. 31 e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa la riferibilità della sanzione soltanto all’evenienza di un’inottemperanza, del responsabile dell’abuso, a un’ingiunzione a demolire relativa a illeciti interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La condotta sanzionata dalla previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è di natura omissiva, ossia concerne la mancata demolizione, da parte del responsabile dell’abuso, entro il termine finale fissato dalla legge, delle opere in cui si siano concretati gli illeciti interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si colloca –sotto i profili logico, cronologico e giuridico– prima della eventuale demolizione eseguita d’ufficio dal comune (demolizione contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma, anche prima della notificazione all’interessato dello stesso verbale di accertamento dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto legale dell’acquisizione delle opere, non demolite spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5 dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico, si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti, i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma 4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle opere; b) conservazione delle opere in ragione di prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i presupposti, concessione del diritto di abitazione degli immobili al responsabile dell’abuso.
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Questo Consiglio
reputa di dover spendere alcune brevi, considerazioni anche sul tema dell’”autorità competente” a irrogare la sanzione di cui al comma 4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune. A tale conclusione si perviene sulla base delle seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione della previsione nell’ambito di una disposizione che disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in assenza di differenti indicazioni ricavabili dal dato positivo, il principio di concentrazione delle competenze amministrative, che risulterebbe gravemente vulnerato qualora l’attività di repressione degli illeciti edilizi di cui all’art. 31 del Testo unico fosse frammentata tra varie autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che indica il prefetto quale autorità di competenza residuale nelle sole materie di competenza statale), conduce a ritenere che il potere di irrogare la sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al rilascio del permesso di costruire e, comunque, incaricato della potestà di vigilanza sul corretto uso del territorio comunale.

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OGGETTO: Applicazione dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come integrato dall'art. 17, lettera q-bis), del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 - Sanzioni conseguenti alla inottemperanza all'ordinanza di demolizione di opere abusivamente eseguite - Proposta di circolare.
...
PREMESSO
   A. – Con nota prot. n. 2324, del 02.02.2015, pervenuta il 03.02.2015 e recante in calce il “visto” dell’Assessore, il Dirigente generale del Dipartimento dell’urbanistica dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente (nel prosieguo: Assessorato) ha richiesto a questo Consiglio di esprimere un parere sulla questione succintamente descritta in oggetto e, in particolare, sulle soluzioni offerte nella bozza di circolare allegata alla predetta nota.
   B. – Per una migliore intelligenza delle problematiche sottoposte al vaglio di questo Consiglio giova riferire che:
- con il decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sono state emanate, tra l’altro, misure urgenti anche relative al settore dell'edilizia, con l'intento di favorire la ripresa economica e delle attività produttive.
In particolare, l'art. 17 del citato decreto, rubricato “Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia”, al comma 1, lettera q-bis) –lettera aggiunta dalla legge di conversione- ha introdotto talune integrazioni all'art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, d’ora in poi: Testo unico), relativo agli “Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, intese ad incentivare le attività di vigilanza urbanistico-edilizia e la semplificazione delle procedure volte all'irrogazione di sanzioni ripristinatorie, a fronte della consumazione e dell’accertamento di illeciti legati all'abusivismo edilizio;
- le interpolazioni incidenti sull’art. 31 del Testo unico sono state operate con il metodo della “novellazione” e sono consistite, nell’inserimento –dopo il comma 4– di tre ulteriori commi dal seguente tenore: “
4-bis. L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
4-ter. I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico.
4-quater. Ferme restando le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, le regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione
.”;
- in conseguenza e per effetto delle riferite, recenti modifiche legislative,
l’art. 31 –che, come sopra accennato, disciplina la procedura dell’ingiunzione a demolire e delle conseguenze dell’eventuale inottemperanza a detta ingiunzione, nel caso di interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali– si è arricchito della previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria, di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, da comminarsi a carico del responsabile dell'abuso una volta decorso il temine perentorio di novanta giorni dall'ingiunzione, per il caso di “constatata … inottemperanza” all’ordine di demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
   C. – L’Assessorato richiedente, con la bozza di circolare in parola –affermata l’appartenenza della materia sanzionatoria all’esclusiva competenza legislativa statale (con la conseguenza della diretta applicabilità delle nuove disposizioni nell’ordinamento regionale siciliano, senza necessità di alcuna norma di recepimento)–, intende rispondere all’esigenza di fornire chiarimenti in ordine alle perplessità, rappresentate dal alcune amministrazioni locali dell’Isola, circa la natura della sanzione prevista dal nuovo comma 4-bis del su richiamato art. 31 del Testo unico.
Più in dettaglio,
nella ridetta bozza di circolare, l’Assessorato –oltre a richiamare le amministrazioni interessate a una puntuale e tempestiva osservanza del sunnominato art. 31, siccome novellato- ha esposto le seguenti considerazioni:
1)
la sanzione amministrativa pecuniaria, prevista oggi dal comma 4-bis dell’art. 31, dovrebbe reputarsi aggiuntiva rispetto ad altre sanzioni eventualmente stabilite, per la medesima violazione, dall’ordinamento (dovendosi interpretare in questo senso l’inciso normativo "… salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti", contenuto nel primo periodo del sunnominato comma 4-bis);
2)
la sanzione in discorso costituirebbe una sorta di anticipazione, a titolo risarcitorio, delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi; la nuova sanzione pecuniaria, difatti, sarebbe stata introdotta al fine di assicurare ai bilanci dei Comuni adeguate risorse finanziarie per far fronte tempestivamente alle demolizioni d'ufficio, come si desumerebbe dal comma 4-ter che riserva i proventi derivanti dalla sanzione "alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico";
3)
alla demolizione, in caso di inerzia del responsabile dell’abuso, dovranno provvedere direttamente le amministrazioni locali, con potere di rivalsa, per le spese sostenute, nei confronti del contravventore rimasto inadempiente;
4)
per ragioni di opportunità le amministrazioni competenti dovrebbero aver cura di evidenziare in seno all'ordinanza di demolizione, oltre alle conseguenze (come l’acquisizione gratuita delle opere e delle aree) derivanti dall’eventuale inottemperanza all’ingiunzione entro il termine previsto dalla legge, anche l'ammontare della ulteriore sanzione pecuniaria da quantificare (fatti salvi i casi previsti dall'art. 2, comma 27, del Testo unico, per i quali si applicherà sempre la misura massima) in forma presuntiva e da commisurare alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e alla sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente;
5)
la previsione sanzionatoria in argomento troverebbe applicazione anche con riguardo alle fattispecie previste, rispettivamente, dal comma 5 dello stesso art. 31 e dall'art. 4 della L.R. 31.05.1994, n. 17 (diritto di abitazione), ma non al caso degli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, di cui all’art. 34 del Testo unico (ferma restando, anche in quest’ultima ipotesi, l'imputazione a carico del responsabile dell'abuso delle spese di demolizione e di inottemperanza all'ordinanza).
L’Assessorato ha chiesto di conoscere il parere di questo Consiglio in ordine al riferito contenuto della futura circolare.
CONSIDERATO
   1. – In via preliminare questo Consiglio non può astenersi dal richiamare l’attenzione dell’Assessorato sulla necessità che le circolari amministrative, al pari di tutti gli atti amministrativi, siano ben scritte, correndosi altrimenti il rischio di insinuare, nei destinatari, dubbi anche sulla attendibilità delle soluzioni giuridiche proposte.
Affinché un qualunque testo di contenuto giuridico possa ritenersi ben scritto occorre, tra l’altro, eliminare -ovunque ricorrano- gli errori grammaticali (nella fattispecie, “provincie” in luogo di “province”, negli indirizzi contenuti nell’incipit della circolare), bisogna poi utilizzare un preciso lessico giuridico (nella bozza l’uso dell’espressione “reati penali”, invece di “reati”, sottintende un grave errore concettuale, non conoscendo il nostro ordinamento figure di reati “non penali”), si deve controllare poi l’esattezza degli estremi delle fonti normative citate (ad esempio, “art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001” al posto dell’inesistente “art. 2, comma 27, del D.P.R. 380/2001”) e, infine, è indispensabile curare gli aspetti formali e “protocollari” dell’atto (nel caso in esame, balza agli occhi, nell’elenco delle Autorità alle quali dovrebbe essere indirizzata la futura circolare, l’errata indicazione delle corrette denominazioni di “Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”, per la sede di Palermo, e di “Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania”).
Non ultimo si richiama l’attenzione sul rispetto delle disposizioni impartite con la circolare del Presidente del Consiglio dei Ministri del 02.05.2001, n. 1088, recante la “Guida alla redazione dei testi normativi”, pubblicata nella G.U.R.I., Serie Generale, n. 101 del 03.05.2001, S.O. n. 105.
   2. – Esaurite le doverose (ma non irrilevanti) considerazioni in ordine al drafting della bozza di circolare, può passarsi ad esaminare il merito dei quesiti, non senza previamente precisare in via generale che questo Consiglio, rispettivamente, può e deve esprimere il proprio parere su “affari” che gli siano sottoposti dalla Regione siciliana e sui “regolamenti” regionali, ma non anche sulle “circolari”.
Sennonché, all’insegna della leale collaborazione che sempre ha ispirato i rapporti tra Regione siciliana e questo Consiglio, si reputa di poter considerare la bozza di circolare in discorso alla stregua di un mero veicolo di questioni giuridiche di interesse generale. In questa prospettiva l’affare può essere, pertanto, esaminato.
   3. – Seguendo un rigoroso ordine logico, la prima questione da affrontare, sebbene non prospettata dall’Assessorato, concerne l’effettiva applicabilità, nell’ordinamento isolano, delle disposizioni recate dal sunnominato art. 17 del D.L. n. 133/2014. Sul punto, come sopra riferito,
l’Assessorato in sostanza ha mostrato di ritenere (nel primo paragrafo della circolare) che la lett. q-bis) del ridetto art. 17 rechi previsioni afferenti, sia pur indirettamente, alla materia penale e, quindi, come tali riservate all’esclusiva competenza legislativa statale.
Al riguardo questo
Consiglio ritiene che l’argomentare dell’Assessorato non sia condivisibile né convincente, apparendo al contrario evidente che l’introduzione di una sanzione amministrativa per una condotta che concerne un posterius rispetto all’illecito costituito dall’edificazione in assenza del permesso di costruire (o in difformità o con variazione essenziale rispetto a quest’ultimo) non giustifichi affatto l’evocazione della riserva statale in materia penale.
In proposito,
è sufficiente osservare che, nella più parte delle fattispecie di illeciti edilizi, la normativa urbanistica di ogni livello –da quella statale o regionale di rango primario, passando per le prescrizioni contenute nei piani e regolamenti comunali, fino a quanto sia dettagliato nel singolo provvedimento concessorio rilasciato al contravventore (v. l’art. 44, comma 1, lett. a) e b), del Testo unico, che punisce “l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste … dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire”, nonché la “esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso” stesso)– costituisce un c.d. “elemento integrativo” del precetto penale, ossia un dato sostanzialmente esterno al precetto sanzionatorio che quest’ultimo si limita a presupporre e presidiare ab extra (C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013, n. 206/11).
Non vale tuttavia indugiare su una diffusa confutazione delle riferite tesi patrocinate dall’Assessorato (in relazione alle quali difetta, peraltro, una richiesta di parere) e occorre, invece, verificare unicamente se possano ritenersi vigenti, anche in Sicilia, in assenza di una norma legislativa regionale di recepimento, le previsioni di cui alla lett. q-bis) del ridetto art. 17 del D.L. n. 133/2014.
Deve, invero, ritenersi che la soluzione di tale questione, investendo un profilo pregiudiziale, condizioni lo scrutinio delle altre espressamente prospettate dall’Assessorato: risulterebbe, invero, inutile affrontare l’esegesi di una disposizione statale che fosse inapplicabile nell’Isola.
Al riguardo si impone di principiare dall’esame della giurisprudenza di questo Consiglio che, in sede giurisdizionale e consultiva, ha affermato –diversamente da quanto opinato dall’Assessorato- l’inapplicabilità, in sé, del Testo unico n. 380 del 2001 nel territorio siciliano. Occorre difatti considerare che lo Statuto della Regione siciliana, all’art. 14, attribuisce alla competenza legislativa esclusiva della stessa Regione la materia “urbanistica” (lett. f); nonché altresì anche le ulteriori materie concernenti: “tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche” (lett. n).
In tali ambiti, ai quali va ricondotta anche la materia dell’edilizia (oltre a quella dell’urbanistica), le leggi statali non si applicano in Sicilia, se non in quanto siano richiamate –ed eventualmente in tale sede anche modificate– da una legge regionale (C.G.A., sez. riun., del 19.02.2013, n. 206/11, cit.).
Orbene, mentre non risulta ancora recepito nell’ordinamento isolano il Testo unico, è stata invece recepita la legge 28.02.1985, n. 47, mercé la L.R. 10.08.1985, n. 37 (nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive), il cui art. 1, comma 1, testualmente recita: “La legge 28.02.1985, n. 47, … e successive modifiche ed integrazioni, ad eccezione degli articoli 3, 5, 23, 24, 25, 29 e 50, si applica nella Regione siciliana con le sostituzioni, modifiche ed integrazioni di cui alla presente legge”.
Questo Consiglio ha chiarito, in più occasioni (anche nel parere in ultimo citato, ma pure in C.G.A., sez. giurisd., 25.05.2009, n. 488), che la formula “successive modifiche ed integrazioni” (o analoga) con cui il Legislatore regionale opera, talora, il rinvio alla disciplina statale di rango primario, costituisce un indice di un’obiettivata volontà di effettuare un rinvio “mobile” e “dinamico” alla fonte statale di volta in volta menzionata; ossia un rinvio che si estende, automaticamente, a tutte le modificazioni e integrazioni future della disciplina evocata e, pertanto, anche alle modifiche e integrazioni sopravvenute all’introduzione del dispositivo normativo di rinvio: ciò al fine di consentire un continuo adeguamento dell’ordinamento regionale all’evoluzione normativa in ambito statale, attraverso una disciplina elastica e costantemente raccordata con il contesto giuridico di riferimento.
D’altronde anche il rinvio “mobile” alla legislazione statale (e il conseguente adeguamento “dinamico” a essa della legislazione regionale che opera il rinvio) è una valida modalità di esercizio delle potestà normative regionali, dal momento che il meccanismo di rinvio può essere in ogni momento revocato (mediante successiva legge regionale).
Nel riferito quadro di principi va calata l’ulteriore considerazione che nell’art. 31 del Testo unico, nel quale sono stati interpolati i nuovi commi introdotti dalla lett. q-bis) sunnominata, è transitato tutto il contenuto precettivo dell’art. 7 della legge n. 47/1985. Ebbene, l’art. 7, fino all’originario settimo comma, è stato recepito il Sicilia per effetto della sunnominata L.R. n. 37/1985, il cui art. 3 ha sostituito con tre commi l’originario comma ottavo della legge n. 47/1985.
Si può quindi affermare che, in relazione a quella parte della disciplina recata dall’art. 7 -ossia alla dispositivo che va dal primo al quinto comma e che più interessa l’oggetto della richiesta di parere- l’art. 31 del Testo unico deve reputarsi un mero aggiornamento dell’art. 7 della legge n. 47/1985 e che, dunque, anche l’art. 31 (nella ridetta parte) è sicuramente applicabile in Sicilia e che di siffatto articolo in parte qua devono reputarsi applicabili anche le “successive modifiche e integrazioni”.
Completa il ragionamento fin qui sviluppato l’osservazione che la volontà esternata dal Legislatore statale e la stessa tecnica utilizzata (id est, quella della novellazione) evidenziano il chiaro intento di intervenire sull’assetto normativo dei primi commi dell’art. 31 e, segnatamente, sulla disciplina del procedimento repressivo degli interventi eseguiti in assenza di premesso di costruire o in totale difformità o con variazioni essenziali.
Da ciò discende conclusivamente che pure i nuovi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 31 (con i quali è stato inserito un ulteriore meccanismo di deterrenza rispetto all’inadempimento delle ingiunzioni a demolire) debbono ritenersi automaticamente applicabili in Sicilia per effetto di quel sistema di rinvio dinamico del quale si è dato sopra conto.
Stante l’autonomia valutativa dell’Autorità richiedente e la natura non vincolante del presente parere, si rimette, quindi, all’Assessorato la scelta in ordine alla conservazione –nel terzo periodo del primo paragrafo della bozza di circolare- delle (erronee, ad avviso di questo Consiglio) motivazioni per le quali le nuove norme statali sarebbero applicabili anche in Sicilia, oppure alla riformulazione del paragrafo in questione, attraverso il recepimento, sia pur in forma sintetica (tramite, ad esempio, rinvio per relationem al presente parere), degli argomenti giuridici sopra spiegati.
   4. - Con il quesito riportato sub C.1),
l’Assessorato ha chiesto, in sostanza, a questo Consiglio di rendere un’interpretazione della clausola normativa, riportata nel nuovo comma 4-bis dell’art. 31 ("… salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti"): in particolare, l’Assessorato si è interrogato sulla natura “aggiuntiva”, o no, della sanzione amministrativa ivi disciplinata, ossia delle sua cumulabilità, o no, rispetto alle altre misure e sanzioni previste dall’ordinamento.
Per rispondere ai dubbi esegetici prospettati dall’Assessorato, occorre dapprima soffermare l’attenzione sulla circostanza che la sanzione in parola è stata espressamente definita dal Legislatore come “amministrativa pecuniaria”. Siffatta qualificazione, sul versante sistematico, porta l’interprete a rinvenire nella L. 24.11.1981, n. 689 il quadro dei principi generali della relativa disciplina. Come si avrà modo di argomentare nel prosieguo, tale inquadramento sistematico dell’istituto consente di far luce su alcune criticità segnalate dall’Autorità richiedente.
Tanto premesso, va poi ulteriormente osservato come la redazione normativa del nuovo comma 4-bis non brilli obiettivamente per chiarezza. Le perplessità manifestate dall’Assessorato poggiano, in effetti, su un dato letterale obiettivamente opaco il cui portato interpretativo è anfibologico: il vocabolo “salva” potrebbe invero sorreggere due esegesi completamente divergenti e tra loro incompatibili.
Più in dettaglio, il termine “salva” potrebbe intendersi nel senso di “a meno che” (nei termini, cioè, di una c.d. “clausola di riserva”) e, quindi, significare che la sanzione non si applichi laddove l’ordinamento preveda “altre misure e sanzioni” (e in questa prospettiva la sanzione sarebbe “alternativa”); oppure il termine “salva” potrebbe voler dire “fatta comunque applicabile”, sicché –oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria (che risulterebbe pertanto “aggiuntiva”)- troverebbero applicazione anche le “altre misure e sanzioni”.
Le incertezze si addenserebbero soprattutto attorno a detto secondo approdo interpretativo, avendo l’Assessorato ritenuto (si fa qui riferimento al contenuto della surricordata nota, prot. n. 2324, del 02.02.2015) che un eventuale cumulo della demolizione coattiva, della sanzione amministrativa pecuniaria e delle “altre misure e sanzioni” finisca per dare luogo a un potenziale repressivo non proporzionato per eccesso e, dunque, come tale, in odore di illegittimità costituzionale, anche per contrasto con ben noti principi, valevoli per tutto il diritto punitivo (senza distinzione tra sanzioni penali o amministrative) enunciati in sede europea.
A tal riguardo, pur non apparendo privi di suggestione alcuni dei dubbi sollevati dall’Assessorato, va tuttavia ricordato che, ovviamente,
le eventuali, ravvisate illegittimità costituzionali di norme di rango primario non esonerano le amministrazioni dalla doverosa applicazione delle stesse norme (fino a quando non intervenga un’abrogazione o una dichiarazione di illegittimità costituzionale), a meno che esse non siano “disapplicabili” in ragione di un loro manifesto contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Al contempo, deve però osservarsi che anche alle amministrazioni, come al giudice, si impone comunque il dovere di interpretare ogni disposizione dell’ordinamento in chiave sistematica e in modo costituzionalmente orientato, sicché, tra più opzioni interpretative legittimamente percorribili, risulterà sempre preferibile quella più rispettosa delle altre previsioni vigenti nell’ordinamento e dei valori costituzionali che lo informano.

Muovendo dalle coordinate esegetiche sopra tratteggiate,
il Consiglio ritiene che la sanzione amministrativa pecuniaria introdotta dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 sia “aggiuntiva”, ossia che essa si cumuli con le “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”, sulla base delle osservazioni e delle considerazioni di seguito sviluppate.
Innanzitutto va rilevato che nell’alveo semantico dell’imprecisa locuzione “altre misure e sanzioni previste da norme vigenti” potrebbero rientrare:
a) sanzioni penali;
b) sanzioni amministrative, pecuniarie o non pecuniarie;
c) sia misure con effetti punitivi sia di carattere non sanzionatorio (ossia le “altre misure”).

In via generale e in primo luogo i rapporti tra le sanzioni indicate nelle precedenti lettere a) e b) rinvengono una, non esaustiva, disciplina nell’art. 9 della su richiamata L. n. 689/1981, rubricato “Principio di specialità”, i cui primi due commi dispongono: “Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale.
Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali.
”.
Il fondamentale criterio applicativo del sunnominato art. 9 –dedicato al c.d. “concorso apparente di norme”– si basa, all’evidenza, sul concetto di “stesso fatto”, in relazione al quale la giurisprudenza ha avuto ripetute occasioni per affermare, anche in tempi risalenti, che:
- il concorso apparente, previsto dall'art. 9, è soggetto al principio di specialità, cioè all'applicazione della disposizione di natura speciale, e presuppone che le norme medesime prendano in considerazione e puniscano lo "stesso fatto", così che, in presenza di fattispecie che presentino un elemento di diversità, ancorché coincidenti in tutto od in parte con riguardo alla condotta del trasgressore, si deve ravvisare un concorso effettivo, non apparente, con applicazione delle rispettive sanzioni (ovvero, se si tratti di concorso formale, ai sensi dell'art. 8 della citata legge, della sanzione per la violazione più grave aumentata sino al triplo; v. Cass. civ., sez. I, 10.09.1991, n. 9494);
- lo “stesso fatto” ricorre allorquando il medesimo accadimento concreto, inteso come evento storicamente determinato, possa integrare il contenuto descrittivo di diverse previsioni legislative astratte a carattere sanzionatorio, con la conseguenza che il concorso apparente è escluso nel caso in cui i fatti ipotizzati dalla fattispecie astratta siano diversi nella loro materialità, nella loro oggettività giuridica, ovvero quando la norma che regola un fatto contenga una clausola di riserva o, infine, quando la norma che prevede una fattispecie di illecito faccia riferimento solo quoad poenam ad altra norma prevedente diversa fattispecie (Cass. civ., sez. II, 16.02.2009, n. 3745).
Ebbene, soprattutto alla stregua dei principi enunciati dal Supremo Collegio e da ultimo richiamati,
è possibile ricostruire, in via sistematica, la trama delle relazioni che legano la sanzione, il cui ambito di applicazione costituisce oggetto della richiesta di parere, alle altre previsioni sanzionatorie in astratto applicabili.
Invero, generalizzando i suddetti principi, si giunge alla conclusione secondo cui
la specialità di cui all’art. 9 della L. n. 689/1981 (si noti che la disposizione non distingue, quanto alla sua applicabilità, tra sanzioni amministrative pecuniarie e non pecuniarie) non operi allorquando:
a) sia diverso il “fatto” da punire oppure
b) sia lo stesso ordinamento a precluderne in via normativa gli effetti.

Sicuramente, nella fattispecie, non viene in rilievo la prima causa ostativa all’operare del principio di specialità. Non è seriamente controvertibile, infatti, che la demolizione d’ufficio dei manufatti acquisiti (in conseguenza dell’inottemperanza a un ordine di demolizione) consista in una sanzione amministrativa, ancorché non pecuniaria, dal momento che siffatta demolizione mutua la natura del relativo ed omologo ordine disposto dal giudice penale a norma del comma 9 dell’art. 31 del Testo unico (a proposito della quale la Corte di cassazione ha avuto modo di affermare che si tratta di sanzione amministrativa a carattere reale e a contenuto ripristinatorio; v., tra le altre decisioni, Cass. pen., sez. III, 21.10.2009, n. 47281); nemmeno può, del resto, obliterarsi la circostanza, nel caso che occupa il Consiglio, il “fatto” perseguito sia assai specifico e ben descritto dalla legge; si tratta infatti dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, constata dall’amministrazione procedente.
Se, dunque, si facesse riferimento soltanto a tale aspetto, non si ravviserebbe alcun ostacolo all’applicazione del principio di specialità, con la conseguenza di rendere comunque inapplicabile o il comma 4-bis o il comma 5 dell’art. 31 del Testo unico (a seconda delle valutazioni circa l’individuazione della norma speciale tra le due indicate).
Qualunque interprete non potrebbe, tuttavia, non convenire sull’assurdità di una conclusione siffatta, atteso che essa si porrebbe manifestamente in contrasto sia con la lettera della legge (che colloca, all’interno di un unico articolo, la sanzione amministrativa pecuniaria e pure quella amministrativa “ripristinatoria”) sia con la fondamentale ratio di supporto del recente intervento legislativo che, all’evidenza, è stata quella di rafforzare -colpendo con la comminatoria di una punizione di natura pecuniaria le inerzie dei destinatari sanzionati- i presidi normativi a garanzia dell’ottemperanza alle ingiunzioni a demolire:
la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 è stata introdotta, all’evidenza, proprio al fine di incentivare la compliance (ossia la spontanea attivazione) dei privati rispetto all’ordine di demolizione, attraverso una coazione indiretta rappresentata da una reazione punitiva dell’ordinamento, incidente sul patrimonio dei responsabili degli abusi eventualmente rimasti inerti a fronte di un dovere di esecuzione su di essi gravante; sicché ipotizzare che laddove si applichi la sanzione pecuniaria non si possa più far luogo all’acquisizione e alla demolizione sarebbe una conclusione abrogans e contrastante, non solo con la lettera della legge, ma anche con la stessa, riferita politica legislativa attuata con l’intervento normativo.
Al lume dei superiori rilievi può, nondimeno, ritenersi che, nel caso in esame, si sia al cospetto di un’ipotesi in cui l’ambito di applicazione del principio di specialità sia stato perimetrato direttamente dal Legislatore, segnatamente attraverso il ricorso alla precisazione “salva l’applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti”. In questa prospettiva, però,
il vocabolo “salva” deve essere inevitabilmente interpretato nel senso di “fatta comunque salva cioè applicabile”, posto che, diversamente opinando, l’esegesi tornerebbe a quel corto circuito logico al quale si è sopra accennato (ossia, si finirebbe per azzerare una delle due sanzioni).
Va da sé che la cumulabilità tra la sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico e la demolizione d’ufficio delle opere abusive (e, ancor prima, l’acquisizione degli immobili oggetto degli illeciti edilizi) risulterebbe una soluzione ancor più convincente, qualora la seconda fosse in ipotesi qualificabile come “misura” e non come “sanzione”, dal momento che, in tale evenienza, nemmeno si porrebbero i problemi giuridici, sopra approfonditi, correlati all’operare del principio di specialità tra le sanzioni.
In conclusione,
l’avviso del Collegio è che la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis debba applicarsi cumulativamente (per le sanzioni si è in presenza, quindi, di un concorso reale) a tutte le altre sanzioni e misure eventualmente previste per lo stesso “fatto”, come sopra definito, con la sola eccezione delle eventuali previsioni che dovessero comminare una sanzione pecuniaria del tutto analoga a quella di cui al ridetto comma 4-bis, giacché in tale residuale ipotesi (la cui configurabilità logica è giustificata dal termine “altre” contenuto nell’inciso normativo) tornerebbe a valere il principio di specialità, qualora ne ricorressero in concreto i presupposti di operatività.
Infine, per completezza dell’esame, va osservato che, nonostante l’atecnica (almeno per il diritto italiano) e generica terminologia utilizzata dal Legislatore (non comprendendosi a quale istituto i conditores iuris abbiano inteso far riferimento con l’uso della locuzione “altre misure”),
deve ritenersi che nell’insieme delle “altre misure” rientrino tutti gli effetti e gli atti di natura penale, amministrativa o civile correlati all’inottemperanza a un’ordinanza di demolizione.
Non potendo, peraltro, compiersi in questa sede un’accurata ed esaustiva disamina di tutte le possibili fattispecie, spetterà alle singole amministrazioni verificare di volta in volta l’esatta natura giuridica e l’eventuale cumulabilità delle “altre misure” con la sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis dell’art. 31 del Testo unico
, invocando semmai nei casi dubbi, per tramite dell’Assessorato, un nuovo intervento consultivo di questo Consiglio.
   5. – I quesiti formulati sub C.2) e C.3) -la cui stretta embricazione logica ne consente una trattazione congiunta– intercettano essenzialmente problematiche di dosimetria sanzionatoria. L’Assessorato ritiene che la previsione punitiva in discorso consista in una sorta di anticipazione, a titolo risarcitorio, delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi e tale finalismo normativo risulterebbe evidente dalla circostanza che l’introduzione della sanzione avrebbe lo scopo di fornire ai Comuni adeguate risorse finanziarie per far fronte alle demolizioni d'ufficio, come si desumerebbe dal successivo comma 4-ter del medesimo art. 31.
Muovendo da tale premessa, l’Assessorato suggerisce come opportuna l’indicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione pecuniaria, da quantificare in forma presuntiva e da commisurare alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e alla sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente.
Questo Consiglio dissente recisamente sia dalla premessa sia dalle conclusioni del riferito argomentare. Appare evidente come le considerazioni sviluppate dall’Assessorato poggino su un’indebita sovrapposizione di piani che, invece, dal punto di vista giuridico, devono rimanere del tutto distinti. Segnatamente l’Assessorato ritiene che lo scopo della previsione della sanzione sia quello di procurare entrate ai bilanci delle amministrazioni comunali onde consentire loro di provvedere alle esecuzioni d’ufficio delle demolizioni.
Orbene, questo Consiglio non esclude che quello appena indicato possa esser stato l’obiettivo di politica legislativa che abbia giustificato l’introduzione della sanzione in esame, ma la circostanza, quand’anche ipoteticamente rispondente al vero, sarebbe in ogni caso poco rilevante, in quanto –una volta entrate a far parte dell’ordinamento giuridico- le disposizioni vivono di vita propria, cioè dispongono in modo autonomo rispetto alle finalità ipoteticamente avute di mira dal Legislatore e pure spiegano gli effetti che sono ad esse obiettivamente riconducibili sulla base dell’applicazione delle regole che governano l’interpretazione della legge.
Tanto chiarito, va osservato che
gli unici scopi, costituzionalmente legittimi, che può avere una sanzione, amministrativa o penale, sono quelli della retribuzione giuridica del responsabile, nonché della prevenzione generale e speciale (mentre la primaria finalità delle pene è la rieducazione del condannato ex art. 27 Cost.). In nessun caso la sanzione può trovare giustificazione nell’esigenza di fronteggiare immediate finalità di bilancio.
Sebbene la cronaca offra spesso esempi di improprio utilizzo delle sanzioni per esigenze di copertura dei disavanzi degli enti locali (specialmente nella materia della circolazione stradale),
deve tuttavia ritenersi che applicare le previsioni sanzionatorie per la soddisfazione di dette esigenze non sia semplicemente inopportuno, ma del tutto abnorme e in radicale contrasto con i principi sui quali si fonda l’intero diritto punitivo.
Ai bisogni finanziari di un ente pubblico deve piuttosto provvedersi con il ricorso agli strumenti predisposti a tal fine quali il procacciamento di entrate tributarie o l’alienazione di cespiti patrimoniali o il ricorso all’indebitamento, ove consentito; l’uso per questo fine delle sanzioni potrebbe ridurre, anzi, l’efficacia dissuasiva delle medesime, posto che i destinatari di esse percepirebbero il relativo esercizio del potere repressivo come ingiusto e non proporzionato.

Ciò non significa, si badi bene, che non si possa stabilire in via legislativa quale debba essere la destinazione dei proventi delle sanzioni irrogate e riscosse (siccome dispone, nel caso in esame, il comma 4-ter del novellato art. 31) e, però, il alcun modo siffatta destinazione può interferire, all’inverso, sul regime legale di determinazione e di quantificazione della sanzione.
Tale regime, nell’ordinamento italiano, trova infatti una compiuta disciplina generale nell’art. 11 della citata L. n. 689/1981, rubricato “Criteri per l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie”, secondo cui: “Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche.”.
Riesaminate pertanto, alla stregua dei superiori rilievi, le affermazioni contenute nella bozza di circolare,
questo Consiglio osserva che:
- la sanzione in discorso non costituisce affatto –almeno dal punto di vista giuridico– un’anticipazione a titolo risarcitorio delle spese necessarie al ripristino dello stato dei luoghi, ma consiste piuttosto in uno strumento sia di coazione (indiretta dei responsabili degli abusi dei quali sia stata constata l’omessa demolizione) e di repressione delle condotte omissive prese in considerazione dal precetto della disposizione;
- il comma 4-ter dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 si limita ad indicare la destinazione esclusiva e obbligatoria delle somme derivanti dalla riscossione delle sanzioni, ma non influisce sul regime giuridico della relativa dosimetria, che è quello dettato dall’art. 11 della L. n. 689/1981;
- non è affatto opportuna –e, anzi, potrebbe costituire un indice sintomatico di eccesso di potere per sviamento- l’indicazione, da parte delle amministrazioni procedenti, in seno all'ordinanza di demolizione, dell'ammontare dell’ulteriore sanzione pecuniaria.
Si presti attenzione: non si allude all’indicazione del testo dell’art. 31, comma 4-bis, del Testo unico, ossia non si sta facendo riferimento alla comminatoria della sanzione per il caso di constata inottemperanza (monito che sicuramente deve trovare collocazione all’interno dell’ingiunzione a demolire); piuttosto si intende richiamare e stigmatizzare le soluzioni, prospettate:
a) della quantificazione presuntiva della sanzione e
b) della commisurazione del quantum dovuto in rapporto alle spese necessarie per far fronte alla demolizione e sistemazione dei luoghi, sulla base delle relative voci riportate nel "prezzario unico regionale per i lavori pubblici" vigente.

Contro la prima proposta, si osserva che la sanzione è un dispositivo giuridico consistente in una reazione dell’ordinamento a una condotta antigiuridica ritenuta meritevole di punizione; da ciò discende che
la concreta misura della sanzione da irrogare deve essere stabilita sempre successivamente alla condotta e non può mai essere predeterminata (fatte salve le ipotesi di sanzione pecuniaria stabilita ex ante dalla legge in misura fissa), pena il frontale contrasto con i fondamentali principi della personalità e della proporzionalità della sanzione, sui quali riposa anche il dettato del surricordato art. 11.
Contro la seconda proposta
vanno poi richiamati i precedenti rilievi sul ruolo dell’art. 11, nella cui economia applicativa l’eventuale costo, sostenuto dall’amministrazione, per la demolizione e la risistemazione dei luoghi, può unicamente rilevare nei termini della valutazione pro reo da effettuare, in relazione all'opera eventualmente svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione.
D’altra parte il comma 5 dello stesso art. 31 accolla ai responsabili le spese della demolizione (ove effettuata) e, quindi, anche dal punto di vista della logica giuseconomica, sarebbe quantomeno ingiusta la duplicazione della relativa pretesa dell’amministrazione, una prima volta in sede di sanzione ai sensi del comma 4-bis e poi, una seconda volta, in via di rivalsa a demolizione (d’ufficio) avvenuta.

   6. – L’ultima considerazione introduce al punto sub C.3), laddove l’Assessorato ha ritenuto di dover chiarire che alla demolizione, in caso di inerzia del responsabile dell’abuso, dovranno provvedere direttamente le amministrazioni locali, con potere di rivalsa, per le spese sostenute, nei confronti del contravventore rimasto inadempiente.
Sul punto questo Consiglio osserva unicamente che
la demolizione non si configura come un esito obbligato dell’acquisizione delle opere edilizie abusive e della relativa area di sedime (v., infra, il §. 7). Lo stesso comma 5 dell’art. 31 prevede difatti la possibilità della conservazione delle opere in presenza di dichiarati interessi pubblici non contrastanti con quelli urbanistici e ambientali.
   7. – Con il quesito sub C.5), l’Assessorato ha chiesto una conferma in merito all’applicabilità della sanzione di cui al comma 4-bis dell’art. 31 anche con riguardo:
a) alle fattispecie previste dal comma 5 dello stesso art. 31;
b) alla fattispecie di cui all'art. 4 della legge regionale 31.05.1994, n. 17.
L’Assessorato ha, poi, osservato che la medesima sanzione non sarebbe invece applicabile al caso degli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, di cui all’art. 34 del Testo unico (ferma restando però l'imputazione a carico del responsabile dell'abuso delle spese di demolizione e di inottemperanza all'ordinanza).
Sovvertendo, per esigenze di economia motivazionale, l’ordine delle questioni sollevate dall’Assessorato
può tranquillamente affermarsi che la sanzione non possa trovare applicazione ai casi previsti e disciplinati dall’art. 34 del Testo unico. Sebbene, infatti, anche quest’ultima previsione contempli un’ipotesi di demolizione, nondimeno prevale il principio di tassatività delle sanzioni amministrative, scolpito dall’art. 1, secondo comma, della citata L. n. 689/1981, in base al quale: “Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati.”.
Orbene, non vi è dubbio che, tenuto conto della ratio ispiratrice del nuovo comma 4-bis dell’art. 31 e della sua collocazione topografica,
non possano esistere dubbi di sorta circa la riferibilità della sanzione soltanto all’evenienza di un’inottemperanza, del responsabile dell’abuso, a un’ingiunzione a demolire relativa a illeciti interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
I quesiti di cui sub a) e b) impongono una risposta affermativa nei termini di seguito specificati. Ed invero, oltre a richiamare quanto sopra osservato (v., supra, il §. 4), vale in aggiunta ribadire che
la condotta sanzionata dalla previsione di cui al sunnominato comma 4-bis è di natura omissiva, ossia concerne la mancata demolizione, da parte del responsabile dell’abuso, entro il termine finale fissato dalla legge, delle opere in cui si siano concretati gli illeciti interventi edilizi.
Tale condotta si perfeziona e si colloca –sotto i profili logico, cronologico e giuridico– prima della eventuale demolizione eseguita d’ufficio dal comune (demolizione contemplata dal comma 5 dell’art. 31) e, di norma, anche prima della notificazione all’interessato dello stesso verbale di accertamento dell’inottemperanza, da cui scaturisce l’effetto legale dell’acquisizione delle opere, non demolite spontaneamente, al patrimonio comunale (ipotesi prevista dai commi 2 e 3 del medesimo articolo).
In altri termini, sulla base del combinato disposto dei commi 3, 4, 4-bis e 5 dell’art. 31 del Testo unico e dell’art. 4 della L.R. n. 17/1994, a seguito dell’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire delle opere di cui all’art. 31, comma 1, del Testo unico, si innesca una sequenza procedimentale, a più esiti, i cui snodi possono essere così ricostruiti:
I.) obbligo di applicare la sanzione di cui al comma 4-bis;
II.) acquisizione delle opere e delle aree al patrimonio comunale;
III.) in alternativa a II.), a) demolizione delle opere; b) conservazione delle opere in ragione di prevalenti interessi pubblici; c) ricorrendone i presupposti, concessione del diritto di abitazione degli immobili al responsabile dell’abuso.

   8. – Infine, sebbene la questione non abbia costituito oggetto della richiesta di parere,
questo Consiglio -ritenendo di meglio assolvere in tal modo ai propri compiti istituzionali di organo di consulenza giuridico-amministrativa della Regione siciliana– reputa di dover spendere alcune brevi, considerazioni anche sul tema dell’”autorità competente” a irrogare la sanzione di cui al comma 4-bis.
Ebbene, l’avviso di questo Consiglio è che detta autorità sia da individuarsi, di regola, nel comune. A tale conclusione si perviene sulla base delle seguenti argomentazioni:
- depone nel senso sopra indicato la collocazione della previsione nell’ambito di una disposizione che disciplina l’attività procedimentale dei comuni;
- concorre a siffatto esito interpretativo, in assenza di differenti indicazioni ricavabili dal dato positivo, il principio di concentrazione delle competenze amministrative, che risulterebbe gravemente vulnerato qualora l’attività di repressione degli illeciti edilizi di cui all’art. 31 del Testo unico fosse frammentata tra varie autorità;
- è, infine, coerente con detto approdo esegetico la L. n. 689/1981, laddove il combinato disposto degli artt. 13, primo comma (che recita: “Gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro …“) e dell’art. 17, primo comma (che indica il prefetto quale autorità di competenza residuale nelle sole materie di competenza statale), conduce a ritenere che il potere di irrogare la sanzione si imputi in capo all’ente tenuto al rilascio del permesso di costruire e, comunque, incaricato della potestà di vigilanza sul corretto uso del territorio comunale
(C.G.A.R.S., parere 15.04.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

marzo 2015

EDILIZIA PRIVATA: Sulla struttura -oggetto di istanza di sanatoria- costituita da una grande tettoia con chiusure su più lati, realizzata con componenti metallici che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad un preesistente immobile contiguo, destinato ad autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m. 5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in “zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio dell’attività di autolavaggio”.
La struttura oggetto della domanda di sanatoria in commento è di rilevantissime dimensioni, presenta chiusure per gran parte del perimetro (come ben evincibile dalle foto in atti), ed è destinata a soddisfare non esigenze temporanee o contingenti, bensì prolungate nel tempo (essendo utilizzata per svolgere parte delle operazioni dell’attività di autolavaggio già da tempo esercitata nell’immobile adiacente).
La stessa non presenta alcun intrinseco carattere di struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche, bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi (indipendentemente da quello attuale).
Conseguentemente, la realizzazione di detta struttura non può essere ricondotta all’ambito della manutenzione straordinaria, bensì, comportando una significativa alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova opera da assentire mediante rilascio di permesso di costruire.
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L’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria risulta comunque superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990, in quanto, posto che la valutazione sulla conformità urbanistica a sanatoria dell’effettuato intervento è di tipo vincolato e non discrezionale, nella specie risulta palese che, anche se il detto onere procedimentale fosse stato assolto, il contenuto del provvedimento conclusivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
- del provvedimento prot. n. 12862 del 29/10/2008 – rif. Pratica n. 53/2008, con cui il responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Capodrise ha respinto l’istanza presentata dai ricorrenti in data 25.06.2008 – prot. n. 7847, al fine di conseguire il rilascio del permesso di costruire in sanatoria per una tettoia annessa ad opificio artigianale preesistente, ubicato in zona omogenea “B” – residenziale;
- di ogni altro atto ad esso preordinato, consequenziale o connesso.
...
M.A.E. e P.M. impugnano con il presente ricorso, articolato su due motivi, il provvedimento del Comune di Capodrise, con il quale il responsabile dell’Ufficio Tecnico, in “riferimento alla domanda presentata…in data 25.06.2008 prot. n. 7847 con la quale si richiedeva il permesso a costruire in conformità al testo unico dell’edilizia D.P.R. n. 380 del 06.06.2001 e successive modifiche ed integrazioni” ha espresso “diniego all’accoglimento della richiesta” con la seguente motivazione: “Trattasi di richiesta di permesso di costruire in sanatoria richiesto ai sensi dell’art. 36 DPR 380/2001 relativo ad un opificio artigianale in zona omogenea di tipo <B>, residenziale. In tale zona omogenea l’edificazione risulta regolata dalla vigente strumentazione urbanistica che non consente la realizzazione di capannoni ad uso deposito o opifici artigianali”.
Dalla prodotta copia della relazione tecnica allegata alla domanda ex art. 36 DPR 380/2001 (nonché dalle fotografie nella stessa presenti), emerge che la struttura oggetto di istanza di sanatoria è costituita da una grande tettoia con chiusure su più lati, realizzata con componenti metallici che si assumono “smontabili” poiché “modulari” (pilastri e strutture di sostegno in acciaio;copertura in lamierati a sandwich), ed avente una funzione servente (per svolgervi attività di asciugatura e pulizia dei veicoli) rispetto ad un preesistente immobile contiguo, destinato ad autolavaggio.
La struttura in questione risulta suddivisa in due parti di uguale ampiezza, ovvero “lunghezza m. 16,55; profondità m. 5,60; h anteriore m. 4,60; h posteriore m. 5,20”; che lo stesso tecnico di parte ricorrente riconosce ricadenti in “zona ad espansione urbana”, ancorché sostenga trattarsi di una “struttura tecnologica in ausilio all’esercizio dell’attività di autolavaggio”.
Ciò chiarito, può passarsi ad esaminare il secondo dei motivi di ricorso articolati (con il quale sono dedotte censure di tipo sostanziale), il quale è infondato e va disatteso sulle seguenti considerazioni:
- che la struttura oggetto della domanda di sanatoria in commento è di rilevantissime dimensioni, presenta chiusure per gran parte del perimetro (come ben evincibile dalle foto in atti), ed è destinata a soddisfare non esigenze temporanee o contingenti, bensì prolungate nel tempo (essendo utilizzata per svolgere parte delle operazioni dell’attività di autolavaggio già da tempo esercitata nell’immobile adiacente);
- che la stessa non presenta alcun intrinseco carattere di struttura tecnologica, non avendo peculiarità tecniche, bensì trattandosi soltanto di un’ampia superficie coperta e parzialmente chiusa, suscettibile di svariati usi (indipendentemente da quello attuale);
- che, conseguentemente, la realizzazione di detta struttura non può essere ricondotta all’ambito della manutenzione straordinaria, bensì, comportando una significativa alterazione dell’assetto del territorio, ha natura di nuova opera da assentire mediante rilascio di permesso di costruire (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 3939 del 19.07.2013; TAR Liguria n. 876 del 05.06.2014; TAR Campania-Napoli n. 142 del 10.01.2014; TAR Campania-Napoli n. 5853 del 18.12.2013; TAR Piemonte n. 1050 del 09.10.2013; TAR Campania-Napoli n. 4254 del 12.09.2013; TAR Campania-Salerno n. 1376 del 21.06.2013; TAR Campania-Napoli n. 2924 del 05.06.2013);
- che la descritta tipologia di struttura, nonché la sua destinazione ad attività artigianale, risultano in contrasto con le prescrizioni urbanistico-edilizie di zona del vigente PRG, ricadendo l’intervento in zona omogenea “B” residenziale (ovvero in “zona ad espansione urbana”, come con dicitura più generica affermato nella relazione tecnica allegata all’istanza di sanatoria);
- che la presenza e vigenza di un PRG nel Comune di Capodrise esclude l’applicabilità nel relativo territorio della normativa richiamata dai ricorrenti (segnatamente il punto 1.6 delle “Direttive – Parametri di pianificazione” della L. Reg. Campania n. 14 del 20.03.1982 in tema di localizzazione di “impianti produttivi”, trattandosi nella specie di linee guida date agli enti locali per l’esercizio delle loro competenze in materia urbanistica);
- che l’evidenziato contrasto con quanto previsto in PRG neppure è superabile valutando la struttura in questione come collegata ad una preesistente attività, essendo essa comunque soggetta alle disposizioni in materia di nuove opere;
- che la sussistenza del contrasto dell’effettuata edificazione con le previsioni di PRG è sufficiente a giustificare il diniego, per cui risulta non necessario approfondire in questa sede l’ulteriore profilo riguardante l’affermata carenza documentale della pratica di sanatoria.
Quanto, poi, al primo motivo di ricorso, basato su di una censura di carattere prettamente formale, osserva il Collegio che l’omissione della previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di sanatoria risulta comunque superabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990, in quanto, posto che la valutazione sulla conformità urbanistica a sanatoria dell’effettuato intervento è di tipo vincolato e non discrezionale, nella specie risulta palese che, anche se il detto onere procedimentale fosse stato assolto, il contenuto del provvedimento conclusivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Pertanto, il proposto ricorso va, in definitiva, in toto respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.03.2015 n. 1870 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn capo alla P.A. vige l’obbligo di reprimere, in qualsiasi momento, l’esecuzione di opere abusive, eseguite senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, corrispondendo alle stesse, sul piano urbanistico-edilizio, un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere nei confronti del proprietario, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa nei confronti degli esecutori materiali delle opere abusive, sulla base dei rapporti interni intercorsi.
Inoltre, sia l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime, sia le sanzioni pecuniarie, previste in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, possono lasciare indenne il proprietario, che sia rimasto estraneo all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo e che non abbia la disponibilità delle stesse, ferma restando, tuttavia, una presunzione di corresponsabilità a carico del medesimo.
Il proprietario, infatti, nel rispetto dei doveri di diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui abbia la titolarità, è tenuto ad adoperarsi, con i mezzi previsti dall’ordinamento, per impedire la realizzazione di abusi edilizi, o per agevolarne la rimozione, soprattutto dopo essere stato preavvertito, dell’avvio del procedimento sanzionatorio.

I principi generali da applicare alla vicenda controversa, in ogni caso, possono essere rinvenuti nell’art. 31, commi 2, 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e nell’art. 15, commi 1 e 3 della legge della Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia), che per quanto qui interessa hanno carattere di lex specialis rispetto all’art. 6 della legge 24.11.1981, n. 689 (modifiche al sistema penale).
Le citate norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non all’”autore”, ma al “responsabile” dell’abuso, quest’ultimo inteso come esecutore materiale, ma anche come proprietario o come soggetto che abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.
Sia la norma statale che quella regionale, infatti, indicano espressamente come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa, sia il proprietario che il responsabile: la prima, imponendo testualmente detta sanzione “al proprietario e al responsabile dell’abuso”; la seconda, disponendo la notifica dell’ingiunzione “al responsabile dell’abuso nonché al proprietario, ove non coincidente con il primo”; le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati.
Quanto sopra risulta giustificato dall’obbligo per l’Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l’esecuzione di opere senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio (non anche della responsabilità penale) corrisponde un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere appunto nei confronti dei soggetti in precedenza indicati, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, nei confronti degli esecutori materiali delle opere (ove diversi), sulla base dei rapporti interni intercorsi (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 08.06.1994, n. 614 e Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.07.1992, n. 229).
Per pacifica giurisprudenza, inoltre, sia l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime, sia le sanzioni pecuniarie, previste in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, possono lasciare indenne il proprietario, che sia rimasto estraneo all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo –e che non abbia la disponibilità delle stesse– ferma restando, tuttavia, una presunzione di corresponsabilità a carico del medesimo. Detto proprietario infatti –nel rispetto dei doveri di diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui abbia la titolarità– è tenuto ad adoperarsi, con i mezzi previsti dall’ordinamento, per impedire la realizzazione di abusi edilizi, o per agevolarne la rimozione, soprattutto dopo essere stato preavvertito, come nel caso di specie, dell’avvio del procedimento sanzionatorio (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. V, 11.07.2014, n. 3565; Cons. St., sez. VI, 22.04.2014, n. 2027 e 04.07.2014, n. 3409).
Tale presunzione di corresponsabilità trova fondamento nell’art. 3 della citata legge n. 689 del 1981, in base al quale “nelle violazioni, in cui è applicabile una sanzione amministrativa, ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, da intendere come presunzione iuris tantum, a cui si connette l’onere della dimostrazione di avere agito senza colpa per qualunque soggetto che, in base alla legge, possa ritenersi responsabile, anche per mera omissione di controllo (cfr. in tal senso Cons. St., sez. VI, 29.03.2011, n. 1897, 19.04.2011, n. 2422, 21.06.2011, n. 3719 e 30.06.2011, n. 3895; Cons. St., sez. IV, 02.03.2012, n. 1203).
Le finalità di interesse pubblico di tutela del territorio, in altre parole, impongono al proprietario di beni immobiliari sia di non dare luogo a illegittime trasformazioni del territorio stesso, sia di attivarsi –ricorrendone i presupposti– per il ripristino della legalità violata: sull’Amministrazione, pertanto, grava soltanto l’onere di individuare sia i proprietari del bene, sia (ove non coincidenti con i primi) gli altri soggetti da ritenere responsabili (in quanto esecutori materiali dell’abuso o titolari di altri diritti per la detenzione dell’immobile interessato), con rituale comunicazione ai medesimi dell’avvio del procedimento sanzionatorio.
Ciascuno dei soggetti coinvolti deve avere, poi, la possibilità non solo di dissociarsi dalla condotta illecita, ma anche di collaborare con l’Amministrazione, nei limiti consentiti dalla situazione di fatto e di diritto esistente, per agevolare la rimessa in pristino stato dei luoghi, solo in tal caso potendosi escludere ogni ipotesi di responsabilità nei confronti dell’Amministrazione stessa (fermi restando, in ogni caso, i già ricordati diritti di rivalsa, esercitabili nei rapporti interni).
In base alle argomentazioni svolte, i motivi di gravame prospettati non possono che ritenersi privi di fondamento.
Il primo, poiché riferito alla ricordata legge regionale n. 15 del 2008, che non può non trovare lettura conforme ai principi in precedenza indicati, tenuto conto, peraltro, della consistenza delle opere abusive: un capannone in pannelli di lamiera di m. 16.50 x 7, con altezza variabile da m. 3.30 a m. 3.60, adibito ad officina e due baracche in lamiera utilizzate come magazzini, difficilmente realizzabili a totale insaputa della proprietà, in ogni caso investita degli obblighi di vigilanza in precedenza indicati, anche in presenza di un soggetto titolare di usufrutto (non certo abilitato ad effettuare, contro la volontà dei proprietari, la rilevante trasformazione dei luoghi sopra descritta).
Non è contestato d’altra parte (con gli effetti, di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.) che gli appellanti non abbiano posto in essere alcun intervento –nei limiti consentiti dall’ordinamento– per indurre o agevolare la rimessa in pristino stato dei luoghi, anche dopo essere stati destinatari di comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio.
Il secondo motivo di gravame, a sua volta, deve ritenersi infondato in quanto riferito ad una norma della legge n. 689 (art. 6), rispetto alla quale –come già in precedenza esposto– costituiscono lex specialis, in materia di abusi edilizi, l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e l’art. 15 della stessa legge regionale n. 15 del 2008, riferiti specificamente ai proprietari di immobili, interessati da opere abusive e non alle sanzioni amministrative in genere.
Il terzo ordine di censure, infine, non appare condivisibile, in quanto postula incostituzionalità della citata legge regionale, per avere imposto una sanzione pecuniaria, non ancora prevista dalla legge statale (che tale sanzione prevede ora nell’art. 31, comma 4-bis, nel testo introdotto con d.l. n. 133 del 12.09.2014).
Anche prima dell’introduzione della norma da ultimo citata, deve comunque ritenersi che la Regione potesse –nel rispetto del principio di legalità, di cui all’art. 1 della citata legge n. 689 del 1981– imporre la sanzione di cui trattasi con norma di rango primario, come nella fattispecie avvenuto, rientrando il governo del territorio, a norma dell’art. 117 della Costituzione, fra le materie oggetto di legislazione concorrente, per le quali spetta alle Regioni la potestà legislativa, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale (principi, questi ultimi, che possono essere ricondotti al già citato art. 3 della medesima legge n. 689) (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.03.2015 n. 1650 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine del calcolo della sanzione di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 - ora art. 34 DPR 380/2001 (pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n. 392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione), allorché la difformità si traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è logico e congruo che il Comune ricorra all’applicazione analogica del criterio di stima previsto della legge 28.02.1985, n. 47, relativamente al condono edilizio, che nel caso di aumenti di volume non corrispondenti ad aumenti di superficie, applica gli importi previsti sulla superficie virtuale ottenuta dividendo la cubatura per 5 e moltiplicandola per 3, sottolineando inoltre il vantaggio dato da tale criterio, che consente una gradualità di tipo lineare a seconda della quantità di volumetria abusivamente realizzata, espressiva comunque di un aumento di valore dell’immobile, e deve conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume abusivamente realizzato con l’aumento di altezza.
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Altrettanto logico e congruo è che il Comune calcoli il dato mancante di superficie attraverso la divisione del volume accertato per l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici residenziali aventi caratteristiche analoghe.

Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano il difetto di motivazione e l’illegittimità dell’applicazione della sanzione ragguagliata alla superficie virtuale, dato che si tratta di una violazione che ha comportato un aumento di volumetria senza aumento di superficie.
Le censure devono essere respinte.
Come sopra precisato, al provvedimento impugnato è allegata una nota nella quale viene dato conto dell’approfondita disamina svolta in merito alla problematica, e all’inaccettabilità della pretesa del ricorrente di lasciare senza sanzioni, dal punto di vista edilizio, un intervento abusivo che abbia comportato la violazione delle altezze e delle volumetrie assentibili rispetto ad un edificio sito in centro storico, ove si debba accedere ad un’interpretazione meramente letterale alla disposizione di cui all’art. 93, comma 1, della legge regionale 27.06.1985, n. 61.
Tale norma infatti, ai fini di quantificare la sanzione applicabile alle fattispecie nelle quali non può disporsi la demolizione senza pregiudizio per le parti conformi, fa riferimento al doppio del costo di produzione della parte realizzata in difformità, determinato ai sensi della L. 27.07.1978, n. 392, e la norma da ultimo richiamata, facendo riferimento alla superficie dell’edificio, secondo il suo tenore letterale sarebbe inapplicabile alle fattispecie di aumento di volume senza aumento di superficie.
Esclusa la percorribilità dell’ipotesi di lasciare l’abuso senza sanzione, il Comune accantona, perché sostanzialmente ingiusta e priva di proporzionalità, anche l’altra soluzione interpretativa astrattamente prospettabile, in base alla quale la sanzione dovrebbe essere parametrata a tutta la superficie del piano, dato che nel caso di specie l’abuso non ha comportato la realizzazione di nuove superfici.
Per risolvere il problema posto dalla norma che fa riferimento alle superfici, il Comune ricorre allora all’applicazione analogica del criterio di stima previsto della legge 28.02.1985, n. 47 (cfr. la prima nota alla tabella allegata alla legge), relativamente al condono edilizio, che nel caso di aumenti di volume non corrispondenti ad aumenti di superficie, applica gli importi previsti sulla superficie virtuale ottenuta dividendo la cubatura per 5 e moltiplicandola per 3, sottolineando inoltre il vantaggio dato da tale criterio, che consente una gradualità di tipo lineare a seconda della quantità di volumetria abusivamente realizzata, espressiva comunque di un aumento di valore dell’immobile.
Orbene, il Collegio ritiene che la metodologia applicata con il ricorso all’analogia al fine di stimare in termini di superficie la violazione, sia corretta e conforme agli orientamenti giurisprudenziali emersi sul punto, atteso che, come è stato affermato “al fine del calcolo della sanzione di cui all'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla l. n. 392 del 1978, della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione), allorché la difformità si traduca in un esubero di volumetria anziché di superficie, è logico e congruo che il Comune calcoli il dato mancante di superficie attraverso la divisione del volume accertato per l'altezza, individuata nel valore virtuale fissato dalle Nta del Prg per il calcolo degli indici urbanistici per edifici residenziali aventi caratteristiche analoghe” (cfr. Tar Lombardia, Milano, 08.10.2004, n. 5504) e deve conseguentemente ritenersi preferibile “un criterio di proporzionalità, nel rispetto del quale la superficie convenzionale si desume linearmente dal rapporto fra volume abusivamente realizzato con l’aumento di altezza” (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 22.04.2010, n. 2778) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.03.2015 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”; “fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”; il che comporta che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica”.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
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Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già evidenziate emergenze un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione.

3. Sotto il profilo ambientale, trattandosi di opere realizzate in area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 12.09.1957, la Sezione ha anche recentemente osservato (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n. 1122 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”; “fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”; il che comporta che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica”.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica. Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
4. Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già evidenziate emergenze un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vincolatezza del provvedimento di demolizione opera abusiva comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”.
E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa"

5. Quanto alla dedotta carenza di motivazione sul preteso affidamento in rapporto alla risalenza dell’opera, come si è affermato in numerosissime occasioni, la vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013 cit., n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012).
E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa" (cfr. la giurisprudenza della Sezione fin qui riportata e, cfr. anche, per il principio generale, Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 06.03.2012, n. 1260) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione ex art. 27 d.P.R. 380/2001 di immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova, infatti, applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990.
6. Neppure è fondata la censura relativa all’omessa comunicazione di avvio del procedimento. Infatti, l’ordine di demolizione ex art. 27 d.P.R. 380/2001 di immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova, infatti, applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 (in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del Comune di ordinarne la demolizione".
L’affermazione dei divisati postulati, infatti, non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326).
Procedura che deve essere seguita rigidamente anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che al fine di evitare postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza per cui, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza –resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate.
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.”.
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Le opere oggetto della sanzione della demolizione ricadono in zona vincolata, segnatamente trattandosi di opere realizzate su area dichiarata di notevole interesse pubblico.
Va allora osservato, trattandosi peraltro di arresti giurisprudenziali consolidati nell’orientamento della Sezione che:
- le opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico sono soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, il che comporta che, quand’anche si ritenessero le opere realizzate senza titolo pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera d.i.a., l’applicazione della sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica;
- la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
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In tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
Da quanto precede deriva che l’applicazione della sanzione demolitoria era doverosa anche per come disposto dall’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Quanto, poi, alla sussistenza, ai sensi dell’art. 33 del citato d.P.R. (concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità) di un obbligo per il Comune di verificare la possibilità tecnica del ripristino prima dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, obbligo del cui adempimento l’ente avrebbe dovuto, a detta di parte ricorrente, dare conto nel testo della motivazione (cfr. terzo motivo), si osserva in prima battuta, che, giusta quanto già sopra evidenziato, la fattispecie qui in rilievo va sussunta sotto il combinato disposto degli articolo 31 e 32 del d.p.r. 380/2001 (ovvero dell’articolo 27 del medesimo provvedimento normativo). Di poi, è necessario soggiungere che la norma invocata individua, comunque, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma della gravità dell’abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria.
Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell’ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino.
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Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato”.
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Infine, per quanto concerne la mancata indicazione nell’ordinanza impugnata dell’area di sedime da acquisire in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione da parte della ricorrente, si osserva che, come ripetutamente affermato dalla sezione, fermo che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce, ex art. 31, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione e non abbisogna di previe specificazioni, necessarie solo per l’individuazione della ulteriore (“nonché”) area “necessaria alla realizzazione di opere analoghe…”, di cui alla restante parte della previsione, l’individuazione di quest’ultima ben può essere operata “con un successivo e separato atto”.

Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
Va, preliminarmente, ricordato il costante orientamento della Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, ord. n. 2182 del 18.05.2011), dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, secondo cui “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del Comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania, Napoli, questa VI Sez., ex multis, sentenze n. 1913 del 02.04.2014; 2910 del 05.06.2013, n. 2006 del 02.05.2012, n. 2624 del 11.05.2011, n. 1218 del 25.02.2011, n. 26788 del 03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi, Cass. Penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070). Per ovviare alla inerzia dei Comuni nel definire risalenti istanze di condono, esistono rapidi e agili strumenti di tutela.
L’affermazione dei divisati postulati, infatti, non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326). Procedura che deve essere seguita rigidamente anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che al fine di evitare postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza per cui, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza –resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate (cfr. la giurisprudenza della Sezione, già sopra riportata).
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.” (cfr. ex multis Tar Campania, Napoli, VI sezione, 20/03/2014 n. 1606; 29.10.2013 n. 4817, VII sezione 14.01.2011, n. 160).
Deve ritenersi, quindi, che l’operato dell’amministrazione si appalesa legittimo tenuto conto che alcuna procedura ex art. 35 della legge 47/1985 risulta attivata.
In disparte quanto fin qui evidenziato, di per se stesso assorbente, deve rilevarsi che le restanti censure formulate in ricorso devono essere respinte anche sotto un distinto profilo.
Va, infatti, evidenziato che le opere oggetto della sanzione della demolizione ricadono in zona vincolata, segnatamente trattandosi di opere realizzate su area dichiarata di notevole interesse pubblico.
Va allora osservato, trattandosi peraltro di arresti giurisprudenziali consolidati nell’orientamento della Sezione (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n. 1122 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che:
- le opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico sono soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, il che comporta che, quand’anche si ritenessero le opere realizzate senza titolo pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera d.i.a., l’applicazione della sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica;
- la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
Tutto quanto innanzi considerato consente di ritenere la legittimità dell’avversata ordinanza quanto alla stessa qualificazione di abusività delle opere nella stessa elencate.
Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania-Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
Da quanto precede deriva che l’applicazione della sanzione demolitoria era doverosa anche per come disposto dall’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Quanto, poi, alla sussistenza, ai sensi dell’art. 33 del citato d.P.R. (concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità) di un obbligo per il Comune di verificare la possibilità tecnica del ripristino prima dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, obbligo del cui adempimento l’ente avrebbe dovuto, a detta di parte ricorrente, dare conto nel testo della motivazione (cfr. terzo motivo), si osserva in prima battuta, che, giusta quanto già sopra evidenziato, la fattispecie qui in rilievo va sussunta sotto il combinato disposto degli articolo 31 e 32 del d.p.r. 380/2001 (ovvero dell’articolo 27 del medesimo provvedimento normativo). Di poi, è necessario soggiungere che la norma invocata individua, comunque, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma della gravità dell’abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria.
Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell’ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino (cfr., ex multis, in relazione all’art. 33, TAR Campania-Napoli, sez. IV, 12.12.2012, n. 5108 e, in relazione all’art. 34, TAR Campania, Napoli, sez. VII. 07.06.2012, n. 2712).
Da quanto precede deriva che la sanzione demolitoria, in considerazione della visibile alterazione del paesaggio, era doverosa.
Deve essere respinto anche il motivo con il quale parte ricorrente lamenta l’omessa valutazione del danno ambientale e della possibilità di applicare in via alternativa alla demolizione l’indennità prevista dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Come già evidenziato dalla Sezione, l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, n. 5805 del 14.12.2011, n. 1770 del 07.04.2010; 26.06.2009, n. 3530 e 27.03.2007, n. 2885); il che a dire, con convergenti locuzioni, “che l’astratta attitudine sanante del procedimento ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 si esaurisce nella conversione della misura ripristinatoria in quella pecuniaria limitatamente, però, agli illeciti che compromettono i valori paesistico–ambientali. Di contro, nel caso di specie, l’illecito in contestazione –per effetto della sua intrinseca portata plurioffensiva– è stato elevato nell’ambito di altro settore dell’ordinamento, quello che disciplina l’attività edilizia, governato da disposizioni autonome rispetto a quelle compendiate nel d.lgs. 42/2004” (così Tar Campania, sempre questa sesta sezione, sentenza n. 5401 del 21.10.2014).
Parimenti infondate si rivelano, le ulteriori censure con cui parte ricorrente lamenta l’inadeguatezza dell’istruttoria condotta e l’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto impugnato anche con riguardo alla valutazione della sanabilità dell’abuso.
Vale, infatti, ribadire che la realizzazione delle opere in questione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
Non può condividersi, quindi, neanche la censura formulata dal ricorrente mediante la quale si sostiene l’illegittimità del provvedimento gravato per non avere il Comune valutato la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007 , n. 6552).
Infine, per quanto concerne la mancata indicazione nell’ordinanza impugnata dell’area di sedime da acquisire in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione da parte della ricorrente, si osserva che, come ripetutamente affermato dalla sezione (cfr. tra le tante, sentenze n. 3492 del 04.07.2013, n. 6141 del 18.05.2011), fermo che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce, ex art. 31, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione e non abbisogna di previe specificazioni, necessarie solo per l’individuazione della ulteriore (“nonché”) area “necessaria alla realizzazione di opere analoghe…”, di cui alla restante parte della previsione, l’individuazione di quest’ultima ben può essere operata “con un successivo e separato atto” (Tar Campania, questa sesta sezione, 16.06.2011, n. 3194, 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di condono edilizio, il parere dell'ente proprietario della strada (fascia di rispetto stradale) deve far riferimento al "centro abitato" al momento in cui si svolge l'istruttoria dell'istanza e non alla data di esecuzione dell'abuso.
La valutazione richiesta dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985 all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o meno di un centro abitato conglobante l’immobile interessato, deve necessariamente avere attinenza alle concrete ed effettive coordinate di spazio e di tempo in cui tale immobile è calato: per tali intendendosi le reali condizioni dei luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole, essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di fatto del contesto del quale il manufatto fa parte, esistenti al momento in cui si svolge il relativo procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a dire alla sicurezza del traffico, è finalizzata la qualificazione normativa delle norme sulla circolazione stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959, n. 393 per cui è centro abitato un insieme continuo di edifici, strade ed aree delimitato, lungo le vie di accesso, da apposito segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs. 30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato s’identifica in un agglomerato di almeno venticinque edifici, sebbene intervallati da strade, giardini od altro, che spetta alla Giunta comunale individuare e delimitare.
Queste definizioni –per quanto qui occupa- possono invero essere di ausilio per quanto concerne la caratterizzazione di un centro abitato dal punto di vista materiale, non anche per quanto concerne la sua identificazione formale (cartello, individuazione ad opera della Giunta comunale).

I) I signori F.A.C. e P.T., eredi del signor L.T., chiedono la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso proposto dal de cuius avverso il parere negativo espresso dall’Anas con nota del 06.04.2005 sull’istanza di sanatoria edilizia straordinaria (c.d. condono) presentata in data 03.12.1986 ai sensi della legge 28.02.1985, n. 47 di un manufatto costruito abusivamente nel 1970, posto, secondo il Tribunale amministrativo, a distanza di 23 metri dal ciglio del Grande Raccordo Anulare.
Per ottenere l’esame della domanda da parte del Comune il ricorrente in data 16 settembre ha chiesto all’Anas, ente preposto alla tutela del vincolo stradale, il preliminare parere ex art. 32, quarto comma, lett. c), della suddetta legge n. 47 del 1985.
Con la nota oggetto del ricorso di primo grado l’Anas ha espresso parere negativo alla sanatoria, in quanto l’opera è stata realizzata posteriormente al 13.04.1968 a distanza non conforme a quanto stabilito dal decreto ministeriale 01.04.1968.
La sentenza ha rilevato che l’area su cui insiste la costruzione risulta gravata dal vincolo di rispetto della viabilità principale dell’autostrada Grande Raccordo Anulare ed è successiva all’imposizione del relativo vincolo di inedificabilità. Pertanto essa non è suscettibile di sanatoria, dato che l’art. 32, quarto comma, lettera c), della legge n. 47 del 1985 la consente solo per le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione […] sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
II) Ha ricordato il primo giudice che la legge 21.05.1955, n. 463, di approvazione del Piano autostradale nazionale, ha previsto che i tracciati delle quattro autostrade che interessano il territorio della città di Roma coincidano con l’inizio e con il termine del Grande Raccordo Anulare, per evitare al traffico autostradale l'attraversamento del centro cittadino. La legge 24.07.1961, n. 729, all’art. 13 ha autorizzato e finanziato la realizzazione dei raccordi autostradali, prevedendone la trasformazione in autostrade, poi effettuata per il Grande Raccordo Anulare con decreto del ministro dei lavori pubblici. Infine, nel 1962 è stato eseguito il primo raddoppio di carreggiata nel tratto interessato.
Pertanto legittimamente l’Anas ha escluso la sanabilità del manufatto, realizzato su un’area già gravata da vincolo di inedificabilità, e non assumono valore contrario né l’esistenza di altre costruzioni asseritamente autorizzate, né l’inapplicabilità, in ragione della collocazione dell’immobile, del decreto ministeriale 01.04.1968, richiamato nel provvedimento impugnato. A quest’ultimo riguardo la sentenza ha ritenuto non sufficiente la presenza di un certo numero di edifici nell’area in questione per ritenere l’esistenza di un centro abitato, e irrilevante la più recente classificazione dovuta all’evoluzione dell’area negli anni successivi.
III) La sentenza non può, sul punto appena evidenziato, essere condivisa.
Giova premettere che il decreto ministeriale 01.04.1968 (Distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19 della legge 06.08.1967, n. 765), evocato dalla nota impugnata a preclusione della sanatoria, prevede per le autostrade di qualunque tipo (legge 07.02.1961, n. 59, art. 4) e per i raccordi autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di accesso fra le autostrade e la rete viaria della zona la distanza minima di sessanta metri da osservarsi nella edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale (artt. 3 e 4: distanza che comunque non risulterebbe rispettata neppure tenendo per provata quella, pari a quaranta metri, di cui alla perizia depositata in causa dagli appellanti).
Tale distanza, peraltro, deve essere osservata al di fuori del perimetro dei centri abitati, come testualmente precisano sia il decreto citato, sia l’art. 41-septies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall’articolo 19 della legge 06.08.1967, n. 765, alla quale il citato decreto ha dato attuazione.
La risposta all’istanza di condono richiesto dal ricorrente sconta, pertanto, la collocazione del manufatto (pacificamente realizzato, come si è detto, dopo l’imposizione del vincolo autostradale e a distanza inferiore a quella prescritta) all’interno del centro abitato. Una tale effettiva collocazione conduce ad una risposta positiva, essendo all’esterno operante la preclusione per vincolo di inedificabilità imposto dal citato decreto.
Il Collegio ritiene fondate le censure rivolte, sul punto, avverso la sentenza impugnata dall’appellante.
IV) Deve, infatti, essere considerato che la valutazione richiesta dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985 all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, essendo relativa al dato concreto dell’esistenza o meno di un centro abitato conglobante l’immobile interessato, deve necessariamente avere attinenza alle concrete ed effettive coordinate di spazio e di tempo in cui tale immobile è calato: per tali intendendosi le reali condizioni dei luoghi.
La valutazione dell’Amministrazione deve, in altre parole, essere condotta alla stregua delle specifiche condizioni di fatto del contesto del quale il manufatto fa parte, esistenti al momento in cui si svolge il relativo procedimento. È a tale condizione materiale, invero, che risponde l’interesse curato dalla disposizione, che è quello alla sicurezza permanente degli abitati.
Ad altro, vale a dire alla sicurezza del traffico, è finalizzata la qualificazione normativa delle norme sulla circolazione stradale: ieri dell’art. 2 d.P.R. 15.06.1959, n. 393 per cui è centro abitato un insieme continuo di edifici, strade ed aree delimitato, lungo le vie di accesso, da apposito segnale; e poi, dell’art. 3, comma 8, e 4 d.lgs. 30.04.1992, n. 285, per il quale il centro abitato s’identifica in un agglomerato di almeno venticinque edifici, sebbene intervallati da strade, giardini od altro, che spetta alla Giunta comunale individuare e delimitare. Queste definizioni –per quanto qui occupa- possono invero essere di ausilio per quanto concerne la caratterizzazione di un centro abitato dal punto di vista materiale, non anche per quanto concerne la sua identificazione formale (cartello, individuazione ad opera della Giunta comunale).
Nella fattispecie in esame il certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune di Roma il 21.01.2015, depositato in atti, attesta comunque che la costruzione di cui trattasi è attualmente inserita nel tessuto urbanistico ed edilizio all’interno del piano particolareggiato 13/F “La Rustica”, approvato con deliberazione della Giunta regionale del Lazio in data 13.11.1984, con tessuto prevalentemente residenziale secondo il Piano regolatore generale approvato il 12.02.2008.
Una tale essenziale caratteristica del luogo, non solo ormai nella sua realtà profondamente mutato rispetto al tempo della realizzazione del manufatto, ma anche assoggettato a una tale qualificazione formale, avrebbe dovuto essere considerata dall’Anas. Questa invece, prescindendo da una siffatta indagine, si è attestata sulla mera collocazione formale dell’area al tempo dell’intervento, allora esterna al qualificato centro abitato.
Ne deriva l’illegittimità del parere impugnato, che esclude l’ulteriore sviluppo del procedimento, dato che la regola di cui l’Anas ha fatto applicazione non è coerente con la concreta e attuale caratteristica dell’area, ora, come si è detto, anche formalmente inglobata dal centro abitato e fronteggiata da altre costruzioni limitrofe al bordo del Grande Raccordo Anulare.
Quanto al prosieguo del procedimento di condono qui in questione, resta integro il potere dell’Anas, in sede di rinnovo del parere prescritto dall’art. 32, 4° comma, lett. c), della legge n. 47 del 1985, di valutare la compatibilità dell’immobile con le esigenze di sicurezza del traffico.
È poi il caso di evidenziare, per la certezza dei rapporti, che ai fini dell’eventuale sanatoria edilizia ordinaria le considerazioni precluse all’Anas (in quanto attinenti al vincolo di cui è custode) potranno trovare espressione da parte del Comune, la cui valutazione prettamente edilizia non potrà prescindere dall’esaminare la cosiddetta doppia conformità dell’opera abusivamente realizzata, in rispetto alla regola introdotta dall’art. 13, primo comma, della legge n. 47 del 1985, oggi art. 36, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
V) In conclusione l’appello è fondato e deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza di primo grado e annullamento del provvedimento oggetto del ricorso, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di permesso a costruire in sanatoria per demolizione e ricostruzione con ampliamento in zona vincolata. Invio parere (Regione Abruzzo, nota 20.03.2015 n. 73745 prot.).
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Si riscontra la richiesta di parere con cui codesto Comune chiede di conoscere l'orientamento dello scrivente in merito alla possibilità di applicare la disciplina della sanatoria edilizia ex art. 36 del DPR 380/2001, quando sia definitivamente decorso il termine di 90 giorni ivi previsto, di seguito all'emanazione dell'ordinanza di demolizione, per un manufatto realizzato in assenza di permesso di costruire. (...continua).

EDILIZIA PRIVATASulla corretta individuazione del soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione opera abusiva e sulla verifica se la sanzione ex art. 31 dpr 380/2001 (“se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”) sia applicabile anche nei confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso; nonché sulla verifica, in caso di risposta affermativa, quando il proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo all’abuso.
Si deve verificare, a questo punto, se l’Amministrazione abbia correttamente individuato il soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione dell'opera abusivamente realizzata.
Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione…”.
Come si vede la norma è chiara nello stabilire che l’ordine di demolizione va rivolto anche nei confronti del proprietario.
Peraltro, la mancata individuazione del responsabile materiale non può portare ad escludere che l’ordine vada comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi, anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto dispositivo è la demolizione di un bene su cui egli vanta il proprio diritto. Si vedrà difatti nel prosieguo che il proprietario, anche se estraneo all’abuso, deve comunque eseguire o subire la demolizione del bene.
Non è poi condivisibile l’argomentazione di parte ricorrente che ritiene che il provvedimento sarebbe dovuto essere rivolto contro il Parco Lombardo del Ticino. Queste Ente, infatti, non vanta alcun diritto dominicale sull’area in questione; né può ritenersi che ad esso possa essere attribuita qualche responsabilità in ordine all’abuso edilizio per non aver adeguatamente vigilato, essendo lo stesso Ente deputato esclusivamente a tutelare i valori ambientali del sito e non anche ad impedirne l’illecito utilizzo da parte di terzi.
Il Comune, applicando la norma ed i principi illustrati, ha quindi correttamente rivolto l’ordine di demolizione alla società ricorrente, proprietaria dell’opera abusiva.
Peraltro, la natura vincolata dell’atto impugnato, l’evidente natura abusiva del manufatto e la non contestata titolarità dello stesso in capo alla ricorrente, inducono ad escludere la rilevanza della mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento nonché della mancata comunicazione del preavviso di rigetto, giacché -prescindendo da ogni altra considerazione- è applicabile alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990, in base al quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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L'ordine di demolizione
impugnato, in applicazione del citato art. 31, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, non si limita ad ordinare la demolizione, ma stabilisce anche che, in caso di inottemperanza all’ordine impartito, il Comune provvederà ad acquisire gratuitamente al proprio patrimonio il manufatto abusivo e l’area di sedime sulla quale esso insiste
Stabilisce infatti il terzo comma del citato art. 31, che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”.
Per dare soluzione alla presente controversia il Collegio deve farsi carico di verificare se tale sanzione sia applicabile anche nei confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso; nonché di verificare, in caso di risposta affermativa al primo quesito, quando il proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo all’abuso.
La risposta alla prima domanda è senz’altro negativa. In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con sentenza 15.07.1991, n. 345, riguardante l'art. 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), disposizione abrogata avente contenuto analogo a quello dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, applicabile alla vicenda in esame.
In quella sentenza la Corte ha affermato che la sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio del comune “…si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento…”.
La Corte ha precisato ancora che se il proprietario non è responsabile dell’abuso e non intende eseguire direttamente la demolizione, dovrà essere il comune ad intervenire con i propri mezzi per rimuovere l’opera.
La pronuncia è una sentenza interpretativa di rigetto che, in quanto tale, non vincola il giudice comune. Va però osservato che una interpretazione contraria a quella suggerita dalla Corte dovrebbe portare a ritenere che l’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 sia contrastante con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (in quanto colpisce con la medesima sanzione soggetti che hanno tenuto comportamenti diversi); mentre, come noto, è obbligo primario dell’interprete quello di cercare di dare alla norma un significato conforme alla Costituzione (salva la possibilità di sollevare nuovamente questione di legittimità costituzionale; soluzione che nel caso di specie il Collegio ritiene non necessario percorrere).
Può dunque darsi per assodato che il proprietario estraneo all’abuso non possa essere colpito dalla sanzione in argomento.
Si deve quindi stabilire, a questo punto, quando il proprietario possa considerarsi effettivamente estraneo all’abuso.
In proposito va osservato che la Corte Costituzionale ha stabilito che il proprietario deve considerarsi responsabile non solo quando questi sia l’autore materiale dell’abuso, ma anche quando “…essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”.
Secondo un orientamento rigoroso l’estraneità del proprietario si ha solo al ricorrere congiunto di tre condizioni: a) il proprietario non sia l’autore dell’opera; b) il proprietario non abbia la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione (tipico è il caso di area locata a terzi); c) il proprietario si sia attivato, con i mezzi offerti dall’ordinamento, per impedire l’abuso e per costringere l’autore a rimuoverlo.
In base a questa tesi, la disponibilità del bene e, dunque, la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione renderebbe il proprietario sempre compartecipe dell’abuso; con la conseguenza che questi dovrebbe essere sempre sanzionato con l’acquisizione gratuita dell’area di sedime qualora non ottemperi all’ordine di demolizione. L’opinione muove dalla condivisibile preoccupazione di evitare che l’acquirente dell’opera abusiva, pur approfittando della stessa, si sottragga alla sanzione opponendo la circostanza che autore dell’illecito è il suo dante causa.
Il Collegio deve tuttavia rilevare che la Corte Costituzionale non ha indicato una soluzione tanto rigorosa, affermando solamente che il proprietario va considerato responsabile dell’abuso esclusivamente quando questi ne sia l’autore materiale ovvero quando “….essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”. Peraltro, il caso che ha dato occasione alla pronuncia riguardava proprio una situazione in cui l'abuso era da imputare esclusivamente alla condotta di un terzo detentore del bene che lo aveva perpetrato ad insaputa del proprietario, il quale si trovava nella materiale impossibilità di opporvisi, per essere appunto il bene nella disponibilità giuridica esclusiva del terzo, nella specie il conduttore di un rapporto locativo. Sarebbe stato quindi agevole per la Corte affermare esplicitamente che il proprietario deve considerarsi estraneo solo quando non abbia la possibilità materiale e giuridica di rimuovere l’abuso.
Peraltro, gli inconvenienti cui vuole ovviare la teoria più rigorosa possono essere evitati anche in altro modo. Secondo una condivisibile opinione della giurisprudenza, infatti, l’acquirente del bene succede nella posizione del dante causa in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, ivi compresi quelli che derivano dall’abusiva trasformazione dei suoli.
Ne consegue che, già per questa ragione, lo stesso acquirente non può considerasi estraneo all’abuso realizzato dal suo dante causa (secondo una parte della giurisprudenza, peraltro, l’attuale proprietario potrebbe comunque sottrarsi dalla responsabilità dimostrando che: a) non sia autore dell'abuso; b) l'alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; c) tra la realizzazione dell'abuso, il successivo acquisto e, più ancora, l'esercizio da parte dell'autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio).
Senza contare che se l’attuale proprietario approfitta dell’opera abusiva, diviene anche per questo compartecipe dell’abuso, avente, come noto, natura di illecito permanente.
Per concludere sul punto, si può affermare che la disponibilità materiale e giuridica del bene non costituisce un elemento di per sé decisivo per addossare la responsabilità dell’abuso al proprietario non autore materiale dell’opera. Ciò che occorre invece a tal fine accertare, applicando i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è se il proprietario (non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso), una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, si sia attivato contro responsabile per impedire l’ultimazione dell’opera abusiva e, comunque, per obbligarlo a rimuoverla. Questo comportamento dimostra difatti l’intenzione del proprietario stesso di non voler approfittare dell’attività illecita compiuta da terzi e, dunque, denota la sua estraneità alla stessa.

... per l'annullamento della nota prot. n. 81/duemilaquattordici/Reg. Ord./QS/vr del 03.06.2014, notificata in data 05.06.2014, del Comune di Somma Lombardo, Settore Pianificazione, con la quale si è ordinato “ingiunzione di demolizione di opere abusive e ripristino stato dei luoghi in frazione Case Nuove, mappale 21497 Sezione Censuaria Somma Lombardo” ovvero nello specifico “del manufatto in legno inserito in un piccolo nucleo di piante di – Pino Strobo – comunque facente parte di una vasta zona boschiva, edificato a palafitta ad un’altezza di mt. 2 da terra e avente dimensioni di mt. 4,00 per 3,00";
...
32. Correttamente pertanto il Comune, constatata l’assenza di qualsiasi titolo, ha qualificato l’opera come abusiva.
33. Si deve quindi verificare, a questo punto, se l’Amministrazione abbia correttamente individuato il soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione.
34. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione…”.
35. Come si vede la norma è chiara nello stabilire che l’ordine di demolizione va rivolto anche nei confronti del proprietario.
36. Peraltro, la mancata individuazione del responsabile materiale non può portare ad escludere che l’ordine vada comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi, anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto dispositivo è la demolizione di un bene su cui egli vanta il proprio diritto (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VII, 17.09.2012, n. 1814). Si vedrà difatti nel prosieguo che il proprietario, anche se estraneo all’abuso, deve comunque eseguire o subire la demolizione del bene.
37. Non è poi condivisibile l’argomentazione di parte ricorrente che ritiene che il provvedimento sarebbe dovuto essere rivolto contro il Parco Lombardo del Ticino. Queste Ente, infatti, non vanta alcun diritto dominicale sull’area in questione; né può ritenersi che ad esso possa essere attribuita qualche responsabilità in ordine all’abuso edilizio per non aver adeguatamente vigilato, essendo lo stesso Ente deputato esclusivamente a tutelare i valori ambientali del sito e non anche ad impedirne l’illecito utilizzo da parte di terzi.
38. Il Comune di Somma Lombardo, applicando la norma ed i principi illustrati, ha quindi correttamente rivolto l’ordine di demolizione alla società ricorrente, proprietaria dell’opera abusiva.
39. Peraltro, la natura vincolata dell’atto impugnato, l’evidente natura abusiva del manufatto e la non contestata titolarità dello stesso in capo alla ricorrente, inducono ad escludere la rilevanza della mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento nonché della mancata comunicazione del preavviso di rigetto, giacché -prescindendo da ogni altra considerazione- è applicabile alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990, in base al quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
40. Per la stessa ragione non sono condivisibili le doglianze che lamentano il difetto motivazionale ed il difetto di istruttoria, avendo l’Amministrazione basato la propria decisione sull’indiscutibile presupposto del carattere abusivo dell’opera, ed avendo la stessa dato conto dei presupposti fattuali che l’hanno indotta ad adottare l’atto.
41. A questo punto si deve osservare che il provvedimento impugnato, in applicazione del citato art. 31, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, non si limita ad ordinare la demolizione, ma stabilisce anche che, in caso di inottemperanza all’ordine impartito, il Comune provvederà ad acquisire gratuitamente al proprio patrimonio il manufatto abusivo e l’area di sedime sulla quale esso insiste
42. Stabilisce infatti il terzo comma del citato art. 31, che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”.
43. Per dare soluzione alla presente controversia il Collegio deve farsi carico di verificare se tale sanzione sia applicabile anche nei confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso; nonché di verificare, in caso di risposta affermativa al primo quesito, quando il proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo all’abuso.
44. La risposta alla prima domanda è senz’altro negativa. In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con sentenza 15.07.1991, n. 345, riguardante l'art. 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), disposizione abrogata avente contenuto analogo a quello dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, applicabile alla vicenda in esame.
45. In quella sentenza la Corte ha affermato che la sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio del comune “…si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento…”.
46. La Corte ha precisato ancora che se il proprietario non è responsabile dell’abuso e non intende eseguire direttamente la demolizione, dovrà essere il comune ad intervenire con i propri mezzi per rimuovere l’opera.
47. La pronuncia è una sentenza interpretativa di rigetto che, in quanto tale, non vincola il giudice comune. Va però osservato che una interpretazione contraria a quella suggerita dalla Corte dovrebbe portare a ritenere che l’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 sia contrastante con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (in quanto colpisce con la medesima sanzione soggetti che hanno tenuto comportamenti diversi); mentre, come noto, è obbligo primario dell’interprete quello di cercare di dare alla norma un significato conforme alla Costituzione (salva la possibilità di sollevare nuovamente questione di legittimità costituzionale; soluzione che nel caso di specie il Collegio ritiene non necessario percorrere).
48. Può dunque darsi per assodato che il proprietario estraneo all’abuso non possa essere colpito dalla sanzione in argomento.
49. Si deve quindi stabilire, a questo punto, quando il proprietario possa considerarsi effettivamente estraneo all’abuso.
50. In proposito va osservato che la Corte Costituzionale ha stabilito che il proprietario deve considerarsi responsabile non solo quando questi sia l’autore materiale dell’abuso, ma anche quando “…essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”.
51. Secondo un orientamento rigoroso l’estraneità del proprietario si ha solo al ricorrere congiunto di tre condizioni: a) il proprietario non sia l’autore dell’opera; b) il proprietario non abbia la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione (tipico è il caso di area locata a terzi); c) il proprietario si sia attivato, con i mezzi offerti dall’ordinamento, per impedire l’abuso e per costringere l’autore a rimuoverlo.
52. In base a questa tesi, la disponibilità del bene e, dunque, la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione renderebbe il proprietario sempre compartecipe dell’abuso; con la conseguenza che questi dovrebbe essere sempre sanzionato con l’acquisizione gratuita dell’area di sedime qualora non ottemperi all’ordine di demolizione. L’opinione muove dalla condivisibile preoccupazione di evitare che l’acquirente dell’opera abusiva, pur approfittando della stessa, si sottragga alla sanzione opponendo la circostanza che autore dell’illecito è il suo dante causa.
53. Il Collegio deve tuttavia rilevare che la Corte Costituzionale non ha indicato una soluzione tanto rigorosa, affermando solamente che il proprietario va considerato responsabile dell’abuso esclusivamente quando questi ne sia l’autore materiale ovvero quando “….essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”. Peraltro, il caso che ha dato occasione alla pronuncia riguardava proprio una situazione in cui l'abuso era da imputare esclusivamente alla condotta di un terzo detentore del bene che lo aveva perpetrato ad insaputa del proprietario, il quale si trovava nella materiale impossibilità di opporvisi, per essere appunto il bene nella disponibilità giuridica esclusiva del terzo, nella specie il conduttore di un rapporto locativo. Sarebbe stato quindi agevole per la Corte affermare esplicitamente che il proprietario deve considerarsi estraneo solo quando non abbia la possibilità materiale e giuridica di rimuovere l’abuso.
54. Peraltro, gli inconvenienti cui vuole ovviare la teoria più rigorosa possono essere evitati anche in altro modo. Secondo una condivisibile opinione della giurisprudenza, infatti, l’acquirente del bene succede nella posizione del dante causa in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, ivi compresi quelli che derivano dall’abusiva trasformazione dei suoli (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619; TAR Lombardia Milano, sez. IV, sent. 31.05.2010, n. 1721).
55. Ne consegue che, già per questa ragione, lo stesso acquirente non può considerasi estraneo all’abuso realizzato dal suo dante causa (secondo una parte della giurisprudenza, peraltro, l’attuale proprietario potrebbe comunque sottrarsi dalla responsabilità dimostrando che: a) non sia autore dell'abuso; b) l'alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; c) tra la realizzazione dell'abuso, il successivo acquisto e, più ancora, l'esercizio da parte dell'autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio. Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1016).
56. Senza contare che se l’attuale proprietario approfitta dell’opera abusiva, diviene anche per questo compartecipe dell’abuso, avente, come noto, natura di illecito permanente.
57. Per concludere sul punto, si può affermare che la disponibilità materiale e giuridica del bene non costituisce un elemento di per sé decisivo per addossare la responsabilità dell’abuso al proprietario non autore materiale dell’opera. Ciò che occorre invece a tal fine accertare, applicando i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è se il proprietario (non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso), una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, si sia attivato contro responsabile per impedire l’ultimazione dell’opera abusiva e, comunque, per obbligarlo a rimuoverla. Questo comportamento dimostra difatti l’intenzione del proprietario stesso di non voler approfittare dell’attività illecita compiuta da terzi e, dunque, denota la sua estraneità alla stessa.
58. Applicando questi principi al caso concreto, si deve escludere che la ricorrente possa considerarsi responsabile dell’abuso.
59. Si deve difatti rilevare che il manufatto di cui è causa è stato realizzato da ignoti in un luogo isolato, difficilmente accessibile e molto lontano dall’abitazione del legale rappresentate della società (l’abitazione si trova ad un chilometro di distanza).
60. Inoltre, essendo l’area di cui è causa inserita nel Parco Lombardo del Ticino, non è possibile dotarla di recinzione giusto il divieto in tal senso disposto dall’art. 7 del Piano di Coordinamento del Parco.
61. Il proprietario non era quindi nella condizione di impedire il perpetrarsi dell’illecito; inoltre questi, una volta venutone a conoscenza, si è subito attivato denunciando l’accaduto alle Forze dell’Ordine e chiedendo a queste di scoprire l’identità degli autori al fine di poter agire contro di essi per ottenere la rimozione di un’opera ritenuta dannosa.
62. Si deve pertanto ritenere che, nel caso concreto, ricorrano quelle speciali e straordinarie circostanze che dimostrano l’estraneità del proprietario all’abuso.
63. Per queste ragioni il Comune -fermo il suo potere di intervenire direttamente in caso di mancata ottemperanza all’ordine di demolizione- non può applicare la sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime; ne consegue che il provvedimento impugnato, nella parte in cui prevede l’applicabilità di tale sanzione, è illegittimo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.03.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2015

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 29 (Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività), comma 1, ultima parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che l’autore dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per l'esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi (nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale) andati a vuoto per ragioni comunque imputabili all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in presenza, da parte dell’interessato, di un implicito riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale a configurare questa situazione.
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L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non richiede un’autonoma comunicazione di inizio del procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241.
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso.

2. L’appello è infondato nel merito.
L’art. 29 (Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività), comma 1, ultima parte, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevede che l’autore dell’abuso edilizio sia tenuto alle spese per l'esecuzione in danno in caso di demolizione delle opere realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso.
Qui si controverte se si possa configurare la sussistenza di questo obbligo di legge non già per lo stretto intervento di effettiva demolizione, ma anche per precedenti interventi (nella specie: di appaltatori dell’amministrazione comunale) andati a vuoto per ragioni comunque imputabili all’interessato, come quando si è dichiarato disponibile a effettuare direttamente l’intervento ripristinatorio e così ha dato causa alla interruzione della demolizione medesima.
Il Collegio ritiene che l’obbligo suddetto delle spese per l’esecuzione in danno ben ricomprenda anche le spese per siffatti precedenti interventi non portati a buon fine, pur se diretti alla demolizione. Vi è infatti uno spontaneo accollo di una demolizione in danno, e il fatto che questa non venga poi realizzata non può che ridondare in oggettivo danno dell’inadempiente accollante. Si è del resto in presenza, da parte dell’interessato, di un implicito riconoscimento della imputabilità del loro insuccesso, oltre che della conferma dell’assunzione dell’obbligo.
In sostanza, l’interessata aveva essa stessa chiesto di rinviare la demolizione, impegnandosi ad eseguire spontaneamente la stessa in un prossimo futuro: e tanto vale a configurare questa situazione.
E’ infondato anche il motivo di appello con cui l’appellante deduce la duplicazione di contratti del Comune con i due contraenti, perché il secondo appaltatore Icomes ha provveduto a demolire nell’anno 2011 le opere abusive, mentre l’appaltatore Ati Edil Soccavo era intervenuto nei due precedenti episodi del giugno e del luglio 2010, non portati a compimento.
Non ha rilievo la circostanza che l’effettivo contratto tra il Comune e l’appaltatore Ati Edil Soccavo fosse di alcuni giorni successivo al primo intervento in quanto, come dedotto dall’amministrazione comunale, già prima vi era stata una consegna urgente dei lavori e riserva e successiva stipulazione del contratto.
Allo stesso modo, non rileva la presenza eventuale di un’altra impresa ai tentativi andati a vuoto, se ciò non ha determinato –o non si dimostra che abbia determinato– una duplicazione effettiva dei costi in relazione allo specifico intervento.
E’ infondata anche la censura di appello che contesta la corretta quantificazione, sostenendo che, nel rapporto tra la effettiva demolizione (circa euro 28.000) e i tentativi andati a vuoto (circa 10.000 euro) vi sarebbe una sproporzione non giustificata.
Il Collegio osserva che talune delle voci della nota relativa all’intervento di demolizione (smaltimento dei rifiuti e altro) non possono essere contenute nelle note relative agli interventi inutili. Tuttavia, è evidente che le spese sostenute dall’appaltatore, e dovute a sua volta dal Comune, comprendessero i costi vivi sostenuti in quelle giornate, certo inferiori al reale intervento di demolizione, ma non per questo indifferenti.
L’ingiunzione di pagamento della somma occorsa per i lavori di demolizione in danno, atto meramente esecutivo e vincolato rispetto alle precedenti determinazioni, non richiede un’autonoma comunicazione di inizio del procedimento di cui all’art. 7, l. 07.08.1990, n. 241 (tra varie, Cons. Stato, IV, 27.07.2011, n. 4506).
L’art. 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che l’opera acquisita sia demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.02.2015 n. 715 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005 n. 15.
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3.3. Le ulteriori censure dedotte in appello non possono essere accolte, poiché:
- quanto alle garanzie partecipative non vi è motivo per discostarsi dalla concorde giurisprudenza, per la quale “nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005 n. 15” (Cons. Stato, Sez. IV, 06.02.2013, n. 666; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011, n. 3398); ciò che nella specie è altresì avvalorato dalla considerazione che, secondo la ricorrente, la partecipazione al procedimento di cui si tratta sarebbe stata utile per prospettare la rilevanza delle intervenute domande di condono che, per quanto sopra considerato, non può essere ritenuta;
- per la stessa ragione non hanno rilievo l’asserzione del vizio di ultrapetizione della sentenza, la censura, riproposta nel presente grado, sull’interesse all’impugnazione del verbale di accertamento dell’inottemperanza e la ribadita ritualità della presentazione dei motivi aggiunti ai sensi dell’art. 43 cod. proc. amm., in quanto motivi basati sulla non accolta deduzione del vizio della mancata considerazione delle domande di condono;
- non sussiste, di conseguenza, neppure l’asserito difetto di istruttoria e di motivazione dei provvedimenti repressivi, riscontrandosi anche che l’impugnata ordinanza di demolizione è basata sugli accertamenti della Polizia municipale e sulla connessa relazione tecnica di sopralluogo, nonché recante la compiuta descrizione delle opere abusive (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

gennaio 2015