dossier ASCENSORE /
PIATTAFORMA ELEVATRICE |
anno 2022 |
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il condòmino disabile può predisporre l’ascensore sulla facciata del palazzo
anche senza l’ok dell’assemblea. La tutela del diritto alla salute e il
prinicipio di solidarietà sociale
consentono minime compromissioni del decoro architettonico.
L’ascensore esterno, installato sulla facciata condominiale a cura e spese
del disabile e volto a eliminare le barriere architettoniche, deve
considerarsi indispensabile ai fini della accessibilità e abitabilità
dell’appartamento.
È il chiarimento reso dal TRIBUNALE di Roma, Sez. V civile, con la
sentenza
30.12.2022 n. 19186.
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SENTENZA
La domanda merita accoglimento.
Il presente giudizio ha ad oggetto l’accertamento del diritto dell’attore,
in quanto condòmino, peraltro affetto da gravi patologie che ne impediscono
la deambulazione, all’installazione (sulla facciata esterna dell’edificio
condominiale di via … n. … in Roma) di un elevatore, diritto già in passato
negato dall’assemblea dei condòmini.
Sul punto deve subito osservarsi come l’assemblea di condominio abbia
certamente il potere di decidere, nell’interesse collettivo, le modalità
concrete di utilizzazione dei beni comuni, nella specie ai fini di
autorizzare l’installazione di un ascensore in area condominiale, come anche
quello di modificare –revocando una o più precedenti delibere, benché non
impugnate da alcuno dei partecipanti, e stabilendone liberamente gli
effetti– quelle in atto, ove intenda rivalutare la corrispondenza
dell’innovazione ai limiti segnati dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non ha,
tuttavia, il potere di impedire tale installazione laddove essa non comporti
il superamento i limiti imposti dalla coesistenza di beni comuni e sia in
ogni caso volta ad eliminare le barriere architettoniche presenti
nell’edificio.
In particolare, l’installazione di un ascensore su parte di aree
condominiali, diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi
della L. 02.01.1989, n. 13, art. 2 può essere approvata dall’assemblea con
la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2, oppure, nel caso in
cui il condominio rifiuti di adottare la relativa delibera, essere
realizzata dai condòmini richiedenti, a proprie spese e con l’osservanza dei
limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c.
Alla eventuale “autorizzazione” concessa dall’assemblea ad apportare
tale modifica su iniziativa dei soli condòmini richiedenti e sulla base di
uno specifico progetto può, quindi, attribuirsi il valore di mero
riconoscimento dell’attuale inesistenza di un contrario interesse o di
concrete (e legittime) pretese da parte degli altri condòmini a questo tipo
di utilizzazione delle parti comuni.
Una tale delibera autorizzativa della realizzazione dell’impianto, pur
vincolante nei confronti di tutti i condòmini (art. 1137 c.c., comma 1), non
può ritenersi, perciò, simmetricamente produttiva di un autonomo diritto già
spettante ai condòmini (rimanendo, peraltro, detta delibera revocabile dalla
medesima assemblea sulla base di una rivalutazione di dati ed apprezzamenti
obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla
buona gestione dell’amministrazione; sarebbe del resto precluso al giudice
un sindacato nel merito circa l’uso, da parte dell’assemblea dei condòmini,
di detta facoltà di nuovo apprezzamento, se non nei limiti consentiti
dall’indagine per l’accertamento dell’eccesso di potere, e cioè di un grave
pregiudizio, in tal senso, cfr. Cass. civ., Sez. II, 04.02.2021, n. 2636)
Come chiarito dall’ormai consolidata giurisprudenza, anche di legittimità,
quindi, l’installazione di un ascensore, o di un impianto avente analoga
funzione, può avvenire per iniziativa assembleare (con imputazione
dell’opera all’intera collettività, anche con riferimento alla ripartizione
di costi) o anche di uno o più condòmini: in questo caso con attribuzione
dell’opera e dei relativi costi ai soli condòmini “promotori” e nel
rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. quanto all’utilizzo di parti
comuni per la realizzazione dei manufatti (Cass. n. 24006/2004).
Orbene, le innovazioni che incidano sulla cosa comune (tra cui rientra anche
l’installazione di un ascensore che apporti modifiche alle parti
condominiali), richiedono, di regola, ai sensi dell’art. 1120 c.c. la
maggioranza qualificata, ove comportino una spesa da ripartire fra tutti i
condòmini su base millesimale; qualora invece (come nella specie) non debba
farsi luogo ad un riparto di spesa, trova applicazione la norma di cui
all’art. 1102 c.c. E’, infatti, evidente come le modificazioni eseguibili
sulla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possano costituire anche
un’innovazione ex art. 1120 c.c.; in tal caso esse sono consentite anche al
singolo condòmino, o ad un gruppo di condòmini, se:
1) non alterino la destinazione della cosa e non ne impediscano il
pari uso agli altri partecipanti al condominio;
2) rispettino il disposto di cui all’art. 1120, ultimo comma, c.c.,
perché detta norma (nel vietare le innovazioni che possano recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato ovvero ne
alterino il decoro architettonico o rendano talune parti dell’edificio
inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino) ha portata
generale ed è collocata nell’articolo in esame al fine di rendere evidente
che essa costituisce un limite invalicabile anche per la maggioranza dei
condòmini.
Nel caso in esame, l’opera proposta dal condòmino consiste in un elevatore
(modello Ecovimec Heavy Load), il quale, tenuto conto della grave
compromissione della capacità deambulatoria dell’attore, risulta essere
–come anche confermato dal CTU nel presente giudizio- l’unico modello
realizzabile per consentire l’ingresso su un lato della cabina e l’uscita
sul lato opposto, eliminando le barriere architettoniche costituite dalla
scalinata che conduce dalla strada al piano di ingresso su via …. .
Come emerso dalla CTU, le cui risultanze devono ritenersi pienamente
condivisibili, anche per il rigore metodologico che la caratterizza,
l’elevatore, pur incidendo sulla corte comune e sul prospetto anteriore
dell’edificio, non muta la destinazione d’uso dei beni comuni: nel primo
caso (corte), l’ascensore non occlude direttamente le vedute e le luci dei
varchi di ingresso dei negozi, i quali non vedranno invasa la loro proprietà
privata, essendo la corte esterna ad essi di uso comune.
Nel secondo caso (prospetto edificio) il vano corsa non impedisce né limita
le vedute delle finestre degli appartamenti privati e non comporta alcun
pregiudizio relativo all’illuminazione del vano scala posto che, sotto tale
profilo, il progetto prevede un vano corsa interamente vetrato, proprio per
consentire alla luce solare di penetrare all’interno del vano scala e non
limitare eccessivamente le vedute dall’interno del vano scala. Le funzioni
originariamente svolte dalle finestre, dunque, non vengono mutate dall’opera
de qua, essendo la torre dell’ascensore completamente trasparente.
Né, tanto meno, si ravvisano altri elementi che possano indurre a ritenere
che vi sia un pregiudizio per la staticità dell’edificio: trattasi, infatti,
di struttura in metallo che, benché ancorata all’edificio, è “autoportante”
e contiene un ascensore che grava sulle fondazioni della torre metallica,
senza alcun aggravio di peso alla struttura dell’edificio.
Neppure può dirsi, inoltre, sotto un più ampio profilo di “destinazione”
della facciata, rilevante anche nell’ipotesi di suo utilizzo ex art. 1102
c.c., che la realizzazione dell’impianto venga a ledere il decoro
architettonico dell’edificio. Come è dato, infatti, apprezzare dalle
fotografie versate in atti, lo stabile non presenta particolari pregi
architettonici, né rivela specifica ricerca di euritmia di linee, donde
l’inserimento di una struttura in vetro non comporta un pregiudizio estetico
ovvero un’alterazione delle linee dello stabile suscettibili di
apprezzamento oggettivo.
Peraltro, nell’ottica del contemperamento degli opposti interessi, anche
laddove vi fosse un interesse estetico, esso sarebbe sicuramente recessivo
rispetto alla tutela del diritto alla salute, in quanto, nel caso di specie,
tenuto conto delle condizioni personali dell’attore, la realizzazione
dell’ascensore risulta essere necessaria al fine di garantire il rispetto
della dignità umana e del principio di non discriminazione, di tal ché
bisognerebbe, comunque, ritenere tollerabile una minima compromissione
dell’integrità del decoro architettonico.
Per tali ragioni, in accoglimento della domanda attorea, deve ritenersi
accertato il diritto dell’attore di procedere, senza alcuna preventiva
autorizzazione assembleare, all’installazione dell’elevatore con le
caratteristiche e secondo le modalità meglio specificate nella c.t.u. alla
quale si rinvia (tenuto conto che:
1) il nuovo progetto “garantisce la totale accessibilità
all’edificio” da parte dell’attore “sin dal piano strada”;
2) “le linee architettoniche prescelte sono più coerenti con la
linearità dell’edificio esistente”;
3) “la nuova struttura non interferirà con quella dell’edificio
e ciò eviterà di dovere eseguire delle verifiche e degli eventuali
adeguamenti sismici su di esso”). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’ascensore l’iter è facilitato. È ammessa l’installazione
senza via libera dall’assemblea. Una pronuncia della Cassazione conferma la
liberalizzazione dell’uso delle parti comuni.
I condomini interessati possono installare a proprie spese e senza
l'autorizzazione assembleare l'impianto di ascensore nell'edificio che ne
sia privo, anche se quest'ultimo non rispetta le misure minime previste
dalla normativa sull'abbattimento delle barriere architettoniche e anche se
ne deriva un disagio minimo nell'utilizzo delle scale.
Questo quanto deciso dalla II Sez, civile della Corte di Cassazione, nella
recente
ordinanza 14.06.2022 n. 19087, che rappresenta, per così dire,
l'ultima frontiera in tema di liberalizzazione dell'uso delle parti comuni
per la costruzione di un impianto di ascensore senza il via libera
dell'assemblea condominiale.
Il caso. Alcuni
condomini avevano agito in giudizio per sentire accertare il proprio diritto
a installare a proprie spese un ascensore all'interno dell'edificio,
realizzato nell'anno 1960, che ne era sprovvisto. Questi ultimi intendevano
utilizzare allo scopo una parte delle aree comuni, ossia la tromba delle
scale e una piccola porzione degli scalini, che avrebbero dovuto essere
occupati con il vano dell'impianto.
Si erano costituiti in giudizio gli altri condomini, eccependo che
l'edificio difettava di uno spazio idoneo ad alloggiare l'ascensore
all'interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale. I
medesimi inoltre avevano rilevato che, a fronte di una larghezza delle scale
di 1,20 metri, con il taglio parziale dei gradini si sarebbe realizzata una
ulteriore riduzione dello spazio utile a deambulare.
Era stato poi anche contestato il fatto che la cabina dell'ascensore avrebbe
dovuto avere una profondità minima di 1,20 metri e una larghezza minima di
0,80 metri, ai sensi della legge n. 13/1989 e del dm n. 236/1989, dimensioni
che non sarebbero state rispettate dall'opera avuta in mente dai condomini
attori.
Infine, era stato eccepito che l'installazione dell'ascensore avrebbe
gravemente compromesso l'uso delle scale e della cabina a uno dei condomini,
in ragione della sua grossa corporatura.
Nel corso del giudizio era stata effettuata una consulenza tecnica d'ufficio
sulle modalità di realizzazione dell'impianto e a seguito di essa il
tribunale aveva autorizzato la realizzazione dell'impianto. La sentenza era
stata confermata in appello.
L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
I giudici di legittimità negli ultimi anni si sono pronunciati sempre più
spesso in merito all'installazione dell'impianto di ascensore con utilizzo
delle parti comuni e, facendo leva sul disposto di cui all'art. 1102 c.c.,
sono giunti a inquadrare detto intervento come indispensabile ai fini
dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del
medesimo.
Con sentenza n. 20713/2017 è stato così precisato che l'installazione
dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da
una parte dei condomini, a condizione che gli stessi ne sopportino per
intero la relativa spesa. Tuttavia, gli altri condomini, ove in prosieguo
intendano utilizzarlo a loro volta, saranno legittimati a farlo, ma saranno
tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente
rivalutata, divenendo così a loro volta comproprietari dell'impianto.
Con sentenza n. 7938/2017 è stato quindi ribadito come il tema
dell'accessibilità degli edifici e dell'eliminazione delle barriere
architettoniche costituisce espressione di un principio di solidarietà
sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico. Detto principio
implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere
architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde
dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici e che
conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo stesso
sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare le
condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (si
vedano anche le decisioni nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione tra tutti
i condomini della spesa di installazione dell'impianto, trova in ogni caso
applicazione il ricordato art. 1102 c.c., in forza del quale ciascun
partecipante può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso,
apportandovi quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo
miglior godimento (si vedano le decisioni nn. 16815/2022, 4439/2020,
25872/2010 e 24006/2004).
L'ultima decisione della Suprema corte.
La Suprema corte, nel dare continuità all'orientamento teso a facilitare
l'installazione degli impianti di ascensore negli edifici che ne siano
privi, si è occupata in questo caso proprio di contemperare gli opposti
interessi dei condomini favorevoli alla realizzazione dell'impianto e di
quelli che, viceversa, si lamentavano delle ricadute di tale intervento
sulla fruibilità delle parti comuni.
La larghezza delle scale si sarebbe, infatti, ridotta a 77 centimetri, al
netto del corrimano, per tutte le rampe, e addirittura a 74 centimetri per
la prima rampa, così impedendo il passaggio contemporaneo di due persone e
il passaggio orizzontale di una barella, in spregio alla obbligatorietà
della larghezza minima delle scale comuni di almeno 120 centimetri.
I condomini contrari all'intervento avevano anche obiettato che l'ascensore
avrebbe avuto una cabina di soli 58 centimetri, contro la prescrizione
normativa minima di 80 centimetri, con la conseguenza che il relativo uso
sarebbe stato limitato alle persone normodotate e di medio-piccola
corporatura, dovendosi tra l'altro rilevare che, come riportato dal
consulente tecnico d'ufficio, all'interno della cabina avrebbe potuto
accedere solo un portatore di handicap in grado di alzarsi dalla carrozzina,
ma non certamente anche la carrozzina stessa.
La Cassazione si è quindi richiamata alle valutazioni di merito condotte dai
giudici di appello. Nel caso di specie è evidente che era di fatto
impossibile contemperare gli opposti interessi, poiché, a fronte
dell'installazione di un ascensore, sia pure di dimensioni estremamente
ridotte e non in grado di rimuovere in modo completo le barriere
architettoniche, sarebbe stato indispensabile ridurre sensibilmente la
larghezza delle scale, e viceversa, ove si fosse inteso conservare quest'ultima,
sarebbe stato inevitabile rinunciare all'impianto. Che fare?
Secondo i giudici di merito, considerate le abitudini di vita e le esigenze
degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della
popolazione italiana, composta in misura di gran lunga prevalente da persone
non giovani, il sacrificio minore si sarebbe realizzato proprio incidendo
sulla larghezza delle scale.
A orientare nel senso della prevalenza del vantaggio connesso
all'installazione dell'ascensore erano poi state le fotografie dell'edificio
gemello a quello in cui abitavano i contendenti, nel quale era stato già
installato un impianto di ascensore identico a quello di cui al progetto,
ricavandosi da tali riproduzioni fotografiche che la posizione del vano
ascensore avrebbe implicato un disagio veramente minimo nell'uso quotidiano
della scala, tanto che una persona di corporatura media avrebbe potuto
affrontarle con normale facilità, pur rimanendo precluso il contemporaneo
passaggio di due persone, con la conseguenza che la limitata lunghezza delle
rampe e le buone condizioni di luminosità, anche in presenza dell'ascensore,
avrebbero ridotto al minimo il disagio che la riduzione dei gradini avrebbe
comportato.
La Suprema corte a questo proposito ha ricordato come il concetto di
inservibilità del bene comune non può consistere nel semplice disagio subito
rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di
innovazione di cui all'art. 1120 c.c., ma è costituito dalla sua concreta
inutilizzabilità.
I giudici di legittimità hanno infine chiarito che le prescrizioni di cui
alla legge n. 13/1989 si applicano, conformemente al principio di
irretroattività, ai soli edifici realizzati successivamente all'entrata in
vigore della normativa. In ogni caso le stesse sono derogabili, seppure
entro i ristretti limiti consentiti.
Infatti, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle
barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall'art. 8 del
dm n. 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale,
possono essere derogate mediante scrittura privata (articolo ItaliaOggi
Sette del 04.07.2022).
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Il principio
In tema di condominio negli edifici,
nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune,
disciplinato dall’art. 1120 c.c.), il concetto di inservibilità della stessa
non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale
utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito
dalla sua concreta inutilizzabilità, secondo la sua naturale fruibilità.
Inoltre, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle
barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall’art. 8 del
dm 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale,
possono essere derogate mediante scrittura privata, poiché l’art. 7 del
medesimo decreto consente, in sede di progetto, di adottare soluzioni
alternative alle suddette specificazioni e soluzioni tecniche, purché
rispondenti alle esigenze sottintese dai criteri di progettazione
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile in
termini di “innovazione” in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c.,
determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua
primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale
funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità
immobiliari che compongono l’edificio.
Sicché, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta
“innovazione” deve essere assunta, necessariamente, dal
Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n.
13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a),
del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge
11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei
ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di
cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere
voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per
la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma
dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della
normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità
degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere
architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e
per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o
dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di
impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da
parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea
superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino
alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non
comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune
e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al
secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati
all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche
sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare
l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso
agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL
n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì
realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche
servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui
all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non
vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una
“innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di
cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di
dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre
mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1,
i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di
cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a
proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di
rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse».
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... per l'annullamento,
previa sospensione dell’efficacia
quanto al ricorso n. 9236 del 2020:
- dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020
protocollo n. 30888, notificata a mezzo pec in pari data avente ad oggetto
l’installazione di un ascensore per il superamento delle Barriere
Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma via
-OMISSIS-;
- di ogni altro atto presupposto preparatorio, connesso e consequenziale con
quello impugnato e, in particolare, per quanto occorrer possa,
dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449;
nonché per la condanna al rilascio di provvedimento di autorizzazione ex
art. 21 D.Lgs. 42/2004, emendato dalle prescrizioni illegittime impugnate,
in conformità all'istanza ed al progetto in atti, come in narrativa;
quanto al ricorso n. 9622 del 2020:
- dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot.
n. 30888 avente ad oggetto l’installazione di ascensore per il superamento
delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in
Roma, via -OMISSIS-;
- dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449
...
Con ricorso notificato in data 22.10.2020 e depositato in data
11.11.2020, i ricorrenti -OMISSIS-., in qualità di condòmini del fabbricato multiscale (Scala “A” e Scala “B”), sito in Roma, via -OMISSIS-, censito
al -OMISSIS-, risalente al 1700 e sottoposto a vincolo culturale diretto ex
L. n. 1089/1939 e D.M. del 10.07.1957, hanno impugnato il provvedimento prot.
n. 30888 del 25.07.2020, con cui la Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma -in adesione all’istanza ex art. 21 D.lgs.
n. 42/2004, presentata in data 07.11.2018 al prot. n. 28749 e,
successivamente, integrata- ha autorizzato il richiedente condòmino arch.
-OMISSIS- all’installazione, nel cortile condominiale del fabbricato in
parola, di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche a
condizione, per quanto di interesse, che:
a) l’ascensore venga realizzato solamente fino al quinto piano, escludendo
lo sbarco al piano delle terrazze;
b) sia garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle
finestre che affacciano sulla corte interna.
I ricorrenti hanno, altresì, impugnato anche la precedente autorizzazione
del 22.06.2020, prot. n. 26449 -pur ritenendola superata da quella prot.
n. 30888 del 25.07.2020– con cui la Soprintendenza aveva imposto quale
unica condizione che venisse garantito il distacco minimo dell’ascensore e
dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
A sostegno del gravame, affidato a plurimi motivi di diritto (“I. VIOLAZIONE
E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5
DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004.
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ
DELLA MOTIVAZIONE”;
“II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E
22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL
D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI
ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA
DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA
RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE
DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI
SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA
MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI
POTENZIALI”;
“III VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA
LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER
ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
“IV)
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004.
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E
TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
“V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3
DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE
PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”), i ricorrenti,
sostanzialmente interessati -al pari del sig. Pi., dichiarato invalido- al procedimento avviato in data
07.11.2018 (prot. n. 28749), dall’arch.
-OMISSIS-, hanno dedotto la necessità che la Soprintendenza approvasse il
progetto così come da quest’ultimo presentato e, quindi, senza le condizioni
sopra specificate, in quanto unica soluzione possibile al fine di superare
adeguatamente le barriere architettoniche esistenti presso l’edificio
condominiale.
In particolare, il progetto in questione prevedeva che l’ascensore venisse
realizzato nell’ambito della chiostrina condominiale, in corrispondenza
della Scala “B” (rampa di piani 5, con larghezza di appena 80 cm, tale da
non consentire neanche l'ubicazione di un montascale per le persone anziane
più disagiate), con sbarco sul terrazzo di copertura comune.
In tal modo,
l’impianto in parola, senza alcun modo pregiudicare i valori culturali
sottesi al vincolo imposto sul fabbricato condominiale, sarebbe stato idoneo
a soddisfare le esigenze non solo dei condòmini della Scala “B”, ma anche
dei proprietari degli appartamenti posti ai piani alti della Scala “A”
(rampa di quattro piani, che va restringendosi, in corrispondenza del quinto
piano, fino ad arrivare a cm 70 e conduce, tramite una ulteriore ed impervia
scala a chiocciole al terrazzo condominiale), nella quale non sarebbe
possibile installare alcun impianto ascensore, avendo la stessa valore
artistico e monumentale.
Ad avviso dei ricorrenti, quindi, il posizionamento dell’ascensore nel sito
proposto e la previsione dello sbarco dello stesso sul terrazzo condominiale
costituirebbero condizioni indispensabili per superare le barriere
architettoniche e consentire, quindi, l’accesso alla propria abitazione ai
condòmini proprietari di appartamenti siti ai piani alti della Scala “A”
mediante l’ascensore, tra cui la sig.ra -OMISSIS-.
La previsione progettuale
dello sbarco dell’impianto sul terrazzo, lungi dal costituire un mero quid pluris, finalizzato a recare utilità aggiuntive ed accessorie, si
inserirebbe, in modo organico ed indefettibile nel disegno finalizzato a
risolvere i gravi ed insuperabili disagi costituiti dalla presenza di
autentiche barriere architettoniche per l’intero stabile.
Le condizioni apposte dalla Soprintendenza all’autorizzazione prot. n. 30888
del 25.07.2020, consistenti tanto nell’inibizione del predetto sbarco
quanto nel mantenimento del distacco minimo dell’ascensore e dei
pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna, renderebbero
non fattibile e non utile l’intervento, così di fatto vanificandolo, senza
alcun vantaggio per gli interessi pubblici sottesi al vincolo.
Con atto di intervento ad opponendum depositato in data 19.11.2020, i
condòmini -OMISSIS-, dopo aver rappresentato, in fatto:
a) di aver proposto autonomo ricorso avverso l’autorizzazione oggetto del
presente giudizio (ricorso n. 9622/2020 R.R.);
b) l’inesistenza di una
delibera condominiale che avesse approvato i lavori di installazione
dell’impianto in contestazione, hanno contestato, sotto vari profili, tanto
l’ammissibilità quanto la fondatezza del gravame.
Il -OMISSIS-, costituitosi in giudizio, dopo aver rappresentato di non
essere stato mai informato né coinvolto nel procedimento da cui sono
derivati i provvedimenti oggetto di gravame, ha sotto vari profili dedotto
l’inammissibilità/infondatezza del gravame.
Ciascuna delle parti costituite, con successive memorie difensive e di
replica, corredate da corposa documentazione, ha insistito nelle proprie
ragioni.
Con successivo ricorso notificato in data 19.11.2020 e depositato in data
20.11.2020, assunto al n. 9622/2020 R.R., riunito a quello precedente giusta
ordinanza collegiale n. 7259 del 17.06.2021, i condòmini -OMISSIS-,
-OMISSIS- hanno impugnato tanto l’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata
dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del
25.07.2020, prot. n. 30888, conosciuta in data 10.10.2020, quanto
la precedente Autorizzazione con prescrizioni prot. n. 26449 del 22/06/2020,
rilasciata dalla medesima Soprintendenza e conosciuta in data 22.10.2020.
I condòmini in parola hanno evidenziato, in fatto:
- di non aver partecipato all’iniziativa sostanzialmente assunta, per come
evincibile dagli atti istruttori del procedimento culminato con l’adozione
degli atti impugnati, dai condòmini -OMISSIS-
- di essere contrari a tale installazione, essendo quest’ultima unicamente
diretta ad incrementare il valore del patrimonio immobiliare di alcuni dei
beneficiari (molti dei quali neppure abiterebbero nel fabbricato ed
avrebbero destinato i loro immobili ovvero intenderebbero destinarli a Bed
and Breakfast o affittacamere) a danno degli altri condòmini.
Siffatta
installazione, per come autorizzata dalla Soprintendenza, arrecherebbe serio
pregiudizio al fabbricato perché, essendo ancorato alla parete della
facciata ed alle logge, pregiudicherebbe non soltanto il decoro
architettonico ma anche la staticità dell’edificio, già oggetto alla fine
del 1800 di un intervento di sopraelevazione, scaricando il suo peso sulla
(antica) muratura del piano interrato (sorreggente l’intero fabbricato).
L’ascensore de quo vulnererebbe, inoltre, la sicurezza e l’agibilità di
alcune unità immobiliari, a causa della sottrazione di parte del già piccolo
cortile, privandole dell’aria e della luce ed inoltre precluderebbe ai
ricorrenti sia l’uso futuro della nuova opera, che di installare un altro
ascensore all’interno del cortile condominiale.
Il ricorso in questione risulta affidato ad una pluralità di motivi di
diritto tra cui, il primo, per come appresso rubricato:
- “I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE
241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22
DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI
ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”.
I provvedimenti autorizzativi oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi
per violazione degli artt. 1120, 1121 c.c. e dell’art. 2 della Legge n.
13/1989 in quanto rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle
Arti e Paesaggio di Roma ad esclusiva istanza di alcuni condòmini e non
anche previa delibera dell’Assemblea Condominiale, quest’ultima deputata -per come imposto dalla normativa summenzionata e con le maggioranze ivi
previste, trattandosi dell’autorizzazione di vere e proprie “innovazioni”
della cosa comune- ad impegnare la volontà di tutti i partecipanti al
condominio.
Sono stati, altresì, proposti gli ulteriori motivi di gravame appresso
sintetizzati.
- “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS.
42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N.
380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA,
TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA
MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA
RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE
DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI
SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA
MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI
POTENZIA”;
-
“III. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N.
13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA
DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
- “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N.
42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI
LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
- “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990
PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI
FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”;
...
1. Per ragioni di priorità logico-giuridica, ritiene il Collegio di dover
principiare dallo scrutinio del ricorso n. 9622/2020 R.R. il quale è fondato
e, come tale, deve essere accolto.
2. Coglie, più precisamente, nel segno la censura preliminare ed assorbente
rispetto a tutte le altre, secondo cui i provvedimenti autorizzativi oggetto
di gravame sono stati rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma in favore di soggetti non legittimati,
dovendosi ritenere tale esclusivamente il Condominio di Via -OMISSIS- il
quale, per come dallo stesso affermato in seno al ricorso n. 9236/2020 R.R.,
non ha mai deliberato l’installazione dell’impianto in contestazione.
3. L’apprezzamento della carenza di legittimazione a richiedere
l’autorizzazione in parola in capo al sig. -OMISSIS-, così come agli altri
condòmini sostanzialmente intervenuti nel corso del procedimento, passa
dalla preliminare valutazione circa la natura giuridica dell’intervento
edilizio in contestazione, coincidente con l’installazione di un ascensore
all’interno di un cortile condominiale.
Siffatta valutazione, trattandosi di una questione pregiudiziale involgente
diritti soggettivi la cui risoluzione è necessaria per la definizione
dell’odierna res controversa, ben può essere effettuata dal Tribunale,
ancorché senza efficacia di giudicato, secondo quanto espressamente previsto
dall’art. 8, comma 1, c.p.a.
3.1 Orbene l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile
condominiale è qualificabile, ad avviso del Collegio, in termini di
“innovazione”, in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla
sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua
naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria
alle unità immobiliari che compongono l’edificio (cfr. Cassazione civile
sez. II,
21.01.2022 n. 1849; Cassazione civile sez. II,
24.12.2021 n. 41490).
Ebbene, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta
“innovazione” avrebbe dovuto essere assunta, necessariamente, dal
Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n.
13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a),
del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge
11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei
ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di
cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere
voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per
la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma
dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della
normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità
degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere
architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e
per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o
dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di
impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da
parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea
superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino
alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non
comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune
e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al
secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati
all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche
sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare
l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso
agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
4. In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL
n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì
realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche
servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui
all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non
vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una
“innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
4.1 Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di
cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di
dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre
mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1,
i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di
cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a
proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di
rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse».
5. L’esegesi della normativa di riferimento sopra trascritta consente,
quindi, di affermare che il Condominio di -OMISSIS- costituiva l’unico
soggetto giuridico abilitato a chiedere alla Soprintendenza, ai sensi
dell’art. 21 D.lgs. n. 42/2004, l’autorizzazione all’installazione
dell’ascensore nel cortile condominiale.
In assenza di siffatta deliberazione, l’Autorità tutoria del vincolo
culturale cui il fabbricato condominiale risulta assoggettato non avrebbe
potuto rilasciare le autorizzazioni oggetto di impugnazione che, per
l’effetto, si appalesano illegittime per difetto di legittimazione dei
richiedenti (cfr. TAR Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 13/08/2020, n.
138).
6. In conclusione, il ricorso n. 9622/2020 è fondato e, come tale, deve
essere accolto, in adesione alla preliminare ed assorbente censura sopra
scrutinata.
Ne consegue l’annullamento dell'autorizzazione, con prescrizioni, prot. n.
30888, rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e
Paesaggio di Roma in data 25.07.2020 e della precedente autorizzazione
del 22.06.2020, prot. n. 26449.
6.1 Il ricorso n. 9236/2020, in disparte le plurime questioni di
ammissibilità dello stesso sulle quali è possibile soprassedere, è, dunque,
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo ad oggetto
provvedimenti amministrativi di cui è stato disposto l’annullamento per i
motivi sopra indicati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 21.02.2022 n. 2061 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Barriere architettoniche, per
l'ascensore interno non basta la Scia.
Talvolta siamo portati a ritenere che, determinati lavori
edilizi, siano del tutto ininfluenti sulla struttura e sul
prospetto di un edificio. Ad esempio: decidiamo di
trasformare una finestra in una porta finestra; oppure
decidiamo di rendere più agevole il passaggio da un piano ad
un altro di un immobile attraverso la creazione di un
ascensore interno. Pensiamo: come possono tali semplici
interventi avere un rilievo edilizio significativo? Ebbene
ci sbagliamo.
E la
sentenza 24.01.2022 n. 467 del Consiglio di
Stato, Sez. VI, ne è la riprova. Andiamo ad esaminare da
vicino la vicenda occorsa alla proprietaria di un immobile,
e la decisione che i giudici di Palazzo Spada hanno emesso
nei suoi confronti.
Il fatto
La proprietaria di un immobile sito nel Comune di Vibo
Valentia, si determinava a realizzare alcuni interventi
edilizi all'interno della propria abitazione. Più
precisamente: due finestre venivano trasformate in porte
finestre; si realizzava un piccolo ascensore interno per
collegare due differenti piani dell'edificio; si procedeva
alla creazione di strutture rivestite in cartongesso
destinate ad ospitare il locale tecnico per l'ascensore.
Per la realizzazione del tutto (con esclusione
dell'intervento di trasformazione delle finestre in porte
finestre), si era provveduto a presentare apposita Scia al
Comune, e gli interventi da eseguire erano stati qualificati
come opere minori.
Il Comune di Vibo Valentia, a seguito di appositi rilievi ed
accertamenti tecnici, decideva di sospendere i lavori,
nonché di annullare la successiva Scia in variante
presentata dalla proprietaria. Le ragioni sottese alla
decisione del Comune erano essenzialmente riconducibili ad
una differente qualificazione degli interventi edilizi;
difatti, secondo l'ente, non trattavasi di opere minori
bensì di veri e propri ampliamenti, realizzati per giunta in
zona sottoposta a duplice vincolo: paesaggistico ed
idrogeologico. La proprietaria dell'edificio si rivolgeva
quindi al Tar Calabria che, esaminati gli atti, si
determinava nel dare pieno accoglimento alle ragioni del
Comune.
Secondo il Tar, difatti, per la realizzazione del vano
ascensore era necessaria l'autorizzazione del Genio Civile,
trattandosi di intervento in grado di incidere sulla
staticità dell'edificio; mentre le strutture in cartongesso
e la trasformazione delle finestre, erano interventi non
presenti in Scia. Essendo del tutto privi di titolo, questi
ultimi lavori erano dunque da reprimere.
Il ricorso al Consiglio di Stato
Avverso la decisone del Tar, la proprietaria dell'immobile
decide di ricorrere al Consiglio di Stato, adducendo a sua
difesa le seguenti argomentazioni:
- la realizzazione dell'ascensore era intervento
finalizzato all'abbattimento delle barriere architettoniche,
perciò esentato da qualsivoglia autorizzazione;-le strutture
rivestite in cartongesso non creavano alcun ampliamento, ma
servivano per collocarvi il vano ascensore;
- la realizzazione di porte finestre al posto delle
preesistenti finestre, non era un intervento menzionato in
Scia poiché considerato "invisibile", ovvero tale da
non comportare alcuna alterazione delle strutture portanti,
della sagoma, e del prospetto del fabbricato, e dunque opera
di edilizia libera e leggera.
La decisione di Palazzo Spada
Investiti della vicenda, i giudici di Palazzo Spada
esaminano la decisione del Tar Calabria e, per farlo
adeguatamente, ricostruiscono i fatti di causa, nonché
l'iter logico giuridico seguito nel precedente grado di
giudizio. Ebbene, anche secondo il Consiglio di Stato, la
posizione della ricorrente non merita accoglimento; ciò in
quanto gli interventi posti in essere dalla stessa appaiono
totalmente abusivi per due ordini di ragioni: perché fuori
Scia (alcuni), e perché non assentibili con una semplice
Scia (uno in particolare).
L'intervento abusivo in quanto totalmente fuori Scia (perché
non dichiarato per stessa ammissione della ricorrente), è
rappresentato dalla trasformazione delle finestre in porte
finestre. Ebbene, per la realizzazione di una tale opera
edilizia, si va inevitabilmente ad incidere sul prospetto
originario del fabbricato; ogniqualvolta ciò avviene, si
pone in essere un intervento edilizio di natura
straordinaria ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera b),
del Dpr 380/2001. Tali tipologie di opere, ai sensi
dell'articolo 22, lettera b), del medesimo Dpr, devono
obbligatoriamente essere segnalati mediante regolare Scia.
L'ulteriore intervento fuori Scia (perché difforme da quanto
dichiarato), è quello relativo alla creazione delle
strutture rivestite in cartongesso al piano superiore
dell'immobile. Ebbene, qui siamo in presenza di un
intervento abusivo perché del tutto diverso da quello
dichiarato in Scia dalla ricorrente; difatti, mentre nel
titolo era stata dichiarata la realizzazione di strutture in
legno per l'aggancio di tendaggi, si è in realtà realizzato
un vero e proprio autonomo locale. Ma vi è di più: tale
vano, che parte ricorrente individua quale struttura tecnica
ove allocare l'ascensore, risulta essere un locale bagno,
con tanto di impianto idrico. L'intervento appare quindi non
validamente assistito da titolo edilizio, dunque abusivo.
Quanto all'intervento giammai assentibile con una semplice
Scia, esso è rappresentato dalla realizzazione
dell'ascensore interno. Secondo il Consiglio di Stato, in
merito a tale situazione occorre fare un'attenta disamina.
Difatti, un conto è se l'ascensore viene realizzato mediante
l'apertura di un varco nel solaio, un conto è se viene
realizzato senza aprire alcunché.
Se, come in questo caso, per la realizzazione del vano
ascensore appare inevitabile aprire un varco, la staticità
del fabbricato viene inevitabilmente a risentirne. Ciò rende
necessaria (ai fini della legittima realizzazione
dell'opera) l'autorizzazione del Genio Civile, non una
semplice Scia. Ma vi è anche un altro aspetto da
considerare: quando l'immobile si trova in zona sismica, la
circostanza che trattasi di intervento finalizzato
all'abbattimento delle barriere architettoniche (come
argomentato dalla ricorrente) non esclude la necessaria
autorizzazione da parte del competente ufficio tecnico della
Regione. Solo nel caso di montacarichi o montascale di
limitata portata, e non realizzabili mediante apertura di
varchi nel solaio, si può prescindere dall'autorizzazione
suddetta.
Ecco quindi che, la specifica tipologia di vano ascensore
realizzato dalla ricorrente, non poteva in alcun modo
esulare né dall'autorizzazione del Genio Civile, né da
quella dell'ufficio tecnico regionale, essendo del tutto
insufficiente una mera Scia. Alla luce di tutte le
argomentazioni suesposte, il Consiglio di Stato respinge il
ricorso e conferma la sentenza del Tar Calabria (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 07.02.2022). |
anno 2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
esterno, basta la Scia. L’impianto è mero volume tecnico.
Deroga sulle distanze. Titoli edilizi: la posizione del Tar
Lombardia e i precedenti su come e quando sono necessari.
Non serve il permesso di costruire
per l'ascensore esterno che il proprietario del singolo
appartamento vuole realizzare nell'edificio condominiale.
Basta la segnalazione certificata di inizio attività,
invece, perché l'impianto costituisce un mero volume tecnico
che non crea un autonomo carico urbanistico. E dunque il
comune non può bloccare i lavori contestando la violazione
del piano delle regole previsto dal piano di governo del
territorio: da una parte, infatti, è escluso che si tratti
di una nuova costruzione e dall'altra le opere necessarie a
rimuovere le barriere architettoniche ben possono essere
realizzate in deroga alle distanze tra fabbricati previsti
dai regolamenti edilizi.
È quanto emerge dalla
sentenza 11.02.2021 n. 388 della II Sez. del TAR
Lombardia-Milano.
Il caso.
Accolto il ricorso proposto dal proprietario
dell'appartamento al terzo piano della palazzina che intende
costruire l'elevatore sulla parete esterna del fabbricato,
rimasto immutato per vent'anni, visto che non è possibile
ricavare all'interno lo spazio per la cabina. Viene così
annullato il provvedimento del dirigente comunale che stoppa
i lavori dopo la Scia presentata per la realizzazione
dell'impianto.
Il punto è che l'ascensore non ha bisogno del titolo
edilizio in quanto non costituisce una costruzione in senso
stretto ma soltanto un'innovazione necessaria per lo
stabile. Che non concorre alla creazione di volume o
superficie rilevante in ambito edilizio. Non si applica
dunque all'impianto il piano delle regole Pgt laddove
stabilisce le distanze dal confine che valgono solo per le
nuove costruzioni. In base al combinato disposto degli
articoli 78 e 79 del testo unico dell'edilizia le opere
concepite contro le barriere architettoniche devono
rispettare soltanto le distanze ex articoli 873 e 907 Cc.
E il superamento degli ostacoli è finalizzato a rendere
fruibile l'immobile non soltanto per i diversamente abili,
ma anche per gli anziani o altri residenti che per
condizioni personali hanno difficoltà di movimento. Trova
quindi ingresso, nel nostro caso, la censura secondo cui
l'impianto non deve osservare gli spazi minimi previsti
rispetto ad altri fabbricati dal momento che non risulta in
grado di generare nuova superficie coperta.
I precedenti.
L'ascensore esterno, inoltre, può essere realizzato anche
molto vicino alle finestre degli appartamenti. E ciò proprio
perché le opere che eliminano le barriere architettoniche
ben possono essere costruite in deroga ai regolamenti e agli
atti di normazione primaria: dunque anche all'articolo 9 del
decreto ministeriale 1444/1968, che prescrive la «distanza
minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate».
Il tutto, ricorda la sentenza 1659/2019, pubblicata dal Tar
Lombardia, grazie alla sentenza costituzionale 251/2008 che
ha indicato i problemi dei diversamente abili come «nodi
dell'intera collettività». Era stato, infatti, accolto
il ricorso dell'invalido dopo che il dirigente dello
sportello unico per l'edilizia del comune aveva bloccato la
Scia per la realizzazione dell'impianto di sollevamento.
L'anziano, che viveva al quarto piano con la moglie,
risultava inabile al lavoro al 35% ed era disponibile a
installare un servoscala perché era impossibile portare la
cabina al livello del pianerottolo. Sbagliava l'ente locale
a negargli il titolo abilitativo in deroga alla distanza tra
pareti finestrate.
Non c'è dubbio che anche l'ascensore esterno sia un'opera
che abbatte le barriere architettoniche, al di là del fatto
che sia o no un disabile a servirsene in concreto. E dopo
l'intervento della Consulta deve ritenersi che il combinato
disposto degli articoli 78 e 79 del testo unico per
l'edilizia consenta di realizzare anche l'impianto esterno
al di là delle distanze previste dai regolamenti e quindi
anche dall'articolo 9 del dm 1444/1968, a patto che siano
rispettate quelle indicate dagli articoli 873 e 907 Cc. Non
conta poi che per ora l'ascensore serva un solo piano
dell'edificio: è possibile fare in modo che l'impianto
risulti utile anche ad altri condomini.
Attenzione, però: il fatto che all'ascensore esterno basti
la Scia non esime il comune dal verificare la legittimazione
soggettiva di chi vuole effettuare i lavori: serve comunque,
sottolinea la sentenza 2065/2018, pubblicata dalla seconda
sezione del Tar Lombardia, un certificato medico che attesti
i problemi di deambulazione del richiedente. Senza
dimenticare che per approvare la realizzazione dell'impianto
in favore di chi ha difficoltà a muoversi è necessario il
voto favorevole di tanti condomini che rappresentino la metà
del valore del fabbricato.
In questo caso era stato accolto il ricorso dei vicini,
secondo cui la cabina esterna toglieva aria e luce a scale e
finestre del palazzo: l'elevatore andava demolito. Ma non
perché fosse necessario il permesso di costruire. Pur se
volume tecnico, l'ascensore esterno costituisce anche
un'innovazione dell'edificio: dopo la riforma del
condominio, dunque, il via libera in assemblea può avvenire
soltanto con la maggioranza indicata ex articolo 1120 Cc che
rinvia al secondo comma dell'articolo 1136.
Nel nostro caso il presupposto mancava e alla Scia non era
allegato un certificato medico rilasciato da una struttura
sanitaria accreditata per riconoscere formalmente la
condizione di disabilità. Insomma: risulta illegittimo il
diniego opposto dall'amministrazione al provvedimento
ripristinatorio chiesto dai condomini. È vero: va esclusa
ogni illegittima intrusione del comune in ambito
privatistico, ma lo sportello unico per l'edilizia deve
comunque compiere un minimo di istruttoria per verificare se
ci sono le condizioni per realizzare l'impianto, specie in
caso di denuncia di vicini inviperiti.
Il comune, tuttavia, non può essere «più realista del re»
bloccando i lavori dell'ascensore esterno che serve al
disabile se il condominio ha già preso posizione sul punto
con una delibera ad hoc. E ciò perché, spiega la sentenza
1405/2016, pubblicata dal Tar Salerno, la decisione assunta
dall'assemblea deve essere interpretata nel senso di
attribuire all'atto un effetto utile, mentre non si può
ignorare che l'intervento programmato sarebbe realizzato
sulla proprietà privata del richiedente e comporterebbe un
minimo ingombro per gli spazi comuni del comprensorio
residenziale.
Non è vero che il condomino debba ritenersi venuto meno
all'obbligo di dimostrare la sua disabilità: sono gli uffici
che non hanno preso in considerazione le certificazioni
mediche, laddove i sanitari indicano la controindicazione
per l'uso delle scale. E soprattutto sbaglia
l'amministrazione locale nell'interpretare la delibera
adottata dall'assemblea: la «salvaguardia dei diritti»
di cui si parla è quella dei terzi generalmente intesi e non
dei condomini.
Né potrebbe essere altrimenti, visto che in base al progetto
la cabina non occupa uno spazio significativo nel cortile
dell'edificio: è quindi escluso ogni rischio per il relativo
godimento da parte dei singoli condomini. Per controllare se
l'intervento è coerente con il rapporto fra parcheggi e
volumi abitativi, poi, bisogna far riferimento la normativa
vigente alla data di rilascio della originaria concessione
edilizia, mentre non rilevano le più restrittive norme
intervenute in seguito.
Il condominio, infine, può senz'altro realizzare l'ascensore
esterno a meno di tre metri dal confine con la proprietà del
vicino, a patto che la tromba delle scale sia troppo stretta
per ospitare la cabina. E ciò perché, osserva la sentenza
1002/2015, pubblicata dal Tar della Liguria, la popolazione
italiana invecchia sempre di più e l'impianto va considerato
come un bene necessario per evitare agli anziani di fare le
scale a piedi.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione deve essere
considerato volume tecnico ogni opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che risulta
destinata a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali.
Nella categoria rientrano le condotte idriche e termiche che
non è possibile realizzare all'interno dello stabile. E
altrettanto vale per l'ascensore: anche i piccoli spazi
previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri
non possono far mutare l'opinione in materia.
Insomma: il computo delle distanze tra le proprietà non può
tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna
dell'ascensore progettato dal condominio (articolo
ItaliaOggi Sette dell'08.03.2021). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il più recente indirizzo giurisprudenziale, l'installazione
di un ascensore all'esterno di un condominio non richiede il
permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un
volume tecnico, necessaria per apportare un'innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
Ne discende che “la realizzazione di un ascensore non
concorre alla creazione di volume o di superficie aventi
rilievo in ambito edilizio, non generando tale opera un
autonomo carico urbanistico”.
Quindi la previsione contenuta nel Piano delle Regole –che
stabilisce le distanze dal confine delle nuove costruzioni–
non può essere applicata ai vani ascensori, non essendo
questi assimilabili alle nuove costruzioni, tenuto anche
conto che “ai sensi del combinato disposto degli articoli 78
e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette
all'abbattimento delle barriere architettoniche possono
essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi, salvo l'obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi
la previsione di cui all'articolo 9 del D.M. 1444/1968”.
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1. Con il ricorso in epigrafe, -OMISSIS- hanno impugnato
l’ordinanza del 16.03.2020, con la quale il dirigente del
Settore Urbanistica ed Edilizia del -OMISSIS- ha ingiunto
loro la sospensione dei lavori di cui alla Scia n. 214/2019
volti alla l’installazione di un elevatore esterno in
superamento delle barriere architettoniche presenti
all’interno dell’edificio di proprietà.
...
1. Il ricorso è articolato in un unico motivo, rubricato “Violazione
dell’art. 3 L. n. 13/1989 e dell’art. 3.2 D.M. n. 236/1989
nonché dell’art. 79 d.P.R. n. 380/2001 - Violazione, per
falsa applicazione, dell’art. 5, quarto comma, N.PdR e
dell’art. 103, comma 1-ter, L.R. 12/2005.- Eccesso di potere
per difetto di istruttoria e per travisamento dei fatti”.
Esso è fondato e deve essere pertanto accolto.
2. In particolare, i ricorrenti deducono l’illegittimità
dell’ordine di inibizione comunale, nel quale si ritiene
applicabile alla fattispecie l’art. 5 (erroneamente indicato
come art. 4 nel provvedimento) del Piano delle Regole (PdR)
del Piano di Governo del Territorio (PGT).
L’articolo in questione detta (al comma 4, cfr. doc. 2 dei
ricorrenti) la distanza minima dei fabbricati dai confini di
proprietà e di zona, disponendo che “in tutte le zone,
per gli interventi di nuova costruzione, ampliamento o
demolizione e ricostruzione di edifici esistenti, la
distanza minima dai confini di proprietà e di zona deve
essere pari alla metà dell’altezza massima dell’edificio (H)
e comunque non inferiore a m 5”.
Con il motivo, si assume quindi l'illegittimità del
provvedimento, poiché l’intervento non consisterebbe in una
nuova costruzione, in grado di generare nuova superficie
coperta e i proprietari non sarebbero quindi tenuti al
rispetto delle distanze da altri fabbricati previste dal PdR.
3. La doglianza è fondata.
Secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, che il
Collegio condivide, l'installazione di un ascensore
all'esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume
tecnico, necessaria per apportare un'innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr.
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 31.03.2020, n. 580; id.,
13.09.2018, n. 2065; id., Sez. I, 27.03.2018, n. 809; TAR
Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia, Milano,
II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
Ne discende che “la realizzazione di un ascensore non
concorre alla creazione di volume o di superficie aventi
rilievo in ambito edilizio, non generando tale opera un
autonomo carico urbanistico” (cfr. TAR Lombardia,
Milano, n. 580/2020 cit.).
Quindi la previsione contenuta nell'art. 5, comma 4, del
Piano delle Regole –che stabilisce le distanze dal confine
delle nuove costruzioni– non può essere applicata ai vani
ascensori, non essendo questi assimilabili alle nuove
costruzioni, tenuto anche conto che “ai sensi del
combinato disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n.
380/2001, le opere dirette all'abbattimento delle barriere
architettoniche possono essere realizzate in deroga alle
norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo
l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque,
applicabile in tali casi la previsione di cui all'articolo 9
del D.M. 1444/1968” (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
17.07.2019, n. 1659).
Stante l’infondatezza dell’unico argomento posto a base
dell’ordine di inibizione dei lavori, il provvedimento deve
essere annullato.
Si precisa inoltre che, nella fattispecie, è pacifico tra le
parti che l’opera non violi le distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile.
4. Va evidenziato infine che, solo nelle proprie memorie
difensive processuali, l’amministrazione comunale esplicita
per la prima volta che “l’elevatore previsto in progetto
non rispetta nemmeno le misure minime previste dall’art.
5.3.3 dell’allegato tecnico alla L.R. Lombardia 6/1989.
L’elevatore in progetto risulta, infatti, avere le seguenti
dimensioni di luce nella cabina: cm 120 di lunghezza e cm
105 di larghezza […]. La disposizione tecnica di cui alla
L.R. 6/1989 prevede che gli edifici ad uso residenziale
abitativo con più di 3 piani, come nel caso in esame posto
che anche il seminterrato costituisce livello, debbano
prevedere un ascensore con le conseguenti caratteristiche:
metri 1,30 di lunghezza, metri 0,90 di larghezza e porta a
scorrimento laterale, sul lato più corto, con una luce netta
di almeno 0,85 metri. In assenza di tali caratteristiche,
non può parlarsi di intervento volto al superamento delle
barriere architettoniche e, conseguentemente, si ritiene non
possa trovare applicazione la deroga alle distanze minime
previste dall’art. 19 della medesima legge regionale, a tale
scopo emanata. Per le motivazioni appena esposte, si ritiene
altresì, che non possa neppure essere applicata la deroga
prevista dall’art. 79 DPR 380/2001, non avendo l’intervento
di che trattasi le caratteristiche previste dalla normativa
per l’abbattimento barriere architettoniche”.
La presunta violazione delle misure minime previste
dall’art. 5.3.3 dell’allegato tecnico alla L.R. Lombardia n.
6/1989, in quanto affermata per la prima volta in sede di
memoria difensiva, costituisce un’integrazione della
motivazione del provvedimento impugnato, fondato invece su
diversi presupposti.
Come costantemente ritenuto dalla giurisprudenza
amministrativa, è inammissibile una integrazione postuma
della motivazione del provvedimento impugnato effettuata a
mezzo di scritti difensivi, in quanto la motivazione
costituisce contenuto insostituibile della decisione
amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata (cfr.,
ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. II, 06.05.2020,
n. 2860; TAR Lombardia, Sez. II, 03.08.2020, n. 1495).
5. La fondatezza dei rilievi assorbenti relativi
all’inapplicabilità dell’art. 5 del PdR, invocato nel
provvedimento, rendono superfluo l’esame delle ulteriori
argomentazioni sviluppate a sostegno dell’unico motivo di
ricorso, in quanto l’annullamento è integralmente
satisfattivo per i ricorrenti.
6. Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto e, per
l’effetto, l’ordinanza dirigenziale impugnata in epigrafe
deve essere annullata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.02.2021 n. 388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: intervento di ristrutturazione coinvolgente un
sottotetto da destinarsi a civile abitazione – differenze
rispetto al risanamento conservativo – installazione di
ascensore ai fini del superamento delle barriere
architettoniche – nozione di “intero edificio” – nozione di
“edificio” ai sensi del d.m. 236/1989 – parere (Legali
Associati per Celva,
nota 29.10.2020 - tratto da www.celva.it).
---------------
Il CELVA, per conto del Comune di Charvensod, ha
sottoposto all’attenzione dei consulenti quesito avente ad
oggetto l’applicazione della normativa in materia di
superamento ed eliminazione delle barriere architettoniche
per un intervento da effettuare su di un locale sito al
quarto livello fuori terra. (... continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
predisposizione dell’ascensore interno e del relativo vano
tecnico mediante bucature nei solai, potendo compromettere
la staticità del fabbricato, è sottoposta ad autorizzazione
del genio civile.
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4.2.2. In riferimento al quarto punto della
statuizione di diniego, ritiene poi la ricorrente che non
fosse necessaria l’autorizzazione della Regione Calabria, ex
Genio Civile, poiché gli interventi sarebbero classificabili
-ai sensi del punto 7, all. a), alla deliberazione della
Giunta regionale n. 12/2013- come opere c.d. minori,
realizzabili senza la preventiva autorizzazione ai fini
sismici, conseguendo a ciò la violazione dell’art. 94-bis,
comma 4, D.Lgs. n. 380/2001. Aggiunge l’esponente che in
sede di contraddittorio endoprocedimentale aveva comunque
rappresentato alla p.a. l’intenzione di ottemperare alla
richiesta, ove le deduzioni sul punto non fossero state
ritenute congrue ma l’Ente territoriale non ha invitato
l’interessata a munirsi di tale autorizzazione.
Le deduzioni vanno disattese.
La predisposizione dell’ascensore interno e del relativo
vano tecnico mediante bucature nei solai, invero, potendo
compromettere la staticità del fabbricato, è sottoposta ad
autorizzazione del genio civile (TAR Lazio, Sez. II-bis,
28.11.2018, n. 11553).
Né, sul piano procedimentale, può esigersi che lo spazio del
contraddittorio, cristallizzato nell’art. 10-bis L. n.
241/1990, possa essere integrato da un’ulteriore appendice
istruttoria -nella fattispecie coincidente con l’invito
rivolto al ricorrente ad ottenere l’autorizzazione sismica-
ove la p.a. ritenga non fondate le giustificazioni addotte
dall’istante (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 20.05.2020 n. 925 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore all'esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico.
Secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il
permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico,
necessaria per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una
costruzione strettamente intesa.
Ne discende che la realizzazione di un ascensore non concorre alla creazione
di volume o di superficie aventi rilievo in ambito edilizio, non generando
tale opera un autonomo carico urbanistico.
Quindi la previsione contenuta nell’art. 2, comma 3, del Piano delle Regole
–che definisce la superficie coperta– non può essere applicata ai vani
ascensori, non essendo questi assimilabili alle nuove costruzioni;
ugualmente non si può applicare il successivo comma 4, che disciplina le
distanze dal confine, tenuto conto che “ai sensi del combinato disposto
degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette
all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo
l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi la previsione
di cui all’articolo 9 del D.M. 1444/1968”.
Peraltro va pure precisato che il superamento delle barriere architettoniche
è finalizzato a rendere usufruibile l’immobile non soltanto da soggetti
affetti da un handicap in senso proprio e oggetto di formale riconoscimento,
ma può andare a beneficio anche di persone che per l’età avanzata o per
condizioni personali possono avere delle difficoltà ad accedere all’immobile
in questione.
---------------
L’obbligo di installare, in via preferenziale, un ascensore interno alla
sagoma dell’edificio, piuttosto che all’esterno della stessa, non è imposto
dall’art. 79 del D.P.R. n. 380 del 2001, il quale autorizza unicamente la
realizzazione delle opere finalizzate alla rimozione delle barriere
architettoniche in deroga alle distanze previste dai regolamenti edilizi,
salvo comunque il rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 cod.
civ. (ossia tre metri).
---------------
L’art. 77 del D.P.R. n. 380 del 2001, sebbene imponga la realizzazione
dell’ascensore in quei fabbricati con più di tre livelli fuori terra (comma
3, lett. d), non stabilisce affatto se lo stesso debba essere costruito
all’interno o all’esterno della sagoma dell’edificio, lasciando alla libera
valutazione degli interessati una tale scelta, purché la medesima sia
rispettosa delle prescrizioni normative, in cui vanno indubbiamente ricomprese quelle contenute nell’art. 79 del D.P.R. n. 380 del
2001 in ordine al rispetto delle distanze.
Del resto, l’art. 1 della legge n. 13 del 1989 prevede che “l’installazione,
nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per
ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini”,
mentre l’art. 3 del D.M. n. 236 del 1989 prevede che negli edifici
residenziali con non più di tre livelli fuori terra è consentita la deroga
all’installazione di meccanismi per l’accesso ai piani superiori, ivi
compresi i servoscala, purché sia assicurata la possibilità della loro
installazione in un tempo successivo.
Perciò, in ossequio alla normativa sopra richiamata, sia di carattere
primario che secondario, l’ascensore deve comunque essere installato in
tutti i casi in cui l’accesso alla più alta unità immobiliare sia posto
oltre il terzo livello, ivi compresi eventuali livelli interrati e/o
porticati.
---------------
2. Con il primo motivo si assume l’illegittimità del provvedimento
comunale che ha negato la possibilità di avviare l’intervento di
realizzazione dell’ascensore, poiché non si tratterebbe di una nuova
costruzione, in grado di generare nuova superficie coperta e tenuta altresì
al rispetto delle distanze da altri fabbricati, ma ci si troverebbe al
cospetto di un intervento di manutenzione straordinaria di cui all’art. 27,
comma 1, lett. b, della legge regionale n. 12 del 2005, non soggetto alle
disposizioni limitative di cui agli artt. 2, 4 e 22 dell’articolato del
Piano delle Regole del Comune di Seregno.
2.1. La doglianza è fondata.
Secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un
ascensore all’esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessaria
per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione
strettamente intesa (TAR Lombardia, Milano, II, 13.09.2018, n. 2065; I,
27.03.2018, n. 809; TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia,
Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
Ne discende che la realizzazione di un ascensore non concorre alla creazione
di volume o di superficie aventi rilievo in ambito edilizio, non generando
tale opera un autonomo carico urbanistico.
Quindi la previsione contenuta nell’art. 2, comma 3, del Piano delle Regole
–che definisce la superficie coperta– non può essere applicata ai vani
ascensori, non essendo questi assimilabili alle nuove costruzioni;
ugualmente non si può applicare il successivo comma 4, che disciplina le
distanze dal confine, tenuto conto che “ai sensi del combinato disposto
degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette
all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo
l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi la previsione
di cui all’articolo 9 del D.M. 1444/1968” (TAR Lombardia, Milano, II,
17.07.2019, n. 1659).
Peraltro va pure precisato che il superamento delle barriere architettoniche
è finalizzato a rendere usufruibile l’immobile non soltanto da soggetti
affetti da un handicap in senso proprio e oggetto di formale riconoscimento,
ma può andare a beneficio anche di persone che per l’età avanzata o per
condizioni personali possono avere delle difficoltà ad accedere all’immobile
in questione (cfr. Consiglio di Stato, VI, 09.03.2020, n. 1682; 18.10.2017, n. 4824; TAR Lombardia, Milano, II, 17.07.2019, n. 1659).
In ragione di quanto evidenziato, risulta irrilevante, in relazione alla
fattispecie oggetto di controversia, l’applicazione dell’art. 22 delle
N.T.A., che, con riferimento al Tessuto storico, microtessuto
polifunzionale, non pone alcuna limitazione agli interventi fino alla
ristrutturazione edilizia conservativa, all’interno dei quali va certamente
ricompresa anche la realizzazione di un vano tecnico qual è l’ascensore
esterno.
2.2. Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere accolto.
3. Con la seconda e la terza doglianza, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità
del diniego comunale nella parte in cui lo stesso avrebbe erroneamente
qualificato come irreversibile la scelta della ricorrente di non realizzare
l’ascensore all’interno della sagoma dell’edificio in occasione di una
recente attività di ristrutturazione, indirettamente avvalorato, secondo la
prospettazione comunale, dall’impegno assunto nel 2006 dal tecnico di parte,
in ordine alla realizzazione di una piattaforma mobile-servoscala per
garantire la futura accessibilità al piano sottotetto dell’immobile; nemmeno
potrebbero giustificare il provvedimento impugnato i dinieghi relativi alle
precedenti dd.ii.aa. (datate 19.05. e 09.11.2015), stanti le differenti
motivazioni ed istruttorie poste a fondamento degli stessi.
3.1. Le doglianze sono complessivamente fondate.
In primo luogo, non assume alcun rilievo la circostanza che la società
ricorrente non abbia ritenuto di realizzare l’ascensore in occasione della
ristrutturazione edilizia dell’immobile, conclusasi nel mese di ottobre
2013. L’obbligo di installare, in via preferenziale, un ascensore interno
alla sagoma dell’edificio, piuttosto che all’esterno della stessa, non è
imposto dall’art. 79 del D.P.R. n. 380 del 2001, il quale autorizza
unicamente la realizzazione delle opere finalizzate alla rimozione delle
barriere architettoniche in deroga alle distanze previste dai regolamenti
edilizi, salvo comunque il rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e
907 cod. civ. (ossia tre metri).
Al proposito non risulta perspicuo il richiamo effettuato dalla difesa del
Comune ad un precedente di questa Sezione –sentenza 03.07.2015, n. 1541– nel
quale si è affermata la possibilità di derogare ai Regolamenti edilizi
soltanto in assenza di alternative valide ed effettivamente praticabili;
appare evidente che, in applicazione del criterio gerarchico nella
risoluzione delle antinomie tra le fonti del diritto, una tale affermazione
non può riferirsi al caso in cui vi sia, come nella fattispecie de qua, una
norma primaria (art. 79 del D.P.R. n. 380 del 2001) che introduce, in via
espressa, una deroga alla normativa sulle distanze e non richiede la
sussistenza di ulteriori presupposti, quali tra gli altri, ad esempio,
l’assenza di valide alternative a quelle che la normativa consente di porre
in essere ordinariamente.
Del resto, porre delle limitazioni
all’applicabilità della legge in virtù di previsioni contenute in un
regolamento locale non risulta possibile (art. 1 Preleggi), tranne che la
stessa legge non consenta una tale deroga (cfr., in maniera esplicita, art.
873 cod. civ.).
Per tali ragioni e in aderenza con quanto sostenuto dalla difesa della
ricorrente, non appare condivisibile la statuizione della Corte d’Appello di
Milano che, con la sentenza n. 4138/2013 (all. 15 del Comune), confermativa
della pronuncia del Tribunale di Monza n. 653/2012, ha ritenuto che la
possibilità di realizzazione di un ascensore all’interno dell’immobile
–sussistente all’atto dei lavori di ristrutturazione– precludesse la
costruzione dello stesso all’esterno, così da evitare la compromissione del
diritto del proprietario dell’immobile prospiciente.
3.2. Ugualmente non appare dirimente la circostanza che il tecnico di parte
si fosse impegnato nel 2006 a realizzare, in alternativa all’ascensore, una
piattaforma mobile, visto che su impulso dello stesso Comune –che aveva
ritenuto necessaria l’installazione di un ascensore al fine di superare le
barriere architettoniche–, nel 2007 il legale rappresentante della
ricorrente si era assunto, in via unilaterale, l’impegno a realizzare un
vano ascensore all’esterno dell’immobile di Corso del Popolo n. 85 (cfr.
all. 13 del Comune), poi demolito all’esito della vertenza civile culminata
con la sopra citata sentenza della Corte d’Appello.
Infine, l’art. 77 del D.P.R. n. 380 del 2001, sebbene imponga la
realizzazione dell’ascensore in quei fabbricati con più di tre livelli fuori
terra (comma 3, lett. d), non stabilisce affatto se lo stesso debba essere
costruito all’interno o all’esterno della sagoma dell’edificio, lasciando
alla libera valutazione degli interessati una tale scelta, purché la
medesima sia rispettosa delle prescrizioni normative, in cui vanno
indubbiamente ricomprese quelle contenute nell’art. 79 del D.P.R. n. 380 del
2001 in ordine al rispetto delle distanze.
Del resto, l’art. 1 della legge n. 13 del 1989 prevede che “l’installazione,
nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per
ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini”,
mentre l’art. 3 del D.M. n. 236 del 1989 prevede che negli edifici
residenziali con non più di tre livelli fuori terra è consentita la deroga
all’installazione di meccanismi per l’accesso ai piani superiori, ivi
compresi i servoscala, purché sia assicurata la possibilità della loro
installazione in un tempo successivo.
Perciò, in ossequio alla normativa
sopra richiamata, sia di carattere primario che secondario, l’ascensore deve
comunque essere installato in tutti i casi in cui l’accesso alla più alta
unità immobiliare sia posto oltre il terzo livello, ivi compresi eventuali
livelli interrati e/o porticati (cfr., per l’identica situazione di fatto,
TAR Lombardia, Milano, I, 27.03.2018, n. 809).
3.3. Infine, come ammesso pure dalla difesa del Comune, il provvedimento
impugnato, rispetto ai precedenti dinieghi, si pone alla stregua di un atto
di conferma in senso proprio, poiché è stato adottato a seguito di una
rinnovata istruttoria e di un riesame della fattispecie e contiene una
motivazione parzialmente differente: è su quest’ultimo quindi che si
concentra l’interesse concreto e attuale della parte ricorrente ad una
decisione di merito (cfr., sul regime processuale dell’atto confermativo in
senso proprio rispetto a quello dell’atto meramente confermativo, Consiglio
di Stato, IV, 27.01.2017, n. 357; TAR Lombardia, Milano, II, 09.12.2019, n.
2628; 10.05.2018, n. 1242).
3.4. La fondatezza delle suesposte censure rende irrilevante l’esame del
rilievo formulato sia in sede di memoria che di richiesta di riesame da
parte della ricorrente, ossia l’asserita disparità di trattamento operata
dal Comune nei confronti della ricorrente rispetto ad una fattispecie
similare a quella oggetto di contenzioso (cfr. all. 2 al ricorso).
4. La fondatezza delle scrutinate doglianze determina l’accoglimento del
ricorso e l’annullamento del diniego comunale impugnato nella presente sede
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 31.03.2020 n. 580 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la condivisibile giurisprudenza della Corte di Cassazione, l'installazione
di un ascensore all’esterno di un condominio rientra tra quelle realizzabili
su iniziativa del singolo condomino ai sensi dell’art. 1102 c.c..
Le opere necessarie per eliminare le barriere architettoniche sono di
fondamentale importanza per la vivibilità dell'appartamento con la
conseguenza che nel valutare la legittimità o meno dell'installazione di un
ascensore nel vano scale da parte del singolo condominio si deve tenere
conto del principio di solidarietà, secondo il quale la coesistenza di più
unità immobiliari in un unico fabbricato implica di per sé il
contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è
propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali deve
includersi anche quello delle persone disabili.
L'ascensore, pertanto, rappresenta un'opera volta a superare le barriere
architettoniche e il singolo condomino può assumersi interamente il costo
della relativa costruzione purché siano rispettati i limiti previsti
dall'art. 1102 c.c.. Tanto che l’installazione di un ascensore e la
conseguente modifica delle parti comuni non possono essere impediti per una
disposizione del regolamento condominiale che subordini l'esecuzione
dell'opera stessa all'autorizzazione del condominio.
---------------
Del pari non merita condivisione il ragionamento operato dal primo giudice
in ordine alla presunta assenza dei requisiti soggettivi di disabilità in
capo ad almeno uno dei proprietari richiedenti.
Invero, deve rilevarsi, da un lato, che la legge n. 13 del 1989, non
richiede la presenza di un portatore di handicap all'interno del condominio,
dall’altro, che i soggetti destinati a beneficiare dell'abbattimento
o della riduzione delle barriere architettoniche, non sono solo i mutilati
ed invalidi civili, ma tutti coloro che, per qualsiasi causa, hanno una
capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea.
---------------
2. Il giudice di prime cure dichiarava improcedibile il ricorso
introduttivo, respingeva le domande risarcitorie e accoglieva il ricorso per
motivi aggiunti.
In relazione a quest’ultima pronuncia, premetteva che l’installazione di un
ascensore all’esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, ma precisava che l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza dei condomini
dello stabile interessato, come previsto dalla normativa civilistica in
materia di innovazioni condominiali (art. 1120 cod. civ.), non risultando
provato che le controinteressate siano comproprietarie della metà
dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore.
Inoltre, il primo giudice evidenziava come non emerge con certezza e in
maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in capo ad
almeno una di esse per l’applicazione della normativa volta al superamento
delle barriere architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio
(all. 3 del Comune), oltre a non essere stato rilasciato da una struttura
sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della condizione di
disabilità, non risulta nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in
occasione della presentazione della d.i.a. in data 12.07.2004.
L’amministrazione comunale secondo il primo giudice non avrebbe svolto
un’adeguata istruttoria.
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti attraverso la diffida
del 22.02.2016 avrebbe imposto allo Sportello Unico edilizio di verificare
l’effettiva sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo.
...
9. Innanzitutto, infatti, non può condividersi quanto sostenuto dal primo
giudice in relazione al fatto che l’intervento edilizio in questione non
potesse prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza dei
condomini dello stabile interessato, come previsto dalla normativa
civilistica in materia di innovazioni condominiali (art. 1120 cod. civ.).
Secondo la condivisibile giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. da
ultimo, Cass. civ., Sez. II, 12.03.2019, n. 7028) l’opera in questione
rientra tra quelle realizzabili su iniziativa del singolo condomino ai sensi
dell’art. 1102 c.c.. Le opere necessarie per eliminare le barriere
architettoniche sono di fondamentale importanza per la vivibilità
dell'appartamento con la conseguenza che nel valutare la legittimità o meno
dell'installazione di un ascensore nel vano scale da parte del singolo
condominio si deve tenere conto del principio di solidarietà, secondo il
quale la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato implica
di per sé il contemperamento, al fine dell'ordinato svolgersi di quella
convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i
quali deve includersi anche quello delle persone disabili.
L'ascensore, pertanto, rappresenta un'opera volta a superare le barriere
architettoniche e il singolo condomino può assumersi interamente il costo
della relativa costruzione purché siano rispettati i limiti previsti
dall'art. 1102 c.c.
Tanto che l’installazione di un ascensore e la conseguente modifica delle
parti comuni non possono essere impediti per una disposizione del
regolamento condominiale che subordini l'esecuzione dell'opera stessa
all'autorizzazione del condominio (Cass. civ., Sez. II, 05.12.2018, n.
31462).
10. Del pari non merita condivisione il ragionamento operato dal primo
giudice in ordine alla presunta assenza dei requisiti soggettivi di
disabilità in capo ad almeno uno dei proprietari richiedenti.
In disparte la questione dell’effettiva presenza della, per il vero quasi
inesistente, censura all’interno del ricorso per motivi aggiunti, deve
rilevarsi, da un lato, che la legge n. 13 del 1989, non richiede la
presenza di un portatore di handicap all'interno del condominio,
dall’altro, che i soggetti destinati a beneficiare dell'abbattimento o
della riduzione delle barriere architettoniche, non sono solo i mutilati ed
invalidi civili, ma tutti coloro che, per qualsiasi causa, hanno una
capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea.
Pertanto, la situazione documentata dall’amministrazione comunale già in
prime cure risulta sufficiente a ritenere che uno dei proprietari
richiedenti versasse nella condizione soggettiva per ottenere il titolo
edilizio de quo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.03.2020 n. 1682 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di
volume tecnico, non computabile nel calcolo della volumetria
massima consentita, può essere applicata solo con
riferimento ad opere edilizie completamente prive di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinate a contenere impianti serventi di una costruzione
principale, per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione stessa.
Si tratta, in particolare, di impianti necessari per
l’utilizzo dell’abitazione, che non possono essere ubicati
all’interno di essa, connessi alla condotta idrica, termica,
ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di
volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare
rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella
realtà fisica.
Sicché, nel caso di specie è pacifico che il locale
sottotetto non si configuri alla stregua di un locale
tecnico, a prescindere dalla presenza o meno, all’attualità,
di un collegamento con i vani sottostanti, essendo
potenzialmente suscettibile di autonoma utilizzazione,
considerate le dimensioni (per superficie e volume) e il
fatto che non risulta specificamente destinato a esigenze
tecnico-funzionali dell’immobile che non possono essere
diversamente soddisfatte, bensì è idoneo ad assolvere a
funzioni diverse, e.g. deposito di materiali.
In ogni caso, «tenuto conto del testo e della ratio
dell’art. 167 [del d.lgs. n. 42/2004], nella prospettiva
della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine
di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo».
---------------
Secondo consolidata
giurisprudenza, «la nozione di volume tecnico, non
computabile nel calcolo della volumetria massima consentita,
può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa; si tratta, in
particolare, di impianti necessari per l’utilizzo
dell’abitazione, che non possono essere ubicati all’interno
di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore
ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici
al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza
giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica»
(Cons. di Stato, VI, sent. n. 5428/2014).
Nel caso di specie è pacifico, alla luce della definizione
sopra riportata, che il locale sottotetto non si configuri
alla stregua di un locale tecnico, a prescindere dalla
presenza o meno, all’attualità, di un collegamento con i
vani sottostanti, essendo potenzialmente suscettibile di
autonoma utilizzazione, considerate le dimensioni (per
superficie e volume) e il fatto che non risulta
specificamente destinato a esigenze tecnico-funzionali
dell’immobile che non possono essere diversamente
soddisfatte, bensì è idoneo ad assolvere a funzioni diverse,
e.g. deposito di materiali.
In ogni caso, «tenuto conto del testo e della ratio
dell’art. 167 [del d.lgs. n. 42/2004], nella prospettiva
della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine
di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo» (Cons. di Stato, VI,
sent. n. 5066/2012).
Nella specie, l’ampliamento del preesistente sottotetto si è
sostanziato in una sopraelevazione (con incontestato aumento
dell’altezza dell’immobile al colmo) che ha comportato un
incremento volumetrico dell’immobile e, dal punto di vista
visivo, ha determinato una alterazione dei prospetti
dell’edificio
(TAR Campania-Napoli, Sez.
VII,
sentenza 24.02.2020 n. 837 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
anno 2019 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per
apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente
intesa.
---------------
Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad
hoc di competenza ministeriale.
---------------
Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva
che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente
allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente
ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA
presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto
a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato
dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario
per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione
strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134;
TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi
di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto
mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle
dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della
deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto
controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze
di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella”
nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
esterno, meno vincoli. Impianto anti-barriere a meno di 10 metri dalle
finestre. La giurisprudenza: opere che eliminano ostacoli architettonici
realizzabili in deroga alle norme.
Sì all'ascensore esterno all'edificio da costruire
molto vicino alle finestre degli appartamenti. E ciò perché le opere che
eliminano le barriere architettoniche ben possono essere realizzate in
deroga ai regolamenti e agli atti di normazione primaria, dunque anche
all'art. 9 del dm 1444/1968 che prescrive la «distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate». Il tutto grazie alla sentenza
costituzionale 251/2008, che ha indicato i problemi dei diversamente abili
come «nodi dell'intera collettività».
È quanto emerge dalla
sentenza 17.07.2019 n. 1659
pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Combinato disposto.
Accolto il ricorso dell'invalido dopo che il dirigente dello sportello unico
per l'edilizia del Comune ha bloccato la Scia per la realizzazione
dell'impianto di sollevamento.
L'anziano, che vive al quarto piano con la
moglie, risulta inabile al lavoro al 35% ed è disponibile a realizzare un servoscala: risulta impossibile portare la cabina al livello del
pianerottolo. Sbaglia l'ente locale quando nega il titolo abilitativo in
deroga alla distanza tra pareti finestrate.
Non c'è dubbio che anche
l'ascensore esterno sia un'opera che abbatte le barriere architettoniche, al
di là del fatto che sia un disabile a servirsene. E dopo l'intervento della
Consulta deve ritenersi che il combinato disposto degli articoli 78 e 79 del
Tu per l'edilizia consenta di realizzare anche l'impianto esterno al di là
delle distanze previste dai regolamenti e pure dall'art. 9 del dm 1444/1968, a
patto che siano rispettate quelle indicate dagli articoli 873 e 907 c.c.
Non
conta che l'ascensore serva un solo piano dell'edificio: si può fare in modo
che l'impianto risulti utile anche ad altri.
Senza discrezionalità.
Possono derogare alle distanze dei regolamenti edilizi non solo gli impianti
tecnologici ma anche i volumi tecnici per favorire la mobilità dei disabili:
sono opere che consentono di superare le barriere architettoniche. Via
libera, dunque, al progetto che prevede sia l'ascensore sia la scala esterni
all'immobile realizzati in deroga alle norme sulle distanze minime tra
fabbricati previste dai regolamenti edilizi.
È quanto emerge dalla
sentenza
27.03.2018 n. 809, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Bocciato il ricorso del vicino: lecito il piano che prevede la realizzazione
dei manufatti che si trovano a nove metri invece di dieci rispetto alla
costruzione confinante. Parla chiaro il dm 236/1989 all'articolo 2, lettera
A), punti a) e b): sono barriere architettoniche gli ostacoli fisici che
costituiscono fonte di disagio per la mobilità di chiunque e in particolare
per chi ha capacità motoria ridotta o impedita.
L'intervento è realizzato
proprio per adeguare l'edificio di tre piani alla normativa pro disabili:
accanto alla costruzione dell'ascensore e della scala esterna sono demolite
le vecchie scale condominiali interne troppo strette per montare il servoscala. In tal caso è automatica e specifica la deroga alle distanze fra
costruzioni previste dagli strumenti urbanistici, senza la necessità di
valutazioni discrezionali da parte dell'amministrazione.
Ma devono essere
rispettate le distanze ex articoli 873 e 907 Cc. Il confinante non riesce a
dimostrare che vi sarebbero valide alternative al progetto presentato né che
i manufatti costituirebbero un'ingiusta servitù a carico della sua
proprietà: l'art. 79 del Tu dell'edilizia non esclude il principio di
reciprocità nell'applicazione della normativa in deroga al regime sulle
distanze.
Bilanciamento inadeguato.
Il legislatore guarda con favore alle persone che hanno difficoltà a
muoversi. Basta la Scia per realizzare in condominio l'ascensore che serve a
superare le barriere: il permesso di costruire è superfluo perché l'impianto
rappresenta un mero volume tecnico. Il Comune non può bocciare il progetto
dell'ente sul rilievo che non rispetta le dimensioni minime senza verificare
se c'è possibilità di deroga o suggerire alternative.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.01.2019 n. 175 del TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Il ricorso del condominio viene accolto
perché risulta insufficiente la motivazione del provvedimento di stop. Da
una parte la Scia è sufficiente in quanto l'ascensore serve ad apportare
un'innovazione allo stabile che non costituisce una costruzione in senso
stretto; dall'altra l'amministrazione viene meno alla necessità di un
bilanciamento fra l'interesse pubblico all'osservanza della normativa di
riferimento e l'interesse del condominio a limitare l'impatto delle barriere
architettoniche.
È lo stesso dm 236/1986, nel dare attuazione alla legge
13/1989, a prescrivere che l'ascensore vada installato negli edifici con più
di tre livelli. E l'articolo 7.5 autorizza il sindaco del Comune a concedere
una deroga quando per motivi strutturali l'impianto non può rispettare gli
standard dimensionali prescritti. Insomma: l'ente deve motivare in modo
rigoroso le condizioni che impediscono l'installazione nel vano scale.
Bene primario.
Il
Comune non può limitarsi a stoppare i lavori se la Scia per l'ascensore a
spese del disabile risulta protocollata da più di un mese: è invece tenuto a
ricorrere all'autotutela perché il titolo deve ritenersi consolidato.
L'autorizzazione al progetto non può essere ostacolata dalle questioni di
natura privatistica poste dai condomini contro la realizzazione
dell'impianto. Anzi, la giurisprudenza della Cassazione richiede «attenzione
civile» nei confronti delle persone con problemi di deambulazione che si
fanno carico delle spese laddove l'elevatore può attenuare la loro
condizione di disagio.
È quanto emerge dalla
sentenza 07.01.2019 n. 9, pubblicata
dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della signora con difficoltà di movimento che abita al
terzo piano e vuole realizzare l'impianto nel pozzo della luce condominiale.
Alcuni proprietari esclusivi lamentano che ne sarebbe compromesso il loro
godimento delle parti comuni dell'edificio perché la cabina può limita la
visibilità e toglie aria al cavedio. Ma sono doglianze da rivolgere al
giudice civile. E in ogni caso è l'inerzia dell'amministrazione che consente
al privato di eseguire l'intervento edilizio in base all'art. 23, comma 6, dpr 380/2001: per un solo giorno di ritardo il provvedimento dell'ente locale
risulta illegittimo.
L'istruttoria degli uffici, poi, è lacunosa: non
emergono elementi secondo i quali l'ascensore può incidere su stabilità e
sicurezza dell'edificio, mentre la relazione tecnica di parte attesta il
contrario. E soprattutto le sentenze di legittimità sono dalla parte delle
opere che agevolano la fruizione del bene primario dell'abitazione da parte
di chi si trova in condizioni di disabilità.
Pregiudizio e serietà.
Il favore del legislatore vuol dire anche meno vincoli. La Soprintendenza
non può bocciare il progetto dell'ascensore esterno che serve alla persona
anziana solo perché la realizzazione dell'impianto in cortile può arrecare
un pregiudizio all'immobile vincolato: la legge contro le barriere
architettoniche impone all'amministrazione di valutare i rischi che corre il
bene tutelato considerando anche la situazione del richiedente, che ha
problemi di mobilità.
È quanto emerge dalla
sentenza
25.09.2018 n. 9557,
Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso della signora che chiede di installare l'elevatore nel
cortile di un edificio di pregio nel centro storico della Capitale.
La
vicenda è finita al Consiglio di stato che ha annullato il parere negativo Mibact: in seguito le Belle Arti si dichiarano disponibili a valutare
l'installazione di un montascale invece che dell'ascensore.
Il punto è che
in base al regolamento di attuazione della legge 13/1989 il primo tipo
d'impianto non equivale al secondo: può essere utilizzato come alternativa
solo negli interventi di adeguamento o per superare modeste differenze di
quota. Soprattutto l'amministrazione non effettua alcun bilanciamento degli
interessi: troppo generico il riferimento alle dimensioni del cortile e alle
aperture esistenti, mentre non risulta spesa una parola sulla salute della
richiedente.
Normativa di favore anche per le persone non disabili ma solo anziane con
disagi fisici e difficoltà motorie: l'amministrazione deve verificare la
serietà del pregiudizio all'immobile e l'impatto del progetto rispetto al
fabbricato in relazione alle esigenze di tutela richieste dall'interessata.
Insomma: i vincoli non possono essere superati in automatico ma il Mibac
deve motivare in modo adeguato il diniego
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.08.2019). |
anno 2018 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
in cortile, più tutele. Condomino risarcito se l’installazione toglie luce e
aria. La Cassazione su una fattispecie ante riforma
applicabile anche nel nuovo regime.
Il proprietario di un immobile può sempre chiedere il risarcimento del danno
al condominio per l'ascensore installato in cortile se questo toglie aria e
luce al suo appartamento e lo priva dei diritti su una parte comune
dell'edificio. L'azione di risarcimento, infatti, è un'opzione del tutto
autonoma rispetto alla richiesta di demolizione e non è subordinata
all'impugnazione della delibera, dal momento che la decisione che ha
disposto la realizzazione del manufatto è nulla e la sua invalidità può
essere rilevata d'ufficio dal giudice.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.09.2018 n. 23076 della
II Sez. civile della Corte di Cassazione che è
intervenuta in una fattispecie anteriore alla riforma del condomino ma che,
in base all'ultimo comma dell'articolo 1120 del cc, trova applicazione anche
nel nuovo regime.
Il caso. Una
signora ha convenuto in giudizio il condominio chiedendo il risarcimento dei
danni subiti a causa della realizzazione di un ascensore nella corte interna
dell'edificio, danno consistente nella riduzione di aria e luce al suo
appartamento posto al piano terra e nell'impedimento all'uso di una
rilevante porzione della corte occupata dalla nuova struttura.
I giudici di
merito hanno respinto la domanda sul presupposto che le delibere che avevano
deciso l'installazione dell'impianto di ascensore non erano state impugnate.
La vertenza è così giunta in Cassazione.
Le motivazioni. I
giudici di legittimità hanno ricordato che l'installazione di un ascensore
su area comune costituisce innovazione che è vietata se rende talune parti
comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo
condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo
l'originaria costituzione della comunione.
Tale concetto di inservibilità non può consistere nel semplice disagio
subito ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis
secondo la sua naturale fruibilità, ovvero dalla sensibile menomazione
dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene.
Nella
specie, la ricorrente affermava che la realizzazione dell'impianto di
ascensore le aveva impedito di far uso di una rilevante porzione di tale
area comune e le aveva altresì ridotto sensibilmente la luce e l'aria
fruibili dal suo appartamento. La delibera dell'assemblea, pertanto, ha
affermato la Cassazione, avendo leso i diritti individuali del singolo,
doveva essere considerata nulla e non semplicemente annullabile.
L'irrilevanza della preventiva impugnazione.
La nullità di una delibera condominiale comporta che la stessa, a differenza
delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva
impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall'articolo 1137 del
codice civile.
Una deliberazione nulla non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata
nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i
partecipanti. Un conto, infatti, sono le delibere annullabili e un altro le
nulle: nel primo caso l'amministratore è tenuto a darvi attuazione fino a
quando non sono rimosse con l'accoglimento dell'impugnazione; nel secondo
non sorge in capo all'organo di gestione il potere-dovere di eseguire la
decisione e la nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice, come
avviene per i contratti ex articolo 1421 Cc, quando l'invalidità rientra fra
gli elementi costitutivi della domanda su cui bisogna decidere.
L'accertamento dell'invalidità, in sostanza, è pregiudiziale rispetto al
risarcimento soltanto in caso di delibere annullabili ma non vale nei casi
di nullità.
Il principio. La
Suprema corte, alla luce di quanto sopra indicato, ha formulato il principio
di diritto secondo cui la delibera dell'assemblea di condominio, che privi
un singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune
dell'edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso,
integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino
medesimo; quest'ultimo, lamentando la nullità della suddetta delibera, ha
perciò la facoltà di chiedere una pronuncia di condanna del condominio al
risarcimento del danno, dovendosi imputare alla collettività condominiale
gli atti compiuti e l'attività svolta in suo nome, nonché le relative
conseguenze patrimoniali sfavorevoli, e rimanendo il singolo condomino
danneggiato distinto dal gruppo ed equiparato a tali effetti a un terzo.
Essendo la nullità della delibera dell'assemblea fatto ostativo
all'insorgere del potere-dovere dell'amministratore di eseguire la stessa,
l'azione risarcitoria del singolo partecipante nei confronti del condominio
è ravvisabile non soltanto come scelta subordinata alla tutela demolitoria
ex articolo 1137 del codice civile, ma anche come opzione del tutto
autonoma.
La rimozione del manufatto che viola la privacy.
L'ascensore esterno al palazzo può «inciampare» però anche nella violazione
della privacy. Infatti una struttura realizzata davanti alle finestre di un
appartamento va rimossa se limita la proprietà immobiliare di un altro
condomino quanto a soleggiamento, aerazione e, soprattutto, riservatezza.
Ad affermarlo anche questa volta è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 23.10.2017 n. 24972 che ha respinto il ricorso di una donna chiamata in
giudizio dalla proprietaria dell'appartamento sottostante per aver
realizzato un ascensore esterno al fabbricato.
La limitazione della proprietà.
Secondo i giudici di legittimità l'installazione dell'ascensore aveva
prodotto una grave limitazione della proprietà della ricorrente, costretta a
tenere spesso le finestre chiuse per non subire «intrusioni visive».
Inoltre
la scomparsa del coniuge della controparte, portatore di handicap motorio,
aveva determinato l'inesistenza di quella «situazione esistenziale» che si
voleva porre a fondamento della legittimità dell'installazione
dell'ascensore.
Né migliore fortuna poteva avere la circostanza che in precedenza era stata
piantata nello stesso luogo una siepe, dal momento che, ha concluso la
Cassazione, l'aver piantato una siepe è cosa ben diversa dalla realizzazione
di un ascensore.
Stop all'ascensore che ostacola i traslochi.
È da annullare inoltre la delibera condominiale che approva i lavori di
installazione di un ascensore nel palazzo se l'opera impedisce anche a un
solo condomino i trasporti di mobili o un trasloco.
L'impianto sicuramente aumenta la comodità d'uso e valorizza l'immobile ma
non si può realizzare quando riduce l'utilità ricavata dal singolo
proprietario.
A stabilirlo è stato il Tribunale di Roma con la sentenza
n. 379/2018 della V Sez. civile secondo il quale non esiste un diritto
assoluto a costruire l'ascensore.
Una compromissione ingiustificata.
Per stabilire che l'opera non era fattibile è bastata una perizia che ha
accertato l'esistenza di spazi angusti una volta realizzata l'opera.
Nel
caso in esame le scale dell'edificio avevano un andamento circolare e il
progetto ne riduceva la larghezza a soli ottanta centimetri.
In questo modo uno dei condomini sarebbe stato «prigioniero» in casa, senza
la possibilità di farsi consegnare un frigorifero o un letto nuovo e,
dunque, il progetto va rifatto perché compromette in modo eccessivo e non
giustificabile il diritto del singolo proprietario esclusivo, anche se
l'installazione dell'impianto ben può comportare alcune limitazioni sulle
parti comuni del palazzo.
Gli interventi consentiti a spese di uno solo.
Non tutte le installazioni degli ascensori sono però contrarie alla legge o
necessitano del consenso della maggioranza condominiale.
Non può infatti
essere demolito il vano ascensore realizzato in cortile a spese di un solo
proprietario, senza il consenso degli altri, quando l'opera non pregiudica i
diritti di godimento altrui sulle parti comuni.
A stabilirlo è stata la
Corte di Cassazione con la sentenza 12.10.2017 n. 23995
(articolo ItaliaOggi Sette del 08.10.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla realizzazione,
in facciata comune dell’edificio, di un ascensore esterno
con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio
appartamento.
Secondo
il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione
di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il
permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un
volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza
dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla
normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali
(art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che
“1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da
attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
---------------
Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare
le barriere architettoniche negli edifici privati è
necessario il voto favorevole di tanti condomini che
rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr.
art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136
c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che
le controinteressate siano comproprietarie della metà
dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e
soprattutto non emerge con certezza e in maniera
inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in
capo ad almeno una di esse per l’applicazione della
normativa volta al superamento delle barriere
architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio,
oltre a non essere stato rilasciato da una struttura
sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della
condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso
nella documentazione prodotta in occasione della
presentazione della d.i.a..
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto
dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione
alla normativa che regola l’attività amministrativa in
materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo
l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
---------------
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti
attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo
Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva
sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso
Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016.
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa
alla eliminazione delle barriere architettoniche avrebbe
richiesto agli Uffici comunali un supplemento di
istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata
dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione
dell’ascensore.
---------------
... per l'annullamento, quanto al ricorso per motivi
aggiunti:
- della nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e
ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore
d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di
Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data
22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 –
realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in
Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida
ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio
delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001,
inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel
territorio comunale” non è stata ravvisata “la
sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della
vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori
relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de
quo agitur”;
...
I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento sito al
piano terra del predetto immobile, mentre le
controinteressate -OMISSIS- sono comproprietarie del primo
piano e del sottotetto, situati sempre nel medesimo
fabbricato; queste ultime hanno realizzato sulla facciata
comune dell’edificio, prospetto nord, un ascensore esterno
con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio
appartamento, da cui sarebbe derivato il totale accecamento
di una finestra al servizio dell’atrio comune e la sensibile
diminuzione dell’aerazione e dell’illuminazione della scala
comune.
Tale intervento edilizio, avviato con una d.i.a. del 2004 e
seguito da due istanze di sanatoria nel 2012 e nel 2016, a
giudizio dei ricorrenti sarebbe privo dei presupposti di
legge, in quanto realizzato in assenza di idoneo titolo
edilizio oltre che del consenso dei predetti ricorrenti,
quali comproprietari delle parti comuni del fabbricato cui
afferisce l’ascensore esterno.
Con una diffida datata 22.02.2016, il legale dei ricorrenti
ha invitato il Comune ad intervenire per annullare il titolo
edilizio, rigettare la richiesta di sanatoria e disporre la
riduzione in pristino di quanto realizzato illegittimamente.
Con atto datato 04.10.2016, il Comune di Lecco ha
riscontrato tale diffida, evidenziando come “dall’esame
della originaria pratica edilizia –Denuncia di inizio
attività in data 12/07/2004, prot. n. 29757– non risulta che
l’intervento effettuato abbia previsto <<il totale
accecamento di una finestra a servizio dell’atrio comune>>
essendo invece rappresentata la realizzazione del nuovo vano
ascensore sul fronte nord–ovest previo ampliamento delle
finestre esistenti su tale facciata”; è stato altresì
affermato che “la denuncia -titolo edilizio da ritenersi
idoneo per la realizzazione dell’intervento essendo
inquadrabile nella fattispecie dell’art. 22, comma 3, lett.
a), del D.P.R. 380/2001– risultava corredata dalla
dichiarazione di proprietà resa ai sensi dell’art. 47 del
D.P.R. 445/2000”; infine, è stata fatta riserva di “valutare
i presupposti per procedere all’annullamento in autotutela
della SCIA in data 24/02/2016, prot. n. 14670, in
conseguenza dell’esito delle verifiche sopra citate e
relativamente alla sussistenza o meno del titolo giuridico
di disponibilità ex art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 da
valutarsi anche con riferimento alla necessità o meno di
consenso di tutti i proprietari per la realizzazione di
interventi volti alla eliminazione di barriere
architettoniche a favore di soggetti portatori di
minorazioni fisiche”.
...
2. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data
23.05.2017 e depositato il 19 giugno successivo, i
ricorrenti hanno altresì impugnato la nota prot. n. 15283/16
datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il
28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del
Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad
oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente
pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore
esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di
significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”,
con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate
dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza
sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale”
non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali
da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione
di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione
dell’ascensore esterno de quo agitur”.
A sostegno del ricorso sono stati dedotti, in primo luogo,
vizi di invalidità derivata rispetto alla nota dirigenziale
del 04.10.2016, già impugnata con il ricorso introduttivo.
Successivamente –sulla natura di “volume tecnico” e/o
“privo di autonomia funzionale” dell’ascensore
esterno realizzato dalle controinteressate e sulla
possibilità di soluzioni alternative e meno
impattanti/invasive (ad es. montascale interno)– sono stati
dedotti la violazione e/o falsa applicazione dei principi
normativi ed urbanistico-edilizi generali in tema di “volume
tecnico”, in particolare degli artt. 3, 6, comma 1,
lett. b, e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 in tema di edilizia
libera, della vigente disciplina in tema di abbattimento
delle barriere architettoniche e in particolare degli artt.
2, 3, 7 e 8 della legge n. 13 del 1989, dell’art. 24 della
legge n. 104 del 1992, degli artt. 11, commi 1-3, e 23,
comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 3 della legge
n. 241 del 1990 e degli artt. 1102, 1120 e 1121 cod. civ.
Inoltre –con riguardo al titolo edilizio necessario per
l’intervento de quo e sulla non configurabilità nella
fattispecie di un intervento di “manutenzione
straordinaria”– sono stati dedotti l’illegittimità per
violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o
falsa applicazione degli artt. 3, comma 1, lett. b e d, 10,
comma 1, lett. c, e 22, comma 3, lett. a, del D.P.R. n. 380
del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31,
comma 1, lett. c, della legge n. 457 del 1978, la violazione
dell’art. 11, comma 1, e/o dell’art. 23, comma 1, del D.P.R.
n. 380 del 2001 e l’eccesso di potere per difetto dei
presupposti, per travisamento del fatto, per difetto di
istruttoria e per difetto assoluto di motivazione.
Con riferimento all’impossibilità di assentire l’intervento
in mancanza del consenso di tutti i comproprietari del bene
immobile interessato (facciata ed atrio condominiale), alla
grave limitazione dell’uso delle parti comuni, alla
sussistenza dei presupposti fattuali e legali per procedere
all’annullamento in autotutela ex art. 19 della legge n. 241
del 1990 e ss.mm.ii. e/o ex art. 27 del D.P.R. n. 380 del
2001 della s.c.i.a. datata 24.02.2016, prot. n. 14670, in
conseguenza dell’esito delle verifiche effettuate, alla
insussistenza del titolo giuridico di disponibilità ex artt.
11-27 del D.P.R. n. 380 del 2001, alla necessità di consenso
di tutti i proprietari per la realizzazione degli interventi
edilizi de quibus, anche laddove asseritamente volti
alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di
soggetti portatori di minorazioni fisiche, sono stati
eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso
di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 27
del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dell’art. 11,
commi 1 e 3, e dell’art 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del
2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102
cod. civ., la violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della
legge n. 241 del 1990, la violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 6, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011,
convertito in legge n. 148 del 2011, in tema di s.c.i.a.,
dell’art. 19, commi 4 e 6-ter, e degli artt. 21 e 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, della legge n. 13 del 1989 e
del D.M. n. 236 del 1989, l’eccesso di potere per difetto
assoluto di istruttoria, il difetto e/o perplessità della
motivazione, il travisamento dei fatti e degli atti del
procedimento, il difetto e/o erroneo apprezzamento dei
presupposti legittimanti, illogicità e contraddittorietà
manifesta.
Quanto alla s.c.i.a. in sanatoria del 24.02.2016, prot.
14670, e alla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria del 12.11.2012, prot. n. 50781, e alla natura “essenziale”
delle variazioni poste in essere dalle controinteressate e
all’impossibilità di assentire la sanatoria in assenza del
consenso di tutti i proprietari del bene oggetto di
intervento, sono stati eccepiti l’illegittimità per
violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, e dell’art. 37,
commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 54,
comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, l’eccesso di
potere per travisamento del fatto, per difetto di
istruttoria, per difetto dei presupposti, per difetto di
motivazione e per contraddittorietà intrinseca ed
estrinseca.
Anche con riguardo al ricorso per motivi aggiunti è stato
chiesto il risarcimento del danno.
...
3. Passando all’esame del merito del ricorso per motivi
aggiunti, lo stesso è fondato secondo quanto di seguito
specificato.
4. Vanno scrutinate preventivamente la seconda e la terza
censura del ricorso per motivi aggiunti, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, attraverso
le quali si contesta la qualificazione dell’intervento di
costruzione dell’ascensore esterno quale attività di
manutenzione straordinaria, essendo invece richiesto per la
realizzazione di tale attività edilizia il previo rilascio
di un permesso di costruire, che presupporrebbe il consenso
dell’intero condominio, nella fattispecie mai acquisito,
oltre alla dimostrazione della sussistenza di una condizione
di disabilità, mai comprovata da parte delle
controinteressate.
4.1. Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito
specificati.
Va premesso che, secondo il più recente indirizzo
giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore
all’esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume
tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr.
TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia,
Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016,
n. 97).
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza
dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla
normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali
(art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che
“1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni
da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012 (cfr.
di recente in giurisprudenza, Cass. civ., VI, 09.03.2017, n.
6129).
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le
innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati è necessario il voto
favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà
del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che
rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto
dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie
della metà dell’immobile su cui è stato realizzato
l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in
maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti
soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione
della normativa volta al superamento delle barriere
architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio
(all. 3 del Comune), oltre a non essere stato rilasciato da
una struttura sanitaria accreditata per il formale
riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta
nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in
occasione della presentazione della d.i.a. in data
12.07.2004 (cfr. all. 3 delle controinteressate).
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto
dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione
alla normativa che regola l’attività amministrativa in
materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo
l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex
multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV,
06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017,
n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti
attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo
Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva
sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso
Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016 (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479).
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa
alla eliminazione delle barriere architettoniche (cfr. Cass.
civ., VI, 09.03.2017, n. 6129) avrebbe richiesto agli Uffici
comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì
la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente
danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.
4.2. Pertanto, la scrutinate doglianze vanno accolte, con la
conseguente declaratoria di illegittimità del provvedimento
comunale del 23.03.2017, non avendo il Comune provveduto
correttamente in ordine alla richiesta dei ricorrenti di
disporre la demolizione dell’ascensore esterno realizzato
senza titolo dalle controinteressate.
4.3. Alla fondatezza delle predette censure, previo
assorbimento delle restanti doglianze, segue l’accoglimento
del ricorso per motivi aggiunti e il conseguente
annullamento del provvedimento comunale del 23.03.2017.
5. Le domande risarcitorie formulate sia con riguardo al
ricorso introduttivo che al ricorso per motivi aggiunti sono
da respingere, in ragione della mancata dimostrazione dei
loro elementi costitutivi.
6. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve
essere accolto, con il conseguente annullamento della nota
comunale del 23.03.2017; le domande di risarcimento del
danno devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.09.2018 n. 2065 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Ascensore,
spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali del piano
terra. Una pronuncia della Cassazione in merito al rifacimento dell’impianto
condominiale.
Anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al
piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle
spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di
ascensore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto.
Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali posti al piano
terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di sostenere la
quota di spese condominiali richiestale in occasione del rifacimento
dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta da un
decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva
spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento
condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza
dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a
tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in
proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il
rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla
contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non
potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse
desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini
proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica.
In primo
grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente
appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel
giudizio di secondo grado. La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto
legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori
di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la
sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte.
I giudici di legittimità, nel respingere il ricorso in questione,
confermando quindi il riparto delle spese operato dal condominio, hanno
quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i criteri che presiedono
alla suddivisione dei costi degli interventi sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n.
220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente
distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore
nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria
e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa
spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di
ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il
criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria
delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire
ratificata dal legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua
rubrica chiarisce che la disposizione si applica sia alle scale che agli
ascensori. La disposizione in questione contiene quindi una deroga al
criterio generale di riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che
la relativa spesa debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di
proprietà e per l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di
ciascun piano dal suolo.
La medesima disposizione chiarisce che ove
l'edificio condominiale sia composto da più scale e impianti di ascensore,
gli stessi debbano essere mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei
quali gli stessi sono stati previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone
espressamente che per piano debbano intendersi anche le cantine, o palchi
morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, ovviamente quando
gli stessi non siano di proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore
debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in
quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di
copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo
normativo).
Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero
che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i
servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti
diversamente dal titolo. Di conseguenza l'ascensore appartiene in
comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al
piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne
fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla
conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio».
Ne discende che
anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione
straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione
all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da
un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle
spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di
ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può
essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina
legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si
definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che
venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la
decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel
regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione
derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di
ascensore.
In altri termini, secondo la sesta sezione civile della
Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di
prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione
sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle
spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e
il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non
ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale.
Visto che nella specie si trattava di un procedimento di opposizione al
decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio verso un comproprietario in mora
nel pagamento delle spese comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche
il modo di ribadire alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in
rapporto alla perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale
si fondi l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo
giudizialmente sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di
pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera
annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa.
«Tale
delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del
credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto
ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel
processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è
dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della
deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del
relativo onere».
Un diverso comportamento da parte del giudice
dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che
l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o
che la stessa sia stata addirittura annullata.
La VI Sez. civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito
il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il
giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di
legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne
implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi
dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento
costitutivo della domanda
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla
realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio del
fabbricato adibito ad attività turistica.
L’estraneità dell’ascensore al concetto
di nuova costruzione, anche ai fini dell’osservanza della
normativa sulle distanze, è stata affermata, a più riprese
dalla giurisprudenza, anche civile, secondo cui l'ascensore
-al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche
etc. dell'edificio principale- rientra fra “i volumi tecnici
o impianti tecnologici” strumentali alle esigenze tecnico
funzionali dell'immobile.
Ed infatti la nozione di "volume tecnico”, non computabile
nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a
un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche
solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze tecnico
funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere - e sempre in
difetto dell'alternativa - quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale.
L’inquadramento del vano ascensore quale volume tecnico
esclude pertanto la necessità di un suo assoggettamento al
previo rilascio di permesso di costruire.
-----------------
Quanto al rispetto della normativa sulle distanze in un caso
analogo al presente il Consiglio di Stato, nel riformare un
precedente di segno contrario di questo Tar Abruzzo-Pescara,
ha chiarito che: “nell'interpretazione dell'eccezione alla
regola del rispetto delle distanze posta dall'ultima parte
del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può
prescindersi dal tener conto dell'inserimento della norma
-come già rilevato- all'interno della disciplina volta
all'eliminazione delle barriere architettoniche
nell'interesse dei soggetti portatori di handicap. Ciò
rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto
bilanciamento di interessi, quanto soprattutto
nell'accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche
impiegate dal legislatore, quali quella di "spazio o area di
proprietà o di uso comune", le quali non possono essere
recepite in un'ottica strettamente civilistica, ma vanno
calate nell'ambito della normativa tecnica esistente in
subiecta materia”.
Sotto tale profilo è stato ritenuto illegittimo il diniego
di rilascio del permesso di costruire per il mancato
rispetto delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ.,
applicandosi in ogni caso la deroga di cui all'ultima parte
del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.
Né, sotto altro profilo, può assumere valenza ostativa il
disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 13
cit. che fa salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di
cui agli articoli 873 cc. e 907 c.c. che riguarda la sola
ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati
alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune.
Di qui si è desunto che, in assenza di spazi o aree di
proprietà comune, il comma 2 art. 3 cit. è da interpretarsi
nel senso che la distanza minima da mantenersi è di tre
metri in quanto il richiamo all’art. 873 deve intendersi
riferito solo alla sua prima parte con esclusione delle
previsioni dei regolamenti locali.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 9138 del 05.07.2016 del Responsabile
del 3° Settore-Urbanistica ed Edilizia del Comune di
Fossacesia di diniego di rilascio del parere urbanistico
richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di
una piattaforma elevatrice a servizio di un fabbricato
adibito a ricettività turistica;
- della nota prot. n. 9995 del 21.07.2016 con cui lo stesso
responsabile di Settore comunica alla società che i lavori
inerenti la realizzazione della suddetta piattaforma debbano
ritenersi eseguiti in assenza del titolo abilitativo e
quindi abusivi.
...
1. Con ricorso iscritto al n. 298/2016 la società
ricorrente, quale comodataria di un immobile sito in
Fossacesia località Lungomare, oggetto di ristrutturazione
assentita con permesso di costruire prot. 28 del 12.06.2013,
e successive varianti, nonché con il parere favorevole della
Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013, avendo
inoltrato presso il S.u.a.p. del patto territoriale
sangroaventino una s.c.i.a. n. 82736 in data 11.05.2016 per
la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio
del fabbricato adibito ad attività turistica, impugnava,
chiedendone l’annullamento, la nota prot. n. 9138 del
05.07.2016 con cui si comunicava l’avvio delle procedure di
repressione di cui all’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 per opere
realizzate in assenza di titolo abilitativo e la successiva
del 21.07.2016 con cui si acclarava la natura abusiva
dell’intervento.
...
3.1 Il parere negativo impugnato è motivato sul presupposto
che il vano ascensore esterno all’edificio di pertinenza
andrebbe qualificato quale “nuova costruzione”,
pertanto resterebbe assoggettabile alla normativa sulle
distanze dalle costruzione e non sarebbe assentibile non
rispettando la distanza minima di 5 metri dal confine di
proprietà, nonché poiché privo del prescritto parere
paesaggistico.
Rispetto all’inquadramento dell’intervento quale “nuova
costruzione”, parte ricorrente, in presenza di un
edificio di più piani oggetto di ristrutturazione,
all’interno del quale, incontestatamente, non è possibile
installare un ascensore, ha invocato la normativa di cui
alla legge n. 13/1989 posta a presidio dell’abbattimento
delle barriere architettoniche, che è stata posta a base
dell’istanza inoltrata al S.u.a.p..
L’assunto merita di essere condiviso.
In subiecta materia, l’estraneità dell’ascensore al
concetto di nuova costruzione, anche ai fini dell’osservanza
della normativa sulle distanze, è stata affermata, a più
riprese dalla giurisprudenza, anche civile, secondo cui
l'ascensore -al pari di quelli serventi alle condotte
idriche, termiche etc. dell'edificio principale- rientra fra
“i volumi tecnici o impianti tecnologici” strumentali
alle esigenze tecnico funzionali dell'immobile (cfr. Cass.
civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ed infatti la nozione di "volume tecnico”, non
computabile nella volumetria ai fini in questione,
corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata solo a
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere - e sempre in
difetto dell'alternativa - quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale (cfr. sulla
nozione di “volume tecnico” ex plurimis C.d.S.
sez. VI 31.03.2014 n. 1512; id. 8.05.2014 n. 2363; id.
21.01.2015 n. 175).
L’inquadramento del vano ascensore quale volume tecnico
esclude pertanto la necessità di un suo assoggettamento al
previo rilascio di permesso di costruire.
3.2 Quanto al rispetto della normativa sulle distanze in un
caso analogo al presente, nella pronuncia n. 6253 del
15.12.2012 il Consiglio di Stato, nel riformare un
precedente di segno contrario di questo Tar Abruzzo-Pescara
n. 87/2012, ha chiarito che: “nell'interpretazione
dell'eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta
dall'ultima parte del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380
del 2001, non può prescindersi dal tener conto
dell'inserimento della norma -come già rilevato- all'interno
della disciplina volta all'eliminazione delle barriere
architettoniche nell'interesse dei soggetti portatori di
handicap. Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un
astratto bilanciamento di interessi, quanto soprattutto
nell'accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche
impiegate dal legislatore, quali quella di "spazio o area di
proprietà o di uso comune", le quali non possono essere
recepite in un'ottica strettamente civilistica, ma vanno
calate nell'ambito della normativa tecnica esistente in
subiecta materia”.
Sotto tale profilo è stato ritenuto illegittimo il diniego
di rilascio del permesso di costruire per il mancato
rispetto delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ.,
applicandosi in ogni caso la deroga di cui all'ultima parte
del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (cfr. in
termini vd. anche Tar Liguria 20.01.2016 n. 97).
Né, sotto altro profilo, può assumere valenza ostativa il
disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 13
cit. che fa salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di
cui agli articoli 873 cc. e 907 c.c. che riguarda la sola
ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati
alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune. Di qui si è desunto che, in
assenza di spazi o aree di proprietà comune, il comma 2 art.
3 cit. è da interpretarsi nel senso che la distanza minima
da mantenersi è di tre metri in quanto il richiamo all’art.
873 deve intendersi riferito solo alla sua prima parte con
esclusione delle previsioni dei regolamenti locali (Trib.
Genova 13.11.1997).
...
In conclusione, per quanto sopra esposto il ricorso merita
accoglimento con conseguente annullamento dei provvedimenti
impugnati (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 09.04.2018 n. 134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2017 |
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CONDOMINIO: Ascensore,
subentro possibile. I nuovi comproprietari devono rifondere i costi agli
altri. La Cassazione: impianti installabili anche
solo a carico di una parte dei condomini.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere
effettuata anche da una parte dei condomini, che ne sopporteranno per intero
la relativa spesa. Gli altri condomini, ove in prosieguo volessero
utilizzare a loro volta l'impianto, saranno tenuti a rifondere ai primi una
quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendone così
comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella
recente
sentenza 04.09.2017 n. 20713.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio i comproprietari
che avevano provveduto a installare l'ascensore nel fabbricato per sentire
accertare il costo dell'impianto e le relative quote di contribuzione nelle
spese di gestione e manutenzione.
Il tribunale, espletata la consulenza
tecnica d'ufficio, ritenuta implicita nella domanda svolta quella di
riconoscimento del diritto degli attori all'acquisizione della comproprietà
dell'impianto, aveva dunque accertato il costo complessivo
dell'installazione e aveva determinato la quota di contribuzione di ciascuno
di essi nelle relative spese.
La sentenza era però stata appellata dai
condomini che avevano originariamente provveduto all'installazione
dell'ascensore, i quali avevano contestato la mancanza di interesse ad agire
degli attori, che non avevano espressamente richiesto l'accertamento del
proprio diritto di partecipare alla comunione dell'impianto. Inoltre,
secondo gli appellanti, i giudici di primo grado avevano errato
nell'applicare al caso in questione la disciplina delle innovazioni di cui
all'art. 1121 c.c., trattandosi di un'opera privata.
La Corte di appello
aveva però integralmente confermato la decisione. Di qui il ricorso in
Cassazione.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia
privo. Nella sentenza n.
20713/2017 i giudici di legittimità hanno in primo luogo evidenziato come
gli impianti suscettibili di utilizzazione separata, casistica nella quale
rientra sicuramente l'ascensore, possano essere realizzati ex novo
nell'edificio condominiale anche senza la relativa approvazione assembleare,
ovvero a cura e spese di alcuni condomini soltanto.
Infatti l'installazione
di un ascensore nel fabbricato che ne sia privo costituisce un'innovazione
delle parti comuni, in quanto realizza una modificazione materiale del vano
scale. L'opera andrebbe quindi deliberata in assemblea con il quorum di cui
al quinto comma dell'art. 1136 c.c., ovvero dalla maggioranza degli
intervenuti, che rappresentino almeno i due terzi dei millesimi totali di
valore dell'edificio.
Tuttavia, proprio perché trattasi di impianti suscettibili di utilizzazione
separata, anche uno solo dei condomini può provvedervi a sua cura e spese.
La base normativa di tale conclusione, come evidenziato dalla Suprema corte
nella sentenza in questione, deve rintracciarsi nell'art. 1102 c.c.,
disposizione che fonda il relativo diritto e ne circoscrive i limiti e le
modalità di esplicazione. In base a essa, infatti, ciascun partecipante alla
comunione può servirsi del bene comune, anche apportandovi a proprie spese
le modificazioni necessarie per un migliore godimento, a condizione che non
ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso secondo il proprio diritto.
In questo caso le spese di installazione dell'impianto, diversamente da
quelle relative alla manutenzione e alla ricostruzione dell'ascensore già
esistente, non vanno ripartite ai sensi dell'art. 1124 c.c., bensì secondo
gli ordinari criteri di cui all'art. 1123 c.c., ovvero secondo il valore
proporzionale della proprietà di ciascuno dei compartecipanti. I condomini
inizialmente non interessati all'innovazione possono infatti successivamente
cambiare idea e, in questo caso, hanno il diritto di usare a loro volta
dell'impianto, partecipando alla relativa spesa e diventandone quindi
comproprietari.
La ripartizione delle spese tra i vecchi e i nuovi
comproprietari. Quindi l'ascensore
installato nell'edificio che ne sia privo per iniziativa di uno o più
condomini non rientra nella proprietà comune di tutti i partecipanti al
condominio (non è un bene condominiale), ma è oggetto di comunione
(comproprietà) fra i soli condomini che ne abbiano sopportato le relative
spese.
Tuttavia, come detto, l'art. 1121, comma 3, c.c. fa espressamente
salva la facoltà per i condomini estranei alla comunione dell'impianto di
entrare a farne parte e di utilizzare a propria volta l'ascensore. Da qui
però l'obbligo degli stessi sia di rifondere agli altri comproprietari i
costi sostenuti per l'originaria installazione dell'impianto e per gli
interventi di manutenzione nel frattempo effettuati sia di contribuire nelle
successive spese di conduzione (energia elettrica e manutenzione).
Il criterio di riparto della compartecipazione alle spese di installazione,
come già preannunciato, è quello ordinario di cui all'art. 1123 c.c., ovvero
quello del valore proporzionale delle rispettive proprietà dei condomini che
utilizzano l'impianto. La spesa inizialmente sostenuta dai condomini che
abbiano provveduto a installare ex novo l'impianto (e sulla quale andrà
quindi calcolata la quota che il nuovo comproprietario dovrà rifondere agli
originari comunisti) deve essere però aggiornata al suo valore attuale, per
evitare ingiustificati arricchimenti in favore del nuovo arrivato.
Solitamente per la rivalutazione si fa riferimento agli indici Istat dei
prezzi al consumo. Occorre però anche tenere conto del naturale degrado
dell'ascensore, normalmente individuato nel deprezzamento dell'impianto
causato dagli anni trascorsi dalla sua installazione.
Il procedimento di calcolo utilizzato per l'individuazione della somma
dovuta dal condomino subentrante agli originari comproprietari dell'impianto
è quello di detrarre dalla somma dei costi di installazione e di
manutenzione dell'opera già sostenuti, rivalutata in base agli indici Istat
e integrata con gli interessi legali, il valore del deprezzamento subito dal
medesimo a seguito dell'utilizzo continuato e della naturale obsolescenza.
L'importo così determinato, che rappresenta il valore dell'impianto, dovrà
quindi essere moltiplicato per i millesimi di proprietà del condomino
subentrante e il relativo risultato dovrà essere diviso per la somma dei
millesimi di tutti i nuovi comproprietari (originari e subentrante).
Ciò sulla base di una semplice equazione, nella quale il valore
dell'impianto sta ai millesimi totali dei condomini comproprietari
(originari e subentrante) come l'importo da rifondere (incognita) sta ai
millesimi del solo condomino che chieda di entrare a far parte della
comunione.
La somma che ne risulta sarà quella che il nuovo comproprietario dovrà
versare ai condomini che si erano inizialmente presi carico
dell'installazione dell'ascensore. La stessa dovrà quindi essere ripartita
fra questi ultimi sulla base dei rispettivi millesimi di proprietà (si veda
la tabella in pagina)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.09.2017).
---------------
MASSIMA
L’installazione “ex novo” di un ascensore in un
edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla
manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite
non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia
proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino)
costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea
condominiale con le maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c., oppure
direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo
l’impianto di proprietà comune.
Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata,
proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa
comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione
dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121
c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o
accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di
uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.),
salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi
dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione
dell’opera.
L’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo
per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di
tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano
impiantato a loro spese.
Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei
proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art.
1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a
quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.
L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la
facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi
della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese
impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale
(tratta da https://renatodisa.com). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Per approvare le innovazioni che sono
dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli
edifici privati basta il voto favorevole di tanti condomini
che rappresentino almeno metà del valore dell’intero
edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma
dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato di
essere proprietaria della metà dell’immobile su cui andrebbe
a poggiarsi il montapersone e, quindi, ciò conferma la
sussistenza di un titolo idoneo per ottenere il rilascio del
permesso di costruire per la realizzazione dell’ascensore.
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le
opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di
cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e
all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò
costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge
02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la
maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c..
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei
garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220)”.
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare
illegittimo in relazione alla normativa che regola
l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli
edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
---------------
Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua facile
rimovibilità si deve altresì sottolineare come
l’eliminazione delle barriere architettoniche che
impediscono la piena accessibilità degli edifici, limitando
la possibilità per le persone affette da handicap di
svolgere pienamente la propria personalità e di avere una
normale vita di relazione, attiene ad esigenze di rilievo
costituzionale primario, riconducibili anzitutto alle
previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del
Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative
praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il
diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto
del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle
disposizioni in materia di abbattimento delle barriere
architettoniche.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente
affermato che “l’installazione di un ascensore, allo scopo
dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata
su parte di aree comuni (nella specie, un’area destinata a
giardino), deve considerarsi indispensabile ai fini
dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità
dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti
ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c..
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati”.
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio
non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico
necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non
di una costruzione strettamente intesa.
---------------
4. Con la seconda censura si assume l’illegittimità
del diniego comunale, in quanto la ricorrente avrebbe
dimostrato la sussistenza di un idoneo titolo giuridico per
procedere all’installazione del manufatto, peraltro
caratterizzato da un limitato impatto strutturale e dalla
sua facile rimovibilità.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1.
Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da
attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le
innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati basta il voto
favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà
del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che
rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, la ricorrente ha affermato
–senza smentita sul punto né da parte comunale né dai
controinteressati, che hanno però sostenuto di essere
proprietari di due terzi del giardino comune (cfr. pag. 2
della memoria difensiva)– di essere proprietaria della metà
dell’immobile su cui andrebbe a poggiarsi il montapersone e,
quindi, ciò conferma la sussistenza di un titolo idoneo per
ottenere il rilascio del permesso di costruire per la
realizzazione dell’ascensore (sull’applicabilità della
disciplina condominiale anche al c.d. condominio minimo, cfr.
Cass. civ., II, 02.03.2017 n. 5329; VI, 03.04.2012, n.
5288).
Difatti, “l’installazione di un ascensore rientra fra le
opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di
cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e
all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384, e perciò
costituisce innovazione che, ai sensi dell’art. 2, legge
02.01.1989, n. 13, è approvata dall’assemblea con la
maggioranza prescritta dall’art. 1136, comma 2, c.c. (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n.
14384 del 29/07/2004).
Lo stesso art. 2, legge n. 13/1989, stabilisce che, nel caso
in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro
tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni aventi per oggetto le innovazioni volte
all’eliminazione delle barriere architettoniche, i portatori
di handicap possono installare, a proprie spese, le
strutture occorrenti al fine di rendere più agevole
l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei
garages, fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 4,
e 1121, comma 3, c.c. (all’esito delle modifiche introdotte
dalla legge 11.12.2012, n. 220)” (Cass. civ., VI,
09.03.2017, n. 6129).
Pertanto, il rigetto del permesso di costruire appare
illegittimo in relazione alla normativa che regola
l’attività comunale in materia di rilascio dei titoli
edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex
multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV,
06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017,
n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dalla parte
ricorrente in sede procedimentale non poteva che determinare
l’Amministrazione a rilasciare il richiesto di permesso di
costruire.
4.2. Quanto alle caratteristiche dell’ascensore e alla sua
facile rimovibilità, oltre a ciò che è stato evidenziato
nella Relazione tecnica allegata al ricorso –in cui si è
specificato che il posizionamento e la sua struttura ne
rendono agevole la rimozione e non determinano un rilevante
sull’immobile (all. 23 al ricorso)– si deve altresì
sottolineare come l’eliminazione delle barriere
architettoniche che impediscono la piena accessibilità degli
edifici, limitando la possibilità per le persone affette da
handicap di svolgere pienamente la propria personalità e di
avere una normale vita di relazione, attiene ad esigenze di
rilievo costituzionale primario, riconducibili anzitutto
alle previsioni degli artt. 2 e 3 della Costituzione (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 10.05.1999).
A fronte della rilevanza di tali interessi, è compito del
Comune evidenziare l’eventuale sussistenza di alternative
praticabili rispetto all’intervento proposto, altrimenti il
diniego puro e semplice risulta illegittimo, tenuto conto
del contenuto derogatorio della normativa ordinaria delle
disposizioni in materia di abbattimento delle barriere
architettoniche (TAR Lombardia, Milano, II, 03.07.2015, n.
1541).
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente
affermato che “l’installazione di un ascensore, allo
scopo dell’eliminazione delle barriere architettoniche,
realizzata su parte di aree comuni (nella specie, un’area
destinata a giardino), deve considerarsi indispensabile ai
fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale
abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei
poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art.
1102 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012).
Di talché, nel valutare il contrasto delle opere, cui fa
riferimento l’art. 2 della legge n. 13/1989, con la
specifica destinazione delle parti comuni, sulle quali esse
vanno ad incidere, occorre tenere conto altresì del
principio di solidarietà condominiale, secondo il quale la
coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato
implica di per sé il contemperamento, al fine dell’ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali, di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle
barriere architettoniche, oggetto di un diritto fondamentale
che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di
costoro, degli edifici interessati (Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 18334 del 25/10/2012)” (Cass. civ., VI, 09.03.2017,
n. 6129).
Infine, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio
non richiederebbe nemmeno il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico
necessario per apportare un’innovazione allo stabile e non
di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Liguria, I,
29.01.2016, n. 97).
4.3. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta
censura.
5. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere
accolto, con il conseguente annullamento del diniego
comunale del 27.06.2016, prot. n. 14981U (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.06.2017 n. 1479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Nel
rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che
l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza
di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del
titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una
accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse
ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà
o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del
titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato
da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la
ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con
la formula "fatti salvi i diritti dei terzi".
---------------
La
giurisprudenza, al fine di escludere la sussistenza di una
lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che
l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al
complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria
fisionomia estetica dell’edificio determinandone un
deprezzamento.
Tali elementi non appaiono sussistere nel caso all’esame
atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor
impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il
prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con
un intervento che non si rivela incompatibile con le
caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente.
---------------
Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che i controinteressati erano privi di legittimazione nel
richiedere ed ottenere il titolo edilizio necessario ad
intervenire su parti comuni dell’edificio condominiale,
perché l’intervento, alterando il decoro dell’immobile, non
avrebbe dovuto essere approvato a maggioranza, come è
avvenuto nel caso all’esame (è stato approvato a maggioranza
di due terzi del condominio rappresentanti complessivi
689,75 millesimi dell’intero edificio, del condominio), ma
all’unanimità.
Al fine di comprovare la lesione al decoro il ricorrente
allega una relazione del 25.01.2016 dagli stessi
commissionata del Prof. Arch. Gi.Gi..
Anche tali censure non possono essere condivise.
Va premesso che nel rilascio di titoli edilizi può ritenersi
sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo
all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo
legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore,
senza dover procedere ad una accurata e approfondita
disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse
ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà
o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del
titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato
da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la
ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con
la formula "fatti salvi i diritti dei terzi" (ex pluribus
cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508).
Il provvedimento impugnato in ogni caso non si è limitato a
considerare l’esistenza della deliberazione condominiale che
a maggioranza ha approvato l’intervento, ma, con
considerazioni motivate e che appaiono prive di vizi logici,
si è spinto ad indicare quali sono i motivi per i quali il
Comune ritiene insussistente una lesione al decoro
dell’immobile, precisando che si tratta di un edificio che
non presenta un particolare pregio e che non è sottoposto né
a tutela monumentale, né a grado di protezione dallo
strumento urbanistico comunale in base alla
caratterizzazione dei valori storici, architettonici,
tipologici ed ambientali, che per gli interventi è stata
ottenuta l’autorizzazione paesaggistica e che non risultano
snaturate le caratteristiche dell’edifico.
La relazione commissionata dal ricorrente del 25.01.2016 del Prof. Arch. Gi.Gi. accede invece ad una
non condivisibile nozione di “decoro architettonico”
talmente ampia da comportare che ogni modifica alle parti
comuni dell’edificio costituisce di per sé un pregiudizio al
decoro dello stesso.
Una tale conclusione tuttavia non è in linea con la
giurisprudenza, la quale, al fine di escludere la
sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene
sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante
disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi
l'originaria fisionomia estetica dell’edificio
determinandone un deprezzamento, elementi questi che non
appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che
l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto
sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di
uno sporto già presente nella muratura, con un intervento
che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la
tipologia edilizia preesistente (peraltro va rilevato che in
tal senso sono le conclusioni formulate dal consulente
tecnico d’ufficio nel giudizio civile pendente tra le parti:
cfr. doc. 1 depositato in giudizio dai controinteressati il
20.10.2016).
L’assunto secondo il quale l’intervento avrebbe dovuto
essere approvato all’unanimità anziché a maggioranza dei
condomini è pertanto privo di riscontri e deve essere
respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
La lamentata violazione delle distanze dai
confini da parte dell’ascensore esterno deve essere
respinta.
Invero, trattasi di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, cui risulta
applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi
elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile,
nella parte in cui prevede interventi volti alla
eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave, e che rientra
anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della l.r. 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli
ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al
fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da
considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo
del volume o della superficie e soggetti alle norme del
codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il
ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste
dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è
noto, tale norma non trova applicazione in ambito
condominiale.
---------------
Anche il terzo motivo con il quale il ricorrente lamenta la
violazione delle distanze dai confini da parte
dell’ascensore esterno deve essere respinto.
Si tratta infatti di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, cui risulta
applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi
elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile,
nella parte in cui prevede interventi volti alla
eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave (in tali termini cfr. Corte Costituzionale 10.05.1999, n, 167; Tar
Veneto, Sez. II, 05.04.2007, n. 1122), e che rientra
anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della legge
regionale 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli
ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al
fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da
considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo
del volume o della superficie e soggetti alle norme del
codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il
ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste
dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è
noto, tale norma non trova applicazione in ambito
condominiale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. II,
30.06.2014, n. 14809).
In definitiva il ricorso e la domanda risarcitoria devono
essere respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2016 |
|
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ascensore senza tutti i consensi.
La Cassazione a favore dei disabili.
Il Comune non può pretendere il consenso di tutti i
proprietari di immobili che si affacciano sul cortile prima
di autorizzare la costruzione dell'ascensore che serve al
disabile. Per il titolo edilizio che l'amministrazione
locale è chiamata a rilasciare al cittadino risulta
sufficiente il rispetto delle maggioranze prescritte dal
codice civile da parte dell'assemblea condominiale che
delibera l'intervento edilizio: il permesso a costruire
viene infatti rilasciato fatti salvi i diritti dei terzi, i
quali dunque devono rivolgersi al giudice civile se si
ritengono lesi.
È quanto emerge dalla
sentenza 09.03.2016 n. 561, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Campania-Salerno.
Regola e deroga
Accolto il ricorso del condomino, che aveva superato perfino
gli ostacoli posti dalla Soprintendenza per l'impianto da
realizzare in area soggetta a vincolo ambientale: troppo
zelante l'ufficio tecnico dell'ente che blocca i lavori
dell'ascensore necessario a una signora malata di cancro
sostenendo che per il progetto serve l'assenso dei
proprietari di tutti gli appartamenti prospicienti il
cortile.
In realtà l'amministrazione ben può pronunciarsi ex articolo
11 del testo unico dell'edilizia senza che abbiano dato il
loro consenso al progetto tutti coloro che vantano un
diritto di servitù di passaggio nel cortile dove deve
sorgere l'impianto: affinché il via ai lavori abbia il
placet dell'ente, infatti, è sufficiente che la delibera
sia approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un
numero di voti che rappresenta almeno un terzo del valore
dell'edificio.
L'unico limite è che l'installazione dell'impianto non deve
rendere inservibile il cortile, altrimenti si configura
l'innovazione vietata dall'articolo dell'articolo 1120,
secondo comma, Cc. Ma si tratta di un elemento che ha
rilievo soltanto sul piano civilistico.
Sbaglia ancora l'ufficio tecnico quando motiva lo stop al
progetto con la violazione dell'articolo 907 Cc: se serve a
eliminare le barriere architettoniche, l'ascensore ben può
essere installato in deroga alle norme sulla distanza delle
costruzioni dalle vedute, a patto che rispetti le
disposizioni sull'uso delle cose comuni
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2016).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento del
Responsabile dell'U.T.C. - Area urbanistica del Comune di
Amalfi n. 10304 del 30.09.2006 -notificato il 30.10.2006-,
di rigetto della istanza presentata dal ricorrente di
rilascio dell'autorizzazione per la installazione di un
ascensore ai sensi della legge n. 13 del 09.01.1982;
...
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
È noto che l’art. 2 l. 09.01.1989 n. 13, recante norme per
favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere
architettoniche negli edifici privati, ha previsto la
possibilità per l’assemblea condominiale di approvare le
innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze
indicate nell’art. 1136, 2 e 3 comma, c.c., così derogando
all’art. 1120, 1° comma, che richiama il 5° comma dell’art.
1136 e, quindi, le più ampie maggioranze ivi contemplate:
cfr., fra le tante, Cass., sez. II, 24.07.2012, n. 12930.
L’unico limite è rappresentato,
ai sensi del successivo comma 3, dal
disposto dell’art. 1120, 2° comma, il quale vieta le
innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio
inservibili all’uso e al godimento anche di un solo
condomino, comportandone una sensibile menomazione
dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della
comunione.
Essendo tale ultimo profilo, di rilevanza esclusivamente
civilistica, estraneo ai confini della lite che ne occupa,
vale, perciò, puntualizzare che, ai fini
della verifica della legittimazione alla richiesta del
titolo abilitativo alla edificazione, rimessa alle
competenze dell’autorità amministrativa comunale ex art. 11
t.u. 380/2001, la deliberazione assembleare assunta con le
prescritte maggioranze deve ritenersi bensì necessaria, ma
anche sufficiente ai fini dell’assenso al titolo
abilitativo. Peraltro, il permesso di costruire viene sempre
rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi che, ove
pregiudicati, potranno essere fatti valere nella competente
sede civilistica.
Sotto distinto profilo, è altresì noto che
l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, deve
considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità
dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell’art. 1102 c.c., senza che, ove siano
rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da
tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall’art. 907 c.c.
sulla distanza delle costruzioni dalle vedute
(cfr. Cass., sez. II, 16.05.2014, n. 10852).
2.- Il ricorso va, perciò, accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l'installazione di un
ascensore esterno ad un edificio quale "bene culturale",
sono illegittime le motivazioni espresse dalla
Soprintendenza laddove non fanno emergere l’esistenza di un
pregiudizio al bene tutelato tanto “serio” da poter
impedire, la realizzazione, con le necessarie prescrizioni,
del progettato ascensore.
In una valutazione comparativa fra diversi interessi di
forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto che gli
interventi di natura edilizia volti a favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche,
negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di
tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o
storico artistico, possono essere non consentiti, dalle
amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di
tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene
tutelato.
Per effetto delle indicate disposizioni (artt. 4 e 5 L.
13/1989) può essere, pertanto, anche ammesso un pregiudizio
ad un bene che è tutelato, per il suo particolare valore
paesaggistico o storico-artistico, tenuto conto del rilievo
sociale che assumono (anche) le opere necessarie ad
eliminare le barriere architettoniche, purché tale
pregiudizio non sia serio e quindi non comprometta in modo
rilevante il bene tutelato.
Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di tutela
spetta quindi il delicato compito di valutare la rilevanza
del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe subire per
effetto dell’intervento edilizio progettato al fine di
eliminare le barriere architettoniche.
Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua
peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali
amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro
potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento
edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere
architettoniche, le amministrazioni di tutela possono
ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un
pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e
consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un
bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.
L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione,
prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in
modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare
gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua
serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche
proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a
collocarsi.
Per mitigare gli effetti degli interventi resi necessari per
eliminare le barriere architettoniche e per rendere ancora
più lieve la (non seria) alterazione del bene tutelato, il
legislatore, per i beni di interesse storico-artistico, ha
assegnato agli organi di tutela anche il potere di imporre
«apposite prescrizioni» sulle opere da realizzare (art. 5,
comma 1, della legge n. 13 del 1989).
Pur mancando un richiamo a tale espressa previsione nel
precedente comma 4, il potere di imporre prescrizioni per
mitigare gli effetti di un pregiudizio (non serio) al bene
tutelato, determinato da un intervento edilizio progettato
al fine di eliminare le barriere architettoniche, deve
ritenersi pacificamente consentito, facendo applicazione dei
principi generali in materia, anche alle amministrazioni cui
spetta l’esercizio delle funzioni di tutela paesaggistica.
---------------
9.- Ciò premesso, si deve ricordare che la legge n. 13 del
09.01.1989, nel dettare “Disposizioni per favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati”, ha disciplinato, agli articoli 4
e 5, anche il caso in cui i relativi interventi riguardino i
beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro valore
paesaggistico o per l’esistenza di un vincolo di natura
storico ed artistico.
9.1.- In particolare, l’art. 4 della citata legge, oltre a
dettare i tempi per il rilascio dei necessari atti
autorizzativi, ha previsto che «l'autorizzazione può
essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere
senza serio pregiudizio del bene tutelato» (comma 4) e
che «il diniego deve essere motivato con la
specificazione della natura e della serietà del pregiudizio,
della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera
si colloca e con riferimento a tutte le alternative
eventualmente prospettate dall'interessato» (comma 5).
9.2.- L’art. 5 della legge n. 13 del 1989 prevede poi che,
per gli immobili sottoposti alle disposizioni di tutela per
il loro valore storico ed artistico, si «applicano le
disposizioni di cui all'articolo 4, commi 2, 4 e 5» e
che la «competente soprintendenza è tenuta a provvedere
entro centoventi giorni dalla presentazione della domanda,
anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni».
10.- In una valutazione comparativa fra diversi interessi di
forte rilevanza sociale, il legislatore ha ritenuto, quindi,
che gli interventi di natura edilizia volti a favorire il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche,
negli edifici privati che sono sottoposti a disposizioni di
tutela per il loro particolare interesse paesaggistico o
storico artistico, possono essere non consentiti, dalle
amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di
tutela, solo se recano un «serio pregiudizio» al bene
tutelato.
Per effetto delle indicate disposizioni può essere,
pertanto, anche ammesso un pregiudizio ad un bene che è
tutelato, per il suo particolare valore paesaggistico o
storico-artistico, tenuto conto del rilievo sociale che
assumono (anche) le opere necessarie ad eliminare le
barriere architettoniche, purché tale pregiudizio non sia
serio e quindi non comprometta in modo rilevante il bene
tutelato.
11.- Alle amministrazioni che esercitano le funzioni di
tutela spetta quindi il delicato compito di valutare la
rilevanza del pregiudizio che il bene tutelato potrebbe
subire per effetto dell’intervento edilizio progettato al
fine di eliminare le barriere architettoniche.
Tale attività valutativa si connota peraltro di una sua
peculiarità rispetto alle valutazioni che sono da tali
amministrazioni normalmente compiute nell’esercizio del loro
potere/dovere di tutela, perché, quando l’intervento
edilizio è progettato al fine di eliminare le barriere
architettoniche, le amministrazioni di tutela possono
ritenere possibili anche interventi in grado di arrecare un
pregiudizio (purché non sia rilevante) al bene tutelato e
consentire, quindi, anche una parziale alterazione di un
bene che altrimenti non potrebbe essere alterato.
12.- L'indicata normativa, per rafforzare tale previsione,
prevede quindi che l’Amministrazione, quando si esprime in
modo negativo sulla autorizzazione richiesta deve indicare
gli elementi che caratterizzano il pregiudizio e la sua
serietà, in concreto e in rapporto alle caratteristiche
proprie del bene culturale in cui l'intervento andrebbe a
collocarsi (in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI,
12.02.2014, n. 682).
13.- Per mitigare gli effetti degli interventi resi
necessari per eliminare le barriere architettoniche e per
rendere ancora più lieve la (non seria) alterazione del bene
tutelato, il legislatore, per i beni di interesse
storico-artistico, ha assegnato agli organi di tutela anche
il potere di imporre «apposite prescrizioni» sulle
opere da realizzare (art. 5, comma 1, della legge n. 13 del
1989).
13.1- Pur mancando un richiamo a tale espressa previsione
nel precedente comma 4, il potere di imporre prescrizioni
per mitigare gli effetti di un pregiudizio (non serio) al
bene tutelato, determinato da un intervento edilizio
progettato al fine di eliminare le barriere architettoniche,
deve ritenersi pacificamente consentito, facendo
applicazione dei principi generali in materia, anche alle
amministrazioni cui spetta l’esercizio delle funzioni di
tutela paesaggistica.
14.- Facendo applicazione di tali principi l’appello
proposto avverso la sentenza, n. 11008 del 03.11.2014, con
la quale il TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sezione
II-quater, ha accolto il ricorso proposto dai signori Fr.Pi.,
Ma.Sa. e Mi.Sa. ed ha, quindi, annullato il (secondo) parere
negativo espresso dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma sul
progetto presentato per la realizzazione di un ascensore
esterno nel cortile dello stabile sito in Roma, via di Torre
Argentina, n. 47, deve essere confermata, sia pure in parte
con diversa motivazione.
15.- Si deve, infatti, preliminarmente condividere quanto
affermato dall’Amministrazione appellante quando ha
sostenuto che dal testo e dalla ratio della legge n.
13 del 1989 non può desumersi la vigenza di un principio di
superabilità e derogabilità assoluta ed automatica dei
vincoli posti sugli immobili per finalità di tutela storico
culturale o paesistico ambientale che permangono anche
quando vi sono esigenze di tutela di soggetti portatori di
minorazioni fisiche se la realizzazione delle opere rechi un
serio pregiudizio all’interesse culturale protetto.
15.1.- In conseguenza la sentenza appellata non può essere
condivisa, nella sua motivazione, quando, in diversi punti,
ha affermato che il legislatore ha assegnato una (generale)
«prevalenza» alla eliminazione delle barriere
architettoniche anche rispetto ai beni vincolati, per il
loro valore storico artistico o paesaggistico, «relegando»
il diniego di autorizzazione ai soli casi di accertato e
motivato serio pregiudizio al bene vincolato.
Si è, infatti, prima chiarito che non vi è una generale
prevalenza per le opere necessarie alla eliminazione delle
barriere architettoniche, (anche) quando da effettuarsi su
beni sottoposti a disposizioni di tutela per il loro
interesse paesaggistico o storico artistico, dovendo in ogni
caso essere valutato l’impatto di tali opere sui beni in
questione e potendo tali opere essere consentite solo se non
arrecano un serio pregiudizio ai beni vincolati.
16.- Ciò precisato, nella fattispecie, come ha ritenuto il
TAR, le motivazioni espresse dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma (e
l’esame degli atti di causa) non fanno emergere l’esistenza
di un pregiudizio al bene tutelato tanto “serio” da
poter impedire, la realizzazione, con le necessarie
prescrizioni, del progettato ascensore.
17.- Preliminarmente, si deve osservare che dagli atti (ed
anche dal parere impugnato) non si evincono ragioni di
particolare tutela dell’immobile per le sue caratteristiche
storico artistiche ed architettoniche.
Come anche la Soprintendenza ha ricordato, infatti,
l’immobile oggetto dell’intervento, pur collocato in una
zona di assoluta rilevanza storica, è di costruzione
ottocentesca e non è sottoposto ad un vincolo specifico per
le sue caratteristiche di pregio ma è oggetto di tutela solo
per la sua collocazione all’interno del perimetro delle mura
aureliane della città storica e per essere il risultato
ottocentesco di successivi interventi che prendono origine
fin dall’alto medioevo.
18.- In effetti, l’asserita rilevanza del pregiudizio al
bene tutelato, come emerge dalle motivazioni del parere
impugnato (che si sono prima sinteticamente esposte),
risulta essenzialmente dovuta alla collocazione
dell’immobile in via di Torre Argentina, in un’area che è di
assoluto valore storico ed artistico, e che per questo è
sottoposta alla necessaria tutela, e dalla (parziale)
visibilità del progettato impianto dalla pubblica via.
Secondo la Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici per il Comune di Roma il progettato ascensore,
come si è già ricordato, altera, infatti, significativamente
l’impianto architettonico del primo cortile di accesso al
palazzo, il più visibile dall’esterno, con la creazione di
un manufatto che percorre in verticale uno dei prospetti,
aggettandosi in modo significativo all’interno del cortile e
impegnando visivamente anche una parte dell’arco a piano
terra che segna l’ingresso al cortile stesso, ciò che rende
l’impianto progettato parzialmente visibile dalla pubblica
strada, oltre a modificare la prospettiva.
19.- Tuttavia, in concreto, gli elaborati (in atti)
dimostrano, da un lato, che il progetto risulta scarsamente
visibile dalla strada, essendo stata progettata la
realizzazione dell’ascensore su una delle pareti interne del
cortile (dal lato della strada), tanto che, come risulta
dalla simulazione fotografica in atti, dalla via di Torre
Argentina sarebbe visibile solo una parete laterale del
manufatto, e, dall’altro, che non risultano particolarmente
significative le previste alterazioni dell’impianto
architettonico (peraltro privo di particolare pregio).
20.- Tenuto conto di tali elementi si devono ritenere esenti
da censure le conclusioni raggiunte dal TAR per il Lazio che
ha ritenuto illegittimo il diniego di assenso al progetto in
questione non risultando insuperabile (anche mediante idonee
prescrizioni) il reale pregiudizio che la Soprintendenza per
i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma
ha ritenuto sarebbe stato arrecato all’immobile tutelato
(essenzialmente determinato dalla visibilità del manufatto
dalla pubblica via in un’area di altissimo valore storico ed
artistico).
21.- La Soprintendenza, invece di negare il suo assenso al
progetto, tenuto conto dell’esigenza manifestata dai
richiedenti di realizzare l’ascensore sulla base di
disposizioni normative che sono state dettate per consentire
il superamento delle barriere architettoniche, (quando
possibile) anche in immobili sottoposti a disposizioni di
tutela, avrebbe potuto piuttosto prevedere, utilizzando il
suo potere di dettare prescrizioni (art. 5, comma 1, della
legge n. 13 del 1989), un riposizionamento dell’ascensore
sulla parete occupata (o un suo ridimensionamento), tale da
renderlo praticamente non visibile dalla strada. Ed avrebbe
potuto poi dettare anche altre prescrizioni sull’uso dei
materiali e dei colori per mitigare, anche all’interno del
cortile, l’impatto del manufatto e degli interventi resi
necessari per la realizzazione dell’ascensore e rendere,
quindi, ancora meno evidente l’alterazione del bene
tutelato.
22.- Si devono quindi condividere le conclusioni raggiunte
dal TAR che ha ritenuto che, nella fattispecie, non
risultava dimostrato un pregiudizio al bene tutelato tale da
poter impedire la realizzazione di un’opera volta al
superamento delle barriere architettoniche.
23.- In conclusione, per tutto gli esposti motivi, deve
essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di
interesse, l’appello proposto avverso la sentenza del TAR
per il Lazio, Sede di Roma, Sezione II-quater, n. 9321 del
13.11.2012, e deve essere respinto l’appello proposto
avverso la sentenza del TAR per il Lazio, Sede di Roma,
Sezione II-quater, n. 11008 del 03.11.2014 che deve essere
confermata, in parte con diversa motivazione.
24.- Sono fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione finalizzati, in particolare, ad imporre
le necessarie prescrizioni volte a mitigare il pregiudizio
per il bene tutelato del progettato intervento
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.03.2016 n. 905 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ascensore esterno essenziale.
Via libera all'impianto che è utile a disabili e anziani.
Sentenza del Tar Liguria: il condomino non riesce a far
annullare il sì comunale.
«Indispensabile». L'ascensore esterno è un'infrastruttura
necessaria ai residenti quando risulta impossibile
realizzare l'impianto dentro l'edificio perché la tromba
delle scale è troppo stretta: non serve soltanto a superare
le barriere architettoniche per i diversamente abili, ma
torna utile anche agli anziani che non ce la fanno più a
fare le scale a piedi. È così che il condominio non riesce a
bloccare il progetto che il singolo proprietario vuole
realizzare sulla facciata del fabbricato: ineccepibile il
permesso del Comune, che dà anche il suo assenso
paesaggistico.
È quanto emerge dalla
sentenza 29.01.2016 n. 97, che
arriva non a caso dal TAR Liguria - Sez. I, la regione più
«vecchia» d'Italia per popolazione residente.
Volume tecnico. Il via libera dell'amministrazione locale è
legittimo perché l'ascensore esterno non costituisce una
costruzione vera e propria: si tratta piuttosto di un volume
tecnico, come gli spazi nei quali corrono le condotte
idriche o termiche e tutte le opere edilizie che servono a
contenere gli impianti al servizio della costruzione
principale, non possono sorgere all'interno del fabbricato e
risultano prive di autonomia funzionale.
Insomma:
l'installazione dell'ascensore esterno deve essere
autorizzata quando serve a rimuovere un grosso ostacolo alla
fruizione dell'abitazione. Il condominio, dal canto suo, non
riesce a dimostrare che il progetto del singolo proprietario
riduca il godimento della cosa comune per tutti gli altri.
Distanza e indifferenza. Il fatto che l'ascensore esterno
non sia una costruzione ha conseguenze importanti anche nei
rapporti di vicinato: il condominio, infatti, ben può
realizzarlo a meno di tre metri dal confine con la proprietà
del vicino, ma sempre a condizione che la tromba delle scale
sia troppo stretta per ospitare la cabina.
È il precedente
che emerge dalla sentenza 1002/2015, pubblicata sempre dal Tar
della Liguria. Il fatto che debbano essere previsti piccoli
spazi per la salita e la discesa dei passeggeri non
impedisce di ritenere l'impianto un mero volume tecnico. E
dunque il computo delle distanze tra le proprietà non può
tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna
dell'ascensore progettato dal condominio.
Maggioranza sufficiente. Ancora. Il comune non può
pretendere il consenso di tutti i proprietari degli immobili
che si affacciano sul cortile prima di autorizzare la
costruzione dell'ascensore che serve al disabile.
Per il
titolo edilizio che l'amministrazione locale è chiamata
rilasciare al cittadino risulta sufficiente il rispetto
delle maggioranze prescritte dal codice civile da parte
dell'assemblea condominiale che delibera l'intervento
edilizio: il permesso a costruire, infatti, viene rilasciato
fatti salvi i diritti dei terzi, i quali dunque devono
rivolgersi al giudice civile se si ritengono lesi.
È quanto
emerge dalla sentenza 561/2016, pubblicata dal Tar Salerno.
Limite unico. Accolto il ricorso del condomino che aveva
superato perfino gli ostacoli posti dalla Soprintendenza per
l'impianto da realizzare in area soggetta a vincolo
ambientale: troppo zelante l'ufficio tecnico dell'ente che
blocca i lavori dell'ascensore necessario a una signora
malata di cancro.
Affinché il via ai lavori abbia il placet
dell'ente, infatti, è sufficiente che la delibera sia
approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero
di voti che rappresenta almeno un terzo del valore
dell'edificio.
L'unico limite è che l'installazione
dell'impianto non deve rendere inservibile il cortile,
altrimenti si configura l'innovazione vietata dall'articolo
dell'articolo 1120, secondo comma, c.c. Ma si tratta di un
elemento che ha rilievo soltanto sul piano civilistico.
Delibera da allegare. Ecco allora che il Comune deve invece
bloccare la Scia per l'ascensore «privato» se
l'amministratore-condomino non ha presentato insieme con il
progetto per superare le barriere architettoniche anche la
delibera dell'assemblea adottata in base all'articolo 78 del
Testo unico dell'edilizia, vale a dire la disposizione che
rimanda al codice civile prevedendo il quorum della
maggioranza e voti pari a un terzo del valore dell'edificio.
Lo sottolinea la sentenza 442/2016, pubblicata dal Tar Lazio.
Manutenzione straordinaria.
Accolto il ricorso di una dei condomini, che riesce a far
bloccare i lavori. L'impianto, prefigurato dalla Scia in un
edificio d'epoca nel centro storico, dovrebbe fermarsi solo
ad alcuni piani dell'edificio, con ogni probabilità a
servizio di un disabile, e non all'altezza dell'appartamento
della ricorrente.
Sbaglia il Comune a non intervenire dopo la segnalazione
dell'interessata perché la Scia è stata presentata senza
titolo dall'amministratrice, che è pure proprietaria
esclusiva di un'unità immobiliare e da un altro condomino.
Per realizzare l'impianto serve infatti un intervento di «manutenzione
straordinaria anche su strutture portanti» e prima di
rivolgersi al Comune bisognava acquisire la volontà di tutto
il condominio secondo la maggioranza indicata dall'articolo
1136 c.c. cui rimanda la norma contro le barriere
architettoniche.
L'impianto al servizio del disabile non può fermarsi solo ad
alcuni piani dell'edificio riducendo l'accessibilità agli
appartamenti, come nel caso dei lavori a danno delle scale e
dei ballatoi: bisogna contemperare gli interessi di tutti
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
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La massima
La giurisprudenza ha negato la natura di costruzione
all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta
di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione
della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a
delineare la nozione di volume tecnico come quell’opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a
contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione medesima.
Si tratta di quegli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione che
tuttavia non possono essere ubicati all’interno di questa, come quelli
connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata
in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto
condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che
considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle
persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre
più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano
dalle vie pubbliche. |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
---------------
Nel
conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
--------------- ... per l'annullamento provvedimento n. 8806/2014 avente ad oggetto istanza per realizzazione ascensore per abbattimento barriere architettoniche con richiesta di immediata sospensione dei lavori. ...
Con il ricorso introduttivo del giudizio il
condominio odierno ricorrente e altri
proprietari impugnavano gli atti di cui in
epigrafe, contenenti le note comunali che
hanno escluso un intervento inibitorio dei
lavori assentiti di realizzazione di un
ascensore esterno inteso a superare le
barriere architettoniche di accesso, nonché il
relativo assenso paesaggistico.
Nel ricostruire in fatto e in diritto la
vicenda, all'atto impugnato si muovevano
pertanto le seguenti censure:
- in tema di edilizia, violazione degli artt. 3 l. 241/1990 e 37 tu
edilizia, 6 d.l. 138/2011, eccesso di potere
per difetto di motivazione e di istruttoria,
per mancato esame delle diffide di parte
ricorrente;
- violazione degli artt. 97 Cost., 10, 11 e 27 tu edilizia, 2 ss.
l. 13/1989, 1120 s. c.c., eccesso di potere
sotto diversi profili, per assenza di
legittimazione a richiedere tale tipologia di
intervento;
- in tema di paesaggio, violazione degli artt. 136 e 146 d.lgs.
42/2004 e diversi profili di eccesso di
potere, basandosi l’assenso paesaggistico su
di un presupposto errato quale la pretesa
invisibilità da visuali prospettiche
pubbliche.
Parte controinteressata si costituiva in
giudizio e, controdeducendo punto per punto,
concludeva per la declaratoria di tardività e
per il rigetto del gravame. Il Comune intimato
non si costituiva in giudizio.
... Peraltro, il ricorso appare comunque infondato nel merito, anche in relazione ai dedotti profili edilizi, in specie alla luce della recente giurisprudenza fatta propria dalla Sezione rispetto alla quale, anche per esigenze di certezza del diritto, non sussistono ragioni di mutamento. In analoga fattispecie (cfr. sent. 1002/2015), è stato evidenziato che “la giurisprudenza (Cass. n. 2566/2011 e CdS n. 6253/2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni. Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore. La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno)". Sulla scorta di tale orientamento, appaiono prima facie infondati i rilievi dedotti. Sia il
primo motivo, avendo in ogni caso parte ricorrente formulato le proprie osservazioni, oggetto di valutazione negativa in sede di risposta.
In proposito, va fatto ulteriore riferimento a quell’orientamento prevalente a mente del quale l'obbligo dell'Amministrazione di prendere in considerazione gli scritti defensionali di parte nell'ambito del procedimento amministrativo, non si traduce in puntuale confutazione della mera rimostranza negativa, essendo sufficiente la completezza motivazionale dell'atto complessivamente valutato, allorché da esso possano agevolmente e unicamente desumersi comunque le ragioni giuridiche ed i presupposti di fatto posti a base della decisione. Sia il
secondo motivo, con cui vengono dedotti rilievi di carattere parzialmente civilistico.
In proposito, per un verso va ulteriormente richiamata la giurisprudenza civile predetta, a mente della quale nel conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini. Nella specie parte ricorrente, nei limiti di sindacato propri della presente sede di legittimità, non ha fornito elementi tali da integrare la violazione dell’uso della cosa comune che va garantito a tutti, invocando questioni tipiche di una controversia civilistica. Sul restante versante, amministrativo, le censure appaiono generiche –costituenti in prevalenza in un collage di massime giurisprudenziali privo di un concreto riferimento alla fattispecie in esame- e non tali da scalfire i principi di recente espressi dalla sezione (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 29.01.2016 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2015 |
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore, all’esterno meno limiti.
Deroga a distanze e vedute se il manufatto è classificabile
come «volume tecnico».
Barriere architettoniche. Le condizioni della giurisprudenza
amministrativa e di legittimità per superare i vincoli
all’installazione.
Posizionare un ascensore
all’esterno di un edificio può costituire una scelta tecnica
obbligata specie nei centri storici, dove gli immobili più
antichi di solito non consentono di realizzare l’impianto
all’interno del caseggiato. Da questa scelta obbligata
possono però derivare una serie di problematiche,
soprattutto in materia di distanze, di titoli abilitativi e
di autorizzazioni paesaggistiche, che la giurisprudenza ha
risolto in relazione alla natura giuridica del manufatto.
Il volume tecnico
Il TAR Liguria, Sez. I, con la
sentenza 03.12.2015 n. 1002, ha respinto il ricorso con cui un confinante aveva
impugnato il provvedimento comunale che assentiva al
condominio proprietario del palazzo di fronte la
realizzazione di un ascensore esterno. I giudici liguri
hanno affermato la natura di volume tecnico del manufatto e
hanno di conseguenza escluso la violazione delle norme in
tema di vedute e di distanze tra costruzioni (articoli 907 e
873 del Codice civile).
Nella sentenza si ricorda
innanzitutto che per volume tecnico deve intendersi
quell’opera edilizia priva di una autonomia funzionale,
anche potenziale, destinata a contenere gli impianti
serventi di una costruzione principale per soddisfarne le
esigenze tecniche. In questa nozione rientrano anche gli
impianti che non possono essere ubicati all’interno della
costruzione, ma che devono considerarsi necessari per il
pieno utilizzo dell’abitazione, tra cui, appunto,
l’ascensore.
La decisione condivide sul punto l’orientamento già espresso
dalla Cassazione (n. 2566/2011) secondo cui questa nozione
di volume tecnico rispecchia il mutamento anche demografico
della nostra società, che ormai «considera l’ascensore come
un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con
problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano
sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani
di scale che li separano dalle vie pubbliche».
Il Tar ha inoltre escluso la violazione dell’articolo 79,
comma 2, del Dpr n. 380/2001, che impone il rispetto delle
distanze anche nel caso di opere finalizzate alla
eliminazione di barriere architettoniche, nell’ipotesi in
cui tra queste ed gli altri fabbricati «non sia interposto
alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune».
Viene richiamata al riguardo la pronuncia del Consiglio di
Stato n. 6253/2012, secondo cui nell’interpretazione di tale
norma va dato rilievo al Dm n. 236/1989, ovvero il
regolamento di attuazione della legge sulle barriere
architettoniche. L’articolo 2 del decreto, infatti,
qualifica come spazio esterno «l’insieme degli spazi aperti,
anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più
edifici» e come parti comuni dell’edificio «quelle unità
ambientali che servono o che connettono funzionalmente più
unità immobiliari».
Applicando questo criterio interpretativo all’ultima parte
dell’articolo 79, comma 2, appare chiaro che il legislatore,
nel far riferimento a spazi o aree «di proprietà o di uso
comune», ha inteso richiamare non solo il dato giuridico
dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso
comune, ma anche il semplice elemento materiale
dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le
sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai
residenti di entrambi gli immobili confinanti.
Inoltre la
definizione di parte comune non presuppone che le unità
immobiliari siano parte di un medesimo edificio; anzi, dal
combinato disposto con la definizione di spazio esterno si
ricava che uno spazio esterno comune può certamente
interessare anche più edifici.
Il vincolo paesaggistico
Sempre in relazione alla natura di volume tecnico, il Tar
Campania, con la sentenza n. 6431/2014, ha poi ricordato che
in base all’articolo 7, comma 2, della legge n. 13/1989
sull’eliminazione delle barriere architettoniche, gli
ascensori esterni ai manufatti anche se alterano la sagoma
dell’edificio sono soggetti a mera autorizzazione (oggi
sostituita dalla Dia), grazie all’articolo 48 della legge n.
457/1978.
I giudici napoletani hanno anche evidenziato come la stessa
ratio che in materia urbanistica porta a escludere i volumi
tecnici dal calcolo della volumetria edificabile induce
ugualmente a escludere gli stessi dal divieto di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Dunque per i
giudici gli interventi che abbiano dato luogo alla
realizzazione di soli volumi tecnici, quali gli ascensori,
rientrano nell’eccezione di cui all’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali (Dlgs n.
42/2004) e sono pertanto suscettibili di accertamento della
compatibilità paesaggistica (anche se, in senso contrario si
è espresso il Consiglio di Stato, sezione IV, con la
sentenza n. 2222 del 29.04.2014).
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In condominio via libera possibile con 500 millesimi.
Gli spazi comuni. I contrari possono non pagare.
L’installazione
di un ascensore in un edificio che ne è sprovvisto
costituisce un’innovazione, quindi in condominio la delibera
deve essere assunta in assemblea con un numero di voti che
rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno 2/3
del valore millesimale dell’edificio (articolo 1136, comma
5, del Codice civile).
È ritenuta una innovazione utile, ma consentita soltanto se
non arrechi pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del
fabbricato, non alteri il decoro architettonico o non renda
talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al
godimento anche di un solo condomino, da intendersi come
sensibile menomazione dell’utilità che costui può trarre
dalla cosa comune.
L’uso delle parti comuni
Il concetto di inservibilità della cosa comune non può però
consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua
nomale utilizzazione, ma è costituito dalla sua concreta
inutilizzabilità secondo la sua naturale fruibilità
(Cassazione, sentenza n. 18334/2012).
La valutazione è senza dubbio più severa nel caso in cui
l’ascensore sia installato all’interno dell’edificio, dove
il sacrificio che subiscono le dimensioni delle scale o
dell’atrio è più sentito. Ma anche quando l’impianto viene
posizionato all’esterno possono insorgere problemi, fermi
restando gli identici presupposti per ritenere legittima
l’opera.
Esiste in ogni caso un “principio di solidarietà
condominiale” che ha un peso nelle decisioni tra vicini di
casa, soprattutto se agevolano chi è disabile oppure
semplicemente anziano.
Il principio è stato recepito, oltre che da consolidata
giurisprudenza (vedi da ultimo Cassazione, n. 16486/2015),
anche dalla riforma del condominio (legge n. 220/2012), che
modificando l’articolo 1120 del Codice civile ha disposto
che le innovazioni dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, tra cui appunto l’installazione
dell’ascensore, possono essere deliberate con il voto
favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea
portatori di almeno la metà del valore millesimale.
La disciplina si applica in via generale a tutti gli
edifici, non necessariamente solo a quelli in cui dimorino
soggetti affetti da menomazioni o limitazioni funzionali
permanenti, perché la norma serve a consentire la
“visitabilità” degli edifici da parte di tutti coloro che
hanno occasione di accedervi, compresi eventuali portatori
di handicap.
Le spese
Si tratta comunque di una innovazione voluttuaria, nel senso
che la decisione della maggioranza non obbliga i contrari a
partecipare alla spesa. Paga solo chi intende usufruire del
servizio.
Nulla vieta ad alcuni condomini di esprimersi favorevolmente
all’installazione e di dichiarare di non volersi
avvantaggiare dell’ascensore, con la conseguenza che coloro
che invece si servono dell’impianto dovranno sopportare
anche la quota di spesa dei condomini non aderenti.
I contrari possono sempre, anche in tempi successivi,
entrare a far parte della comunione, rimborsando le spese
sostenute dai proprietari dell’impianto, versando cioè una
quota comprensiva del costo dell’installazione e della
manutenzione straordinaria eventualmente eseguita nel corso
degli anni: il tutto tenendo magari presente, da un lato, la
svalutazione della moneta nel frattempo intervenuta e,
dall’altro, il minor valore dell’opera per vetustà, uso e
obsolescenza (articolo Il Sole 24 Ore del
18.01.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
L'ascensore è un bene necessario.
L'ascensore esterno all'edificio non è una vera e propria
costruzione: il condominio ben può realizzarlo a meno di tre
metri dal confine con la proprietà del vicino, a patto che
la tromba delle scale sia troppo stretta per ospitare la
cabina. E ciò perché la popolazione italiana invecchia
sempre di più e l'impianto va considerato come un bene
necessario per evitare agli anziani di fare le scale a
piedi.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.12.2015 n. 1002, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Liguria, la regione del nostro Paese dove la
crescita zero si fa sentire di più.
Il ricorso del confinante è accolto, ma per un vizio
procedurale sul titolo edilizio e non per la lamentata
violazione delle norme sulle distanze fra edifici. Secondo
la giurisprudenza della Cassazione deve essere considerato
ogni opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale,
anche potenziale, che risulta destinata a contenere gli
impianti serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali.
Nella categoria rientrano le condotte idriche e termiche che
non è possibile realizzare all'interno dello stabile. E
altrettanto vale per l'ascensore: anche i piccoli spazi
previsti appunto per la salita e la discesa dei passeggeri
non possono far mutare l'opinione in materia.
Insomma: il computo delle distanze tra le proprietà non può
tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna
dell'ascensore progettato dal condominio. Spese del giudizio
compensate appunto perché il ricorso è in parte respinto
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2016).
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MASSIMA
L’ingegner Lu.Be. si ritenne leso dalle
determinazioni indicate nell’epigrafe per il cui
annullamento notificò l’atto 29.07.2015, depositato il
04.08.2015, affidato alle seguenti censure:
-
violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241 in tema
di partecipazione, imparzialità, pubblicità e trasparenza
dell’azione amministrativa, eccesso di potere per
contraddittorietà tra provvedimenti, illogicità, erroneità
manifesta, ingiustizia grave e manifesta.
- Violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241,
dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del
dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ.,
eccesso di potere per insufficiente istruttoria e
motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti,
erroneità manifesta.
Si è costituito in causa il condominio di Recco in via
Cavour 52 che ha chiesto respingersi la domanda.
Con atto debitamente notificato è intervenuta in causa la
signora Ch.No. che ha chiesto respingersi la
domanda.
Con atto notificato il 16.10.2015, depositato il 26.10.2015,
il ricorrente ha dedotto il seguente ulteriore motivo:
-
violazione dell’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241,
dell’art. 9, comma 1, del dm 1444 del 1968, dell’art. 79 del
dpr 06.06.2001, n. 380, degli artt. 873 e 907 cod. civ., della
normativa in tema di superamento delle barriere
architettoniche, omessa motivazione, travisamento dei fatti
e degli atti presupposti.
Le parti hanno depositato memorie e documenti.
L’impugnazione è rivolta contro gli atti del comune di Recco
che hanno assentito la realizzazione dell’ascensore con
sporti di uscita sulla facciata a settentrione del
condominio resistente: si tratta di un immobile elevato per
cinque piani fuori terra che dalla documentazione risulta
non avere altre possibilità di installare l’ascensore al
servizio dei suoi abitanti. Il fabbricato di proprietà
dell’interessato è ubicato in posizione retrostante rispetto
al condominio, sì che si pongono questioni soprattutto sulle
distanze tra il bene in progetto e l’abitazione del
ricorrente.
L’amministrazione condominiale presentò perciò la d.i.a. che
preannunciava l’inizio delle opere, il ricorrente intervenne
nel procedimento, ottenne la sospensione dei lavori, la cui
esecuzione è stata invece legittimata dall’impugnata revoca
della citata sospensione.
Con il primo motivo l’interessato denuncia la violazione
procedimentale che vizierebbe la revoca impugnata, in quanto
trattasi di un atto che incide su una pregressa situazione
tutelata, sì che la sua perdita di efficacia può essere
decisa solo previo il rispetto delle garanzie
procedimentali; nella specie tale osservanza non vi sarebbe
stata, posto che l’atto con cui l’amministrazione
preannunciava l’intendimento di revocare la precedente
sospensione dell’efficacia della d.i.a. è stato inviato il
06.05.2015, che tale comunicazione venne ricevuta dall’odierno
ricorrente il 13.05.2015, e che l’atto lesivo è datato
18.05.2013.
Su tali presupposti il collegio deve convenire con la
censura, posto che la revoca della sospensione
dell’efficacia della d.i.a. che era stata decisa informava
favorevolmente la situazione giuridica del ricorrente, sì
che egli avrebbe avuto titolo ad avere per tempo la
comunicazione ed a controdedurre.
Il motivo è pertanto fondato, ma la sua attitudine a
comportare l’annullamento delle determinazioni impugnate
(art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241) potrà essere
apprezzata all’esito dell’esame degli ulteriori profili
dedotti.
Con la seconda articolata censura il ricorrente lamenta
nell’ordine la violazione:
-
dell’art. 9 del dm 02.04.1968, n. 1444;
-
dell’art. 79 del dpr 06.06.2001, n. 380;
-
degli artt. 873 e 907 del codice civile.
La norma di cui al decreto 1444/1968 sarebbe violata in
quanto non intercorrerebbe il necessario distacco tra la
parete finestrata dell’immobile di proprietà
dell’interessato e la cabina dell’ascensore che è prevista
in vetro con poggioli installati ai diversi piani, così da
permettere il transito degli utenti verso gli appartamenti
posti ai vari livelli.
La violazione denunciata deriverebbe dalla misurazione
operata dal tecnico officiato dal ricorrente, che tuttavia
ha considerato le distanze esistenti tra i due fabbricati
tracciando una linea in diagonale, e con ciò violando le
regole che la condivisa giurisprudenza ha istituito al
riguardo (cass. 25.06.1993, n. 7048, tar Sardegna, 14.05.2014,
n. 335) che ritiene invece illegittimo l’apprezzamento dei
distacchi tra gli edifici avvalendosi del criterio radiale.
Ne consegue che non avendo i due immobili una diretta frontistanza la misura indicata è erronea e non può essere
condivisa.
Con un successivo profilo di impugnazione il ricorrente
lamenta che la cabina dell’ascensore sarà posta a meno di
tre metri dal muro confinario esistente tra le due
proprietà, bene su cui è tra l’altro edificato un parapetto
che consente la vista sul condominio, sì che la nuova
edificazione si porrebbe in violazione degli artt. 873 e 907
cod. civ..
In ordine alla prima delle norme citate si osserva che
la
giurisprudenza (cass.
03.02.2011, n. 2566 e cons. Stato, 6253
del 2012) ha condivisibilmente negato la natura di
costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un
caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non
avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della
tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
La decisione soprattutto della corte di cassazione è giunta
all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la
nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene
destinata a contenere gli impianti serventi di una
costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari
per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono
essere ubicati all'interno di questa,
come quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla
consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al
significato della proprietà, soprattutto condominiale, in
una società che è mutata anche anagraficamente, e che
considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo
alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma
anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e
scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie
pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli
sopra quello terreno).
L’applicazione dei condivisi principi giurisprudenziali al
caso di specie comporta la dichiarazione di infondatezza del
motivo in esame, posto che il computo delle distanze tra le
proprietà non può tener conto dell’innovazione rappresentata
dalla colonna dell’ascensore in progetto, non dovendosi
mutare tale opinione solo perché la rappresentazione grafica
del manufatto erigendo prefigura degli spazi destinati allo
sbarco degli utenti ai diversi livelli; si tratta infatti
degli accessori di un manufatto che non va considerato
volume tecnico per le ragioni esposte, sì che anche i
piccoli spazi previsti appunto per la salita e la discesa
dei passeggeri non possono far mutare l’opinione al
riguardo.
Un’ulteriore censura va esaminata, benché essa presupponga
la disattesa considerazione dell’ascensore come costruzione,
e come tale ne afferma la soggezione alla disciplina sulle
distanze legali.
Rileva al riguardo il ricorrente che il vano ascensore in
progetto fronteggerà la parete rocciosa che si contrappone
alla facciata nord del condominio controinteressato, e che
venne scavata alla base al tempo della costruzione del
caseggiato.
La deduzione è corroborata dalla citazione della
giurisprudenza che, ai fini del controllo del rispetto delle
distanze legali, considera i rilievi di terra creati
dall’opera dell’uomo alla stregua di una costruzione, così
come può dirsi almeno in parte per la parete posta a
settentrione del condominio.
L’assunto è ulteriormente sviluppato con la considerazione
della proprietà del muro o parete in capo al ricorrente,
ovvero con quella della comproprietà del versante tra le
parti in causa, cosa che legittimerebbe comunque
l’interessato a dedurre il vizio in considerazione.
Il tribunale non può condividere neppure questo motivo.
Non è infatti prodotto alcun documento che permetta di
ritenere che la proprietà del ricorrente si estenda sino al
muro, dovendosi per ciò ritenere la carenza di idonei titoli
a dar la prova del diritto affermato.
Per sostenere la tesi in esame nel corso dell’udienza per la
discussione della causa il difensore del ricorrente ha fatto
riferimento a quanto si deduce dai documenti nn. 12 e 13
prodotti dal condominio il 16.10.2015 per affermare che il
confine tra le proprietà in contestazione passa sul colmo
della parete, restando così insufficiente il distacco tra la
facciata della casa ed il fronte roccioso.
Anche in questo caso è possibile rilevare che l’interessato
nulla ha allegato in ordine al diritto vantato sui beni in
questione, sì che la mera produzione ad opera della
controparte di una raffigurazione dello stato dei luoghi può
difficilmente essere ricondotta alla nozione di asserzione
fatta contra se.
Appare piuttosto corretto l’esame della situazione in fatto
alla luce della norme che il codice civile dedica al
rapporto tra proprietà vicine, risultando corretto affermare
che la specie è regolata dall’art. 881 c.c., in quanto la
stessa memoria notificata contenente i motivi aggiunti
espone che in caso di pioggia l’acqua scorre sulla parete di
che si tratta e così in direzione del fondo condominiale.
Ciò configura la situazione del piovente, terminologia
utilizzata dalla norma citata per attribuire la titolarità
esclusiva del diritto reale sul muro a colui che deve
sopportare la caduta delle acque da un tetto o appunto lungo
un muro.
Deve pertanto concludersi che anche a voler considerare
l’ascensore alla stregua di una costruzione non è dal muro
divisorio che possono misurarsi le distanze di legge,
trattandosi di un bene che, allo stato delle produzioni e
nei limiti della cognizione prevista dall’art. 8 c.p.a., va
attribuito in piena proprietà al condominio
controinteressato.
E’ poi dedotta l’illegittimità degli atti impugnati, nella
parte in cui integrano la violazione dell’art. 907 cc che
deriverebbe dalla vicinanza tra la cabina dell’ascensore in
progetto ed il prospetto da cui il ricorrente dichiara di
esercitare il diritto di veduta sul fondo del condominio
sottostante.
La censura è pertanto nel senso che il
prospetto (ad esempio immagine di cui al doc. 11 della
produzione del condominio 16.10.2015) posto sulla sommità
della parete o muro che suddivide i rispettivi fondi aggetta
sul condominio, sì che risulterebbero illegittimi gli atti
impugnati nella parte in cui hanno ammesso la possibilità di
apporre la cabina dell’ascensore ad una distanza inferiore a
quella prevista dalla norma denunciata, che a sua volta
richiama la modalità di misurazione del distacco che è
prevista dall’art. 905 cc.
Il motivo così formulato peraltro collide con la
condivisa
giurisprudenza (ad esempio cass.
07.04.2015, n. 6927) che nega
la possibilità di configurare l’esistenza del diritto di
veduta quando il suo esercizio sia previsto dalla sommità di
un muro che costituisce elemento divisorio tra due o più
fondi: nella specie sì è già rilevata la scarsa chiarezza
circa il confine tra i fondi, ma è certo che la doglianza si
basa sulla violazione del diritto che il ricorrente
ritrarrebbe dagli atti impugnati ove l’ascensore fosse posto
a distanza inferiore a quella di legge rispetto al punto
sommitale della parete.
La tutela legale di una consimile situazione di fatto è
peraltro esclusa dalla lettura data dalla corte di
cassazione alla norme denunciate, con che anche questo
motivo non può trovare favorevole considerazione.
Tali conclusioni inducono a ritenere inammissibili anche le
censure proposte con i motivi aggiunti, posto che la mancata
prova della posizione differenziata in capo al ricorrente
esclude che egli possa legittimamente censurare
l’inserimento del nuovo ascensore nella facciata nord del
condominio resistente.
In conclusione l’infondatezza o l’inammissibilità di tutti i
rilievi sollevati dal ricorrente esclude l’incidenza
dell’omissione procedimentale rilevata nel corso dell’esame
del primo motivo di impugnazione sulla legittimità dei
provvedimenti (art. 21-octies citato).
Il ricorso va pertanto accolto in parte, in parte respinto o
dichiarato inammissibile, ma gli atti impugnati non possono
essere annullati
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 03.12.2015 n. 1002 - link a www.giustizia-amministratva.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il disabile ha diritto al «prolungamento» dell’ascensore. Condominio. Tribunale di Milano.
Un milanese
ultraottantenne, residente al quinto piano, vince in
tribunale la causa contro il condominio che gli bocciava la
richiesta di far arrivare fino al suo piano, a proprie
spese, l’ascensore che aveva capolinea solo al quarto. Il
prolungamento è invece un suo pieno diritto secondo il
Tribunale di Milano (XIII sezione civile, giudice
monocratico Giacomo Rota), che gli ha dato ragione con la
sentenza 12.11.2015 n. 12791.
Il contenzioso prende le mosse dalla proposta dell’anziano
condòmino di innalzare il vano dell’impianto di un ulteriore
piano, fino al suo alloggio, il tutto a sue spese. E correda
la richiesta con pareri tecnici e progetto.
Infine (maggio 2014) si arriva all’assemblea, che boccia il
prolungamento perché i lavori potrebbero ledere il decoro
del palazzo (di notevole pregio architettonico) e la
stabilità e sicurezza dell’immobile. La delibera è quindi
impugnata in Tribunale.
Entrano in scena l’articolo 1120 del Codice civile, che
riguarda le innovazioni vietate (legittimabili solo
all’unanimità), e il 1102, che autorizza gli interventi che
il singolo può realizzare a sue spese, purché non alterino
la destinazione della cosa comune e non impediscano agli
altri un pari uso.
Il giudice monocratico ha chiarito che il singolo non ha
bisogno di chiedere autorizzazioni all’assemblea per
realizzare innovazioni che rimangano nei binari di entrambi
gli articoli: nei limiti di legge, è un inalienabile diritto
soggettivo, salvo eventuali circostanziati limiti precisati
nel regolamento contrattuale.
In ogni caso, spetta ai dissenzienti dimostrare, in
concreto, i motivi che ostano all’innovazione. Ma
l’assemblea, osserva il giudice, ha respinto la proposta
senza fornire l’onere della prova dell’asserito rischio per
la stabilità. E ha sostenuto che i lavori avrebbero impedito
l’uso dell’ascensore per un po’ di tempo: un problema, dato
il grave stato di salute di alcuni condomini. Ma la
circostanza è stata ritenuta dal giudice ininfluente per
valutare la legittimità del diniego, e ha accertato il
diritto del condòmino a fare i lavori, condannando il
condominio alle spese di giudizio (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.12.2015). |
anno 2014 |
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa occupatasi del
problema ha evidenziato che le previsioni per il superamento
e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli
edifici privati –dettate in generale dalla l. n. 13/1989,
poi trasfusa nel d.P.R. n. 380/2001, ed articolate in
dettaglio nel d.m. 14.06.1989, n. 236– hanno elevato il
livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni
fisiche, oramai reputato interesse primario della
collettività, da soddisfare con interventi tesi a rimuovere
situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello
svolgimento di una normale vita di relazione.
Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il sistema di
tutela delle persone disabili è applicabile, nel concreto,
compatibilmente con altri interessi pubblici, i quali non
possono essere pretermessi, ma devono essere bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale di tali persone: ne
consegue che le misure necessarie a rendere effettiva la
tutela delle persone disabili, sulla base degli artt. 2, 3 e
32 Cost., possono essere legittimamente graduate in vista
dell’attuazione del principio della parità di trattamento,
tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e
fermo, comunque, il rispetto di un nucleo indefettibile di
garanzie per gli interessati.
Il diniego sull’istanza di autorizzazione all’intervento
diretto ad eliminare le barriere architettoniche sarà,
dunque, consentito qualora non sia possibile realizzare le
opere, senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati,
tenendo peraltro conto che di eliminazione delle barriere
architettoniche si può parlare solo per le opere
tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità,
l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, come
ad es. servoscale ed ascensori, e non già per le opere tese
alla migliore fruibilità dell’edificio ed alla maggiore
comodità dei residenti, come ad es. porticati o tettoie.
Nell’ottica appena illustrata, va evidenziato che il
Legislatore ha effettuato scelte puntuali in merito alla
graduazione degli interessi coinvolti. Ad es., nel
bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia del
patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla tutela
del diritto alla salute e ad una normale vita di relazione
delle persone disabili, la normativa ha dato prevalenza a
quest’ultimo, consentendo il diniego dell’autorizzazione
alla realizzazione degli interventi su un bene vincolato
solo in caso di accertato e motivato serio pregiudizio del
bene stesso. Al contrario, è stato ritenuto prevalente
l’interesse al rispetto della normativa antincendio.
---------------
Il Legislatore, con l'art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 e con
le norme dal medesimo richiamate (artt. 873 e 907 c.c.), ha
ritenuto di comporre il contrasto dando prevalenza al
diritto dei terzi di veder rispettate le distanze tra le
costruzioni previste dalle norme del codice civile
richiamate e, dunque, una distanza non inferiore a tre
metri: ciò, al fine di garantire la salubrità delle
costruzioni.
In altre parole, il Legislatore ha considerato l’interesse
delle persone disabili recessivo rispetto al diritto alla
salute dei soggetti “terzi” ed in specie dei proprietari di
immobili finitimi, che non possono patire una lesione di
siffatto diritto per effetto della costruzione di
intercapedini, tali da incidere sulla salubrità delle
costruzioni. E la scelta del Legislatore è stata ritenuta
non illogica dalla giurisprudenza, attesa la pari rilevanza
del diritto alla salute dei soggetti confinanti rispetto a
quello dei portatori di minorazioni.
Peraltro, la giurisprudenza di merito ha chiarito come il
comma 2 dell’art. 3 della l. n. 13/1989 (ora comma 2
dell’art. 79 del d.P.R. n. 380 cit.) debba interpretarsi nel
senso che la distanza minima da mantenere, nella
realizzazione delle opere dirette a rimuovere le barriere
architettoniche, rispetto ai fabbricati vicini, in assenza
di spazi o aree di proprietà o uso comune, è quella di tre
metri prevista dalla prima parte dell’art. 873 c.c.
(indicata anche dall’art. 907 c.c.), poiché il richiamo al
citato art. 873 c.c. deve intendersi limitato alla sola
prima parte di detta disposizione, con esclusione, pertanto,
delle previsioni dei regolamenti locali.
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79
del d.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga alle
norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi
(dettata nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di
normazione primaria, con il corollario di dover limitare al
dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi
dell’inapplicabilità ad una fattispecie del tutto analoga a
quella ora in esame (installazione dell’ascensore esterno ad
un edificio) della disciplina sulle distanze dai fabbricati
alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
Ciò, al fine di garantire e realizzare il principio di
uguaglianza sostanziale anche nei riguardi dei soggetti
disabili, secondo l’insegnamento espresso dalla Corte
costituzionale con la già ricordata sentenza n. 167/1999.
---------------
L’inapplicabilità alle opere volte a rimuovere le barriere
architettoniche della disciplina sulle maggiori distanze
contenuta nei regolamenti edilizi comunali, discende dalla
deroga espressa a detta disciplina stabilita dell’art. 79,
comma 1, del d.P.R. n. 380/2001.
Tale deroga verrebbe frustrata –e dunque la previsione che
la contiene sarebbe inutiliter data– ove si ritenesse che il
rinvio contenuto nel comma 2 dell’art. 79 cit. all’art. 873
c.c. riguardi anche la seconda parte di siffatta
disposizione del codice civile (la quale, come già
illustrato, ammette che nei regolamenti locali venga fissata
una distanza maggiore di quella di mt. 3 prevista dalla
prima parte dello stesso art. 873 c.c.).
In altre parole, il Legislatore sarebbe incorso in
un’abnorme contraddizione, qualora avesse stabilito al comma
1 dell’art. 79 cit. l’inapplicabilità delle distanze
previste nei regolamenti edilizi comunali alle opere (come
gli ascensori esterni) volte a rimuovere le barriere
architettoniche, per poi, invece, rendere applicabili le
suddette distanze, tramite il rinvio all’art. 873 c.c.
contenuto nel comma 2 del medesimo art. 79: ma la
contraddizione si supera ritenendo che il rinvio operato
dall’art. 79, comma 2, cit., riguardi solamente la prima
parte dell’art. 873 c.c. e, dunque, renda applicabile alle
opere in questione soltanto la distanza di mt. 3 stabilita
dalla prima parte dell’ora vista disposizione codicistica.
---------------
Per quanto concerne l’inapplicabilità delle distanze
previste dal d.m. n. 1444/1968, si richiama –ad ulteriore
supporto– il principio per cui la disciplina in materia di
distanze non opera per quegli impianti che debbono
considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell’appartamento e che riflettono l’evoluzione delle
esigenze generali dei cittadini, senza trascurare che nel
caso di specie sono tutelati primari valori costituzionali,
mentre il diritto alla salute, di pari rango costituzionale,
dei proprietari dei fabbricati alieni è già garantito con
l’applicazione della distanza di mt. 3 ex artt. 873 e 907
c.c..
Formano oggetto di impugnazione il provvedimento comunale di
archiviazione della richiesta della società ricorrente
diretta al rilascio del permesso di costruire un ascensore
esterno per disabili in un fabbricato civile ed il parere
negativo della Commissione Edilizia Comunale sul quale si è
basata la medesima archiviazione.
In particolare, il parere negativo richiama il mancato
rispetto delle distanze ex d.m. n. 1444/1968, di quelle
dettate dal codice civile e di quelle previste dal
regolamento edilizio comunale.
La domanda di annullamento formulata con il ricorso è
fondata e meritevole di accoglimento, per le ragioni che di
seguito si espongono.
Va premesso al riguardo che l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001
(il quale ha riprodotto l’art. 3 della l. n. 13/1989), nel
disciplinare le opere dirette all’eliminazione delle
barriere architettoniche, ha disposto al comma 1 che tali
opere possono essere realizzate in deroga alle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i
cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di
uso comune a più fabbricati. Al comma 2 ha, poi, stabilito
che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di
cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le
opere da realizzare ed i fabbricati alieni non sia
interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso
comune.
Il richiamato art. 873 c.c., dal canto suo, nel disciplinare
le distanze tra le costruzioni, stabilisce che le
costruzioni su fondi finitimi, se non unite o aderenti,
devono essere tenute a distanza non minore di tre metri,
potendo peraltro nei regolamenti locali essere dettata una
distanza maggiore. L’art. 907 c.c., infine, stabilisce la
medesima distanza di mt. 3 in relazione alla distanza delle
costruzioni dalle vedute.
Così indicata la normativa di riferimento, la giurisprudenza
amministrativa occupatasi del problema (v. TAR Abruzzo,
Pescara, Sez. I, 24.02.2012, n. 87) ha evidenziato che le
previsioni per il superamento e l’eliminazione delle
barriere architettoniche negli edifici privati –dettate in
generale dalla l. n. 13/1989, poi trasfusa nel d.P.R. n.
380/2001, ed articolate in dettaglio nel d.m. 14.06.1989, n.
236– hanno elevato il livello di tutela dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche, oramai reputato interesse
primario della collettività, da soddisfare con interventi
tesi a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della
persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2011, n. 5343; cfr.,
sul punto, Corte cost., 10.03.1999, n. 167 e 04.07.2008, n.
251).
Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il sistema di
tutela delle persone disabili è applicabile, nel concreto,
compatibilmente con altri interessi pubblici, i quali non
possono essere pretermessi, ma devono essere bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale di tali persone: ne
consegue che le misure necessarie a rendere effettiva la
tutela delle persone disabili, sulla base degli artt. 2, 3 e
32 Cost., possono essere legittimamente graduate in vista
dell’attuazione del principio della parità di trattamento,
tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e
fermo, comunque, il rispetto di un nucleo indefettibile di
garanzie per gli interessati.
Il diniego sull’istanza di autorizzazione all’intervento
diretto ad eliminare le barriere architettoniche sarà,
dunque, consentito qualora non sia possibile realizzare le
opere, senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati
(TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit.), tenendo
peraltro conto che di eliminazione delle barriere
architettoniche si può parlare solo per le opere
tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità,
l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, come
ad es. servoscale ed ascensori, e non già per le opere tese
alla migliore fruibilità dell’edificio ed alla maggiore
comodità dei residenti, come ad es. porticati o tettoie (v.
TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 08.11.2011, n. 526).
Nell’ottica appena illustrata, va evidenziato che il
Legislatore ha effettuato scelte puntuali in merito alla
graduazione degli interessi coinvolti. Ad es., nel
bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia del
patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla tutela
del diritto alla salute e ad una normale vita di relazione
delle persone disabili, la normativa ha dato prevalenza a
quest’ultimo, consentendo il diniego dell’autorizzazione
alla realizzazione degli interventi su un bene vincolato
solo in caso di accertato e motivato serio pregiudizio del
bene stesso (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit.,
con i precedenti ivi elencati). Al contrario, è stato
ritenuto prevalente l’interesse al rispetto della normativa
antincendio (C.d.S., Sez. V, 08.03.2011, n. 1437).
Con riferimento, in particolare, al problema che qui rileva
–cioè quello del contrasto tra l’interesse dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi
(in particolare, i proprietari di fabbricati alieni)– il
Legislatore, con il surriferito art. 79 del d.P.R. n.
380/2001 e con le norme dal medesimo richiamate (artt. 873 e
907 c.c.), ha ritenuto di comporre il contrasto dando
prevalenza al diritto dei terzi di veder rispettate le
distanze tra le costruzioni previste dalle norme del codice
civile richiamate e, dunque, una distanza non inferiore a
tre metri: ciò, al fine di garantire la salubrità delle
costruzioni.
In altre parole, il Legislatore ha considerato l’interesse
delle persone disabili recessivo rispetto al diritto alla
salute dei soggetti “terzi” ed in specie dei
proprietari di immobili finitimi, che non possono patire una
lesione di siffatto diritto per effetto della costruzione di
intercapedini, tali da incidere sulla salubrità delle
costruzioni. E la scelta del Legislatore è stata ritenuta
non illogica dalla giurisprudenza (TAR Abruzzo, Pescara,
Sez. I, n. 87/2012, cit.), attesa la pari rilevanza del
diritto alla salute dei soggetti confinanti rispetto a
quello dei portatori di minorazioni.
Peraltro, la giurisprudenza di merito ha chiarito come il
comma 2 dell’art. 3 della l. n. 13/1989 (ora comma 2
dell’art. 79 del d.P.R. n. 380 cit.) debba interpretarsi nel
senso che la distanza minima da mantenere, nella
realizzazione delle opere dirette a rimuovere le barriere
architettoniche, rispetto ai fabbricati vicini, in assenza
di spazi o aree di proprietà o uso comune, è quella di tre
metri prevista dalla prima parte dell’art. 873 c.c.
(indicata anche dall’art. 907 c.c.), poiché il richiamo al
citato art. 873 c.c. deve intendersi limitato alla sola
prima parte di detta disposizione, con esclusione, pertanto,
delle previsioni dei regolamenti locali (Trib. Genova,
13.11.1997, in Arch. Locazioni, 1998, 86).
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79
del d.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga alle
norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi
(dettata nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di
normazione primaria, con il corollario di dover limitare al
dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi
dell’inapplicabilità ad una fattispecie del tutto analoga a
quella ora in esame (installazione dell’ascensore esterno ad
un edificio) della disciplina sulle distanze dai fabbricati
alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (Trib.
Monza, 01.10.2007, in Giur. Merito, 2008, 3, 728). Ciò, al
fine di garantire e realizzare il principio di uguaglianza
sostanziale anche nei riguardi dei soggetti disabili,
secondo l’insegnamento espresso dalla Corte costituzionale
con la già ricordata sentenza n. 167/1999.
Gli arresti ora riferiti debbono essere condivisi.
Invero, l’inapplicabilità alle opere volte a rimuovere le
barriere architettoniche della disciplina sulle maggiori
distanze contenuta nei regolamenti edilizi comunali,
discende dalla deroga espressa a detta disciplina stabilita
dell’art. 79, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001. Tale deroga
verrebbe frustrata –e dunque la previsione che la contiene
sarebbe inutiliter data– ove si ritenesse che il
rinvio contenuto nel comma 2 dell’art. 79 cit. all’art. 873
c.c. riguardi anche la seconda parte di siffatta
disposizione del codice civile (la quale, come già
illustrato, ammette che nei regolamenti locali venga fissata
una distanza maggiore di quella di mt. 3 prevista dalla
prima parte dello stesso art. 873 c.c.).
In altre parole, il Legislatore sarebbe incorso in
un’abnorme contraddizione, qualora avesse stabilito al comma
1 dell’art. 79 cit. l’inapplicabilità delle distanze
previste nei regolamenti edilizi comunali alle opere (come
gli ascensori esterni) volte a rimuovere le barriere
architettoniche, per poi, invece, rendere applicabili le
suddette distanze, tramite il rinvio all’art. 873 c.c.
contenuto nel comma 2 del medesimo art. 79: ma la
contraddizione si supera ritenendo –con la giurisprudenza
sopra richiamata– che il rinvio operato dall’art. 79, comma
2, cit., riguardi solamente la prima parte dell’art. 873
c.c. e, dunque, renda applicabile alle opere in questione
soltanto la distanza di mt. 3 stabilita dalla prima parte
dell’ora vista disposizione codicistica.
Per quanto concerne, poi, l’inapplicabilità delle distanze
previste dal d.m. n. 1444/1968, si richiama –ad ulteriore
supporto– il principio per cui la disciplina in materia di
distanze non opera per quegli impianti che debbono
considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell’appartamento e che riflettono l’evoluzione delle
esigenze generali dei cittadini (Pret. Catania, 20.03.1992,
Lirosi c. Pantò), senza trascurare che nel caso di specie
sono tutelati primari valori costituzionali, mentre il
diritto alla salute, di pari rango costituzionale, dei
proprietari dei fabbricati alieni è già garantito con
l’applicazione della distanza di mt. 3 ex artt. 873 e 907
c.c. (TAR Lazio-Latina,
sentenza
22.09.2014 n. 726 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Ascensore
installabile autonomamente.
Domanda
Sono
l'amministratore di un condominio, un condomino del quale
intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene
non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei
conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in
materia.
Risposta
La pretesa del
condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha
affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la
sentenza della Corte di appello) che è legittima
l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese
di un solo condomino, senza previa autorizzazione
dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo
di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima
che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto
non richiede l'autorizzazione del condominio) se non
pregiudica la stabilità o il decoro architettonico
dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012),
la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio,
l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, deve
considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità
dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano
rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da
tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c.
sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per
effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c.,
della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione
applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Si intendono per barriere architettoniche –ai
sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
- “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
- “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.
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Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez.
II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato
in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria)
dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.),
per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del
18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per
l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in
Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa
la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del
silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n.
13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del
22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti
in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad
intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n.
13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei
soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07,
notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e
la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in
base alle seguenti argomentazioni difensive:
I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non
sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle
barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989
–tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236
del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori
–coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere
sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con
conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n.
490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n.
13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a
richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario
l’esplicito assenso della Soprintendenza;
II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione,
“sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione
dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento
all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali
di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione
delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il
vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i
lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello
stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in
presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare
gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate
controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale
base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa. Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge
09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989. Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel
primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale. Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata. Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge
01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data
08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del
06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego. In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che
l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia,
la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del
Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di assenso da
parte della proprietaria dell’area scoperta confinante non è
necessario nel caso in esame d’installazione di un ascensore
per disabili, dove, operando la deroga alle distanze
stabilite dai regolamenti edilizi comunali, prevista
dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001 in favore delle
opere finalizzate ad eliminare le barriere architettoniche,
rimangono rispettate le distanze stabilite dagli artt. 873 e
907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni e delle
costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della
controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un
fabbricato.
... per l'annullamento del provvedimento comunale 29.4.2013
n. 40669 avente ad oggetto: "Denuncia di inizio attività prot. n. 6357 del 27.1.2010. Diffida a non effettuare
l'intervento" per la realizzazione di un ascensore esterno.
...
Ritenuto che:
- l’atto di diffida impugnato è stato emesso una volta
spirato il termine perentorio stabilito dall’art. 23, comma
6, D.P.R. n. 380/2001 per l’esercizio del potere inibitorio;
né risultano evidenziati nella motivazione del provvedimento
di diffida impugnato i presupposti per l’esercizio del
potere di autotutela o di quello repressivo sanzionatorio,
esercitabile, quest’ultimo, nel caso residuale, non
ricorrente nella fattispecie, di non conformità dell’opera
al progetto presentato;
- peraltro, l’atto di assenso da parte della proprietaria
dell’area scoperta confinante, tardivamente richiesto
dall’amministrazione, non è necessario nel caso in esame
d’installazione di un ascensore per disabili, dove, operando
la deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi
comunali, prevista dall’art. 79, comma 1, D.P.R. n. 380/2001
in favore delle opere finalizzate ad eliminare le barriere
architettoniche, rimangono rispettate le distanze stabilite
dagli artt. 873 e 907 c.c. (rispettivamente tra costruzioni
e delle costruzioni dalle vedute) essendo l’immobile della controinteressata un’area scoperta non edificabile e non un
fabbricato;
- pertanto, il ricorso è fondato e deve essere accolto con
l’annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.09.2013 n. 1106 - link a www.giustizia-amministrativa). |
CONDOMINIO: Ascensori, conta il risultato.
Delibera valida se attenua le condizioni di disagio.
Secondo la Cassazione si possono anche non
osservare tutte le prescrizioni di legge.
Ascensori condominiali: assoluta mancanza di sintonia tra il
legislatore e la giurisprudenza. Se, infatti, i giudici di
merito e di legittimità sono impegnati ormai da tempo in
un'operazione di interpretazione estensiva della normativa
speciale di favore per i soggetti diversamente abili
finalizzata all'abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche, la recente legge n. 220/2012 di riforma del
condominio, pur nel quadro di un generale abbassamento delle
maggioranze assembleari, ha inaspettatamente innalzato il
quorum necessario all'adozione delle relative deliberazioni.
La Corte di cassazione, proseguendo invece nel proprio
filone giurisprudenziale, con la recente
ordinanza
26.07.2013 n. 18147 ha quindi confermato che, nel caso di
installazione di un ascensore in condominio, l'eventuale
mancato rispetto delle distanze minime e delle vedute, così
come delle particolari prescrizioni tecniche dettate dalla
legge speciale per la realizzazione dell'opera, non
comportano di per sé l'invalidità della relativa
deliberazione, dovendosi sempre procedere al bilanciamento
dei contrapposti interessi sulla base dei criteri generali
di cui all'art. 1102 c.c.
La decisione della Suprema corte. Nella specie alcuni
condomini avevano impugnato la deliberazione con cui
l'assemblea condominiale aveva deliberato l'installazione di
un impianto di ascensore nell'edificio che ne era privo,
giovandosi della speciale maggioranza di cui alla legge n.
13/1989 (disposizione ora confluita nell'art. 1120, comma 2,
c.c.). Si era così deciso di posizionare l'impianto nel
cortile interno, occupandone una minima parte.
I condomini
contrari alla deliberazione si dolevano però del fatto che
la nuova struttura non rispettasse le distanze minime
previste dai regolamenti locali e che il c.d. cono d'ombra
in tal modo generato nuocesse alla vivibilità complessiva
dei propri appartamenti. Gli stessi avevano altresì eccepito
come l'opera da realizzare non corrispondesse del tutto agli
accorgimenti tecnici da osservare ai fini dell'abbattimento
delle barriere architettoniche (a causa della riferita
presenza di un gradino di accesso al fabbricato,
dell'apertura manuale della porta, di dislivelli e relativi
gradini tra le uscite dall'ascensore e i vari pianerottoli,
nonché per l'assenza di dispositivi tecnici di
segnalazione).
La sesta sezione civile della Cassazione, nel
confermare la sentenza impugnata in relazione alla
valutazione operata dai giudici di merito circa il
contemperamento degli opposti interessi dei condomini sulla
base dei principi di cui all'art. 1102 c.c., ha anche
chiarito che l'impossibilità di poter osservare tutte le
prescrizioni previste dalla normativa speciale per
l'abbattimento delle barriere architettoniche, tenuto conto
delle oggettive condizioni dell'edificio, non può costituire
circostanza tale da comportare la totale inapplicabilità
delle disposizioni di favore finalizzate ad agevolare
l'accesso agli immobili dei soggetti diversamente abili.
Per
la validità della delibera a maggioranza ridotta è infatti
sufficiente che l'intervento approvato abbia comunque
conseguito un risultato conforme alle finalità della legge,
comportando cioè una sensibile attenuazione delle condizioni
di disagio nella fruizione del bene primario
dell'abitazione, rispetto alla precedente situazione di
fatto.
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Riforma, marcia indietro sui disabili.
Dalla riforma del condominio una grave marcia indietro sulla
tutela dei disabili. La presenza nell'immobile condominiale
di una persona anziana (ultrasessantacinquenne) invalida,
indipendentemente dal fatto che la stessa sia un condomino o
un suo familiare, oppure semplicemente un conduttore o un
suo familiare, conferisce alla stessa il diritto di chiedere
all'assemblea l'approvazione a maggioranza semplice di una
delibera per l'installazione dell'ascensore, considerato
quale innovazione diretta al superamento delle c.d. barriere
architettoniche.
L'approvazione della deliberazione assembleare in casi del
genere, prima della riforma del condominio, poteva avvenire,
in prima convocazione, con la maggioranza degli intervenuti
rappresentanti i 501 millesimi dell'edificio, mentre in
seconda convocazione era sufficiente una maggioranza di
almeno un terzo dei partecipanti al condominio e un terzo
del valore millesimale dell'edificio (erano cioè sufficienti
334 millesimi). Il legislatore della riforma del condominio
di cui alla legge n. 220/2012, probabilmente per un difetto
di coordinamento tra le varie disposizioni, ha tuttavia di
fatto aumentato il quorum necessario per assumere le
predette delibere assembleari, richiedendo, sia in prima che
in seconda convocazione, il voto favorevole della
maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino
almeno la metà del valore millesimale dell'edificio.
Non si riesce davvero a comprendere le ragioni di questa
modifica, in quanto peggiorativa proprio per quel che
riguarda posizioni per le quali sarebbe stato, semmai,
opportuno allargare la tutela giuridica e non certo
restringerla (il grado di civilizzazione di qualsiasi
società si evidenzia anche dal modo in cui essa affronta e
risolve i problemi dei disabili).
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Per l'installazione il percorso è a ostacoli.
Percorso a ostacoli per l'installazione dell'ascensore in
condominio. Secondo le più recenti decisioni dei giudici
l'iniziativa del singolo condomino o la deliberazione
dell'assemblea non possono essere vietate se, pur
comportando un semplice disagio nell'utilizzo di una parte
comune (cortile, pianerottolo ecc.), soddisfino le esigenze
dei condomini disabili (soprattutto se abitanti a un piano
alto), praticamente impossibilitati, in considerazione del
loro stato fisico, a raggiungere la propria abitazione a
piedi. Si deve però considerare che non può essere
consentita quell'opera che renda talune parti comuni
dell'edificio del tutto inservibili all'uso o al godimento
anche di un solo condomino.
Quando non è possibile installare l'ascensore. Non è
possibile installare l'ascensore nelle parti comuni se la
modifica che si intende realizzare altera la destinazione
della cosa comune e impedisce agli altri condomini di farne
uguale uso secondo il loro diritto. In altre parole non è
possibile l'installazione se questa comporta non un semplice
disagio, ma l'inservibilità di una parte comune. Tale
situazione certamente ricorre, ad esempio, nel caso in cui
si determini una rilevante limitazione dello spazio di
manovra e di superficie di parcheggio nell'area del cortile
condominiale o una limitazione alle vedute dei condomini o
all'illuminazione degli appartamenti o trasformazioni di uso
di una camera di un appartamento (che, ad esempio, non può
più essere utilizzata come camera da letto).
Del resto non è valida la decisione assembleare che preveda
l'installazione di un ascensore, previa notevole riduzione
della rampa comune, rendendola così pericolosa sotto il
profilo della sicurezza antincendi: in questo caso, infatti,
l'opera deliberata diventerebbe illecita e la relativa
delibera sarebbe essa stessa invalida e, se impugnata avanti
il tribunale, incorrerebbe nella sanzione dell'annullamento,
anche su ricorso di un solo condomino.
Dunque il taglio delle scale per ricavare il vano ascensore
è in teoria ammesso, ma solo entro certi limiti: la residua
larghezza delle scale condominiali non può essere
eccessivamente esigua, altrimenti le stesse diverrebbero
disagevoli per le persone o addirittura inservibili per il
trasporto di mobili od oggetti ingombranti. Così, ad
esempio, i giudici della Cassazione in una recente decisione
hanno ritenuto illecita la delibera dell'assemblea che per
far spazio al nuovo ascensore prevedeva una riduzione della
larghezza della scalinata comune a soli 90 centimetri.
La lesione del decoro dell'edificio. Non è possibile
installare l'ascensore neppure nel caso in cui l'opera
comporti una lesione del decoro dell'edificio. Così non
sembra possibile installare la gabbia di un moderno
ascensore in un cortile interno di un edificio ottocentesco:
in tal caso, infatti, è inevitabile una modifica sensibile
della linea estetica originaria del fabbricato, e, quindi,
il relativo decoro architettonico ne risulta pregiudicato.
Il discorso è ancora più evidente se i finestroni
prospettanti nel cortile vengono coperti o trasformati in
bocche di ingresso della colonna dell'ascensore o si prevede
la distruzione di antiche mensole e cornici in pietra
bianca. Del resto si deve considerare che l'alterazione del
decoro architettonico può derivare anche dalla modifica
dell'originario aspetto di singoli elementi o di singole
parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale
autonomia o siano comunque suscettibili di considerazione
autonoma
(articolo ItaliaOggi Sette del
23.09.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
dell’ascensore può certamente ricondursi al novero degli
interventi di manutenzione straordinaria, a patto che non
siano alterati i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari.
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La disposizione di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001
costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento che
determina l’abrogazione, ex art. 10 della legge 10.02.1953,
n. 62, delle eventuali disposizioni regionali previgenti
difformi, potendo le regioni soltanto ampliare –e non
ridurre– il catalogo degli interventi sottoposti al
preventivo rilascio del permesso di costruire.
Ai fini della
corretta qualificazione dell’intervento occorre fare
riferimento all’art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, il
quale, alle lettere b) e d), chiarisce cosa debba intendersi
–rispettivamente- per interventi di manutenzione
straordinaria e di ristrutturazione.
In particolare, si intendono per "interventi di
manutenzione straordinaria" le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di
uso.
Dunque, l’installazione dell’ascensore può certamente
ricondursi al novero degli interventi di manutenzione
straordinaria, a patto che non siano alterati i volumi e le
superfici delle singole unità immobiliari.
Nel caso di specie, invece, è pacifico e non contestato che
vi sia stato un innalzamento della parete perimetrale
(immediatamente apprezzabile dalla documentazione
fotografica di cui ai docc. 16 e 19 delle produzioni
22.03.2013 di parte ricorrente, oltreché dalla tavola “superficie
di riferimento per calcolo oneri” allegata al doc. 12
delle produzioni 21.07.2010 di parte comunale), con
conseguente incremento volumetrico dell’unità immobiliare
sottostante, sicché l’intervento non è qualificabile come “manutenzione
straordinaria”.
Come correttamente rilevato dalla difesa del ricorrente, la
errata qualificazione dell’intervento rileva ai fini del
titolo necessario alla sua realizzazione, posto che, ai
sensi dell’art. 10, comma 2, lett. c), del D.P.R. n.
380/2001, sono soggetti a permesso di costruire –e dunque
non sono realizzabili mediante D.I.A.– gli interventi di
ristrutturazione così detta “pesante”, cioè quelli
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino –come nel caso di
specie- modifiche del volume, della sagoma e dei prospetti.
Ed è appena il caso di precisare che la disposizione di cui
all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 costituisce un principio
fondamentale dell’ordinamento (cfr. C. cost., 23.11.2011, n.
309), che determina l’abrogazione, ex art. 10 della legge
10.02.1953, n. 62, delle eventuali disposizioni regionali
previgenti difformi (Cons. di St., Ad. Plen., 07.04.2008, n.
2; TAR Liguria, I, 14.12.2012, n. 1658), potendo le regioni
soltanto ampliare –e non ridurre– il catalogo degli
interventi sottoposti al preventivo rilascio del permesso di
costruire (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Integra
la nozione di "volume tecnico", non computabile nella
volumetria della costruzione, l'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinata a contenere impianti serventi –quali quelli
connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore– di
una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali
dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella
stessa.
Trattandosi, all’evidenza, di volume tecnico –così come
argomentato dalla ricorrente– tale superficie va espunta dal
calcolo della sanzione, in aderenza ai principi elaborati,
in proposito, dalla giurisprudenza secondo la quale integra
la nozione di "volume tecnico", non computabile nella
volumetria della costruzione, l'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinata a contenere impianti serventi –quali quelli
connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore– di
una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali
dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella
stessa (cfr., di recente: TAR Umbria, n. 46 del 2013; Cassaz.,
sez. II civ., n. 20886 del 2012; Cons. Stato, sez. IV, n.
678 del 2011; Cons. Stato, sez. V, n. 236 del 2009) (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 390 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni culturali. Parere negativo della competente
Soprintendenza in merito alla realizzazione di ascensore in
un palazzo semivincolato
Il quadro normativo di riferimento, in
materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche -in
particolare, costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e
05.02.1992 n. 104, ha sicuramente elevato il livello di
tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto
ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come
interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare
con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive
dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una
normale vita di relazione: donde le previsioni per il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati, dettate in via generale dalla legge
n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m.
14.06.1989 n. 236, fissanti criteri da osservarsi sia in
sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di
ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde
garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da
parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile
dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n.
13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene
tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere
motivato con la specificazione della natura e della serietà
del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato”.
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti
portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito
dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104- ha
sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti,
non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed
individuale, ma ormai considerato come interesse primario
dell'intera collettività, da soddisfare con interventi
mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo
della persona e dello svolgimento di una normale vita di
relazione: donde le previsioni per il superamento e
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989
e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236-
fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione
e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione
generale di quelli esistenti, onde garantire idonee
condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti
handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di
particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n.
13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene
tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere
motivato con la specificazione della natura e della serietà
del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato” (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n. 543 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nuove
costruzioni. L'orientamento dei tribunali amministrativi
supera quello del Consiglio di Stato che aveva bocciato
qualsiasi tipo di edificazione
Il Tar apre alla sanatoria dei volumi tecnici. I giudici di
Puglia e Umbria dicono sì alla regolarizzazione a titolo di
abuso minore in zona paesaggistica.
La realizzazione di volumi tecnici può ottenere
l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
È quanto affermato dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari, con
la
sentenza 11.01.2013 n. 35.
Davanti ai giudici pugliesi era stato impugnato un diniego
di permesso di costruire in sanatoria di un locale
realizzato sulla copertura dell'edificio e destinato a
ospitare impianti tecnologici. Poiché il fabbricato ricadeva
in area assoggettata a vincolo paesistico, il Comune –pur
ritenendo sanabile l'abuso sotto il profilo edilizio– si era
però dovuto adeguare al parere obbligatorio della
Soprintendenza, che si era espressa in termini negativi,
così precludendo l'assenso all'accertamento di conformità.
Il ricorrente ha quindi denunciato la violazione
dell'articolo 167 del Dlgs 42/2004, nella sua attuale
formulazione, in base al quale tra gli interventi per cui è
ammessa la sanatoria paesaggistica vi sono «i lavori,
realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati». Il diniego della
Soprintendenza, e quello conseguente del Comune, dovevano
ritenersi illegittimi perché il locale in questione, in
quanto destinato a ospitare impianti tecnologici, aveva
natura di vano tecnico e non determinava aumento di
cubatura, né di superficie utile. Inoltre il vano non
comportava neanche un incremento del carico urbanistico, per
le sue ridotte dimensioni e il rapporto di pertinenzialità
con il sottostante bene principale.
Il Tar Puglia ha accolto l'impugnativa, evidenziando come la
questione fosse quella di stabilire se la realizzazione di
un vano tecnico possa o meno rientrare tra i cosiddetti
abusi minori per i quali è ammissibile la sanatoria ai sensi
del combinato disposto dell'articolo 146, comma 4, con gli
articoli 167, comma 4, e 181, comma 1-ter, del Dlgs 42/2004,
che disciplinano, rispettivamente, le sanzioni
amministrative e quelle penali. Ciò in quanto
l'autorizzazione paesaggistica ex post costituisce
atto presupposto rispetto al permesso di costruire o agli
altri titoli, compresi quelli in sanatoria.
Se si interpreta la norma in modo "teleologico", cioè
prestando attenzione alla sua finalità complessiva,spiega la
sentenza, si capisce come la «creazione di superfici
utili o volumi», nonostante la congiunzione "o", esprima
«un concetto unitario con due termini coordinati». La
pronuncia ritiene pertanto che il divieto di autorizzazione
paesistica in sanatoria riguardi i soli interventi che
abbiano contestualmente determinato la realizzazione di
nuove superfici utili e di nuovi volumi, ma che, al
contrario, «siano suscettibili di accertamento della
compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi
interrati ed i volumi tecnici».
La decisione conferma un orientamento già recentemente
espresso dalla stessa sezione (30.10.2012, n. 1859) in piena
sintonia con quello elaborato dal Tar Campania, sezione di
Napoli, sin dalla sentenza del 03.04.2009, n. 1748, riferita
alla costruzione di un torrino ascensore posto sul lastrico
solare di un edificio, e poi ribadito con le pronunce
15.12.2010, n. 27380 e 01.09.2011, n. 4263.
Nello stesso senso si è espresso anche il Tar Umbria, con la
sentenza 46 del 29 gennaio scorso, rilevando che «per
costante orientamento giurisprudenziale il divieto di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria non opera per i
volumi tecnici e, quindi, con riferimento a interventi
destinati a operare il solo adeguamento funzionale
dell'edificio e, ciò, senza che vengano realizzati manufatti
suscettibili di essere abitabili o di un'autonoma
destinazione, non funzionale al complesso nell'ambito del
quale incidono».
Per il consolidamento di questo filone interpretativo
bisogna tuttavia attendere eventuali pronunce d'appello.
Esiste infatti anche una difforme decisione del Consiglio di
Stato (Sezione IV, 28.03.2011, n. 1879). Quest'ultimo, pure
riferendosi ad un diverso e più significativo intervento
edificatorio, ha affermato che il divieto di incremento dei
volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio
precluderebbe qualsiasi nuova edificazione comportante
creazione di volume, senza che «sia possibile distinguere
tra volume tecnico ed altro tipo di volume, costituendo
opera valutabile anche come aumento di volume la
realizzazione di un garage interrato con accesso all'esterno
tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico».
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Le pronunce
01 | IL LOCALE DI SERVIZIO
In tema di distanze legali tra fabbricati, integra la
nozione di "volume tecnico", non computabile nella
volumetria della costruzione, solo l'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinata a contenere impianti serventi -quali quelli
connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore- di
una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali
dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella
stessa, e non anche quella che costituisce -come il vano
scale- parte integrante del fabbricato - Cassazione civile,
sezione II, n. 2566/2011
02 | GLI IMPIANTI TECNICI
Al fine dell'osservanza dei limiti massimi di volumetria dei
fabbricati i "volumi tecnici" che vanno esclusi dal
relativo computo, sono soltanto quelli indispensabili a
contenere gli impianti tecnici dell'edificio e non anche
quelli che assolvano ad una funzione diversa, sia pur
necessaria al godimento dell'edificio stesso e delle sue
singole porzioni di proprietà individuale - Cassazione
civile, sezione II, n. 2566/2011
03 | LE MANSARDE
Sono volumi tecnici soltanto quelli la cui funzione è
necessaria e strumentale per la utilizzazione dell'immobile
e che non possono essere ubicati al suo interno; pertanto
non sono tali, e sono computabili quindi ai fini della
volumetria consentita le soffitte, gli stenditoi chiusi e
quelli di sgombero; e non è volume tecnico neppure un piano
di copertura, definito impropriamente sottotetto, se
costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda -
Consiglio di Stato, sezione IV, n. 678/2011
04 | IL VANO SCALE
La nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo
della volumetria massima consentita, può essere applicata
solo con riferimento ad opere edilizie completamente prive
di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in
quanto destinate a contenere impianti serventi di una
costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali
della costruzione stessa, cioè gli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati
all'interno di questa (come, ad esempio, la condotta idrica
e termica, l'ascensore e così via): resta dunque estraneo a
tale nozione il volume del vano scale - Consiglio di Stato,
sezione IV, n. 2565/2010
05 | IL PICCOLO ARMADIO
L'armadio di contenimento di limitata consistenza
strutturale (pianta di base di mq cinque e altezza di mt.
1,75) destinato ad ospitare impianti tecnologici al servizio
dell'antenna di telecomunicazione va ricondotto nella
nozione di volume tecnico, che, per la mancanza di
utilizzazione abitative o similari, è ritenuto in
giurisprudenza inidoneo ad introdurre un impatto sul
territorio eccedente la costruzione principale e, quindi,
ininfluente ai fini del calcolo degli indici di
fabbricabilità - Consiglio di Stato, sezione VI, n.
3227/2006
06 | LE SERRE E LE LOGGE
Costituiscono volumi tecnici -non rientranti nel conteggio
dell'indice edificatorio in quanto non sono generatori del
cosiddetto carico urbanistico- solo quelli adibiti alla
sistemazione di impianti (ad esempio riscaldamento,
ascensore o, come previsto dall'articolo 4 della legge
Regione Lombardia n. 39/2004, le serre bioclimatiche e le
logge addossate od integrate nell'edificio, opportunamente
chiuse e trasformate per essere utilizzate come serre per lo
sfruttamento dell'energia solare passiva) aventi un rapporto
di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
e che non possono essere ubicati all'interno della parte
abitativa. Pertanto non può esistere volume tecnico laddove,
come nel caso in esame, si tratti di vani che presentano
tutte le caratteristiche per essere adibiti ad abitazione -
Tar Lombardia-Brescia, sezione I, 11.02.2010, n. 712
07 | PAESAGGIO E VINCOLI
Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai
fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, costituendo opera valutabile anche come aumento di
volume la realizzazione di un garage interrato con accesso
all'esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico - Consiglio di Stato, sezione IV, n. 1879/2011
08 | LA SANATORIA
L'istituto dell'accertamento di conformità, disciplinato
dagli articoli 36 e 45 Tu 06.06.2001 n. 380, può
eccezionalmente trovare applicazione anche in caso di opere
eseguite su aree soggette a vincolo paesaggistico, ma in tal
caso il rilascio del permesso di costruire in sanatoria
rimane comunque subordinato al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ex articolo 146 Dlgs 22.01.2004 n. 42 che deve
normalmente intervenire prima dell'inizio dei lavori:
conseguentemente l'articolo 146, 12º comma, ha limitato la
possibilità dell'acquisizione dell'autorizzazione "in
sanatoria" alle sole ipotesi di cui al 4º e 5º comma
dell'articolo 167, escludendo che ciò possa avvenire nel
caso in cui siano stati illegittimamente realizzati nuovi
volumi - Tar Lombardia, sezione IV, n. 1762/2009 (articolo
Il Sole 24 Ore del 25.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I “volumi tecnici” sono essenzialmente
destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile
(ossia, ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti
termici, gli ascensori e i macchinari in genere), nel mentre
non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano
ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento
dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di
proprietà individuale.
Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi
tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto
inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a
servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro
insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova
la ragione della propria realizzazione proprio nella comune
utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte,
ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente
e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata
tipologia.
Per quanto riguarda il
superamento delle altezze massime, va ribadito che
l’avvenuto superamento dell’altezza massima contemplata
dalla disciplina di zona non può essere giustificato dalla
circostanza secondo la quale la cupola piramidale e la
copertura della galleria costituirebbero meri volumi
tecnici, in quanto tali non computabili anche per quanto
attiene alla loro altezza.
I “volumi tecnici” sono infatti essenzialmente
destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile
(ossia, ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti
termici, gli ascensori e i macchinari in genere), nel mentre
non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano
ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento
dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di
proprietà individuale (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato,
Sez. V, 04.03.2008 n. 918 e, più recentemente, anche Cons.
Stato, Sez. IV, 08.02.2011 n. 812).
Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi
tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto
inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a
servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro
insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova
la ragione della propria realizzazione proprio nella comune
utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte,
ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente
e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata
tipologia
(Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
|
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Anche
l'ascensore rientra tra gli impianti «liberi». Palazzo
Spada. Niente permesso di costruire né distanze legali.
Sulla natura giuridica degli ascensori, sulla possibilità di
considerarli nuova costruzione e sui titoli abilitativi
necessari si è espressa la quarta Sezione del Consiglio di
Stato, con la
sentenza 05.12.2012 n. 6253.
La vicenda concerne l'installazione di un ascensore
all'esterno di un immobile per agevolare l'accesso e la
mobilità di familiari disabili. In primo grado era stato
impugnato il diniego di permesso di costruire, opposto agli
interessati dal Comune, secondo cui l'intervento doveva
ritenersi precluso in forza delle previsioni dell'articolo
79, comma 2, del Dpr 380/2001. Tale norma, infatti, pur
consentendo opere per eliminare le barriere architettoniche
in deroga alle norme sulle distanze contenute nei
regolamenti edilizi, fa comunque «salvo l'obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del
codice civile nell'ipotesi in cui tra le opere da realizzare
e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o
alcuna area di proprietà o di uso comune».
Il Tar aveva respinto il ricorso sulla base di tre
considerazioni. Innanzitutto che la tutela della salute e
della vita di relazione dei portatori di handicap non è
incondizionata, ma può subire limitazioni per la tutela di
valori di pari rilevanza, quale la proprietà privata; in
secondo luogo che l'articolo 79, pur considerando prevalenti
le ragioni del portatore di handicap su altri interessi
contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio,
non riconosce analoga prevalenza rispetto al diritto alla
salute tutelato attraverso l'articolo 873 del codice civile
la cui ratio è quella di evitare la creazione di
intercapedini dannose o pericolose. Infine, l'ascensore si
sarebbe trovato ad una distanza inferiore a quella minima di
tre metri rispetto al fabbricato confinante.
Il Consiglio di Stato ha però riformato la sentenza di primo
grado, facendo proprio lo specifico orientamento della
Cassazione (sezione II, n. 2566/2011), secondo cui «l'impianto
di ascensore...rientra fra i volumi tecnici o impianti
tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali
dell'immobile». Ne consegue «l'inapplicabilità
all'ascensore delle disposizioni in tema di distanze legali».
Inoltre, con riferimento al caso concreto, la sentenza
osserva come nell'applicare la deroga al rispetto delle
distanze, l'articolo 79 vada letto in correlazione alla
complessiva disciplina sull'eliminazione delle barriere
architettoniche per i soggetti portatori di handicap e in
particolare al Dm 236/1989. L'articolo 2 del decreto,
infatti, qualifica come spazio esterno «l'insieme degli
spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell'edificio
o di più edifici» e come parti comuni dell'edificio «quelle
unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente
più unità immobiliari». Da qui risulta chiaro come il
legislatore, nel far riferimento a spazi o aree «di
proprietà o di uso comune», abbia inteso richiamare non
solo l'esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso
comune, ma anche l'esistenza di uno spazio comunque
denominato impiegato dai residenti di entrambi gli immobili
confinanti.
Nel caso in esame il cortile fra i due immobili nel quale
doveva insistere l'ascensore, pur non essendo in
comproprietà fra i due condomini, risultava utilizzato dai
residenti di entrambi gli immobili, dal che deriva
l'illegittimità dell'atto impugnato e l'erroneità della
decisione del Tar (articolo
Il Sole 24 Ore del 25.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’impianto
di ascensore –al pari di quelli serventi alle condotte
idriche, termiche etc. dell’edificio principale– rientra fra
i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle
esigenze tecnico-funzionali dell’immobile.
---------------
Circa la costruzione di un vano ascensore esterno al corpo
di fabbrica, non può il Comune denegare il rilascio del
permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze
di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso
l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.
Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo
di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità
dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di
costruire alla nozione di “costruzione” di cui
all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso
delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.
Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente
l’impianto di ascensore –al pari di quelli serventi alle
condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale–
rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici
strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile
(cfr. Cass. civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile
l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo
cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del
rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi
dal tener conto dell’inserimento della norma –come già
rilevato- all’interno della disciplina volta
all’eliminazione delle barriere architettoniche
nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.
Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto
bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il
primo giudice (e al quale gli odierni appellanti,
soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto
bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a
locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore,
quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso
comune”, le quali non possono essere recepite in
un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate
nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta
materia.
Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14.06.1989, nr. 236,
contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata
in attuazione della legge 09.01.1989, nr. 13, e che ancora
oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380
del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).
L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di
definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa
de qua e, in particolare, qualifica come “spazio
esterno (...) l’insieme degli spazi aperti, anche se
coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici”
(lett. F) e come “parti comuni dell’edificio (...) quelle
unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente
più unità immobiliari” (lett. E).
Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte
del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il
legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di
proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non
soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una
comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il
semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio
comunque denominato, che per le sue caratteristiche si
presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli
immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che
la definizione della lettera E non presuppone affatto che le
“unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano
necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché,
anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella
di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio
esterno comune può certamente interessare anche “più
edifici”).
Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile
esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere
l’ascensore per cui è causa non risulta essere in
comproprietà fra i due condomini, non risulta però
contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso
risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua
interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero,
il TAR si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine
catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza
però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico
elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune”
nel senso sopra precisato).
Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio
del permesso di costruire per il mancato rispetto delle
distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni
caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2
dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 05.12.2012 n. 6253 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quei volumi destinati esclusivamente
agli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione e che
non possono essere ubicati al suo interno -nel caso di
specie impianti di areazione e termo–idrici, l’impianto
dell’ascensore e del montacarichi- devono essere considerati
volumi tecnici, quindi non computabili nella volumetria
generale, a differenza di quanto si deve affermare per le
soffitte, gli stenditoi e i locali di sgombero o le mansarde
dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di
gronda.
Inoltre la rilevanza urbanistica deve essere rinvenuta
nell’altezza interna, nella praticabilità del solaio, nelle
modalità di accesso e nell’esistenza o meno di finestre, con
la conseguenza, ad esempio, che un locale sottotetto con
vani distinti e comunicanti con il piano sottostante con una
scala interna deve essere ritenuto abitabile e dunque
computabile ai fini della volumetria.
Il Collegio ritiene che il sottotetto non sia da
considerarsi rilevante, viste le sue caratteristiche, che
non sono contestate, e tenendo conto delle affermazioni
espresse dalla giurisprudenza.
Quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari
per l’utilizzo dell’abitazione e che non possono essere
ubicati al suo interno -nel caso di specie impianti di
areazione e termo–idrici, l’impianto dell’ascensore e del
montacarichi- devono essere considerati volumi tecnici,
quindi non computabili nella volumetria generale, a
differenza di quanto si deve affermare per le soffitte, gli
stenditoi e i locali di sgombero o le mansarde dotate di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Cons.
Stato, V, 04.03.2008 n. 918).
Inoltre la rilevanza urbanistica, ha ancora affermato la
giurisprudenza, deve essere rinvenuta nell’altezza interna,
nella praticabilità del solaio, nelle modalità di accesso e
nell’esistenza o meno di finestre (Cons. Stato, IV,
30.05.2005 n. 2767), con la conseguenza, ad esempio, che un
locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il
piano sottostante con una scala interna deve essere ritenuto
abitabile e dunque computabile ai fini della volumetria
(Cons. Stato,V, 31.01.2006 n. 354).
Nel caso di specie il sottotetto è privo di scale ed anche
di finestre o di luci, né l’ipotetica abusiva futura
realizzazione di scale, come affermato nella sentenza
impugnata, può essere utile per quanto meno delineare la
concretezza di un peso urbanistico (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 27.11.2012 n. 5965 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Barriere architettoniche.
Domanda
Sono
amministratore di un condominio nel quale alcuni condomini
hanno richiesto di installare un ascensore, taluni sono
favorevoli e altri no. Dobbiamo discuterne in una prossima
assemblea e riterrei utile avere informazioni sullo stato
della giurisprudenza.
Risposta
La recente sentenza della Corte di cassazione n. 18334/2012
(alla cui lettura, con i richiami giurisprudenziali in essa
contenuti, facciamo rinvio) è molto interessante ai fini in
questione poiché approfondisce anche il senso del rapporto
tra l'art. 1120 c.c. e le norme contro le barriere
architettoniche, in primis artt. 2 e 3 della legge n.
13/1989.
La sentenza ribadisce che per l'applicabilità del 1° comma
dell'art. 2 della legge n. 13/1989 (con i suoi quorum
ridotti) è irrilevante la presenza o meno di invalidi nel
condominio in quanto la norma è volta a consentirne
l'accesso, senza difficoltà, in tutti gli edifici e non solo
presso la loro abitazione, mentre il 2° comma consente di
provvedere direttamente alle opere in caso di rifiuto del
condominio.
La sentenza chiarisce poi (rispetto alle limitazioni
previste dall'art. 1120, 2° c., fatte salve dall'art. 2, 3°
comma della legge n. 13/1989) che il giudice (e prima ancora
i condomini), per valutare se le opere determinino un
pregiudizio al decoro architettonico, oltre ad accertare se
esso sia effettivamente leso, deve valutare anche se tale
lesione determini o meno un deprezzamento dell'intero
fabbricato (non solo di alcuni appartamenti, il che non
sarebbe ragione ostativa sufficiente a precludere
l'intervento), essendo invece lecito il mutamento estetico
che non cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o
che, pur arrecandolo, si accompagni a un'utilità che
compensi l'alterazione architettonica che non sia di grave e
appariscente entità, ciò che succede ancor più se le opere
sono interne all'edificio.
La sentenza richiama anche l'applicabilità del principio di
solidarietà condominiale (sent. 12520/2010) che impone di
accertare se le norme in tema di vicinato siano compatibili
con la concreta struttura dell'edificio condominiale o non
siano invece irragionevoli, e quindi da disapplicare, nel
contemperamento di vari interessi, ancor più se in gioco vi
siano i diritti fondamentali dei disabili, tutelati sempre
di più dalla legislazione degli ultimi decenni.
Lo stesso dicasi per la valutazione dell'eventuale minore
servibilità delle parti comuni, che non può prevalere
qualora si traduca in un semplice maggior disagio, dovendosi
avere una reale inservibilità ai fini e per gli effetti
dell'art. 1120, 2° comma, cod. civ.
Infine, sul tema della sicurezza (nel caso esaminato dalla
sentenza si era eccepito che l'ascensore rendeva
difficoltoso il passaggio di soccorsi dalle scale) occorre
operare un confronto delle condizioni ante e post operam al
fine di accertare se le opere possano determinare o meno una
lesione di tale aspetto (articolo ItaliaOggi Sette del
26.11.2012). |
CONDOMINIO: La
Cassazione ha ribadito il principio della solidarietà. Anche
a svantaggio del decoro. Ascensore, sì con quorum ridotto.
Basta la maggioranza semplice perché si superano le
barriere.
Il necessario rispetto del principio di
solidarietà condominiale rende legittima la delibera di
installazione di un ascensore che tuteli l'esigenza di
garantire un accesso agli appartamenti ai condomini, o loro
ospiti, con ridotta capacità motoria, anche se la nuova
opera comporti un'accettabile riduzione del decoro
architettonico o un modesto restringimento degli spazi
comuni.
In altre parole, i condomini devono sacrificarsi, in nome
dei diritti umani fondamentali, per consentire ai disabili,
o agli anziani con mobilità ridotta, di socializzare e di
muoversi senza incontrare ostacoli.
Queste le conclusioni alle quali è pervenuta la II Sez.
della Corte di Cassazione con la recente
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Il caso di specie.
La vicenda che ha portato alla decisione in questione
prendeva l'avvio quando un condomino impugnava la delibera
che aveva approvato l'installazione di un ascensore,
ritenuta illegittima non solo perché adottata con
maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge, ma
soprattutto perché la nuova opera aveva ristretto il
passaggio sulla prima rampa di scale, impedendo anche il
passaggio di eventuali mezzi di soccorso e compromesso il
decoro architettonico dell'edificio in stile liberty. Il
Tribunale, aderendo pienamente alla tesi del singolo
condomino, condannava il condominio a rimuovere l'impianto
di ascensore.
Secondo il condominio, però, che impugnava detta decisione
in appello, la delibera era pienamente legittima perché non
comportava alterazione del decoro architettonico
dell'immobile né alcun pregiudizio alle parti comuni e,
comunque, era stata adottata a tutela dei condomini anziani
e disabili e nel rispetto della normativa in materia di
barriere architettoniche. Queste considerazioni venivano
però respinte dalla Corte d'appello, secondo cui il decoro
architettonico del fabbricato risultava compromesso
dall'installazione dell'ascensore che, tra l'altro, non era
conforme alle disposizioni antincendio, aveva diminuito la
possibilità di utilizzo della rampa della scala e aveva
creato pregiudizio alla sicurezza del caseggiato e
all'incolumità degli abitanti, rendendo particolarmente
difficoltoso l'accesso di mezzi di soccorso.
Ma, soprattutto, secondo i giudici di secondo grado, la
delibera non risultava aver avuto a oggetto alcuna opera
attinente al superamento delle barriere architettoniche,
perché il condominio non aveva fornito la prova che nello
stabile vivessero portatori di handicap: di conseguenza la
delibera non poteva essere adottata con la ridotta
maggioranza prevista dalla legislazione in tema di
eliminazione delle barriere architettoniche.
La decisione della Cassazione.
La Suprema corte, però, non condividendo le precedenti
osservazioni, ha confermato la piena legittimità della
scelta fatta dai condomini. Secondo i giudici supremi,
infatti, non ha alcuna rilevanza la circostanza che
l'assemblea non abbia avuto a oggetto una delibera attinente
all'eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto
la delibera di installazione di un ascensore si muove
sostanzialmente in tale direzione. Inoltre, la normativa
speciale a favore dei portatori di handicap prevede un
abbassamento del quorum richiesto per l'innovazione,
indipendentemente dalla presenza di disabili: lo scopo
infatti è quello di consentire ai disabili, o agli anziani
con mobilità ridotta, di socializzare e di muoversi senza
incontrare ostacoli, anche se le persone interessate non
sono proprietari di appartamenti nel caseggiato o non
risiedono stabilmente nel palazzo.
In ogni caso i giudici supremi hanno ritenuto che, nel
rispetto del principio di solidarietà condominiale, la
delibera dell'assemblea con la quale viene decisa, a cura e
spese di alcuni dei condomini, l'installazione di un
ascensore nel vano scala condominiale è legittima anche se
comporta un'accettabile compromissione del decoro
architettonico (cioè un cambiamento estetico che non sia di
grave e appariscente entità) e/o un modesto restringimento
di spazi comuni (con semplice disagio subito rispetto alla
sua normale utilizzazione), in quanto le difficoltà delle
persone affette da invalidità devono ormai essere
considerate quali problemi non solo individuali, ma tali da
dover essere assunti dall'intera collettività (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.11.2012). |
CONDOMINIO: In
condominio ci vuole «solidarietà». Per l'ascensore il voto
unanime non è necessario.
Non ci si può opporre all'installazione dell'ascensore,
anche quando questo configura un'innovazione e il voto in
assemblea non è stato unanime. Questo perché la legge 13/89
di sostegno alla disabilità prevede la maggioranza che
rappresenti almeno un terzo dei condomini e dei millesimi e
non ha rilevanza il fatto che l'eliminazione delle barriere
architettoniche non sia citata nella delibera, «posto che la
delibera di messa in opera di un'installazione si muove
sostanzialmente all'evidenza in tale direzione».
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. II, con la
sentenza 25.10.2012 n. 18334.
Un condominio aveva votato a maggioranza (nel 1994!) la
messa in opera di un ascensore, la cui installazione avrebbe
però provocato il restringimento della luce del passaggio
sulla prima rampa e costituendo, in sostanza,
un'innovazione. Un condomino aveva impugnato la delibera per
nullità, ottenendo ragione dal Tribunale e dalla corte
d'Appello, sostenendo che la delibera non era stata fatta
esplicitamente per eliminare le barriere architettoniche e
che nel condominio non vi erano disabili.
Il Condominio aveva quindi presentato ricorso in Cassazione,
che però ha ribaltato il giudizio delle corti di merito,
affermando che:
e È irrilevante la circostanza che l'assemblea non avesse
avuto a oggetto una delibera attinente all'eliminazione
delle barriere architettoniche, dato che la decisione va di
fatto in quel senso;
r È irrilevante, ai fini dell'applicabilità della
maggioranza semplice prevista dalla legge 13/1989, la
presenza di disabili nel condominio, dato che la legge mira
a consentire a tutti i disabili di accedere negli edifici, e
non solo presso la propria abitazione e del resto il
riferimento alla presenza di disabili nella legge solo in
quanto consente ai disabili di installare servoscala o
strutture mobili a loro spese in caso di rifiuto da parte
del condominio;
t Anche il pregiudizio del decoro architettonico, invocato
dal resistente, va valutato nel senso di accertare se
determini o meno un effettivo deprezzamento dell'intero
fabbricato «essendo lecito il mutamento estetico che non
cagioni un pregiudizio economicamente valutabile o che, pur
arrecandolo, si accompagni a un'utilità la quale compensi
l'alterazione architettonica», cioè in sostanza
l'ascensore stesso.
La Cassazione, però conclude con l'affermazione di un
principio importante: quello della solidarietà condominiale.
Le norme di vicinato, per la Cassazione, vanno invocate in
quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio
e, nel caso del condominio, va valutato quando la loro
osservanza non sia «irragionevole» ai fini «dell'ordinato
svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali». A maggior ragione, sottolinea la Corte,
si sarebbe dovuto tener conto di questa considerazione in
presenza di una decisione che «coinvolgeva i diritti
fondamentali dei disabili», come la stessa legge 13/1989
suggerisce, imponendo la diversa prospettiva di considerare
i problemi della disabilità non solo individuali ma come
parte di un carico della collettività.
---------------
Le indicazioni
01 | BARRIERE
È irrilevante il fatto che l'assemblea non abbia deliberato
esplicitamente sull'eliminazione delle barriere
architettoniche
02 | DISABILI
È irrilevante anche la presenza di disabili nel condominio,
ai fini dell'applicabilità della maggioranza di un terzo dei
condomini e dei millesimi prevista dalla legge 13/1989 al
posto dell'unanimità, in caso di installazione di ascensore
che costituisca un'innovazione
03 | IL DECORO
Il pregiudizio al decoro architettonico va valutato in
relazione al danno economico effettivo (articolo
Il Sole 24 Ore del 26.10.2012). |
CONDOMINIO:
L'ascensore e' indispensabile per la
reale abitabilità dell'appartamento.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con
sentenza 03.08.2012 n. 14096, ha evidenziato come
l'installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, debba
considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità
dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Ove siano, pertanto, rispettati i limiti di uso delle cose
comuni stabiliti da tale ultima norma, non rileva, allora,
la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza
delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del
richiamo a essa operato nell’art. 3, comma 2, legge
09.01.1989, n. 13, non trovando quest’ultima disposizione
applicazione in ambito condominiale.
DISTANZE E CONDOMINIO
Già più volte, in passato, la giurisprudenza aveva affermato
che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i
condomini di un edificio condominiale, purché siano però
compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose
comuni, ovvero quando l'applicazione di quest'ultima non sia
in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la
prevalenza della norma speciale in materia di condominio
determina, allora, l'inapplicabilità della disciplina
generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e
nei rapporti tra singolo condomino e condominio, deve
ritenersi in rapporto di subordinazione rispetto alla prima.
Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di
cui all'art. 1102 c.c. (secondo cui ciascun partecipante
alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che
non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso), deve ritenersi
legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle
norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà
contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale (Cass. 18.03.2010, n. 6546; Cass.
23.02. 2012, n. 2741).
Nella specie, si trattava di utilizzare un cortile per
realizzare un impianto di ascensore. È altrettanto noto, in
proposito, come i cortili comuni, assolvendo alla precipua
finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono
utilmente fruibili a tale scopo dai condomini stessi, cui
spetta la facoltà di farne uso ai fini di maggiore comodità,
amenità o accessibilità delle porzioni solitarie, senza
incontrare, quindi, le limitazioni prescritte, in materia di
luci e vedute, a tutela dei proprietari degli immobili di
proprietà esclusiva. In proposito, l'indagine del giudice
deve essere indirizzata a verificare esclusivamente se l'uso
del cortile comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti
stabiliti dal citato art. 1102, e, quindi, se non ne sia
stata alterata la destinazione e sia stato consentito agli
altri condomini di farne parimenti uso secondo i loro
diritti: una volta accertato che l'uso del bene comune sia
risultato conforme a tali parametri dovrà, perciò, comunque
escludersi che si sia potuta configurare un'innovazione
vietata (Cass. 09.06.2010, n. 13874).
Di per sé, l'installazione dell'ascensore, rientrando fra le
opere dirette a eliminare le barriere architettoniche di cui
all'art. 27, comma 1, legge n. 118/1971 e all'art. 1, comma
1, D.P.R. n. 384/1978, costituisce innovazione che, ai sensi
dell'art. 2, legge n. 13/1989, è approvata dall'assemblea
con la maggioranza prescritta rispettivamente dall'art.
1136, comma 2 e 3 c.c., dovendo, però, essere rispettati (in
forza del comma 3 del citato art. 2) i limiti previsti dagli
artt. 1120 e 1121 c.c. Non può, quindi, essere consentita
quell'installazione che renda talune parti comuni
dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un
solo condomino (Cass. 27.12.2011, n. 28920; Cass.
25.06.1994, n. 6109).
Merito di Cass. n. 14096/2012, è, tuttavia, quella di aver
qualificato l’impianto di ascensore come indispensabile ai
fini di una reale abitabilità dell'appartamento, intesa
questa nel senso di una condizione abitativa che rispetti
l'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo
sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo
l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle
unità immobiliari altrui: questa indispensabilità vale,
infatti, ad esonerare l’ascensore condominiale
dall'osservanza delle norme del codice civile in tema di
distanze (cfr. Cass. 15.07.1995, n. 7752) (tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ascensore a distanza ravvicinata. Sì
all'impianto in deroga alla vicinanza minima dall'immobile.
La Cassazione: l'opera abbatte le
barriere architettoniche ed è funzionale all'abitabilità.
L'installazione dell'ascensore in un
edificio condominiale, in quanto opera finalizzata
all'abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche e
necessaria per la piena ed effettiva abitabilità di un
appartamento, può avvenire anche senza il rispetto delle
distanze legali tra immobili.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione
nella recente
sentenza 03.08.2012 n. 14096.
Il caso concreto.
Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato
l'avvio di opere volte all'installazione di un impianto di
ascensore esterno all'edificio e che avrebbe occupato una
parte del cortile, venendo a trovarsi a distanza inferiore
ai tre metri previsti dalla legge (art. 907 c.c.) rispetto
alle finestre di alcuni appartamenti. Alcuni dei rispettivi
proprietari avevano quindi impugnato giudizialmente la
delibera condominiale sia per la predetta lesione del
diritto di veduta sia per il pregiudizio che tale opera
avrebbe comportato per il decoro architettonico
dell'edificio.
Il tribunale, tuttavia, aveva respinto il ricorso,
qualificando l'ascensore quale impianto necessario
all'effettiva abitabilità di un immobile, al pari di quelli
di acqua, luce e gas, come tale non sottostante al regime
civilistico delle distanze legali. Di avviso contrario era
però stata la corte d'appello presso la quale i condomini
avevano deciso di impugnare la decisione di primo grado, che
aveva invece ritenuto pienamente applicabile nella specie il
disposto di cui all'art. 907 c.c.. Infatti, secondo il
giudice di secondo grado, poiché l'art. 2 della legge n.
13/1989 sull'abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche impone in ogni caso il rispetto della
destinazione delle parti comuni (art. 1120, comma 2, c.c.),
a maggior ragione deve ritenersi che tale norma non consenta
di recare pregiudizio alle proprietà esclusive.
Inoltre, sempre secondo la corte di merito, sarebbe stata la
stessa legge or ora richiamata, laddove all'art. 3 si deroga
espressamente al rispetto delle distanze previste dai
regolamenti locali, senza fare alcuna menzione delle
distanze minime previste dal codice civile, a rendere
applicabili anche in materia condominiale le disposizioni in
materia di vedute.
La decisione della Suprema corte.
La decisione della corte di appello è quindi stata portata
all'esame della Cassazione dal condominio, che reclamava la
piena legittimità della deliberazione assembleare. E la
Suprema corte, a sua volta, ha completamente ribaltato le
argomentazioni giuridiche seguite dai giudici di merito,
annullando la sentenza impugnata e stabilendo una serie di
interessanti principi in materia di installazione degli
ascensori e abbattimento delle c.d. barriere
architettoniche.
In estrema sintesi, i giudici di legittimità hanno infatti
ritenuto che la normativa sulle distanze legali, per quanto
applicabile anche in ambito condominiale (seppure in via
subordinata alla disciplina delle cose comuni di cui
all'art. 1102 c.c.), non opera nei confronti di quegli
impianti, tra i quali è sicuramente compreso anche
l'ascensore, che siano necessari all'effettiva abitabilità
di un immobile.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'applicabilità della
normativa in materia di vedute anche in ambito condominiale
non può ritenersi implicitamente confermata dal predetto
art. 3 della legge n. 13/1989 che, contrariamente a quanto
ritenuto nella specie dai giudici di appello, riguarda
soltanto i rapporti tra immobili confinanti appartenenti a
diversi proprietari e non anche le ipotesi di condominio
degli edifici (articolo
ItaliaOggi Sette del 27.08.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nozione di volume tecnico, non
computabile nel calcolo della volumetria massima consentita,
può essere applicata solo con riferimento ad opere edilizie
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
serventi di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione stessa; si tratta, in
particolare, di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione, che non possono essere ubicati all'interno
di essa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore
ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici
al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza
giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica.
-------------
Occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal
diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza
inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumano tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dal ricorrente risultanti
dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto
intervento –non essendo coessenziale ad un bene principale e
potendo essere successivamente utilizzato in modo autonomo e
separato (ndr: garage interrato regolarmente avente una
superficie di 48,50 mq. e con altezza di 2,30 mt.)– non può
ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere
che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del
permesso di costruire.
---------------
La mancata specificazione delle aree da sottoporre
all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all’ordine demolitorio, non costituisce
motivo di illegittimità di quest’ultimo, potendo
l’amministrazione provvedere a tale incombenza con il
successivo ed eventuale atto di acquisizione.
---------------
L’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale,
una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé
motivazione sufficiente per l’adozione della misura
repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di
un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad
intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi,
non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione
in relazione al provvedere.
Infatti, l’ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei
presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi”.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è soltanto la constatata
esecuzione di queste ultime in assenza o in totale
difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che,
essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente
motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa”
l’interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo
l’eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se
l’ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo
dall’ultimazione dell’opera avendo l’inerzia
dell’amministrazione creato un qualche affidamento nel
privato.
---------------
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza
del prescritto permesso di costruire, l'ordine di
demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità
di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando
ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi.
-------------
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono
essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art.
21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto
dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data al ricorrente l’opportunità di interloquire con
l’amministrazione.
Oggetto della presente controversia è il provvedimento con
il quale il Comune di Somma Vesuviana ha ingiunto al
ricorrente di demolire un manufatto realizzato sopra un
garage interrato regolarmente assentito con DIA del
23.04.2004 (prot. 5638), avente una superficie di 48,50 mq.
e con altezza di 2,30 mt.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta che l’intervento
edilizio contestato, concretandosi nella realizzazione di un
volume tecnico, ricadrebbe nella disciplina di cui all’art.
22, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 con l’applicazione, in
ipotesi, della sola sanzione pecuniaria.
Il motivo non ha pregio.
Il ricorrente ha realizzato un nuovo volume, di rilevanti
dimensioni, al di sopra di un garage interrato e ciò avrebbe
richiesto, ex art. 10, comma 1, lett. a), del D.P.R. n.
380/2001 la previa acquisizione del permesso di costruire
nonché, trattandosi di zona paesaggisticamente vincolata ai
sensi del d.lgs. n. 42/2004, dell’autorizzazione
paesaggistica; con la conseguenza che l’amministrazione,
constatata l’assenza dei predetti titoli, ha correttamente
ordinato la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 31 del
D.P.R. n. 380/2001.
Il nuovo manufatto non può, poi, per le sue caratteristiche
essere considerato né volume tecnico (seppure così
formalmente definito dal provvedimento), né pertinenza
dell’abitazione (primo e secondo motivo).
Si è, in particolare, evidenziato come nella fattispecie si
tratti di un nuovo volume della superficie di circa 48 mq.
con altezza di circa 2 metri che sorge su un garage
interrato, sicuramente suscettibile di autonoma
utilizzazione. Sul punto la giurisprudenza ha statuito che “La
nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della
volumetria massima consentita, può essere applicata solo con
riferimento ad opere edilizie completamente prive di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinate a contenere impianti serventi di una costruzione
principale, per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione stessa; si tratta, in particolare, di impianti
necessari per l'utilizzo dell'abitazione, che non possono
essere ubicati all'interno di essa, connessi alla condotta
idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa
parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al
fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque
esistenti nella realtà fisica” (ex multis, TAR
Piemonte Torino, sez. I, 14.01.2011 , n. 16).
Quanto alla censura circa la natura pertinenziale delle
opere abusive in questione, secondo una consolidata
giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia, Milano, sez.
II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, sez. II, 04.02.2005, n.
1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto
dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza
inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumano tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire. Ne
consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dal ricorrente risultanti
dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto
intervento –non essendo coessenziale ad un bene principale e
potendo essere successivamente utilizzato in modo autonomo e
separato– non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici,
sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo
rilascio del permesso di costruire.
In relazione alla censura inerente la mancata verifica della
reale difformità dell’abuso rispetto al titolo posseduto,
osserva il Collegio come il provvedimento indichi con
chiarezza che l’intervento edilizio colpito dalla sanzione
ripristinatoria è il volume edificato sopra il garage
(regolarmente assentito). L’opera in questione è stata
realizzata in totale difformità dal titolo –la DIA del
23.03.2004– il cui contenuto era limitato alla realizzazione
di un parcheggio interrato. Legittima sotto questo profilo
l’applicazione dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Nessun dubbio può quindi porsi sull’oggetto della disposta
demolizione mentre, come più volte affermato dalla
giurisprudenza, la mancata specificazione delle aree da
sottoporre all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, non
costituisce motivo di illegittimità di quest’ultimo, potendo
l’amministrazione provvedere a tale incombenza con il
successivo ed eventuale atto di acquisizione.
Non rileva neppure che il parcheggio sia stato in precedenza
considerato legittimo dal punto di vista urbanistico. La
circostanza, infatti, che l’amministrazione abbia consentito
la costruzione di un manufatto interrato non implica la
possibilità per il ricorrente di edificarvi, senza alcun
titolo, un ulteriore volume.
Infondato anche la censura di difetto di motivazione per non
aver l’amministrazione qualificato la gravità dell’illecito
edilizio. Come affermato dalla giurisprudenza in presenza di
un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non
richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell’amministrazione in relazione al
provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n.
6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita
di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei
presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I,
12.10.2006 , n. 824) ed, ancora, “presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime
in assenza o in totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto,
essa è sufficientemente motivata con l’accertamento
dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla
sua rimozione e sussistendo l’eventuale obbligo di
motivazione al riguardo solo se l’ordinanza stessa
intervenga a distanza di tempo dall’ultimazione dell’opera
avendo l’inerzia dell’amministrazione creato un qualche
affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V,
29.05.2006 n. 3270).
Peraltro, in presenza di un intervento edilizio realizzato
in assenza del prescritto permesso di costruire, l'ordine di
demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità
di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando
ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi (secondo motivo).
Destituita di ogni fondamento risulta la censura incentrata
sulla omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 – terzo
motivo) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi
edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione
dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651),
perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime.
Seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art.
21-octies, comma 2 della legge n. 241 del 1990 (introdotto
dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento...qualora, per la natura vincolata
del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data al ricorrente l’opportunità di interloquire con
l’amministrazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 27.06.2012 n. 3048 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' da
escludere che l’intervento possa
correttamente qualificarsi come di
manutenzione straordinaria, atteso che la
realizzazione di una piattaforma elevatrice
munita di autonomo vano di scorrimento, che
fuoriesce dalla sagoma dell’edificio
asservito e che quindi costituisce un’opera
dotata di autonomia funzionale, appare
piuttosto integrare una ristrutturazione
edilizia, necessitante di permesso di
costruire ai sensi dell’art. 10 del d.PR. n. 380 del 2001
o, in alternativa, di denuncia di inizio di
attività ai sensi dell’art. 22 d.PR cit..
E poiché sensi dell'art. 149 del d.lgs. n.
42 del 2004 l’autorizzazione della autorità
preposta alla tutela del vincolo non è
richiesta soltanto per gli interventi di
manutenzione ordinaria, straordinaria di
restauro e di risanamento conservativo che
non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto
esteriore degli edifici, nel caso in
questione necessita.
---------------
L’autorizzazione paesaggistica non può
essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4,
d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi
tassativamente previsti dall’art. 167, commi
4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso
presidiare ulteriormente il regime delle
opere incidenti su beni paesaggistici,
escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesaggistica possa essere
postergato all’intervento realizzato (sine
titulo o in difformità dal titolo
rilasciato) e ciò al fine di escludere che
possa riconnettersi al fatto compiuto
qualsivoglia forma di legittimazione
giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167 del
Codice n. 42 del 2004, evidentemente in
considerazione delle prassi applicative
delle leggi succedutesi in materia di
condoni e sanatorie (caratterizzate di
regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla
tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso
tutelare più rigorosamente i beni sottoposti
al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post
delle opere abusive (tranne quelle
tassativamente indicate nello stesso art.
167).
Sotto tale profilo, ove le opere risultino
diverse da quelle sanabili e indicate
nell’art. 167, le autorità non possono che
emanare un atto dal contenuto vincolato e
cioè esprimersi nel senso della reiezione
dell’istanza di sanatoria.
L’unica eccezione a tale rigida prescrizione
riguarda il caso in cui i lavori, pur se
realizzati in assenza o difformità
dell’autorizzazione paesaggistica, non
abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame correttamente la
Soprintendenza ha escluso la ricorrenza
della fattispecie derogatoria appena
richiamata, atteso che il vano ascensore,
come già detto, ha in fatto comportato un
aumento delle volumetrie dell’edificio e,
per di più, un’opera rilevante sul piano
della sua percezione visiva nel contesto
paesaggistico di riferimento.
---------------
Appare dubbia, già in linea di principio, l’ascrizione
del vano ascensore al novero dei cosiddetti
volumi tecnici nei casi in cui, come nella
specie, lo stesso sia in fatto conformato
alla stregua di un autonomo corpo edilizio
destinato ad ospitare l’intero impianto
elevatore (e non invece, ad esempio,
soltanto l’extracorsa dell’ascensore).
Per volume tecnico si intende infatti un
volume destinato ad ospitare un impianto o
parte di esso che, per ragioni di
funzionalità, di igiene o di sicurezza non
potrebbe essere allocato nella volumetria
assentita o comunque assentibile; nel caso
in esame non è provato che tale circostanza
ricorra in concreto ed appar dubbia
l’assimilabilità del vano ascensore avente
caratteristiche morfologiche a quello per
cui è giudizio al cosiddetto “volume
tecnico”, nella cui categoria potrebbe al
più rientrare il vano destinato ad ospitare
i macchinari funzionali all’ascensore (ma
non l’ascensore in sé, dotato di autonomia
planovolumetrica rispetto all’edificio
servito).
In ogni caso, nella prospettiva della tutela
del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi che si
suole fare al fine di evidenziare la
neutralità, sul piano del carico
urbanistico, dei cosiddetti volumi tecnici.
E’ pacifico infatti che tale distinzione si
rivela inconferente sul piano della tutela
dei beni paesaggistici: le qualificazioni
giuridiche rilevanti sotto il profilo
urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere
sotto il profilo paesaggistico, sia quando
si tratti della percezione visiva di volumi,
a prescindere dalla loro destinazione d’uso,
sia quando comunque si tratti di modificare
un terreno o un edificio, o il relativo
sottosuolo.
La circolare ministeriale citata
dall’appellante (del Ministero dei lavori
pubblici del 31.01.1973, n. 2474, e che, in
base ad un parere del Consiglio superiore
dei lavori pubblici, inserisce tra i volumi
tecnici ai fini del calcolo della volumetria
assentibile solo i volumi strettamente
necessari a contenere e a consentire
l’accesso di quelle parti degli impianti
tecnici che non possono per esigenze di
funzionalità degli impianti trovare luogo
entro il corpo di fabbrica dell’edificio
realizzabile nei limiti imposti dalle norme
urbanistiche), a parte ogni considerazione
sulla impossibilità che essa limiti
l’applicazione delle sopravvenute
disposizioni legislative, già a suo tempo
aveva colto il principio per cui la nozione
di ‘volume tecnico’ rileva ai soli fini urbanistico-edilizio, avendo specificato che
“la sistemazione dei volumi tecnici non deve
costituire pregiudizio per la validità
estetica dell’insieme architettonico”.
Pertanto, la natura del volume edilizio
realizzato (sia o meno qualificabile come
volume tecnico) non rileva sul giudizio di
compatibilità paesaggistica ex post delle
opere: la nuova volumetria, quale che sia la
sua natura, impone una valutazione di
compatibilità con i valori paesaggistici
dell’area (che deve compiersi da parte della
autorità preposta alla tutela del vincolo,
ovvero dalla competente Soprintendenza in
sede di redazione di un suo parere), mentre
sono radicalmente precluse autorizzazioni
postume per le opere abusive che abbiano
comportato la realizzazione di nuovi volumi
(art. 167 d.lgs. cit.).
... per la riforma della sentenza del TAR
CAMPANIA-NAPOLI: SEZIONE IV n. 2297/2008,
resa tra le parti, concernente DINIEGO
SANATORIA DI PIATTAFORMA ELEVATRICE.
...
Con un primo ordine di censure, l’appellante
sostiene che l’illegittimità del diniego
impugnato in primo grado deriverebbe dalla
non corretta qualificazione giuridica
dell’intervento da assentire con il
procedimento di accertamento di conformità.
In particolare, ad avviso dell’appellante,
poiché nel caso di specie si sarebbe
trattato di un intervento di manutenzione
straordinaria finalizzato a rimuovere -in
base all’art. 1, comma 6, del d.P.R. 24.07.1996 n. 503- le barriere
architettoniche in un edificio privato, non
sarebbe richiesta, ai sensi dell’art. 149
del d.lgs. n. 42 del 2004, l’autorizzazione
paesaggistica, di guisa che il parere
negativo della Soprintendenza sarebbe stato
rilasciato nella specie in carenza di
potere.
La censura non è condivisibile.
Vale anzitutto precisare che ai sensi del
citato art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004
l’autorizzazione della autorità preposta
alla tutela del vincolo non è richiesta
soltanto per gli interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria di restauro e di
risanamento conservativo che non alterino lo
stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli
edifici.
Nel caso in esame è pacifico al contrario
che la realizzazione della piattaforma
elevatrice abbia determinato un aumento dei
volumi dell’edificio ed abbia inciso sui
profili esteriori dello stesso, onde la
qualificazione dell’intervento quale
manutenzione straordinaria non gioverebbe
alle ragioni dell’appellante nella misura in
cui non sarebbe idonea a superare la
necessità del rilascio della autorizzazione
e del suo superamento della fase del riesame
della Soprintendenza (trattandosi di
immobile ricadente in area sottoposta a
vincolo paesaggistico).
In ogni caso, è da escludere che
l’intervento possa correttamente
qualificarsi come di manutenzione
straordinaria, atteso che la realizzazione
di una piattaforma elevatrice munita di
autonomo vano di scorrimento, che fuoriesce
dalla sagoma dell’edificio asservito e che
quindi costituisce un’opera dotata di
autonomia funzionale, appare piuttosto
integrare una ristrutturazione edilizia,
necessitante di permesso di costruire ai
sensi dell’art. 10 del d.PR. n. 380 del 2001
o, in alternativa, di denuncia di inizio di
attività ai sensi dell’art. 22 d.P.R. cit..
Per altro verso, la qualificazione
dell’intervento alla stregua di opera di
straordinaria manutenzione non potrebbe
trarsi, come assume l’appellante, dalla
disciplina normativa di favore dettata in
materia di eliminazione delle barriere
architettoniche dagli edifici pubblici e
privati (d.P.R n. 503 del 1996, attuativo
dell’art. 27 l. 30.03.1971 n. 118; art.
24 l. 05.02.1992 n. 104; l. n. 13 del
1989), dato che le finalità semplificatorie
e propulsive di tali testi normativi in
favore delle persone diversamente abili non
ha in ogni caso comportato una modificazione
della tipologia degli interventi edilizi
funzionali alla eliminazione delle barriere
architettoniche e dei corrispondenti titoli
edilizi necessari per la loro realizzazione.
E tanto anche a voler considerare le opere
di che trattasi, consistite nel collegare il
quarto piano di un appartamento al terrazzo
superiore, alla stregua di intervento
finalizzato in concreto ad eliminare le
barriere architettoniche di un edificio
privato in favore di un soggetto meritevole
di protezione.
---------------
Sotto altro profilo non appare
condivisibile la censura d’appello di
violazione e falsa applicazione della legge
09.01.1989, n. 13, recante le
disposizioni funzionali alla eliminazione
delle barriere architettoniche negli edifici
privati.
Sul punto l’appellante censura la
correttezza del ragionamento dei giudici di
primo grado nella parte in cui questi ultimi
avrebbero ritenuto abrogate (e quindi non
più applicabili in quanto non riprodotte
negli artt. 77 e segg. del testo unico in
materia edilizia) quelle disposizioni della
citata legge specificamente dettate ai fini
della eliminazione delle barriere
architettoniche (in particolare art. 4.1,
commi 4 e 5); le quali stabilivano che,
anche in aree sottoposte a vincolo
paesaggistico, l’autorizzazione
paesaggistica poteva essere negata solo ove
non fosse possibile realizzare le opere
senza serio pregiudizio del bene tutelato e
che, in ogni caso, il diniego doveva essere
motivato con la specificazione della natura
e della serietà del pregiudizio, della sua
rilevanza in rapporto al complesso in cui
l’opera si colloca e con riferimento a tutte
le alternative eventualmente prospettate
dall’interessato.
Osserva al proposito il Collegio che:
-
anzitutto è vero che non vi è stata, nel
testo unico sull’edilizia, la riproduzione
di quelle previsioni normative che ponevano
un particolare onere motivazionale in sede
di diniego alle opere finalizzate alla
rimozione delle barriere architettoniche
anche in edifici sottoposti al vincolo
storico-artistico o in aree vincolate sul
piano paesaggistico;
-
in ogni caso, al di là della sussistenza o
meno di un’indicazione normativa espressa in
tal senso (che tuttavia potrebbe trarsi dal
sistema) non potrebbe farsi a meno di
rilevare che, nel caso in esame, non vengono
in rilievo le disposizioni afferenti il
procedimento di ordinaria formazione del
titolo edilizio, dato che l’intervento è
stato realizzato sine titulo ed il diniego
avversato in primo grado è maturato, in
ragione del parere negativo della
Soprintendenza, nel distinto procedimento di
accertamento di conformità (che costituisce
un procedimento di sanatoria postuma
dell’abuso).
Ora, ed è questa la questione dirimente del
giudizio, è decisivo considerare che
l’autorizzazione paesaggistica non può
essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4,
d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi
tassativamente previsti dall’art. 167, commi
4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso
presidiare ulteriormente il regime delle
opere incidenti su beni paesaggistici,
escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesaggistica possa essere
postergato all’intervento realizzato (sine
titulo o in difformità dal titolo
rilasciato) e ciò al fine di escludere che
possa riconnettersi al fatto compiuto
qualsivoglia forma di legittimazione
giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167 del
Codice n. 42 del 2004, evidentemente in
considerazione delle prassi applicative
delle leggi succedutesi in materia di
condoni e sanatorie (caratterizzate di
regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla
tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso
tutelare più rigorosamente i beni sottoposti
al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post
delle opere abusive (tranne quelle
tassativamente indicate nello stesso art.
167).
Sotto tale profilo, ove le opere risultino
diverse da quelle sanabili e indicate
nell’art. 167, le autorità non possono che
emanare un atto dal contenuto vincolato e
cioè esprimersi nel senso della reiezione
dell’istanza di sanatoria.
L’unica eccezione a tale rigida prescrizione
riguarda il caso in cui i lavori, pur se
realizzati in assenza o difformità
dell’autorizzazione paesaggistica, non
abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame correttamente la
Soprintendenza ha escluso la ricorrenza
della fattispecie derogatoria appena
richiamata, atteso che il vano ascensore,
come già detto, ha in fatto comportato un
aumento delle volumetrie dell’edificio e,
per di più, un’opera rilevante sul piano
della sua percezione visiva nel contesto
paesaggistico di riferimento.
---------------
A tal proposito non può condividersi
l’approccio interpretativo dell’appellante,
che mira a neutralizzare il profilo
dell’aumento volumetrico determinato del
vano ascensore, richiamando la normativa sui
cosiddetti volumi tecnici.
Sul punto il Collegio ritiene che tale tesi
non tenga conto del testo e della ratio del
medesimo art. 167.
Anzitutto appare dubbia, già in linea di
principio, l’ascrizione del vano ascensore
al novero dei cosiddetti volumi tecnici nei
casi in cui, come nella specie, lo stesso
sia in fatto conformato alla stregua di un
autonomo corpo edilizio destinato ad
ospitare l’intero impianto elevatore (e non
invece, ad esempio, soltanto l’extracorsa
dell’ascensore).
Per volume tecnico si intende infatti un
volume destinato ad ospitare un impianto o
parte di esso che, per ragioni di
funzionalità, di igiene o di sicurezza non
potrebbe essere allocato nella volumetria
assentita o comunque assentibile (Consiglio
di Stato, IV sez., 26.07.1984 n. 578);
nel caso in esame non è provato che tale
circostanza ricorra in concreto ed appar
dubbia l’assimilabilità del vano ascensore
avente caratteristiche morfologiche a quello
per cui è giudizio al cosiddetto “volume
tecnico”, nella cui categoria potrebbe al
più rientrare il vano destinato ad ospitare
i macchinari funzionali all’ascensore (ma
non l’ascensore in sé, dotato di autonomia planovolumetrica rispetto all’edificio
servito).
In ogni caso, ed il rilievo appare di per sé
assorbente e decisivo, nella prospettiva
della tutela del paesaggio non è rilevante
la classificazione dei volumi edilizi che si
suole fare al fine di evidenziare la
neutralità, sul piano del carico
urbanistico, dei cosiddetti volumi tecnici.
E’ pacifico infatti che tale distinzione si
rivela inconferente sul piano della tutela
dei beni paesaggistici: le qualificazioni
giuridiche rilevanti sotto il profilo
urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere
sotto il profilo paesaggistico, sia quando
si tratti della percezione visiva di volumi,
a prescindere dalla loro destinazione d’uso,
sia quando comunque si tratti di modificare
un terreno o un edificio, o il relativo
sottosuolo.
La circolare ministeriale citata
dall’appellante (del Ministero dei lavori
pubblici del 31.01.1973, n. 2474, e
che, in base ad un parere del Consiglio
superiore dei lavori pubblici, inserisce tra
i volumi tecnici ai fini del calcolo della
volumetria assentibile solo i volumi
strettamente necessari a contenere e a
consentire l’accesso di quelle parti degli
impianti tecnici che non possono per
esigenze di funzionalità degli impianti
trovare luogo entro il corpo di fabbrica
dell’edificio realizzabile nei limiti
imposti dalle norme urbanistiche), a parte
ogni considerazione sulla impossibilità che
essa limiti l’applicazione delle
sopravvenute disposizioni legislative, già a
suo tempo aveva colto il principio per cui
la nozione di ‘volume tecnico’ rileva ai
soli fini urbanistico-edilizio, avendo
specificato che “la sistemazione dei volumi
tecnici non deve costituire pregiudizio per
la validità estetica dell’insieme
architettonico”.
Pertanto, la natura del volume edilizio
realizzato (sia o meno qualificabile come
volume tecnico) non rileva sul giudizio di
compatibilità paesaggistica ex post delle
opere: la nuova volumetria, quale che sia la
sua natura, impone una valutazione di
compatibilità con i valori paesaggistici
dell’area (che deve compiersi da parte della
autorità preposta alla tutela del vincolo,
ovvero dalla competente Soprintendenza in
sede di redazione di un suo parere), mentre
sono radicalmente precluse autorizzazioni
postume per le opere abusive che abbiano
comportato la realizzazione di nuovi volumi
(art. 167 d.lgs. cit.).
Nel caso in esame appare pertanto pienamente
legittimo il parere negativo –avente
contenuto vincolato- espresso dalla
Soprintendenza con la nota 29.01.2007,
n. 33585, e, per conseguenza, immune dalle
censure dedotte l’avversato diniego
comunale.
L’inconfigurabilità della sanzione
pecuniaria alternativa e la necessità della
riduzione in pristino dello stato dei luoghi
sono inoltre effetti legali strettamente
connessi alla applicazione dell’art. 167 del
d.lgs. n. 42 del 2004, il quale non prevede
sanzioni alternative alla misura ripristinatoria a carattere reale (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.06.2012 n. 3578 -
tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
opere funzionali all’eliminazione delle barriere
architettoniche sono solo quelle tecnicamente necessarie a
garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità
degli edifici privati e non già le opere dirette alla
migliore fruibilità dell’edificio e alla maggior comodità
dei residenti.
Sicché, nel bilanciamento tra l’interesse alla tutela del
patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla
salvaguardia del diritto alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche, la normativa ha
dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo,
purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla
realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene
vincolato; mentre, nel bilanciamento degli interessi in
gioco si è ritenuto, al contrario, prevalente quello
relativo al rispetto della normativa antincendio.
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali
barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini
a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi
in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto
il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove
l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine
“interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più
fabbricati”.
---------------
Relativamente al conflitto tra gli interessi dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti
terzi, il legislatore con la previsione contenuta nell'art.
79 dpr 380/2001 e nell'art. 873 del codice civile, ha
ritenuto di dare prevalenza al diritto di questi ultimi al
rispetto delle distanze tra le costruzioni, che quindi non
può mai essere “minore di 3 metri”, in base alla previsione
codicistica, all’evidente fine di garantire la salubrità
delle costruzioni. In definitiva, il legislatore nel
bilanciamento degli interessi in gioco nel mentre ha
ritenuto prevalente l’interesse dei portatori di handicap
rispetto a quello degli altri “condomini”, ha ritenuto al
contrario recessivo tale interesse rispetto a quello dei
soggetti “terzi”, cioè dei proprietari di immobili finitimi,
che non possono veder leso il loro diritto alla salute,
ugualmente meritevole di tutela, a non vedere create delle
intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle
costruzioni.
---------------
La costruzione di un ascensore esterno in facciata di
condominio per un verso ha quei connotati e quelle
caratteristiche di stabilità che impongono di ricomprenderlo
nella nozione di “costruzione” di cui al predetto art. 873
del codice civile e per altro verso, per le sue
caratteristiche costruttive, viene a creare una permanente
intercapedine dannosa per la sicurezza e la salubrità delle
costruzioni vicine; per cui tale opera deve necessariamente
rispettare le distanze legali.
... per l'annullamento del provvedimento 24.05.2011, prat.
n. 4/2001, con il quale il Responsabile del III Settore
(Assetto ed uso del territorio) del Comune di Loreto
Aprutino ha rigettato la domanda di permesso di costruire
presentata dal ricorrenti per l’esecuzione dei lavori di
installazione di un ascensore esterno ...
...
L’impugnato provvedimento di rigetto della domanda di
permesso di costruire presentata dai ricorrenti per
l’esecuzione dei lavori di installazione di un ascensore
esterno è motivato con riferimento alla testuale
considerazione che, in violazione dell’art. 79 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, non era rispettata la “distanza di
tre metri di cui all’art. 873 del codici civile, ricorrendo
il caso in cui tra le opere da realizzare (ascensore
finalizzato all’eliminazione delle barriere architettoniche)
ed il fabbricato alieno … non è interposto alcuno spazio o
alcuna area di proprietà o di uso comune”.
Tale ragione giustificativa del diniego del titolo edilizio
richiesto si sottrae, ad avviso del Collegio, alle censure
di legittimità dedotte con il ricorso.
Va al riguardo premesso che il Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel
disciplinare all’art. 79 le opere finalizzate
all’eliminazione delle barriere architettoniche dispone
testualmente al suo primo comma che tali opere “possono
essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le
chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a
più fabbricati”; al suo secondo comma precisa, inoltre,
che “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze
di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile
nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i
fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna
area di proprietà o di uso comune”.
Tale richiamato art. 873 del codice civile, nel disciplinare
le distanze nelle costruzioni, dispone a sua volta che “le
costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti,
devono essere tenute a distanza non minore di tre metri”.
Va, infine, ricordato che con Decreto ministeriale
14.06.1989, n. 236, sono state dettate le prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l’accessibilità degli
edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione
delle barriere architettoniche.
Così puntualizzato il quadro normativo di riferimento, va
evidenziato che tali previsioni per il superamento e
l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989,
poi trasfusa nel predetto t.u., ed articolate in dettaglio
nella normativa tecnica di attuazione di cui al D.M.
14.06.1989, n. 236- hanno elevato il livello di tutela dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche, che oggi non è
più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed
individuale, ma è ormai considerato come interesse primario
dell’intera collettività, da soddisfare con interventi
mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo
della persona e dello svolgimento di una normale vita di
relazione (Corte Costituzionale 10.03.1999, n. 167, e
04.07.2008, n. 251, e da ultimo TAR Campania, sede Napoli,
sez. IV, 14.11.2011, n. 5343).
Purtuttavia, va anche precisato che la giurisprudenza ha al
riguardo meglio precisato che tale sistema di tutela delle
persone disabili è, in concreto, applicabile compatibilmente
con altri interessi pubblici che non possono essere
pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale delle medesime
persone; con la conseguenza che le misure necessarie a
rendere effettiva la tutela delle persone disabili, alla
stregua degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione possono
essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del
principio di parità di trattamento, tenuto conto di tutti i
valori costituzionali in gioco e fermo comunque il rispetto
di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati.
In definitiva, tale normativa consente il diniego della
richiesta autorizzazione qualora non sia possibile
realizzare le opere senza pregiudizio di altri beni
ugualmente tutelati.
Premesso che le opere funzionali all’eliminazione delle
barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente
necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la
visitabilità degli edifici privati e non già le opere
dirette alla migliore fruibilità dell’edificio e alla
maggior comodità dei residenti (TAR Abruzzo, sede L'Aquila,
08.11.2011, n. 526), va ricordato che il legislatore ha
effettuato delle scelte puntuali in ordine alla graduazione
degli interessi coinvolti.
Così, in particolare, nel bilanciamento tra l’interesse alla
tutela del patrimonio storico-artistico nazionale e quello
alla salvaguardia del diritto alla salute ed al normale
svolgimento della vita di relazione e socializzazione dei
soggetti in minorate condizioni fisiche, tale normativa ha
dato prevalenza in via generale al secondo, consentendo,
purtuttavia, il diniego dell’autorizzazione alla
realizzazione di interventi su beni vincolati nei soli casi
di accertato e motivato «serio pregiudizio» del bene
vincolato (TAR Sicilia, sede Palermo, sez. I, 04.02.2011, n.
218, TAR Campania, sede Napoli, sez. IV, 15.09.2011, n.
4402, e TAR Toscana sez. III, 25.10.2011, n. 1546); mentre,
nel bilanciamento degli interessi in gioco si è ritenuto, al
contrario, prevalente quello relativo al rispetto della
normativa antincendio (Cons. St. sez. V, 08.03.2011, n.
1437).
Per quando attiene, in particolare, l’eliminazione di tali
barriere negli edifici in condominio, la normativa vigente
sopra richiamata nel contrasto tra l’interesse dei condomini
a non vedere modificati i beni comuni e quello dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche ha tutelato questi ultimi
in termini assoluti ed inderogabili, per cui non è richiesto
il consenso di tutti i proprietari del fabbricato ove
l’opera debba essere realizzata in cortili o chiostrine “interni
ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”
(TAR Lazio, sez. Latina, 04.03.2011, n. 221, e Cons. St.
sez. IV, 04.05.2010, n. 2546).
Relativamente, invece, al conflitto tra gli interessi dei
soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei
soggetti terzi, il legislatore con la sopra ricordata
previsione contenuta nel predetto art. 79 e nel richiamato
art. 873 del codice civile, ha ritenuto di dare prevalenza
al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra
le costruzioni, che quindi non può mai essere “minore di
tre metri”, in base alla previsione codicistica,
all’evidente fine di garantire la salubrità delle
costruzioni. In definitiva, il legislatore nel bilanciamento
degli interessi in gioco nel mentre ha ritenuto prevalente
l’interesse dei portatori di handicap rispetto a quello
degli altri “condomini”, ha ritenuto al contrario
recessivo tale interesse rispetto a quello dei soggetti “terzi”,
cioè dei proprietari di immobili finitimi, che non possono
veder leso il loro diritto alla salute, ugualmente
meritevole di tutela, a non vedere create delle
intercapedini che possono incidere sulla salubrità delle
costruzioni.
Tale scelta legislativa, ad avviso del Collegio, non sembra
inficiata da profili di costituzionalità, in quanto rientra
nella discrezionalità del legislatore dare la prevalenza
all’uno o all’altro degli interessi in conflitto; inoltre,
la scelta effettuata con la normativa di cui al più volte
ricordato art. 79 non sembra illogica o particolarmente
penalizzante degli interessi dei soggetti portatori di
handicap, ove si consideri che nella specie tale diritto è
stata ritenuto recessivo nei confronti del diritto alla
salute, di pari rilevanza, dei soggetti confinanti.
---------------
I ricorrenti con i tre motivi di gravame si sono nella
sostanza lamentati delle seguenti circostanze:
1) che l’opera da realizzare non doveva rispettare le
distanze legali, in quanto non creava una intercapedine
dannosa per la sicurezza e la salubrità della collettività e
che, peraltro, non era rispettata la distanza in questione
solo per una parte marginale;
2) che l’opera era conforme alle prescrizioni vigenti in
quanto realizzata su uno “spazio o area comune”;
3) che la legislazione di favore nei confronti dei portatori
di handicap, volta all’eliminazione delle barriere
architettoniche, deve essere interpretata nel senso che è
consentita la deroga della predetta distanza di tre metri
ove sia impossibile una diversa collocazione dell’opera da
realizzare.
Se, con riferimento a quanto sopra esposto, sembra evidente
la mancanza di pregio di quanto dedotto con il terzo motivo,
in quanto il vigente sistema non tutela le persone disabili
in termini assoluti ed inderogabili (Cons. St. sez. V,
08.03.2011, n. 1437), ma effettua un bilanciamento degli
interessi in gioco, ponendo dei precisi limiti alla
realizzazione delle opere in questione quando venga leso il
diritto alla salute dei confinanti, va evidenziato in punto
di fatto che l’opera da realizzare -contrariamente a quanto
dedotto con il ricorso- non si sviluppa solo fino al primo
piano dell’edificio, ma è destinata a raggiungere anche gli
ulteriori piani dell’edificio, che non sono abitati dal
soggetto portatore di handicap.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che l’opera -così come
si rileva dagli atti progettuali versati in giudizio anche
dalla parte ricorrente- per un verso ha quei connotati e
quelle caratteristiche di stabilità che impongono di
ricomprenderla nella nozione di “costruzione” di cui
al predetto art. 873 del codice civile e per altro verso,
per le sue caratteristiche costruttive, viene a creare una
permanente intercapedine dannosa per la sicurezza e la
salubrità delle costruzioni vicine; per cui tale opera deve
necessariamente rispettare le distanze legali. Mentre appare
in merito irrilevante il fatto che tale distanza non era
rispettata solo per una parte dell’opera, in quanto la norma
sui distacchi tra le costruzione prevede delle precise
distanze che, salva la c.d. tolleranza di cantiere, debbono
essere necessariamente rispettate.
Quanto, infine, alla circostanza che l’ascensore sarebbe
stato realizzato su uno “spazio o area comune”, va
evidenziato che la normativa in questione, quando utilizza
tale espressione, intende riferirsi all’esistenza di un
diritto di comunione sull’area sulla quale deve essere
realizzata l’opera. Ora dagli atti di causa non risulta che
il cortile in questione sia in comunione, né risulta
dimostrata che sull’area esista una servitù di passaggio; al
contrario, dalle mappe catastali e dagli atti progettuali si
evince che i due edifici che si fronteggiano sono separati
da una precisa linea di confine posta a distanza di un metro
e mezzo dai due edifici.
Non trattandosi di un’area “comune” la costruzione
dell’ascensore, in assenza del consenso dei proprietari
dell’edificio adiacente, avrebbe dovuto, pertanto,
rispettare le distanze di legge; né appare utile al riguardo
il riferimento alle definizioni contenute nel predetto
decreto ministeriale 14.06.1989, n. 236, con il quale sono
state dettate le prescrizioni tecniche necessarie a
garantire l’accessibilità degli edifici privati ai fini del
superamento e dell’eliminazione delle barriere
architettoniche, e ciò non solo per il rango nella gerarchia
delle fonti di tale decreto e per la sua inidoneità a
modificare norme di legge, ma anche e soprattutto per il
fatto che le definizioni contenute in tale decreto si
riferiscono alle prescrizioni tecniche disciplinate con la
normativa in questione (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 24.02.2012 n. 87 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2011 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
L’inserimento di un ascensore o la
rotazione di una scala non impattano sul paesaggio e non
creano volumi e sono autorizzabili anche in sanatoria.
Nel merito, si contestano due provvedimenti che hanno negato
l’autorizzazione paesaggistica per opere in variante
relative alla realizzazione di: un ascensore idoneo per
l’abbattimento delle barriere architettoniche, una scogliera
davanti al giardino del blocco E, due pergolati in legno,
modifica della partenza e dell’arrivo della scala di accesso
al piano primo del blocco E, rotazione della scala di
accesso al piano terra.
In questo procedimento solo questi abusi devono essere presi
in considerazione. Non si può pertanto rivalutare tutto il
progetto e ciò che era stato assentito in base a titoli già
consolidati, né si deve considerare quanto oggetto del
provvedimento n. 13497 emesso anch’esso il 16.12.1998 e che
ha dato origine al ricorso 80/2009 che viene deciso con
separato provvedimento (e che come vedremo in quella sede
riguarderà la modifica della quota d’imposta dei fabbricati
A, B, C, su cui si è soffermata l’ordinanza cautelare).
Delle opere oggetto di questo ricorso (ascensore, scogliera,
pergolati, diverse quote scala di accesso, rotazione scala
di accesso) l’unica su cui si era soffermato il
provvedimento della Soprintendenza era la scogliera; su essa
la Soprintendenza aveva espresso parere contrario perché
l’intervento era fortemente impattante per la creazione
della scogliera ed i connessi riporti di terra.
Deve ritenersi pertanto che, a giudizio della
Soprintendenza, le altre opere fossero assentibili.
D’altronde, l’inserimento di un ascensore o la rotazione di
una scala non impattano sul paesaggio e non creano volumi e
sono autorizzabili anche in sanatoria (la questione sulla
procedura da seguire che pure viene dedotta nel primo motivo
di ricorso, se in sanatoria o in via ordinaria, nasce dalla
circostanza che il ricorrente ha affastellato all’interno di
una unica richiesta opere già realizzate ed opere ancora da
realizzare); poteva porsi questione sui pergolati
nell’ipotesi in cui fossero tali da creare superfici utili,
ma sui pergolati nessun rilievo è stato mosso dall’autorità
amministrativa. Ne consegue che l’attenzione deve
incentrarsi solo sulla scogliera.
La scogliera, però, non è mai stata realizzata dalla
ricorrente (come precisa la relazione di verificazione a
pag. 8), talché si rende non necessario esaminare anche la
deduzione della ricorrente relativa alla realizzazione della
scogliera, posto che il suo accoglimento non recherebbe
alcun vantaggio alle ragioni della ricorrente, che ha
rinunciato ad eseguire questo lavoro nonostante la
sospensiva di accoglimento del Tribunale l’avesse finanche
legittimata a farlo interinalmente, e che pertanto sul punto
il relativo motivo di ricorso si rivela inammissibile.
Ne consegue che viene accolto il secondo motivo di ricorso
sul difetto di motivazione con riferimento a tutte le opere
oggetto della richiesta del 16.10.2008 diverse dalla
scogliera (e quindi per l’ascensore, i pergolati, la
modifica della scala di accesso), in quanto esse sono state
vietate senza alcuna motivazione (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 31.01.2011 n. 196 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ascensori e montacarichi. Dal Ministero del Lavoro il testo
coordinato per l'attuazione delle direttive europee.
Il Ministero del Lavoro ha pubblicato un documento
contenente il testo coordinato del Decreto del Presidente
della Repubblica 05.10.2010, n. 214 - “Regolamento
recante modifiche al Decreto del Presidente della Repubblica
30.04.1999, n. 162, per la parziale attuazione della
Direttiva 2006/42/CE relativa alle macchine e che modifica
la Direttiva 95/16/CE relativa agli ascensori”.
Il documento fornisce un quadro completo sulle norme
relative ad ascensori e montacarichi, dai requisiti
essenziali di sicurezza ai contenuti delle dichiarazione CE.
Sono presenti diversi allegati tecnici, tra cui:
- Requisiti essenziali di sicurezza;
- Contenuto della dichiarazione CE;
- Marcatura CE di conformità;
- Elenco dei componenti di sicurezza;
- Esame CE del tipo (Modulo B);
- Esame finale (18.03.2011 - link a www.acca.it). |
anno 2010 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
L'installazione degli ascensori in sicurezza.
SuvaPro è la divisione che si occupa della sicurezza sul
lavoro di SUVA, azienda autonoma di diritto pubblico,
l'assicuratore più importante in Svizzera nel campo
dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni.
Nell'ambito dell'attività di prevenzione, SUVA ha
predisposto un opuscolo informativo indirizzato ai
responsabili dei lavori sui cantieri e agli installatori
delle ditte fornitrici di ascensori.
La pubblicazione illustra alcune semplici regole per
garantire la sicurezza nell'uso dei ponteggi per vani
ascensore e nel montaggio di ascensori senza l'ausilio di
ponteggi.
La pubblicazione è articolare nei seguenti capitoli: ... (06.05.2010
- link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
nozione di volume tecnico, non computabile nel calcolo della
volumetria massima consentita, può essere applicata solo con
riferimento ad opere edilizie completamente prive di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinate a contenere impianti serventi di una costruzione
principale, per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione stessa.
Si tratta, in particolare, di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati
all'interno di questa, connessi alla condotta idrica,
termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa
parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al
fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque
esistenti nella realtà fisica.
Resta dunque estraneo a tale nozione il volume del vano
scale.
Per costante giurisprudenza, la nozione di volume tecnico,
non computabile nel calcolo della volumetria massima
consentita, può essere applicata solo con riferimento ad
opere edilizie completamente prive di una propria autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a
contenere impianti serventi di una costruzione principale,
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.
Si tratta, in particolare, di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati
all'interno di questa, connessi alla condotta idrica,
termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa
parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al
fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque
esistenti nella realtà fisica.
Resta dunque estraneo a tale nozione il volume del vano
scale (cfr. V Sez. n. 120 del 02.03.1994) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 04.05.2010 n. 2565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Gli ascensori saltano la revisione. Il
Tar del Lazio ha accolto il ricorso di Confedilizia
annullando gli effetti del dm 23/07/2009. Stop alla verifica
straordinaria: sarebbe costata 6 mld.
Stop alla revisione straordinaria degli ascensori. Il TAR
Lazio-Roma, Sez. III-ter, accogliendo un ricorso della
Confedilizia, ha annullato con
sentenza 01.04.2010 n. 5413 il decreto del
ministero dello sviluppo economico del 23 luglio dello
scorso anno che imponeva una verifica straordinaria degli
impianti installati e messi in esercizio prima del 1999,
dichiarando il provvedimento «illegittimo sotto tutti i
profili». Un'operazione che secondo la Confederazione
italiana della proprietà edilizia sarebbe costata qualcosa
come 6 miliardi di euro.
La sentenza, spiega Confedilizia in una nota, sottolinea che
il decreto «impone ai privati proprietari pesanti
prestazioni personali e patrimoniali al di fuori di
qualsiasi prescrizione legislativa e soprattutto lascia
ampio spazio nella loro individuazione a una associazione
privata (l'Uni), alle cui libere determinazioni, assunte nel
tempo e finalizzate a un continuo adeguamento delle tecniche
di valutazione dei rischi degli impianti, da essa imposte,
dipende la loro progressiva quantificazione e i vantaggi
economici che l'associazione ne ricava».
La riprova dell'«anomala e ingiustificata posizione di
vantaggio che a essa si è ritenuto di assicurare, in danno
dei proprietari», sottolinea anche la sentenza, «è
già nell'obbligo fatto ai privati proprietari di acquisire,
a un prezzo esoso, limitatamente a una sola copia del
cartaceo recante il testo delle norme tecniche da osservare
e “ad esclusivo uso del cliente”, la licenza da parte
dell'Uni a utilizzare la normativa tecnica da essa
predisposta, di cui è ritenuta proprietaria e che per questa
ragione non è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, come
sarebbe doveroso per ogni normativa che alla collettività si
impone di applicare».
La sentenza evidenzia, ancora, che «l'ordinamento vigente
già impone ai proprietari di immobili dotati di ascensori
due verifiche annuali e una straordinaria a opera di tecnici
specializzati e autorizzati, con i relativi costi di non
limitato livello».
Per effetto del decreto impugnato, «a detto sistema,
niente affatto abrogato ma tuttora vigente e cogente»,
sottolinea la sentenza, «ora se ne sovrappone un altro
motivato con riferimento alla migliore qualità che
garantirebbero le tecniche Uni, come se la loro applicazione
non potesse essere imposta ai tecnici che effettuano i primi
controlli».
In sostanza, evidenzia la sentenza, «si mantiene in piedi
un sistema, della cui efficacia si dubita, ma che obbliga i
suoi operatori a segnalare immediatamente eventuali difetti
dell'ascensore ai relativi proprietari perché provvedano a
eliminarli, e a esso se ne sovrappone un altro, che
introduce un'ulteriore verifica. Il primo controllore è
controllato dal secondo, senza che sia neppure stabilito, in
caso di esiti diversi, a quale dei due i privati proprietari
devono conformarsi».
La sentenza è stata emessa in un procedimento nel quale la
Confedilizia è stata difesa da Vittorio Angiolini, docente
all'Università di Milano, e nel quale è intervenuta a
sostegno del ricorso l'associazione consumatori Assoutenti.
Il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani,
ha dichiarato: «A pochi giorni dall'accoglimento del
nostro ricorso contro l'attribuzione ai Comuni della
possibilità di determinare la base imponibile delle imposte
anche comunali come l'Ici, il Tar del Lazio ha accolto un
altro nostro ricorso, annullando un provvedimento che
avrebbe causato forti spese a condomini e proprietari di
casa, calcolate da una società del settore ascensori in sei
miliardi di euro. La Confedilizia si conferma come un
preciso punto di riferimento per la difesa delle ragioni
proprietarie» (articolo ItaliaOggi del 02.04.2010,
pag. 24). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
19.02.2010 n. 41, suppl. ord. n. 36/L, "Attuazione della
direttiva 2006/42/CE, relativa alle macchine e che modifica
la direttiva 95/16/CE relativa agli ascensori" (D.Lgs.
27.01.2010 n. 17). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Volumi tecnici - Nozione - Esclusione
dal conteggio dell’indice edificatorio - Presupposti - Vani
idonei ad essere adibiti ad abitazione - Estraneità.
Sono volumi tecnici solo quelli adibiti alla sistemazione di
impianti (riscaldamento ascensore ecc.) aventi un rapporto
di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
e che non possono essere ubicati all'interno della parte
abitativa (cfr. Cons. St., Sez. V, 31.01.2006 n. 354).
I volumi tecnici non rientrano nel conteggio dell’indice
edificatorio, in quanto non sono generatori del c.d. carico
urbanistico e la loro realizzazione è finalizzata a
migliorare la funzionalità e la salubrità delle costruzioni.
Essi non possono essere ubicati all'interno della parte
abitativa, sicché non sono tali i locali complementari
all'abitazione (cfr. Cons. St. Sez. V 13.05.1997, n. 483),
come le soffitte o i bagni, destinati a formare un’ unica
unità abitativa e privi di una effettiva destinazione ad
impianti tecnologici.
Il beneficio del mancato computo volumetrico (derivante
dalla iscrizione al concetto di volume tecnico) risulta
necessariamente condizionato alla sussistenza dei suddetti
presupposti, cosicché non può esistere volume tecnico
laddove si tratti di vani che presentano tutte le
caratteristiche per essere adibiti all’abitazione.
DIRITTO DELL’ENERGIA - Serre
bioclimatiche - Equiparazione ai volumi tecnici - Art. 4, c.
4 L.r. Lombardia n. 39/2004 - Assenza di definizione
normativa - Principi della tecnica - Realizzazione
prevalente con superfici vetrate - Copertura.
Il beneficio di cui all’art. 4, c. 4. della L.R. Lombardia
n. 39 del 2004 -secondo cui le serre bioclimatiche,
destinate allo sfruttamento dell’energia solare passiva,
sono considerate volumi tecnici- risulta condizionato alla
significatività dell’intervento, che è indicato dal
rapporto, che deve essere inversamente proporzionale, fra la
superficie utilizzata a serra e la potenzialità di risparmio
energetico ricavabile.
E’ pur vero che la norma ha omesso di fornire la definizione
di serra bioclimatica e di rassegnare un parametro
quantitativo minimo del risparmio energetico, ma a tale
carenza legislativa è pur sempre possibile porre rimedio
mediante il richiamo dei principi della tecnica. E’ chiaro
che qualsiasi volume non riscaldato dotato di una pur minima
finestratura svolge funzioni di isolamento e consente di
limitare il consumo energetico, ma non per questo può essere
considerata serra bioclimatica. Prerogativa della serra è
infatti l’essere realizzata principalmente con superfici
vetrate, tali da ottimizzare lo sfruttamento dell’energia
solare.
Altra caratteristica che contraddistingue le serre è la
copertura che favorisce, ancor più della pareti vetrate, lo
sfruttamento dell’energia solare (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 11.02.2010 n. 712 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sulla nozione di "volume tecnico" e di
"serra bioclimatica" ex art. 4 L.R. Lombardia 21.12.2004 n.
39.
Sono volumi tecnici solo quelli adibiti alla sistemazione di
impianti (riscaldamento ascensore ecc.) aventi un rapporto
di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
e che non possono essere ubicati all'interno della parte
abitativa (cfr. Cons. St., Sez. V, 31.01.2006 n. 354).
La dottrina ha posto in luce che i volumi tecnici non
rientrano nel conteggio dell’indice edificatorio, in quanto
non sono generatori del c.d. carico urbanistico e la loro
realizzazione è finalizzata a migliorare la funzionalità e
la salubrità delle costruzioni.
La giurisprudenza ha sottolineato che essi non possono
essere ubicati all'interno della parte abitativa, sicché non
sono tali i locali complementari all'abitazione (cfr. Cons.
St. Sez. V 13.05.1997, n. 483), come le soffitte o i bagni,
destinati a formare un’ unica unità abitativa e privi di una
effettiva destinazione ad impianti tecnologici. La
realizzazione di un locale "sottotetto" mediante vani
distinti e comunicanti attraverso una scala interna col
piano sottostante è indice rivelatore dell'intento di
rendere abitabile il locale o i locali, non potendosi detti
vani considerare volumi tecnici (C.G.A. 22.10.2003, n. 337).
Venendo a fare applicazione di tali principi in tema di
volumi tecnici, deve affermarsi che il beneficio del mancato
computo volumetrico (derivante dalla iscrizione al concetto
di volume tecnico) risulta necessariamente condizionato alla
sussistenza dei suddetti presupposti, cosicché non può
esistere volume tecnico laddove, come nel caso all’esame, si
tratti di vani che presentano tutte le caratteristiche per
essere adibiti all’abitazione.
---------------
L'art. 4, c. 4. della L.R. n.
39 del 2004 ha omesso di fornire la definizione di serra
bioclimatica e di rassegnare un parametro quantitativo
minimo del risparmio energetico, ma a tale carenza
legislativa è pur sempre possibile porre rimedio mediante il
richiamo dei principi della tecnica.
Al riguardo sono utili le osservazioni svolte dal
Responsabile dei Servizi tecnici comunali nella quale si
afferma che, in base ai principi della termotecnica,
qualsiasi volume frapposto tra due ambienti a temperatura
diversa costituisce un volano termico fra gli stessi e
quindi nei confronti dell’ambiente a temperatura maggiore
esercita la funzione di isolamento; così come una qualsiasi
superficie vetrata sottoposta ad irraggiamento solare
trasmette energia termica all’interno dell’ambiente che
delimita.
E’ chiaro quindi che qualsiasi volume non riscaldato dotato
di una pur minima finestratura svolge funzioni di isolamento
e consente di limitare il consumo energetico, ma non per
questo può essere considerata serra bioclimatica.
Anche la relazione allegata alla richiesta del Sig. Zatti
Alberto contiene stralcio di un documento dell’A.N.I.T.
(Associazione Nazionale per l’Isolamento Termico ed
Acustico) che definisce il concetto di serra: uno spazio
chiuso, vetrato, in adiacenza a superfici opache di un
ambiente riscaldato; lo stesso documento contiene anche dei
disegni tecnici che mostrano chiaramente ciò che si intende
la serra.
Prerogativa della serra è quindi l’essere realizzata
principalmente con superfici vetrate, tali da ottimizzare lo
sfruttamento dell’energia solare. Altra caratteristica che
contraddistingue le serre è la copertura che favorisce,
ancor più della pareti vetrate, lo sfruttamento dell’energia
solare
(TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 11.02.2010 n. 712 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2009 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: La
realizzazione di un ascensore interno non necessita di alcun
preliminare titolo abilitativo.
La realizzazione dell’ascensore interno soddisfa
imprescindibili esigenze abitative di coloro che, versando
in condizioni fisiche di minore abilità, devono poter
raggiungere le unità immobiliari collocate agli ultimi
piani.
È sintomatica la situazione soggettiva dei parenti prossimi
del condomino ricorrente che, proprio in considerazione
della carenza di ascensore, lamenta che l’anziana madre non
è in grado di accedere all’abitazione sita all’ultimo piano
del condominio.
Né va passato sotto silenzio che la realizzazione
dell’ascensore è ascrivibile al genus degli
interventi preordinati a rimuovere le barriere
architettoniche: l’art. 6, comma 2, lett. b), D.P.R. n.
380/2001 esonera dalla richiesta del titolo abilitativo gli
interventi volti all’eliminazione delle barriere
architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe
o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la
sagoma dell’edificio.
La littera legis è univoca nell’escludere gli
ascensori interni dal previo ottenimento del titolo
abilitativo.
Eventuali disposizioni contenute negli strumenti urbanistici
o nel regolamento edilizio devono essere scrutinate alla
luce della richiamata disposizione che, in ragione della
collocazione sistematica della fonte dalla quale promana, è
norma di principio come tale vincolante sia il legislatore
regionale che quello locale (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 20.10.2009 n. 2792 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI:
Verifica straordinaria per gli ascensori.
Il 1° settembre è entrato in vigore il decreto del Ministro
per lo sviluppo economico sulle nuove regole per migliorare
la scurezza degli ascensori, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 189 del 17.08.2009.
L'obiettivo è quello di adeguare allo stesso livello di
sicurezza tutti gli ascensori in uso sul territorio
italiano, molti dei quali obsoleti. In pratica, nel giro di
5 anni a partire dal 1° settembre tutti gli impianti
installati entro il 24.06.1999 dovranno essere sottoposti ad
un'analisi dei rischi. Il mancato adeguamento a tali misure
comporterà l'impossibilità di tenere in uso l'impianto.
I destinatari dell'obbligo sono i proprietari degli
impianti, amministratori, associazioni di piccoli
proprietari immobiliari; imprese che effettuano
manutenzione, riparazione e ammodernamento di ascensori; ASL
e Ispettorato del lavoro.
Il Provvedimento classifica le varie situazioni pericolose e
fornisce azioni correttive che migliorino progressivamente e
selettivamente la sicurezza di tutti gli ascensori
esistenti. Elenca inoltre i rischi di livello (alto, medio e
basso). Per valutare la situazione di rischio, sulla base
delle norme di buona tecnica più recenti si deve richiedere
e concordare una verifica straordinaria dell'impianto.
La verifica va fatta: entro l'01.09.2011 per gli ascensori
installati prima del 15.11.1964; entro l'01.09.2012 per gli
ascensori installati prima del 24.10.1979; entro
l'01.09.2013 per gli ascensori installati prima del
09.04.1991; entro l'01.09.2014 per gli ascensori installati
prima del 24.06.1999 (link a www.governo.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
volumi tecnici sono quelli destinati esclusivamente agli
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non
possono essere ubicati al suo interno, quali ad esempio il
locale caldaia ed il vano ascensore.
Per giurisprudenza pacifica i volumi tecnici sono quelli
destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati
al suo interno, quali ad esempio il locale caldaia ed il
vano ascensore.
Pertanto non rientrano tra i volumi tecnici -e quindi sono
computabili ai fini della volumetria consentita- le
soffitte, gli stenditori chiusi, i locali di sgombero ed il
piano di copertura, comunemente definito sottotetto, ove per
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda, possa
essere utilizzato come mansarda (cfr. Consiglio Stato, sez.
V, 04.03.2008, n. 918; Consiglio Stato, sez. V, 13.05.1997,
n. 483) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 11.05.2009 n. 669 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2008 |
|
EDILIZIA
PRIVATA: Ascensore
- Manutenzione straordinaria - Oneri di urbanizzazione - Non
sono dovuti.
Ai fini della definizione degli oneri di urbanizzazione e
del contributo sul costo di costruzione, va qualificato come
manutenzione straordinaria, con conseguente esonero dagli
oneri, l'intervento edilizio finalizzato all'inserimento di
un ascensore, trattandosi di un'innovazione tecnologica
compatibile con il concetto di manutenzione straordinaria di
cui all'art. 31, co. 1, lett. b), L. 457/1978, ora
codificato a livello locale dall'art. 27, co. 1, lett. b),
L.R. 12/2005. L'adeguamento tecnologico (in particolare
quando è finalizzato all'eliminazione di barriere
architettoniche) costituisce, infatti, una normale
evoluzione degli edifici e non comporta sotto il profilo
giuridico alcuna soluzione di continuità rispetto alla
condizione precedente
(massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 16.06.2008 n. 705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
DIA - Vano tecnico per allocazione di ascensore -
Ritardo incolpevole per l'esecuzione dell'opera - Non rileva
- Configurabilità di abuso edilizio per sopraelevazione -
Non sussiste - Possibilità di comminare una sanzione
pecuniaria - Non sussiste.
Ove il sopralzo effettuato, a seguito di assenso edilizio,
per riqualificare una struttura esistente in zona D1 non
possa essere considerato dall'Amministrazione volume ormai
utile a soli fini di ingombro urbanistico, e quindi non più
volume tecnico, ovvero non sia possibile affermare, con
assoluta certezza, che in esso non possa più allocarsi -come
previsto- il vano di fine corsa di un installando ascensore,
ed ove i ritardi di installazione non paiano del tutto
accollabili all'impresa, si appalesa come illegittimo -e
deve conseguentemente essere annullato- il provvedimento
ingiuntivo di pagamento della sanzione pecuniaria per opere
difformi (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 07.03.2008 n. 216
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2007 |
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EDILIZIA PRIVATA:
Il torrino vano fine corsa ascensore può
essere definito come volume tecnico, in quanto rientrano nel
concetto di volume tecnico quelle opere edilizie, adibite
alla sistemazione di impianti in rapporto di strumentalità
necessaria con l’uso dell’edificio in cui vengono collocati
e che non possono essere sistemati all’interno della parte
abitativa.
I locali aventi una destinazione complementare a quella
residenziale, come la mansarda, la soffitta, gli stenditoi
chiusi ed i ripostigli, non rientrano nell’ambito dei cd.
volumi tecnici e perciò vanno computati ai fini della
volumetria e/o dell’altezza consentita.
Il torrino vano fine corsa ascensore può essere definito
come volume tecnico, in quanto rientrano nel concetto di
volume tecnico quelle opere edilizie, adibite alla
sistemazione di impianti in rapporto di strumentalità
necessaria con l’uso dell’edificio in cui vengono collocati
e che non possono essere sistemati all’interno della parte
abitativa, come per es. gli impianti termici, gli impianti
idrici e gli impianti di ascensore comprensivi del torrino
vano fine corsa ascensore (cfr. sul punto C.d.S. Sez. V
Sent. n. 483 del 13.05.1997; TAR Lecce Sez. III Sent. n. 143
del 15.01.2005), mentre i locali aventi una destinazione
complementare a quella residenziale, come la mansarda, la
soffitta, gli stenditoi chiusi ed i ripostigli, non
rientrano nell’ambito dei cd. volumi tecnici e perciò vanno
computati ai fini della volumetria e/o dell’altezza
consentita.
Di norma i volumi tecnici non vanno computati sia dal
calcolo della volumetria che dal calcolo dell’altezza
dell’edificio e delle distanze ragguagliate all’altezza,
fatte salve puntuali disposizioni dello strumento
urbanistico (TAR Basilicata,
sentenza 23.05.2007 n. 456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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