dossier
RIFIUTI E BONIFICHE |
per approfondimenti vedi anche:
Regione Lombardia (bonifiche) <--->
SISTRI (Sistema di controllo
della tracciabilità dei rifiuti) |
settembre 2019 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Una
volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d’emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte
generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od
omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.
Quindi, è necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il
responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il
comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione,
accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria non essendo
configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al
proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità.
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha specificato che:
1) il proprietario… è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione … ovvero le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della
contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il
profilo oggettivo, l’inquinamento …;
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non
provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto
interessato) gli interventi che risultassero necessari sono adottati
dall’amministrazione competente;
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra
l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in
rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato
del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi;
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un
onere reale e di un privilegio speciale immobiliare”.
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Il Consiglio di Stato evidenzia, inoltre, che
“l’obbligo in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e
alla bonifica dell’area non potrebbe essere desunto neanche dai principi
civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da
quello di cui all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile
del custode). Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque,
l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento
dell’inquinamento …e, dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione
con i precisi obblighi di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica
previsti dalle norme in materia di tutela ambientale che dettano una
disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di
una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse
esigenze. Né vale invocare l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità
civile verso la direzione del progressivo abbandono dei criteri di
imputazione fondati sulla sola colpa. Nel sistema di responsabilità civile,
rimane centrale, infatti, anche nelle fattispecie che prescindono
dall’elemento soggettivo, l’esigenza di accertare comunque il rapporto di
causalità tra la condotta e il danno, non potendo rispondere a titolo di
illecito civile colui al quale non sia imputabile neppure sotto il profilo
oggettivo l’evento lesivo”.
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Il proprietario incolpevole
(o il possessore incolpevole), a prescindere da qualunque esame in ordine al
nesso eziologico fra la condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere
chiamato a rispondere a titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale,
gravante su di esso in ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare ancora le puntuali argomentazioni rese dalla già
citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha
chiarito:
- che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle
previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate
dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili
ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella
determinazione del danno;
- che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152
del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da
inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del
nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli
criteri di imputazione;
- che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non
ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità
di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che
implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in
assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza
dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).
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Alla luce degli atti di causa devono essere, invece, accolte le doglianze di
insufficienza dell’istruttoria e della motivazione in relazione
all’imposizione alla ricorrente di interventi di messa in sicurezza di
emergenza della falda superficiale e profonda.
La consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V,
30.07.2015, n. 3756, Cons. Stato, Sez. VI, 05.10.2016 n. 4099) ha avuto modo
di chiarire che “una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere imposti dalla Pubblica Amministrazione solamente ai soggetti
responsabili dell’inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in
parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo
od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità
affermando, altresì, che è, quindi, necessario un rigoroso accertamento al
fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di
causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente
nella contaminazione, accertamento che presuppone un’adeguata istruttoria
non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo
al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola
qualità”.
Nella vicenda in esame difetta il necessario e preventivo accertamento della
qualità di soggetto responsabile dell’inquinamento in capo alla ricorrente,
con la conseguenza che gli obblighi imposti risultano derivare dalla mera
qualifica di proprietario e possessore dell’area e, dunque, dal mero
collegamento materiale con essa, a prescindere dalla preliminare e
necessaria verifica della qualità della Fi.Au. s.p.a. quale soggetto
responsabile dell’inquinamento.
Gli obblighi in tal modo imposti risultano, pertanto, illegittimi.
Tale lettura è conforme agli approdi interpretativi cui è giunta l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato nella ordinanza n. 21 del 25.09.2013 che ha
specificato che, dal quadro normativo dell’epoca, come anche precisato dalle
successive disposizioni adottate dal legislatore, “emergono le seguenti
regole: 1) il proprietario… è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione … ovvero le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia;
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione,
cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo
oggettivo, l’inquinamento …;
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda
spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato) gli
interventi che risultassero necessari sono adottati dall’amministrazione
competente;
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra
l’altro l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero che giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in
rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato
del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi;
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere
reale e di un privilegio speciale immobiliare”.
Nella citata ordinanza del Consiglio di Stato si evidenzia che “l’obbligo
in capo al proprietario di procedere alla messa in sicurezza e alla bonifica
dell’area non potrebbe essere desunto neanche dai principi civilistici in
materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui
all’art. 2051 c.c. (che regolamenta la responsabilità civile del custode).
Tale criterio, infatti, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento
della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento …e,
dall’altro, sembra comunque porsi in contraddizione con i precisi obblighi
di imputazione di messa in sicurezza e di bonifica previsti dalle norme in
materia di tutela ambientale che dettano una disciplina esaustiva della
materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del
codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze. Né vale invocare
l’evoluzione subita dal sistema di responsabilità civile verso la direzione
del progressivo abbandono dei criteri di imputazione fondati sulla sola
colpa. Nel sistema di responsabilità civile, rimane centrale, infatti, anche
nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’esigenza di
accertare comunque il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, non
potendo rispondere a titolo di illecito civile colui al quale non sia
imputabile neppure sotto il profilo oggettivo l’evento lesivo”.
Nel caso in questione, nel quale, dai dati disponibili, la contaminazione
della falda appare provenire dalla zona a monte idrogeologico del sito e,
dunque, da aree esterne allo stabilimento di Fi.Au., nonché da sostanze
diverse da quelle ivi utilizzate, non risulta, in sostanza, accertata la
responsabilità della ricorrente nell’inquinamento del sito, neppure sotto il
profilo del nesso di causalità tra l’attività dalla stessa svolta e la
predetta situazione di inquinamento, onde, allo stato, la posizione della
società non può essere assimilata a quella dell’operatore “responsabile
dell’inquinamento”.
Sulla scorta della giurisprudenza amministrativa ormai maggioritaria non può
neppure sostenersi che il carattere eminentemente cautelare (e non anche
latu sensu sanzionatorio) delle prescrizioni impartite non
contrasterebbe con (ma anzi risulterebbe imposta dal) l’applicazione del
principio “chi inquina paga” in forza del principio di precauzione.
Va in proposito osservato che la direttiva 2004/35/CE (la quale declina in
puntuali statuizioni i richiamati principi comunitari e fornisce indici
ermeneutici di grande rilievo sistematico) non opera alcuna distinzione, per
quanto riguarda la necessaria sussistenza del nesso eziologico in punto di
causazione del danno, fra le misure di prevenzione e le misure di
riparazione di cui all’articolo 2, punti 10 e 11.
Al contrario, in entrambi i casi l’insussistenza di un nesso eziologico fra
la condotta dell’operatore e l’evento dannoso vale ad escludere qualsiasi
conseguenza a suo carico, sia per ciò che riguarda le misure di prevenzione,
sia per quanto riguarda le misure di riparazione in senso proprio.
Allo stesso modo, il proprietario incolpevole (o il possessore incolpevole),
a prescindere da qualunque esame in ordine al nesso eziologico fra la
condotta e l’evento dannoso, non potrebbe essere chiamato a rispondere a
titolo di oggettiva responsabilità imprenditoriale, gravante su di esso in
ragione del mero dato dominicale.
Sul punto vale richiamare ancora le puntuali argomentazioni rese dalla già
citata ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 2013, la quale ha
chiarito:
- che sia nelle ipotesi di danno ambientale disciplinate dalle
previsioni della direttiva 2004/35/CE, sia in quelle che restano regolate
dalle sole previsioni del Codice dell’Ambiente, non sono configurabili
ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale nella
determinazione del danno;
- che il sub-sistema normativo di cui al decreto legislativo n. 152
del 2006 reca un preciso criterio di imputazione della responsabilità da
inquinamento (il quale si innesta sulla più volte richiamata necessità del
nesso eziologico), non ammettendo ulteriori, diversi e più sfavorevoli
criteri di imputazione;
- che, in particolare, il vigente quadro normativo nazionale non
ammette un criterio di imputazione basato su di una sorta di responsabilità
di posizione del proprietario incolpevole (secondo un modello che
implicherebbe la responsabilità patrimoniale di quest’ultimo non solo in
assenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ma anche in assenza
dell’elemento oggettivo della mera riferibilità sul piano eziologico).
Non è, inoltre, condivisibile la tesi ministeriale secondo cui il principio
“chi inquina paga” dovrebbe essere inteso nel senso che la locuzione
“chi” vada riferita anche a colui che, con la propria condotta
omissiva o negligente, nulla faccia al fine di ridurre o eliminare
l’inquinamento.
Sul punto l’Adunanza Plenaria ha chiarito che il più volte richiamato
criterio di imputazione induce a riferire correttamente la condotta foriera
di inquinamento (e i conseguenti profili di responsabilità) all’attività di
un operatore economico e non già a quella del proprietario incolpevole che
non abbia adottato misure adeguate a fronte dell’inquinamento “causato”
(secondo una locuzione peraltro impropria) dal terreno di sua proprietà.
Né risulta fondata l’argomentazione secondo cui, laddove non si esigesse dal
proprietario del sito una diligenza particolarmente qualificata in relazione
a possibili e pregressi fenomeni di inquinamento, il modello normativo si
presterebbe ad applicazioni formalistiche e ad escamotages di
carattere elusivo.
Si rinvia, in proposito, agli argomenti ed alle considerazioni svolte
dall’Adunanza Plenaria nell’esame del sistema di responsabilità delineato
dal Codice dell’Ambiente, il quale esclude, come già evidenziato, la
responsabilità del proprietario per tali fattispecie.
Poiché, dunque, gli interventi di messa in sicurezza di emergenza
consistono, a norma dell’art. 2 del DM Ambiente n. 471/1999, nella rimozione
delle fonti inquinanti e l’esecuzione delle opere di ripristino e presidio,
secondo quanto prescritto dall’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, deve essere
posta a carico del soggetto che inquina, i provvedimenti impugnati –nella
parte in cui ingiungono tali adempimenti a Fi.Au. s.p.a.- devono essere
annullati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.09.2019 n. 10757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulle
misure che incombono sul proprietario che non sia responsabile
dell’inquinamento.
Il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento,
“…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure
di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia"”.
Nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. il G.A. ha statuito
che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario
sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente
in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto
causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun
obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245
e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi,
nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel
procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a
seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che,
anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire
il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di
ripristino anche nelle aree limitrofe”.
Il legislatore contempla dunque, a carico del proprietario incolpevole,
l’obbligo di eseguire misure di prevenzione “secondo la procedura di cui
all'articolo 242” (art. 245, comma 2). La disposizione evocata così
recita al comma 1: “Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in
opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà
immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304,
comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di
contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento
della situazione di contaminazione”.
Dunque, le misure di prevenzione si connotano per la loro immediatezza
rispetto alla scoperta dell’evento inquinante. Come ha messo in luce questa
Sezione nella già evocata pronuncia n. 897/2018 <<E’ pur vero che le
medesime sono dovute anche per evitare i “rischi di aggravamento” della
situazione di contaminazione, i quali devono essere tuttavia dimostrati o
quanto meno ipotizzati come verosimili o probabili>>.
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2. Quanto alla parte finale del III e al IV motivo (imposizione di obblighi
incoerenti con la posizione di proprietario incolpevole), nella memoria di
replica Sy. ha chiarito (pagina 1) che la correttezza
dell’individuazione del soggetto responsabile della contaminazione –tenuto
ad eseguire la bonifica– non costituisce l’oggetto delle impugnative (la
questione è stata tra l’altro sottoposta a questo TAR in un separato
contenzioso con la Provincia di Mantova e la Società Ed.).
Posta questa precisazione, sul punto di diritto questa Sezione si riporta
alle riflessioni sviluppate nella propria precedente pronuncia 24/09/2018 n.
897, per cui il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento,
“…. ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure
di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” (TAR Piemonte, sez. I –
12/09/2016 n. 1142, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. VI –
5/10/2016 n. 4119)”.
E’ stato richiamato anche il TAR Palermo, sez. I – 11/05/2018 n. 1061, il
quale nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U. ha statuito
che “…. letta alla stregua del principio giurisprudenziale comunitario
sopra richiamato, il Collegio condivide quanto sostenuto da parte ricorrente
in ordine al fatto che in capo ai soggetti non responsabili del fatto
causativo del potenziale inquinamento non possa essere addebitato alcun
obbligo di intervento al di fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245
e della implementazione di eventuali misure di prevenzione; agli stessi,
nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di intervenire spontaneamente nel
procedimento per evitare di perdere la proprietà/disponibilità dell’area a
seguito dell’esercizio dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che,
anche ove manifestata (per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire
il presupposto per l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di
ripristino anche nelle aree limitrofe”.
2.1 Il legislatore contempla dunque, a carico del proprietario incolpevole,
l’obbligo di eseguire misure di prevenzione “secondo la procedura di cui
all'articolo 242” (art. 245, comma 2). La disposizione evocata così
recita al comma 1: “Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in
opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà
immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304,
comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di
contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento
della situazione di contaminazione”.
2.2 Dunque, le misure di prevenzione si connotano per la loro immediatezza
rispetto alla scoperta dell’evento inquinante. Come ha messo in luce questa
Sezione nella già evocata pronuncia n. 897/2018 <<E’ pur vero che le
medesime sono dovute anche per evitare i “rischi di aggravamento” della
situazione di contaminazione, i quali devono essere tuttavia dimostrati o
quanto meno ipotizzati come verosimili o probabili>>.
Sulla base degli accertamenti ARPA, la nota impugnata individua ulteriori “misure
di prevenzione”, con una qualificazione resa si rivela appropriata sulla
base dell’oggettivo riscontro della presenza del prodotto inquinante. Se
l’astratta classificazione della prescrizione si rivela corretta, permane
l’obbligo giuridico di valutare l’efficacia delle misure, messa in
discussione dalla ricorrente con deduzioni non adeguatamente approfondite
dall’amministrazione (che non le ha contestate, neppure in giudizio)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.09.2019 n. 797 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il
proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non a titolo
di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a
titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione delle
cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla
dall’abusivo abbandono dei rifiuti.
Per accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli organi
preposti al controllo svolgano approfonditi accertamenti in contraddittorio
con i soggetti interessati, di talché, in mancanza, non possono porsi
incombenti a carico dei proprietari delle aree.
Peraltro, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, estesa alle ore
notturne, tale da impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto
riguarda la fattispecie regolata dall’art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006 di
abbandonarvi rifiuti, posto che la richiesta di un impegno di tale entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del
buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
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Sussiste la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento
in contraddittorio della condizione dei luoghi, dovendosi consentire al
soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere
rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il
proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o
colpa- la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, sulla base di elementi precisi e
circostanziati, a verificare l’entità e le modalità concrete con cui gli
sversamenti si sono svolti nel tempo e più in generale lo stato di incuria e
di protratto abbandono dei luoghi.
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... per l'annullamento dell'ordinanza sindacale n. 17 del 26.04.2018,
notificata in data 09.05.2018, ad oggetto la rimozione e smaltimento dei
rifiuti e bonifica del terreno circostante la Masseria del Cardinale–Qualiano
– art. 192 D.lgs. 152 del 03.04.2006;
...
4. Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
5. Deve anzitutto osservarsi che l’ordinanza gravata è riconducibile,
conformemente al contenuto ed al fine cui è diretta, all’ordinario potere
d’intervento attribuito al Sindaco dall’art. 192 del Codice dell’Ambiente,
in caso di accertato abbandono o deposito incontrollato di rifiuti.
5.1 In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del
2006, il proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non
a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto
meno a titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione
delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla
dall’abusivo abbandono dei rifiuti. Per accertare la rimproverabilità della
condotta occorre che gli organi preposti al controllo svolgano approfonditi
accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati, di talché, in
mancanza, non possono porsi incombenti a carico dei proprietari delle aree (ex
multis, C.d.S. sez. V, 17.07.2014, n. 3786; TAR Campania, Napoli, sez.
V, 03.10.2018, n. 5783; TAR Puglia, Bari, sez. I, 24.03.2017, n. 287 e
30.08.2016, n. 1089).
Peraltro, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, estesa alle ore
notturne, tale da impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto
riguarda la fattispecie regolata dall’art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006 di
abbandonarvi rifiuti, posto che la richiesta di un impegno di tale entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del
buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa (cfr., ex
plurimis: C. di Stato, Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, sez. V,
03.03.2014, n. 1294 e 05.08.2008, n. 9795);
5.2 Così qualificata l’ordinanza de qua e individuati i presupposti
per la sua adozione, va rimarcato che, nel caso di specie, la stessa non è
stata preceduta da adeguata istruttoria, di talché non può dirsi accertato
l’elemento soggettivo della responsabilità.
Invero, è mancato lo svolgimento di specifici accertamenti in
contraddittorio con gli interessati da parte dei soggetti preposti al
controllo prima di imporre l’obbligo di rimozione, smaltimento o avvio al
recupero dei rifiuti, che, in subiecta materia, si aggiunge all’onere
di comunicazione di avvio del procedimento, ponendosi quale specifico dovere
dell'Amministrazione e presupposto per l’adozione della relativa ordinanza,
in funzione dell’accertamento dell’elemento psicologico del dolo o
quantomeno della colpa, che, come visto, deve sorreggere la condotta
omissiva secondo l’interpretazione fornita dalla richiamata giurisprudenza.
Sussiste la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento
in contraddittorio della condizione dei luoghi, dovendosi consentire al
soggetto nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere
rivolto –sia esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il
proprietario dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o
colpa- la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, sulla base di elementi precisi e
circostanziati, a verificare l’entità e le modalità concrete con cui gli
sversamenti si sono svolti nel tempo e più in generale lo stato di incuria e
di protratto abbandono dei luoghi.
Del resto, eventuali profili di colpa non possono essere desunti dalle
generiche affermazioni di principio contenute nella motivazione
dell’ordinanza e tali da risultare, addirittura, slegati dagli accertamenti
condotti dagli organi di polizia giudiziaria che, sia pure sotto il profilo
penale, hanno escluso ogni coinvolgimento in ordine al furtivo sversamento.
Peraltro, nemmeno risulta adeguatamente valutata dall’amministrazione la
circostanza che sin dal 2004 è stata apposta dai proprietari dei fondi
un’apposita recinzione con rete metallica lungo il perimetro dell'area de
qua per impedirne l’accesso e che la stessa risulta abusivamente divelta
ad opera di ignoti ed oltrepassata furtivamente, presumibilmente al momento
dello sversamento, come rimarcato dai ricorrenti e anche in assenza di
elementi che possano consentire di ritenere accertato il contrario.
5.3 Da ciò il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai
presupposti per l’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti ai
ricorrenti.
6. In conclusione il ricorso è accolto nei termini di cui in motivazione,
con conseguente annullamento dell’ordinanza sindacale gravata
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 03.09.2019 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’assunzione
volontaria –da parte della
ricorrente– degli obblighi di risanamento ambientale determinerebbe la
conseguente impossibilità, per la stessa, di sottrarsi a tutti i connessi
adempimenti, a prescindere dagli obblighi imposti ex lege, va evidenziato
come la volontà di partecipare fattivamente alla prevenzione dei rischi
provenienti dall’area non possa che trovare applicazione nei ragionevoli
limiti delle attività naturalmente conseguenziali alla manifestazione di
volontà di farsene carico.
Infatti “L'atto volontario di impegno
all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio
patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della
prevedibilità. Il contenuto del giudizio (di prevedibilità) attiene in
questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza probabile
dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante
la comunicazione ex art. 17, comma 13-bis, del Dlgs. n. 22/1997 e 9 del Dm.
471/1999, il proprietario incolpevole si renda disponibile all'esecuzione
di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili,
secondo criteri di normalità.”
---------------
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 240, comma 1, lettera i) e
245, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) il
proprietario o gestore dei terreni, ancorché non responsabile
dell’inquinamento, è tenuto a porre in essere adeguate misure di
prevenzione, ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
Secondo i principi affermatisi in materia fin dall’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato 25.09.2013, n. 21 “dalle disposizioni contenute nel
d.lgs. n. 152/2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono
ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245,
comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui
all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un
evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la
salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che
si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro
prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale
minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul
soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda
spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli
interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente
(art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra
l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il
proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a
seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere
reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)”.
Il proprietario del terreno al quale non sia imputabile la situazione di
contaminazione ha quindi l’obbligo di intervenire direttamente solo nel caso
di minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, ovvero per le
operazioni che devono essere eseguite nell’immediatezza e senza ritardo,
anche a prescindere da ogni accertamento sui ruoli rivestiti e sulle
responsabilità. Diversamente, per le attività successive non sono più
configurabili obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole,
pur restando salva la sua responsabilità patrimoniale nei limiti del valore
venale del bene all'esito degli interventi da compiere, conformemente a
quanto dispone l’articolo 253 del Codice dell’ambiente.
Detto orientamento è stato ritenuto conforme all’ordinamento europeo
dalla Corte di Giustizia secondo cui “la direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale
(…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il
responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le
misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di
tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto
al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi”.
Gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano quindi unicamente sul responsabile dell’inquinamento, secondo il
principio eurounitario “chi inquina paga” di cui all’articolo 191
TFUE, sul quale è fondata la responsabilità ambientale, salva l’ipotesi di
un intervento volontario del proprietario incolpevole ai sensi dell’articolo
9 del D.M. n. 471 del 1999 e dell’articolo 245, comma 2, ultimo periodo, del
T.U. n. 152/2006.
Il Consiglio di Stato ha osservato, conformemente, che “Ai
sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152,
una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito,
gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo
legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo
configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito
inquinato)”.
Rientrano pertanto negli oneri a carico del responsabile incolpevole le
misure di precauzione e non anche le indagini di caratterizzazione,
identificabili ai sensi dell’Allegato 2 del Titolo V della Parte IV del TUA,
con l’insieme delle attività che permettono di ricostruire i fenomeni di
contaminazione a carico delle matrici ambientali, in modo da ottenere
informazioni di base su cui prendere decisioni realizzabili e sostenibili
per la messa in sicurezza e/o bonifica del sito.
Infatti se “vale nel nostro ordinamento il principio “chi inquina
paga”, da intendersi, secondo l’orientamento costante della Corte di
Giustizia, nel senso che colui che deve sostenere le spese (comprese quelle
delle indagini) connesse alla messa in sicurezza e alla rimozione
dell’inquinamento è colui che, con il proprio comportamento, abbia
concretamente partecipato all’inquinamento o omesso di impedire il suo
verificarsi, allora nemmeno il piano di caratterizzazione, che si presuppone
debba essere redatto dal responsabile dell’inquinamento può essere imposto
al curatore fallimentare, al quale non siano imputabili condotte causative
dell’inquinamento”.
---------------
2. Deve essere preliminarmente chiarito, in relazione alle difese
spiegate da Ed. s.p.a., come la tematica della responsabilità di detta
società per la contaminazione dei terreni dell’area di cui è questione esuli
dall’oggetto del presente giudizio, diretto diversamente a censurare alcune
prescrizioni imposte a Ve. dalle resistenti amministrazioni nell’ambito
delle attività di prevenzione e messa in sicurezza del sito, sulla scorta
del solo titolo proprietario e a prescindere all’individuazione
dell’imputabilità dell’inquinamento e delle quali la Società ricorrente
denuncia, conseguentemente, l’illegittimità sotto il profilo del
travisamento dei fatti e dell’irragionevolezza, oltre che della carenza di
istruttoria.
3. Ulteriormente, per quanto riguarda l’argomento illustrato dalla
controinteressata, secondo cui l’assunzione volontaria –da parte della
ricorrente– degli obblighi di risanamento ambientale determinerebbe la
conseguente impossibilità, per la stessa, di sottrarsi a tutti i connessi
adempimenti, a prescindere dagli obblighi imposti ex lege, va evidenziato
come la volontà di partecipare fattivamente alla prevenzione dei rischi
provenienti dall’area non possa che trovare applicazione nei ragionevoli
limiti delle attività naturalmente conseguenziali alla manifestazione di
volontà di farsene carico.
Infatti “L'atto volontario di impegno
all'intervento di messa in sicurezza implica l'assunzione di un sacrificio
patrimoniale, da contenere però nei limiti della normalità, e cioè della
prevedibilità. Il contenuto del giudizio (di prevedibilità) attiene in
questo caso alla misura del proprio intervento come conseguenza probabile
dell'iniziativa assunta. In altri termini non si può ritenere che mediante
la comunicazione ex art. 17, comma 13-bis, del Dlgs. n. 22/1997 e 9 del Dm.
471/1999, il proprietario incolpevole si renda disponibile all'esecuzione
di qualsiasi intervento, ma solo di quelli in quel momento prevedibili,
secondo criteri di normalità.” (TAR Marche, Ancona, Sez. I, 05.08.2009, n. 857; id. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 16.03.2006, n. 291).
4. L’attivazione del procedimento di risanamento da parte del proprietario
del sito non esonera quindi l’amministrazione dall’individuazione del
responsabile della contaminazione.
5. Per quanto riguarda invece gli obblighi di risanamento ambientale imposti
non su base volontaria ma per legge, con il primo motivo la società
ricorrente denuncia l’illegittimità degli atti gravati in quanto
l’integrazione della caratterizzazione ivi richiesta rientra nelle attività
di bonifica e non fa parte delle misure di prevenzione la cui adozione può
essere pretesa dal proprietario incolpevole.
6. Ai sensi del combinato disposto degli articoli 240, comma 1, lettera i) e
245, comma 2, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) il
proprietario o gestore dei terreni, ancorché non responsabile
dell’inquinamento, è tenuto a porre in essere adeguate misure di
prevenzione, ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o
un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al
fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
7. Secondo i principi affermatisi in materia fin dall’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato 25.09.2013, n. 21 “dalle disposizioni contenute nel
d.lgs. n. 152/2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono
ricavarsi le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell’art. 245,
comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui
all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un
evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la
salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che
si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro
prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale
minaccia”;
2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul
soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l’inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda
spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli
interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente
(art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra
l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile
ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il
proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a
seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere
reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)” (Cons.
Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3544; id. ex multis TAR Lombardia,
Brescia Sez. I, 31.07.2018, n. 766).
8. Il proprietario del terreno al quale non sia imputabile la situazione di
contaminazione ha quindi l’obbligo di intervenire direttamente solo nel caso
di minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, ovvero per le
operazioni che devono essere eseguite nell’immediatezza e senza ritardo,
anche a prescindere da ogni accertamento sui ruoli rivestiti e sulle
responsabilità. Diversamente, per le attività successive non sono più
configurabili obblighi di facere in capo al proprietario incolpevole, pur
restando salva la sua responsabilità patrimoniale nei limiti del valore
venale del bene all'esito degli interventi da compiere, conformemente a
quanto dispone l’articolo 253 del Codice dell’ambiente (TAR Lombardia,
Brescia, Sez. I, 13.03.2017, n. 364).
9. Detto orientamento è stato ritenuto conforme all’ordinamento europeo
dalla Corte di Giustizia secondo cui “la direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale
(…) la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il
responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le
misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di
tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto
al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi” (sentenza 04.03.2015 resa nella causa
C-534/13).
10. Gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino
gravano quindi unicamente sul responsabile dell’inquinamento, secondo il
principio eurounitario “chi inquina paga” di cui all’articolo 191
TFUE, sul quale è fondata la responsabilità ambientale, salva l’ipotesi di
un intervento volontario del proprietario incolpevole ai sensi dell’articolo
9 del D.M. n. 471 del 1999 e dell’articolo 245, comma 2, ultimo periodo, del
T.U. n. 152/2006.
11. La V sezione del Consiglio di Stato ha osservato, conformemente, che “Ai
sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152,
una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito,
gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo
legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo
configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito
inquinato)” (Cons. Stato, Sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
12. Rientrano pertanto negli oneri a carico del responsabile incolpevole le
misure di precauzione e non anche le indagini di caratterizzazione,
identificabili ai sensi dell’Allegato 2 del Titolo V della Parte IV del TUA,
con l’insieme delle attività che permettono di ricostruire i fenomeni di
contaminazione a carico delle matrici ambientali, in modo da ottenere
informazioni di base su cui prendere decisioni realizzabili e sostenibili
per la messa in sicurezza e/o bonifica del sito.
13. Infatti se “vale nel nostro ordinamento il principio “chi inquina
paga”, da intendersi, secondo l’orientamento costante della Corte di
Giustizia, nel senso che colui che deve sostenere le spese (comprese quelle
delle indagini) connesse alla messa in sicurezza e alla rimozione
dell’inquinamento è colui che, con il proprio comportamento, abbia
concretamente partecipato all’inquinamento o omesso di impedire il suo
verificarsi, allora nemmeno il piano di caratterizzazione, che si presuppone
debba essere redatto dal responsabile dell’inquinamento può essere imposto
al curatore fallimentare, al quale non siano imputabili condotte causative
dell’inquinamento” (Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 09.01.2017, n. 38)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 03.09.2019 n. 794 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
agosto 2019 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA: La
pubblica amministrazione non può imporre al proprietario di un'area
contaminata, che non sia (anche) l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di
attuare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica di cui
all'art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. 03.04.2006, n. 152, in quanto gli
effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto
espressamente previsto dall'art. 253 del medesimo decreto in tema di oneri
reali e privilegio speciale immobiliare.
Invero, “Da una piana lettura degli articoli 240, lettere i), m) ed n), 242
e 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, alla luce del principio “chi inquina
paga” espresso dall’art. 191, par. 2, del TFUE e ribadito dall’art. 239,
comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 152/2006, emerge infatti che il solo
soggetto responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi del citato 242,
ad eseguire (oltre alle misure di prevenzione, la cui definizione è
contenuta nella lettera i) del citato articolo 240) anche le misure di messa
in sicurezza di emergenza e le opere di bonifica. Il proprietario dell’area
che non sia responsabile dell’inquinamento deve invece provvedere, ai sensi
del menzionato comma 2 dell’art. 245, a dare comunicazione dell’inquinamento
alla Regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competente,
nonché ad attuare unicamente le “misure di prevenzione”, con esclusione
delle più gravose misure costituite dalla messa in sicurezza d’emergenza e
dalla bonifica (il cui obbligo di attuazione grava, in entrambi i casi,
solamente sul soggetto responsabile dell’inquinamento)”.
Altresì, nell’esaminare la portata dell’art. 245, comma 2, del T.U., la
giurisprudenza ha statuito che “…. letta alla stregua del principio
giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio condivide quanto
sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in capo ai soggetti non
responsabili del fatto causativo del potenziale inquinamento non possa
essere addebitato alcun obbligo di intervento al di fuori dell’invio della
comunicazione ex art. 245 e della implementazione di eventuali misure di
prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una mera facoltà di
intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di perdere la
proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio dell’onere reale
da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata (per l’area in
proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per l’emanazione di
un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche nelle aree
limitrofe”.
INsomma, il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai
sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
---------------
6.1 Ad ogni modo, sul punto di diritto questa Sezione si riporta alle
riflessioni sviluppate nella propria precedente pronuncia 24/09/2018 n. 897,
per cui <<la pubblica amministrazione non può imporre al proprietario di
un'area contaminata, che non sia (anche) l'autore dell'inquinamento,
l'obbligo di attuare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di
bonifica di cui all'art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. 03.04.2006, n.
152, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano
limitati a quanto espressamente previsto dall'art. 253 del medesimo decreto
in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare (cfr. TAR Toscana,
sez. II – 19/06/2018 n. 882 e la giurisprudenza richiamata).
Come evidenziato da TAR Veneto, sez. III – 22/03/2018 n. 333, “Da una piana
lettura degli articoli 240, lettere i), m) ed n), 242 e 245, comma 2, del
D.Lgs. n. 152/2006, alla luce del principio “chi inquina paga” espresso
dall’art. 191, par. 2, del TFUE e ribadito dall’art. 239, comma 1, del
medesimo D.Lgs. n. 152/2006, emerge infatti che il solo soggetto
responsabile dell’inquinamento è tenuto, ai sensi del citato 242, ad
eseguire (oltre alle misure di prevenzione, la cui definizione è contenuta
nella lettera i) del citato articolo 240) anche le misure di messa in
sicurezza di emergenza e le opere di bonifica. Il proprietario dell’area che
non sia responsabile dell’inquinamento deve invece provvedere, ai sensi del
menzionato comma 2 dell’art. 245, a dare comunicazione dell’inquinamento
alla Regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competente,
nonché ad attuare unicamente le “misure di prevenzione”, con esclusione
delle più gravose misure costituite dalla messa in sicurezza d’emergenza e
dalla bonifica (il cui obbligo di attuazione grava, in entrambi i casi,
solamente sul soggetto responsabile dell’inquinamento)”.
Anche il TAR Palermo, sez. I – 11/05/2018 n. 1061, nell’esaminare la portata
dell’art. 245, comma 2, del T.U. ha statuito che “…. letta alla stregua del
principio giurisprudenziale comunitario sopra richiamato, il Collegio
condivide quanto sostenuto da parte ricorrente in ordine al fatto che in
capo ai soggetti non responsabili del fatto causativo del potenziale
inquinamento non possa essere addebitato alcun obbligo di intervento al di
fuori dell’invio della comunicazione ex art. 245 e della implementazione di
eventuali misure di prevenzione; agli stessi, nondimeno, è riconosciuta una
mera facoltà di intervenire spontaneamente nel procedimento per evitare di
perdere la proprietà/disponibilità dell’area a seguito dell’esercizio
dell’onere reale da parte della P.a.: facoltà che, anche ove manifestata
(per l’area in proprietà), tuttavia non può costituire il presupposto per
l’emanazione di un obbligo per interventi urgenti e di ripristino anche
nelle aree limitrofe”>>.
Il proprietario che non sia responsabile dell’inquinamento, “…. ai sensi
dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di
prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett. i), ovvero “le iniziative
per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia
imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” (TAR Piemonte, sez. I –
12/09/2016 n. 1142, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. VI –
05/10/2016 n. 4119)”.
6.2 Nello specifico, non risulta che l’amministrazione procedente abbia
effettuato approfondimenti sul tema illustrato (in particolare, sulla
concreta riconduzione degli interventi imposti nell’alveo delle “misure
di prevenzione”), e detta omissione integra un ulteriore deficit
istruttorio nell’ambito del procedimento intrapreso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.08.2019 n. 790 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
ed eventuali responsabilità della curatela fallimentare.
In sede di applicazione
dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una
univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono
dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla
curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore
non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare
ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo
dell'impresa fallita.
Si è pertanto evidenziato, in applicazione di tale orientamento
giurisprudenziale, che "il curatore fallimentare non è correttamente
individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal
momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti
poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie
della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo
stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti
dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale
esercizio provvisorio dell'impresa”.
Ciò in quanto la curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente
comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra
l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur
potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr.
l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante,
né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo
patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento
finalità meramente liquidatorie.
Ed invero, per un verso, la «soluzione
opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga"
scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con
l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la
titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum
rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli
obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che
lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della
procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra
«negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità
dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla
legittimazione passiva dell'ordine di bonifica».
Alla luce di tali principi si è pertanto ritenuto che l’eccezione al difetto
di legittimazione passiva della Curatela potrebbe aversi nell’ipotesi di
autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio
provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall., atteso che solo in tale ipotesi
la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa
fallimentare.
Detti principi sono stati invero sostenuti dalla giurisprudenza di questa
Sezione e sono stati ribaditi anche dalla giurisprudenza recente secondo cui “È illegittima l'ordinanza con
cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in
sicurezza e allo smaltimento dei sali di cianuro presenti presso
l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la
propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di
un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in
punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere
destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze
sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente
comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la
medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non
sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari
comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili
destinati alla bonifica da fattori inquinanti”.
---------------
La giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni che, in caso
di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo
carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione
in pristino.
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente
vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di
cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base
di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o
a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile
(anche) a responsabilità della Curatela ricorrente una presunta culpa in
vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato
provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la
responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode,
sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva
che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ.
il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito
(da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
---------------
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo.
Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
---------------
10. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente richiama un
costante orientamento giurisprudenziale, noto alla Sezione, che peraltro non
appare pertinente rispetto al caso di specie, fondandosi esso sul difetto di
legittimazione passiva della Curatela in relazione alle attività di
inquinamento e di sversamento dei rifiuti ricollegabili all’impresa in
bonis, in quanto verificatesi in data anteriore al fallimento.
10.1. Ed invero, in base a tale giurisprudenza, "in sede di applicazione
dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una
univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono
dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla
curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore
non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare
ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo
dell'impresa fallita” (TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 08.02.2016 n. 1804;
TRGA Trentino Alto Adige, Trento, Sez. Unica, 24.11.2017, n. 309).
Si è pertanto evidenziato, in applicazione di tale orientamento
giurisprudenziale, che "il curatore fallimentare non è correttamente
individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal
momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti
poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie
della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo
stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti
dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale
esercizio provvisorio dell'impresa” (TAR Toscana, Firenze, sez. III,
27.10.2015 n. 1457; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 05.01.2016, n. 1).
Ciò in quanto la curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente
comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra
l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur
potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr.
l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante,
né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo
patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento
finalità meramente liquidatorie.
Ed invero, per un verso, la «soluzione
opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga"
scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con
l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la
titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum
rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli
obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che
lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della
procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra
«negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità
dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla
legittimazione passiva dell'ordine di bonifica» (TAR Puglia, Lecce, sez.
III, 11.05.2017 n. 746).
Alla luce di tali principi si è pertanto ritenuto che l’eccezione al difetto
di legittimazione passiva della Curatela potrebbe aversi nell’ipotesi di
autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio
provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l.fall., atteso che solo in tale ipotesi
la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa
fallimentare (TAR Puglia, Lecce, I, 19.02.2014 n. 504; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 09.01.2017 n. 38).
Detti principi sono stati invero sostenuti dalla giurisprudenza di questa
Sezione (cfr. la sentenza 829/2018 del 08.02.2018) e sono stati ribaditi
anche dalla giurisprudenza recente (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce
Sez. II, 16/04/2019, n. 611 secondo cui “È illegittima l'ordinanza con
cui il Sindaco ordina al curatore fallimentare di procedere alla messa in
sicurezza e allo smaltimento dei sali di cianuro presenti presso
l'insediamento produttivo sul quale l'azienda fallita aveva svolto la
propria attività d'impresa, atteso che fatta salva l'eventualità di
un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare in
punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non può essere
destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze
sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del precedente
comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la
medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del fallito e non
sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare particolari
comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili
destinati alla bonifica da fattori inquinanti”).
10.2. Detto motivo di ricorso peraltro, come innanzi accennato, non è
meritevole di accoglimento, postulando la richiamata giurisprudenza la
circostanza che lo sversamento dei rifiuti si sia verificato in data
anteriore al fallimento –tanto è vero che l’eccezione a tali principi è data
dalla circostanza che vi sia stata autorizzazione da parte del competente
Tribunale fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art. 90
l.fall.– mentre nell’ipotesi di specie dalle stesse deduzioni di parte
ricorrente e dagli atti istruttori richiamati nell’ordinanza gravata risulta
che lo sversamento dei rifiuti, sub specie di discarica abusiva, era
imputabile alla società cui era stato sublocato l’immobile; da ciò si desume
che dopo la dichiarazione di fallimento fosse ancora in essere il contratto
di locazione fra la Curatela del Fallimento -OMISSIS- e la -OMISSIS- , la
quale poi nel settembre del 2012 –ovvero dopo la dichiarazione di
fallimento– provvedeva a sublocare l’immobile di proprietà della ricorrente
alla società -OMISSIS-, che ivi operava l’illecito sversamento dei rifiuti.
11. Per contro fondato è il secondo motivo di ricorso, con cui parte
ricorrente deduce l’insussistenza del presupposto dell’imputabilità dello
sversamento dei rifiuti, dato dalla sussistenza di una corresponsabilità,
quanto meno colposa, e il difetto della relativa istruttoria e motivazione.
11.1 Ciò in considerazione del rilievo che nell’ordinanza gravata, da
qualificarsi, come chiaramente evincibile dall’obbligo imposto, come
ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 192 D.lgs.
152/2006, manca qualsiasi indicazione in ordine alla responsabilità per
colpa della Curatela, in qualità di soggetto proprietario.
11.2. Ed invero la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex
multis, Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso
di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo
carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR
Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR
Umbria 10.03.2000, n. 253).
11.3. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo
attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del
disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente
illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in
mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente,
sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione,
dell'imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.3.2009, n.
1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo
(TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
11.4. Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o
a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile
(anche) a responsabilità della Curatela ricorrente, una presunta culpa in
vigilando di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato
provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la
responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode,
sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva
che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ.
il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito
(da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar
Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016;
945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n.
1068/2016).
11.5. Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons.
Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n.
12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna,
Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V
03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n.
2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
11.6. Da ciò il difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai
presupposti per l’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti alla
Curatela
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 29.08.2019 n. 4423 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
giurisprudenza si è espressa in materia di ordinanze sindacali per
rimozione/smaltimento rifiuti e obblighi di bonifica ravvisando,
essenzialmente, un principio di “non identità” tra gli obblighi dell’impresa
fallita e quelli spettanti (e suscettibili di ordine) alla curatela
fallimentare.
Al riguardo, è stato statuito quanto segue (difetto di legittimazione
passiva, per insussistenza di <obblighi> suscettibili di essere posti a
carico del Fallimento, a danno dei creditori):
* <<La curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinanti, sia in quanto
non sussiste alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti, sia perché la legittimazione passiva della
curatela fallimentare in tema di ordinanze sindacali di bonifica
determinerebbe un sovvertimento del principio " chi inquina paga ",
scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con
l'inquinamento>>;
* <<Non può essere richiesto al curatore un intervento che abbia lo
scopo di bonificare il sito dell'attività produttiva dell'impresa fallita
dopo la cessazione dell'attività di quest'ultima; in merito agli obblighi
dei curatori, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara
responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la
curatela fallimentare non può infatti essere destinataria, a titolo di
responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo
dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo,
per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti; invero, la società dichiarata fallita
conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di
inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda
dello spossessamento e, d'altra parte, il fallimento non acquista la
titolarità dei beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, la quale riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma,
a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli
organi della procedura>>;
* <<Il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia
un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La
società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività
giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio. Solo, ne perde la
facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei
suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento.
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma
ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest'ultima
riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi
della procedura. Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito, in via generale,
non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante
nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri
conferitigli dalla legge. Nei confronti del Fallimento non è pertanto
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare
il meccanismo estensivo, previsto dall'art. 194, comma 4, d.lgs. n. 152 del
2006, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che
l'articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa>>;
*<<È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al curatore
fallimentare di procedere alla messa in sicurezza di sostanze (un
sacco rotto contenente cianuro di sodio e allo smaltimento dei sali di
cianuro) presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda
fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva
l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore
fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non
può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di
ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del
precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non
subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del
fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare
particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli
immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>>;
* <<In tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre dei
beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura.
concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta
necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi
finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da
fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con
conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione
passiva dell'ordine di bonifica>>.
In sostanza non può essere richiesto al Fallimento della società (in persona
del curatore) l’adozione di comportamenti “attivi”, con oneri di intervento,
in concreto, di bonifica del sito ove operava l’attività produttiva
(riferita all’impresa fallita).
La curatela fallimentare non può essere, dunque, destinataria, a titolo di
“responsabilità di posizione”, di provvedimenti diretti al
ripristino/bonifica dei territori, non subentrando essa negli obblighi
correlati all’eventuale responsabilità del fallito .
Posto che il Fallimento non acquista la titolarità dei beni ed il curatore è
solo un Amministratore, con potere di disporne, ma senza la vera e propria
“titolarità” dei relativi diritti. La sua legittimazione straordinaria trae
forza dal “munus publicum”, che caratterizza il ruolo del curatore, quale
organo di una procedura giudiziaria diretta alla tutela dei creditori.
---------------
La giurisprudenza si è espressa in materia (ordinanze sindacali
rimozione/smaltimento rifiuti e obblighi di bonifica), ravvisando,
essenzialmente, un principio di “non identità” tra gli obblighi
dell’impresa fallita e quelli spettanti (e suscettibili di ordine) alla
curatela fallimentare.
Per economia processuale si richiamano le seguenti pronunzie che delineano
tale orientamento (difetto di legittimazione passiva, per insussistenza di <obblighi>
suscettibili di essere posti a carico del Fallimento, a danno dei
creditori):
* <<La curatela fallimentare non può essere destinataria di
ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinanti, sia in quanto
non sussiste alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti, sia perché la legittimazione passiva della
curatela fallimentare in tema di ordinanze sindacali di bonifica
determinerebbe un sovvertimento del principio " chi inquina paga ",
scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con
l'inquinamento>> (TAR Catania, sez. I, 05/09/2018 n. 1764);
* <<Non può essere richiesto al curatore un intervento che abbia
lo scopo di bonificare il sito dell'attività produttiva dell'impresa fallita
dopo la cessazione dell'attività di quest'ultima; in merito agli obblighi
dei curatori, fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara
responsabilità del curatore fallimentare sull'abbandono dei rifiuti, la
curatela fallimentare non può infatti essere destinataria, a titolo di
responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell'ambiente per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo
dell'impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo,
per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti
attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla
bonifica da fattori inquinanti; invero, la società dichiarata fallita
conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di
inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda
dello spossessamento e, d'altra parte, il fallimento non acquista la
titolarità dei beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, la quale riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma,
a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli
organi della procedura>> (TAR Emilia Romagna, sez. II, 03/10/2017 n.
644);
* <<Il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”,
ossia un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La
società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività
giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio. Solo, ne perde la
facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei
suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento.
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma
ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest'ultima
riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi
della procedura. Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito, in via generale,
non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante
nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri
conferitigli dalla legge. Nei confronti del Fallimento non è pertanto
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare
il meccanismo estensivo, previsto dall'art. 194, comma 4, d.lgs. n. 152 del
2006, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che
l'articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa>> (TAR Lombardia, Milano, sez. III,
03/03/2017 n. 520);
*<<È illegittima l'ordinanza con cui il Sindaco ordina al
curatore fallimentare di procedere alla messa in sicurezza di sostanze
(un sacco rotto contenente cianuro di sodio e allo smaltimento dei sali di
cianuro) presenti presso l'insediamento produttivo sul quale l'azienda
fallita aveva svolto la propria attività d'impresa, atteso che fatta salva
l'eventualità di un'univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore
fallimentare in punto di abbandono di rifiuti la curatela fallimentare non
può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di
ordinanze sindacali dirette alla tutela dell'ambiente per effetto del
precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non
subentrando la medesima negli obblighi correlati alla responsabilità del
fallito e non sussistendo, in capo al curatore, alcun dovere di adottare
particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli
immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>> (TAR Lombardia,
Milano, sez. III, 03/03/2017 n. 520);
* <<In tema di inquinamento, il potere del curatore di disporre
dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura.
concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta
necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi
finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da
fattori inquinanti e perciò la curatela fallimentare non subentra negli
obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con
conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione
passiva dell'ordine di bonifica>> (Consiglio di Stato, sez. V,
16/06/2009 n. 3885).
In sostanza non può essere richiesto al Fallimento della società (in persona
del curatore) l’adozione di comportamenti “attivi”, con oneri di
intervento, in concreto, di bonifica del sito ove operava l’attività
produttiva (riferita all’impresa fallita).
La curatela fallimentare non può essere, dunque, destinataria, a titolo di “responsabilità
di posizione”, di provvedimenti diretti al ripristino/bonifica dei
territori, non subentrando essa negli obblighi correlati all’eventuale
responsabilità del fallito .
Posto che il Fallimento non acquista la titolarità dei beni ed il curatore è
solo un Amministratore, con potere di disporne, ma senza la vera e propria “titolarità”
dei relativi diritti. La sua legittimazione straordinaria trae forza dal “munus
publicum”, che caratterizza il ruolo del curatore, quale organo di una
procedura giudiziaria diretta alla tutela dei creditori.
In conclusione, per questo primo aspetto (A), il ricorso va accolto per
carenza di legittimazione passiva del Fallimento quale soggetto responsabile
e obbligato “in proprio”, non avendo questo proseguito l’attività e
non avendo assunto alcun ruolo o veste operativa.
Con conseguente impossibile attribuzione di diretta ed autonoma
responsabilità per le azioni che sono state individuate dalla Provincia come
cause dell’inquinamento riscontrato nelle aree indicate sub “b” del
provvedimento (in solido con Sy. e Sa.)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 27.08.2019 n. 722 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla cui base è stata adottata l’ordinanza
in questione, prevede espressamente, al comma 3, che spetti al Sindaco
l'adozione dell'ordinanza con cui dispone le operazioni necessarie alla
rimozione, all'avvio a recupero e allo smaltimento dei rifiuti e al
ripristino dello stato dei luoghi, fissando altresì il termine entro cui
provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno dei soggetti
obbligati e al recupero delle somme anticipate; e la giurisprudenza, anche
del Consiglio di Stato, ha ribadito in diverse pronunce tale indicazione di
competenza.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, il suddetto art. 192, comma 3,
del D.Lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce espressamente al Sindaco la
competenza ad emanare ordinanze in materia di rimozione dei rifiuti, prevale
sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del
2000, in quanto disposizione speciale sopravvenuta.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è stata adottata dal Responsabile
dell'Area Tecnica del Comune invece che dal Sindaco, per cui la stessa è da
ritenersi viziata per incompetenza.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 11 prot. 3459 del 12.6.2013 del
Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo, notificata il
20.06.2013, con cui si è ordinato al Consorzio di Bonifica Veronese -ed in
caso di inottemperanza di quest'ultimo ai proprietari dei terreni- la
rimozione e smaltimento dei rifiuti solidi e dei limi nella fascia di
competenza identificata al foglio 28, mappali 23, 106, 24, 25 del Comune di
Trevenzuolo e il ripristino dello stato dei luoghi entro trenta giorni dal
ricevimento dell'atto, con invio all'Area Tecnica di copia della regolare
documentazione di avvenuto smaltimento nonché degli esiti del campionamento
delle matrici ambientali;
...
Con ordinanza n. 11, prot. n. 3459, del 12.06.2013 (doc. n. 2 in atti primo
deposito ricorrente), il Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di
Trevenzuolo ha ordinato al Consorzio di Bonifica Veronese la rimozione e
smaltimento dei rifiuti solidi e dei limi nella fascia di competenza
identificata al foglio 28, mappali 23, 106, 24, 25 del Comune di Trevenzuolo
e il ripristino dello stato dei luoghi, entro trenta giorni dal ricevimento
dell’atto, con invio all'Area Tecnica di copia della regolare documentazione
di avvenuto smaltimento nonché degli esiti del campionamento delle matrici
ambientali.
Nell’ordinanza si disponeva inoltre che, in caso di inottemperanza da parte
del Consorzio di Bonifica, all'esecuzione del provvedimento avrebbero dovuto
dare corso, nei successivi trenta giorni dalla notifica di apposita
comunicazione del Comune, i proprietari dell’area, e si avvisava che, in
caso di inottemperanza, il Comune avrebbe proceduto all'esecuzione degli
interventi in danno del soggetto obbligato, con recupero delle spese e fatta
salva l'applicazione delle sanzioni conseguenti alla violazione.
L’ordinanza è stata adottata sulla base delle segnalazioni dell’ARPAV che, a
seguito di un sopralluogo eseguito il 07.04.2011 lungo un tratto del fossato
del corso d’acqua Gamandone, in cui erano stati effettuati dei lavori di
escavazione di limo in data 10.03.2011 da parte del Consorzio di Bonifica,
aveva comunicato che nel materiale estratto e depositato lungo l'argine
risultavano presenti rifiuti mescolati al sedimento e concentrazioni di
cobalto e stagno superiori ai limiti di legge (come da analisi effettuate),
che impedivano il riutilizzo in loco del sedimento stesso.
Il superamento dei limiti di concentrazione era stato confermato anche dalle
analisi del 06.02.2013, commissionate dal Comune alla ditta Galileo Servizi.
Il 23.04.2013, si era tenuta, quindi, una riunione di coordinamento promossa
dal Comune di Trevenzuolo (presenti anche i rappresentanti di ARPAV, della
Provincia di Verona Settore Ambiente e del Consorzio di Bonifica), nelle cui
conclusioni si prevedeva che “il Comune di Trevenzuolo e/o il Consorzio,
anche di comune accordo, procederanno alla rimozione ed avvio a
recupero/smaltimento (il Consorzio parteciperà alla sola rimozione) dei
sedimenti e degli altri rifiuti presenti nell'area in questione, depositati
sul suolo e nel suolo, sulla base di un Programma di smaltimento approvato
dal Comune, ai sensi della DGRV 3560/1999” (verbale Conferenza di
servizi trasmesso dalla Provincia di Verona, doc. n. 6 in atti primo
deposito ricorrente), salva l'effettuazione di verifiche di fondo scavo del
canale Gamandone per accertare la potenziale contaminazione della matrice
ambientale, anche in relazione agli scarichi della ditta Anodall, indicata
come possibile responsabile della predetta contaminazione (come riferito nel
verbale della riunione di coordinamento e nella comunicazione 08.05.2013 a
firma del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Trevenzuolo).
Successivamente, il Comune, con una “nota integrativa alla riunione del
23.04.2013” dell'08.05.2013, comunicava al Consorzio e agli altri
partecipanti alla riunione che “il Comune di Trevenzuolo non intende
accollarsi responsabilità imputabili ad altri soggetti e sostenerne le
relative spese. Inoltre, essendo la procedura in ambito art. 192 del D. Lgs.
152/2006, indipendentemente da quanto stabilito in sede di riunione di
coordinamento, rimane di esclusiva competenza comunale…”, e precisava
che “il deposito dei sedimenti scavati dal fosso Gamandone, realizzato
sull'argine del fossato stesso è da considerarsi come deposito/abbandono
incontrollato di rifiuti ai sensi dell'art. 192 del D.Lgs. 152/2006 da parte
del Consorzio di Bonifica Veronese. Pertanto il Comune di Trevenzuolo
provvederà immediatamente a comunicare avvio di procedimento ai sensi art.
7-8-9-10 Legge 241/1990 al Consorzio di Bonifica Veronese ed ai proprietari
dei terreni, che rispondono in solido, affinché provveda entro il termine
indicato ad eseguire quanto indicato in tema di smaltimento e verifiche
analitiche sullo sfondo dello scavo accordate in sede di riunione di
coordinamento…” (doc. n. 12 in atti primo deposito ricorrente).
Il Comune ha, quindi, comunicato l’avviso di avvio del procedimento (nota
del 10.05.2013, prot. n. 2743, doc. n. 3 in atti primo deposito ricorrente)
finalizzato all’adozione dell’ordinanza per abbandono e deposito
incontrollato di rifiuti ex art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006 e ha
adottato l'ordinanza impugnata in questa sede, confermando poi, in riscontro
a quanto comunicato dal Consorzio con nota del 19.06.2013, le proprie prese
di posizione con lettera del 25.06.2013 (doc. n. 13 in atti primo deposito
ricorrente).
Il Consorzio, al solo fine di garantire la tutela dell'ambiente e in
particolare del suolo e del sottosuolo dei terreni in cui sono stati
depositati i materiali prelevati nel fossato Gamandone, tenendo altresì
conto della paventata comminatoria delle sanzioni, anche penali, derivanti
dalla mancata esecuzione dell'ordinanza, e riservandosi ogni iniziativa
volta all'accertamento dell’illegittimità degli atti posti in essere dal
Comune, nonché al recupero delle spese ed al risarcimento dei danni (vedi
nota prot. 12665 del 26.07.2014, doc. 14 in atti primo deposito ricorrente),
ha proceduto alla rimozione e smaltimento del materiale depositato lungo il
fossato, previa approvazione del piano di smaltimento da parte del Comune.
Il Consorzio, con il presente ricorso, impugna l’ordinanza comunale e i
relativi atti presupposti e connessi, lamentandone l’illegittimità per i
seguenti motivi di ricorso: ...
...
Il ricorso è fondato e va accolto con riferimento all’assorbente vizio di
incompetenza dedotto dal ricorrente Consorzio con il primo motivo di
ricorso.
L’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla cui base è stata adottata
l’ordinanza in questione, prevede, infatti, espressamente, al comma 3, che
spetti al Sindaco l'adozione dell'ordinanza con cui dispone le operazioni
necessarie alla rimozione, all'avvio a recupero e allo smaltimento dei
rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi, fissando altresì il termine
entro cui provvedere, decorso il quale si procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati e al recupero delle somme anticipate; e la
giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, ha ribadito in diverse
pronunce tale indicazione di competenza.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, il suddetto art. 192, comma 3,
del D.Lgs. n. 152 del 2006, che attribuisce espressamente al Sindaco la
competenza ad emanare ordinanze in materia di rimozione dei rifiuti, prevale
sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del
2000, in quanto disposizione speciale sopravvenuta (Cons. Stato, sez. V, n.
1684 del 2019; id., n. 4230 del 2017; id., n. 58 del 2016; id., n. 4635 del
2012; id., n. 3765 del 2009; TAR Campania Napoli, n. 1409 del 2018 e n. 3533
del 2017; TAR Puglia Bari n. 1232 del 2018; TAR Lombardia Brescia, n. 18 del
2019; Tar Veneto, n. 313 del 2019; TAR Campania, Salerno, n. 1644 del 2012;
TAR Emilia Romagna, Bologna, n. 61 del 2011).
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata è stata adottata dal Responsabile
dell'Area Tecnica del Comune invece che dal Sindaco, per cui la stessa è da
ritenersi viziata per incompetenza, con conseguente accoglimento del
primo motivo di ricorso ed assorbimento delle restanti censure, in
coerenza con le statuizioni di cui a Cons. Stato Ad. Plen. n. 5/2015 (in
particolare par. 8.3.1), considerato che il giudice amministrativo non può
esprimersi su poteri amministrativi non ancora esercitati dall’organo
competente.
L'accoglimento della domanda di annullamento per vizio di incompetenza, con
il conseguente necessario riesercizio del potere, esclude allo stato la
sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno (cfr., da ultimo,
Cons. Stato, n. 6320 del 2108, secondo cui l'annullamento del provvedimento
per vizi formali “…in quanto non contiene alcun accertamento in ordine
alla spettanza del bene della vita coinvolto nel provvedimento impugnato,
non consente di accogliere la domanda finalizzata al perseguimento della
pretesa sostanziale (come il risarcimento del danno)…omissis…prima del
riesercizio dell'azione amministrativa, è impossibile enucleare la
configurabilità di un collegamento causale tra il danno lamentato ed il
comportamento procedimentale dell'Amministrazione”; Cons. Stato n. 318
del 2014; vedi anche, tra le altre, Tar Catania, n. 966 del 2019)
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 26.08.2019 n. 943 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'ordinanza
sindacale di rimozione rifiuti abbandonati.
Per la costante giurisprudenza in materia vi è la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
Ciò posto irrilevante si palesa la circostanza che alla ricorrente, prima
dell’adozione dell’ordinanza sindacale sia stata inviata in precedenza la
diffida del pari oggetto di gravame, in primo luogo in quanto dal contenuto
della stessa non si poteva desumere la sua natura di atto endoprocedimentale,
volto a favorire in primo luogo la partecipazione procedimentale -non
essendovi tra l’altro nella stessa alcun riferimento alla possibilità di
presentare memorie e o documenti ex art. 10 l. 241/1990- ed in secondo luogo
in quanto, come detto, nella specifica materia ambientale non è sufficiente
la mera comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, ma è
necessario quel quid pluris dato dagli accertamenti in
contraddittorio, per cui deve essere data la possibilità alla parte
destinataria dell’ordinanza di partecipare all’istruttoria procedimentale ed
in particolare ai sopralluoghi.
---------------
In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario
non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o
deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per
cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di
rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente
vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di
cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base
di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità
soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
---------------
Il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare
al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte,
per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la
fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora
art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta
di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni
della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della
nozione di colpa.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, è
inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che,
però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il
quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
Ciò senza mancare di rilevare che in base ad un condivisibile orientamento
giurisprudenziale l'obbligo di diligenza va valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va
esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile
evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente
sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione
è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di
per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la
recinzione una facoltà e non un obbligo.
Come osservato dalla giurisprudenza “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa
anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato. Insomma è ben diverso il mantenere
in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal
rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi
da terzi ignoti”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo.
---------------
11. Ciò posto, qualificata l’ordinanza de qua come ordinanza di rimozione
dei rifiuti adottata dal Sindaco nell’esercizio degli ordinari poteri di cui
all’art. 192 del T.U.A., il ricorso deve essere accolto per l’assorbente
profilo della fondatezza del primo motivo di ricorso, nella parte in cui si
lamenta l’assenza del necessario contraddittorio procedimentale, da
estendersi anche alla fase degli accertamenti istruttori –accertamento tanto
più necessario nell’ipotesi di specie avendo la ricorrente contestato anche
la circostanza che i rifiuti rinvenuti insistessero nella sua proprietà–
nonché nella parte riferita all’assenza di motivazione e di istruttoria in
ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo e/o della colpa.
11.1. Per la costante giurisprudenza in materia vi è infatti la necessità
dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i
soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons.
Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n.
12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna,
Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del
procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006,
nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere
effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente
osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V
03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n.
2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia
ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione
che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al soggetto
nei cui confronti l’ordine di rimozione dei rifiuti deve essere rivolto –sia
esso il soggetto ritenuto responsabile dell’abbandono ovvero il proprietario
dell’area cui l’abbandono sia imputabile a titolo di dolo o colpa- sia data
la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata
situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei
luoghi.
Ciò posto irrilevante si palesa la circostanza che alla ricorrente, prima
dell’adozione dell’ordinanza sindacale sia stata inviata in precedenza la
diffida del pari oggetto di gravame, in primo luogo in quanto dal contenuto
della stessa non si poteva desumere la sua natura di atto endoprocedimentale,
volto a favorire in primo luogo la partecipazione procedimentale -non
essendovi tra l’altro nella stessa alcun riferimento alla possibilità di
presentare memorie e o documenti ex art. 10 l. 241/1990- ed in secondo luogo
in quanto, come detto, nella specifica materia ambientale non è sufficiente
la mera comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 l. 241/1990, ma è
necessario quel quid pluris dato dagli accertamenti in
contraddittorio, per cui deve essere data la possibilità alla parte
destinataria dell’ordinanza di partecipare all’istruttoria procedimentale ed
in particolare ai sopralluoghi.
11.2. Parimenti illegittima deve ritenersi l’ordinanza sotto il profilo
della mancanza di adeguata istruttoria e motivazione in ordine
all’imputabilità soggettiva dello sversamento dei rifiuti a parte
ricorrente.
Infatti la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (ex multis,
Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso di
rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo
carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso
soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR
Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché già l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di
abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere
dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a
recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di
dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR
Umbria 10.03.2000, n. 253).
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente
vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di
cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base
di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità
soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.03.2009, n. 1612,
25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva,
nel senso che -ai sensi dell'art. 192- per essere ritenuti responsabili
della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento,
occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo
o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale
responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato
l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo
(TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a
verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile
(anche) a responsabilità della ricorrente, una presunta culpa in vigilando
di quest'ultima (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non
sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo
sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno
e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda
la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997
(ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La
richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli
ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è
alla base della nozione di colpa, (Cfr., ex plurimis: C. di S., Sez.
V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Sez. V, 05.08.2008, n. 9795; TAR
Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.).
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato
l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva
immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a
carico della ricorrente, per la mera qualità di proprietaria/custode, è
inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che,
però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ. il
quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della
colpa esclusiva del danneggiato).
Ciò senza mancare di rilevare che in base ad un condivisibile orientamento
giurisprudenziale (tra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015, n.
4504, TAR Bari-Puglia, sez. I, 24.03.2017, n. 287; da ultimo Consiglio di
Stato, sez. IV 15/12/2017 n. 05911) l'obbligo di diligenza va valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va
esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile
evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente
sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto
contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione
è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di
per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la
recinzione una facoltà e non un obbligo.
Come osservato dalla giurisprudenza (TAR Bari, sez. I, 24/03/2017, n. 287
cit.) “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa
anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di
pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere
gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti (Cons. Stato n. 705/2016)”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192
D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle
aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
richiede la sussistenza dell’elemento psicologico, da indicarsi puntualmente
in motivazione;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva,
in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti
preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar
Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016;
945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n.
1068/2016).
12. Il ricorso va pertanto accolto, con conseguente annullamento degli atti
impugnati, stante l’assorbenza del primo motivo di ricorso, comportante
l’illegittimità in toto dell’ordinanza sindacale, rispetto al quarto motivo
di ricorso, che, in quanto volto a contestare solo la brevità del termine
assegnato per provvedere alla rimozione dei rifiuti, non può che intendersi
formulato in via sussidiaria
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 21.08.2019 n. 4377 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di responsabilità ambientale connessa all’obbligo di bonifica è
principio ormai largamente consolidato quello chiaramente espresso dagli
artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “l’obbligo di bonifica è
in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative
hanno l’onere di individuare e ricercare”; tale principio è stato
costantemente ribadito dal Giudice Amministrativo.
Anche la giurisprudenza comunitaria si è costantemente orientata nei termini
che precedono, ritenendo che l’addebito dei costi dello smaltimento dei
rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti risulta essere incompatibile
con il principio “chi inquina paga”.
---------------
In tale quadro non sono solo i soggetti privati a venire gravati di precisi
obblighi di intervento; esistono infatti chiari doveri della Pubblica
Amministrazione posti a garanzia del funzionamento del sistema di tutela
ambientale delineato dal legislatore, il cui rispetto è una precondizione
dello stesso.
Come noto, già l’art. 17 del D.Lgs. 22/1997 e l’art. 8 del D.M. 25/10/1999
n. 471 prevedevano che i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio
delle proprie funzioni istituzionali avessero individuato siti nei quali i
livelli di inquinamento fossero risultati superiori ai limiti normativamente
previsti, ne dovessero dare comunicazione al Comune, che doveva diffidare il
responsabile dell’inquinamento a provvedere agli interventi di bonifica,
nonché alla Provincia ed alla Regione.
La normativa vigente, a sua volta, impone all’Amministrazione il preciso
obbligo giuridico di individuazione del soggetto responsabile
dell’inquinamento rilevato e l’emanazione del conseguente provvedimento di
diffida.
Tuttavia, in mancanza della individuazione di un soggetto a ciò obbligato,
l’obbligo di procedere, ai sensi dell’art. 250 del D.Lgs. n. 152/2006, grava
“de residuo” sul Comune, in quanto territorialmente competente sul luogo del
rinvenimento medesimo.
---------------
Il provvedimento adottato dal Comune, ove qualificato come ordine di
bonifica del sito inquinato ex art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006, risulta
essere stato palesemente emanato da autorità amministrativa priva della
relativa competenza.
Come è noto, tale provvedimento è invero di competenza della Provincia e non
del Comune, come testualmente disposto dall'art. 250 del D.Lgs. 152/2006, in
base al quale “le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle proprie
funzioni (...) accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai
valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione
alla regione, alla provincia e al comune competenti. La provincia, ricevuta
la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini
volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito
il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere (...)” (cfr. commi 1 e 2).
Non solo, l'ordine comunale di bonifica risulta del tutto privo di
un’adeguata istruttoria finalizzata alla individuazione del responsabile
dell’inquinamento, in tal modo ponendosi anche sul piano della sua
formazione procedimentale in violazione del già citato principio comunitario
secondo il quale “chi inquina paga”.
---------------
In materia di responsabilità ambientale connessa all’obbligo di bonifica è
principio ormai largamente consolidato quello chiaramente espresso dagli
artt. 242 e 244 del D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “l’obbligo di bonifica
è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative
hanno l’onere di individuare e ricercare”; tale principio è stato
costantemente ribadito dal Giudice Amministrativo (cfr. fra le tante, Cons.
Stato, Sez. VI, 09/01/2013, n. 56).
Anche la giurisprudenza comunitaria si è costantemente orientata nei termini
che precedono, ritenendo che l’addebito dei costi dello smaltimento dei
rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti risulta essere incompatibile
con il principio “chi inquina paga” (cfr. fra le tante, Corte di
Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188).
In tale quadro non sono solo i soggetti privati a venire gravati di precisi
obblighi di intervento; esistono infatti chiari doveri della Pubblica
Amministrazione posti a garanzia del funzionamento del sistema di tutela
ambientale delineato dal legislatore, il cui rispetto è una precondizione
dello stesso.
Come noto, già l’art. 17 del D.Lgs. 22/1997 e l’art. 8 del D.M. 25/10/1999
n. 471 prevedevano che i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio
delle proprie funzioni istituzionali avessero individuato siti nei quali i
livelli di inquinamento fossero risultati superiori ai limiti normativamente
previsti, ne dovessero dare comunicazione al Comune, che doveva diffidare il
responsabile dell’inquinamento a provvedere agli interventi di bonifica,
nonché alla Provincia ed alla Regione.
La normativa vigente, a sua volta, impone all’Amministrazione il preciso
obbligo giuridico di individuazione del soggetto responsabile
dell’inquinamento rilevato e l’emanazione del conseguente provvedimento di
diffida.
È bene sottolineare, nel caso di specie, come tale obbligo non sia venuto
meno per il solo fatto che Ac.Pu. S.p.A. abbia deciso di attivare
volontariamente la procedura di bonifica (per non perdere il finanziamento
concesso) prevista dall’art. 242 e seguenti del D.Lgs. n. 152/2006, come la
normativa consente di fare al proprietario incolpevole, o ad altro soggetto
interessato, a fronte della necessità di liberare il sito dagli oneri reali
e dalle connesse limitazioni d’uso che gravavano sullo stesso a causa della
presenza di inquinamento.
È infatti opportuno ricordare che tali soggetti hanno la facoltà, ma non
l’obbligo di procedere alla bonifica.
Ebbene, è chiaro che in questo caso, in mancanza della individuazione di un
soggetto a ciò obbligato, l’obbligo di procedere, ai sensi dell’art. 250 del
D.Lgs. n. 152/2006, gravava “de residuo” sul Comune di Rodi Garganico,
in quanto territorialmente competente sul luogo del rinvenimento medesimo.
Peraltro, il provvedimento adottato dal Comune di Rodi Garganico, ove
qualificato come ordine di bonifica del sito inquinato ex art. 244 del D.Lgs.
n. 152/2006, risulta essere stato palesemente emanato da autorità
amministrativa priva della relativa competenza.
Come è noto, tale provvedimento è invero di competenza della Provincia e non
del Comune, come testualmente disposto dall'art. 250 del D.Lgs. 152/2006, in
base al quale “le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle
proprie funzioni (...) accertino che i livelli di contaminazione sono
superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno
comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti. La
provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le
opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di
superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il
responsabile della potenziale contaminazione a provvedere (...)” (cfr.
commi 1 e 2).
Anche al netto di tale evidente vizio di incompetenza nell’adozione del
provvedimento oggetto di doglianza, esso risulta altresì del tutto privo di
un’adeguata istruttoria finalizzata alla individuazione del responsabile
dell’inquinamento, in tal modo ponendosi anche sul piano della sua
formazione procedimentale in violazione del già citato principio comunitario
secondo il quale “chi inquina paga”.
Per le ragioni innanzi esposte, assorbita ogni altra censura, il ricorso è
fondato e deve essere accolto
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 19.08.2019 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
luglio 2019 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Abbandono e responsabilità.
Mentre il comando di cui all'art. 14, comma 3
(ora art. 192, comma 3 d.lgs. 152/2006) è rivolto ai
responsabili dell'abbandono di rifiuti e ai proprietari del
terreno inquinato, il precetto dell'art. 50, comma 2 (ora
art. 255, comma 3, d.lgs. 152/2006) è rivolto ai destinatari
formali dell'ordinanza sindacale; di modo che spetta a
costoro, per evitare di rendersi responsabili
dell'inottemperanza, di ottenere l'annullamento
dell'ordinanza sindacale per via amministrativa o per via
giurisdizionale, o -al limite- di provare in sede penale di
non essere proprietari del terreno né responsabili
dell'abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la
disapplicazione dell'ordinanza per illegittimità (cioè per
mancanza dei presupposti soggettivi).
---------------
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, nel considerare i rapporti tra la
disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme
specifiche, la legge n. 257 del 1992
riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego
dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la
realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica
delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, e
contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi
sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua
destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto
nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, e
che in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257
medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di
Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della
medesima città con la quale Ge.Ez.Gi. era stato condannato,
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche
in misura equivalente alla recidiva, alla pena di mesi
quattro di arresto, in ordine al reato di cui all'art. 255,
comma 3, del d.lvo n. 152 del 2006 (diversamente qualificata
l'originaria imputazione di cui all'art. 452-terdecies cod.
pen.), per avere, quale legale rappresentante della
Im.No.Br. srl, non ottemperato all'ordinanza sindacale e
relativa diffida, emanata dal Sindaco di Milano, ai sensi
dell'art. 192, comma 3, del medesimo decreto, con la quale
si intimava di rimuovere la copertura di amianto su un
immobile di proprietà della medesima società. In Milano dal
20/05/2015 e tutt'ora permanente.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, a
mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto
l'annullamento deducendo due motivi di ricorso.
- Violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in
relazione all'erronea applicazione degli artt. 192 e 255,
comma 3, del d.lvo n. 152 del 2006.
La corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto
integrata la fattispecie penale sul mero dato
dell'inottemperanza dell'ordinanza emessa ex art. 192 cit.,
senza verificare la legittimità di questa e senza verificare
che l'omissione riguardasse un rifiuto ai sensi dell'art.
183 del medesimo decreto, e senza verificare la ricorrenza
di una condotta di abbandono o deposito.
Non avrebbe poi considerato che il pignoramento immobiliare
e la crisi economica in cui versava l'imputato gli avrebbero
impedito qualunque intervento e dunque l'osservanza
dell'ordinanza sindacale. Nel caso de quo non si
potrebbe ravvisare il reato in assenza di abbandono del
rifiuto, poiché si trattava di un tetto contenente amianto
diventato potenzialmente pericoloso che non è stato dismesso
per le ragioni evidenziate, sicché mancherebbe la volontà
dismissiva di abbandono.
- Vizio di motivazione in relazione alla manifesta illogicità e
contraddittorietà e travisamento dell'esame dell'imputato
con riguardo all'impossibilità di adempiere in ragione del
pignoramento immobiliare e della crisi economica,
circostanze che, ciascuna di esse, escludevano la volontà di
non adempiere per oggettiva impossibilità.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto
l'annullamento con rinvio della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di cui
in motivazione.
5. Secondo quanto risulta dalle conformi sentenze di merito,
insindacabile in questa sede in presenza di congrua
motivazione, era stata accertata l'omessa rimozione della
copertura in amianto di un tetto di un immobile di proprietà
della società di cui il Ge. è il legale rappresentante, a
seguito di diffida del Sindaco del comune di Milano in data
16/10/2013, e successiva ordinanza, emessa il 02/07/2014
(notificata al Ge. il 07/07/2014), ex art. 50 TU Enti
Locali, rimasta ineseguita alla data dell'accertamento il
29/05/2015.
Sulla scorta di tali elementi di fatto, i giudici del
merito, diversamente qualificata l'originaria imputazione di
violazione dell'art. 452- terdecies cod. pen., hanno
condannato il Ge. per la contravvenzione di cui all'art.
255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, per l'inottemperanza
all'ordinanza di rimozione dei rifiuti emessa ai sensi
dell'art. 192, comma 3, del medesimo decreto.
6. Occorre muovere dall'esegesi dalle norme giuridiche che
regolano la materia e segnatamente dall'art. 255, comma 3,
del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 192, comma 1 e 3, del
medesimo decreto.
Gli elementi essenziali della fattispecie penale di cui
all'art. 255, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, che
punisce "chiunque non ottempera all'ordinanza del
Sindaco, di cui all' articolo 192, comma 3, o non adempie
all'obbligo di cui all'articolo 187, comma 3, è punito con
la pena dell'arresto fino ad un anno", sono l'esistenza
di un'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, emessa
ex art. 192 cit., e la condotta di inottemperanza da parte
dei destinatari dell'ordinanza stessa.
Come chiarito dalle sentenze di Questa Terza Sezione della
Corte di cassazione Grispo e Viti,
trattasi -nonostante
l'apparenza contraria indotta dal riferimento lessicale a "chiunque"-
di un reato proprio, che può essere commesso solo dai
destinatari formali dell'ordinanza (Sez. 3, n. 24724 del
15/05/2007, Grispo, Rv. 236954 - 01; Sez. 3, n. 31003 del
10/07/2002, P.M. in proc. Viti M ed altro, Rv. 222421).
In particolare, la pronuncia Grispo mette in luce i diversi
destinatari dei diversi obblighi, inizialmente dettati dagli
artt. 14 e 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. Decreto
Ronchi), la cui disciplina è stata poi trasfusa nell'attuale
d.lgs. n. 152 del 2006 che regola il settore.
L'art. 14 del Decreto Ronchi individuava il soggetto
obbligato alla rimozione ed al ripristino nella persona che
ha violato il divieto di abbandono, al quale è affiancato in
solido il proprietario del sito (o il titolare di diritti di
godimento sulla area) solo se la violazione gli sia
imputabile "a titolo di dolo o di colpa".
Accanto al generale divieto di abbandono dei rifiuti e al
correlato obbligo di rimozione in capo a colui che ha
proceduto all'abbandono (ed alla posizione del proprietario
"incolpevole"), si colloca l'ordinanza sindacale di
rimozione, smaltimento e ripristino dei luoghi, prevista
dall'art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997, ora D.Lgs.
n. 152 del 2006, art. 192, comma 3. In tale ambito si era,
in particolare chiarito, che l'ordinanza emessa ex art. 14,
comma 3, ora art. 192, comma 3 cit., può essere emanata solo
nei confronti dei soggetti che hanno abbandonato i rifiuti.
Sempre la pronuncia Grispo si riallaccia e ripete i principi
fissati dalla precedente sentenza (Sez. 3, n. 31003 del
10/07/2002, P.M. in proc. Viti ed altro, Rv. 222421), che
evidenziava come,
mentre il comando di cui all'art. 14,
comma 3, è rivolto ai responsabili dell'abbandono di rifiuti
e ai proprietari del terreno inquinato, il precetto
dell'art. 50, comma 2, è rivolto ai destinatari formali
dell'ordinanza sindacale; di modo che spetta a costoro, per
evitare di rendersi responsabili dell'inottemperanza, di
ottenere l'annullamento dell'ordinanza sindacale per via
amministrativa o per via giurisdizionale, o -al limite- di
provare in sede penale di non essere proprietari del terreno
né responsabili dell'abbandono, al fine di ottenere dal
giudice penale la disapplicazione dell'ordinanza per
illegittimità (cioè per mancanza dei presupposti
soggettivi).
Mentre onere dell'organo dell'accusa è solo
quello di provare gli elementi essenziali del reato previsto
dall'art. 50, comma 2, D.Lgs. 22/1997, oggi dall'art. 255,
comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, ossia, da una parte,
l'esistenza dell'ordinanza sindacale, emessa ai sensi
dell'art. 192 cit., assistita da presunzione di legittimità
e, dall'altra, l'inottemperanza da parte dei suoi
destinatari.
7. Ora, quanto al caso in scrutinio, la corte territoriale
non ha adeguatamente chiarito se si trattava di un'ipotesi
di abbandono costituente presupposto per l'adozione
dell'ordinanza ex art. 193, comma 3, del d.lgs. n. 152 del
2006, ovvero di inottemperanza al dictum di un
provvedimento amministrativo, legalmente dato ai sensi
dell'art. 50, comma 5, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, da cui
la rilevanza della questione di diritto posta dal
ricorrente, di configurazione della violazione dell'art. 650
cod. pen. E ciò in quanto solo l'inottemperanza
all'ordinanza sindacale emessa ai sensi dell'art. 193, comma
3, cit., è assistita dalla sanzione penale ex art. 255,
comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006.
In tale ambito, incidentalmente rileva, il Collegio, che
la giurisprudenza di legittimità ha, ancora di
recente, chiarito che, nel considerare i rapporti tra la
disciplina generale dei rifiuti e quella contenuta in norme
specifiche, ha affermato che la legge n. 257 del 1992
riguarda, in via principale, la cessazione dell'impiego
dell'amianto e si occupa dei rifiuti di amianto per la
realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica
delle aree interessate dall'inquinamento di amianto, e
contempla fra i "rifiuti di amianto" qualsiasi
sostanza o qualsiasi oggetto che abbia perso la sua
destinazione d'uso e che possa disperdere fibre di amianto
nell'ambiente in determinate concentrazioni applicabili, e
che in tali casi si deve avere riguardo alla legge n. 257
medesima e non alla disciplina generale dei rifiuti
(Sez. 3, n. 31398 del 10/07/2018; Sez. 3, n. 31011 del
18/06/2002, Zatti, Rv. 222390, non massimata sul punto).
8. In accoglimento del primo motivo di ricorso, la
sentenza va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra
Sezione della Corte d'appello di Milano. Resta assorbito il
secondo motivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31310). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Trasporto dei rifiuti – Abbandono dei rifiuti –
Obbligo di rimozione – Ordinanza sindacale di rimozione,
smaltimento e ripristino dei luoghi – Carenza dei
presupposti soggettivi – Proprietario “incolpevole” –
Disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo – Artt.
192, 193, 255, D.L.vo n. 152/2006 – Giurisprudenza.
In materia di di abbandono dei rifiuti e
al correlato obbligo di rimozione e ripristino dei luoghi,
la sanzione penale di cui all’art. 255, comma 3, D.Lvo n.
152/2006, è rivolta propriamente ai destinatari formali
dell’ordinanza sindacale, mentre i precetti di cui agli artt.
192 e 193, sono rivolti ai responsabili dell’abbandono di
rifiuti e ai proprietari del terreno inquinato.
In ogni caso, spetta a costoro, per evitare di rendersi
responsabili dell’inottemperanza, di ottenere l’annullamento
dell’ordinanza sindacale per via amministrativa o per via
giurisdizionale, o –al limite– di provare in sede penale di
non essere proprietari del terreno ne’ responsabili
dell’abbandono, al fine di ottenere dal giudice penale la
disapplicazione dell’ordinanza per illegittimità (cioè per
mancanza dei presupposti soggettivi).
Nella fattispecie, l’imputato, aveva provato l’assenza di
sua responsabilità nell’abbandono, al fine di ottenere la
disapplicazione della ordinanza illegittima (per carenza dei
presupposti soggettivi), e richiedeva la disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo e conseguente
assoluzione per insussistenza del fatto
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2019 n. 31291
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Come
è noto, il provvedimento amministravo in sede giurisdizionale va
interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al
suo specifico contenuto, risalendo al potere concretamente esercitato
dall'amministrazione e prescindendo dal nomen iuris che gli è stato
assegnato.
---------------
Nel caso all’esame, l’espresso riferimento all’art. 192 del Dlgs.
03.04.2006, n. 152 quale unica fonte normativa del potere esercitato e, nel
dispositivo del provvedimento, l’avvertimento che in caso di inottemperanza
si sarebbe proceduto come previsto dal comma 3 del medesimo articolo con
riserva di trattenere gli importi per i costi sostenuti dal Comune mediante
compensazione sulle somme in liquidazione dovute per le attività relative ai
contratti in servizio in essere, con chiaro riferimento alla possibilità di
esecuzione in danno del soggetto obbligato ed al recupero delle somme
anticipate dal Comune in caso di inadempimento, conducono in modo univoco a
qualificare il provvedimento impugnato come un vero e proprio ordine di
rimozione rifiuti e non come una mera diffida.
---------------
Il ricorso deve essere accolto perché il provvedimento è stato adottato dal
dirigente anziché dal Sindaco nonostante l’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006, n.
152, attribuisca espressamente a quest’ultimo l’emanazione delle ordinanze
di rimozione rifiuti con norma di carattere speciale e successiva, in quanto
tale prevalente sulla norma generale di cui all’art. 107, comma 5, del Dlgs.
18.08.2000, n. 267.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Venezia, di data
incerta, con il quale il Comune di Venezia, relativamente all'area
denominata “ex Officina Gas di San Francesco della Vigna Venezia”, ha
diffidato la ricorrente “all'esecuzione delle operazioni di asporto e
smaltimento dei rifiuti abbandonati nell'area ex Officina Gas di San
Francesco della Vigna Venezia” entro 30 giorni dalla notificazione del
provvedimento e con termine massimo per l'esecuzione di 120 giorni;
...
E’ vero infatti che il provvedimento impugnato formalmente si limita a
diffidare la Società ricorrente alla rimozione dei rifiuti.
Tuttavia, come è noto, il provvedimento amministravo in sede giurisdizionale
va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base
al suo specifico contenuto, risalendo al potere concretamente esercitato
dall'amministrazione e prescindendo dal nomen iuris che gli è stato
assegnato (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 24.07.2018,
n. 4522).
Nel caso all’esame l’espresso riferimento all’art. 192 del Dlgs. 03.04.2006,
n. 152 quale unica fonte normativa del potere esercitato e, nel dispositivo
del provvedimento, l’avvertimento che in caso di inottemperanza si sarebbe
proceduto come previsto dal comma 3 del medesimo articolo con riserva di
trattenere gli importi per i costi sostenuti dal Comune mediante
compensazione sulle somme in liquidazione dovute per le attività relative ai
contratti in servizio in essere, con chiaro riferimento alla possibilità di
esecuzione in danno del soggetto obbligato ed al recupero delle somme
anticipate dal Comune in caso di inadempimento, conducono in modo univoco a
qualificare il provvedimento impugnato come un vero e proprio ordine di
rimozione rifiuti e non come una mera diffida.
Ciò premesso, il ricorso deve essere accolto perché il provvedimento è stato
adottato dal dirigente anziché dal Sindaco nonostante l’art. 192 del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, attribuisca espressamente a quest’ultimo l’emanazione
delle ordinanze di rimozione rifiuti con norma di carattere speciale e
successiva, in quanto tale prevalente sulla norma generale di cui all’art.
107, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267 (cfr. ex pluribus Tar
Lombardia, Brescia, Sez. I, 07.01.2019, n. 18; Tar Puglia, Bari, Sez. I,
20.09.2018, n. 1230; Tar Lecce, Sez. II, 26.06.2018, n. 1072; Consiglio di
Stato, Sez. V, 11.01.2016, n. 57).
Il vizio di incompetenza comporta l’assorbimento delle altre censure (cfr.
Tar Campania, Napoli, Sez. V, 30.05.2018, n. 3589; Tar Lombardia, Milano,
Sez. III, 13.04.2018, n. 1011; Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
27.04.2015 n. 5)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.07.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Piano
di caratterizzazione: può essere valutato e autorizzato solo dagli enti
competenti.
L’avvio di un procedimento di bonifica, così come
previsto dall’art. 242 del D.L.vo n. 152/2006, comporta la presentazione di
un piano di caratterizzazione alle autorità competenti. Una diversa
relazione, come ad esempio un "piano di lavoro", non può essere inteso quale
sostitutivo di un piano di caratterizzazione che solo gli enti competenti
possono valutare e autorizzare.
---------------
3. Ciò chiarito, la doglianza difensiva non è fondata.
Il Gip ha affermato che, dalla nota dell'ARPAT del 03.10.2018, era
emerso che -essendo state rilevate macchie blu e verdi sia su alcune balle
che
sul terreno con conseguente contaminazione del suolo da idrocarburi, che
richiedeva l'avvio di un procedimento di bonifica ex
articolo 242 del TUA
con la
presentazione di un piano di caratterizzazione- l'interessato, siccome era
stato
registrato il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC),
avrebbe dovuto comunicare agli enti competenti entro un mese dalla data di
campionamento il "piano di caratterizzazione" per la sua approvazione, e
successivamente richiedere il dissequestro definitivo allo scopo di mettere
in
opera detto piano, smaltire o eventualmente recuperare i materiali
costituenti le
balle e mandare a ditte autorizzate i rifiuti da costruzione e demolizione
per
essere recuperati.
E' stato pertanto osservato che la relazione presentata dall'indagato (cd.
"piano di lavoro") non poteva essere intesa quale sostitutiva di un piano di
caratterizzazione che, invece, solo gli enti competenti possono valutare e
autorizzare.
La motivazione è corretta.
L'articolo 242, commi 1, 2 e 3, d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, per quanto
qui interessa, che, al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di
contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento deve mettere in opera
entro
ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e deve darne immediata
comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2.
La
medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni
storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della
situazione
di contaminazione.
Inoltre, il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie misure di
prevenzione, deve svolgere, nelle zone interessate dalla contaminazione,
un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove
accerti
che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia
stato
superato, è tenuto al ripristino della zona contaminata, dandone notizia,
con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per
territorio
entro quarantotto ore dalla comunicazione.
Qualora, poi, l'indagine preliminare, di cui al
comma 2 dell'articolo 242,
accerti l'avvenuto superamento, come nella specie, delle CSC anche per un
solo
parametro, il responsabile dell'inquinamento deve darne immediata notizia al
comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle
misure
di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate.
Nei successivi
trenta giorni, deve presentare alle predette amministrazioni, nonché alla
regione
territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di
cui
all'allegato 2 alla parte quarta del decreto n. 152 del 2006. Entro i trenta
giorni
successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il
piano di
caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L'autorizzazione
regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla
caratterizzazione,
sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa,
nulla
osta da parte della pubblica amministrazione.
Va poi ricordato che l'articolo 240 del d.lgs. n. 152 del 2006 contiene,
alla
lettera d), la nozione del sito potenzialmente contaminato, che definisce
come
"un sito nel quale uno o più valori di concentrazione delle sostanze
inquinanti
rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di
concentrazione
soglia di contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di
caratterizzazione e di analisi di rischio sanitario e ambientale sito
specifica, che
ne permettano di determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base
delle
concentrazioni soglia di rischio (CSR)".
Pertanto non ha alcun rilievo l'assunto del ricorrente, del tutto
indimostrato,
secondo il quale non sarebbe stato cagionato alcun danno o pericolo concreto
e
attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche
protette.
Rileva invece che sono stati superati i livelli di contaminazione delle
matrici
ambientali ed il superamento dei valori comporta necessariamente la
caratterizzazione del sito per cui, quando uno o più valori di
concentrazione delle
sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai
valori di
concentrazione soglia di contaminazione (CSC), il piano di caratterizzazione
deve
essere necessariamente conseguito e senza di esso non può definirsi la
procedura di bonifica ex
articolo 242 TUA e neppure la stessa può essere
correttamente avviata; tanto meno sono definibili le modalità e i tempi della rimessione in pristino del sito, risultando di conseguenza impossibile
verificare
una corretta attuazione della bonifica e tutto ciò esclude che possa essere
disposto il dissequestro
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.07.2019 n. 30702). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Il Sindaco può ordinare la rimozione dei rifiuti (il loro recupero o lo
smaltimento) e il ripristino dello stato dei luoghi anche al proprietario
del fondo, sempre che, tuttavia, la violazione del divieto dell’abbandono e
del deposito incontrollato di rifiuti gli sia imputabile a titolo di dolo o
di colpa, adeguatamente accertata in contraddittorio dagli organi di
controllo.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito, in più occasioni, che la
condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all’art. 192,
comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, necessita di un serio accertamento della
sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su
presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata
a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro
contrasto con l’indicazione legislativa.
Si è aggiunto, altresì, che la responsabilità solidale del proprietario può
essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle cautele
e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di
un’efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che
su di essa possano essere depositati rifiuti.
---------------
La questione della competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei rifiuti
abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, comma 3, d.lgs.
03.04.2006, n. 152 è stata già affrontata e risolta nel senso
dell’appartenenza al Sindaco.
E’ stato convincentemente affermato che l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152,
nel prevedere espressamente la competenza del Sindaco, è norma speciale
sopravvenuta rispetto all’art. 107 (Funzioni e responsabilità della
dirigenza), comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) per il quale “A decorrere dalla data di
entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono
agli organi di cui al capo I del titolo III l’adozione di atti di gestione e
di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’articolo
50, comma 3, e dall’articolo 54” e su di essa prevalente.
---------------
4. Il motivo è fondato e va accolto.
4.1. Con l’ordine impugnato il Comune di Binetto ha esercitato il potere
previsto dall’art. 192 (“Divieto di abbandono rifiuti”), comma 3,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”) per il
quale: “Fatta salva l’applicazione della sanzione di cui agli articoli
255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a
procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento
sull’area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa,
in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con
ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti
obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Il Sindaco può ordinare la rimozione dei rifiuti (il loro recupero o lo
smaltimento) e il ripristino dello stato dei luoghi anche al proprietario
del fondo, sempre che, tuttavia, la violazione del divieto dell’abbandono e
del deposito incontrollato di rifiuti gli sia imputabile a titolo di dopo o
di colpa, adeguatamente accertata in contraddittorio dagli organi di
controllo.
4.2. La giurisprudenza amministrativa ha chiarito, in più occasioni, che la
condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all’art. 192,
comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, necessita di un serio accertamento della
sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su
presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata
a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro
contrasto con l’indicazione legislativa (cfr. Cons. Stato, sez. V,
28.05.2019, n. 3518; sez. IV, 07.06.2018, n. 3430; IV, 12.04.2018, n. 2195;
sez IV, 25.07.2017, n. 3672; sez. V, 08.03.2017, n. 1089; sez. IV,
01.04.2016, n. 1301).
4.3. Si è aggiunto, altresì, che la responsabilità solidale del proprietario
può essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle
cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di
un’efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che
su di essa possano essere depositati rifiuti (cfr. Cons. Stato, sez. V,
28.05.2019, n. 3518; sez. III, 01.12.2017, n. 5632).
4.4. Dall’esame del provvedimento impugnato risulta che il Comune di Binetto
non ha svolto attività di accertamento della responsabilità del Gi. per
violazione del divieto di abbandono dei rifiuti sul suolo; nella
motivazione, infatti, si riferisce solo della presenza di rifiuti pericolosi
in due sopralluoghi effettuati a distanza di diversi mesi da soggetti
diversi (il primo dai Rangers d’Italia, il 29.10.2013, e il secondo, dalla
Polizia locale il 07.02.2014) e si afferma il totale abbandono del fondo.
E’ solo nelle memorie depositate nel giudizio di primo grado che il Comune
ha chiarito che l’abbandono dei rifiuti sul suolo era imputabile al Gi. a
titolo di colpa omissiva per non aver prestato la dovuta e necessaria
vigilanza, disinteressandosi completamente di quel che accadeva nel proprio
fondo e così favorendo ed incentivando lo scarico dei rifiuti ad opera di
terzi sulla sua proprietà.
Il giudice di primo grado ha aggiunto, poi, che l’omessa recinzione del
fondo e la mancanza di denunce alle autorità restituivano un quadro –quanto
meno– di colposo abbandono del fondo.
4.5. Ritiene il Collegio che la carente illustrazione, nella motivazione del
provvedimento, di circostanze di fatto presuntive del disinteresse del
proprietario, che avrebbe per questo colposamente lasciato che rifiuti
venissero abbandonati sul suo fondo, non possa essere superata né dalle
argomentazioni difensive spese in giudizio, né tanto meno da un’attività
valutativa effettuata dal giudice.
E’ onere, invece, dell’amministrazione comunale, in primo luogo, richiedere
informazioni al proprietario sulla gestione del fondo (ad es. da quando
tempo non coltivava, da quando non vi si recava, in che modo intendeva
utilizzarlo), così da rendere effettivo quel contraddittorio cui fa
riferimento l’art. 192, comma 3, cit. e, solo completata tale fase di
indagine, valutare se il proprietario si sia realmente disinteressato alle
sorti del fondo, dandone conto del convincimento raggiunto nella motivazione
del provvedimento.
4.6. Non può mancare, inoltre, negli ordini di rimozione dei rifiuti a
carico dei proprietari la contestualizzazione delle misure di diligenza e
cautela richieste alla collocazione del fondo: misure di diligenze e cautele
accresciute –rivolte ad evitare che sul fondo possano essere depositati
rifiuti da terzi– sono tanto più necessarie quanto più è nota la densità
criminale ove il fondo è collocato (per essere, ad esempio, presenti
organizzazioni criminali operanti nel traffico dei rifiuti pericolosi).
Nel contesto di tale accertamento potrà valutarsi l’idoneità del tipo di
recinzione del fondo adottato dal proprietario, che, altrimenti, anche il
muretto a secco, criticato negli scritti difensivi del Comune, ma
caratteristico di talune zone del territorio italiano, è recinzione idonea
allo scopo, suo proprio, di delimitare il confine dei fondi.
4.7. In conclusione, sussiste la violazione dell’art. 192, comma 3, d.lgs.
n. 152 cit. per mancata attivazione del contraddittorio con il proprietario
del fondo, come pure il vizio di omessa motivazione; la sentenza di primo
grado va riformata sul punto. L’accoglimento del primo motivo di appello per
le ragioni poc’anzi espresse consente di assorbire il terzo motivo di
appello con il quale era lamentata l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. 07.08.1990, n. 241.
5. Con il secondo motivo di appello il Gi. contesta la sentenza di
primo grado per “Error in procedendo et in iudicando. Violazione di legge
per falsa applicazione del D.Lgs. 152/2006 art. 192, comma 3, incompetenza
del funzionario”.
Sostiene l’appellante che la competenza ad adottare l’ordine di rimozione
dei rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi appartiene al
Sindaco e non al dirigente comunale; il provvedimento impugnato,
sottoscritto dal “Responsabile del IV settore” del Comune di Binetto
sarebbe, dunque, viziato da incompetenza e la sentenza di primo grado, che
ne ha confermato la legittimità, erronea.
6. Il motivo è fondato e va accolto.
6.1. La questione della competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei
rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, comma
3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 è stata già affrontata e risolta nel senso
dell’appartenenza al Sindaco (da ultimo, in Cons. Stato, sez. V, 14.03.2019,
n. 1684, che ha specificato che l’incompetenza del “Responsabile del
settore” sussiste anche in caso di delega a suo favore adottata dal
dirigente del settore; Cons. Stato, sez. IV, 21.01.2019, n. 509).
6.2. E’ stato convincentemente affermato che l’art. 192, comma 3, d.lgs. n.
152, nel prevedere espressamente la competenza del Sindaco, è norma speciale
sopravvenuta rispetto all’art. 107 (Funzioni e responsabilità della
dirigenza), comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) per il quale “A decorrere dalla data
di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che
conferiscono agli organi di cui al capo I del titolo III l’adozione di atti
di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso
che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto
dall’articolo 50, comma 3, e dall’articolo 54” e su di essa prevalente (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2018, n. 2195; V, 11.01.2016 n. 57; ma già V,
25.08.2008, n. 4061).
6.3. La sentenza di primo grado che ha fatto proprio il diverso orientamento
per il quale la competenza spetta al dirigente del settore, va riformata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.07.2019 n. 4781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2019 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Disciplina delle terre e rocce da scavo -
Applicabilità della normativa speciale - Limiti -
Giurisprudenza - Presenza di materiali non rappresentati
unicamente da terriccio e ghiaia - Artt. 152 e 256 d.lgs. n.
152/2006.
In materia di terre di rocce e scavo, va
esclusa l'applicabilità della speciale disciplina in
presenza di materiali non rappresentati unicamente da
terriccio e ghiaia, ma provenienti dalla demolizione di
edifici o dal rifacimento di strade e, quindi, contenenti
altre sostanze, quali asfalto, calcestruzzo o materiale
cementizio o di risulta in genere, plastica o materiale
ferroso (Cass.
Sez. 3, n. 25206 del 16/05/2012; Sez.3, n. 17126 del 2015;
Sez. 3, n. 19942 del 2013; Sez. 3, n. 37195 del 2010) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.06.2019 n. 28181 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Discarica abusiva - Confisca dell'area - Potere di
ordinare la bonifica ed il ripristino dello stato dei luoghi
- Natura di sanzione amministrativa irrogata dal giudice
penale - Attribuzione di funzioni speciali aventi carattere
amministrativo - Giurisprudenza - Artt. 152, 240, 242, 256,
257, d.lgs. n. 152/2006 - Patteggiamento ex art. 444 cod.
proc. pen. - Riserva di legge - Art. 23 Cost..
L'art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152/2006,
prevede che alla sentenza di condanna per la realizzazione
e/o gestione di discarica non autorizzata, o alla decisione
emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen, consegue la
confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica
abusiva, se di proprietà dell'autore o del compartecipe al
reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica e di ripristino
dello stato dei luoghi.
Ne consegue che, ponendosi il potere del Giudice di ordinare
la bonifica (ed il ripristino dello stato dei luoghi) in
parallelo all'autorità amministrativa titolare di autonomo
potere, deve affermarsi che tale misura abbia natura di
sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale.
Sicché, in materia di ambiente e territorio, viene conferito
al giudice il potere di emanare un ordine finalizzato alle
conseguenze dell'illecito, con attribuzione di funzioni
speciali aventi carattere amministrativo, sebbene esercitate
in sede di giurisdizionale, come reiteratamente affermato
sia in relazione all'ordine di demolizione urbanistica, di
cui all'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, che in relazione
all'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi
in tema di tutela del paesaggio, di cui all'art. 181 d.lgs.
n. 42/2004 (cfr.
ex multis, per la natura di sanzione amministrativa avente
carattere ripristinatorio, dell'ordine di demolizione, Sez.
3, n. 36387 del 07/07/2015 e per l'analoga di natura di
sanzione amministrativa dell'ordine di rimessione in
pristino dello stato dei luoghi, Sez. 3, n. 1158 del
08/11/2016, dep. 11/01/2017).
Tuttavia, tale potere non può esercitarsi
al di fuori delle ipotesi in cui è espressamente consentito,
stante il disposto dell'art. 23 Cost., che istituisce una
riserva relativa di legge in tema di imposizioni personali i
patrimoniali.
...
RIFIUTI - INQUINAMENTO DEL SUOLO - DANNO AMBIENTALE -
Eliminazione delle conseguenze del danno ambientale - Poteri
del giudice - Subordine della sospensione condizionale della
pena alla bonifica del sito - Controllo dell'autorità
giudiziaria o di un organo tecnico appositamente delegato.
In tema di bonifiche, nel caso in cui il
Giudice applica il principio generale di cui all'art. 165
cod. pen., e subordini la sospensione condizionale della
pena alla bonifica del sito, la bonifica con la quale
subordinare il beneficio penale non sarà necessariamente
quella proceduralizzata dal d.lgs. n. 152 del 2006, ma potrà
coinciderà con quella stabilita concretamente dal giudice
per eliminare le conseguenze del danno ambientale prodotto,
soggetta al controllo dell'autorità giudiziaria o di un
organo tecnico appositamente delegato e che potrà
eventualmente essere verificata ex post dal giudice della
esecuzione (cfr.
Sez. 3, n. 13456 del 20.11.2006, Gritti, Sez. 3, n. 35501
del 30.5.2003, Spadetto; nonché Sez. 3, n. 37280 del
12/06/2008, che ribadendo il principio ha, però, precisato
che, in caso di condanna, o sentenza di patteggiamento della
pena, per il reato di inquinamento previsto dall'art. 257
D.Lgs. n. 152 del 2006 il giudice può subordinare la
concessione del predetto beneficio alla bonifica del sito
inquinato esclusivamente secondo le procedure regolamentate
dallo stesso decreto legislativo, in virtù della norma
specifica prevista del medesimo art. 257, comma 3, d.lgs. n.
152/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.06.2019 n. 28175 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti pericolosi e non
pericolosi non autorizzata - Area su cui terzi depositino in
modo incontrollato rifiuti - Responsabilità del proprietario
- Doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le
misure necessarie per evitare illeciti - Fattispecie:
contratto di locazione e attività di
autoriparazioni/carrozzeria - Art. 42 Costituzione - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006.
Il proprietario di un'area su cui terzi
depositino in modo incontrollato rifiuti, è penalmente
responsabile dell'illecita condotta di questi ultimi in
quanto tenuto a vigilare sull'osservanza da parte dei
medesimi delle norme in materia ambientale e ciò in quanto,
in tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di
gestione non autorizzata non attiene necessariamente al
profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta,
potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di
diligenza per la mancata adozione di tutte le misure
necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione.
E' stato, infatti, affermato che risponde del reato di
gestione non autorizzata di rifiuti il proprietario che
conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi
un'attività di smaltimento di rifiuti, in quanto incombe sul
primo, anche al fine di assicurare la funzione sociale della
proprietà (art. 42 Cost.), l'obbligo di verificare che il
concessionario sia in possesso dell'autorizzazione per
l'attività di gestione dei rifiuti e che questi rispetti le
prescrizioni contenute nel titolo abilitativo
(Sez. 3, n. 36836 del 09/07/2009, Riezzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.06.2019 n. 27911 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
tema di inquinamento del suolo, la disciplina di settore non impone il
coinvolgimento dei potenziali responsabili della contaminazione sin dai
primi accertamenti.
L’art. 244, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, infatti, si limita a disporre
che “la provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
La necessità di un coinvolgimento del potenziale responsabile si palesa solo
in un secondo tempo come si ricava dai contenuti dell’art. 242, comma 4,
laddove prevede che “entro sei mesi dall'approvazione del piano di
caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i
risultati dell'analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla
regione, a seguito dell'istruttoria svolta in contraddittorio con il
soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno venti giorni,
approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla
ricezione dello stesso. Tale documento è inviato ai componenti della
conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la
conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione
fornisce una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni
dissenzienti espresse nel corso della conferenza”
(massima tratta da www.lexambiente.it).
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La ricorrente, nell’anno 1962, realizzava un impianto di produzione di
laterizi (Fornace Quattro Castella) su un’area di proprietà.
Nell’anno 1982, in sede di conversione dei sistemi di generazione calore dei
propri stabilimenti da idrocarburi pesanti a gas metano, dismetteva le
cisterne sino a quel tempo utilizzate che, si afferma in ricorso, venivano
bonificate e riempite di materiale inerte negli anni 1995/1996 e interrate.
Con atto del 24.12.1998, l’area in questione, per mq. 42.600
classificata sotto il profilo urbanistico dal PRG all’epoca vigente come D1
(artigianale industriale edificata e di completamento) e per una parte
residuale, pari a mq. 4.857, mai interessata ai processi di lavorazioni e
stoccaggio, classificata G2 (residenziale o vincolata a verde privato o
pubblico), veniva ceduta alla Società immobiliare Ar.Be.Sc..
Nel mese di marzo 1999 veniva adottata una variante al PRG che classificava
l’intera area come B4, residenziale di ristrutturazione urbanistico
edilizia.
Nel novembre 2000, la medesima area, con diversa classificazione
urbanistica, veniva ceduta alla Società immobiliare ST.R. S.r.l. che la
acquistava per realizzavi un complesso residenziale in attuazione di un
piano di recupero che l’Amministrazione comunale approvava nel dicembre
2011.
Le verifiche disposte sull’area interessata all’intervento richieste da
ARPAE ai fini del rilascio del parere di competenza, affidate da ST.R. alla
Ditta Ri.Am. e Si. (18.07.2012 – come da provvedimento
impugnato), evidenziavano, in alcuni punti dell’area, il superamento delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) previste per i siti destinati
ad uso verde pubblico privato e residenziale di cui all’allegato 5, parte IV,
del d.lgs. n. 152/2006, relativamente ad una pluralità di agenti inquinati.
Per tale ragione, in data 30.07.2012, ST.R. comunicava alla Provincia
ex art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 il superamento della CSC per i parametri
fluoruri, idrocarburi pesanti e piombo, allegando la Relazione redatta da
Ri. (la Società aveva già nell’anno 2000 effettuato una prima serie di
accertamenti).
La Provincia, con nota del 21.09.2012, procedeva ex art. 245, comma
2, richiedendo al Comune di Quattro Castella e ad ARPAE “informazioni utili”
ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile della contaminazione.
Con nota del 29.09.2012, il Comune comunicava alla Provincia la
classificazione dell’area come B4 “residenziale di ristrutturazione
urbanistica soggetta a P.R.” precisando che il “comparto” veniva adottato
con delibera consiliare n. 23 del 21.04.2011 e approvato con delibera n.
89 del 10.11.2011.
Precisava ulteriormente che “in sede di approvazione del comparto” la
proprietà presentava una Relazione geologica dalla quale già risultava la
necessità di una caratterizzazione del suolo attesa la rilevata presenza di
fluoruro in misura eccedente le soglie di cui al D.M. n. 471/1999 e che il
Geologo incaricato affermava che “l’alto valore dei fluoruri potrebbe essere
attribuito ad una ricaduta di materiale particolato, o in altra forma,
proveniente dalle emissioni dei camini dell’ex Fornace”.
Riferiva, infine, che sulla base dell’esame dei titoli edilizi richiesti e
rilasciati negli anni, poteva presumersi che l’attività della fornace
gestita dalla ricorrente potesse essersi svolta sino all’anno 1995.
La ST.R. provvedeva pertanto alla redazione di un Piano di
caratterizzazione datato luglio 2013, acquisito dalla Provincia il 17.09.2013, “che riferisce sulle risultanze delle indagini eseguite nel
2000 e nel 2012” (pag. 3 del provvedimento impugnato).
La conferenza dei Servizi indetta dalla Provincia in data 06.11.2013 si
esprimeva sfavorevolmente stante la lacunosità delle informazioni necessarie
a ricostruire i fenomeni di contaminazione e richiedeva a ST.R. di
provvedere alla redazione di un nuovo Piano di caratterizzazione “tenendo
conto dei criteri generali previsti nell’allegato 2 titolo V parte IV del D.
Lgs. 152/2006”.
A seguito di comunicazione ex art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 ai competenti
Enti territoriali, la Provincia di Reggio Emilia, in data 17.04.2014
comunicava alla Società che “ad oggi, nonostante l’attivazione da parte
della Provincia delle procedure previste dal D.Lgs. 152/2006 non è stato
possibile identificare il soggetto responsabile”.
Preso atto dell’illustrato esito degli accertamenti esperiti dalla
Provincia, la ST.R. nel settembre 2015, sul presupposto della rilevata
presenza nel sottosuolo di contaminazioni superiori alle soglie di legge
che, si afferma, non consentivano la realizzazione dell’intervento edilizio
programmato, avviava un procedimento per Accertamento Tecnico Preventivo
(ATP) ex art. 696 c.p.c. innanzi al Tribunale di Reggio Emilia affinché,
“verificate le attività esercitate sull’area stessa dagli anni ’60 ad oggi”
accertasse “quali di queste sia stata causa dell’inquinamento e che ne sia
il soggetto responsabile”.
Il relativo procedimento si concludeva nell’anno 2016.
Il CTU incaricato in quella sede riteneva che esistesse un’elevata
probabilità che il responsabile dell’inquinamento da idrocarburi si
identificasse nel ricorrente che, tuttavia, non veniva ritenuto essere
responsabile dell’inquinamento da fluoruri.
Con nota del 03.05.2016 ARPAE (estranea al procedimento di ATP cui ST.R.
trasmetteva la CTU) comunicava al ricorrente l’avvio del procedimento ex
art. 244, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006, volto all’individuazione del
soggetto responsabile dell’inquinamento.
Nell’occasione ARPAE affermava l’esistenza di una elevata probabilità che il
ricorrente potesse indentificarsi nel responsabile in virtù delle analisi
svolte nel 2012 dalla Ditta RI. (incaricata da ST.R.) e precisava che “gli
approfondimenti e le considerazioni contenute nell’accertamento tecnico
preventivo costituiscono un nuovo elemento conoscitivo in possesso di questa
Agenzia per l’individuazione della responsabilità dell’inquinamento sopra
descritto”.
La ricorrente contestava i contenuti della comunicazione con nota del 30.05.2016.
Con nota del 20.09.2018, ARPAE richiedeva al ricorrente se intendesse
“segnalare ulteriori informazioni” o volesse “presentare osservazioni con
elementi aggiuntivi, anche emersi nell’ambito di eventuali sviluppi, nel
frattempo intercorsi, nel procedimento di parte per l’accertamento tecnico
preventivo”.
Con atto comunicato il 13.11.2018, ARPAE richiamava gli esiti della
CTU evidenziando come il Consorzio fosse stato individuato come probabile
responsabile dell’inquinamento da idrocarburi qualificando, invece, come
bassa la probabilità che l’inquinamento da fluoruri potesse essere
imputabile alle emissioni dei camini “ritenendo realisticamente più
probabile che siano gli stessi terreni ad avere fin dall’origine
variabilmente il contenuto del fluoruro riscontrato” (pag. 5 del
provvedimento impugnato).
ARPAE, che evidenziava, altresì, come il CTU avesse prospettato “che l’area
possa essere stata interessata da operazioni di riporto di materiali per
rendere pianeggiante l’intero sedime” (pag. 5 del provvedimento impugnato)
ordinava alla ricorrente di procedere alla presentazione entro 90 giorni di
un piano di caratterizzazione.
Il ricorrente impugnava l’ordinanza deducendo una pluralità di profili di
illegittimità.
...
Con il primo motivo il ricorrente deduceva l’incompetenza di ARPAE
all’adozione del provvedimento impugnato, nonché, la violazione degli artt.
244 e 245 del D.Lgs. n. 152/2006 e dell’art. 15, comma 9, della L.R. n.
13/2015.
Con memoria depositata il 10 maggio il ricorrente prendeva, tuttavia, atto
del deposito da parte della Provincia della Convenzione e dei relativi atti
di approvazione “tutti antecedenti alla data di comunicazione di avvio del
procedimento” (pag. 3), mediante i quali ARPAE veniva investita del potere
di provvedere e rinunziava al motivo.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt.
242, 244 e 245 del D.Lgs. n. 152/2006 e degli artt. 3 e 7 della L. n.
241/1990, nonché, eccesso di potere per difetto di istruttoria, motivazione
e di contraddittorio, difetto dei presupposti, ingiustizia grave e manifesta
e, infine, la violazione dei principi di buon andamento, imparzialità e
partecipazione.
Quanto alla dedotta lesione del diritto alla partecipazione procedimentale,
la doglianza è infondata atteso che la disciplina di settore non impone il
coinvolgimento dei potenziali responsabili della contaminazione sin dai
primi accertamenti.
L’art. 244, comma 2, del D. Lgs. n. 152/2006, infatti, si limita a disporre
che “la provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
La necessità di un coinvolgimento del potenziale responsabile, come
correttamente rilevato da ARPAE, si palesa solo in un secondo tempo come si
ricava dai contenuti dell’art. 242, comma 4, laddove prevede che “entro sei
mesi dall'approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto
responsabile presenta alla regione i risultati dell'analisi di rischio. La
conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell'istruttoria
svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un
preavviso di almeno venti giorni, approva il documento di analisi di rischio
entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso. Tale documento è
inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima
della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza,
la delibera di adozione fornisce una adeguata ed analitica motivazione
rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza”.
In ogni caso non può che evidenziarsi che la vicenda dalla quale scaturiva
l’iniziativa provvedimentale in questa sede impugnata era nota alla
ricorrente per aver costituito oggetto, come illustrato, di più procedimenti
finalizzati all’individuazione del responsabile (Conferenza dei Servizi e
ATP).
Gli esiti dell’ATP richiamati da ARPA a presupposto dell’ordine impugnato,
inoltre, maturavano nell’ambito di un procedimento al quale la ricorrente
partecipava con un proprio consulente.
Il provvedimento impugnato veniva, infine, come anticipato, preceduto dalla
richiamata nota del 20.09.2018 mediante la quale l’Amministrazione
poneva la ricorrente in condizione di interloquire precedentemente
all’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.
Circa la dedotta carenza motivazionale, la ricorrente evidenzia come ARPAE
abbia assunto acriticamente a presupposto della propria determinazione esiti
di accertamenti commissionati da ST.R. nell’anno 2012, nonché, i contenuti
della CTU disposta nell’ambito del richiamato ATP senza sottoporli ad alcuna
verifica.
Circa la CTU da ultimo richiamata la ricorrente evidenzia che l’incaricato
della stessa formulava le proprie conclusioni senza eseguire nuove indagini
ma limitandosi a recepire gli esiti degli accertamenti disposti da ST.R.
nel 2012.
ARPAE, si afferma ulteriormente, non avrebbe considerato che ST.R. avrebbe
acquisito la proprietà dell’area nell’anno 2000 e che nell’anno 2011,
precedentemente all’esecuzioni delle indagini in questione, avrebbe eseguito
sul sito lavori di demolizione suscettibili di contaminare il terreno.
Le conclusioni cui perveniva l’Amministrazione, inoltre, contraddirebbero
gli esiti degli accertamenti svolti dalla Provincia a seguito di una
segnalazione di ST.R. basata sui medesimi esiti degli accertamenti del
2012, che si concludevano ritenendo l’impossibilità di individuare il
responsabile della contaminazione lamentata.
Con il medesimo capo di impugnazione il ricorrente censura, altresì, la
tempistica procedimentale evidenziando come:
- il procedimento conclusosi con l’adozione dell’ordinanza
impugnata, veniva avviato con atto del 03.05.2016, nonostante la
segnalazione di ST.R. risalisse al 2012;
- nonostante la tempestiva produzione delle proprie deduzioni
(30.05.2016), il procedimento si arrestava sino al 20.09.2018 quanto ARPAE
comunicava di volerlo “proseguire”, invitando la ricorrente ad
integrare le propri deduzioni e concludendolo poi nel mese successivo.
Il descritto incedere paleserebbe la discontinuità e l’approssimazione con
la quale veniva condotta l’istruttoria procedimentale, violando in tal modo
il principio di buon andamento.
Quanto ai profili da ultimo evidenziati, ARPAE giustifica la censurata
tempistica procedimentale allegando come la CTU disposta in sede di ATP
fosse da qualificarsi in termini di elemento sopravvenuto che giustifica una
riattivazione procedimentale e che, con riferimento a tale sopravvenienza,
non sarebbe rilevabile alcun ritardo.
La posizione è condivisa dal Collegio.
L’acquisizione della più volte citata CTU (a prescindere dall’attendibilità
dei dati in essa contenuti), è elemento sopravvenuto astrattamente idoneo a
determinare una ripresa delle attività accertative.
A seguito di detta acquisizione (come già affermato, nota al ricorrente), il
Consorzio veniva tempestivamente invitato a dedurre in merito (nota del
20.09.2018) e il successivo epilogo provvedimentale interveniva in un breve
lasso di tempo.
In ogni caso, non è dedotto in ricorso che ARPAE sia incorsa nella
violazione di termini perentori.
Quanto ai dedotti vizi di contraddittorietà e difetto di istruttoria, come
anticipato, il provvedimento impugnato individua il responsabile della
contaminazione nel ricorrente sulla base dei soli dati forniti dalla Società
odierna proprietaria, peraltro datati, senza ulteriori accertamenti tesi a
verificarne la piena attendibilità.
A tal proposito si evidenzia che la Società ST.R. è da circa 20 anni
proprietaria dell’area contaminata e che, nel corso di tale significativo
lasso temporale, eseguiva una pluralità di interventi potenzialmente
inquinanti.
Sotto un primo profilo, si evidenzia che non è contestato che ST.R. abbia
effettuato interventi di demolizione dei fabbricati industriali che
insistevano sull’area.
Sotto altro profilo, è la stessa CTU resa in sede di ATP (che ARPAE assume,
da un lato come elemento sopravvenuto legittimante il superamento della
precedente posizione espressa dalla Conferenza dei servizi circa
l’impossibilità di individuare un responsabile e, da altro lato, come
fondamento dell’accertata responsabilità della contaminazione in capo al
ricorrente) ad affermare, come anticipato, che “che l’area possa essere
stata interessata da operazioni di riporto di materiali per rendere
pianeggiante l’intero sedime” (pag. 5 del provvedimento impugnato):
materiali in merito ai quali non veniva svolta alcuna indagine.
La medesima CTU, inoltre, escludeva l’imputabilità del rilevato inquinamento
da fluoruri al ricorrente, precisando che potrebbero essere presenti nel
terreno per condizione mineralogica dello stesso.
Tali elementi avrebbero dovuto indurre, in ossequio ai tradizionali principi
di buon andamento e imparzialità, ad intraprendere un’attività di verifica
dell’attendibilità delle acquisizioni in questione ed a valutare il
potenziale concorso di altri soggetti alla contaminazione, nonché, la
effettiva riconducibilità all’attività in precedenza esercitata di tutti gli
inquinanti indicati dal consulente di parte di ST.R. (Società in posizione
apertamente conflittuale con la ricorrente ai fini in esame) come presenti
sul sito.
Quanto al valore probatorio, ai fini in esame, della CTU acquisita,
fortemente enfatizzato dalle resistenti, deve rilevarsi che la stessa,
ancorché intervenuta nell’ambito di un procedimento giudiziale e nel
contraddittorio delle parti, fa proprie le conclusioni della Ditta RI.
incaricata privatamente, nel 2012 (6 anni prima dell’adozione dell’atto
impugnato) dalla Società ST.R., attuale proprietaria e potenziale
corresponsabile.
L’evidenziata carenza istruttoria non può essere superata invocando il
principio giurisprudenziale, richiamato da entrambe le resistenti, in base
al quale sarebbe ammesso l’utilizzo degli esiti di rilievi eseguiti da terzi
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.08.2018, n. 802).
Deve, infatti, rilevarsi che il TAR Lombardo perveniva all’affermazione del
suesposto principio, da condividersi in astratto, in presenza di una
fattispecie che presentava peculiarità non rinvenibili nel caso di specie.
In quel caso, ove procedeva la Provincia di Mantova (e non un Ente dotato
delle competenze e degli strumenti di ARPAE), si era in presenza di una
situazione “grave e tale da non consentire ulteriori ritardi” che
richiedeva una “messa in sicurezza di emergenza” precisando che era “l’urgenza
di procedere verso una soluzione stabile” che giustificava “anche [e,
quindi, non solo, ndr] l’utilizzazione degli studi e delle analisi già
effettuate da altri soggetti”.
Una tale urgenza non è rinvenibile nel caso di specie, ove si consideri che
i dati rilevanti ai fini dell’adozione dell’atto impugnato erano noti
all’Amministrazione sin dall’anno 2012 e già giudicati insufficienti ai fini
dell’individuazione del soggetto responsabile.
La circostanza da ultimo richiamata evidenzia, altresì, la contraddittorietà
dell’agire amministrativo che in diverse occasioni, e sulla base delle
medesime risultanze, perveniva ad esiti contrastanti.
Nei sensi invocati dalle resistenti, come già esposto, non può invocarsi la
CTU resa in sede di ATP, che, ancorché elemento sopravvenuto, veniva redatta
sulla base degli stessi accertamenti privatamente disposti da ST.R. nel
2012 e già valutati.
Ne consegue la fondatezza dei dedotti vizi di contraddittorietà e difetto di
istruttoria non potendosi formulare, allo stato delle evidenze istruttorie e
valutato il tempo intercorso dalla cessione delle aree e le successive
attività ivi svolte, un sicuro o anche solo attendibile giudizio di
imputabilità delle rilevate contaminazione alla pregressa attività della
ricorrente sulla base del mero e generico richiamo ai principi
giurisprudenziali del “chi inquina paga” e del “più probabile che
non” (Cons. St., Sez. IV, 04.12.2017, n. 5668 e Cass. Civ. Sez. un.,
11.01.2008, n. 581).
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto ai fini di una complessiva
rivalutazione della posizione dei soggetti succedutisi nella proprietà del
fondo e dell’efficienza causale delle attività da ciascuno svolte sul sito
alla determinazione dell’evento inquinate previo esperimento degli
accertamenti del caso (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 24.06.2019 n. 177 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di legittima emanazione dell'ordinanza di allontanamento e
smaltimento di rifiuti abbandonati è stato specificato dalla giurisprudenza:
- che colgono nel segno le doglianze di violazione dell’art. 192
TUAmb. e violazione del principio del contraddittorio;
- che, infatti, con riguardo all'ordine di rimozione ex art. 192,
comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, deve in primo luogo sussistere la colpa
specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore
materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti;
- che, dunque, la condanna del proprietario del suolo agli
adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 necessita di un serio
accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio,
ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si
ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare,
in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del
diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione;
- che nella specie il sopralluogo comunale sul terreno è avvenuto
in assenza del comproprietario ricorrente.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia e/o adozione di
qualsiasi altra misura cautelare, dell’ordinanza n. 3 del 05/03/2019 prot.
n. 451 del 06/03/2019 Uff. Tecnico, notificata l'11/03/2019, emessa dal
Comune di San Sosti (CS), con cui si ordina ai sig.ri Ar.Co., Ar.Con.,
Ar.Gi.Vi. e Ar.Vi., in qualità di proprietari del terreno sito in località
Castagneto censito al N.C.T. di San Sosti al foglio 16 mappale 223, “a
voler provvedere, nel più breve tempo possibile e comunque entro e non oltre
60 (sessanta) giorni dalla notifica della presente ordinanza:
all'allontanamento ed allo smaltimento in base alla tipologia di rifiuto e
ai sensi dell'art. 192 del d.lgs 03.04.2006 n. 152 e s.m.i., dei rifiuti
abbandonati presso l'area sita in loc.tà Castagneto censita al Catasto al Fg.
16 mappale 223; al ripristino e alla bonifica dello stato dei luoghi. Gli
stessi, espletata la procedura corretta di smaltimento del materiale,
dovranno produrre una relazione circa gli interventi eseguiti, corredata
dalla certificazione comprovante l'avvenuto smaltimento dei su citati
rifiuti”.
...
Considerato:
- che colgono nel segno le doglianze di violazione dell’art. 192
TUAmb. e violazione del principio del contraddittorio;
- che, infatti, con riguardo all'ordine di rimozione ex art. 192,
comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, deve in primo luogo sussistere la colpa
specifica, e non già presunta o di posizione, del proprietario non autore
materiale delle condotte di abbandono dei rifiuti (cfr. da ultimo Cons.
Stato, IV, 07.06.2018, n. 3430);
- che, dunque, la condanna del proprietario del suolo agli
adempimenti previsti dall'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 necessita di un
serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in
contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della
esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, n. 3672 del 2017; sez. V, n. 1089 del 2017; sez. IV,
n. 1301 del 2016; sez. V, n. 933 del 2015), non potendosi configurare, in
assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del
diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione (cfr. da
ultimo Corte giust. UE, sez. II, 13.07.2017, C-129/2016; sez. III,
04.03.2015, n. 534; Cons. Stato, Ad. plen., n. nn. 21 e 25 del 2013);
- che nella specie il sopralluogo sul terreno è avvenuto in assenza
del comproprietario ricorrente;
- che, tra l’altro, egli aveva esso stesso presentato denuncia al
Comune di rinvenimento delle lastre di eternit e che con apposita ctp ha
dimostrato vi fosse chiusura di accesso al fondo, a destinazione boschiva,
con cancello in legno divelto;
Ritenuto, pertanto:
- di accogliere il ricorso con annullamento dell’ordinanza
impugnata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 20.06.2019 n. 1235 - link a
www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti.
Il comune può ordinare la bonifica dei luoghi ai sensi del codice stradale.
Spetta al proprietario della strada garantire la sicurezza della
circolazione. Quindi se vengono rinvenuti rifiuti su una strada dell'Anas il
comune deve ordinare la pulizia e il ripristino dei luoghi.
In via generale, sono
illegittimi gli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione di tale sua mera qualità ed
in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione
procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente
motivazione.
Sotto questo profilo è stato infatti ripetutamente affermato che
la
disciplina contenuta nel predetto art. 192 del 2006 è improntata ad una
rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, non residuando al riguardo
alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere
ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l’abbandono
illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in
relazione -per l’appunto- ad un’eventuale responsabilità solidale del
proprietario dell’area.
A ben vedere la giurisprudenza è pervenuta a tale conclusione nel rilievo
che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno
e notte, al fine di impedire ad estranei di penetrare nell’area e di
abbandonarvi i rifiuti: la richiesta di un impegno di tale entità -infatti-
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media che è
alla base della stessa nozione di colpa.
---------------
L'abbandono di rifiuti lungo una strada statale configura una fattispecie
del tutto particolare, posto che risulta del tutto infondato l’assunto del
giudice di primo grado, secondo il quale l’obbligo per Anas S.p.a. di
rimuovere i rifiuti in questione non sarebbe imposto “da alcuna norma di
legge o regolamentare o di altra natura”.
Qui il regime di responsabilità del soggetto proprietario viene infatti per
contro a fondarsi in via esplicita ed inequivoca sulla disciplina contenuta
nell’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della strada), con
specifico riguardo alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze che è
ivi affermato in capo ai soggetti che ne sono proprietari o concessionari.
Più precisamente, il comma 1, lett. a), di tale articolo pone a carico degli
enti proprietari la “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”,
nel mentre il susseguente comma 3 precisa che “per le strade in concessione
i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal
presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che sia
diversamente stabilito”.
Tra la disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152
del 2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di
strade contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad
instaurarsi un rapporto di specialità, contraddistinto dalla sussistenza
nell’ordinamento di una norma puntuale che, al fine di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione stradale, impone in via diretta
al soggetto proprietario o concessionario della strada di provvedere alla
sua pulizia e, quindi, di rimuovere i rifiuti depositati sulla strada
medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità
dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi
all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve
pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o
del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto
istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che
riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo
riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del
territorio medesimo.
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento
impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima
è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia
della strada da essa gestita e delle sue pertinenze.
In tal senso la disciplina dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 si configura
quale parametro normativo per l’individuazione del profilo della colpa
presupposto in via generale dall’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; e la
disciplina medesima, proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera
circostanza della proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto
inderogabilmente preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere
direttamente richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi
dalle autorità comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella stessa
qualità dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della
pubblica strada la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge
ad esso comunque imposto.
---------------
1.1. In data 29.01.2008 gli agenti del Corpo Forestale dello Stato hanno
eseguito un sopralluogo in località Beneficio del Comune di San Giuseppe
Vesuviano (NA), accertando ivi la presenza di una consistente quantità di
rifiuti abbandonati nei pressi di una stradina laterale alla Strada Statale
n. 268, di proprietà dell’Anas S.p.a. e da essa adibita a viabilità di
servizio.
La circostanza è stata accertata contestualmente anche da personale
dipendente dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della
Campania (A.R.P.A.C.) e dal Comune di San Giuseppe Vesuviano.
In dipendenza di ciò, con ordinanza n. 22 dd. 28.02.2008 il Responsabile del
Servizio Urbanistica, Gestione Territorio, Progettazioni–LL.PP. e Catasto
del Comune di San Giuseppe Vesuviano, “vista la comunicazione ai sensi
dell’art. 192 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 dalla quale si rileva che in data
29.01.2008” il Corpo Forestale dello Stato “ha proceduto al sequestro
penale anche a carico di ignoti di circa 60 mc. di rifiuti speciali ex art.
155 del d.lgs. 152 del 2006, costituiti prevalentemente da rifiuti
provenienti da demolizioni, materiale plastico di vario genere, pneumatici
ed onduline presumibilmente contenenti amianto, insistenti all’interno delle
particelle nn. 204 - 1387 - 1384 - 1382 del foglio n. 6 del N.C.T. del
Comune di San Giuseppe Vesuviano – Contrada Beneficio” , “visto l’art.
192 (divieto di abbandono) del d.lgs. 03.04.2006, n. 154, commi 1-2-3 e 4” e
“viste le visure catastali dalle quali si evince che le predette
particelle sono di proprietà Anas”, ha ordinato all’Anas S.p.a., “nella
persona del legale rappresentante, dipartimento Centro 1, viale Kennedy 17
Fuorigrotta-Napoli, di provvedere ad horas alla rimozione ed allo
smaltimento dei rifiuti sopra citati, perché pericolosi per la pubblica
incolumità, ed alla bonifica del luogo, nel più breve tempo possibile, onde
evitare disagi alla popolazione nonché all’ambiente, previo dissequestro da
parte dell’Autorità Giudiziaria”: il tutto con la rituale avvertenza che
“la mancata ottemperanza … oltre a quanto stabilito dal Codice Penale,
vedrà costretta quest’Amministrazione a provvedere in danno del soggetto
obbligato al recupero delle somme anticipate, come previsto dal d.lgs. 152
del 2006”.
1.2. Con ricorso proposto sub R.G. 3167 del 2008 innanzi al TAR per la
Campania, Sede di Napoli, Anas S.p.a. ha chiesto l’annullamento di tale
provvedimento, deducendo al riguardo il difetto di notificazione del
provvedimento medesimo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 192 del
d.lgs. 152 del 2006 e dell’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997, n. 22, eccesso di
potere per difetto dei fatti e dei presupposti, nonché violazione degli artt.
13, 7 e 21 del d.lgs. 22 del 1997 ed eccesso di potere per difetto dei
presupposti sotto ulteriore profilo.
1.3. In tale primo grado di giudizio si è costituito il Comune di San
Giuseppe Vesuviano, concludendo per la reiezione del ricorso.
1.4. Con sentenza n. 6101 dd. 23.06.2008, resa a’ sensi degli allora vigenti
artt. 21 e 26 della l. 06.12.1971 n. 1034 e successive modifiche, la Sezione
V dell’adito TAR ha accolto il ricorso avuto riguardo -in via assorbente-
alle dedotte censure di violazione e falsa applicazione dell’art. 192 del
d.lgs. 152 del 2006 e degli artt. 14, 13, 7 e 21 del d.lgs. 22 del 1997,
nonché di eccesso di potere per difetto dei fatti e dei presupposti.
Il giudice di primo grado ha in tal senso affermato che “l’art. 14, comma
3, del d.lgs. 22 del 1997 … permette l’emissione dell’ordinanza di rimozione
anche nei confronti di soggetti, quali il proprietario del terreno e
soggetti che vi hanno diritti reali o personali di godimento, a titolo di
responsabilità solidale, unicamente nel caso che essi siano imputabili a
titolo di dolo o cola. Come già evidenziato dalla giurisprudenza di questo
Tribunale (tra le altre, sentt. n. 1618 del 2005, 2016 del 2005, 1273 del
2008), dalla quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso in esame non
ricorre nessuno dei presupposti previsti dal citato art. 14 del d.lgs. 22
del 1997, atteso che la presenza di rifiuti nell’area di competenza dell’Anas
non è imputata all’Ente, quale responsabile in solido con l’autore
dell’abbandono, né in via diretta, a titolo di dolo o di colpa. In
particolare, non è possibile affermare che la stessa Anas sia tenuta a
salvaguardare il proprio territorio da qualsiasi forma di discarica prodotta
da ignoti, non provenendo tale obbligo da alcuna norma di legge o
regolamentare o di altra natura”.
L’adito TAR ha compensato integralmente tra le parti le spese e gli onorari
di causa.
2.1. Con l’appello in epigrafe il Comune di San Giuseppe Vesuviano chiede
ora la riforma di tale sentenza, deducendo al riguardo error in iudicando
in relazione all’art. 14 del dlgs. 22 del 1997 e all’art. 192 del d.lgs. 192
del 2006.
L’appellante insiste in tal senso sulla sussistenza della colpa in capo all’Anas
S.p.a. in ordine alla mancata rimozione dei rifiuti nell’area di sua
proprietà, e ciò anche con riguardo a quanto disposto dall’art. 14 del
d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della Strada).
...
3.1. Tutto ciò premesso, l’appello va accolto.
3.2. Va premesso che in tema di abbandono dei rifiuti, l'art. 14 del d.lgs.
n. 22/1997 (cd. "decreto Ronchi") invero stabiliva che il
proprietario dell’area utilizzata per l’abbandono abusivo di rifiuti fosse
tenuto a provvedere al loro smaltimento solo a condizione che ne fosse
dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito per aver
posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo, escludendo conseguentemente che la norma configurasse un’ipotesi
legale di responsabilità oggettiva.
Tale disciplina è stata abrogata per effetto dell’art. 264, comma 1, lettera
i), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, il cui art. 192 riproduce il tenore
dell’abrogato art 14, con riferimento quindi alla necessaria imputabilità a
titolo di dolo o colpa del proprietario dell’immobile in cui è avvenuto
l’abbandono, ma in più integra il precedente precetto precisando che
l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente “in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai
soggetti preposti al controllo” (cfr. sul punto, ad es., Cons. giust.
amm. Sicilia, Sez. giurisd., 23.05.2012, n. 460).
Il Collegio non ignora -ed, anzi, condivide- il principio di ordine generale
affermato al riguardo dalla giurisprudenza, secondo il quale sono
illegittimi gli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione di tale sua mera qualità ed
in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione
procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente
motivazione.
Sotto questo profilo è stato infatti ripetutamente affermato che la
disciplina contenuta nel predetto art. 192 del 2006 è improntata ad una
rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, non residuando al riguardo
alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere
ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l’abbandono
illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in
relazione -per l’appunto- ad un’eventuale responsabilità solidale del
proprietario dell’area (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V,
19.03.2009 n. 1612 e 25.08.2008 n. 4061).
A ben vedere la giurisprudenza è pervenuta a tale conclusione nel rilievo
che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo non può
arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno
e notte, al fine di impedire ad estranei di penetrare nell’area e di
abbandonarvi i rifiuti: la richiesta di un impegno di tale entità -infatti-
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media che è
alla base della stessa nozione di colpa (cfr., ex plurimis,: Cons.
Stato, Sez. V, 08.03.2005, n. 935); e in tale situazione, quindi, e senza
che sia stato comprovata la sussistenza di un nesso causale tra la condotta
del proprietario e l’abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un
concreto obbligo per i proprietari sarebbe inesigibile proprio in quanto
riconducibile -si ribadisce- ad una responsabilità oggettiva non contemplata
dalla legge (cfr. ibidem).
La presente fattispecie si configura -peraltro- del tutto particolare, posto
che risulta del tutto infondato l’assunto del giudice di primo grado,
secondo il quale l’obbligo per Anas S.p.a. di rimuovere i rifiuti in
questione non sarebbe imposto “da alcuna norma di legge o regolamentare o
di altra natura”.
Qui il regime di responsabilità del soggetto proprietario viene infatti per
contro a fondarsi in via esplicita ed inequivoca sulla disciplina contenuta
nell’art. 14 del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (nuovo Codice della strada), con
specifico riguardo alla pulizia delle strade e delle loro pertinenze che è
ivi affermato in capo ai soggetti che ne sono proprietari o concessionari.
Più precisamente, il comma 1, lett. a), di tale articolo pone a carico degli
enti proprietari la “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”,
nel mentre il susseguente comma 3 precisa che “per le strade in
concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada
previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario, salvo che
sia diversamente stabilito”.
Tra la disciplina di ordine generale contenuta nell’art. 192 del d.lgs. 152
del 2006 e quella specifica per i soggetti proprietari e concessionari di
strade contenuta nell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 viene pertanto ad
instaurarsi un rapporto di specialità (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. V,
14.03.2019, n. 1684), contraddistinto dalla sussistenza nell’ordinamento di
una norma puntuale che, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità
della circolazione stradale, impone in via diretta al soggetto proprietario
o concessionario della strada di provvedere alla sua pulizia e, quindi, di
rimuovere i rifiuti depositati sulla strada medesima e sulle sue pertinenze.
Tale obbligo può ben correlarsi anche alle concorrenti necessità
dell’incolumità pubblica, nonché all’esigenza di evitare pregiudizi
all’ambiente e a tutti coloro che sono insediati nel territorio, e deve
pertanto essere fatto rispettare -in caso di inadempienza del proprietario o
del concessionario- dall’amministrazione comunale, in quanto
istituzionalmente tenuta a esercitare tutte le funzioni amministrative che
riguardano la popolazione ed il territorio comunale, anche con precipuo
riguardo ai servizi resi alla comunità e all’assetto e all’utilizzazione del
territorio medesimo (cfr. art. 13 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267).
Se così è, condivisibilmente il Comune ha dunque emesso il provvedimento
impugnato nei confronti di Anas S.p.a., e ciò proprio in quanto quest’ultima
è istituzionalmente e inderogabilmente obbligata a mantenere la pulizia
della strada da essa gestita e delle sue pertinenze.
In tal senso la disciplina dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 si configura
quale parametro normativo per l’individuazione del profilo della colpa
presupposto in via generale dall’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; e la
disciplina medesima, proprio in quanto è direttamente presupposta dalla mera
circostanza della proprietà ovvero del rapporto concessorio del soggetto
inderogabilmente preposto alla sua osservanza, neppure necessita di essere
direttamente richiamata dai provvedimenti di rimozione dei rifiuti emessi
dalle autorità comunali, essendo –per l’appunto– insito ex lege nella
stessa qualità dell’ente indicato quale proprietario o concessionario della
pubblica strada la conseguente necessità di ottemperare all’obbligo di legge
ad esso comunque imposto.
4. Dall’accoglimento del ricorso in epigrafe consegue, in riforma della
sentenza impugnata, l’integrale reviviscenza del provvedimento impugnato in
primo grado (Consiglio di Stato,
Sez. II,
sentenza 13.06.2019 n. 3967 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E'
illegittima l'ordinanza sindacale che impone al proprietario del fondo la
recinzione dello stesso al fine di evitare l'abbandono incontrollato di
rifiuti.
Costante giurisprudenza suffraga la natura essenzialmente facoltativa e non
obbligatoria della recinzione del fondo in capo al proprietario.
In tal senso depone in termini inequivoci l’art. 841 c.c., in virtù del
quale: “Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo”. La
chiusura/recinzione del fondo è dunque un atto facoltativo per il titolare
del diritto dominicale.
Sicché, tra le prestazioni che il Sindaco può imporre al proprietario, tanto
nell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quanto in quelle emanate ai
sensi degli artt. 50 e 54 D.Lgs. 267/2000, non può essere annoverata la
recinzione del fondo.
Invero:
- “Per principio generale di diritto (cfr. art. 841 cod. civ.) la
"chiusura del fondo" costituisce, infatti, una mera facoltà del
proprietario, il cui mancato esercizio non può, dunque, ridondare in un
giudizio di responsabilità per condotta omissiva o inottemperante ad un
obbligo di diligenza”; “Secondo un principio generale del diritto,
riveniente dall'art. 841 c.c., la chiusura del fondo costituisce una mera
facoltà del proprietario e, dunque, giammai un suo obbligo”;
- La possibilità di addivenire all’imposizione della recinzione
potrebbe al limite ipotizzarsi in situazioni peculiari, e comunque sulla
scorta di una specifica e ponderata valutazione, da parte
dell’amministrazione procedente, svolta alla luce dei canoni della
proporzionalità e ragionevolezza, del tutto assente negli atti qui gravati:
“D’altronde, se anche si dovesse ravvisare un fondamento normativo
all'obbligo di recinzione, resterebbe comunque da considerare che un obbligo
di condotta di tal genere andrebbe valutato secondo criteri di ordinaria
diligenza e, quindi, di proporzionata e ragionevole esigibilità, che nella
specie non sono neppure astrattamente invocabili, atteso che -i paventati
pericoli per la salute dei residenti, asseritamente causati dallo
stazionamento di automezzi sul terreno- risultano essere frutto di
affermazioni non supportate da alcun effettivo accertamento.
Conseguentemente, appare opportuno sottolineare come l’omessa recinzione del
fondo, integrando una condotta del tutto legittima da parte del
proprietario, non può essere assunta dal comune, in sede di adozione
dell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quale indice della colpa del
titolare del terreno.
Anche sotto tale profilo, invero, l’opinione giurisprudenziale è
consolidata: “In caso di abbandono di rifiuti in un fondo di proprietà
privata, la colpa del proprietario non può ravvisarsi nel fatto che quest'ultimo
non abbia recintato l'area, posto che la chiusura del fondo costituisce una
mera facoltà del proprietario, ai sensi dell'art. 841 c.c., giammai un
obbligo”.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 61 del 30.07.2018, comunicata il
02.08.2018 e della successiva ordinanza sindacale n. 78 del 21.08.2018,
comunicata il 12.09.2018, in parte qua, laddove prevedono la realizzazione
della recinzione delle aree;
...
I Sigg.ri Pa.Si.Va., Ni.Bi.Va. e An.Va. sono proprietari di alcuni
appezzamenti di terreno ubicati in Comune di Arnesano.
Con ordinanza n. 61 del 30.07.2018 il Sindaco del Comune di Arnesano
ingiungeva ai Va.: “1. di provvedere, a propria cura e spese,
all’esecuzione delle opere di difesa e prevenzione antincendio, previa
estirpazione e pulizia delle erbacce cresciute nei lotti di terreno di
proprietà e smaltimento presso ditte autorizzate dei rifiuti abbandonati
entro e non altre 10 giorni dalla notifica della presente […]; 2. Di
provvedere alla recinzione dei lotti di terreno innanzi citati entro 90
giorni dalla data di notifica della presente ordinanza, previa preventiva
richiesta all’Ufficio tecnico Comunale del relativo titolo abilitativo ai
sensi del TUE […]”.
Immediatamente dopo la notifica di tale ordinanza, veniva fornita
all’amministrazione comunale documentazione fotografica attestante
l’intervenuta esecuzione delle opere di scerbatura dei terreni.
Con successiva ordinanza n. 78 del 21.08.2018 il Sindaco ingiungeva
ulteriormente ai Va., con riferimento ai fondi di loro proprietà, di “eseguire
le opere di estirpazione e pulizia delle erbe infestanti, nonché la raccolta
e smaltimento presso ditte autorizzate dei rifiuti di vario genere
abbandonati nei lotti di terreno […]; avverte […] che i soggetti obbligati,
nei termini previsti dall’ordinanza sindacale n. 61 /2018, sono tenuti a
provvedere alla recinzione dei lotti di terreno innanzi citati, previa
preventiva richiesta all’Ufficio Tecnico Comunale del relativo titolo
abilitativo ai sensi del TUE approvato con D.P.R. n. 380 del 6.6.2001 e
s.m.i.”.
Avverso i suddetti provvedimenti sindacali, i Vacca proponevano il ricorso
introduttivo del presente giudizio, chiedendone l’annullamento “in parte
qua, laddove prevede la realizzazione della recinzione delle aree”, per
il seguente articolato motivo: ...
...
1. Il ricorso è fondato.
La porzione del provvedimento che costituisce oggetto di impugnazione da
parte dei ricorrenti è quella con la quale il Sindaco imponeva ai Va. la
recinzione del proprio fondo.
1.1. Le valutazioni svolte in ricorso, e suffragate da costante indirizzo
giurisprudenziale, circa la natura essenzialmente facoltativa e non
obbligatoria della recinzione del fondo in capo al proprietario, sono
condivise dal Collegio. In tal senso depone in termini inequivoci l’art. 841
c.c., in virtù del quale: “Il proprietario può chiudere in qualunque
tempo il fondo”. La chiusura/recinzione del fondo è dunque un atto
facoltativo per il titolare del diritto dominicale.
Per quanto precede, tra le prestazioni che il Sindaco può imporre al
proprietario, tanto nell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs. 152/2006, quanto in
quelle emanate ai sensi degli artt. 50 e 54 D.Lgs. 267/2000, non può essere
annoverata la recinzione del fondo: “È fondato ed assorbente il rilievo
secondo cui non può essere imposta ai proprietari la recinzione del fondo.
Per principio generale di diritto (cfr. art. 841 cod. civ.) la "chiusura del
fondo" costituisce, infatti, una mera facoltà del proprietario, il cui
mancato esercizio non può, dunque, ridondare in un giudizio di
responsabilità per condotta omissiva o inottemperante ad un obbligo di
diligenza (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, n. 9276/2014; Cons. Stato,
sez. III, sentenza n. 4316/2018, sez. V, sentenza n. 4504/2015; sez. III,
sentenza n. 2518/2010; sez. V, sentenza n. 1612/2009)” (TAR Calabria, Reggio
Calabria, Sez. I, 11.09.2018 n. 529; TAR Calabria); “Secondo un principio
generale del diritto, riveniente dall'art. 841 c.c., la chiusura del fondo
costituisce una mera facoltà del proprietario e, dunque, giammai un suo
obbligo” (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 18.09.2012 n. 954; cfr: TAR
Umbria, Perugia, Sez. I, 27.01.2012 n. 13).
La possibilità di addivenire all’imposizione della recinzione potrebbe al
limite ipotizzarsi in situazioni peculiari, e comunque sulla scorta di una
specifica e ponderata valutazione, da parte dell’amministrazione procedente,
svolta alla luce dei canoni della proporzionalità e ragionevolezza, del
tutto assente negli atti qui gravati: “D’altronde, se anche si dovesse
ravvisare un fondamento normativo all'obbligo di recinzione, resterebbe
comunque da considerare che un obbligo di condotta di tal genere andrebbe
valutato secondo criteri di ordinaria diligenza e, quindi, di proporzionata
e ragionevole esigibilità, che nella specie non sono neppure astrattamente
invocabili, atteso che -i paventati pericoli per la salute dei residenti,
asseritamente causati dallo stazionamento di automezzi sul terreno-
risultano essere frutto di affermazioni non supportate da alcun effettivo
accertamento” (TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 11.09.2018 n.
529).
1.2. In conseguenza di quanto sopra, peraltro, appare opportuno sottolineare
come l’omessa recinzione del fondo, integrando una condotta del tutto
legittima da parte del proprietario, non possa essere assunta
dall’amministrazione, in sede di adozione dell’ordinanza ex art. 192 D.Lgs.
152/2006, quale indice della colpa del titolare del terreno.
Anche sotto tale profilo, invero, l’opinione giurisprudenziale è
consolidata: “In caso di abbandono di rifiuti in un fondo di proprietà
privata, la colpa del proprietario non può ravvisarsi nel fatto che quest'ultimo
non abbia recintato l'area, posto che la chiusura del fondo costituisce una
mera facoltà del proprietario, ai sensi dell'art. 841 c.c., giammai un
obbligo” (Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.2009 n. 1612; cfr: TAR
Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 19.12.2012 n. 747).
1.3. Le ordinanze oggetto del presente giudizio, nella parte in cui
impongono ai proprietari la recinzione delle aree di loro proprietà,
risultano, per quanto precede, illegittime.
1.4. La fondatezza del rilievo dirimente qui esaminato consente di
assorbire, per ragioni di ordine logico, le ulteriori censure svolte
nell’atto introduttivo del giudizio.
2. Il ricorso risulta dunque fondato e deve essere accolto, con conseguente
annullamento dei provvedimenti impugnati nella parte in cui essi impongono
ai proprietari la chiusura del fondo
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 11.06.2019 n. 986 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai
sensi degli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del
2006, se viene accertata la potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento e cioè a coloro che abbiano in tutto o in parte dato causa
alla contaminazione.
Si è di conseguenza esclusa la responsabilità del proprietario o del
possessore dell'immobile solo perché rivestono tale qualità.
Lo si desume chiaramente:
- dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, che considera il
proprietario, o il titolare di diritti reali o personali di godimento
sull'area inquinata, responsabile in solido con l’autore materiale
dell'abbandono o deposito incontrollati di rifiuti, se vengono meno
colpevolmente ad uno specifico obbligo di diligenza nella prevenzione
dell’inquinamento in quanto prevedibile e prevenibile con l’ordinaria
diligenza;
- dall'art. 311 che detta la definizione della colpa e disciplina
l'azione risarcitoria per danno ambientale e pone quindi in capo al soggetto
tenuto al risarcimento una responsabilità di tipo soggettivo;
- dall’art 245, che prevede la facoltà -non un obbligo- del
proprietario o possessore del suolo di attivare le procedure per gli
interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale e
di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione
degli interventi di bonifica.
- dall’art. 245, comma 2, che dispone: il proprietario o il gestore
dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve […]
attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo
242, le quali, secondo la definizione dell’art. 240 consistono in
“iniziative mirate a contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha
creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come
rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il
profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
- dall’art. art. 244 che pone gli interventi di riparazione, messa
in sicurezza, bonifica e ripristino esclusivamente a carico del responsabile
della contaminazione e solo in subordine li pone a carico dalla p.a.
competente ove il responsabile rimanga ignoto o non vi provveda, né vi
provvedano il proprietario del sito o altro soggetto interessato;
- dall’art. 253, comma 4, secondo il quale le spese sostenute per
effettuare gli interventi necessari potranno essere recuperate, sulla base
di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità
di accertare l'identità del soggetto responsabile o di esercitare utilmente,
nei confronti del medesimo, azioni di rivalsa), a titolo di rivalsa nei
confronti del proprietario, nei limiti del valore di mercato del sito che è
gravato a tal fine di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare
(art. 253, comma 2).
Grava pertanto sul proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, solo la
messa in sicurezza del sito quale misura di prevenzione dei danni che
potrebbero derivare all'ambiente la quale, non avendo finalità sanzionatoria
o ripristinatoria, non presuppone l’imputabilità della contaminazione a
fatto (azione o omissione) e colpa del proprietario.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che ai sensi degli artt. 242, comma
1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica
e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica
amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè
quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un
preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di
mera posizione del proprietario del sito inquinato.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco di Sulmona n. 19 del
14.03.2018, notificata in data 11.04.2018, avente ad oggetto la bonifica
della discarica contaminata in località Santa Lucia nel Comune di Sulmona,
nella parte in cui dispone che le attività di indagine ambientale,
caratterizzazione e rimozione dei rifiuti, bonifica e ripristino del sito
siano poste a carico, tra gli altri, anche della Sig.ra Ce.Gi., in proprio e
nella qualità di legale rappresentante della Te. di Ce.Gi..
...
Con il ricorso in decisione Gi.Ce. chiede l’annullamento dell’ordinanza n.
19 del 14.03.2018 con la quale il Comune di Sulmona ha intimato a lei, quale
legale rappresentante della TE. di Ce.Gi. & C. S.a.s., proprietaria dei
terreni censiti in catasto al Fg. n. 29, part.lle n. 44, 52,312, 313 e 314,
alla S.r.l. L’Am. e a Ma.Do., quali responsabili in solido, di eseguire
indagini ambientali, caratterizzazione e rimozione di rifiuti, nonché la
bonifica del sito industriale dismesso nel quale detti terreni sono compresi
unitamente alla contigua particella n. 45, foglio 29, occupata da discarica
abusiva si proprietà di It.Pa., parimenti intimato.
...
La questione in decisione riguarda l’ordine rivolto alla proprietaria di
un’area contigua ad un suolo occupato da una discarica abusiva “di
eseguire una campagna di indagini ambientali con prelievo di campioni sulla
matrice Terreno superficiale (TopSoli) al fine di evidenziare l’estensione
della contaminazione anche eventualmente fuori del sito, nonché
relativamente alle varie matrici coinvolte; indagine di qualità ambientale
sulle matrici “acqua” e suolo”; caratterizzazione e rimozione rifiuti;
bonifica delle aree interessate e ripristino finale del sito; trasmissione,
entro 15 (quindici) giorni di tutta la documentazione tecnica comprovante
l’avvenuta esecuzione di quanto prescritto.
La ricorrente sostiene di non essere tenuta a tali adempimenti perché altri
sarebbero gli autori dell’inquinamento della particella n. 45 e
dell’eventuale contaminazione delle aree limitrofe comprese nel sito.
...
Gli altri motivi in quanto strettamente connessi possono essere esaminati
congiuntamente.
A tal fine è necessario premettere una sintesi delle disposizioni rilevanti
in materia.
Ai sensi degli articoli 242, comma 1, e 244, comma 2, del d.lgs. n. 152 del
2006, se viene accertata la potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili
dell'inquinamento e cioè a coloro che abbiano in tutto o in parte dato causa
alla contaminazione.
Si è di conseguenza esclusa la responsabilità del proprietario o del
possessore dell'immobile solo perché rivestono tale qualità (Cons. Stato,
sez. V, 30.07.2015, n. 3756).
Lo si desume chiaramente:
- dall’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, che considera il
proprietario, o il titolare di diritti reali o personali di godimento
sull'area inquinata, responsabile in solido con l’autore materiale
dell'abbandono o deposito incontrollati di rifiuti, se vengono meno
colpevolmente ad uno specifico obbligo di diligenza nella prevenzione
dell’inquinamento in quanto prevedibile e prevenibile con l’ordinaria
diligenza (TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, n. 2675/2016; Cons. di Sato – Sez.
IV n. 84/2010; Cass. Sez. Un. n. 4472/2009);
- dall'art. 311 che detta la definizione della colpa e disciplina
l'azione risarcitoria per danno ambientale e pone quindi in capo al soggetto
tenuto al risarcimento una responsabilità di tipo soggettivo;
- dall’art 245, che prevede la facoltà -non un obbligo- del
proprietario o possessore del suolo di attivare le procedure per gli
interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale e
di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione
degli interventi di bonifica.
- dall’art. 245, comma 2, che dispone: il proprietario o il gestore
dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve […]
attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo
242, le quali, secondo la definizione dell’art. 240 consistono in “iniziative
mirate a contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una
minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo
sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
- dall’art. art. 244 che pone gli interventi di riparazione, messa
in sicurezza, bonifica e ripristino esclusivamente a carico del responsabile
della contaminazione e solo in subordine li pone a carico dalla p.a.
competente ove il responsabile rimanga ignoto o non vi provveda, né vi
provvedano il proprietario del sito o altro soggetto interessato;
- dall’art. 253, comma 4, secondo il quale le spese sostenute per
effettuare gli interventi necessari potranno essere recuperate, sulla base
di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l'altro, l'impossibilità
di accertare l'identità del soggetto responsabile o di esercitare utilmente,
nei confronti del medesimo, azioni di rivalsa), a titolo di rivalsa nei
confronti del proprietario, nei limiti del valore di mercato del sito che è
gravato a tal fine di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare
(art. 253, comma 2).
Grava pertanto sul proprietario, ai sensi dell’art. 245, comma 2, solo la
messa in sicurezza del sito quale misura di prevenzione dei danni che
potrebbero derivare all'ambiente la quale, non avendo finalità sanzionatoria
o ripristinatoria, non presuppone l’imputabilità della contaminazione a
fatto (azione o omissione) e colpa del proprietario.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che ai sensi degli artt. 242, comma
1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un
fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica
e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica
amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè
quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un
preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di
mera posizione del proprietario del sito inquinato (Consiglio di Stato sez.
IV, 04/12/2017, n. 5668; Consiglio di Stato sez. V, 08/03/2017, n. 1089; C.
Giust. UE, sez. III, 04.03.2015, C-534/13).
In applicazione dei principi richiamati la ricorrente, in qualità di
proprietaria dell'area, alla quale il provvedimento gravato non imputa la
responsabilità neppure indiretta dell'inquinamento attuale (della particella
n. 45) o potenziale (della parte restante del sito), richiamando invece
quale titolo dell’ordine impartitole l’inclusione dei terreni che le
appartengono nel sito industriale dismesso, sarà, se del caso, responsabile
sul piano patrimoniale e tenuta, ove occorra, al rimborso delle spese
relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del
valore di mercato del sito determinato dopo l'esecuzione di tali interventi,
secondo quanto desumibile dalla disciplina vigente come sopra interpretata.
Ne consegue che l’ordinanza gravata deve essere annullata nella parte in cui
impone alla ricorrente attività del tutto diverse dall’adozione delle misure
di prevenzione che potrebbero esserle legittimamente imposte.
Non hanno infatti natura preventiva la campagna di indagini ambientali con
prelievo di campioni sulla matrice Terreno superficiale (TopSoli) al fine di
evidenziare l’estensione della contaminazione anche eventualmente fuori del
sito, nonché relativamente alle varie matrici coinvolte né l’indagine di
qualità ambientale sulle matrici “acqua” e "suolo”, né la
caratterizzazione e rimozione rifiuti e la bonifica delle aree interessate e
ripristino finale del sito imposti dall’ordinanza gravata, il cui obbligo di
facere grava in via diretta sui responsabili dell’abbancamento dei
rifiuti e, in via sostitutiva, sull’Amministrazione con rivalsa nei
confronti della ricorrente nei limiti del valore di mercato del suolo.
Infine, proprio perché la ricorrente viene intimata in qualità di
proprietaria, non è tenuta ad alcun adempimento con riferimento alla
particella n. 45 che appartiene al cointeressato It.Pa.,
Tale considerazione assorbe le censure del terzo motivo nella parte in cui
la ricorrente lamenta di non aver potuto allegare, stante l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento concluso con l’adozione
dell’ordinanza, di essere estranea ad ogni coinvolgimento inerente
all’inquinamento della particella n. 45
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 10.06.2019 n. 294 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E’ pacifico che il principio “chi inquina paga” non ammette
forme di responsabilità a prescindere dalla materiale causazione del danno o
del pericolo ambientale.
L’Amministrazione non può imporre, infatti, al proprietario di un’area
contaminata, il quale non sia l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di
provvedere alla bonifica di siffatta area. Orientamento, questo, che la
Corte di Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria,
nello specifico la direttiva n. 2004/35 sulla responsabilità ambientale.
Per la giurisprudenza, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
del d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere, invero, imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai
soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in
tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento
commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione
del proprietario del sito inquinato.
Unica eccezione è costituita dalle (mere) misure di precauzione che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppongono affatto
l’accertamento del dolo o della colpa.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare, dell'ordinanza
sindacale del Comune di Spilimbergo n. 62 del 24.07.2018, per l'esecuzione
di misure di prevenzione ai sensi dell'art. 240 c. 1, lett. i), del d.lgs.
152/2006 presso l'area industriale sita in Spilimbergo “Zona industriale
Cosa”, Fg. 27 mapp. n. 335, nonché in merito alla presunta copertura in
cemento-amianto dell'immobile (doc. 1);
...
La società UB.Le. S.p.A., proprietaria di una serie di immobili ed aree siti
nel Comune di Spilimbergo (PN), Zona Industriale Cosa, contesta la
legittimità, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, del
provvedimento a firma congiunta del Sindaco e del Responsabile del Servizio
Ambiente in epigrafe compiutamente indicato, laddove le è stato ordinato,
quale proprietà dei mappali medesimi e, in particolare, di quelli
interessati dallo stabilimento “ex Sintesi” ove insistono le vasche
dell’impianto di trattamento (cromo e nichel) ancora parzialmente piene di
prodotto, nonché le vasche di raccolta reflui e acque di processo del pari
ancora piene, di provvedere ai sensi artt. 240, 242 e ss. d.lgs. n.
152/2006:
“- entro il termine perentorio di 10 giorni dal ricevimento
della presente, a porre in essere tutte le necessarie misure di prevenzione
finalizzate ad evitare che i materiali liquidi/rifiuti liquidi sopra
indicati alle lett. a) e b) delle premesse della presente ordinanza, possano
costituire potenziale sorgente attiva di contaminazione del suolo, del
sottosuolo e della falda sotterranea: le misure di prevenzione dovranno
consistere nella totale rimozione dei materiali/rifiuti liquidi sopra
indicati e nel loro avvio a recupero/smaltimento nelle forme di legge, ed
altresì nel successivo completo lavaggio e pulizia di tutte le
vasche/cisterne di raccolta degli stessi;
- di effettuare, entro 30 giorni dal ricevimento della presente,
l’analisi di classificazione della copertura dell’immobile indicato in
premessa, e ove risultasse composta da cemento-amianto (eternit), procedere,
nei 30 giorni successivi, ai sensi del D.M 06/09/1994 <Normative e
metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12,
comma 2, della Legge 27.02.1992 n. 257, relativa alla cessazione
dell'impiego dell'amianto>, attraverso ditta specializzata e/o tecnico
qualificato, alla valutazione dello stato di degrado dei materiali contenti
amianto sulla copertura del fabbricato, trasmettendola al Comune; in seguito
alla valutazione dello stato di degrado o conservazione della copertura in
cemento-amianto, effettuare altresì gli interventi di monitoraggio e
controllo periodico o, se necessario, procedere, a seconda dello stato di
degrado della copertura, con uno degli interventi di bonifica previsti dalla
normativa vigente (D.M. 06.09.1994 rimozione, incapsulamento, confinamento)”.
...
Il ricorso merita accoglimento.
Indiscussa, invero, la permanenza dell’interesse alla decisione nel merito
in capo a parte ricorrente, atteso che, da quanto riferito da entrambe le
parti, la medesima avrebbe solo dato avvio ai lavori di rimozione dei
materiali/rifiuti liquidi presenti nel sito e manifestato l’intenzione di
effettuare quelli di bonifica dell’eternit del pari presente nel sito,
sicché –è evidente– il provvedimento gravato non ha, allo stato, ancora
esaurito i propri effetti nei suoi confronti, il Collegio ritiene dirimenti
i primi due motivi di gravame.
In disparte l’effettiva “perplessità” dell’adozione congiunta del
provvedimento gravato da parte dell’organo politico di vertice dell’ente
civico e di quello gestionale competente per materia, il Collegio ritiene,
in effetti, che il provvedimento in questione fuoriesca, per il suo
contenuto e la sua effettiva portata, dallo stretto perimetro delle cd.
misure di prevenzione di cui all’art. 240, c. 1, lett. i), d.lgs. n.
152/2006 e, in particolare, che difetti degli stringenti presupposti
stabiliti per l’emissione dei provvedimenti contingibili ed urgenti di
competenza sindacale, dovendo, per converso, venire declinato secondo la
procedura “ordinaria” di cui all’art. 244 d.lgs. citato, di spettanza
dell’ente cui competono le funzioni amministrative in materia di ambiente.
Decisiva, nei sensi dell’illegittimità dell’ordinanza in questione laddove
emessa nei confronti della ricorrente, è, in ogni caso, la circostanza che
la stessa poggia sulla mera e acritica constatazione della titolarità in
capo alla società Ub.Le. del bene su cui insiste l’inquinamento al quale,
ancorché impropriamente, ha inteso ovviare, senza peritarsi di indagare in
alcun modo se la situazione pregiudizievole per l’ambiente che è stata
riscontrata le sia effettivamente ascrivibile.
E’ pacifico, però, che il principio “chi inquina paga” non ammette
forme di responsabilità a prescindere dalla materiale causazione del danno o
del pericolo ambientale.
L’Amministrazione non può imporre, infatti, al proprietario di un’area
contaminata, il quale non sia l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di
provvedere alla bonifica di siffatta area (ex multis, Cons. Stato,
Sez. V, 21.11.2016, n. 4875). Orientamento, questo, che la Corte di
Giustizia ha ritenuto compatibile con la normativa comunitaria, nello
specifico la direttiva n. 2004/35 sulla responsabilità ambientale (cfr. CGUE,
Sez. III, 04.03.2015, causa C-534/13).
Per la giurisprudenza, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
del d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere, invero, imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai
soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in
tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento
commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione
del proprietario del sito inquinato (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 25.09.2013,
n. 21; Corte di giustizia, sez. III, 04.03.2015, C-534/13).
Unica eccezione è costituita dalle (mere) misure di precauzione, ipotesi che
non ricorre, però, nel caso di specie, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppongono affatto
l’accertamento del dolo o della colpa (Cons. Stato, V, 08.03.2017, n. 1089;
in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509; Cons. Stato,
sez. VI, 15.07.2015, n. 3544).
In definitiva, i motivi scrutinati sono fondati
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 05.06.2019 n. 247 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Laddove
si contesti l’adozione da parte del Sindaco di un provvedimento contingibile e urgente in materia ambientale,
la giurisprudenza ha
opportunamente evidenziato che “la competenza in materia della Provincia
può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti
ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico
riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l’indifferibilità e l’urgenza
di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda
l’art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di
regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve
ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico
e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti (…), allorquando
se ne configurino i relativi presupposti.
L’astratta configurabilità di un tale modus operandi consente, altresì, di
prescindere, in tale fase, dalla previa individuazione del soggetto
responsabile dell’inquinamento, rendendo possibile indirizzare l’ordine di
intervento direttamente al proprietario dell’area inquinata”.
Con riguardo all’ultimo profilo preso in considerazione dalla giurisprudenza, è stato, peraltro, reiteratamente affermato
che “è il solo obbligo di bonifica che non può essere imposto al
proprietario incolpevole, mentre le misure di precauzione ben possono essere
imposte al proprietario dell’area che non sia anche responsabile
dell’inquinamento, dal momento che, non avendo finalità sanzionatoria o
ripristinatoria, prescindono dal requisito del dolo o della colpa” e, nello specifico, che “la messa in sicurezza del sito
costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus
delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e
al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l’accertamento del dolo o della colpa”.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare dell'ordinanza
sindacale del Comune di Spilimbergo n. 64 del 26.07.2018, per l'esecuzione
di misure di prevenzione e per la messa in sicurezza ai sensi dell'art. 240
del d.lgs. 152/2006 all'interno dell'area industriale sita in Spilimbergo “Zona
industriale Cosa”, catastalmente censita L Fg. 27 mapp. N. 382;
...
La società UB.Le. S.p.A., proprietaria di una serie di immobili ed aree siti
nel Comune di Spilimbergo (PN), Zona Industriale Cosa, contesta la
legittimità, invocandone l’annullamento, previa sospensione cautelare, del
provvedimento sindacale in epigrafe compiutamente indicato, con cui le è
stato ordinato, quale proprietà del mappale 382 Fg. 27 ove insiste uno
sversamento di una sostanza riconducibile a possibili idrocarburi o oli
minerali, che potrebbe costituire una potenziale fonte di contaminazione (“hot
spot”): “1. di procedere con l’adozione delle opportune misure di
prevenzione e con l’immediata messa in sicurezza dell’hot spot indicato in
premessa, coprendo con un telo impermeabile l’area interessata dallo stesso
al fine evitare che –in caso di pioggia– possano verificarsi fenomeni di
percolamento e diffusione dei contaminanti nel sottosuolo ed in falda;
2. di porre in essere immediatamente tutte le più opportune misure di
sicurezza al fine di confinare la potenziale sorgente di contaminazione
indicata in premessa; tali misure andranno preventivamente condivise con
l’ARPA FVG – Dipartimento di Pordenone;
3. di comunicare al Comune di Spilimbergo, all’ARPA FVG – Dipartimento di
Pordenone, alla Regione FVG, all’AAS n. 5 e alla Procura della Repubblica di
Pordenone, con almeno 12 ore di preavviso, l’inizio delle operazioni di cui
al precedenti punti 1. e 2.”.
...
Il ricorso non ha pregio.
Invero, in disparte ogni considerazione in ordine ai “motivi di carattere
soggettivo” che hanno indotto parte ricorrente a dare medio tempore
esecuzione al provvedimento impugnato, deprivandola, ad avviso del Collegio,
di ogni interesse a contestarne la legittimità, dato, tra l’altro, che non
ha avanzato istanza risarcitoria (o, eventualmente, dichiarato di essere
intenzionata a farlo), il Collegio ritiene che il provvedimento in questione
sfugga, in ogni caso, ai vizi denunciati dalla medesima.
Valgono le seguenti considerazioni.
Il Collegio ritiene, innanzitutto, che la misura minimale di prevenzione
posta a carico della ricorrente (copertura con un telo impermeabile dell’hot
spot) possa pacificamente rientrare tra i provvedimenti contingibili e
urgenti di competenza sindacale (quale deve ritenersi pacificamente essere
quello gravato), essendo insita nel paventato rischio di percolamento e
diffusione dei contaminanti nel sottosuolo e in falda in caso di pioggia la
sussistenza di quei presupposti di straordinarietà e urgenza che ne
legittimano l’adozione.
E’ evidente, infatti, che la potenziale offesa per l’incolumità pubblica si
pone quale diretta (e facilmente prevedibile conseguenza) del danno
all’ambiente provocato dallo sversamento della sostanza ritenuta
riconducibile a possibili idrocarburi o oli minerali.
Lo strumento in questione (che, per quanto si dirà in seguito, deve
ritenersi applicabile pur a fronte di una normativa speciale che si occupa,
di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati) può
essere utilizzato, invero, anche per evitare che un danno si verifichi o che
–come nel caso in esame– si aggravi, prevalendo comunque l’esigenza di dare
tutela all’interesse pubblico esposto a lesione (alla stregua dell’art.
3-quater introdotto nel testo del d.lgs. n. 152/2006 dal d.lgs. n. 4/2008, “nell’ambito
della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da
discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente…devono essere
oggetto di prioritaria considerazione”).
Senza trascurare, peraltro, di rilevare che la misura imposta è andata a
vantaggio della stessa ricorrente, quale proprietaria dell’area, in quanto
le ha consentito di evitare, al contempo, anche il prodursi di ulteriori
danni a suo carico. Il Comune ha rappresentato, infatti, che le analisi sui
campioni dell’hot spot nel frattempo condotte dall’ARPA (vedi nota
ARPA FVG prot. 36589 del 15.10.2018) hanno confermato che trattasi di
rifiuto “classificato come speciale pericoloso classi di pericolosità
HP14 eco-tossico per la presenza di olio minerale (C10-C40) pari a 28000
mg/kg”.
Il Collegio condivide, peraltro, le considerazioni svolte dal Tar Lombardia,
Milano, sez. IV, nella sentenza 08.06.2010, n. 1758, laddove, in un caso in
cui era parimenti contestata l’adozione da parte del Sindaco di un
provvedimento contingibile e urgente in materia ambientale, ha
opportunamente evidenziato che “la competenza in materia della Provincia
può essere considerata come esclusiva soltanto in relazione ai procedimenti
ordinari, visto che la norma attributiva del potere non fa uno specifico
riferimento alle situazioni in cui si ravvisi l’indifferibilità e l’urgenza
di provvedere (per una fattispecie opposta, ossia in cui è prevista
esplicitamente l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti, si veda
l’art. 191 del D.Lgs. n. 152 del 2006).
Di conseguenza, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di
regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve
ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere atipico
e residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti (…), allorquando
se ne configurino i relativi presupposti (cfr. Consiglio di Stato, V,
12.06.2009, n. 3765; II, parere 24.10.2007, n. 2210; TAR Lombardia, Milano,
IV, 16.07.2009, n. 4379).
L’astratta configurabilità di un tale modus operandi consente, altresì, di
prescindere, in tale fase, dalla previa individuazione del soggetto
responsabile dell’inquinamento, rendendo possibile indirizzare l’ordine di
intervento direttamente al proprietario dell’area inquinata (Consiglio di
Stato, V, 07.09.2007, n. 4718; TAR Lombardia, Milano, IV, 16.07.2009, n.
4379)”.
Con riguardo all’ultimo profilo preso in considerazione dalla pronuncia
richiamata, in giurisprudenza, è stato, peraltro, reiteratamente affermato
che “è il solo obbligo di bonifica che non può essere imposto al
proprietario incolpevole, mentre le misure di precauzione ben possono essere
imposte al proprietario dell’area che non sia anche responsabile
dell’inquinamento, dal momento che, non avendo finalità sanzionatoria o
ripristinatoria, prescindono dal requisito del dolo o della colpa” (TAR
Friuli Venezia Giulia, sent. n. 34/2018; Cons. Stato, V, sent. n. 1089/2017; Cons. Stato, V, sent. n. 1509/2016 e Cons. Stato, VI, sent. n. 3544/2015; TAR
Lombardia–Milano, sent. n. 1914/2015; n. 1915/2015, n. 927/2016 e n.
928/2016) e, nello specifico, che “la messa in sicurezza del sito
costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus
delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e
al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l’accertamento del dolo o della colpa” (Cons. Stato, V, 08.03.2017, n.
1089; in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509; Cons.
Stato, sez. VI, 15.07.2015, n. 3544).
Nel caso di specie, è, peraltro, evidente che il Comune ha dato motivata
evidenza del pericolo per l’incolumità pubblica dotato del carattere di
eccezionalità tale da rendere indispensabili interventi immediati e
indilazionabili di precauzione, consistenti nell’imposizione del su
descritto obbligo di copertura dell’hot spot a carico del privato
proprietario per evitare ulteriore contaminazione ambientale, assolvendo
puntualmente alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti
legittimanti il ricorso al potere extra ordinem eccezionalmente
esercitato.
Il Comune non ha, inoltre, in alcun modo travalicato i limiti del detto
potere e/o posto in essere un provvedimento sviato nella causa. L’ordinanza
emessa, che –si rammenta– non impone assolutamente la rimozione dello
sversamento inquinante (con asportazione del terreno compromesso) e/o la
bonifica del sito, ma solo l’adozione di una misura minimale preordinata al
suo “contenimento”, appare, infatti, anche assolutamente
proporzionata all’esigenza indilazionabile di tutela perseguita e tale da
non imporre un onere irragionevole al proprietario incolpevole.
E’ evidente, infine, che trattasi di misura di prevenzione incompatibile con
il rispetto dei tempi di interlocuzione con il soggetto destinatario, tale
da rendere sicuramente recessive anche eventuali garanzie di coinvolgimento
procedimentale in ragione del valore del bene protetto (tutela ambientale) e
delle sottese esigenze di tutela dell’incolumità pubblica.
Sulla scorta delle considerazioni sin qui svolte vanno, in definitiva,
respinte tutte le doglianze svolte dalla ricorrente, in quanto infondate
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 05.06.2019 n. 246 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
maggio 2019 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Illecito trasporto di rifiuti effettuato con il
mezzo del coniuge - Confisca obbligatoria del mezzo -
Proprietario del mezzo terzo estraneo - Onere di provare la
buona fede - Non collegabile ad un comportamento negligente
- Artt. 183, 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216, 256, 259
d.lgs n. 152/2006.
In tema di illecita gestione dei
rifiuti, al fine di evitare la confisca obbligatoria del
mezzo prevista per il trasporto in assenza di valido titolo
abilitativo dall'art. 259, comma secondo, d.lgs. 152/2006,
incombe al terzo estraneo al reato, individuabile in colui
che non ha partecipato alla commissione dell'illecito ovvero
ai profitti che ne sono derivati, l'onere di provare la sua
buona fede, ovvero che l'uso illecito del mezzo gli era
ignoto e non collegabile ad un suo comportamento negligente.
...
RIFIUTI - Attività di gestione dei rifiuti - Assenza di
valido titolo abilitativo - Natura di reato istantaneo -
Esclusione dell'occasionalità della condotta - Dati
significativi - Effetti della sentenza di condanna - Art.
444 cod. proc. pen..
Il trasporto dei rifiuti rientra tra le
attività di gestione, come espressamente previsto dall'art.
183, lett. n), d.lgs. 152/2006 e la sua effettuazione in
assenza di valido titolo abilitativo configura un'ipotesi di
illecita gestione sanzionata dall'art. 256 d.lgs. 152/2006.
Trattandosi, nel caso dell'art. 256, comma 1, d.lgs.
152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola
condotta integrante una delle ipotesi alternative previste
dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità
della condotta da dati significativi, quali l'ingente
quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività
implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla
preliminare raccolta e cernita dei materiali.
Alla sentenza di condanna per tale reato (o a quella emessa
ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.) consegue, come
stabilito dall'art. 259, ultimo comma, d.lgs. 152/2006, la
confisca obbligatoria del mezzo di trasporto.
...
RIFIUTI - Configurabilità del reato di gestione abusiva di
rifiuti - Concreta attività posta in essere in assenza dei
prescritti titoli abilitativi - Non occasionalità della
condotta - Indicazione di alcuni elementi significativi non
esaustivi - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato
di gestione abusiva di rifiuti, (art. 256, d.lgs. 152/2006)
non rileva la qualifica soggettiva dell'agente, bensì la
concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti
titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o
in modo secondario, purché non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità, da escludersi in ragione
dell'esistenza di una minima organizzazione dell'attività,
del quantitativo dei rifiuti gestiti, della predisposizione
di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, dello
svolgimento in più occasioni delle operazioni preliminari di
raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, della
successiva vendita e del fine di profitto perseguito
dall'imputato.
Agli elementi significativi, indicativi lo svolgimento di
un'attività implicante un "minimum" di organizzazione
necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei
materiali, per individuare la natura non occasionale
dell'attività di trasporto, vanno considerati, anche
alternativamente, altri elementi univocamente sintomatici,
quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una
determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che
effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei
rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del
rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività
preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita,
deposito (Sez. 3,
n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
Tuttavia, l'indicazione dei dati
significativi della non occasionalità della condotta
precedentemente elencati non sono, ovviamente, esaustivi,
ben potendo il giudice far ricorso ad altri elementi
obiettivamente significativi in relazione al caso concreto.
...
RIFIUTI - Confisca dei mezzi di trasporto appartenenti ad un
terzo estraneo al reato - Buona fede - Violazione di
obblighi di diligenza - Addebito di negligenza - Terzo
proprietario estraneo al reato - Onere della prova.
In materia di rifiuti, la confisca dei
mezzi di trasporto appartenenti ad un terzo estraneo al
reato non possa essere ordinata, sempre che nei suoi
confronti non sia individuata la violazione di obblighi di
diligenza e che risulti la buona fede, intesa quale assenza
di condizioni che rendano probabile a suo carico un
qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la
possibilità dell'uso illecito della cosa e senza che
esistano collegamenti, diretti o indiretti, ancorché non
punibili, con la consumazione del reato.
Pertanto, grava sul terzo proprietario estraneo al reato
l'onere di una rigorosa dimostrazione del necessario
presupposto della buona fede, ovvero di non essere stato a
conoscenza dell'uso illecito del mezzo o che tale uso non
era collegabile ad un proprio comportamento negligente, al
fine di ottenere la restituzione del mezzo ed evitare la
confisca, rilevando anche che, in tali casi, la
dimostrazione richiesta la terzo proprietario non configura
un'ipotesi di inversione di onere della prova che la legge
penale non consente, poiché non riguarda l'accertamento
della responsabilità penale
(Sez. III n. 22026 del 29/04/2010, Grisetti; Conformi, Sez.
3, n. 46012 del 04/11/2008, Castellano; Sez. 3, n. 26529 del
20/05/2008, Torre; Sez. 3, n. 33281 del 24/06/2004, Datola) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2019 n. 23818 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono in modo incontrollato dei rifiuti -
Associazione dilettantistica senza scopo di lucro -
Associazione di tiro a volo - Nozione di Ente - Condotta di
abbandono - Illecita gestione - Attività di smaltimento
mediante combustione - Condotta sanzionata riferibile a
chiunque - In assenza di titolo abilitativo - Assoluta
occasionalità - Differenza tra artt. 256, comma 2 e 256,
comma 1, lett. b), d.lgs. 152/2006 n. 152/2006.
Si configurano i reati di cui agli artt.
256, comma 2 e 256, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152/2006,
nei confronti del presidente di un'associazione di tiro a
volo, per abbandono in modo incontrollato dei rifiuti nelle
aree dove viene svolta l'attività di tiro ed in quelle
limitrofe, quali piattelli rotti, borre, bossoli di cartucce
vuote e pallini in piombo ed, inoltre, nella fattispecie,
per aver illecitamente smaltito mediante combustione parte
di tali rifiuti.
Pertanto, nella nozione di enti cui fa riferimento l'art.
256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006 rientrano anche le
associazioni ed integra il reato sanzionato da tale
disposizione l'abbandono, da parte del rappresentante di
un'associazione sportiva dilettantistica di tiro al volo dei
rifiuti derivanti da tale attività. Tali considerazioni
valgono esclusivamente per la condotta di abbandono, mentre
per ciò che attiene all'illecita gestione, pure contestata
per lo smaltimento mediante combustione, ciò che rileva è la
mera mancanza di titolo abilitativo, atteso che, riguardo al
reato di cui all'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, si è
chiarito come la condotta in esso sanzionata sia riferibile
a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo
abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili
ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216
del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o
consequenziale all'esercizio di una attività primaria
diversa, che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli
abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità
(Sez. 3, n. 29992 del 24/6/2014, P.M. in proc. Lazzaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2019 n. 23794 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente
– Rifiuti – Bonifica – Ordinanza diretta ai proprietari dell’area inquinata
– In mancanza di apposita e preventiva istruttoria diretta a verificare
l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo ai proprietari,
dell’abbandono dei rifiuti – Illegittimità.
E’ illegittima una ordinanza sindacale, adottata ai
sensi del comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006, con la quale è
stato ingiunto alla società ANAS spa di bonificare un’area destinata a
intersezione tra due strade statali, da rifiuti abbandonati da ignoti,
mediante rimozione ed avvio a smaltimento degli stessi, ove risulti che
l’Amministrazione comunale non abbia provveduto, attraverso idonea e
preventiva istruttoria, a verificare in contraddittorio l’imputabilità, a
titolo di dolo o di colpa, in capo alla società stessa, dell’abbandono dei
rifiuti sul sito di proprietà e, in particolare, non abbia provveduto ad
inviare preventivamente alla società destinataria dell’ordinanza, la
comunicazione di avvio del procedimento, ex artt. 7 e segg. della legge n.
241 del 1990 e s.m.i. (massima
tratta da www.lexitalia.it).
---------------
L’ANAS, odierna appellante, ha impugnato dinanzi alla Seconda Sezione del
Tar Palermo il provvedimento con il quale il Comune di Corleone le ha
ingiunto di rimuovere e smaltire i rifiuti abbandonati ad opera d’ignoti
presso l’intersezione tra la S.S. 118, km 31.400 con la dismessa S.S. 118
che conduce verso la Contrada S. Gandolfo.
...
L’appello è fondato e va accolto.
E’ anzitutto fondato il motivo con cui si lamenta la violazione dell’art. 7
l. n. 241/1990.
Il comma 3 dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 stabilisce infatti che
chiunque viola i divieti di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti
sul suolo e nel suolo “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a
titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al
controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate.”
La norma quindi impone una verifica in contraddittorio e l’assenza di essa
il rende il provvedimento impugnato in primo grado illegittimo.
Correttamente parte appellante insiste sulla carenza di urgenza che
giustificasse l’omissione del contraddittorio e sottolinea la differenza tra
scambio epistolare e formale comunicazione di avvio del procedimento.
Il procedimento previsto dall’art. 7 citato prevede una dinamica
procedimentale che supporta la verifica in contraddittorio e non la mera
corrispondenza tra enti con competenze diverse.
L’accoglimento di tale censura consente l’assorbimento di tutte le altre.
Per l’effetto, va annullata l’ordinanza sindacale 23.12.2011 n. 150
(CGARS,
sentenza 28.05.2019 n. 497 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito e spandimento rifiuti speciali allo stato
liquido - Liquami zootecnici - Deroga alla disciplina sui
rifiuti - Presupposti e limiti - AGRICOLTURA E ZOOTECNIA -
Attività di fertirrigazione - Elementi idonei ad escludere
l'utilizzazione di letame incompatibile - Quantità, qualità,
tempi e modalità di distribuzione - Onere della prova - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Configura il reato di cui all'art. 256,
comma 2, del Dlgs 152/2006, il deposito sul suolo rifiuti
speciali allo stato liquido quali liquami prodotti da
all'allevamento in assenza di autorizzazione e comunque
fuori dei casi e procedure previste dalle norme in deroga
alla disciplina sui rifiuti.
Sicché, la pratica della "fertirrigazione", idonea a
sottrarre il deposito delle deiezioni animali alla
disciplina sui rifiuti, richiede, in primo luogo,
l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree
interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di
quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di
distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in
secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una
utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione, quali,
ad esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per
caduta a fine ciclo vegetativo
(Cass.. Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi).
Inoltre, tutte le attività idonee a
sottrarre i rifiuti dalla relativa disciplina ordinaria e
dalle correlate ipotesi di reato in quanto integranti
un'eccezione alla regola devono essere dimostrate dalla
parte che vi abbia interesse
(Cass. Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.05.2019 n. 23148 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Il
comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che impone un piano di
caratterizzazione essendo la competenza della Provincia (ndr: fatti salvi i
disposti della legislazione regionale concorrente in materia).
L’art. 244, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006
prescrive che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1,
dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
In base a questa disposizione, emerge che l’ente deputato a curare la
gestione delle attività di bonifica e, dunque, delle attività ad essa
prodromica e strumentali sia la Provincia.
La deduzione, oltre che dal chiaro tenore letterale della norma, è
supportata anche da precedenti del giudice amministrativo che ha avuto modo
di statuire che il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che
impone un piano di caratterizzazione, in quanto “l'art. 244 del D.Lgs. n.
152/2006, al comma 2, [dispone] che "La provincia, ricevuta la comunicazione
di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte a
identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune,
diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" e al comma 3 che
"L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario
del sito ai sensi e per gli effetti dell'art. 253”.
In linea generale, è stato anche osservato come rispetto alle attività
ascrivibili a questa fase la competenza permanga sempre in capo alla
Provincia, anche in quei casi in cui il privato si attivi spontaneamente,
ribadendosi, per quel che qui interessa, la competenza di tale ente locale.
Altresì, “La
facoltà di intervento spontaneo da parte del proprietario nell'ambito del
procedimento di bonifica non elide il dovere della Provincia di attivarsi
per l'individuazione dell'autore dell'inquinamento, attraverso l'apertura
del procedimento previsto dall'art. 244 del D.Lgs. n. 152 del 03.04.2006. Il
compimento da parte dell'amministrazione dell'attività diretta ad accertare
il responsabile è una specifica e doverosa attività che l'ordinamento impone
all'amministrazione, sia a garanzia degli interessi pubblici sottesi al
principio "chi inquina paga", sia a tutela dell'integrità patrimoniale del
proprietario incolpevole, che abbia sostenuto, direttamente o
indirettamente, l'onere economico del ripristino”.
---------------
Anche qualora si volesse, in ipotesi, ritenere sussistente la competenza del
Comune all’adozione dell’atto gravato, permarrebbe il vizio censurato di
incompetenza del soggetto firmatario.
Ed infatti, in ragione del chiaro tenore letterale dell’art. 192 T.U., anche
a volere riportare nell’alveo di questa norma i poteri espressi nel caso in
esame, dovrebbe statuirsi la competenza del Sindaco in luogo del Dirigente
comunale, con analoga statuizione di incompetenza.
Sul punto, può ricordarsi quanto statuito di recente dal Consiglio di Stato:
“Il Responsabile dell'ufficio tecnico comunale è competente ad adottare
nei confronti di A.N.A.S. un'ingiunzione alla rimozione dei rifiuti
abbandonati. Il medesimo Responsabile è invece incompetente ad adottare un
ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito,
trattandosi di adempimenti che vanno oltre la gestione e pulizia delle
strade, e sono strettamente espressione di un rimedio sanzionatorio per la
violazione del divieto dei abbandono dei rifiuti, rientrante nell'ambito di
operatività dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 3 dell'art.
192 enuclea, infatti, tale competenza in capo al Sindaco”.
Analogamente, il medesimo autorevole consesso ha ricordato che “In
materia di competenza ad emanare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti, se
del Sindaco o del Dirigente, si sono succedute nel tempo diverse normative:
il D.Lgs. n. 22/1997, art. 14; il D.Lgs. n. 267/2000, art. 107, comma 5; il
D.Lgs. n. 152/2006, art. 192, comma 3, la prima e l'ultima delle quali
attribuiscono la competenza al Sindaco. Va ritenuto competente il sindaco ad
emanare le ordinanze in materia, ex art. 14 D.Lgs. 05.02.1997, n. 22
(decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152 (Codice ambientale), che ha ribadito tale competenza”.
---------------
... per l'annullamento, dell’ordinanza prot. n. 88/07, del 27.07.2007, del
Comune di Angri, avente ad oggetto la presentazione di un progetto rimozione
e trasporto di rifiuti in discarica;
...
Con ordinanza n. 88 del 27.07.2007, il Comune intimato ordinava alla società
ricorrente e ai sigg. Ca.Ch. e An.Br. di provvedere alla presentazione di un
progetto per la caratterizzazione, rimozione e trasporto presso una
discarica autorizzata dei rifiuti collocati illecitamente in un’area ubicata
in Angri, località Campia, nonché alla relativa bonifica ambientale del
sito.
Il provvedimento emanato scaturiva da una serie di atti istruttori e
sopralluoghi compiuti dalla locale stazione dei Carabinieri e dall’ufficio
ambiente dell’ente locale, indicati nelle premesse dell’ordinanza comunale.
Nel provvedimento emanato si dava espressamente conto che gli autori del
presunto illecito ambientale erano i sigg. Ca.Ch. e An.Br., mentre si
indicava l’area interessata come “espropriata dalla società ANAS”.
...
Il motivo è fondato.
E’ doveroso precisare che, contrariamente a quanto sostenuto nella formulata
eccezione, da parte dell’ANAS, il contenuto del provvedimento impugnato non
è propriamente quello indicato dalla deducente società, poiché l’atto
autoritativo si limita ad ordinare non già il compimento delle operazioni su
indicate, ma la mera predisposizione del piano ad esse prodromico, che dovrà
prima essere esaminato ed approvato dagli organi competenti.
Trattasi di un piano volto, sostanzialmente e in estrema sintesi, alla
bonifica dell’area ritenuta contaminata.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale imprecisione non infici, nella
sostanza, la censura elevata dalla società pubblica né muti il quadro
normativo di riferimento, e ritiene, altresì, che la fattispecie concreta,
per come allegata da parte ricorrente, sia disciplinata dalle norme di cui
agli artt. 240 e ss. e si rientri, dunque, nella prima delle due ipotesi
prospettate dalla ricorrente.
Va dunque richiamato l’art. 244, comma 2, D.Lgs. n. 152 del 2006, il quale
prescrive che “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1,
dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo”.
In base a questa disposizione, emerge che l’ente deputato a curare la
gestione delle attività di bonifica e, dunque, delle attività ad essa
prodromica e strumentali sia la Provincia.
La deduzione, oltre che dal chiaro tenore letterale della norma, è
supportata anche da precedenti del giudice amministrativo che ha avuto modo
di statuire che il comune è incompetente all'adozione dell'ordinanza che
impone un piano di caratterizzazione, in quanto “l'art. 244 del D.Lgs. n.
152/2006, al comma 2, [dispone] che "La provincia, ricevuta la comunicazione
di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte a
identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune,
diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale
contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" e al comma 3 che
"L'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario
del sito ai sensi e per gli effetti dell'art. 253” (TAR Veneto Sez. III,
07/05/2015, n. 493; analogamente, TAR Puglia Lecce Sez. I Sent., 21/06/2013,
n. 1465).
In linea generale, è stato anche osservato come rispetto alle attività
ascrivibili a questa fase la competenza permanga sempre in capo alla
Provincia, anche in quei casi in cui il privato si attivi spontaneamente,
ribadendosi, per quel che qui interessa, la competenza di tale ente locale.
Come chiarito dal TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 15/04/2015, n. 940: “La
facoltà di intervento spontaneo da parte del proprietario nell'ambito del
procedimento di bonifica non elide il dovere della Provincia di attivarsi
per l'individuazione dell'autore dell'inquinamento, attraverso l'apertura
del procedimento previsto dall'art. 244 del D.Lgs. n. 152 del 03.04.2006. Il
compimento da parte dell'amministrazione dell'attività diretta ad accertare
il responsabile è una specifica e doverosa attività che l'ordinamento impone
all'amministrazione, sia a garanzia degli interessi pubblici sottesi al
principio "chi inquina paga", sia a tutela dell'integrità patrimoniale del
proprietario incolpevole, che abbia sostenuto, direttamente o
indirettamente, l'onere economico del ripristino”.
I principi, condivisi dal Collegio, sono pienamente attinenti al caso in
esame e di conseguenza conducono all’accoglimento del motivo di gravame.
Per completezza, vale la pena osservare che anche qualora si volesse, in
ipotesi, ritenere sussistente la competenza del Comune all’adozione
dell’atto gravato, permarrebbe il vizio censurato, in ragione di quanto
dedotto dalla società ricorrente.
Ed infatti, in ragione del chiaro tenore letterale dell’art. 192 T.U., anche
a volere riportare nell’alveo di questa norma i poteri espressi nel caso in
esame, dovrebbe statuirsi la competenza del Sindaco in luogo del Dirigente
comunale, con analoga statuizione di incompetenza.
Sul punto, può ricordarsi quanto statuito di recente dal Consiglio di Stato:
“Il Responsabile dell'ufficio tecnico comunale è competente ad adottare
nei confronti di A.N.A.S. un'ingiunzione alla rimozione dei rifiuti
abbandonati. Il medesimo Responsabile è invece incompetente ad adottare un
ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito,
trattandosi di adempimenti che vanno oltre la gestione e pulizia delle
strade, e sono strettamente espressione di un rimedio sanzionatorio per la
violazione del divieto dei abbandono dei rifiuti, rientrante nell'ambito di
operatività dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 3 dell'art.
192 enuclea, infatti, tale competenza in capo al Sindaco (riforma TAR Puglia-Lecce, Sez. I n. 2975/2009)” (Cons. Stato Sez. V, 14/03/2019, n. 1684).
Analogamente, il medesimo autorevole consesso ha ricordato che “In
materia di competenza ad emanare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti, se
del Sindaco o del Dirigente, si sono succedute nel tempo diverse normative:
il D.Lgs. n. 22/1997, art. 14; il D.Lgs. n. 267/2000, art. 107, comma 5; il
D.Lgs. n. 152/2006, art. 192, comma 3, la prima e l'ultima delle quali
attribuiscono la competenza al Sindaco. Va ritenuto competente il sindaco ad
emanare le ordinanze in materia, ex art. 14 D.Lgs. 05.02.1997, n. 22
(decreto Ronchi), anche successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267 (TUEL) e fino all'entrata in vigore del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152 (Codice ambientale), che ha ribadito tale competenza”
(Consiglio di Stato Sez. V, 06/09/2017, n. 4230).
In definitiva, il motivo di ricorso va accolto e va pronunciato
l’annullamento del provvedimento, limitatamente alla posizione della
ricorrente ANAS s.p.a.
L’accoglimento del motivo di ricorso per incompetenza determina
l’assorbimento di tutte le altre censure articolate nel ricorso introduttivo
del giudizio, per le ragioni compiutamente ed esaustivamente esposte nella
sentenza n. 5 del 2015 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, dai
cui principi questo Collegio non ha ragione di discostarsi
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.05.2019 n. 830 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Reato di deposito incontrollato di rifiuti non
pericolosi - Configurabilità nei confronti di qualsiasi
soggetto - Responsabilità - Qualifica formale dell'agente o
della natura dell'attività economica - Ininfluenza - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Il reato di deposito incontrollato di
rifiuti non pericolosi, di cui all'art. 256, comma 2, D.Lvo
n. 152/2006, è configurabile nei confronti di qualsiasi
soggetto che abbandoni rifiuti nell'esercizio, anche di
fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla
qualifica formale dell'agente o della natura dell'attività
medesima (Sez. 3,
n. 56275 del 24/10/2017, Marcolini), e nei
confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti
nell'esercizio di una attività economica di qualunque
natura, non essendo circoscritto ai soli titolari di imprese
che svolgono le attività di gestione di rifiuti di cui al
comma primo dell'art. 256, D.Lvo n. 152/2006
(Sez. 3, n. 19969 del 14/12/2016, dep. 2017, Boldrin, Rv.
269768; Sez. 3, n. 30133 del 05/04/2017, Saldutti e altro,
Rv. 270323) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2019 n. 22451 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Discarica abusiva - Realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata commessi da terzi - Responsabilità
del proprietario del terreno - Configurabilità in forma
omissiva - Esclusione - Produttori e detentori dei rifiuti -
Presenza di un obbligo giuridico - Limiti - Artt. 192, 256
d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il proprietario
di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di
realizzazione e gestione di discarica non autorizzata
commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per
la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità
sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di
impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Pertanto, non è configurabile in forma omissiva il reato di
gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti
del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo
di controllo può ravvisarsi in carico del proprietario
medesimo, mentre gli obblighi di corretta gestione e
smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei
produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi.
...
RIFIUTI - Smaltimento dei rifiuti - Centro di raccolta -
Violazione di sigilli - Principio del cui prodest ed
altri elementi di fatto di sicuro valore indiziante - Art.
349 cod. pen. - Giurisprudenza.
In caso di violazione di sigilli, punita
dall'art. 349 cod. pen., risponde della stessa il titolare
dell'impresa individuale di smaltimento dei rifiuti, al cui
centro di raccolta i sigilli risultavano apposti, sulla base
del principio del cui prodest, atteso che deve presumersi
che la prosecuzione dell'attività non possa che essere
riferita al titolare della stessa, in assenza della prova
della estraneità del medesimo alla attività illecita. In
generale, comunque, è stata ritenuta non censurabile, in
sede di legittimità, la sentenza del giudice di appello che
fondi il giudizio di colpevolezza sul principio del cui
prodest, qualora esso sia supportato da altri elementi di
fatto di sicuro valore indiziante (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.05.2019 n. 21080 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il proprietario del terreno non risponde dei reati di discarica non
autorizzata commessi da terzi.
Non è configurabile in forma omissiva il reato di
gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario
di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, in
quanto nessun obbligo di controllo può ravvisarsi a carico del proprietario,
mentre gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti
esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi.
Infatti, in materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde,
in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove
compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
---------------
4.2. In ordine al quinto e sesto motivo di censura, parimenti
da affrontare congiuntamente, la sentenza impugnata non ha affatto
contestato il consolidato principio in forza del quale non è configurabile
in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva
nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo
può ravvisarsi in carico del proprietario medesimo, mentre gli obblighi di
corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei
produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi (Sez. 3, n. 49327 del
12/11/2013, Merlet, Rv. 257294).
Infatti, in materia di rifiuti, il proprietario di un terreno non risponde,
in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove
compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 40528 del
10/06/2014, Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 28704 del 05/04/2017, Andrisani
e altro, Rv. 270340; conf. altresì Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella e altro, Rv. 266030, che ha ritenuto corretta la decisione di
merito che aveva condannato il proprietario non per la sua qualità di
possessore dell'area di deposito, ma per avere questi consapevolmente
partecipato all'attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per lo
smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da lavori edili da egli stesso
commissionati).
In specie, ed in coerenza con quanto deciso da questa Corte, la sentenza
impugnata ha invece correttamente dato atto che la responsabilità doveva
ascriversi al fatto che la discarica abusiva venne realizzata dalla La.St.
s.r.l proprio in quell'area nella quale la società divenuta dei Pe. si era
obbligata a provvedere ai lavori di urbanizzazione, sì che era stata invece
prestata fattiva adesione alla condotta dell'esecutrice dei lavori, col
risultato che un'area siffatta era stata invece destinata ad ospitare
materiali di demolizione provenienti anche da altri cantieri, anziché essere
destinati allo smaltimento in impianti autorizzati.
Laddove, a fronte di precisi obblighi, l'area in questione doveva essere
vocata ad area verde ed alle relative attrezzature, e non a discarica
incontrollata (tra l'altro con un, manifesto, innalzamento sul piano
stradale di addirittura tre metri).
Del tutto correttamente quindi la Corte milanese, nel salvaguardare il
principio per il quale il proprietario di per sé non è responsabile della
realizzazione di una discarica nel proprio terreno da parte di terzi, ha
osservato che la fattispecie, e gli obblighi relativi, erano del tutto
differenti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.05.2019 n. 21080). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione non autorizzata di rifiuti - Rilevanza
della "assoluta occasionalità" - Singola condotta
assolutamente occasionale - Valutazione rimessa al giudice
del merito - Art. 256, c. 1, d.lgs. n. 152/2006.
La rilevanza della "assoluta
occasionalità", ai fini dell'esclusione della tipicità
dell'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, deriva non
già da un'arbitraria delimitazione interpretativa della
norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che,
punendo l'attività" di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il
disvalore su un complesso di azioni, che, dunque, non può
coincidere con una singola condotta assolutamente
occasionale. Inoltre, il profilo dell'assoluta occasionalità
della condotta è oggetto precipuo della valutazione di fatto
rimessa al giudice del merito, e dunque questione
essenzialmente probatoria, che, ove congruamente motivata,
non è suscettibile di censura in sede di legittimità.
...
RIFIUTI - Natura della assoluta occasionalità - Limiti di
carattere soggettivo o oggettivo - Soggetto agente (privato,
imprenditore, ecc.) - Ininfluenza - Minimum di
organizzazione - Altri elementi - Giurisprudenza.
L'assoluta occasionalità non può essere
ricavata esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto
agente (privato, imprenditore, ecc.), dovendo, invece,
ritenersi non integrata in presenza di una serie di indici
dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che
escluda la natura solipsistica della condotta.
In particolare, ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, il carattere
non occasionale della condotta di trasporto illecito di
rifiuti può essere desunto da indici sintomatici, quali la
provenienza del rifiuto da un'attività imprenditoriale
esercitata da chi effettua o dispone l'abusiva gestione, la
eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le
caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti
attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita,
deposito (Sez. 3,
n. 36819 del 04/07/2017 - dep. 25/07/2017, Ricevuti; in
senso conforme, Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016 - dep.
29/02/2016, P.M. in proc. Revello, la quale ha escluso l'occasionalità
della condotta atteso che, pur essendo stato effettuato il
trasporto in un'unica occasione, l'ingente quantità di
rifiuti denotava lo svolgimento di un'attività commerciale
implicante un minimum di organizzazione necessaria alla
preliminare raccolta e cernita dei materiali).
Altri elementi indicativi per valutare l'occasionalità
o meno del trasporto possono trarsi dal dato ponderale dei
rifiuti oggetto di gestione, dalla disponibilità di un
veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, dal
fine di profitto perseguito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.05.2019 n. 20467 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Fanghi derivanti dalle deiezioni animali - Natura
di rifiuti pericolosi - Esclusione - Giurisprudenza.
Le deiezioni animali in assenza di altra
specificazione, debbono essere considerate rifiuti non
pericolosi. Nella fattispecie, pertanto, non si integra il
reato di attività di gestione dei rifiuti non autorizzata,
ex art. 256, comma 1, lettera b), e 6, del dlgs n. 152 del
2006, per aver smaltito illecitamente rifiuti sanitari e
fanghi provenienti dalla conduzione di due canili (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2019 n. 19900 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Alla
plenaria la questione se la società incorporante possa essere considerata
responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata.
La IV Sez. del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione
giuridica della possibilità di considerare la società incorporante
responsabile del danno ambientale causato dalla società incorporata.
Alla plenaria la questione se la società incorporante possa essere
considerata responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata.
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Danno ambientale – Responsabilità – Società – Fusione per incorporazione
– Deferimento all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato la questione se una società incorporante, nel regime
anteriore alla modifica del diritto societario, possa essere considerata
responsabile dell’inquinamento posto in essere dall’incorporata ai sensi
dell’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 (e, in seguito, degli artt. 242 ss.
d.lgs. n. 152 del 2006) (1).
---------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la IV Sez. del
Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza plenaria la questione della
possibilità di considerare responsabile l’incorporante per l’inquinamento
ambientale posto in essere dall’incorporata ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n.
22 del 1997, come poi sostituito, in sostanziale continuità normativa, dagli
artt. 242 ss. d.lgs. n. 152 del 2006.
II. – L’originaria ricorrente aveva impugnato una determinazione
dirigenziale del 2015
mediante la quale la stessa era stata diffidata a procedere alla bonifica
delle aree contaminate
da cromo esavalente e da solventi clorurati. Il Tar per il Piemonte
aveva, in primo grado,
respinto il ricorso. Il Consiglio di Stato respingeva, con sentenza non
definitiva, tutte le
censure dell’appellante ad eccezione di una in relazione alla quale, con
l’ordinanza in
commento, ne riteneva necessaria la devoluzione all’Adunanza plenaria.
In particolare, l’appellante rappresentava di non aver mai gestito
direttamente
l’impianto in questione, di non esserne mai stata proprietaria e che la
contaminazione era
imputabile ad altre società che avevano gestito l’impianto.
La società che
aveva gestito il
citato sito fino al 1986 si sarebbe poi estinta nel luglio del 1991, al
momento
dell’incorporazione nella società appellante.
L’appellante ritiene, quindi,
che: il d.lgs. n. 22
del 1997 (cd. decreto Ronchi), il cui art. 17 avrebbe per la prima volta
introdotto
nell’ordinamento l’obbligo di procedere a bonifica in capo al soggetto
responsabile di eventi
di contaminazione, non potrebbe essere applicato ad episodi di inquinamento
verificatisi
anteriormente alla propria vigenza; l’ordine di bonifica non potrebbe essere
a lei diretto in
quanto non avrebbe mai direttamente posto in essere alcuna condotta
inquinante; la società
incorporata dall’appellante non avrebbe trasferito alcuna situazione
soggettiva di obbligo
di fare sia perché la condotta di contaminazione non avrebbe avuto alcun disvalore
giuridico al momento in cui è stata commessa, sia perché la legislazione
vigente ratione
temporis non avrebbe conosciuto l’istituto.
Il collegio ha, quindi, osservato che:
a) secondo un orientamento della giurisprudenza
amministrativa:
a1) le disposizioni vigenti anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs.
n. 22 del 1997 contemplano divieti o doveri, ma non contengono specifici
obblighi di fare del genere di quelli prescritti dall’art. 17 del decreto
Ronchi, che introduce una misura ablatoria personale, la cui adozione crea
in capo al destinatario un obbligo di attivazione, consistente nel porre in
essere determinati atti e comportamenti unitariamente finalizzati al
recupero ambientale dei siti inquinanti;
a2) l’art. 17 del decreto Ronchi non ha carattere meramente procedimentale,
in quanto la disposizione non è destinata a regolare l’attuazione in via
amministrativa, al momento della scoperta dell’inquinamento, dell’obbligo di
risarcimento di cui all’art. 2058 c.c., ma ha carattere pienamente
sostanziale e non è riconducibile a mera species del genus
della responsabilità aquiliana;
a3) in base alla teoria della “continuità normativa”, infatti, ogniqualvolta
al
formale succedersi di previsioni legislative non corrisponda un’effettiva
eliminazione né una radicale modifica della normativa cronologicamente
anteriore, i precetti in questa contenuti, malgrado la legge sopravvenuta
e l’immutazione del veicolo normativo, continuano a sopravvivere
nell’ordinamento giuridico, anche se trasfusi in altri contenenti
legislativi.
In particolare, si ha continuità normativa tra due prescrizioni normative
se la disposizione temporalmente posteriore è diretta alla tutela di beni
giuridici identici rispetto alla precedente;
a4) nel caso di specie, l’applicazione della teoria in esame consente di
riconoscere come esistenti nel patrimonio del dante causa, effetti giuridici
precisati da leggi successive da reputarsi in continuità normativa con le
prescrizioni vigenti prima dell’estinzione del dante causa;
a5) secondo questa ricostruzione, tuttavia, l’art. 2043 c.c. e le altre
ipotesi di
responsabilità speciale previste nel Codice civile non possono ritenersi in
continuità normativa con l’art. 17 in quanto: a differenza dell’art. 2043
c.c.,
l’art. 17 postula sempre l’intermediazione di un procedimento e di un
provvedimento amministrativo; gli artt. 2043 ss. c.c. determinano la
costituzione di un’obbligazione risarcitoria pecuniaria, salvo che sia
accolta una richiesta di risarcimento in forma specifica, mentre l’art. 17 è
costitutivo di un primario obbligo di fare del responsabile
dell’inquinamento e di un sussidiario ed eventuale obbligo di intervento
pubblicistico del Comune e, in via di ulteriore subordine, di un obbligo
di intervento della Regione; l’art. 2043 c.c. richiede la prova del danno
ambientale, mentre per l’art. 17 è sufficiente il mero pericolo di
inquinamento o, nel caso di contaminazione, il superamento dei limiti di
accettabilità stabiliti dal d.m. n. 471 del 1999; diverso è il criterio di
imputazione soggettiva della responsabilità, che nel decreto Ronchi è
sempre oggettivo; diversi sono i legittimati passivi (nel 2043 c.c. il
danneggiante e i suoi successori a titolo universale, mentre nell’art. 17
l’autore diretto dell’inquinamento, in disparte il parallelo onere di
attivazione del proprietario del terreno inquinato ove questi intenda
scongiurare il pregiudizio al regime giuridico del bene immobile
conseguente all’adozione di ordinanze di bonifica); solo l’art. 17
determina all’adozione delle ordinanze la costituzione di un onere reale
sul fondo e la previsione di cause di prelazione, sotto forma di un
privilegio speciale immobiliare e di un privilegio generale mobiliare, del
credito per le spese di bonifica e di messa in sicurezza; l’art. 2043 c.c.
si
pone in rapporto di specialità con l’art. 18 della l. n. 349 del 1986,
mentre
le misure di cui all’art. 17 concorrono con il danno ambientale; di regola
le controversie relative alle due fattispecie sono sottoposte a differenti
giurisdizioni;
a6) da tali differenze, la giurisprudenza ha tratto il principio secondo cui
“un’eventuale applicazione dell'art. 17 ad un soggetto estinto prima del
1997
trasmoderebbe in una non consentita applicazione retroattiva della legge",
giacché "nell'ipotesi in esame non è ravvisabile una remota partecipazione
causale del successore a titolo universale all'eziogenesi dell'evento”. Non
sarebbe nemmeno praticabile l’opzione ermeneutica della trasmissione iure successionis dell’obbligo di provvedere, ostandovi la discontinuità
normativa che separa l’art. 17 dalle norme codicistiche in tema di
responsabilità extracontrattuale;
b) pur condividendosi le argomentazioni della giurisprudenza in ordine alle
differenze ontologiche fra l’art. 17 del decreto Ronchi e gli artt. 2043 ss.
c.c.,
tuttavia, può dubitarsi del fatto che una società che abbia incorporato
un'altra
società (direttamente o tramite incorporazioni intermedie) nel regime
anteriore
alla modifica del diritto societario non possa essere considerata essa
stessa, ai
sensi e per gli effetti dell'applicazione dell'art. 17 del decreto Ronchi
(e, in
seguito, degli artt. 242 e ss. del d.lgs. n. 152 del 2006), soggetto
direttamente
responsabile dell’inquinamento;
b1) la fusione è disciplinata nelle sue conseguenze dall’art. 2504-bis ss. c.c., ai
sensi del quale, nella formulazione in vigore a decorrere dal 2005, la
società che risulta dalla fusione o quella incorporante assume i diritti e
gli
obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i
loro
rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione;
b2) per le fusioni antecedenti all’introduzione della citata disposizione,
la
giurisprudenza riteneva che la fusione per incorporazione determinasse
l’estinzione della società incorporata e il trasferimento dei relativi
diritti
e obblighi in capo all’incorporante, in esito a una vicenda assimilabile a
una successione in universum jus;
b3) nel vigore dell’attuale testo la giurisprudenza qualifica la fusione
come
una vicenda evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico che,
pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo, conserva la propria
identità. Tale ricostruzione del fenomeno non sarebbe applicabile alle
fusioni anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina che avrebbe
carattere innovativo e non interpretativo;
b4) in termini generali la commissione di una condotta contra jus
cristallizza,
in capo all’autore, una correlativa responsabilità giuridica. Nel caso di
specie, quindi, la responsabilità per la compromissione ambientale è
divenuta parte del complessivo patrimonio giuridico della società che ha
causato la contaminazione. “Ciò posto, il Collegio si interroga se tale
responsabilità giuridica per condotte già allora pienamente contra jus,
quale
componente giuridicamente qualificata del complessivo patrimonio della
società
incorporata, ovvero in diversa prospettiva quale effetto giuridico già
interamente
prodottosi, non possa essere anch'essa traslata nel patrimonio della società
incorporante, in virtù della portata generale del fenomeno della successione
a
titolo universale”;
b5) l’art. 17 del decreto Ronchi non ha natura penalistica né afflittiva, ma
mira
a ripristinare il bene ambiente leso, mediante l’imposizione autoritativa e
unilaterale da parte dell’amministrazione di un obbligo di facere in capo
al responsabile al fine di ovviare a un danno ancora attuale;
b6) l’art. 17: si affianca alle ordinarie forme di tutela civile, artt.
2043, 2050 e
2058 c.c., previste in favore dei privati lesi dalla condotta di
inquinamento; plasma un istituto a tutela dell’interesse pubblico alla
preservazione del bene ambiente, attribuendo agli enti esponenziali della
collettività locale la potestà di ordinare al responsabile l’adozione di
condotte tese alla bonifica dell’area. L’ordinamento ha quindi creato, per
tutelare il bene ambiente, uno strumento pubblicistico teso a consentire il
recupero materiale del valore ambiente a cura e spese del responsabile
della contaminazione. La misura, pur differenziandosi dall’art. 2058 c.c.,
sembra svolgere una funzione ripristinatoria-reintegratoria che ne
impedisce l’ascrizione all’ambito del diritto punitivo, che non è
finalizzato a recuperare il bene leso, ma a depauperare la sfera giuridica
del soggetto autore di una condotta contra jus;
c) in conclusione:
c1) l’istituto disciplinato dall’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997 può
trovare
applicazione anche a fenomeni di inquinamento verificatisi prima della
sua entrata in vigore, alla sola condizione che l’evento compromissione
dell’ambiente sia ancora attuale;
c2) il carattere universale della successione in universum jus potrebbe
determinare la responsabilità dell’incorporante se si muovesse dalla
considerazione che, al momento dell’incorporazione, nel patrimonio
della incorporata era già presente la responsabilità per la commissione di
un atto già allora oggettivamente contra jus;
c3) “l'antecedente condotta di inquinamento posta in essere
dall'incorporata, in
quanto già allora anti-giuridica, ha generato in capo ad essa, secondo il
criterio
norma-fatto-effetto, una responsabilità che, a seguito dell'incorporazione,
non
potendo andare dispersa (il principio della conservazione dei valori
giuridici è
immanente nell'ordinamento - cfr. art. 1367 c.c.), non può che essere
confluita,
come posta passiva, nel patrimonio dell'incorporante. In tale ottica,
peraltro, non
si ravviserebbe alcuna applicazione retroattiva dell'art. 17, posto che una
conclusione siffatta si limiterebbe a riconnettere ad un danno ancora
attuale le
conseguenze che il vigente diritto contempla: di tale conseguenze non
potrebbe
che rispondere la società succeduta a titolo universale al soggetto che ebbe
a
causare quel danno”.
III. – Per completezza si segnala quanto segue:
d) con sentenza non definitiva 07.05.2019, n. 2926, la medesima sezione
ha
respinto le altre censure formulate dall’appellante, precisandosi
nell’ordinanza
in rassegna che l’eventuale adesione dell’Adunanza plenaria alla tesi della
responsabilità della società incorporante condurrebbe al definitivo rigetto
dell’appello, mentre l’adesione alla tesi contraria comporterebbe
l’accoglimento
del ricorso in appello e l’annullamento del provvedimento impugnato in primo
grado;
e) nel senso della mancanza di responsabilità della incorporante per fatti
attribuibili all’incorporata si veda Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008,
n. 6055
nitidamente analizzata nella sentenza in rassegna (in Dir. e giur. agr. e
ambiente,
2009, 279, con nota di ROMANELLI; Riv. giur. ambiente, 2009, 365, con nota
di
DE CESARIS), secondo cui, tra l’altro:
- “L'art. 17 d.leg. n. 22/1997 presenta,
rispetto
al plesso normativo composto dagli art. 2043, 2050 e 2058, differenze
talmente
numerose e tanto profonde da non consentire la formulazione di alcun
giudizio di
continuità tra le stesse; ne discende che l'applicazione dell'art. 17 ad un
soggetto estinto
prima del 1997 si risolve in una non consentita applicazione retroattiva
della legge”;
-
“La peculiarità dell'istituto disciplinato dall'art. 17, che non trova
antecedenti diretti
nella previgente disciplina, risiede nella sua natura di misura ablatoria
personale,
consentita in apicibus dall'art. 23 cost., la cui adozione crea in capo al
destinatario un
obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e
comportamenti
unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinati”;
- “Nei
confronti dei
successori di società responsabili degli inquinamenti, estintesi prima del
1997, non è
possibile applicare l'art. 17 d.leg. n. 22/1997; è però possibile far valere
l'ordinaria
responsabilità civilistica di tipo aquiliano e, sul versante amministrativo,
rimangono
comunque adottabili, in base alle regole della c.d. «successione economica»,
i
provvedimenti contingibili e urgenti, ove ne ricorrano i presupposti
stabiliti
dall'ordinamento”;
- “In sede amministrativa il contraddittorio procedimentale
sugli
accertamenti tecnici può svolgersi secondo regole diverse da quelle di cui
all'art. 223
disp. att. c.p.p. e la regola del preventivo avviso, pur configurandosi come
una forte
tutela, non è sempre imposta dall'ordinamento né deve essere necessariamente
osservata, potendo ugualmente assicurarsi una piena dialettica tra
l'amministrazione e
gli interessati seguendo altri schemi procedurali, come quelli previsti
nell'all. 2 d.m.
ambiente 25.10.1999 n. 471 sul prelievo e l'analisi dei campioni”;
f) per un’applicazione della successione fra imprese in materia di
concorrenza si
veda Corte di giustizia CE, 11.12.2007, C-280/06, Autorità garante
concorrenza e mercato c. Ente tabacchi it. (in Foro amm.-Cons. Stato, 2007,
3305, in
Giurisdiz. amm., 2007, III, 1228, in Giust. civ., 2008, I, 549, in Guida al
dir., 2008,
fasc. 1, 92, con nota di DE PASQUALE, e in Rass. avv. Stato, 2008, fasc. 1,
114,
con nota di CHIECO), secondo cui, tra l’altro: “Qualora una condotta
costitutiva
di una stessa infrazione alle regole della concorrenza (art. 81 seg. Ce) sia
stata posta in
essere da una determinata impresa e successivamente proseguita da un altro
ente che ad
essa è succeduto, tale secondo ente può essere sanzionato per l'infrazione
nella sua
interezza, qualora si dimostri che entrambi gli enti sono posti sotto la
tutela della stessa
autorità pubblica; ciò vale anche nel caso in cui il primo ente non abbia
cessato di
esistere”;
g) nel senso che la normativa introdotta dall’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997
si applichi
a qualunque situazione di inquinamento dei suoli in atto al momento
dell’entrata in vigore del decreto legislativo stesso è orientato, Cons.
Stato, sez.
VI, 09.10.2007, n. 5283 (in Ambiente, 2008, 749, con nota di RINALDI);
h) con riferimento al rapporto tra incorporante e incorporata nella
giurisprudenza
di legittimità, si vedano:
h1) per le fusioni anteriori all’introduzione nel Codice civile dell’art.
2504-bis
c.c.:
- Cass. civ., sez. un., 28.12.2007, n. 27183 (in Foro it., 2008,
I, 2920,
con nota di DESIATO; Corriere giur., 2008, 1413, con nota di GODIO),
secondo cui, tra l’altro:
- “La fusione di società mediante incorporazione,
avvenuta prima della riforma del diritto societario di cui al d.leg. 6/2003 e
dell'introduzione dell'art. 2504-bis c.c., realizza una situazione giuridica
corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti,
tra loro
indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale
sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi
facenti capo a
questa, della società incorporante, la quale assume la medesima posizione
processuale della società estinta, con tutte le limitazioni e i divieti ad
essa
inerenti; ne consegue che la stessa non può proporre domande nuove per
l'attribuzione di diritti autonomi e indipendenti dal diritto successorio,
mentre
può far valere i diritti azionati dal dante causa, anche prima della
successione,
ma acquisibili soltanto nel corso del tempo (quali il risarcimento dei danni
derivanti da illecito permanente iniziato prima della fusione, i cui effetti
dannosi
si siano però protratti anche successivamente)”,
- “La fusione di società
mediante
incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario di cui al
d.leg.
n. 6 del 2003 ed all'introduzione dell'art. 2504-bis c.c., realizza una
situazione
giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli
effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e
della
contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e
passivi
facenti capo a questa, della società incorporante, per cui quest'ultima, al
pari di
qualsiasi successore universale, assume la stessa posizione processuale
dell'attore, con tutte le limitazioni ed i divieti ad essa inerenti; ne
consegue che
la stessa non può proporre domande nuove per l'attribuzione di diritti
autonomi
ed indipendenti dal diritto successorio, mentre le si debbono riconoscere i
diritti
fatti valere dal dante causa, anche quelli azionati prima della successione,
ma
acquisibili solo nel corso del tempo; spetta quindi alla società
incorporante il
risarcimento dei danni derivanti da illecito permanente (nella specie
illecita
captazione di acque pubbliche), iniziato prima della fusione i cui effetti
dannosi
si siano però protratti anche successivamente”;
- Cass. civ., sez. I, 16.02.2007, n. 3695 (in Giust. civ., 2008, I, 2261), secondo cui “La fusione per
incorporazione di società realizza una successione a titolo universale
corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro
interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della
contestuale
sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e
passivi, anche
processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di
imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i
soggetti
incorporati, mentre non si verifica alcun mutamento nella titolarità dei
preesistenti rapporti giuridici della incorporante, anche se successivamente
alla
fusione essa abbia mutato la propria denominazione (ciò costituendo mera
modifica dell'atto costitutivo, che non determina l'estinzione dell'ente e
la
nascita di un nuovo e diverso soggetto giuridico); ne consegue la
persistente
validità della procura generale ad lites rilasciata dalla società
incorporante a un
determinato avvocato e l'ammissibilità dell'appello da lui proposto, in
forza di
quella procura, in nome della società incorporante (sia pure con la nuova
denominazione) già presente nel giudizio di primo grado”;
- Cass. civ., sez.
I, 22.06.1999, n. 6298 (in Foro it., 2000, I, 379), secondo cui “La fusione
della
società mediante incorporazione determina automaticamente l'estinzione della
società assoggettata a fusione ed il subingresso della società incorporante
nei
rapporti ad essa relativi, crea una situazione giuridica corrispondente a
quella
della successione universale mortis causa, che, agli effetti processuali,
trova la
propria disciplina nell'art. 300 c.p.c., e provoca l'interruzione del
processo ove il
procuratore della società incorporata abbia fatto la prescritta
comunicazione
dell'evento realizzatosi nel corso del giudizio, dalla quale decorre il
termine
semestrale per la riassunzione del processo; tale principio deve ritenersi
tuttora
in vigore pur a seguito delle sentenze della corte costituzionale n. 139 del
1967 e
159 del 1971, concernenti, come ribadito dalla stessa corte con le
successive
pronunce n. 136 del 1992 e n. 18 del 1999, esclusivamente le ipotesi di
morte,
radiazione o sospensione dall'albo del procuratore (sent. n. 139 del 1967),
e di
morte della parte, ovvero di perdita di capacità della stessa verificatasi
prima della
costituzione in giudizio (sent. n. 159 del 1971), le ipotesi, cioè, in cui
l'interruzione del processo interviene automaticamente all'atto della
realizzazione dell'evento impeditivo e non, invece, le ipotesi di morte, o
perdita
della capacità di una delle parti verificatasi dopo che quest'ultima si sia
costituita
in giudizio, in cui l'interruzione non è automatica, ma interviene solo se
il
procuratore abbia comunicato l'evento, senza che un siffatto sistema
differenziato
si ponga in contrasto con gli art. 3 e 24 cost.”;
h2) per le fusioni successive all’entrate in vigore dell’art. 2504-bis c.c.,
da
intendersi come disposizione che ha dato ingresso ad una vicenda
evolutivo-modificativa dello stesso rapporto giuridico, si veda: Cass. civ.,
sez. VI, 16.05.2017, n. 12119, secondo cui “In tema di fusione per
incorporazione, l'art. 2504-bis c.c., nel testo modificato dal d.leg. n. 6
del 2003,
nel prevedere la prosecuzione dei rapporti giuridici, anche processuali, in
capo al
soggetto unificato quale centro unitario di imputazione di tutti i rapporti
preesistenti, risolve la fusione in una vicenda evolutivo-modificativa dello
stesso
soggetto giuridico, che, pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo,
conserva la propria identità (nella specie, la suprema corte ha cassato la
sentenza
della commissione tributaria regionale, che aveva accolto il ricorso avverso
il
diniego di rateizzazione avanzato da una società incorporante un'altra
società,
già in precedenza decaduta dal detto beneficio)”;
h3) nel senso che l’art. 2504-bis c.c. abbia carattere innovativo e non
interpretativo Cass. civ., sez. I, 26.01.2016, n. 1376 (in Corriere giur.,
2017, 1363, con nota di FANCIARESI), secondo cui, tra l’altro, “In tema di
fusione, l'art. 2504-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto
societario (d.leg.
n. 6 del 2003), ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il
principio,
da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda
meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che
conserva la
propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le
fusioni
(per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova
disciplina (01.01.2004), le quali, pur dando luogo ad un fenomeno
successorio, si diversificano, tuttavia, dalla successione mortis causa
perché la
modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla
volontà delle società partecipanti, sicché quella che viene meno non è
pregiudicata
dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza,
né
alcun pregiudizio subisce la incorporante (o la società risultante dalla
fusione),
che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole,
neppure
applicandosi, a dette fusioni, la disciplina dell'interruzione di cui agli
art. 299 e
seg. c.p.c.”;
h4) sulle conseguenze processuali si vedano anche:
- Cass. civ., sez. un., 17.09.2010, n. 19698 (in Corriere giur., 2010, 1565, con nota di
MELONCELLI, in Foro it., 2011, I, 472, con nota di DALFINO, in Mondo
bancario, 2011, fasc. 1, 53), secondo cui “L'art. 2504-bis c.c., nel testo
introdotto dall'art. 6 d.leg. 17.01.2003 n. 6, secondo cui la fusione
di società
non determina l'estinzione della società fusa, non è una norma di
interpretazione
autentica e non ha, quindi, efficacia retroattiva” e “nella modificazione
dell’organizzazione societaria, invece, il fenomeno è riconducibile alla
volontà del
soggetto e pertanto non sussiste l’esigenza garantistica che giustifica il
verificarsi
dell’effetto interruttivo e del conseguente onere di riassunzione dell’altra
parte.
La società che ‘viene meno’ a seguito della volontaria fusione non è
pregiudicata
dalla continuazione di un processo di cui era perfettamente a conoscenza,
così
come nessun pregiudizio subisce la società incorporante o risultante dalla
fusione, la quale può intervenire nel processo e, comunque, ha il potere di
impugnare la decisione sfavorevole”;
- Cass. civ., sez. un., 14.09.2010,
n. 19509 (in Guida al dir., 2010, fasc. 40, 46, con nota di PIRRUCCIO; Foro
it., 2011, I, 472, con nota di DALFINO; Giur. it., 2011, 1073 (m), con nota
di BERTOLOTTI, e in Giur. comm., 2011, II, 888, con nota di ZORZI),
secondo cui:
- “L'impugnazione notificata presso il procuratore costituito di
una
società che, successivamente alla chiusura della discussione (o alla
scadenza del
termine di deposito delle memorie di replica), si sia estinta per
incorporazione,
deve ritenersi valida se l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento
modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione
di esso
(fattispecie anteriore alla modifica dell'art. 2504-bis c.c. ad opera del d.leg. 17.01.2003 n. 6)”;
- “In tema di fusione per incorporazione, realizzata
prima
dell'entrata in vigore del novellato art. 2504-bis c.c., l'impugnazione è
validamente notificata al procuratore costituito di una società che,
successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine
di
deposito delle memorie di replica) si sia estinta per incorporazione, se
l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento modificatore della capacità
della giuridica mediante la notificazione di esso”;
- “Ai fini
dell'applicazione della
disciplina processuale della notificazione degli atti e dell'interruzione ex
art. 300
c.p.c., la modificazione dell'organizzazione societaria costituisce fenomeno
riconducibile alla volontà del soggetto e pertanto non sussiste l'esigenza
garantistica che giustifica il verificarsi dell'effetto interruttivo e del
conseguente
onere di riassunzione dell'altra parte; la società che «viene meno» a
seguito della
volontaria fusione non è pregiudicata dalla continuazione di un processo di
cui
era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la
società
incorporante o risultante dalla fusione, la quale può intervenire nel
processo e,
comunque, ha il potere di impugnare la decisione sfavorevole”;
h5) sottolinea DALFINO, nota a Cass. civ., sez. un., 17.09.2010, n.
19698 (cit.), che la tesi della natura innovativa della modifica dell’art.
2504-bis, 1° comma, c.c. non è condivisibile, “infatti, già nella vigenza
dell’art.
2504-bis c.c. testo previgente, appariva ragionevole sostenere l’inidoneità
estintiva della fusione societaria e la sua configurabilità, piuttosto,
quale operazione modificativo-evolutiva volta al potenziamento dei soggetti
coinvolti.
A tal proposito, non sembrava decisivo il riferimento letterale alle
«società
estinte», a fronte della reale portata del fenomeno sul piano sostanziale;
sicché,
oggi la norma —che utilizza la diversa formula «società partecipanti alla
fusione», stabilendo che queste proseguono «in tutti i loro rapporti, anche
processuali, anteriori alla fusione»— non fa che confermare quanto era già
possibile dedurre prima del d.leg. 6/2003”.
Con particolare riferimento
all’interruzione, osserva l’A., che, anche prima dell’introduzione dell’art.
2504-bis c.c., la fusione societaria costituiva un atto volontario, come
tale
non riconducibile alla ratio degli artt. 299 ss. c.p.c.;
i) sulla disciplina europea della fusione di società per azioni ai fini
della tutela dei
soci e dei terzi, si veda Corte di giustizia UE, sez. V, 05.03.2015,
C-343/13,
Modelo Continente Hipermercados S A (in Foro it., 2015, IV, 191):
i1) secondo la Corte “L'art. 19, par. 1, terza direttiva 78/855/Cee del
consiglio, del 09.10.1978, basata sull'art. 54, par. 3, lett. g), del trattato e
relativa alle
fusioni delle società per azioni, come modificata dalla direttiva
2009/109/Ce del
parlamento europeo e del consiglio del 16.09.2009, va interpretato
nel
senso che una «fusione mediante incorporazione», ai sensi dell'art. 3, par.
1, di
detta direttiva, comporta la trasmissione, alla società incorporante,
dell'obbligo
di pagare l'ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale
fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società
incorporata
precedentemente alla fusione stessa”;
i2) la Corte aderisce ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 19 della
terza
direttiva 78/855/Cee del consiglio del 09.10.1978, come
successivamente modificata, il quale, se alla lett. a) prescrive che il
trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società
incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo
e passivo della società incorporata alla società incorporante, alla
successiva lett. c) stabilisce che la società incorporata si estingue. La
Corte
ritiene che l’estinzione si porrebbe in contraddizione con la natura stessa
della fusione per incorporazione, la quale consiste nel trasferimento
dell’intero patrimonio della società incorporata alla società incorporante
tramite uno scioglimento senza liquidazione;
i3) il principio espresso nella massima, pertanto, è diretto a garantire la
tutela degli interessi dei soci e dei terzi all’atto della fusione per
incorporazione, dovendosi annoverare fra i terzi anche coloro i quali siano
destinati ad essere qualificati come creditori in data successiva rispetto
alla fusione, ma in base a situazioni sorte in data antecedente;
i4) il principio appare
destinato a rimanere fermo anche a seguito dell’abrogazione della direttiva
78/855, a far data dal 01.07.2011, ad opera della direttiva 2011/35/Ue del
parlamento europeo e del consiglio, del 05.04.2011, relativa alle fusioni
delle società per azioni;
j) sulle modificazioni soggettive delle società (anche ad esito di
fallimento) responsabili di danni ambientali ovvero proprietarie di terreni
e sul regime generale della responsabilità ambientale anche con riferimento
alla successione ereditaria, si vedano:
j1) Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con
nota di D'ORAZIO, in Foro amm., 2017, 1541, e in Riv. giur. ambiente, 2017,
726 (m), con note di VANETTI, FISCHETTI), secondo cui, tra l’altro:
- “La
curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche
quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi
dell'esimente interna di cui al 3° comma dell'art. 192, d.leg. n. 152/2006
(codice dell'ambiente), lasciando abbandonati i rifiuti risultanti
dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata; nella qualità di
detentore dei rifiuti la curatela fallimentare è obbligata a metterli in
sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero”;
- “In
base al diritto comunitario (art. 14, par. 1, dir. 2008/98/Ce), i costi della
gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori
del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti, e questa regola
costituisce un'applicazione del principio «chi inquina paga»; in definitiva,
la detenzione dei rifiuti fa sorgere automaticamente un'obbligazione
«comunitaria» avente un duplice contenuto: (a) il divieto di abbandonare i
rifiuti; (b) l'obbligo di smaltire gli stessi; aggiungasi che, se per
effetto di categorie giuridiche interne, questa obbligazione non fosse
eseguibile, l'effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato; solo
chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del
terreno su cui gli stessi siano collocati, può invocare l'esimente interna
dell'art. 192 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152”;
j2) per una complessiva ricostruzione del sistema, Cass. civ., sez. I, 20.07.2016, n. 14935 (in Foro it., 2017, I, 1406, e in Danno e resp., 2017, 203,
con
nota di TINTINELLI), secondo cui:
- “Proposta dal ministero dell'ambiente e
da un'autorità portuale domanda di ammissione al passivo della procedura di
amministrazione straordinaria di una società ritenuta responsabile
dell'inquinamento di alcune aree, è erronea la decisione di non ammettere il
credito avente a oggetto il rimborso delle spese già erogate dagli istanti
per la
messa in sicurezza e il ripristino dei siti contaminati, ove il giudice di
merito si
sia basato sull'assenza di prova del nesso di causalità tra le attività
produttive
dell'impresa e l'inquinamento riscontrato, non tenendo conto della relazione
dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, né
disponendo
una consulenza tecnica d'ufficio”;
- “Ove una controversia volta al
risarcimento
del danno ambientale sia ancora pendente alla data di entrata in vigore
della l. 06.08.2013 n. 97, mentre è ormai esclusa la risarcibilità per equivalente,
il
giudice può ancora conoscere della domanda, individuando le misure di
riparazione primaria, complementare e compensativa ivi prescritte e, per il
caso
di loro omessa o incompleta esecuzione, determinandone il costo, da rendere
oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti”;
- “La liquidazione del
danno
ambientale per equivalente è ormai esclusa alla data di entrata in vigore
della l.
n. 97 del 2013, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente
alla
data di entrata in vigore della menzionata legge in applicazione del nuovo
testo
dell'art. 311 d.leg. n. 152 del 2006 (come modificato prima dall'art. 5-bis,
1º
comma, lett. b), d.l. n. 135 del 2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97 del 2013),
individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa
e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il
costo, da
rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati”.
Nel caso
di
specie, la società che gestiva un gruppo siderurgico era ritenuta tra i
corresponsabili dell’inquinamento prodotto da acciaierie di Piombino e
dalla ferriera di Servola a Trieste. La società veniva quindi ammessa alla
procedura di amministrazione straordinaria cui faceva seguito la
dichiarazione dello stato di insolvenza.
In relazione alle problematiche
ambientali, facevano valere in sede concorsuale alcune ragioni di credito
sia il Ministero dell’ambiente, sia l’autorità portuale di Trieste.
All’avvio
della procedura di amministrazione straordinaria, come pure nel
momento della richiesta di insinuazione al passivo, il testo che regola il
risarcimento del danno ambientale, art. 311 d.leg. n. 152 del 2006, era
quello risultante dalle modifiche apportate dall’art. 5-bis d.l. n. 135 del
2009, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 166 del 2009.
Con tale
intervento normativo era, in particolare, modificato il secondo comma
della disposizione dove l’alternativa tra ripristino della precedente
situazione e risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello
Stato veniva sostituita da un meccanismo più complesso. Si partiva, cioè,
dall’addossare al responsabile l’obbligo di ripristinare a proprie spese lo
status quo ante, per poi dichiararlo tenuto a adottare le misure di
riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva
2004/35/Ce; infine, soltanto quando gli anzidetti rimedi risultassero in
tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi
dell’art. 2058 c.c. o comunque attuati in modo incompleto o difforme
rispetto a quelli prescritti, il danneggiante sarebbe stato obbligato in via
sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale. In pendenza
dell’esame della domanda di ammissione al passivo, l’art. 311 subiva
un’ulteriore trasformazione, in virtù dell’art. 25 l. n. 97 del 2013.
Nella
rubrica veniva eliminato il riferimento al risarcimento per equivalente
patrimoniale; a sua volta, il secondo comma era totalmente riscritto,
conferendo rilievo primario alle misure di riparazione primaria,
complementare e compensativa e, quindi, attribuendo al ministero
dell’ambiente, in caso di fallimento delle stesse, il compito di determinare
i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta
attuazione e di agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il
pagamento delle somme corrispondenti.
Nel rendere esecutivo lo stato
passivo, il giudicante disattendeva le istanze del ministero con
riferimento al danno ambientale. La successiva opposizione ai sensi
dell’art. 98 della legge fallimentare era respinta in quanto: non risultava
dimostrato che il comportamento dell’impresa poi assoggettata ad
amministrazione straordinaria spiegasse un’effettiva incidenza causale
sul degrado dei siti; con riferimento ai costi degli interventi da
effettuare
in vista del ripristino delle aree, riconoscere i corrispondenti crediti
avrebbe di fatto comportato un risarcimento per equivalente monetario,
non più consentito dalla più recente versione dell’art. 311, ritenuta
applicabile ai giudizi pendenti e non ancora definiti da sentenza passata
in giudicato; l’autorità portuale era in ogni caso carente di legittimazione
attiva rispetto al risarcimento del danno ambientale.
La Corte di
Cassazione, contrariamente, affermava che: rispetto al nesso eziologico,
l’indagine avrebbe dovuto fare i conti con quanto emergeva dalla
relazione tecnica predisposta dall’Istituto superiore per la protezione e la
ricerca ambientale e poteva essere, se del caso, arricchita mediante una
consulenza tecnica d’ufficio; per quel che concerne la legittimazione
attiva, l’art. 311 attribuisce in via esclusiva al ministero dell’ambiente
la
legittimazione a esperire l’azione risarcitoria in materia di danno
all’ambiente, ma, nel caso di specie, si era formato il giudicato
endofallimentare in ordine alla legittimazione dell’Autorità portuale di
Trieste, dal momento che la stessa era stata ammessa al passivo dal
giudice delegato, senza che la relativa statuizione fosse impugnata dal
commissario straordinario.
La Corte invece concorda con il giudice di
merito in ordine all’esclusione del risarcimento per equivalente
pecuniario. I giudici della legittimità si riportano ai precedenti che hanno
sancito l’applicabilità, ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore
della l. n. 97 del 2013, del novellato art. 311 d.leg. n. 152 del 2006;
anche
rispetto alle domande risarcitorie proposte in epoca anteriore, l’unica
condanna pecuniaria del danneggiante potrà riguardare soltanto il costo,
determinato dal giudice, delle misure di riparazione non eseguite;
j3) Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 (in Foro it., 2017, III,
513; Nuovo
dir. amm., 2016, fasc. 4, 23, con nota di BUZZANCA; Riv. giur. ambiente,
2016, 303 (m), con nota di MASCHIETTO VANETTI), secondo cui: “È
legittima l'ordinanza comunale contenente l'obbligo di rimozione dei rifiuti
e di
bonifica rivolto al proprietario del terreno nella sua qualità di erede del
responsabile dell'inquinamento in quanto l'obbligo ripristinatorio, avendo
natura patrimoniale, è trasmissibile agli eredi”; “Fermo che gli obblighi
ripristinatori, avendo natura patrimoniale, sono trasmissibili agli eredi
dell'originario destinatario dell'ordinanza sindacale ex art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22, gli obblighi di bonifica ambientale sorgono in capo non soltanto
al
proprietario dell'area inquinata, e al locatore del medesimo, ma anche di
chiunque
si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli - e per ciò stesso imporgli - di esercitare una funzione di
protezione
e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente (nella
specie
è stata riformata la sentenza di prime cure che escludeva la responsabilità
degli
eredi per essere stato accertato che anche questi né avevano impedito lo
sversamento dei rifiuti sui propri suoli, né avevano provveduto alla
rimozione
degli stessi, omettendo di impedire che l'attività di devastazione delle
aree oggetto
dell'ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni)”;
j4) con specifico riferimento alla bonifica di siti inquinati: Cons. Stato,
sez. V,
14.04.2016, n. 1509, secondo cui, una volta riscontrato un fenomeno di
potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione,
messa in sicurezza d’emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino
ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione
solamente ai soggetti responsabili dell’inquinamento, e cioè ai soggetti
che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato
all’inquinamento da un preciso nesso di causalità; ciò impone un rigoroso
accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento,
nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile
all’effetto consistente nella contaminazione, accertamento che
presuppone un’adeguata istruttoria, non essendo configurabile una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore
dell’immobile in ragione di tale sola qualità; è stato d’altra parte
puntualizzato che, se è vero, per un verso, che l’amministrazione non può
imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta
sull’origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di
recupero e di risanamento —secondo il principio cui si ispira anche la
normativa comunitaria, la quale impone al soggetto che fa correre un
rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione—, per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce
una misura di correzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle
precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al
principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore
del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente e, non avendo
finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l’individuazione dell’eventuale responsabile; Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2016, n. 1301 (in Riv. giur. ambiente, 2016, 298 (m), con nota di
MASCHIETTO, e in Foro amm., 2016, 812), secondo cui l’art. 192 d.leg. 03.04.2006, n. 152, esige che il sindaco dia formale comunicazione di
avvio del procedimento al soggetto destinatario di un’ordinanza di
rimozione rifiuti (e bonifica) e consenta l’instaurazione del
contraddittorio sugli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al
controllo, l’ordinanza emessa in difetto delle predette garanzie
procedimentali è illegittima; Cons. Stato, sez. VI, 16.07.2015, n. 3544
(in Ragiusan, 2016, fasc. 385, 114), secondo cui il proprietario di un’area
inquinata, non responsabile dell’inquinamento, non è tenuto agli oneri di
bonifica per come imposti dalla pubblica amministrazione, non potendo
determinarsi in capo alla società appellante la responsabilità
dell’inquinamento del sito (risalente a molti decenni addietro e
imputabile eziologicamente all’attività inquinante di altri soggetti
giuridici), la stessa società non è tenuta ad eseguire la caratterizzazione
dell’area, secondo le prescrizioni impostele dall’amministrazione all’esito
della conferenza decisoria);
j5) Cons. Stato, sez. II, 18.05.2015, n. 933 (in Foro amm., 2015, 1454);
j6) Cons. Stato, Ad. plen., 13.11.2013, n. 25, e 25.09.2013, n. 21 (in
Giurisdiz. amm., 2013, ant., 53, in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2296, in
Giornale dir. amm., 2014, 365 (m), con nota di SABATO, in Riv. giur.
edilizia, 2013, I, 835, in Riv. amm., 2013, 715, e in Ragiusan, 2014, fasc.
361, 131), secondo cui “Si rimette all'esame della corte di giustizia Ue
la questione pregiudiziale di corretta interpretazione relativa al se i
principi dell'Ue in materia ambientale sanciti dall'art. 191 par. 2 Tfuee
dalla dir. Ce 21.04.2004 n. 35 (art. 1 e 8 n. 3, tredicesimo e
ventiquattresimo considerando) -in particolare, il principio «chi inquina
paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il
principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni
causati all'ambiente- ostino a una normativa nazionale, quale quella
delineata dagli art. 244, 245 e 253 d.leg. 03.04.2006 n. 152, che, in caso
di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il
soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da
quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consente all'autorità
amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza
e di bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento,
prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità
patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi
di bonifica” (per la risposta della Corte di giustizia infra § k2);
j7) Cons. Stato, sez. II, 20.05.2013, n. 263, che -richiesto dal Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, direzione generale
per la tutela del territorio e delle risorse idriche, di esprimere il
proprio
parere sul ricorso straordinario al presidente della repubblica proposto
per l’annullamento del provvedimento del comune di Bagnolo di Po di
rigetto dell’istanza presentata per la revoca parziale e per l’annullamento
dell’ordinanza comunale n. 13 del 05.10.2006 con cui è esteso alla
ricorrente, in luogo del fratello defunto, l’obbligo di ripristino dello
stato
dei luoghi e di rimozione, recupero e smaltimento dei materiali depositati
abusivamente in un’area del citato comune, circa la trasmissibilità
dell’obbligazione- ha espresso l’avviso che «risulta evidente a questa
sezione
che, accettando l’eredità, la ricorrente è subentrata nel patrimonio del
dante
causa, gravato di una passività rappresentata dall’obbligazione di risanare
l’area
trasformata illecitamente in discarica di rifiuti»;
k) nella giurisprudenza europea con riferimento alla responsabilità
ambientale del successore si vedano:
k1) Corte di giustizia UE, 13.07.2017, C-129/16, Túrkevei Tejtermelo Kft
(in
Foro it., 2017, IV, 496, in Urbanistica e appalti, 2017, 815, con nota di
CARRERA; Riv. giur. ambiente, 2017, 489 (m), con nota di MASCHIETTO,;
Riv. giur. edilizia, 2017, I, 1235 (m), con nota di PAGLIAROLI, nonché
oggetto della News US in data 20.07.2017), secondo cui:
- “Le disposizioni
della direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del
danno ambientale, lette alla luce degli art. 191 e 193 Tfue devono essere
interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al
procedimento
principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35,
circostanza
che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa
nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato
generato
l'inquinamento illecito, un'altra categoria di persone solidalmente
responsabili
di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che
occorra
accertare l'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei
proprietari e il
danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principî
generali di diritto dell'Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei
trattati
Ue e Fue e degli atti di diritto derivato dell'Unione”;
- “L'art. 16 direttiva
2004/35/Ce e l'art. 193 Tfue devono essere interpretati nel senso che,
sempre che
la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di
applicazione
della direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella
controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i
proprietari
di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito rispondono in
solido,
con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno ambientale, ma nei loro
confronti
può anche essere inflitta un'ammenda dall'autorità nazionale competente,
purché una normativa siffatta sia idonea a contribuire alla realizzazione
dell'obiettivo di protezione rafforzata e le modalità di determinazione
dell'ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale
obiettivo,
circostanza che spetta al giudice nazionale verificare”;
k2) Corte di giustizia UE, 04.03.2015, C-534/13, Min. ambiente c. Soc. Fipa
Group (in Foro it., 2015, IV, 293; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con
nota di
CARRERA, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33 (m), con note di MASCHIETTO,
POZZO, GAVAGNIN, in Rass. forense, 2015, 138, in Giur. it., 2015, 1480
(m), con note di VIPIANA PERPETUA, VIVANI, in Riv. quadrim. dir.
ambiente, 2015, fasc. 1, 186, con nota di GRASSI, in Riv. giur. edilizia,
2015,
I, 137, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2015, 946, con nota di
ANTONIOLI,
in Nuovo notiziario giur., 2015, 615, con nota di CARDELLA, in Ragiusan,
2016, fasc. 381, 122), secondo cui: “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento
europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale
in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere
interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di
cui
trattasi nel procedimento principale, la quale, nell'ipotesi in cui sia
impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da
quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente
di
imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al
proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è
tenuto soltanto al
rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità
competente nel
limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali
interventi”.
La sentenza in esame ha escluso distonie tra la direttiva
2004/35/Ce e le disposizioni italiane secondo le quali, ove sia impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito od ottenere
da quest’ultimo le misure di riparazione, l’autorità competente non può
imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al
proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale
è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi
effettuati
dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito,
determinato dopo l’esecuzione di tali interventi
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 07.05.2019 n. 2928 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: M.
Ricci,
IL POTERE DI ORDINANZA NELLA GESTIONE DELLE EMERGENZE AMBIENTALI
(maggio 2019 - tratto da www.ambientediritto.it).
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INDICE: 1. L’amministrazione dell’emergenza; 2. Il potere della
pubblica amministrazione di adottare ordinanze contingibili e urgenti; 3. Il
potere di ordinanza della pubblica amministrazione e le emergenze
ambientali; 3.1.1. Il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti in
materia di rifiuti disciplinato dal Codice dell’ambiente; 3.1.2. I poteri di
ordinanza previsti dal TUEL ed esercitabili anche in materia ambientale;
3.1.3. Il potere di ordinanza secondo il modello della protezione civile;
3.1.4. Gli ulteriori poteri di ordinanza per le emergenze ambientali; 4.
Conclusioni. |
aprile 2019 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito incontrollato - Rifiuti speciali non
pericolosi - Fanghi derivanti dalle operazioni di lavaggio
degli ortaggi - Classificazione tra rifiuto e sottoprodotto
- Disciplina eccezionale e derogatoria - Applicabilità -
Onere della prova - Responsabilità del legale rappresentante
committente e del titolare dell'impresa esecutrice - Artt.
184-bis e 256 d.lgs, n. 152/2006.
Configura il reato di cui all'art. 256,
comma 2, d.lgs. n. 152/2006, il deposito incontrollato (di
circa 50 metri cubi) di rifiuti speciali non pericolosi
quali fanghi palabili derivanti dalla pulizia delle vasche
di decantazione delle acque di lavaggio degli ortaggi.
Nella specie, l'escavazione e il deposito sul terreno per
l'essiccamento sono condotte ritenute estranee all'attività
produttiva di lavaggio e confezionamento per la vendita
degli stessi, con conseguente esclusione dell'ipotesi del
sottoprodotto di cui all'art. 184-bis D.Lvo n. 152/2006 ed
applicazione della disciplina derogatoria sui rifiuti.
Inoltre, i ricorrenti non hanno assolto alla prova positiva
della qualificazione degli scarti come sottoprodotto che
grava su di loro poiché si tratta d'ipotesi di esclusione da
responsabilità, fondata su una disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria
(Cass., Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Sacco e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.04.2019 n. 17819 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito temporaneo - Qualificazione del deposito
ex art. 183 T.U.A. - Onere della prova - Produttore rifiuti
- Raggruppamento di rifiuti - Condizioni - Tempi e sicurezze
- Fattispecie: abbandono di rifiuti in modo incontrollato in
un'area di una massa di macerie edili - Artt. 183 e 256
d.lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, l'onere
della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di
liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo,
fissate dall'art. 183 D.lgs. 03.04.2006, n. 152, grava sul
produttore dei rifiuti, in considerazione della natura
eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla
disciplina ordinaria.
Mentre, ricorre la figura del deposito temporaneo solo nel
caso di raggruppamento di rifiuti e del loro deposito
preliminare alla raccolta ai fini dello smaltimento per un
periodo non superiore all'anno o al trimestre (ove superino
il volume di 30 mc), nel luogo in cui gli stessi sono
materialmente prodotti o in altro luogo, al primo
funzionalmente collegato, nella disponibilità del produttore
e dotato dei necessari presidi di sicurezza
(Sez. 3, n. 50129 del 28/06/2018 - dep. 07/11/2018, D.) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 17.04.2019 n. 16716 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Bonifiche rafforzate per impianti che sorgono in contesti
residenziali. Un parere del Consiglio di Stato impone obiettivi parametrati
alla funzione urbanistica.
Per stabilire gli obiettivi di bonifica di un sito non basta capire il suo
concreto utilizzo; occorre anche calarlo nel contesto urbano. Per cui se un
distributore di carburante sorge in un ambito residenziale i parametri
ambientali di bonifica dovrebbero essere più stringenti e rafforzati.
Questo il principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. I- nel
parere 15.04.2019 n. 1156 reso su un ricorso straordinario al
Presidente della repubblica.
In sintesi, i giudici amministrativi, pur riconoscendo che il quadro
legislativo di riferimento è di difficile interpretazione, riferendosi
appunto a una pompa di benzina giungono a ritenere che i principi di
precauzione e azione preventiva impongano di definire gli interventi di
bonifica non solo con riferimento al concreto utilizzo del sito
(produttivo), ma anche con riferimento al contesto urbano in cui il sito si
colloca (residenziale).
Il Dlgs 152/2006 definisce due soglie di verifica per la potenziale
contaminazione di un sito:
●
una parametrata alla destinazione residenziale e verde pubblico/privato;
●
l’altra a quella industriale e commerciale.
Anche gli obiettivi di bonifica di un sito contaminato sono diversificati:
più cautelativi nel primo caso, più tolleranti nel secondo.
Ma le destinazioni urbanistiche sono molto più variegate di quelle definite
dalla normativa ambientale (servizi, terziario, ricettivo) e, in molti casi,
il Piano regolatore generale consente di insediare in un’area diverse
funzioni e destinazioni, introducendo spesso anche il più moderno concetto
di «indifferenziazione funzionale», ossia la possibilità di
diversificare senza particolari limitazioni l’uso degli immobili.
In via estensiva si pone, così, il tema interpretativo di stabilire quali
siano le tabelle ambientali di riferimento e se debba prevalere l’uso
teorico del sito per come previsto nello strumento urbanistico generale,
ovvero quello concreto sancito dai titoli edilizi.
La poca giurisprudenza sul punto (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 25.02.2014 n. 255, che risulta appellata) ha sempre
privilegiato l’uso teorico futuro per parametrare gli obiettivi di bonifica.
Ora il Consiglio di Stato pare andare oltre, stabilendo che debba essere
considerato anche il contesto urbanistico circostante.
Se il caso dei distributori di carburante rappresenta un tema peculiare
(peraltro oggetto di diverse linee guida specifiche), l’argomento in sé
riveste attualità in quanto molti sono i casi di bonifiche di siti
industriali in contesti urbanizzati o con nuove funzioni teoricamente
ammesse.
Tuttavia, la scelta non può essere unicamente basata sul principio di
precauzione e prevenzione, ma deve anche muovere da situazioni oggettive,
quali quella di sostenibilità economica degli interventi di bonifica e della
volontà degli operatori rispetto all’effettivo uso (attuale o futuro) del
sito. Porre obiettivi sempre più cautelativi non sempre equivale ad una
maggior tutela dell’ambiente e della salute.
In assenza di adeguate risorse economiche (private e pubbliche) per la
bonifica, si ottiene un risultato contrario: più siti contaminati e meno
bonificati. Forse allora il vero obiettivo di sostenibilità ambientale
imporrebbe un uso più razionale del territorio che consideri lo stato di
contaminazione come base di partenza per valutare gli scenari di riutilizzo
del sito e del contesto urbano circostante
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019).
----------------
SENTENZA
2. La questione centrale attorno alla quale ruota la soluzione della
controversia in esame si riassume nella domanda se nell'analisi di rischio
di un distributore di carburanti la destinazione d’uso del sito, rispetto
alla quale la normativa vigente differenzia i valori delle concentrazioni
soglia di contaminazione (CSC) da prendere a riferimento, sia quella
prevista nella strumentazione urbanistica o quella effettivamente in atto.
3. Giova premettere che l’art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, al
comma 4, in linea generale, che “Sulla base delle risultanze della
caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio
sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio
(CSR)”, e che, tra gli allegati al titolo V della parte IV, l’allegato 5
-Concentrazione soglia di contaminazione nel suolo, nel sottosuolo e nelle
acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti–
distingue i valori dei composti inorganici (espressi in termini di
concentrazione soglia di contaminazione nel suolo e nel sottosuolo) in
riferimento alla specifica destinazione d'uso dei siti da bonificare (siti
ad uso verde pubblico e privato e residenziale nella colonna “A” e siti ad
uso commerciale e industriale in quella “B”).
4. Sostiene la parte ricorrente che, trattandosi di un impianto distributore
di carburanti non in dismissione, ma ancora in funzione, i valori delle CSC
debbano essere quelli (meno severi) propri dell’uso in atto del sito, inteso
come area di sedime dell’impianto, da considerare in sé come commerciale e
industriale, e non (come invece preteso dall’amministrazione) quelli (più
impegnativi) propri della destinazione d’uso residenziale della zona nella
quale l’impianto ricade, così come definita nello strumento urbanistico.
5. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, cui
deve ascriversi una speciale competenza istituzionale nell’interpretazione e
nell’applicazione della normativa di settore, in particolar modo nel quadro
del (così detto) “codice” dell’ambiente, di cui al più volte citato
d.lgs. n. 152 del 2006, una volta chiarito che non può trovare applicazione
nel caso di specie, ratione temporis, la sopravvenuta disciplina
speciale introdotta con il d.m. 12.02.2015, n. 31 (Regolamento recante
criteri semplificati per la caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica
dei punti vendita carburanti, ai sensi dell'articolo 252, comma 4, del
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152), ha ritenuto “non condivisibile
l'osservazione della parte ricorrente secondo la quale ciò che rileva è la
destinazione effettiva dell'area che, nel caso di specie, è commerciale, in
deroga, quindi, al certificato di destinazione d'uso dell'area (che è di
tipo residenziale)”, con l’ulteriore rilievo per cui “l'appendice V
dei criteri ISPRA richiamata dalla parte ricorrente ... fa esclusivo
riferimento all'utilizzo effettivo del sito, riguardo al modello concettuale
per l'analisi di rischio (ad es. per la valutazione dei bersagli), mentre il
confronto con le CSC di riferimento è relativo al certificato di
destinazione d'uso, come già esposto”.
6. Tra le due tesi che si contendono il campo la Sezione giudica più
convincente quella sostenuta dal competente Ministero e dall’amministrazione
intimata.
Pur a fronte di un dato testuale del decreto legislativo di settore poco
perspicuo (sia nella parte dell’articolato, sia in quella degli allegati), e
non chiarito dai decreti attuativi, né dalla linee guida dell’ISPRA
(inidonee a modificare la norma giuridica in quanto mere regole tecniche),
criteri interpretativi sistematici e finalistici inducono a ritenere
che gli obiettivi di “promozione dei livelli di qualità della vita umana,
da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle
condizioni dell'ambiente e l'utilizzazione accorta e razionale delle risorse
naturali” (art. 2, comma 1,
del decreto legislativo n. 152 del 2006) e “della
precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria
alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina
paga"” (art. 3-ter stesso
decreto) siano più adeguatamente conseguiti e soddisfatti
commisurando gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza e
bonifica dei punti vendita carburanti al livello di tutela ambientale
richiesto, alla stregua della pertinente strumentazione urbanistica, per
l’area a destinazione residenziale all’interno della quale si colloca
l’impianto, piuttosto che al livello (meno protettivo) richiesto ove si
consideri isolatamente l’impianto (e il suo mero sedime), come sito ad uso (fattualmente)
commerciale e industriale.
7. Conclusivamente, il ricorso deve giudicarsi infondato e andrà come tale
respinto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Effluenti di allevamento - Fertirrigazione -
Presupposti - AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Utilizzazione
agronomica - Esistenza effettiva di colture - D.M.
25/02/2016 - Giurisprudenza.
Ai fini della sottrazione delle
deiezioni animali dalla normativa sui rifiuti è necessario
che la loro utilizzazione in agricoltura avvenga nel
rispetto delle condizioni di liceità indicate dal D.M.
07.04.2006 (oggi D.M. 25.02.2016) e della normativa
regionale (Sez. 3,
n. 9104 del 15/01/2008, Manunta).
La pratica della fertirrigazione, inoltre,
prevede l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree
interessate dallo spandimento, nonché l'adeguatezza di
quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e modalità di
distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in
secondo luogo, l'assenza di dati sintomatici di una
utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione
(Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 04.04.2019 n. 14760 - link a www.ambientediritto.it). |
marzo 2019 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono di rifiuti - Obbligo giuridico di
impedire l'evento - Esclusione - Condotta omissiva da parte
del proprietario del terreno - Responsabilità in caso di
inerzia - Presupposti e limiti - Inottemperanza
all'ordinanza di rimozione - Artt. 255 e 256 d.lgs. n.
152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, la semplice inerzia
conseguente all'abbandono da parte di terzi o la
consapevolezza, da parte del proprietario del fondo, di tale
condotta da altri posta in essere, non sono idonee a
configurare il reato e ciò sul presupposto che una condotta
omissiva può dare luogo a ipotesi di responsabilità solo nel
caso in cui ricorrano gli estremi del comma secondo
dell'art. 40 cod. pen., ovvero sussista l'obbligo giuridico
di impedire l'evento.
A tali conclusioni deve pervenirsi anche nel caso in cui il
proprietario del terreno non si attivi per la rimozione dei
rifiuti, in quanto la responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che
questi può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
Inoltre, l'obbligo giuridico di impedire l'evento, non può
certamente essere ravvisato nell'inottemperanza
all'ordinanza di rimozione, provvedimento successivo
all'abbandono, che presuppone, infatti, il previo
accertamento dello stesso e l'inosservanza del quale
configura autonomo reato, sanzionato dall'art. 255, comma 3,
d.lgs. 152/2006 (cfr.
Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018, Pavan).
...
RIFIUTI - Mancata indicazione degli articoli di legge
violati - Irrilevanza - Esercizio del diritto di difesa.
In materia di rifiuti, la mancata
indicazione degli articoli di legge violati è irrilevante
quando il fatto addebitato sia puntualmente e
dettagliatamente esposto, in modo tale che non possa
insorgere alcun equivoco sul pieno esercizio del diritto di
difesa (Sez. 3, n.
5469 del 05/12/2013 (dep. 2014), Russo ed altre prec. conf.)
e, nei ricorsi, la lesione dell'esercizio del
diritto di difesa viene apoditticamente censurata, senza
tuttavia fornire alcuna indicazione concreta (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.03.2019 n. 13606 - link a www.ambientediritto.it). |
febbraio 2019 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gli artt. 242 (“il responsabile dell'inquinamento mette
in opera…”), 244 (co. 4: “Se il responsabile non sia individuabile…”), 250
(“Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano…”),
192 del d.lgs. 152/2006 evidenziano che le misure di bonifica gravano sui
soggetti “ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa”,
per cui l’ordinanza che le impone presuppone necessariamente una valutazione
autonoma dei fatti “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio
con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (art. 192
cit.).
Le indagini degli organi “preposti al controllo” hanno dunque la natura di
atti della fase istruttoria, sulla cui base il titolare del potere di
ordinanza deve formare la sua motivata decisione individuando gli specifici
fatti contestati ed esponendo l’iter logico che sostiene l’attribuzione
della loro responsabilità.
La esplicita volontà di escludere ogni valutazione sulle specifiche
responsabilità di per sé evidenzia la illegittimità dei provvedimenti, i
quali risultano manifestamente carenti della chiara individuazione dei
presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere a
carico dei destinatari
(massima tratta da www.lexambiente.it).
---------------
1 – Con ordinanza del 29.01.2018 il Sindaco del Comune di San Vito Chietino,
“riscontrate le responsabilità di BU.Al. e VE.Co.”, ha ordinato ai
medesimi di provvedere alla “messa in sicurezza del sito”, nonché
alla rimozione “dei rifiuti illecitamente giacenti sui fondi agricoli
oggetto di sequestro” e ciò sulla base di nota del 24.11.2017 della
Stazione Carabinieri Forestali di Lanciano, con cui si comunicava “l’attività
di accertamento ambientale” esperita in data 07.11.2017 su fondi
agricoli di proprietà della Sig.ra Na.El., al cui esito “venivano
deferiti alla competente Procura della Repubblica di Lanciano” i Sigg.ri
Ve. e Bu. “per le rispettive illecite condotte perpetrate, in funzione
alle attività e responsabilità esercitate, in relazione alla
presenza/gestione dei rifiuti in amianto”.
A seguito di contestazioni sollevate dai destinatari, che avevano sostenuto
la illegittimità dell’atto in quanto assumeva che le loro responsabilità
erano state “riscontrate”, il Sindaco ha quindi adottato
provvedimento del 21.02.2018, con il quale ha integrato la precedente
ordinanza includendo i sigg. Pa. e Al. tra i destinatari dell’ordine di
ripristino e precisando che “il riscontro delle responsabilità non
rientra nell’ambito delle competenze sindacali”.
Le due ordinanze sono state impugnate con distinti ricorsi dai sigg. Bu. e
Ve. (nella loro rispettiva qualità di titolare della Ditta omonima e di
Responsabile del Settore assetto del territorio dello stesso Comune di S.
Vito Chietino), Pa. (dipendente del Comune) e Al. (dipendente della Ditta),
che ne hanno dedotto la illegittimità per violazione e/o falsa applicazione
degli artt. 54 d.lgs. 267/2000 e 192 d.lgs. 152/2016, nonché eccesso di
potere per travisamento, falsità dei presupposti e irragionevolezza.
...
3 - Quanto al merito, i ricorsi sono manifestamente fondati.
È infatti del tutto evidente che l’ordinanza impugnata, così come
successivamente rettificata, individua i suoi destinatari sulla base
dell’unica circostanza che gli stessi sono “interessati dal procedimento
penale”. Che non si sia inteso effettuare alcuna valutazione in ordine
alle responsabilità è del resto espressamente precisato nell’atto di
rettifica (“il riscontro delle responsabilità non rientra nell’ambito
delle competenze sindacali”), per cui il provvedimento si è limitato a
prendere atto dei nominativi deferiti all’autorità giudiziaria ingiungendo
ad essi la bonifica dell’area.
Gli artt. 242 (“il responsabile dell'inquinamento mette in opera…”),
244 (co. 4: “Se il responsabile non sia individuabile…”), 250 (“Qualora
i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano…”), 192 del
d.lgs. 152/2006, pur richiamati dall’ordinanza n. 1, al contrario
evidenziano che le misure di bonifica gravano sui soggetti “ai quali tale
violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa”, per cui l’ordinanza
che le impone presuppone necessariamente una valutazione autonoma dei fatti
“in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo” (art. 192 cit.).
Le indagini degli organi “preposti al controllo” hanno dunque la
natura di atti della fase istruttoria, sulla cui base il titolare del potere
di ordinanza deve formare la sua motivata decisione individuando gli
specifici fatti contestati ed esponendo l’iter logico che sostiene
l’attribuzione della loro responsabilità.
La esplicita volontà di escludere ogni valutazione sulle specifiche
responsabilità di per sé evidenzia la illegittimità dei provvedimenti, i
quali risultano manifestamente carenti della chiara individuazione dei
presupposti di fatto e di diritto che giustificano l’esercizio del potere a
carico dei destinatari.
Si trattava infatti di individuare, sulla base dei rapporti dei soggetti
preposti al controllo, lo specifico comportamento illecito addebitabile a
ciascun destinatario, e tale contestazione doveva essere nella fattispecie
particolarmente accurata in considerazione dei diversi ruoli rivestiti dagli
interessati (il titolare della ditta esecutrice, un dipendente della stessa,
un dirigente e un dipendente dello stesso Comune), che imponevano la chiara
indicazione della specifiche condotte imputabili a ciascuno.
L’ordinanza invece si limita alla generica evocazione di un concorso tra i
destinatari “per le rispettive illecite condotte perpetrate, in funzione
delle attività e responsabilità esercitate in relazione alla
presenza/gestione dei rifiuti in amianto”, senza tuttavia chiarire quali
fossero in concreto tali attività e responsabilità e dunque non specificando
le condotte materiali od omissive che hanno concorso a causare la
contaminazione ambientale.
Non risultano in particolare specificate le condotte attribuite ai
dipendenti comunali, non essendo chiarito se si imputano ad essi le
pregresse omissioni dell’Ente (indicate dalla citata nota dei Carabinieri: “il
Comune di San Vito non ha recintato l’area oggetto di illecito abbandono ed
attuato le procedure previste. E’ risultato inadempiente … agli obblighi di
Legge e non ha neanche segnalato il potenziale pericolo, ovvero la presenza
dei tubi in amianto, giacenti sul fondo … il Comune di San Vito Chietino
nonostante il mandato conferito all’impresa Bu. … non ha avvisato/segnalato
del pericolo”) oppure/anche condotte concomitanti o successive alla
frantumazione del materiale inquinante (che non risultano dalla segnalazione
e invece evocate nell’ordinanza n. 1, dove si assume –genericamente- che i
destinatari, “successivamente all’illecito evento … non hanno attuato le
procedure previste…”).
Le suddette carenze non possono essere del resto colmate da argomentazioni
difensive, trattandosi di valutazioni che spettano esclusivamente al
titolare del potere di ordinanza e che quindi devono essere necessariamente
espresse nel provvedimento.
In accoglimento delle predette censure va pertanto disposto l’annullamento
delle impugnate ordinanze, fatto salvo il rinnovato esercizio del potere
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 05.02.2019 n. 27). |
novembre 2018 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di acque reflue
industriali - Individuazione dell'attività di produzione
industriale - Insediamenti di attività artigianali e di
prestazioni di servizi - Caratteristiche di quantità e
qualità delle acque - Fattispecie: lavaggio di capannoni
adibiti all'allevamento di tacchini - Artt. 74, 137 e 256,
2° c. d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento idrico,
rientrano nella nozione di acque reflue industriali definita
dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h),
(come modificato dal D.Lgs. 16.01.2008, n. 4) tutti i tipi
di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive,
in tale accezione dovendosi ricomprendere tutti i reflui che
non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle
attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana,
alla coabitazione ed alla convivenza di persone, né si
configurano come acque meteoriche di dilavamento,
intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in
contatto con sostanze o con materiali
(Sez. 3^, n. 12865 del 05/02/2009, Bonaffini).
Da ciò discende che sono da considerare
scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da
attività di produzione industriale vera e propria, anche
quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività
artigianali e di prestazioni di servizi, quando le
caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da
quelle delle acque domestiche
(Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014 - dep. 23/01/2015, Verbicaro).
Sicché, rientrano nella nozione di acque
reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come
nella specie, dalle operazioni di lavaggio di capannoni
adibiti in forma stabile ad allevamento di animali
(tacchini).
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Stabile sistema di
collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo
con il suolo - Art. 137 d.lgs. n. 152/2006, natura di reato
di pericolo - Episodicità delle immissioni - Ininfluenza -
INQUINAMENTO DEL SUOLO - Potenzialità inquinante
dell'ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo.
Ai fini della sua configurabilità del
reato di cui all'art. 137 d.lgs. n. 152/2006, attesa la sua
natura di reato di pericolo, rileva la semplice esistenza di
uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di
produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie
dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta,
non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema
fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione
di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante
dell'ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo.
Pertanto, non è certo l'episodicità delle immissioni
verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione
(Sez. 3, n. 45634 del 22/10/2015 - dep. 17/11/2015, Mora
Fulgido).
...
RIFIUTI - Attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti -
Reato di deposito incontrollato di rifiuti - Presupposti per
la configurabilità del reato - Possesso di fatto dell'area
ovvero di detenzione qualificata da un sottostante rapporto
negoziale.
Ai fini della configurabilità del reato
di deposito incontrollato di rifiuti, quello che rileva è
l'attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti, dovendosi
considerare tali i materiali ammassati alla rinfusa, senza
autorizzazione alcuna, sull'area di cui l'imputato abbia la
disponibilità, senza che rilevi, in relazione al rapporto
sussistente tra l'imputato e l'area adibita a deposito
incontrollato, allorquando non si proceda a confisca della
stessa, che si tratti di un possesso di fatto ovvero di una
detenzione qualificata da un sottostante rapporto negoziale.
...
DANNO AMBIENTALE - Offensività della condotta in ragione dei
danni ambientali - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Diniego
delle causa di non punibilità - Pluralità dei reati - Reati
ambientali - Art. 131-bis c.p. - Apprezzamento di merito non
sindacabile in sede di legittimità - Fattispecie.
La causa di non punibilità prevista
dall'art. 131-bis c.p., si configura come un apprezzamento
di merito non sindacabile in sede di legittimità se non in
presenza di motivazione incongrua o contraddittoria.
Nella specie, deve escludersi che le plurime ragioni
evidenziate a fondamento del diniego, costituite dalla
natura pericolosa dei rifiuti, dal contemporaneo sversamento
delle acque reflue nel terreno in assenza di autorizzazione
e degli specifici precedenti penali dall'imputato siano
inficiate da qualsivoglia vizio motivazionale, che la stessa
difesa non riesce neppure a configurare.
Con la suddetta motivazione viene infatti dato conto tanto
della offensività della condotta in ragione dei danni
ambientali con essa provocati, quanto dell'abitualità della
condotta del prevenuto sotto il duplice profilo sia
diacronico, avuto riguardo alle precedenti condanne per
reati afferenti anch'essi alla normativa ambientale, sia
sincronico, stante la pluralità dei reati ascrittigli (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51006 - link a www.ambientediritto.it). |
giugno 2018 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006
individua i soggetti destinatari dell’obbligo di rimozione,
recupero e smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’autore
della violazione in solido con il titolare del diritto di
proprietà, al quale la vicenda sia ascrivibile a titolo di
dolo o di colpa, nei limiti dell’esigibilità.
L’art. 192 predetto esclude dunque l’imputazione oggettiva
della responsabilità, ribadendo che sia accertata quantomeno
la colpa, fermo restando che le autorità amministrative
hanno l’onere di ricercare ed individuare il responsabile
dell’inquinamento (artt. 242 e 244 D.L. vo n. 152/2006).
Alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale prevalente,
gli artt. 244, 245 e 253 del D.Lgs. 152/2006 vanno
interpretati nel senso che, in caso di accertata
contaminazione di un sito e di impossibilità di ottenere dal
soggetto responsabile interventi di riparazione, la pubblica
Amministrazione competente non può imporre al proprietario
non responsabile (che ha solo una responsabilità
patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione
degli interventi di bonifica) l’esecuzione delle misure di
sicurezza d’emergenza e di bonifica.
La giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni che,
in caso di rinvenimento di rifiuti lasciati sul fondo altrui
da ignoti, il proprietario non può essere chiamato a
rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l’elemento soggettivo della
responsabilità.
Ne consegue quale corollario:
• l’insufficienza, ai fini degli obblighi di
rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto
reale o di godimento sulle aree interessate dall'abbandono
dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la
sussistenza dell'elemento psicologico;
• la necessità dell'accertamento della
responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti
interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo;
E', pertanto, censurabile l'operato dell'amministrazione ogni
qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e/o in assenza
di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti
interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o
colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari
per imporre l'obbligo di rimozione dei rifiuti;
Nella stessa ottica, si è anche osservato che l'obbligo di
diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la
responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto, ma solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato.
---------------
Evidenziato:
- che il coinvolgimento del ricorrente durante il sopralluogo –compiuto dai Carabinieri del NOE e da personale del Comune
di Brescia l’01/02/2018 ai fini dell’accertamento dei fatti–
induce a ritenere proficuamente avviato il contraddittorio
procedimentale;
- che la dedotta contraddittorietà non pare sussistere, in quanto
l’ordinanza n. 6 è rivolta al ricorrente e al conduttore
(essendo stato esibito un contratto di locazione), mentre la
n. 7 è indirizzata al solo Sig. -OMISSIS-, che non ha
dimostrato la disponibilità del fondo in capo a soggetti
terzi;
Atteso:
- che l’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 individua i soggetti
destinatari dell’obbligo di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’autore della
violazione in solido con il titolare del diritto di
proprietà, al quale la vicenda sia ascrivibile a titolo di
dolo o di colpa, nei limiti dell’esigibilità (TAR
Lombardia Milano, sez. III – 08/03/2018 n. 352);
- che l’art. 192 predetto esclude dunque l’imputazione oggettiva
della responsabilità, ribadendo che sia accertata quantomeno
la colpa, fermo restando che le autorità amministrative
hanno l’onere di ricercare ed individuare il responsabile
dell’inquinamento (artt. 242 e 244 D.L. vo n. 152/2006);
- che, alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale prevalente,
gli artt. 244, 245 e 253 del D.Lgs. 152/2006 vanno
interpretati nel senso che, in caso di accertata
contaminazione di un sito e di impossibilità di ottenere dal
soggetto responsabile interventi di riparazione, la pubblica
Amministrazione competente non può imporre al proprietario
non responsabile (che ha solo una responsabilità
patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione
degli interventi di bonifica) l’esecuzione delle misure di
sicurezza d’emergenza e di bonifica (cfr. TAR Puglia
Lecce, sez. III – 05/03/2018 n. 370, che richiama il proprio
precedente 22/02/2017 n. 325 e la pronuncia del Consiglio di
Stato, adunanza plenaria – 25/09/2013 n. 21);
- che, come sottolineato da TAR Campania Napoli, sez. V –
23/05/2018 n. 3369, “la giurisprudenza ha evidenziato in
numerose occasioni (cfr., ex multis, TAR Campania, Sez.
I, 19.03.2004, n. 3042; Sez. V, 06.10.2008, n. 13004,
10.04.2012, n. 6438, 09.12.2014, n. 1706, 03.02.2015, n. 692,
07.06.2017, n. 3081, 06.02.2018, n. 752; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.01.2003,
n. 168; Sez. V, 26.01.2012, n. 333, 28.09.2015,
n. 4504) che, in caso di rinvenimento di rifiuti lasciati
sul fondo altrui da ignoti, il proprietario non può essere
chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o
deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non
viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo della
responsabilità”;
Considerato:
- che ne consegue quale corollario (cfr. Consiglio di Stato, sez. V
– 09/05/2018 n. 2786):
• l’insufficienza, ai fini degli obblighi di
rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto
reale o di godimento sulle aree interessate dall'abbandono
dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la
sussistenza dell'elemento psicologico;
• la necessità dell'accertamento della
responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti
interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo;
- che i suddetti principi sono stati recepiti nella sentenza di
questa Sezione 09/08/2017 n. 1011;
- che è, pertanto, censurabile l'operato dell'amministrazione ogni
qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e/o in assenza
di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti
interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o
colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari
per imporre l'obbligo di rimozione dei rifiuti;
- che, nella stessa ottica, si è anche osservato che l'obbligo di
diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la
responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto, ma solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV – 15/12/2017 n. 5911);
Rilevato:
- che, con riguardo ai rifiuti rinvenuti sul suolo (in particolare,
veicoli, pneumatici, bi-bags con materiale plastico)
l’amministrazione non ha effettuato un accertamento della
condotta colposa del ricorrente, limitandosi ad addebitare
al medesimo –del tutto genericamente– l’omessa vigilanza
sugli edifici e sui terreni di appartenenza;
- che il Comune non ha addotto né illustrato gli elementi concreti
–anche di tipo presuntivo– che inducono ad affermare una
responsabilità di tipo omissivo;
- che, in senso contrario, il Sig. -OMISSIS- ha prodotto il verbale
della querela presentata ai Carabinieri di Gambara il
07/10/2016, nella quale ha denunciato il suo conduttore
-OMISSIS- in quanto autore dell’occupazione arbitraria di
edifici e pertinenze non contemplate dal contratto di
locazione (nella specie, una porzione di capannone, il
cortile e un ulteriore fabbricato, per 250 mq.);
- che, nella querela, il ricorrente ha dato conto dell’indebito
utilizzo del fondo come deposito di materiali (vecchi
macchinari) e rifiuti di vario genere;
- che, pertanto, l’esponente si era fatto parte diligente
nell’avvertire le autorità della condotta illecita assunta
dal proprio conduttore, oltre ad aver agito in sede
giurisdizionale a causa del mancato pagamento dei canoni di
locazione periodici;
Ritenuto:
- che, in definitiva, il ricorso è fondato sotto il profilo del
deficit istruttorio e motivazionale sull’elemento soggettivo
dell’illecito (dolo o colpa imputabili al proprietario),
limitatamente ai rifiuti speciali e tossico-nocivi
depositati sull’area;
- che, viceversa, il ricorrente (in qualità di proprietario) resta
obbligato ad attivarsi per la messa in sicurezza e/o
rimozione attraverso ditta specializzata della copertura in
eternit del fabbricato di proprietà (in precarie
condizioni), a prescindere dalla concorrente disponibilità
di un terzo;
- che non interferisce su tale obbligo, al riguardo, l’invocato
Piano regionale Amianto sul censimento e sulla mappatura dei
siti coinvolti;
- che egli, altresì, è tenuto a dare attuazione alla prescrizione
che condiziona l’utilizzo dei capannoni ex allevamento
avicolo previo compimento degli indispensabili interventi
volti ad assicurare l’agibilità;
- che, in proposito, è stata emanata un’ordinanza di demolizione
(n. 25 del 07/09/2012) la quale è produttiva di effetti in
quanto impugnata con ricorso straordinario al Capo dello
Stato senza istanza di sospensiva (la causa non è ancora
stata definita);
- che, al momento, l’esecuzione del provvedimento non incontra
ostacolo alcuno;
Evidenziato:
- che, in conclusione, il gravame è parzialmente fondato e merita
accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.06.2018 n. 620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2018 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
Consiglio di stato: per l'end of waste necessarie regole generali.
Le Regioni possono autorizzare esclusivamente il recupero dei rifiuti già a
monte disciplinato da norme comunitarie o statali di settore.
Questo il principio di diritto che si trae dalla
sentenza 28.02.2018
n. 1229 con cui il Consiglio di Stato -Sez. IV- ha chiarito come l'attuale ordinamento
giuridico non attribuisca ad enti regionali, e loro delegati, il potere di
stabilire in via autonoma i criteri per la cessazione della qualifica di
rifiuto (cosiddetto «end of waste») dei residui derivanti da processi
produttivi.
Il contesto normativo. La direttiva 2008/98/Ce prevede che, per essere
riabilitati a veri e propri beni (ossia per aversi il citato end of waste),
i rifiuti devono essere sottoposti a specifiche operazioni di recupero
all'esito delle quali si ottengono materiali che soddisfano le seguenti
condizioni:
- sono sostanze od oggetti comunemente utilizzati per scopi
specifici;
- hanno un mercato/domanda di riferimento;
- rispettano requisiti tecnici e standard di prodotto;
- non hanno impatti negativi per salute e ambiente.
La direttiva sancisce il primato dell'Ue nel declinare mediante regolamenti
i principi su singole categorie di rifiuti, solo in assenza di questi
concedendo agli Stati membri di decidere «caso per caso» tenendo conto della
giurisprudenza applicabile.
Le condizioni generali previste dalla direttiva 2008/98/Ce sono state
riprese dal legislatore nazionale. Questi, mediante l'articolo 184-ter del
dlgs 152/2006 ha stabilito che: in assenza delle suddette specifiche norme
Ue, spetta al ministero dell'ambiente mediante propri decreti adottare «caso
per caso per specifiche tipologie di rifiuto» criteri nazionali end of waste;
fino all'adozione di tali decreti continuano ad applicarsi le storiche
regole sul recupero dei rifiuti in materie prime secondarie («mps») previste
da decreti risalenti agli anni 90 e meno snelle delle prime.
Su tale quadro giuridico, che legittima il solo recupero di residui oggetto
di specifica normativa («end of waste» o «mps» che sia), si è innestata la
lettura estensiva data dal Minambiente con circolare 01.07.2016. Con
tale atto, il dicastero aveva interpretato le norme riconoscendo che, in via
residuale, le regioni (o gli enti da queste individuati) potessero, in sede
di rilascio di autorizzazione, definire propri criteri end of waste previo
riscontro della sussistenza delle condizioni ex articolo 184-ter del dlgs
152/2006 rispetto a rifiuti che non fossero già stati disciplinati dai
regolamenti comunitari o decreti ministeriali.
La pronuncia del Consiglio di stato.
In direzione opposta a tale
interpretazione arriva la sentenza 28.02.2018 n. 1229 del Consiglio di
stato. La pronuncia riconosce infatti come il diritto comunitario individui
esclusivamente lo «Stato», e non suoi enti o organizzazioni interne quale
soggetto titolato all'adozione di criteri end of waste per tipologie di
residui.
E ciò anche per il fatto che la determinazione di tali criteri deve
ragionevolmente avere efficacia sull'intero territorio nazionale dello Stato
membro. Nell'ambito di tale disposizione comunitaria, il Legislatore
nazionale ha (in coerenza con il principio di potestà legislativa esclusiva
dello Stato in materia di ecosistema ex articolo 117 della Costituzione)
attribuito il relativo potere al ministero dell'ambiente.
Ancor più sottilmente, il Consiglio di stato fa emergere come nel conferire
tale potere normativo al dicastero il dlgs 152/2006 abbia precisato che
l'adozione «caso per caso» delle regole end of waste debba essere fatta con
riferimento a «specifiche tipologie» di rifiuti e non in relazione a singoli
casi. Sotto questo profilo la sentenza appare evidenziare una necessità del
legislatore nazionale di affidare la riabilitazione «da rifiuto a bene» a
generali previsioni regolamentari per categorie di rifiuti e non a specifici
provvedimenti autorizzativi localmente rilasciati per attività di recupero
vertenti su singoli residui.
La pronuncia è stata stimolata dal contenzioso
nato proprio intorno a una delibera regionale che non autorizzava un'azienda
a riabilitare a beni tramite un diretto processo di recupero specifici
residui in ragione della mancanza di norme comunitarie e nazionali ad hoc.
Ma la forza della sentenza sembra inevitabilmente portata a travolgere anche
gli eventuali atti degli enti locali in materia di end of waste dal più
ampio respiro di una semplice autorizzazione, che siano veicolati da leggi o
regolamenti (come la recente Dgr Veneto 07.02.2018 n. 120).
I criteri esistenti.
Tacciate di illegittimità le autonome fonti end of waste di carattere locale, ecco quali sono allo stato dell'arte gli attuali
legittimi criteri «eow». In attuazione della direttiva 2008/98/Ce l'Ue ha
previsto criteri end of waste per: rottami di rame (regolamento
715/2013/Ue); rottami di vetro (1179/2012/Ue); rottami ferro, acciaio,
alluminio (333/2011/Ue).
L'unico provvedimento nazionale attuativo dell'art. 184-ter del dlgs
152/2006 è costituito dal dm Ambiente 22/2013 sui combustibili solidi
secondari («Css»). Ulteriori norme nazionali sono previste dal dl 91/2014,
il quale (mediante modifica dell'art. 216, dlgs 152/2006) ha sancito
l'applicabilità del regime autorizzativo semplificato alle operazioni di
recupero svolte secondo le norme Ue. Sempre dal dl 91/2014 è sancito come, in
attesa di regole «eow», sia consentito: il riutilizzo delle materie prime
secondarie ottenute da rifiuti inerti per opere di recupero ambientale,
rilevati, sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali (art.
184-quater, dlgs 152/2006); la gestione come normali beni dei materiali
dragati.
Novità in arrivo.
Sull'assetto della disciplina comunitaria promette di
incidere la nuova direttiva rifiuti prevista dal «Piano d'azione per
l'economia circolare» in corso di approvazione da parte dell'Ue. Lo schema
di provvedimento licenziato il 27.02.2018 dalla commissione ambiente
del parlamento Ue e atteso in plenaria nell'aprile prossimo prevede di
intervenire sull'art. 6 della direttiva 2008/98/Ce conferendo maggior potere
di iniziativa agli Stati membri nello stabile regole end of waste «caso per
caso».
Sul piano nazionale, venerdì il ministero dell'ambiente ha annunciato di
aver trasmesso al Consiglio di stato lo schema di regolamento «end of waste»
sui «Pap» (prodotti assorbenti per la persona) (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.03.2018). |
novembre 2017 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO DI RIFIUTI AD OPERA DI IGNOTI: PROVA PROVENIENZA.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti ad opera di ignoti -
Provenienza certa dei rifiuti da una determinata impresa -
Mancata dimostrazione da parte del titolare di averli
consegnati a terzi autorizzati - Responsabilità per lo
smaltimento illegale - Prova logica - Legittimità
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 110, cod. pen.; art. 192,
c.p.p.
In caso di abbandono e smaltimento
illegale di rifiuti
speciali, legittimamente il Giudice può ricorrere alla
prova logica secondo cui, allorquando sia certa la
provenienza
dei rifiuti (nella specie da un’attività di
autocarrozzeria),
i soggetti titolari dell’impresa, cui siano riferibili i
rifiuti, sono responsabili del loro abbandono e smaltimento
illegale, salvo che non dimostrino di averli consegnati
a terzi autorizzati.
Il Tribunale condannava P. e F. per aver abbandonato, in
concorso con ignoti, rifiuti speciali non pericolosi,
costituiti
da parti di autoveicoli prodotti dall’attività di
autocarrozzeria di
cui erano titolari, rinvenuti all’interno di un’area verde
interessata
da un più vasto abbandono di rifiuti di diversa natura e
provenienza.
La Suprema Corte ha respinto il proposto ricorso, in cui si
sosteneva il travisamento della prova, osservando che il
Giudice aveva precisato che il teste P. della Polizia
Provinciale
di Firenze aveva riferito che, a seguito della segnalazione
di un cittadino, erano stati trovati, sul terreno di
proprietà di due persone estranee al processo, rifiuti di
vario genere (carcasse di elettrodomestici, calcinacci in
cartongesso, rifiuti di demolizioni e pezzi di automobili) e
che, da un’esplorazione più accurata dei rifiuti, era emerso
un pezzo di automobile con una targa intestata ad una
donna, la quale aveva dichiarato di aver fatto riparare la
sua
auto in una carrozzeria di Firenze.
A loro volta, gli imputati, gestori della carrozzeria in
questione,
avevano dichiarato che i rifiuti pericolosi venivano
gestiti da una ditta e quelli non pericolosi da tale E.F.,
successivamente risultato titolare di una ditta edile che
faceva anche demolizioni di strutture metalliche e sgomberi
di cantine, senza avere alcuna autorizzazione per lo
smaltimento dei rifiuti.
Secondo la Cassazione, condivisibilmente il Giudice era
ricorso alla prova logica: siccome i rifiuti erano
riferibili indiziariamente
agli imputati, i quali non avevano dimostrato di averli
consegnati a terzi, doveva arguirsi che gli stessi erano
responsabili
del loro abbandono e smaltimento illegale (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2017 n. 52631
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 1/2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’onere probatorio (in ordine al fatto che sia
stato il ricorrente -o meno- ad abbandonare i rifiuti della
cui rimozione qui si discute) si configura in modo
differente nel processo penale e in quello amministrativo:
nel primo va raggiunta la certezza della colpevolezza
dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, nel
secondo opera il criterio del “più probabile che non”.
Nel processo amministrativo è sufficiente quadro indiziario,
purché significativo e coerente, per attribuire la
responsabilità nell’abbandono dei rifiuti e con essa la
legittimità dell’ordine di rimozione a carico del
responsabile.
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... per l’annullamento dell’ordinanza di rimozione dei
rifiuti del Sindaco del Comune di Povoletto n. 29/2014 prot.
n. 6642 dd. 13.06.2014;
...
Il signor -OMISSIS- impugna, chiedendone l’annullamento,
l’ordinanza in epigrafe indicata, con la quale il Comune di
Povoletto gli ha intimato di rimuovere i rifiuti abbandonati
in un fondo di proprietà di terzi, ivi compiutamente
individuato.
Contesta il ricorrente l’assunto da cui muove l’ordinanza
gravata, ovverosia che i rifiuti della cui rimozione si
discute siano di sua proprietà. Oppone, di contro, di aver
ceduto detto materiale alla società -OMISSIS- e di non
averne più saputo nulla.
Valorizza a tale fine il deducente il fatto di essere stato
sottoposto a processo penale per i medesimi fatti e di
essere stato assolto.
Si è costituito in giudizio il Comune di Povoletto,
sostenendo che l’approfondita istruttoria svolta dagli
uffici aveva portato ad individuare nel ricorrente l’autore
dell’abbandono.
Dopo un rinvio su concorde richiesta delle parti per
attendere gli esiti del processo penale a carico del
ricorrente, la causa è stata chiamata alla pubblica udienza
dell’11.10.2017 e in quella sede trattenuta in decisione.
Il Collegio non ritiene decisiva ai fini della presente
causa la sentenza di assoluzione pronunciata da Giudice
penale, per un duplice ordine di ragioni.
Innanzitutto, dalla documentazione in atti non risulta che
il Comune abbia preso parte al dibattimento: condizione
questa a cui l’articolo 654 Cod. proc. pen. subordina
l’attribuzione alla pronuncia irrevocabile di assoluzione
dell’efficacia di giudicato nel processo amministrativo che
verta sui medesimi fatti materiali.
Se l’Amministrazione non si è costituita parte civile nel
processo penale, i suoi poteri istituzionali non sono incisi
dagli accertamenti e dalle valutazioni del Giudice penale,
così come il Giudice amministrativo chiamato a conoscere del
loro esercizio non è condizionato dal giudicato penale
(cfr., TAR Emilia Romagna–Bologna, Sez. I, sentenza n.
327/2015).
In secondo luogo, sempre secondo quanto emerge per
tabulas, il Tribunale penale ha assolto l’imputato
perché non si è raggiunta la piena prova in ordine al fatto
che sia stato questi ad abbandonare i rifiuti della cui
rimozione qui si discute.
Sennonché, l’onere probatorio si configura in modo
differente nel processo penale e in quello amministrativo:
nel primo va raggiunta la certezza della colpevolezza
dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, nel
secondo opera il criterio del “più probabile che non”
(cfr., sentenza di questo Tribunale n. 215/2015). Nel
processo amministrativo è sufficiente quadro indiziario,
purché significativo e coerente, per attribuire la
responsabilità nell’abbandono dei rifiuti e con essa la
legittimità dell’ordine di rimozione a carico del
responsabile.
Nel caso di specie, il materiale abbandonato consiste in «creme
solari, balsamo per capelli, smalti, fondotinta, attivatori
per abbronzatura, tinte per capelli, creme depilatorie, cera
per pavimenti pelli e mobili, disinfettanti per uso
professionale» (doc. 1 di parte ricorrente).
Ora, non è in contestazione che il materiale abbandonato
provenga dal magazzino del signor -OMISSIS- e da questi
ceduto in blocco al signor -OMISSIS-; quel che è in
contestazione è se quest’ultimo abbia a sua volta ceduto in
blocco tutta la merce alla società -OMISSIS- (come sostiene
il ricorrente) o se la cessione abbia riguardato il solo
materiale avente valore economico (come sostiene il Comune).
Ebbene, mentre la fattura rilasciata dal -OMISSIS- (doc. 2
di parte ricorrente) parla indistintamente di mercanzia
varia (e, d’altro canto, il ricorrente non nega di aver
acquistato tutto quanto contenuto nel magazzino del proprio
dante causa), il contratto intercorso tra lo stesso signor
-OMISSIS- e la società -OMISSIS- (doc. 3 di parte
ricorrente) dettaglia il materiale oggetto di trasferimento
e nell’elencazione non compare alcuna categoria nella quale
rientrano gli oggetti poi abbandonati.
Il che, peraltro, è coerente con le dichiarazioni raccolte
in fase istruttoria dall’Amministrazione, in particolare
–proprio per il ruolo di terzietà che svolgono nella
vicenda– di colui che ha svolto un ruolo di mediazione
nell’accordo tra il signor -OMISSIS- e la società -OMISSIS-
e di colui che ha curato il trasporto della merce acquistata
dal magazzino del signor-OMISSIS-(all. G di parte
resistente): dichiarazioni secondo le quali, per l’appunto,
il suddetto contratto di compravendita aveva ad oggetto solo
merce rivendibile, e non anche il residuo materiale di
scarto.
Dunque, appare più probabile che non che il materiale privo
di valore di mercato sia rimasto nella disponibilità del
signor -OMISSIS- e che questi se ne sia liberato in modo
illecito.
In conclusione, il ricorso è infondato e viene respinto (TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 07.11.2017 n. 340 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2017 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Attività di
raccolta e trasporto dei rifiuti urbani e speciali prodotti
da terzi (rottami ferrosi) - Liberalizzazione dell'attività
di ambulante - Iscrizione nell'albo dei gestori ambientali -
Art. 212, 256, 266, d.Lgs. 152/2006.
L'abrogazione degli art. 121 e 124 TULPS non ha comportato
la liberalizzazione dell'attività di ambulante (Cass., Sez.
3, n. 27290/2012, e n. 6602/2011, cui è da aggiungersi la n.
34917/15) e quindi rimane pur sempre necessaria
l'abilitazione di cui all'art. 266, comma 5, d.Lgs.
152/2006.
Pertanto, il reato di attività di gestione dei rifiuti è
comune e può essere commesso anche da chi svolge l'attività
di gestione dei rifiuti in modo secondario e consequenziale
all'esercizio di un'attività primaria diversa (Cass., Sez.
3, n. 29077/2013). Sicché, è irrilevante il dato formale
della qualifica di soggetto imprenditore o professionista,
dovendosi far riferimento al concetto di "attività" e
"concrete modalità di svolgimento della stessa"
(Cass., Sez. 3, n. 24431/2011).
Nella specie, integra il reato di cui all'art. 256, comma 1,
lett. a), d.Lgs. 152/2006, l'effettuare attività di raccolta
e trasporto dei rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi,
per lo più rottami ferrosi, senza l'iscrizione nell'albo dei
gestori ambientali di cui all'art. 212 dello stesso decreto
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2017 n. 48437
- link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGA:
RIFIUTI - Autovetture "fuori uso" - Rivendita di
pezzi di ricambio - Discarica abusiva - Verifiche attraverso
documentazione fotografica - Reato di cui all'art. 256, c.
1, lett. a), d.Lgs. 152/2006.
In tema di rifiuti, una discarica abusiva può essere
rilevata da parte del Giudice, anche, sulla base di una
documentazione fotografica. Nella specie, integrazione del
reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.Lgs.
152/2006, perché, il ricorrente, aveva raccolto nel
capannone situato dietro al suo negozio di rivendita di
pezzi di ricambio, una notevole quantità di rifiuti speciali
non pericolosi, consistenti soprattutto in varie componenti
di autovetture "fuori uso", ai sensi dell'art. 3,
d.Lgs. 209/2003, come sportelli, motori, gomme, fari,
sospensioni, tappezzerie, paraurti e cruscotti, raccogliendo
presso il capannone diverse autovetture smantellate e/o
incidentate, destinate alla demolizione, da cui asportava
pezzi di ricambio che poi rivendeva "sotto banco" nel
suo esercizio commerciale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2017 n. 48436
- link a www.ambientediritto.it). |
settembre 2017 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Il regolamento per le aree verdi.
DOMANDA:
Si chiede se un regolamento comunale possa disciplinare le
attività connesse alla potatura, all'abbattimento e alla
manutenzione di alberi e filari su aree di proprietà privata
non sottoposti ad alcun vincolo paesaggistico, con connessa
previsione nel regolamento comunale di un apparato
sanzionatorio a carico del proprietario trasgressore per
violazioni quali irregolare potatura o taglio non
autorizzato ed altro.
Si chiede quale norma legittimi l'assunzione di un tale
potere regolamentare di incidere sulle modalità di esercizio
della proprietà privata relativa al patrimonio arboreo
privato, ponendo gravami e sanzioni che non risultano
previsti dall'ordinamento giuridico.
Inoltre, si dubita che con una norma regolamentare comunale
si possano prevede forme di autorizzazione comunale
relativamente alla posa ed all'abbattimento di essenze
arboree in aree non soggette ad alcun vincolo paesaggistico,
in connessione con l'esercizio della attività edilizia,
aggravando, in tal modo, il procedimento edilizio con la
richiesta di presentare un progetto di “ristrutturazione
ambientale” e di “perizia tecnica per le essenze
arboree” in assenza di alcuna disposizione neppure negli
strumenti urbanistici comunali.
Il ricorso ad un sistema autorizzatorio per tali interventi
si pone in contrasto con la normativa vigente in materia
edilizia che prevede ampio ricorso allo strumento della SCIA
(con l'indubbia contraddizione di poter vedere realizzata
una nuova costruzione previa presentazione di una SCIA,
mentre se è prevista la posa/abbattimento di alberi non
sottoposti a vincolo paesaggistico occorre acquisire una
autorizzazione comunale).
Si chiede il vostro cortese avviso al riguardo con
riferimento a quanto sopra, soprattutto per capire entro
quali limiti possa espandersi la potestà regolamentare e
sanzionatoria comunale nei riguardi di beni (piante ed
essenze arboree) di proprietà privata.
RISPOSTA:
In effetti la necessità di dettare una particolare
disciplina del verde e degli alberi presenti nel territorio
comunale non costituisce nella prassi una novità, poiché si
deve dare atto che molti comuni si sono dotati di una
siffatta regolamentazione che può trovare, in genere, il suo
fondamento nei principi generali di tutela del paesaggio che
la stessa Costituzione prevede all’art. 9 tra i suoi
principi fondamentali.
Ed infatti nella cura del verde, pubblico o privato che sia,
possono individuarsi le esigenze di perseguimento insite
nell'interesse pubblico al miglioramento ambientale e
microclimatico locale, oltre che nella salvaguardia della
biodiversità. Ed in questa prospettiva la definizione in via
regolamentare, e salvo comunque il rispetto di tutte le
eventuali disposizioni nazionali e regionali vigenti in
materia, di modalità di intervento sulle aree verdi, di come
si debbano attuare le più consone operazioni di potatura per
il mantenimento e lo sviluppo complessivo della vegetazione
esistente e per favorire l’incremento delle presenze arboree
non può non ricondursi a tali principi ed obiettivi generali
che non riguardano di per sé l’attività costruttiva o
edilizia ma risultano essenziali affinché questa si sviluppi
nei modi migliori per una migliore vivibilità dei luoghi per
la comunità in armonia con lo sviluppo edilizio dei
territori.
Al tempo stesso una tale regolamentazione può essere vista
anche in funzione di avere una disciplina di tutela
preventiva dei luoghi finalizzata ad impedire per esempio
danneggiamenti irreversibili, o a vietare scavi,
impermeabilizzazioni di terreni o ammassi di materiali in
prossimità di apparati radicali, garantendo quindi una
salvaguardia che interessa sia le alberature di proprietà
privata che quelle di proprietà pubblica. Allo stesso modo
si possono ritenere legittime previsioni regolamentari tese
a prevedere per esempio che in caso di eliminazione di un
albero protetto, si renda obbligatoria la messa a dimora di
un nuovo albero, scelto in funzione dello sviluppo
raggiungibile a maturità e posto ad una distanza corretta da
fabbricati, strade e fondi confinanti secondo le norme
vigenti.
E’ chiaro peraltro che tutte queste previsioni devono
appunto essere contenute in un ambito di esclusiva
disciplina del verde in quanto tale e per gli obiettivi e
finalità anzidette e non possono tradursi di per sé in una
sovrapponibile disciplina della attività urbanistica che
trova in genere sede nei piani regolatori e negli altri
strumenti urbanistici di cui dispongono i comuni in
conformità alle normative regionali e statali vigenti.
E per quanto dunque anche nel rilascio dei vari titoli
abilitativi all’edilizia possa talvolta essere contenuta
quale specifica prescrizione avente ad oggetto tali aspetti
ambientali in considerazione della natura dei luoghi, si
ritiene che essa non possa tradursi in adempimenti ed oneri
e/o condizioni eccessivamente onerosi e/o vincolanti tali da
condizionare, in assenza di specifica legislativa,
l’attività edilizia consentita dalla normativa urbanistica
vigente (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigente tecnico del Comune responsabile del deposito
incontrollato di rifiuti.
Il dirigente tecnico del Comune è responsabile per il
deposito incontrollato di ramaglie posto in essere
dall'operaio comunale nell'ambito delle relative mansioni, a
nulla rilevando la circostanza che il dirigente non ne fosse
a conoscenza.
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1. Il sig. Da.Gr.
ha proposto appello avverso la sentenza del 31/03/2015 del
Tribunale di Brindisi che lo ha condannato alla pena di
8.000,00 euro di ammenda per il reato di cui all'art. 256,
comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, perché, nella sua qualità
di dirigente dell'ufficio tecnico del Comune di Torchiarolo,
aveva omesso di vigilare sulla destinazione dei rifiuti
derivanti dalla potatura del "verde" comunale,
abbandonati in modo incontrollato da un dipendente comunale
all'interno del campo sportivo già illecitamente destinato
alla ricezione di altri tipi di rifiuti.
Il fatto è contestato come commesso in Torchiarolo il
23/07/2012.
...
6. Si legge nella sentenza del Tribunale che il 23/07/2012 i
CC di Torchiarolo, a seguito di segnalazione di un
consigliere comunale, avevano effettuato un sopralluogo nel
campo sportivo appurando che nell'area ad esso adiacente
erano giacenti vari cumuli di rifiuti, anche ingombranti,
composti da residui di potatura, sacchi di spazzatura, un
frigorifero, materiale ferroso e plastica.
Nel corso del sopralluogo era sopraggiunto un autocarro del
Comune (assegnato all'ufficio tecnico) i cui occupanti
avevano iniziato a scaricare materiale derivante dalla
potatura di alberi ed arbusti.
Il conducente del mezzo, operaio alle dipendenze del Comune,
aveva riferito, nel corso del dibattimento, di essere stato
informalmente indirizzato dal Sindaco, occasionalmente
incontrato, a portare i residui di potatura presso il campo
sportivo. Aveva altresì spiegato che normalmente della
raccolta delle ramaglie si occupava l'impresa appositamente
incaricata, tuttavia quel giorno la potatura era stata
ultimata successivamente all'ora stabilita per il ritiro,
sicché, per non lasciarle sul posto e creare un disservizio,
aveva chiesto istruzioni al sindaco ottenendo in risposta
l'indicazione di portarle allo stadio e di sentire
l'impresa.
La circostanza era stata negata dal sindaco (imputato
anch'egli) che aveva affermato di non essere a conoscenza
dell'episodio; anche il tecnico comunale, odierno
ricorrente, aveva affermato di non essere a conoscenza dello
scarico delle ramaglie.
Esclusa la sussistenza del reato di gestione di discarica
non autorizzata inizialmente contestata dal Pubblico
Ministero, il Giudice ha inquadrato il fatto nella meno
grave fattispecie di abbandono incontrollato di rifiuti di
cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. 152 del 2006, e ciò sul
rilievo della natura occasionale della condotta che non
aveva determinato un vero e proprio degrado dell'area
interessata.
L'odierno ricorrente è stato ritenuto responsabile del reato
perché, in quanto dirigente dell'ufficio tecnico comunale,
non aveva impedito la destinazione dell'area a luogo di
raccolta dei rifiuti vegetali; la consapevolezza di tale
destinazione (e dell'abbandono) è stata desunta dal suo
ruolo e dal fatto che il Comune di Torchiarolo è un piccolo
centro di 5.000 abitanti.
Il sindaco è stato assolto perché le dichiarazioni del
dipendente comunale erano apparse contraddittorie al
Tribunale che ha ulteriormente evidenziato l'assenza, in
capo al sindaco stesso, del dovere giuridico di impedire
l'evento non rientrando tra i suoi doveri quello di vigilare
sull'attività di smaltimento dei rifiuti.
6.1. Così sintetizzata la vicenda, occorre innanzitutto
evidenziare che la responsabilità
dell'odierno imputato non si fonda sul fatto che il terreno
adibito a luogo di abbandono delle ramaglie fosse di
proprietà comunale. Non sono perciò pertinenti i richiami
alla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato la
mancanza di una posizione di garanzia del proprietario per
l'abbandono incontrollato di rifiuti che altri faccia sul
suo terreno (in
questo senso, da ultimo, Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella, Rv. 266030, che ha ribadito il principio secondo
il quale non è configurabile in forma omissiva il reato di
cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti).
Né, per lo stesso motivo, rileva il
principio secondo il quale sul titolare dell'impresa o
dell'ente non grava l'obbligo di attivarsi per eliminare le
conseguenze dell'abbandono di rifiuti posto in essere da
terzi sull'area di pertinenza aziendale o dell'ente
(in questo senso, Sez. 3, n. 24477 del 15/05/2007, Pino,
n.m.).
6.2. Il nucleo del ragionamento seguito dal Tribunale è
altro ed è chiaro: il dipendente comunale è
tenuto a vigilare sul corretto adempimento dello smaltimento
dei rifiuti che rientra nelle attribuzioni dell'ufficio da
lui diretto. In
senso analogo, questa Suprema Corte aveva già affermato il
principio che risponde del reato di cui
all'allora art. 51, comma terzo, del d.Lgs. n. 22 del 1997
(realizzazione o gestione di discarica non autorizzata) il
dirigente dei servizi tecnici comunali, tra cui quello
relativo alla nettezza urbana, che dispone, o non impedisce
pur avendone l'obbligo giuridico, il deposito dei residui di
potatura e pulitura degli alberi in zona adibita a discarica
abusiva (Sez. 3,
n. 12356 del 24/02/2005, Rizzo, Rv. 231071).
Non si tratta ovviamente di responsabilità
oggettiva da posizione ma di responsabilità colpevole,
fondata, in caso di condotta posta in essere dal dipendente,
sulla possibilità di evitarla
(cfr., sul punto, Sez. 3, n. 40530 del 11/06/2014, Mangone,
Rv. 261383; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv.
250485, Sez. 3, n. 24736 del 22/06/2007, Sorce, Rv. 236882,
secondo le quali il reato di abbandono incontrollato di
rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai
responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa
vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in
essere la condotta di abbandono).
L'omessa vigilanza sull'operato altrui,
dunque, costituisce elemento strutturale della fattispecie
contravvenzionale che, essendo punita anche a titolo di
colpa, individua nella titolarità dell'impresa (ovvero nella
responsabilità dell'ente) il fondamento giuridico-fattuale
dell'addebito omissivo.
6.3. Non va dimenticato, infatti, che il
reato previsto dall'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del
2006, ha natura di reato proprio del titolare dell'impresa o
del responsabile dell'ente.
6.4. La fattispecie descrive in termini
chiaramente commissivi la condotta
(sulla natura commissiva del reato, Sez. 3, n. 25429 del
01/07/2015, Gai, Rv. 267183; Sez. 3, n. 38662 del
20/05/2014, Convertino), ma ciò non
significa che autore materiale della stessa possa essere
esclusivamente il titolare dell'impresa o il responsabile
dell'ente.
La norma non intende certamente riferirsi
ad essi quali persone fisiche, bensì quali legali
responsabili dell'impresa/ente cui deve essere ricondotta
l'attività di abbandono/deposito incontrollato. Sicché è
sufficiente che l'abbandono/deposito venga posto in essere
anche tramite persone fisiche diverse dal titolare/legale
rappresentante perché questi ne risponda, purché ciò avvenga
nell'ambito delle attività riconducibili alle imprese e/o
agli enti da loro rappresentati. In questo senso si può
affermare che la "culpa in vigilando", quale
necessario titolo di addebito per il fatto altrui,
costituisce un baluardo verso forme di responsabilità
oggettiva.
6.5. Ora è indubbio, nel caso di specie,
che la condotta di deposito incontrollato di ramaglie è
stata posta in essere dall'operaio comunale nell'ambito
delle mansioni da lui ordinariamente svolte e che il luogo
nel quale esse sono state abbandonate era già stato
interessato da precedenti abbandoni di materiale dello
stesso tipo (residui di potatura), oltre che da rifiuti
eterogenei. Il che depone per la non occasionalità o
eccezionalità della condotta.
Ogni diversa allegazione, volta a sovvertire il fatto "raccontato"
dal Giudice sostituendolo con quello ricostruibile "aliunde",
non è ammessa in questa sede per le ragioni ampiamente
illustrate in precedenza.
6.6. Non è perciò manifestamente illogico
trarre da questi dati di fatto, unitamente alla circostanza
che il Comune di Torchiarolo è un centro di piccole
dimensioni, la prova della consapevolezza, da parte del
dirigente comunale, della destinazione impressa ai residui
di potatura e comunque della violazione del dovere di
attivarsi per impedire lo specifico evento a lui attribuito.
6.7. 5i aggiunga, quale ulteriore considerazione, che
la necessità, per l'operaio dipendente, di
chiedere istruzioni sul come smaltire le ramaglie non
raccolte dall'impresa incaricata del servizio dimostra
l'assenza di direttive e/o modelli organizzativi volti a
disciplinare evenienze certamente non eccezionali, né
imprevedibili. Il che costituisce ulteriore argomento a
sostegno della corretta attribuzione del fatto all'odierno
imputato che, sul punto, nulla ha dedotto.
6.8. Ne consegue che il ricorso deve essere respinto e il
ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali (Corte
di Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza
14.09.2017 n. 41794). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’art.
192 del D.Lgs. n. 152/2006, dopo aver disposto (comma 1) che
“L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul
suolo e nel suolo sono vietati”, al comma 3 prevede che “…
chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a
procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Orbene, <<Dal dato testuale della disposizione emerge che:
alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile
dell’abbandono o del deposito dei rifiuti; in via solidale
il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la
disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei
rifiuti a titolo di dolo o colpa; non è configurabile una
responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di
coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità
dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Ne consegue quale corollario:
a) l’irrilevanza ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento
della titolarità del diritto reale sulle aree interessate
dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
normativa accomuna nello stesso trattamento sia il
proprietario dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti che chi ne abbia la “disponibilità” a titolo di
diritto reale o personale;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo>>.
Ed invero, per un verso, “Sicuro approdo della
giurisprudenza è quello secondo cui l'imputabilità delle
condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti
sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la
giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente
l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento
doloso o colposo, non ravvisando la disposizione dell'art.
192 D.Lgs. n. 152/2006 un'ipotesi legale di responsabilità
oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione
della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di
ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di
godimento sul bene”.
Sotto altro profilo, poi, il Collegio ritiene di non
avere ragione per discostarsi dall’“orientamento
consolidato, secondo cui, in materia, il legislatore
delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di
un'effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei
potenziali destinatari del provvedimento conclusivo. Di
conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell'avvio
del procedimento costituisce un adempimento indispensabile
al fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati, nemmeno soggetto al
temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 apporta alla regola generale posta dall’art. 7 della
stessa legge”.
---------------
0. - Il ricorso è fondato e deve essere accolto, nei sensi
di seguito indicati.
1. - Come già anticipato nella fase cautelare del presente
giudizio, coglie nel segno la censura (formulata a sostegno
della domanda di annullamento azionata) con la quale
l’Acquedotto Pugliese s.p.a. lamenta, essenzialmente, la
violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs.
n. 152/2006, il quale richiede, ai fini della
corresponsabilità, che i necessari propedeutici accertamenti
sulla sussistenza dei profili di responsabilità dolosa o
colposa della violazione dell’obbligo di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti siano effettuati dai
soggetti istituzionalmente preposti al controllo, in
contraddittorio con i soggetti interessati, non essendo
configurabile una responsabilità oggettiva a carico del
proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la
disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti.
Osserva la Sezione che l’art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006,
dopo aver disposto (comma 1) che “L'abbandono e il
deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono
vietati”, al comma 3 prevede che “… chiunque viola i
divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Orbene, <<Dal dato testuale della disposizione emerge
che: alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile
dell’abbandono o del deposito dei rifiuti; in via solidale
il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la
disponibilità ove ad esso sia imputabile l’abbandono dei
rifiuti a titolo di dolo o colpa; non è configurabile una
responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di
coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità
dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti.
Ne consegue quale corollario:
a) l’irrilevanza ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento
della titolarità del diritto reale sulle aree interessate
dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione
normativa accomuna nello stesso trattamento sia il
proprietario dell’area interessata dall’abbandono dei
rifiuti che chi ne abbia la “disponibilità” a titolo di
diritto reale o personale;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo>> (Consiglio di Stato, V,
22.02.2016, n. 705).
Ed invero, per un verso, “Sicuro approdo della
giurisprudenza è quello secondo cui l'imputabilità delle
condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti
sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la
giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente
l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento
doloso o colposo, non ravvisando la disposizione dell'art.
192 D.Lgs. n. 152/2006 un'ipotesi legale di responsabilità
oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione
della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di
ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di
godimento sul bene (in tal senso ex plurimis Tar Puglia,
Lecce, n. 108/2015)” (ex multis, TAR Puglia,
Lecce, I, 14.06.2016, n. 945; in termini, TAR Puglia Lecce,
I, 02.12.2015, n. 3482; TAR Puglia, Lecce, I, 04.02.2015, n.
437).
Sotto altro profilo, poi, il Collegio ritiene di non avere
ragione per discostarsi dall’“orientamento consolidato
(cfr. per tutte Cons. Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061;
sez. II, parere 21.06.2013, n. 2916; sez. V, 22.02.2016, n.
705; sez. IV, 01.04.2016, n. 1301), secondo cui, in materia,
il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le
esigenze di un'effettiva partecipazione allo specifico
procedimento dei potenziali destinatari del provvedimento
conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale
comunicazione dell'avvio del procedimento costituisce un
adempimento indispensabile al fine dell'effettiva
instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli
interessati, nemmeno soggetto al temperamento che l’art.
21-octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola
generale posta dall’art. 7 della stessa legge”
(Consiglio di Stato, IV, 15.07.2016, n. 3163; in termini,
TAR Puglia, Bari, I, 30.08.2016, n. 1089; TAR Calabria,
Catanzaro, I, 12.10.2016, n. 1962).
1.2 - Orbene, nel caso in esame: per un verso, dal
tenore del gravato provvedimento si evince che
l’Amministrazione Comunale resistente fa discendere gli
obblighi di rimozione e bonifica in capo alla società
ricorrente, dal mero accertamento della (presunta) proprietà
del terreno per cui è causa, senza fornire, in concreto,
alcuna dimostrazione dell’imputabilità soggettiva della
condotta, ex art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006; per altro
verso, alcuna partecipazione e contraddittorio
procedimentale risulta essere stata, in concreto, attivata.
2. - Parimenti fondata (come pure già rilevato nella fase
cautelare del giudizio) è l’ulteriore censura con cui la
società Acquedotto Pugliese s.p.a., Ente gestore
dell’Acquedotto, deduce, sostanzialmente, di non essere
tenuta agli adempimenti di rimozione dei rifiuti abbandonati
da terzi sulle aree interessate dalle condutture idriche,
per mancanza tanto del rapporto reale con le aree stesse che
di un rapporto di natura obbligatoria (non essendo comprese
negli obblighi da esso assunti convenzionalmente la
vigilanza e la custodia delle infrastrutture per
comportamenti di terzi estranei di natura patologica).
Ed invero, “Si deve ritenere che AQP sia il mero gestore
delle condotte di acqua potabile e pertanto si trovi nella
disponibilità dell’area interessata dalle infrastrutture
idriche” (TAR Puglia, Bari, I, 29.09.2016, n. 1159).
E’ stato al riguardo condivisibilmente osservato che <<Gli
obblighi gravanti sul gestore attengono esclusivamente alla
manutenzione ordinaria e straordinaria sotto l’aspetto
tecnico delle condotte al fine di assicurare il corretto
esercizio e la funzionalità delle opere. Il mantenimento
delle condizioni generali di pulizia delle opere previsto
dalla convenzione con l’ATO Puglia del 30.09.2002 riguardano
la normale pulizia dei siti e non già fatti imprevedibili
quali l’abbandono di rifiuti da parte di sconosciuti….
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta
manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli
effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti
commessi da terzi ignoti. Invero, il concetto di custodia e
vigilanza va esaminato in relazione agli obblighi che
fisiologicamente possono essere imposti ad AQP in quanto
gestore del servizio idrico integrato e non può essere
allargato fino ad includere la “custodia e vigilanza” dei
beni in oggetto da atti di natura patologica e derivanti da
fenomeni di vandalismo tramite l’illecito abbandono e
l’occultamento di rifiuti …. In conclusione deve ritenersi
che AQP, ente gestore dell’acquedotto, non sia tenuto agli
adempimenti di rimozione dei rifiuti abbandonati sull’area
interessata dalle condutture per mancanza tanto del rapporto
reale con l’area che di un rapporto di natura obbligatoria e
non essendo comprese negli obblighi da essa assunti
convenzionalmente la vigilanza e la custodia delle
infrastrutture per comportamenti di terzi estranei di natura
patologica>> (Consiglio di Stato, V, 22.02.2016, n. 705;
in termini, TAR Puglia, Bari, I, cit., n. 1159/2016).
3. - La fondatezza delle summenzionate censure dispensa il
Collegio dall’esame delle ulteriori doglianze formulate, con
assorbimento di queste ultime.
4. - Va disattesa, invece, la domanda risarcitoria azionata,
in quanto formulata con riferimento a danni del tutto
eventuali (e, comunque, indimostrati).
5. - Per tutto quanto innanzi sinteticamente esposto, il
presente ricorso è fondato e va accolto, nei sensi e termini
di cui in motivazione, e, per l’effetto, deve essere
annullata l’impugnata ordinanza n. 200 del 25.10.2016 (prot.
n. 38425 del 26.10.2016), a firma del Sindaco e Dirigente
del Settore “Ecologia ed Ambiente” del Comune di
Massafra (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 13.09.2017 n. 1450 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - CAVE - Attività di coltivazione di cave
e di livellamenti agrari - Nozione di sottoprodotto -
Attività qualificabile come gestione dei rifiuti - Art.
184-bis - 185 dlgs n. 152/2006 - All. 3 dm n. 161/2012.
Rientrano nella categoria dei rifiuti anche le sostanze e
gli oggetti che, non più idonei a soddisfare le finalità cui
essi erano originariamente destinati, siano tuttavia non
privi di un valore economico, sicché gli stessi possano
essere dismessi da colui che li possiede anche attraverso la
conclusione di negozi giuridici sia a titolo gratuito che
oneroso.
In tal senso può essere ritenuta, attività qualificabile
come gestione dei rifiuti la compravendita di terra
sottratta dal suo naturale sito che, in linea di principio,
colui il quale ha eseguito le opere si trova nella
condizione di doversene disfare (nella specie opere di
livellamento di terreno agrario).
RIFIUTI - Materiali da scavo -
Caratteristiche per l'esenzione dalla disciplina sui rifiuti
- Presupposti e limiti al trattamento derogatorio.
Sono sottratte dalla disciplina dei rifiuti, i materiali da
scavo derivante dalle opere di livellamento dei terreni,
eseguiti in cantieri di piccole dimensioni la cui produzione
non superi i 6000 mc di materiale, se rientranti nelle
caratteristiche cui all'articolo 184-bis del decreto
legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e
se il produttore dimostri che ai fini di cui alle lettere b)
e e) (cioè ai fini del riutilizzo del materiale ovvero della
sua destinazione ad un successivo ciclo produttivo) non è
necessario sottoporre i materiali ad alcun preventivo
trattamento, fatte salve le normali pratiche industriali e
di cantiere.
Ove tale condizione non sia soddisfatta il materiale in
questione non godrà del trattamento derogatorio di cui
all'art. 184-bis del dlgs n. 152 del 2006 e dovrà essere,
pertanto, qualificato come rifiuto a tutto gli effetti.
RIFIUTI - Qualificazione giuridica del "mistone"
- Impianto di vagliatura e lavaggio degli inerti -
Definizione di "normale pratica industriale" - Attività di
trattamento dei rifiuti - Autorizzazioni - Necessità -
Fattispecie.
La qualificazione giuridica del "mistone" come
sottoprodotto è riferibile alle solo ipotesi in cui il
reimpiego avvenga "direttamente, senza alcuna trattamento",
laddove la disposizione in materia (art. 184-bis del dlgs n.
152 del 2006) fa comunque salvi i trattamenti che rientrino
nelle "comuni pratiche industriali e di cantiere".
Pertanto, si deve escludere la possibilità di attribuire al
"mistone" la qualifica di sottoprodotto, nei casi in cui vi
sia, la necessità di installazioni industriali non
irrilevanti, nella specie, istituzioni di vasche di
decantazione del materiale lavato e significativi aspetti di
successivo impatto ambientale sia per la presenza di
cospicui effluenti idrici rivenienti dalla attività di
lavaggio del "mistone" sia per la presenza, non certo
indifferente, di copiosi residui a loro volta inquinanti
costituiti dal limo derivante dall'avvenuto lavaggio del "mistone".
Sicché, una tale complessità operativa non può coniugarsi
con il concetto di "comuni pratiche industriali e di
cantiere", dovendosi ritenere che queste siano invece
limitate a marginali interventi eseguiti sui sottoprodotti
non necessitanti di complesse infrastrutture operative né,
comunque, tali da comportare la successiva necessità di
procedere, in esito al loro svolgimento, allo smaltimento di
copiose quantità di ulteriori materiali ad esse residuati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.09.2017 n. 41533
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
RIFIUTI - Competenza del sindaco ad emanare le
ordinanze in materia di rimozione di rifiuti - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Individuazione delle competenze tra
Sindaco e Dirigente - Principio di specialità -
Giurisprudenza - Art. 192 d.lgs. 152/2006 - Codice
ambientale.
L’art. 192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una
disposizione speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107,
comma 5, del D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce
espressamente al Sindaco la competenza a disporre con
ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo
smaltimento dei rifiuti previste dal comma 2. La
disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V,
29/08/2012, n. 4635; id., 12/06/2009, n. 3765; id.,
10/03/2009, n. 1296; id., 25/08/2008, n. 4061).
Sicché, il principio di specialità, prevale sul principio
ordinario di successione cronologica delle norme, le
disposizioni posteriori non comportano l’abrogazione delle
precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la
stessa materia in un campo particolare. (Consiglio, Sez. VI,
sentenza n. 1199 del 23/3/2016).
In definitiva, la volontà del legislatore va ricostruita nel
senso di affermare la competenza del sindaco ad emanare le
ordinanze in materia di rimozione di rifiuti, ex art. 14
d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (decreto Ronchi), anche
successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 18.08.2000,
n. 267 (TUEL) e fino all’entrata in vigore del il decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152 (codice ambientale), che ha
ribadito tale competenza (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 06.09.2017 n. 4230
- link a www.ambientediritto.it). |
agosto 2017 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
reato di mancata effettuazione della comunicazione, prevista
in caso di imminente minaccia di danno ambientale di un sito
inquinato, non è configurabile nei confronti di colui che,
quand'anche proprietario del terreno, non abbia cagionato
l'inquinamento del sito stesso.
---------------
1.4. Venendo al quarto motivo, inerente le condotte
di omessa comunicazione di cui ai capi e) ed f) peraltro
ritenute dal Tribunale e dalla Corte fiorentina integrare un
unico reato, lo stesso è anzitutto infondato laddove lamenta
la carenza di motivazione circa il necessario presupposto
del reato rappresentato dalla riconducibilità all'imputato
delle contaminazioni dei terreni di proprietà Ch. cui
avrebbe dovuto far seguito l'obbligo di comunicazione di cui
all'art. 242 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Va infatti rammentato che, come già chiarito da questa
Corte, il reato di mancata effettuazione della
comunicazione, prevista in caso di imminente minaccia di
danno ambientale di un sito inquinato, non è configurabile
nei confronti di colui che, quand'anche proprietario del
terreno, non abbia cagionato l'inquinamento del sito stesso
(Sez. 3, n. 18503 del 16/03/2011, dep. 11/05/2011, Burani,
Rv. 250143).
Nella specie, allora, e prendendo in esame anzitutto
l'omessa comunicazione inerente la contaminazione dei
terreni appartenenti alla Ch. di cui al capo e) (dovendo
comunque necessariamente distinguersi, pur nella ritenuta
unicità del reato, le due addebitate omissioni in ragione di
quanto oltre si preciserà), la Corte territoriale, pur
prendendo atto del fatto che la contaminazione ebbe ad
intervenire negli anni 70/80, quando amministratore unico
della Ch. era ancora il rag. Va.Mo., e pur prendendo
implicitamente atto, dunque, del fatto, che Sq. lo sarebbe
diventato solo successivamente, ha ugualmente ritenuto
provata la commissione dell'inquinamento ad opera
dell'imputato personalmente ponendo correttamente in rilievo
la posizione rivestita di direttore dello stabilimento (già
evidenziata del resto dalla sentenza di primo grado con
riferimento agli anni dal 1980 al 1982) tale, evidentemente,
da consentirgli, quanto meno, di concorrere, nella specie,
nelle decisioni relative alla destinazione dei fanghi
sicuramente provenienti dalla Ch. stessa (sul ruolo e la
responsabilità del direttore tecnico dello stabilimento
vedansi Sez. 3, n. 2485 del 09/10/2007, dep. 17/01/2008,
Marchi, Rv. 238594; Sez. 3, n. 11033 del 21/10/1993, dep.
02/12/1993, Negro, Rv. Rv e, Sez. 3, n. 9776 del 30/04/1987,
dep. 07/09/1987, Baruchello, Rv. 176638) tanto più avendo lo
stesso imputato, in una nota datata 11/02/1981, riconosciuto
lo spandimento come fertilizzante sui terreni a disposizione
della società
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38674). |
luglio 2017 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
La Corte di giustizia UE si pronuncia su responsabilità
solidale tra autore dell’illecito, e proprietario dei
terreni in caso di inquinamento.
---------------
•
Ambiente – Inquinamento
– Responsabilità – Proprietario dei fondi – Ammissibilità-
Condizioni.
•
Ambiente – Inquinamento
– Sanzioni – Proprietario dei fondi – Condizioni.
•
Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli
articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso
che, sempre che la controversia di cui al procedimento
principale rientri nel campo di applicazione della direttiva
2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio
verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che
identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato
generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di
persone solidamente responsabili di un tale danno
ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che
occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra
la condotta dei proprietari e il danno constatato, a
condizione che tale normativa sia conforme ai principi
generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione
pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto
derivato dell’Unione. (1)
•
L’articolo 16 della direttiva 2004/35 e
l’articolo 193 TFUE devono essere interpretati nel senso
che, sempre che la controversia di cui al procedimento
principale rientri nel campo di applicazione della direttiva
2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella controversa nel procedimento principale, ai sensi
della quale non solo i proprietari di fondi sui quali è
stato generato un inquinamento illecito rispondono in
solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno
ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta
un’ammenda dall’autorità nazionale competente, purché una
normativa siffatta sia idonea a contribuire alla
realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata e le
modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la
misura necessaria per raggiungere tale obiettivo,
circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. (2)
---------------
(1-2) I.- Con la
sentenza in epigrafe, la Corte del Lussemburgo ritorna sul
delicato tema dell’estensione della responsabilità da
inquinamento nei confronti dei proprietari dei fondi
interessati. Nella difficile opera di coordinamento fra i
diversi ordinamenti nazionali e quello europeo, la Corte
tenta una complicata opera di mediazione, partendo dalla
disciplina europea e dai relativi principi. Nel caso de
quo pare legittimare una disciplina nazionale (quella
ungherese) che presenta aspetti di notevole divergenza da
quella italiana (ormai consolidatasi nel senso della
mancanza di responsabilità in capo al proprietario
incolpevole).
In particolare, la fattispecie rimessa alla Corte origina
dall’impugnativa proposta da una impresa avverso un’ammenda
inflitta a seguito dell’incenerimento illegale di rifiuti,
avvenuto su un terreno di proprietà della stessa impresa,
che aveva causato un inquinamento dell’aria.
In sede contenziosa il giudice ungherese, dubitando della
conformità alla disciplina sovranazionale dell’ordinamento
nazionale che estende la sanzione al proprietario del
terreno interessato, ha rimesso la relativa questione
pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato.
II.- La decisione della Corte europea, riassunta nelle due
massime di cui in epigrafe, prende le mosse dalla
ricostruzione della disciplina europea e di quella statale
interessata.
In via preliminare la Corte:
a) inquadra i principi del trattato evidenziando come, da un lato,
l’articolo 191 -secondo cui la politica dell’Unione in
materia ambientale mira a un elevato livello di tutela e si
basa sul principio «chi inquina paga»- si limita a
definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia
ambientale; dall’altro lato l’articolo 192 che affida al
Parlamento europeo e al Consiglio, quindi secondo la
procedura legislativa ordinaria, il compito di decidere le
azioni da intraprendere per raggiungere detti obiettivi;
alla stregua di tale inquadramento, pertanto, esclude che il
principio “chi inquina paga” possa ex se
giustificare l’inapplicabilità della disciplina nazionale
che punisce il proprietario incolpevole;
b) formula un’ulteriore importante precisazione per delimitare
l’operatività delle regole europee: l’inquinamento dell’aria
non costituisce di per sé un danno ambientale contemplato
dalla direttiva 2004/35, salvo che la lesione all’ambiente
includa altresì il danno cagionato da elementi aerodispersi
(nella misura in cui possono causare danni all’acqua, al
terreno o alle specie e agli habitat naturali protetti,
costituenti oggetto diretto della disciplina invocata).
Sulla scorta di tali precisazioni preliminari, la Corte
precisa che il regime di responsabilità ambientale previsto
dalla direttiva richiede che sia accertato dall’autorità
competente un nesso causale tra l’azione di uno o più
operatori individuabili e il danno ambientale o la minaccia
imminente di tale danno. In definitiva, il regime di
responsabilità istituito dalla direttiva 2004/35 si fonda
sul principio di precauzione e sul principio «chi inquina
paga»; a questo fine, tale direttiva impone agli
operatori obblighi sia di prevenzione sia di riparazione.
Secondo la Corte, le regole europee prevedono la facoltà per
gli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più
severe in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale, compresa l’individuazione di altre attività da
assoggettare ai precitati obblighi di prevenzione e di
riparazione nonché l’individuazione di altri soggetti
responsabili.
È in tale ottica che –nei termini riassunti nella prima
massima- viene quindi scrutinata la più severa disciplina
nazionale ungherese la quale, secondo la Corte, senza
compromettere il principio della responsabilità ricadente in
primo luogo sull’utilizzatore, ha la finalità di evitare una
carenza di diligenza da parte del proprietario e di
incoraggiare lo stesso ad adottare misure e a sviluppare
pratiche idonee a minimizzare i rischi di danni ambientali;
in tal modo essa contribuisce a prevenire il danno
ambientale e conseguentemente a realizzare gli obiettivi
della direttiva stessa.
Analoghe considerazioni sono svolte dalla Corte in merito
alla sanzione amministrativa, nei termini riassunti nella
seconda massima. In particolare, secondo la sentenza
un’ammenda amministrativa inflitta al proprietario di un
fondo a causa di un inquinamento illecito da lui non
impedito e di cui non indica l’autore, può rientrare nel
regime di responsabilità, purché la normativa che prevede
un’ammenda simile, in conformità al principio di
proporzionalità, sia idonea a contribuire alla realizzazione
dell’obiettivo di protezione rafforzata perseguito dalla
normativa che istituisce la responsabilità solidale, e le
modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la
misura necessaria per raggiungere tale obiettivo.
III.- Per completezza si segnala:
c) per la più recente dottrina in materia di danno e ripristino
ambientale alla luce dei principi europei, v. LEONARDI, La
responsabilità in tema di bonifica dei siti inquinati: dal
criterio soggettivo del “chi inquina paga” al
criterio oggettivo del “chi è proprietario paga”? in
Foro amm., 2015, 1; GRASSI, Bonifica ambientale di siti
contaminati, in Diritto dell'ambiente, a cura di G. Rossi,
Torino, 2015, 424 ss.; FERRARA - SANDULLI, in Trattato di
diritto dell'ambiente, Milano, 2014; R. INVERNIZZI,
Inquinamenti risalenti, ordini di bonifica e principio di
legalità CEDU: tutto per l'“ambiente”, in Urbanistica
e appalti, 2014, 8-9; AMOROSO, Nuovi rilievi sull'attività
volta all'accertamento della responsabilità
dell'inquinamento del sito, in Riv. giur. amb., 2006, 6; DE
LEONARDIS, Il principio di precauzione nell'amministrazione
del rischio, Milano, 2005; GOISIS, La natura dell'ordine di
bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 d.lgs. n. 22 del
1997: la sua retroattività e la posizione del proprietario
non responsabile della contaminazione, in Foro amm. -
C.d.S., 2004, n. 2; R. LOMBARDI, Il problema
dell'individuazione dei soggetti coinvolti nell'attività di
bonifica dei siti contaminati, in P.M. VIPIANA PERPETUA (a
cura di), La bonifica dei siti inquinati: aspetti
problematici, Padova, 2002, 111 ss.;
d) sul principio “chi inquina paga”, cfr. Corte giustizia
UE, sez. III, 04.03.2015, n. 534, in Foro it., 2015, IV,
293; Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2015,
3-4, 946, con nota di ANTONIOLI; Urbanistica e appalti,
2015, 635, con nota di CARRERA, secondo cui “La direttiva
2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del
21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di
prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere
interpretata nel senso che non osta a una normativa
nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito
o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non
consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione
delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario
di tale sito, non responsabile della contaminazione, il
quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative
agli interventi effettuati dall’autorità competente nel
limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi”;
e) sulla natura e consistenza del danno ambientale cfr.
Corte cost., 01.06.2016, n. 126 in Foro it. 2016,
11, I, 3409, (oggetto della
News US 06.06.2016 ai cui riferimenti si rinvia),
secondo cui “E’ infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 311, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n.
152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento
agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., nonché al principio di
ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di Lanusei”;
f) sul riparto di responsabilità da inquinamento nell’ordinamento
italiano cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 25.09.2013
n. 21 in Giornale dir. amm., 2014, 365 con nota di SABATO, e
13.11.2013 n. 25, in Corriere giur., 2013, 514, con nota di
CARBONE; Giornale dir. amm., 2013, 729, con nota di BASSI;
Urbanistica e appalti, 2013, 696, con nota di BECCARIA; Giur.
it., 2014, 947 con nota di VIPIANA;
g) per la applicazione concreta dei principi elaborati dalle
decisioni della Corte di giustizia e dall’Adunanza plenaria,
in relazione ai principi generali del diritto ambientale
europeo (“chi inquina paga” e del “precauzione”),
cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 933 e 27.12.2013,
n. 6250; da ultimo, sez. V, 08.03.2017, n. 1089 secondo cui
“Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno
di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono
essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai
soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che
abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione
tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo,
legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità,
non essendo configurabile una responsabilità di mera
posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte
se è vero, per un verso, che l'Amministrazione non può
imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità
diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento
di attività di recupero e di risanamento, secondo il
principio cui si ispira anche la normativa comunitaria -la
quale impone al soggetto, che fa correre un rischio di
inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito
costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra,
pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al
principio di precauzione vero e proprio e al principio
dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni
all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o
ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del
dolo o della colpa”;
h) in sede legislativa, il recente decreto legislativo 16.06.2017,
n. 104 recante attuazione della direttiva 2014/52/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che
modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione
dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge
09.07.2015, n. 114;
i) sul riparto di competenze legislative in materia di tutela
dell’ambiente cfr. da ultimo l’ordinanza
del Tar per la Calabria-Catanzaro 07.10.2016 n. 1943
(oggetto della
News US in data 12.10.2016), secondo cui “Non
è manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1 della Legge Regionale n. 8/2016
con riferimento all’art. 117, co. 2, lett. s), Costituzione
in quanto tale norma –che ha sospeso, nelle more
dell’approvazione del nuovo piano regionale di gestione dei
rifiuti, i procedimenti in corso per il rilascio delle
valutazioni di impatto ambientale e delle autorizzazioni
integrate ambientali per la realizzazione e gestione di
nuovi impianti di smaltimento o recupero rifiuti sul o nel
suolo- si pone in diretta violazione della disciplina
nazionale, con cui il legislatore statale ha esercitato la
propria competenza esclusiva; con gli artt. 11, comma 5, 13,
commi 1 e 3, e 208 del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152 (Norme in materia ambientale) che stabiliscono termini
certi per l’istruttoria e la definizione dei procedimenti
autorizzatori, nonché con gli artt. 11, 19, 25 26, 29-bis,
29-ter, 29-quater del medesimo Decreto Legislativo n. 152
nei quali si prevedono termini endoprocedimentali e di
definizione del procedimento certi, dettati dal legislatore
statale nell’esercizio del monopolio normativo che gli è
riconosciuto”; Corte cost. 12.12.2012, n. 278, in Foro
it., 2013, I, 412 (cui si rinvia per ogni ulteriore
riferimento); Diritto e giurisprudenza agraria, 2013, 2, 92
con nota di GORLANI, secondo cui “l'attribuzione
esclusiva dello Stato in materia di ambiente ed ecosistema,
di cui all'art. 117, comma 2, lett. s), cost., si riferisce
all'"ambiente" in termini generali ed onnicomprensivi e
premesso altresì che, in caso di sovrapposizione ad altri
ambiti competenziali, la legislazione statale prevale
rispetto a quella dettata dalle regioni o dalle province
autonome, in materie di competenza propria, in
considerazione della disciplina unitaria e complessiva del
bene ambiente, che inerisce ad un interesse pubblico di
valore costituzionale primario ed assoluto, configurandosi,
quindi, la normativa statale come limite alla
discrezionalità legislativa che le regioni e le province
autonome hanno nelle materie di loro competenza”;
j) Corte cost., 17.03.2015, n. 38, in Foro it. 2015, I, 1889 (cui
si rinvia per ogni ulteriore approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), secondo cui:
I) È incostituzionale l’art. 65 l.reg. Veneto 02.04.2014 n.
11, nella parte in cui prevede che la giunta regionale, con
apposite linee guida, escluda determinati interventi a
tutela della rete ecologica regionale «Natura 2000»
dalla valutazione di incidenza ambientale (Vinca)”;
II) “È infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19 l.reg. Veneto 02.04.2014 n. 11,
nella parte in cui autorizza la giunta regionale a
prevedere, nel rapporto con gli appaltatori, la
compensazione dell’onere per la realizzazione dei lavori di
manutenzione dei corsi d’acqua con il valore del materiale
litoide estratto riutilizzabile, in riferimento all’art.
117, 2º comma, lett. s), cost.”;
III) “È infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 56, 1º e 4º comma, l.reg. Veneto
02.04.2014 n. 11, nella parte in cui consente la combustione
controllata di materiali agricoli e vegetali sul luogo di
produzione, effettuata secondo le normali pratiche e
consuetudini, escludendo che essa costituisca attività di
gestione dei rifiuti o di combustione illecita, in
riferimento all’art. 117, 1º e 2º comma, lett. s), cost.”
(Corte di
giustizia dell’Unione europea, Sez. II,
sentenza 13.07.2017 - C-129/16
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. Anastasi,
LA GESTIONE DEI SITI INQUINATI: La responsabilità
dell’inquinamento nella sentenza del Tar Lombardia n.
1326/2017 (05.07.2017
- tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Premessa 2. La bonifica dei siti
inquinati 3. La giurisprudenza sui criteri di imputazione
degli obblighi di bonifica 4. Il problema del soggetto
responsabile: la sentenza della Corte di Giustizia 5. La
pronuncia del TAR Lombardia-Milano n. 1326/2017. |
giugno 2017 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla
responsabilità dell’inquinamento riguardante l’area “ex
polveriera Montedison”.
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Inquinamento –
Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Soggetto
obbligato – Individuazione – Criterio.
La fonte dell'obbligo di procedere
alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito
inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore
dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente
individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla
base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende
societarie complesse (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la Direttiva 2004/35/CE all’art. 2
definisce come “operatore”, cui si connette la
responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18°
Considerando) “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia
essa pubblica o privata, che esercita o controlla
un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad
una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini
dell’internalizzazione dei costi ambientali), nel caso
all’esame del Tribunale sono del tutto assenti un’analisi e
un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto
dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo
industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’
della condotta inquinante (Tar Lazio, sez. II-bis,
21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa
articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Montedison.
Ha aggiunto il Tar che l'inquadramento della contaminazione
come situazione permanente non esime dall’individuazione del
soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini
dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica
più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a
contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei
relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi
procedurali.
Il Tar ha infine ricordato che nell'ipotesi di mancata
individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione
degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non
provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né
altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale
devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art.
250, d.lgs. 03.04.2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul
proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area
bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a
buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei
medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 1326 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
V.2) Così sinteticamente ricostruito il contenuto
essenziale del provvedimento il Collegio osserva che
l’istruttoria operata dal Comune, che si riverbera
nell’articolato motivazionale, si presenta carente e non
supportata da circostanze attuali.
L’attività istruttoria svolta dal Comune si fonda, infatti,
da un lato, su elementi antecedenti all’ordinanza n.
76/2004, oggetto di annullamento, dall’altro su circostanze
subprocedimentali successive dalle quali non trapela, in
generale, alcuna attività volta ad individuare il soggetto
responsabile dell’inquinamento e, nello specifico, alcun
accertamento conducente e conclusivo per ritenere tale la
ricorrente. Anzi, dall’attività compiuta parrebbe emergere
l’intenzione del Comune di eseguire in proprio le opere di
bonifica, per il tramite della propria società Ta. STU
s.p.a.
Va ancora evidenziato che gli ultimi atti compiuti risalgono
agli anni 2006/2007.
Da allora –per quasi dieci anni– non risulta, né dall’atto
impugnato né dalla produzione documentale versata in atti,
che il Comune abbia svolto alcuna attività di indagine
ulteriore. Neppure si dà conto della permanente esistenza in
vita della società Ta. STU spa (soggetto obbligato alla
bonifica, unitamente al Comune, secondo l’ordinanza n.
76/2004), dell’avvenuta presentazione del progetto
definitivo da parte di tale società né di ulteriori elementi
rilevanti occorsi in tale lungo lasso di tempo.
Va osservato, innanzi tutto, che non risulta che la
ricorrente sia mai stata proprietaria dell’area (ceduta al
Comune nel 2002) né, tanto meno, che abbia svolto alcun tipo
di attività sui terreni in questione.
Ciò posto, l’individuazione del soggetto responsabile è
avvenuta sulla base di una indimostrata successione della
ricorrente “a titolo universale” dal soggetto che,
fino agli anni ’70, ha svolto l’attività inquinante.
Deve rammentarsi che il Comune nel 2002 ha acquistato l’area
in questione dalla società Co.In.Im. srl,
avente causa della società In.Ed. srl, già “Se.Im.Mo. spa” (per effetto del
trasferimento della proprietà nel 1999) la quale a sua volta
ne era divenuta proprietaria per conferimento (ciò è quanto
si ricava dal contratto di compravendita tra il Comune e la
società Co. srl).
Il Comune, nei propri atti difensivi, fa riferimento –a
sostegno dell’assunto circa la successione di Ed. spa– ad
una visura camerale relativa a Mo. srl da cui
risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d’azienda, le
fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti le seguenti
società: Ge.Ge.Im. srl, Im.Gr. srl, Società Im.As. spa, Ac. srl,
Ce. srl, ICI Im.Co.In. srl, Ed.Tr.Se. srl, e, infine, con atto di fusione per
incorporazione nell’aprile 2012, Ed.spa.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari, sopra
sinteticamente evidenziati (con indicazioni peraltro
difformi tra quanto riportato nel provvedimento impugnato e
quanto risulta dal documento prodotto in giudizio), che
prendono l’avvio da una precisa società del più articolato “Gruppo
Mo.”, l’individuazione di Ed. spa quale
successore “a titolo universale”, che sarebbe,
secondo l’atto impugnato, “soggetto giuridico succeduto a
Mo. spa, Co.In.Im. srl e Mo.
srl”, appare affermazione indimostrata, priva di alcuna
evidenza documentale, né in sede procedimentale né in sede
processuale.
Invero né è stata dimostrata –in modo rigoroso– l’effettiva
qualificazione di avente causa della ricorrente dal soggetto
responsabile dell’inquinamento (e quindi di successore a
titolo universale), essendosi il Comune limitato ad una
sommaria descrizione delle presunte successioni societarie
di un gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un
cinquantennio, risulta essere stato oggetto di modificazioni
complesse e articolate, composto da molteplici società
svolgenti attività tra loro differenti. Né è stata
dimostrata la responsabilità dell’inquinamento dell’area in
questione da parte del ritenuto avente causa della
ricorrente, considerato che, come già rilevato,
l’individuazione nella società Co. srl del soggetto
responsabile, effettuata con l’ordinanza n. 76/2004 (fondata
sul titolo contrattuale), è stata ritenuta da questo
Tribunale non corretta e non risulta che, in sede di nuovo
procedimento, siano stati effettuati accertamenti ai fini
dell’individuazione di una responsabilità ad altro titolo
della predetta società, asserita dante causa della
ricorrente.
La Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”,
cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr.
2° e 18° Considerando) “qualsiasi persona fisica o
giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o
controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad
una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini
dell’internalizzazione dei costi ambientali),
nel caso di
specie sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento
in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente
con specifico riferimento al ramo industriale interessato e
ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante
(cfr. in termini Tar Lazio–Roma sez. II-bis 21.03.2016, n.
3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel
tempo, del Gruppo Mo..
L'inquadramento della contaminazione come situazione
permanente, cui fa riferimento il Comune nel provvedimento
impugnato, non esime dall’individuazione del soggetto
responsabile, rilevando quel concetto ai fini
dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica
più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a
contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei
relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi
procedurali.
Le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n.
152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di
adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di
inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia
responsabile per avervi dato causa (cfr. Corte di Giustizia
sentenza 04.03.2015, n. C-534/15, Fipa Group).
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica,
cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento,
che quindi va puntualmente e precisamente individuato da
parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un
rigoroso accertamento (Tar Milano sez. IV 13.10.2016, n.
1860; Consiglio di Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
Nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o
di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua
–e sempreché non provvedano spontaneamente né il
proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le
opere di recupero ambientale devono essere eseguite
dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi
rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore
dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non
vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto
dei medesimi interventi (art. 253) (cfr. Cons. Stato sez. V
09.07.2015 n. 3449; Ad. Plen. n. 21/2013).
Tale disciplina rende priva di rilevanza la questione posta
dalla ricorrente circa la permanenza dell’efficacia
dell’ordinanza n. 76/2004 nella parte in cui il Comune
imponeva a sé stesso gli obblighi di bonifica. A questi
l’Amministrazione è tenuta comunque, nell’ipotesi sopra
indicata, in forza di legge.
Sotto altro profilo, ma concorrente ai fini della fondatezza
del lamentato vizio di carenza istruttoria, va rilevato che
l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato circa “l’accertata
contaminazione del sito” si fonda, tenuto conto della
documentazione offerta, sulla relazione di ARPA di cui si è
preso atto nella conferenza di servizi del 16.04.2006 che,
tuttavia, ha evidenziato che “i valori analitici
riscontrati nei campioni prelevati in contraddittorio
corrispondono a quelli rilevati dal laboratorio di parte e
non si riscontrano superamenti ai valori limite stabiliti
dal DM 471/1999 per i siti ad uso verde pubblico, privato e
residenziale”.
Nel corso del lungo periodo intercorso tra quegli
accertamenti e il provvedimento impugnato non risulta che
siano stati compiuti ulteriori analisi, anche alla luce
della normativa sopravvenuta.
Per le ragioni che precedono il ricorso per motivi aggiunti,
in relazione ai profili esaminati e assorbite le ulteriori
censure, merita accoglimento e per l’effetto va disposto
l’annullamento dell’ordinanza del 30.03.2016. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art.
256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti
del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato,
anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei
rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
Nella fattispecie, il rapporto di coniugio non attribuisce
il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non
costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni
dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi
che (non) gravano sul proprietario dell'area.
---------------
1.1 coniugi Gi.An. e Vi.Pa. ricorrono per l'annullamento
della sentenza del 18/12/2015 del Tribunale di Brindisi che
li ha condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di
2.100,00 euro di ammenda per il reato di cui agli artt. 110,
cod. pen., 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, loro
ascritto per aver, senza autorizzazione, raccolto, smaltito
e stoccato rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da
pezzi di fili elettrici, terra e roccia da scavo, rifiuti
legnosi, rifiuti ferrosi, plastica e gomma. Il fatto è
contestato come accertato in Ceglie Messapica il 19/02/2014.
1.1. Con il primo motivo, deducendo che il (solo)
An., titolare di impresa esercente attività edile, aveva
momentaneamente depositato alcuni materiali ed attrezzature
della propria ditta e che i cumuli di pietre erano
null'altro che il prodotto di lavori agricoli di
spietramento del terreno (circostanze oggetto della
testimonianza resa dal figlio Ma., del tutto negletta),
eccepiscono l'inosservanza e l'erronea applicazione degli
artt. 192, cod. proc. pen., e 256, d.lgs. n. 152 del 2006
nonché vizio di motivazione contraddittoria ed illogica in
ordine alla definizione di rifiuto dei beni sopra indicati e
omessa valutazione di elementi di prova favorevoli
all'imputato.
1.2. Con il secondo motivo eccepiscono, con
riferimento alla posizione della Pa., la violazione del
principio di colpevolezza e di responsabilità personale
essendo la condanna basata sul presupposto della
comproprietà del fondo e della 'culpa in vigilando'.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte,
non è configurabile in forma omissiva il reato di cui
all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella, Rv. 266030; Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014,
Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet,
Rv. 257294).
5.2. Il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di
impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce
il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro.
Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non)
gravano sul proprietario dell'area.
5.3. Ne consegue che, essendo queste le uniche ragioni della
condanna della Pa., nei suoi confronti la sentenza impugnata
deve essere annullata senza rinvio per non aver commesso il
fatto
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.06.2017 n. 28704). |
aprile 2017 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: Minambiente
in fuorigioco sui rifiuti. Tar Lazio.
È illegittimo il silenzio inadempimento
ventennale del Ministero dell'ambiente in
materia di assimilazione dei rifiuti
speciali ai rifiuti urbani.
Il TAR Lazio-Roma - Sez. II-bis, con
sentenza
13.04.2017 n. 4611, ha
obbligato il ministero dell'ambiente ad
adottare, entro un termine massimo di 120
giorni (dall'emissione sentenza), il decreto
ministeriale atteso ormai dal lontano 1997
(ovvero dall'anno dell'entrata in vigore del
cosiddetto «decreto Ronchi»).
Il fatto in concreto.
Il dicastero del
Ministero dell'ambiente, il Ministero dello
sviluppo economico e il Comune di Reggio
Emilia venivano chiamati in causa da
un'azienda bolognese (operante nel settore
rifiuti, attiva soprattutto sul fronte della
raccolta e avvio a riciclo della carta da
macero) che lamentava di essere gravemente
danneggiata, in termini di ingiusta
sottrazione di risorse e beni al mercato
privato e di elevato versamento Tari, dalla
eccessiva assimilazione dei rifiuti speciali
ai rifiuti urbani effettuata dalle
amministrazioni comunali, a causa della
mancanza di una regolamentazione
ministeriale (prevista dall'articolo 195 del dlgs 152/2006, e prima ancora dall'articolo
18, 2° comma, lettera d, dlgs 5/1997 c.d.
decreto Ronchi).
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso
sostenendo che «il Ministero dell'ambiente,
pur tenuto ad adottare la regolamentazione
suddetta, risulta non aver ancora completato
l'iter relativo, avendo soltanto avviato le
attività propedeutiche all'adozione del
decreto in questione».
Cosa che «rende illegittima l'inerzia tenuta
dallo stesso» e, per questo motivo, dovrà
adottare «di concerto con il ministro dello
Sviluppo economico il decreto che fissi i
criteri per l'assimilabilità dei rifiuti
speciali ai rifiuti urbani, nel termine di
giorni 120» dalla data della sentenza.
Per la metà di agosto prossimo e dopo
vent'anni di attesa, il regolamento potrebbe
finalmente essere emanato
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
marzo 2017 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Esclusione dell’obbligo del curatore fallimentare di
smaltire i rifiuti su immobile di proprietà del fallito.
---------------
Inquinamento – Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei
luoghi – Ingiunzione – Indirizzata al curatore fallimentare
– Esclusione.
Il curatore fallimentare non è
custode degli immobili di proprietà del fallito, con la
conseguenza che non è assoggettabile agli obblighi previsti
dall'art. 192, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (1).
---------------
(1)
Il Tar ha richiamato precedenti del giudice di appello (sez.
V, 30.06.2014, n. 3274;
16.06.2009, n. 3885; 12.06.2009, n. 3765) secondo
cui “il fallimento non può essere reputato un
subentrante, ossia un successore, dell’impresa sottoposta
alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita,
invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane
titolare del proprio patrimonio…e correlativamente il
fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni ma ne è
solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove
quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul
munuspubblico rivestito dagli organi della procedura (art.
31, r.d. 16.03.1942, n. 267: Il curatore ha
l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte
le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice
delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle
funzioni ad esso attribuite)”.
E’ stato aggiunto dal Consiglio di Stato che “il fatto
che alla curatela sia affidata l’amministrazione del
patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti
alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione
paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul
curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico
originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a
rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura
concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la
legge (sia esso il r.d. n. 267 del 1942, siano esse leggi
speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun
obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche
passive di cui era onerato il fallito…poiché in linea
generale, come ricordato, il curatore, nell’espletamento
della pubblica funzione non si pone come successore o
sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono
gli obblighi del fallito inadempiuti volontariamente o per
colpa, né di quelli che lo stesso non sia stato in grado di
adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale…”.
Conclusivamente “nei confronti del Fallimento non è
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 192, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152”
(secondo cui “Qualora la responsabilità del fatto
illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti
di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3,
sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che
siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo
le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in
materia di responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni) della
legittimazione passiva che l’articolo stesso pone in prima
battuta a carico del responsabile e del proprietario
versante in dolo o in colpa” (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.03.2017 n. 93
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Le questioni sottoposte al vaglio del Collegio
investono precipuamente la posizione della curatela
fallimentare in riferimento ai beni del fallito -acquisiti
dalla procedura- direttamente definibili rifiuti o comunque
contenenti fattori di inquinamento ambientale tali da
richiedere, secondo la normativa di settore, un intervento
di bonifica.
2. Su tale delicato problema, involgente non solo la
disamina della normativa (in primis contenuta nel d.lgs. n.
152/2016) di derivazione comunitaria che disciplina la messa
in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale, ma
anche l’analisi della legge fallimentare (r.d. n. 267/1942)
e dei correlati doveri posti a carico del curatore, non
sussiste un’univoca interpretazione giurisprudenziale.
3.
La questione è stata tuttavia affrontata in termini
sistematici dal Consiglio di Stato (sez. V, 30.06.2014 n.
3274; 16.06.2009, n. 3885; 12.06.2009, n. 3765)
che, in
accoglimento dell’appello promosso da una curatela (non
autorizzata alla prosecuzione dell’attività della società
fallita) avverso ordinanze sindacali imponenti la rimozione,
l’avvio a recupero o smaltimento di rifiuti ed il ripristino
dello stato dei luoghi, ne ha escluso la legittimazione
passiva, atteso che “il fallimento non può essere
reputato un subentrante, ossia un successore, dell’impresa
sottoposta alla procedura fallimentare. La società
dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività
giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio…e
correlativamente il fallimento non acquista la titolarità
dei suoi beni ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla
titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus pubblico rivestito
dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: Il
curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e
compie tutte le operazioni della procedura sotto la
vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori,
nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite)”.
In specifico, nella medesima pronuncia viene affermato
quanto segue: “il fatto che alla curatela sia affidata
l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini
conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed
alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta
affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi
facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché
relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della
procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti
che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n. 267, siano esse
leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile
alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni
giuridiche passive di cui era onerato il fallito…poiché in
linea generale, come ricordato, il curatore,
nell’espletamento della pubblica funzione non si pone come
successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non
incombono gli obblighi del fallito inadempiuti
volontariamente o per colpa, né di quelli che lo stesso non
sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della
procedura concorsuale… ”. E conclusivamente: “Per quanto
esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit.” (da intendersi d.lgs.
n. 152/2006), della legittimazione passiva che l’articolo
stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o in colpa”.
3.1. Detto insegnamento è stato ripreso in termini del tutto
condivisi in diverse pronunce del giudice di prime cure
(cfr. Tar Campania Napoli n. 5203/2014; Tar Puglia Lecce n.
504/2014; Tar Toscana n. 774 e 118/2014).
4. In precedenza (cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 3885/2009
e n. 4328/2003) il giudice d’appello aveva riscontrato che
il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari non
comporta necessariamente il dovere di adottare particolari
comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli
immobili richiedenti, per la presenza di fattori inquinanti,
la bonifica, e che la curatela fallimentare non subentra
negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità dell’imprenditore, a meno che non vi sia una
prosecuzione nell’attività, da ciò conseguendo “che non può
accettarsi che la legittimazione passiva sia del curatore
(poiché ciò, inoltre, determinerebbe un sovvertimento del
principio di matrice comunitaria del “chi inquina paga”
scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun
collegamento con l’inquinamento)”, nel mentre l’affermazione
del predetto principio “consiste, in definitiva
nell’imputazione dei costi ambientali …al soggetto che ha
causato la compromissione ecologica illecita”, rammentando
infine che “nel caso di mancata individuazione del
responsabile, o nell’assenza di interventi volontari, le
opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni
competenti (art. 250 d.lgs. n. 152/2006) salvo, a fronte
delle spese sostenute, l’esistenza di un privilegio speciale
immobiliare sul fondo, a tutela del credito per la bonifica
e la qualificazione degli interventi relativi come onere
reale sul fondo stesso, destinato a trasmettersi unitamente
alla proprietà del terreno (art. 253)”.
5. Orbene: in stretta relazione al surriferito insegnamento,
che condivide, il Collegio annota aggiuntivamente che, nella
fattispecie in esame, da un lato è del tutto pacifico che la
curatela ricorrente non sia stata autorizzata all’esercizio
provvisorio ai sensi dell’art. 104 della legge fallimentare,
e dall’altro, come si evince dalla documentazione versata in
causa (doc. 11 fasc. ricorrente), che la custodia del
compendio immobiliare -tra cui rientra il capannone sito in p.ed. 1214/1- risulta affidata ex art. 32 L.F., fin dal
momento della redazione dell’inventario, al legale
rappresentante della società fallita (An.Ce.), nei cui
esclusivi confronti le prime ordinanze contingibili e
urgenti adottate dell’autorità sindacale erano state in
effetti rivolte.
6. Sulla scorta di quanto precede, attesa la ricostruzione
sistematica del rapporto intercorrente fra la legislazione
fallimentare (e del ruolo assunto nell’ambito della stessa
dal curatore) e quella dettata dal legislatore in materia di
tutela ambientale dai rifiuti, nonché le appena viste
connotazioni che caratterizzano la procedura fallimentare in
esame, le ragioni sostenute dalla ricorrente con i primi
motivi dovrebbero trovare pacifico accoglimento.
7. Tuttavia, oltre al citato insegnamento deve riscontrarsi
la sussistenza di un orientamento giurisprudenziale diverso,
secondo cui sussisterebbe la legittimazione passiva della
curatela fallimentare, rispetto agli obblighi connessi alla
bonifica di inquinamenti ambientali, non solo nel caso di
autorizzazione all’esercizio provvisorio, ma anche nelle
ipotesi di univoca, autonoma e chiara responsabilità del
curatore nell’abbandono dei rifiuti (cfr. Tar Lombardia
Brescia 09.01.2017 n. 38; Tar Toscana sez. II 19.03.2010 n.
700): detto orientamento ha trovato poi particolare
applicazione nella materia dell’inquinamento derivato dalla
presenza di amianto nei beni acquisiti dalla curatela, e
nello sviluppo di questo filone va annoverata la pronuncia
del Tar Friuli Venezia Giulia n. 441/2015 (conforme Tar
Lombardia Brescia n. 669/2016), citata nell’ordinanza
sindacale qui impugnata.
8. In base al ragionamento seguito in tali ultime pronunce
“l’eternit diviene pericoloso per la salute pubblica solo a
certe condizioni, il che implica una continua evoluzione
della situazione e quindi anche il passaggio delle
responsabilità fra cedente e cessionario dei beni immobili
in cui sia presente l’amianto”, di talché “la continua
sorveglianza imposta dalla legge e il fatto che l’amianto
divenga pericoloso per l’ambiente e la salute solo a certe
condizioni consentono di scindere le responsabilità e
obbligano passivamente il soggetto che detiene il bene nel
momento in cui si verificano le condizioni per
l’applicazione della normativa speciale”: in forza di quanto
precede, nelle menzionate sentenze il giudice di prime cure
è giunto ad affermare la legittimazione passiva del curatore
fallimentare (“detentore attuale”) negli obblighi di
sanificazione del sito inquinato.
9. Il Collegio, a seguito del necessario riesame e
approfondimento proprio della fase di merito, non ritiene
condivisibile tale orientamento, e comunque non lo ritiene
suscettibile di applicazione al caso di specie.
10. Sotto un primo profilo, infatti,
l’affermazione di tale
principio condurrebbe ad affermare la legittimazione passiva
della curatela oltre i limiti che contraddistinguono
l’assolvimento del munus pubblico che la connota,
individuato –come sopra visto- nella gestione dei beni del
fallito sotto la vigilanza e direzione degli organi
fallimentari, in primis del giudice delegato, ma solo ai
fini della liquidazione del patrimonio secondo le regole
stabilite dalla legge fallimentare volte alla soddisfazione
paritetica dei creditori, e per il resto obnubilerebbe
l’effettiva applicazione del principio di derivazione
comunitaria del “chi inquina paga”, in quanto prescinderebbe
dall’individuazione dell’effettivo responsabile
dell’inquinamento.
11. In secondo luogo non appare persuasiva l’affermazione
secondo cui l’amianto, sostanza insidiosa anche per quel che
riguarda la sua precisa identificazione ed individuazione
nell’ambito di edifici variamente compositi, non costituisce
di per sé un rifiuto ma lo diventa solo a seguito del
superamento di determinati livelli di concentrazione nella
struttura che lo contiene, posto che l’art. 2, co. 1 lett.
c, della legge 27.03.1992 n. 257/1992 (“Norme relative
alla cessazione dell’impiego dell’amianto”) nella
definizione di rifiuto ricomprende “qualsiasi sostanza o
qualsiasi oggetto contenente amianto che abbia perso la sua
destinazione d’uso e che possa disperdere fibre d’amianto
nell’ambiente in concentrazioni superiori a quelle ammesse
dall’art. 3”, con ciò dovendosi ritenere che fin
dall’origine della struttura contenente amianto sussista la
pericolosità idonea alla qualificazione dello stesso come
rifiuto.
11.1 Nella fattispecie in esame la copertura del capannone
preesiste ovviamente al fallimento della società Ce.Pr. s.a.s, e quest’ultima è da presumersi, in assenza
di qualsivoglia elemento contrario, soggetto costruttore ed
a lungo utilizzatore (oltre che proprietario e come visto
custode nella persona di Ce.An.) dell’edificio e
della sua copertura, nonché a conoscenza -nelle persone del
legale rappresentante e dei soci- dell’effettiva
composizione della struttura dell’edificio e dei materiali
impiegati, ivi compreso l’amianto, il che rileva anche in
ordine al necessario riscontro dell’individuazione del
soggetto responsabile dell’inquinamento (“chi inquina paga”)
e dell’accertamento del profilo soggettivo del dolo o della
colpa nel comportamento commissivo o omissivo.
12. Infine, pur volendo aderire al predetto orientamento,
deve osservarsi che non appare sufficiente rilevare come il
mero accertamento dell’avvenuto superamento dei limiti di
amianto tabellarmente consentiti sia stato effettuato in
data successiva alla dichiarazione di fallimento,
intervenuta nell’anno 2011, per poter validamente escludere
che, nel corso dei pochi anni intercorsi, e non già prima, i
limiti di tollerabilità fossero ecceduti: è proprio la
contestuale affermazione, pure rinvenibile nell’orientamento
da ultimo citato, secondo cui l’autonoma responsabilità del
curatore andrebbe accertata secondo criteri di univocità e
chiarezza, ad inficiare ulteriormente, qui sotto il profilo
del difetto di motivazione, i presupposti dell’ordinanza
impugnata.
12.1 Questa, infatti, sul punto in esame si limita a
richiamare l’accertamento dell’indice di degrado operato
dagli uffici dell’Azienda provinciale per i servizi
sanitari, intervenuto in data successiva alla dichiarazione
di fallimento, senza tuttavia che le amministrazioni
interessate, in primis il Comune, abbiano condotto -in
vista dell’emissione dell’ordinanza assunta nei confronti
della curatela- alcuna indagine in ordine alla datazione
dell’edificio e della sua copertura, nonché agli effetti del
tempo trascorso dalla realizzazione sulla concentrazione
dell’amianto poi computata.
13. In conclusione, per le suesposte ragioni, l’orientamento
giurisprudenziale da ultimo citato, posto alla base
dell’ordinanza sindacale impugnata, per un verso non appare
condivisibile e, sotto altro profilo, si rileva
inapplicabile alla fattispecie in esame, dovendosi
contrariamente aderire al qui condiviso e surriferito
insegnamento proveniente dal giudice d’appello, ed alla
conseguente affermazione, per la materia de qua, del difetto
di legittimazione passiva della curatela fallimentare.
14. Il ricorso merita dunque accoglimento, essendo
precipuamente fondati il primo motivo e la prima parte del
secondo, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte
nel gravame, da ciò conseguendo l’annullamento
dell’ordinanza impugnata.
15. Per quanto riguarda la posizione sostanziale e
processuale rivestita dal pure convenuto Ministero
dell’interno, appare condivisibile quanto sostenuto nella
memoria della difesa erariale, secondo cui l’ordinanza
impugnata rientra, per la materia de qua (art. 32 TU delle
leggi regionali sull’ordinamento dei Comuni della Regione
autonoma Trentino- Alto Adige), nelle competenze proprie del
Sindaco quale rappresentante dell’ente comunale, e non nella
qualità di ufficiale di governo (cfr. in termini Cons. di
Stato, sez. V, 25.02.2016 n. 765), e da ciò deriva
l’estromissione del Ministero dal presente giudizio. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Il fresato d’asfalto è da considerarsi
sottoprodotto laddove utilizzato in quantità ragionevoli e
non eccessive quale materiale di continuo impiego per
alimentare un impianto di produzione di asfalto, non
rientrando –quindi– nella classificazione impeditiva del
c.d. piano provinciale dei rifiuti, che può considerare il
fresato d’asfalto come rifiuto solo laddove collocato in
quantità tali da determinare la formazione di una vera e
propria discarica.
---------------
Il parere favorevole di Valutazione Ambientale Strategica
reso dalla conferenza di servizi in sede di adozione del
progetto edilizio di ampliamento edificatorio produttivo con
formazione di impianti di produzione di asfalto e
calcestruzzo in variante al piano urbanistico generale con
la procedura dello Sportello Unico-SUAP, laddove anche
ricognitivo di tutti i pareri ambientali istruttori
favorevoli resi dai vari enti coinvolti nel procedimento
(ASL, ARPA, Vigili del Fuoco etc.) costituisce un vincolo
procedimentale per il consiglio comunale chiamato ad
assumere la delibera finale di approvazione del progetto
stesso, impedendo la possibilità di un legittimo diniego di
approvazione finale.
La Valutazione Ambientale Strategica è fase procedurale
complessa che deve precedere l’approvazione del progetto
edilizio in variante tramite la procedura di Sportello Unico
SUAP, per cui le valutazioni istruttorie che vengono
compiute nella fase istruttoria ed il giudizio ambientale
positivo finale reso dall’autorità competente consumano per
questi aspetti il potere di valutazione discrezionale
assegnato al consiglio comunale, in ciò innovando
radicalmente rispetto alla risalente giurisprudenza che
riteneva permanesse ampia e totale discrezionalità in capo
al Consiglio Comunale per l’approvazione o meno dei
procedimenti di Sportello Unico nella fase finale, questa
giurisprudenza –invero– si riferisce a casistiche relative a
procedimenti anteriori all’entrata in vigore della normativa
in tema di Valutazione Ambientale Strategica, in cui il
giudizio ambientale veniva reso dal Consiglio Comunale solo
nella fase finale del procedimento.
---------------
L’illegittimo ed illecito arresto di un procedimento di
approvazione di un progetto di ampliamento produttivo in
variante al piano regolatore generale motivato solo per
ragioni di tipo politico, ossia per un ripensamento insorto
nell’amministrazione comunale nella fase finale approvativa
in relazione a manifestazioni pubbliche di segno contrario
provenienti da un comitato ambientalista nell’imminenza del
rinnovo elettorale delle cariche comunali, determina
l’annullamento giudiziale dell’atto di diniego e l’obbligo
di risarcimento del danno per l’ingiusto blocco
all’ampliamento dell’attività produttiva.
---------------
Il tecnico comunale estensore –quale autorità competente VAS–
di un motivato parere favorevole ambientale rispetto al
progetto di ampliamento produttivo mediante le procedure di
Sportello Unico SUAP incorre nel vizio di eccesso di potere
per contraddittorietà manifesta laddove sottoscriva solo in
seguito ma a breve distanza temporale nella fase finale del
procedimento, dopo l’adozione del SUAP da parte del
Consiglio Comunale, una relazione esprimente parere negativo
ambientale ed urbanistico rispetto al medesimo intervento
nonché redigendo bozza di delibera di diniego poi
illegittimamente approvata dal Consiglio Comunale.
---------------
Laddove, annullato dal giudice amministrativo, il diniego di
ampliamento produttivo mediante la procedura di Sportello
Unico SUAP sopravvenga una condizione di difficoltà
economica dell’imprenditore proponente, tale da condurlo
alla presentazione di una proposta di concordato
liquidatorio, viene meno il presupposto legale (ossia
l’esistenza di una impresa attiva che necessità di spazi
ulteriori per il ciclo produttivo) che giustifichi il
rilascio del permesso edilizio richiesto tramite la
procedura SUAP, per cui deve essere rigettato il ricorso per
ottemperanza proposto dal liquidatore giudiziale della
società in concordato preventivo.
Pur sopravvenuta la condizione di liquidazione concordataria
dell’impresa che impedisce il rilascio del permesso edilizio
in variante in ottemperanza della sentenza del giudice
amministrativo che abbia annullato il diniego opposto dal
consiglio comunale, l’amministrazione comunale è comunque
tenuta a risarcire all’imprenditore (e nel caso alla
procedura liquidatoria concordataria gestita dal Tribunale
Fallimentare) tutti i danni subiti per diniego ingiustamente
ed illegittimamente provocati.
Il risarcimento dei danni conseguenti ad illegittimo diniego
di approvazione di progetto edilizio in variante al piano
regolatore comunale mediante la procedura SUAP deve
comprendere:
a) il ristoro di tutte le spese vive sopportate, compreso le spese
per progetti e consulenze varie;
b) la differenza di valore immobiliare tra l’area destinata ad uso
produttivo (come sarebbe stato nel caso di approvazione del
SUAP) e l’area rimasta nella destinazione agricola;
c) i mancati utili conseguenti all’illecito impedimento all’avvio
dell’iniziativa imprenditoriale, anche in relazione al
possibile fatturato venuto meno ed agli appalti non
conseguiti, con applicazione –rispetto al totale
determinato- di parametri riduttivi equitativi riferiti alla
c.d. “perdita di chanche” (nel caso l’amministrazione
comunale di Arcore è stata condannata a pagare 600.000,00 €
complessivi al Tribunale Fallimentare di Bergamo).
---------------
... per la riforma della
sentenza 09.04.2015 n. 898 del TAR per la
LOMBARDIA – Sede di MILANO - SEZIONE II, resa tra le parti,
concernente archiviazione di domanda di Suap. Risarcimento
dei danni.
...
1. Con la sentenza n. 898 del 09.04.2015, il Tribunale
Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
pronunciando sul ricorso proposto dalla società Do. f.lli
s.a.s. (d’ora in poi Do.) in liquidazione e in concordato
preventivo, dichiarava inammissibile la domanda per ottenere
l’ottemperanza al giudicato formatosi a seguito della
sentenza n. 2182 del 10.08.2012, confermata dal Consiglio di
Stato con sentenza n. 4151 del 21.05.2013, e in parte
dichiarava irricevibile e in parte respingeva la domanda di
annullamento proposta avverso la deliberazione del Consiglio
comunale di Arcore n. 3 del 03.02.2014, e contro il nuovo
Piano di governo del territorio del Comune, approvato con
deliberazione di C.C. n. 18 del 27.05.2013, ed il nuovo
Piano di coordinamento della Provincia di Monza e Brianza,
approvato con deliberazione di C.P. n. 16 del 10.7.2013; il
Tar respingeva, inoltre, la domanda di condanna del Comune
di Arcore al risarcimento dei danni.
1.1. La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“La società Do. f.lli s.a.s., operante nel campo
dell’estrazione di materiali inerti naturali e della
fornitura di calcestruzzi nel settore dei lavori pubblici,
era proprietaria di un impianto di produzione di asfalto e
di produzione di calcestruzzo, sito nel territorio del
Comune di Vimercate. A seguito dell’approvazione del
progetto per la realizzazione dell’Autostrada Pedemontana,
il cui tracciato interseca il predetto impianto, la stessa
società ha dovuto avviare un iter per lo spostamento di
quest’ultimo, acquisendo una nuova area in Comune di Arcore,
destinata a zona agricola.
In data 03.08.2009, ha presentato istanza per la
realizzazione del nuovo insediamento produttivo ed il
Comune, con deliberazione n. 200 del 09.12.2009, valutata
l’assenza di zone adeguate per il complesso produttivo in
base allo strumento urbanistico, ha giudicato procedibile
l’istanza ai sensi dell’art. 5 del DPR n. 447 del 1998, ai
fini della variazione dello strumento urbanistico. Il
progetto veniva sottoposto alla procedura di VAS che, dopo
l’acquisizione dei pareri favorevoli delle autorità
coinvolte in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza,
si concludeva con provvedimento favorevole del 14.05.2010
circa la compatibilità ambientale del SUAP a condizione del
rispetto delle prescrizioni ed indicazioni del parere
motivato.
Per l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto e
dell’attività, la Provincia Monza e Brianza giudicava non
necessario l’espletamento della procedura di V.I.A.
regionale. Il Sindaco, con nota 11.12.2009, nel comunicare
all’impresa il buon esito della prima conferenza di servizi
per la valutazione strategica ambientale del SUAP, la
invitava a provvedere al versamento in conto anticipazione
degli oneri di urbanizzazione per euro 150.000. La
Conferenza di servizi si concludeva il 25.01.2011 con
valutazione positiva del progetto per la realizzazione del
nuovo insediamento industriale, con varie prescrizioni.
La Provincia di Monza e Brianza, con nota del 27.01.2011,
nel dare atto del parere favorevole espresso dal proprio
rappresentante in sede di conferenza di servizi, segnalava,
tuttavia, sotto il profilo ambientale, l’incompatibilità
dell’attività di trattamento di rifiuti con il Piano
provinciale dei rifiuti e, considerato che il progetto
comprendeva l’attività di fresa d’asfalto, da considerarsi
alla stregua di un rifiuto, diffidava, in quanto titolare
della funzione ambientale, il Comune di Arcore
dall’autorizzare tale attività. Il Comune di Arcore, con
deliberazione n. 35 del 21.07.2011, richiamando il contenuto
della Relazione allegata alla delibera, respingeva
l’istanza.
La società Do. ha impugnato dinanzi a questo TAR l’atto
negativo comunale nonché il parere parzialmente negativo
espresso dalla Provincia Monza e Brianza nella parte in cui
ritiene incompatibile con il PPGR il progetto di impianto
per l’impiego di fresato di asfalto. Il TAR, con sentenza n.
2182 del 10.08.2012, ha accolto il ricorso. La sentenza è
stata confermata dal Consiglio di Stato in sede di giudizio
di appello (sent. n. 4151 del 06.08.2013). La ricorrente, in
data 17.09.2013, ha protocollato una nota con cui ha chiesto
al Comune di Arcore di dare esecuzione alla pronuncia del
TAR, ormai passata in giudicato. L’amministrazione ha dato
riscontro all’istanza con nota del 30.09.2013.
In tale atto, l’Amministrazione comunica che, per dare nuovo
impulso al procedimento di SUAP, sarebbe stato necessario
che la ricorrente avesse provveduto al deposito di un nuovo
atto unilaterale d’obbligo e di una nuova bozza di
convenzione; precisando che, siccome la stessa ricorrente
aveva nel frattempo presentato al Tribunale di Bergamo
istanza per l’ammissione alla procedura di concordato
preventivo, tali atti avrebbero dovuto essere
preventivamente autorizzati dagli organi della procedura. A
questa nota, ha fatto seguito la deliberazione di Consiglio
Comunale n. 3 del 03.02.2014, con cui il Comune di Arcore ha
deciso di archiviare definitivamente la procedura di SUAP
avviata dalla ricorrente….”.
2. Avverso la prefata sentenza la Do. F.lli s.a.s. in
liquidazione ed in concordato preventivo ha proposto appello
dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendone
l’annullamento e l’integrale riforma.
...
1. Viene alla decisione del Collegio l’ultimo segmento della
causa suindicata che vede opposta l’appellante Do. F.lli
s.a.s. in liquidazione ed in concordato preventivo alle
amministrazioni intimate.
1.1. Preliminarmente il Collegio fa presente che a mente del
combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1,
c.p.a., farà esclusivo riferimento ai mezzi di gravame posti
a sostegno dei ricorsi in appello, senza tenere conto di
ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive
successivamente depositate, in quanto intempestive,
violative del principio di tassatività dei mezzi di
impugnazione e della natura puramente illustrativa delle
comparse conclusionali (cfr. ex plurimis Cons. Stato
Sez. V, n. 5865 del 2015); del pari, in via preliminare, si
osserva che la causa appare sufficientemente istruita per
cui non appare necessario disporre alcun incombente
istruttorio.
1.2. Come rilevato nella parte in fatto del presente
elaborato, mercé la sentenza non definitiva n. 5158/2015 è
stata esclusa la fondatezza di tutti i primi quattro motivi
di appello diretti a censurare la prefata sentenza del Tar
n. 898/15 nella parte in cui questa aveva dichiarato
inammissibile la domanda per ottenere l’ottemperanza al
giudicato ed aveva dichiarato in parte irricevibile ed in
parte infondata (respingendola) la domanda di annullamento
dei nuovi atti pianificatori medio tempore emessi dalle
amministrazioni intimate.
1.2. La sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha invece
parzialmente accolto il quinto motivo di appello, ha
indicato i “versanti” di danno risarcibile,
escludendo immediatamente invece la debenza del risarcimento
richiesto con riguardo ad alcune “voci” di danno, pur
causalmente ricollegabili al “primo” diniego, ed ha
disposto una consulenza tecnica su tale aspetto da
determinarsi.
1.3. Va quindi premesso che costituiscono statuizioni
rigiudicate quelle contenute nella sentenza non definitiva
n. 5158/2015 mediante le quali la Sezione ha perimetrato
quali fossero i profili di danno risarcibili: tutti gli
argomenti critici volti a rimettere in discussione gli
approdi ivi raggiunti (si veda in proposito la prima parte
della memoria depositata in data 13.12.2016 dalla appellante
società Do. f.lli s.a.s.) sono pertanto inammissibili.
1.4. Posto però che entrambe le parti processuali hanno
insistentemente tentato (in ultimo con le memorie depositate
successivamente al deposito della relazione di consulenza
tecnica ed in sede di discussione alla odierna pubblica
udienza) di rimettere in discussione profili contenziosi già
decisi con statuizione rigiudicata, si ritiene in proposito
di specificare che:
a) la più volte citata sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha
espressamente affermato che “in tale situazione,
pertanto, permane la illegittimità delle ragioni ostative
poste a base dello stesso e, dunque, la violazione del
legittimo affidamento maturatosi in capo al privato.
I contenuti del giudicato e le argomentazioni poste a
sostegno dello stesso –come sopra diffusamente richiamate–
rivelano, pertanto, in assenza di una rinnovata valutazione
sulle ragioni del primo diniego da parte del soggetto
titolare della potestà pianificatoria, la sussistenza di
profili di responsabilità in capo al Comune”;
a1) consegue da ciò che tutti gli argomenti dell’Amministrazione
comunale tesi a dimostrare che (a cagione della mancata
disponibilità pregressa degli impianti di Vimercate) tale
affidamento non sussistesse, e tutti gli argomenti critici
tesi a dimostrare che giammai l’appellante avrebbe potuto
ottenere il bene della vita e che, pertanto, nessun
risarcimento era dovuto, possono rilevare in punto
(unicamente) di quantificazione dell’importo risarcitorio,
ma non possono incidere sulla attribuibilità del medesimo e
ove a ciò finalizzati devono essere dichiarati
inammissibili;
b) la società Do. F.lli s.a.s. ha eccepito l’integrale
inammissibilità di tali argomenti critici (in quanto “nuovi”
ed impingenti sull’an della realizzabilità
dell’intervento, il che integrava cosa giudicata) ma -nei
limiti prima indicati– la eccezione non è accoglibile in
quanto:
I) è ben vero che il comune avrebbe potuto
prospettare dette “difficoltà realizzative
dell’intervento” –prospettandole quali cause ostative
alla realizzazione del medesimo in sede di rieffusione del
potere- perché, come è noto, la sentenza demolitoria non le
precludeva di ripronunciarsi su tutti gli aspetti della
controversa vicenda una seconda volta (tra le tante, (Cons.
Stato, Sez. IV, 06.10.2014, n. 4987);
II) ciò non ha fatto, e quindi in chiave di
dimostrazione della inassentibilità dell’intervento
edificatorio auspicato dalla società Do. F.lli s.a.s. v’è
una preclusione;
III) pur tuttavia, la detta preclusione non
impedisce al comune comunque di dedurre dette circostanze,
che assumono rilievo in sede (ormai, soltanto) di
quantificazione del risarcimento, laddove esse –in tali
limiti- possono essere liberamente apprezzate dal giudice
(come meglio si vedrà di qui a poco, allorché si chiarirà
che la pretesa della società Do. ha mera consistenza di
chance);
c) quanto alla insistita contestazione da parte del Comune di
Arcore (anche in sede di discussione all’odierna udienza
pubblica) dell’affidamento ingeneratosi sulla società, per
rilevarne la inammissibilità in quanto impingente su una
tematica coperta dal giudicato è sufficiente riportare due
brevi stralci della più volte menzionata sentenza non
definitiva che così ha statuito:” gli argomenti portati a
sostegno della determinazione reiettiva risultano
illegittimi e non sufficienti a fondare il disposto rigetto.
Ciò in considerazione della loro inidoneità a superare le
risultanze del procedimento fino a quel momento svolto
(favorevoli ad una conclusione positiva dello stesso) e
ponendosi, dunque, con le stesse in ingiustificata
contraddizione, con lesione del legittimo e rilevante
affidamento in proposito maturatosi in capo al privato.”;
“ln tale situazione, pertanto, permane la illegittimità
delle ragioni ostative poste a base dello stesso e, dunque,
la violazione del legittimo affidamento maturatosi in capo
al privato.”;
d) di converso, (e con più specifico riferimento agli argomenti
prospettati dalla società Do. F.lli s.a.s. e ribaditi in
sede di discussione all’odierna udienza pubblica) la
medesima sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha
espressamente affermato che:
I) “il maggior onere finanziario (maggior
costo) per la realizzazione del complesso produttivo non è
dovuto”;
II) “neppure deve essere risarcito il danno
finanziario per crisi di liquidità connessa ai maggiori
costi di approvvigionamento dell’appalto”;
III) “dagli atti di causa non emerge la prova
della sussistenza di un nesso causale tra tale pretesa voce
di danno, la sottoposizione di Do. a procedura di concordato
preventivo ed il diniego a suo tempo opposto dal Comune di
Arcore;”
d1) consegue da ciò che non sono ammissibili le argomentazioni
della parte privata nella parte in cui tentano di
sollecitare un ulteriore giudizio su tali profili che,
infatti, non verranno dal Collegio esaminati, in quanto
coperti dal giudicato “interno” formatosi.
2. Ciò premesso, la relazione del Ctu nominato ha fornito
partita risposta ai quattro quesiti descritti nella sentenza
non definitiva n. 5158/2015, in particolare evidenziando
che:
a) quanto alle spese sostenute dalla originaria ricorrente (primo
quesito), esse potevano essere così individuate:
I) per le spese ed i costi di procedura, non
recuperabili, è stato quantificato un importo “certo”
pari ad Euro 326.343,55 e presumibile, pari ad Euro
339.021,69 (pag. 24 CTU);
II) per ciò che concerneva l’acquisto del terreno
ove avrebbe dovuto erigersi l’impianto, tenuto presente che
il medesimo fu acquistato per un importo pari ad Euro
298.000//00 e che la servitù in favore del detto fondo fu
acquistata successivamente (nel 2009) per un importo pari ad
Euro 85.000//00 è stato computato il valore attuale, sia
considerandolo agricolo (€ 152.664,00) che edificabile (€
1.1272.200,00) con l’avvertenza che non sussistevano atti
programmatori tali da fare desumere che lo stesso avesse
assunto caratteristica di area edificabile con destinazione
produttiva (pag. 25 dell’elaborato di Ctu); inoltre, il
valore è stato distinto, facendo riferimento sia all’ipotesi
di alienazione con recupero della servitù, che nell’ipotesi
di alienazione senza recupero della servitù (e ciò sia con
riferimento al valore del suolo quale edificabile, che con
riguardo al valore del suolo quale agricolo); il computo
finale contenuto nell’elaborato di verificazione è stato
pertanto pari (nell’ipotesi di terreno agricolo) ad una
minusvalenza di € 230.336,00 (corrispondente ad € 145.336,00
qual diminuzione del fondo, ed € 85.000,00 corrispondenti
alla servitù ove considerata irrecuperabile) ovvero di €
145.336,00 (scomputati € 85.000,00 corrispondenti alla
servitù ove considerata recuperabile); mentre, nell’ipotesi
di terreno considerato edificabile sarebbe stata
riscontrabile una plusvalenza pari ad € 889.200,00 (laddove
il valore di € 85.000,00 corrispondente alla servitù venisse
considerato irrecuperabile) ovvero pari ad € 974.200,00
(laddove il valore di € 85.000,00 corrispondente alla
servitù venisse considerato recuperabile);
b) quanto al secondo quesito -con il quale, in sostanza si chiedeva
di quantificare con riferimento al periodo dal 21.07.2011 al
24.05.2013 (id est: la voce di “danno”
discendente dagli acquisti di asfalto che la originaria
ricorrente era stata costretta a sostenere (rispetto ai
risparmi che ne sarebbero discesi laddove l’impianto fosse
stato autorizzato e la stessa avesse ivi potuto produrre in
proprio l’asfalto) e quella discendente dalla mancata
vendita del surplus di asfalto eventualmente prodotto- la
relazione ha esaminato la questione alle pagg. 25-43
dell’elaborato, pervenendo ad una quantificazione valoriale
pari ad euro 216.900,00, quanto al maggior costo subito per
l’acquisto dell’asfalto che essa era stata costretta ad
effettuare (piuttosto che produrlo in proprio), e pari ad
euro 313.000 quanto ai guadagni che essa avrebbe potuto
ritrarre dalla vendita dell’asfalto: tale dato è stato
calcolato previa sottrazione dell’arco temporale di nove
mesi (quantificato quale arco temporale necessario per
ottenere la variante) e, quindi, calcolando 13 mesi di
attività effettiva;
c) quanto al terzo quesito con il quale, in sostanza si chiedeva di
quantificare con riferimento al periodo dal 21.07.2011 al
24.05.2013, la voce di “danno” (in termini di mancato
guadagno) derivante dalla presumibile vendita di
calcestruzzo prodotto nell’impianto medesimo, la relazione
ha esaminato la questione alle pagg. 43-47 dell’elaborato,
pervenendo ad una determinazione secondo cui il mancato
margine sarebbe ricompreso tra Euro 699.400,00 (e quindi
16,14 € per metro cubo facendo riferimento ad un volume di
attività “normale” per la società Do., pari a 40.000
metri cubi annui) ed Euro 1.213.729,16 (e quindi 17,23 € per
metro cubo facendo riferimento ad un volume di attività “ideale”
per la società Do., pari a 65.000 metri cubi annui);
d) quanto infine al quarto quesito, la relazione del Ctu la
relazione ha esposto i dati raccolti alle pagg. 47-49
dell’elaborato ed ha fatto presente che nel 2009 l’impianto
di Vimercate della Co. srl (e da questa acquistato nel 2006
dalla società Ca. s.r.l.) venne venduto ad una società
libica (l’impianto venne poi smantellato nel 2010), per cui
a partire da tale data di avvenuta cessione, nel 2009
l’appellante non poteva vantare alcun rapporto negoziale
privilegiato con il detto impianto,
2.1. Con nota allegata alla relazione e versata in atti,
l’Ing. Ba. ha proposto una serie di osservazioni alle
conclusioni del C.t.u., in particolare deducendo che:
a) già nell’agosto 2009 (epoca in cui venne depositata l’istanza al
Comune di Arcore) la società appellante non era più
proprietaria degli impianti ubicati in Vimercate (nel 2006
l’azienda Cantù aveva ceduto i rami di azienda per la
produzione del conglomerato bituminoso ed il calcestruzzo
alla Co., come peraltro colto dal C.t.u. al paragrafo 3.2.
della relazione) l’affermazione contenuta al paragrafo
3.1.1., pag 10, della relazione, ove si sosteneva che
l’appellante utilizzava, nel periodo di interesse, impianti
di proprietà in Vimercate, era in contraddizione con il
paragrafo 3.2. della relazione di consulenza tecnica;
b) la tesi esposta a pag. 10 della relazione, secondo la quale il
progetto di Arcore era finalizzato ad una strategia di
integrazione verticale dell’appellante, era apodittica e
sfornita di evidenze probatorie;
c) quanto al paragrafo 4.1. della relazione, non erano documentati
il merito e la congruità delle spese di progettazione
sostenute;
d) quanto al paragrafo 4.2.1. della relazione, la Conferenza di
servizi si tenne il 25.01.2011 ma a quella data il progetto
non era cantierabile: i tempi di realizzazione del progetto,
quindi, erano ben superiori ai sette mesi stimati dalla
relazione di consulenza tecnica;
e) ciò anche considerato che il progetto era sprovvisto di alcune
autorizzazioni indispensabili a realizzare e mettere in
esercizio l’impianto.
3. Ciò premesso, ritiene il Collegio che il punto di
partenza dal quale occorre muovere è quello per cui, -come
accertato nella sentenza parziale regiudicata n. 5158/2015-
“i contenuti del giudicato e le argomentazioni poste a
sostegno dello stesso –come sopra diffusamente richiamate–
rivelano, pertanto, in assenza di una rinnovata valutazione
sulle ragioni del primo diniego da parte del soggetto
titolare della potestà pianificatoria, la sussistenza di
profili di responsabilità in capo al Comune.
La illegittimità dei motivi di reiezione della variante
lasciano, dunque, supporre (ripetesi, in assenza di
rinnovata valutazione su di essi) che il bene della vita
sperato da Do. sarebbe stato conseguito, non ostandovi le
ragioni concretamente espresse nella delibera n. 35/2011, in
ragione della loro illegittimità ed in considerazione delle
risultanze del procedimento SUAP così come fino a quel
momento svoltosi.”.
3.1. Risultano pertanto incontrovertibili due circostanze:
a) l’an della responsabilità del comune;
b) la necessità di pervenire ad una valutazione di tipo equitativo
fondata sul dato probabilistico del “presumibile”
conseguimento da parte dell’appellante del bene della vita
cui essa aspirava.
3.2. Sulla scorta di tale considerazione, è anzitutto
inaccoglibile la pretesa della società Do. di vedersi
liquidati, per intero, i valori determinati nella relazione
di consulenza.
3.3. La impostazione della sentenza non definitiva n.
5158/2015 non è stata questa (argomentando diversamente non
vi sarebbe logica nella minuta ed analitica strutturazione
dei quesiti n. 2 e n. 3 disposta dalla sentenza medesima) e
l’esito della consulenza non consente neppure di ritenere
plausibile la pretesa della società Do..
3.4. Invero, dalla analitica relazione del C.T.U., e dalle
difese del comune, emerge, quale dato incontrovertibile che,
ferma la illegittimità del diniego opposto dal comune (così,
si ripete, la sentenza suddetta: “il Comune di Arcore ha
illegittimamente denegato, con la prima delibera di
Consiglio Comunale n. 35/2011, l’approvazione della variante
urbanistica SUAP richiesta dalla Do.”) comunque il
progetto presentato non era “completo” (nel senso di
munito di tutte le autorizzazioni provenienti da tutti gli
Enti deputati a rilasciarli) e soprattutto le
caratteristiche dell’impianto progettato, e delle opere
ancora da eseguirsi (ed autorizzazioni da conseguire) non
possono indurre a ritenere certa la costruzione del
medesimo.
3.5. Alla stregua delle superiori considerazioni, tenuto
conto del disposto dell’art. 1226 del codice civile,
pacificamente applicabile alla quantificazione risarcitoria
resa dal Giudice amministrativo, tenuto conto che nulla può
imputarsi a parte appellante in termini di concorso colposo
ex art. 1227 c.c. (peraltro il Comune non ha neppure
formulato tale domanda, si veda Cassazione civile, sez. III,
27/07/2015, n. 15750) e considerata la circostanza che
l’impresa che aspirava a realizzare l’impianto è stata posta
in liquidazione non a cagione delle vicissitudini relative
all’impianto per cui è causa, il Collegio ritiene di
ravvisare una chance di realizzazione dell’impianto
(pari alla misura del 50% di probabilità: vedasi Consiglio
di Stato, sez. V, 25/02/2016, n. 762 Consiglio di Stato,
sez. V, 30/06/2015, n. 3249) e tale argomento ricomprende ed
assorbe tutte le considerazioni (ed i dubbi)
dell’amministrazione comunale in ordine alla tempistica di
realizzazione dell’impianto ed all’an della
realizzabilità del medesimo.
3.5.1. Invero sulla circostanza che non era certa la
realizzazione effettiva dell’impianto, non pare potersi
controvertere; si è già chiarito che tali argomenti dedotti
dal comune non possono essere esplorati in chiave preclusiva
della concedibilità del risarcimento; la tesi della società
secondo la quale trattandosi di procedimento demandato alla
valutazione in sede di Suap il Comune ha artatamente
enfatizzato i possibili ostacoli alla realizzabilità
dell’impianto, (sintetizzati nell’ultima pagine delle
osservazioni alla relazione del Ctu redatte dall’Ingegnere
Ba. e datata 20.05.2016) è apoditttica ed indimostrata: tali
elementi concorrono a far quantificare nella misura di una
chance del 50% la posizione della società.
3.6. Quanto ai restanti argomenti critici, una volta
quantificata nei termini di cui sopra la consistenza della
posizione della ditta Do., il Collegio ritiene che nessuna
delle minuziose critiche che investono l’elaborato di Ctu
sia accoglibile, essendo stata in detta sede vagliata dal
Ctu ogni perplessità prospettata dalle contrapposte parti
processuali, e ritenendosi l’approdo raggiunto dal Ctu –che
il Collegio condivide e fa proprio- compito, completo, ed
immune da contraddizioni.
4. Alla stregua delle superiori considerazioni, il Comune
deve essere condannato a corrispondere in favore della
società odierna appellata un risarcimento che coincide con
le somme che via via si elencano:
a) quanto al quesito n. 1:
I) considerato il terreno quale agricolo
(questione, questa sulla quale non residua dubbio alcuno)
una somma pari ad Euro 145.336,00 in considerazione della
circostanza che la servitù acquistata non appare
irrecuperabile in alcun modo: a tale cifra va sommata quella
pari ad Euro 107. 671, 97 (spese non recuperabili) per un
totale di Euro 243.007,97, dato, questo, cui va sommato il
costo di progettazione degli impianti (Euro 211.311,00 cui
vanno sommati Euro 7.360,50 per un parziale pari ad Euro
218.671,50).
4.1. Il Comune, quindi, dovrà versare alla Società la cifra
di Euro 461.679,47.
4.2. A tale somma, va aggiunta una percentuale delle cifre
quantificate dal Ctu in risposta ai quesiti nn. 2 e 3.
4.2.1. Si rammenta, in proposito, che dette cifre erano
state così determinate:
a) quanto al quesito n. 2 (valutazione del Ctu di cui alla pag. 43
dell’elaborato di consulenza tecnica):
I) Euro 216.900,00 a titolo di maggiore costo;
II) Euro 313.300,00 a titolo di mancato guadagno;
b) quanto al quesito n. 3, (valutazione minimale del Ctu di cui
alla pag. 43 dell’elaborato di consulenza tecnica), il
mancato margine era stato quantificato nella misura di €
699.400,00.
4.2.2. Ora, appare evidente che a fronte di una possibilità
realizzativa indicata nel 50% risulti viepiù ipotetica la
effettiva conseguibilità delle somme in ultimo indicate,
posto che su di esse incide innanzitutto un dato incerto,
rappresentato dall’effettivo rispetto della tempistica di
conseguimento delle autorizzazioni, ed altresì un dato se
possibile ancor più aleatorio, rappresentato dalla
sussistenza di una attività produttiva ed a regime
ininterrotta, senza flessioni ascrivibili a guasti,
malfunzionamenti, senza cali di alcun genere della domanda,
di forniture etc.
E’ noto, che per parte della giurisprudenza, addirittura,
non sarebbe mai consentita, alcuna liquidazione del c.d. “interesse
positivo” nell’ipotesi di chance (ex aliis
Consiglio di Stato, sez. VI, 01/02/2013, n. 633).
4.2.3. Ritiene il Collegio che, bilanciate in sede di
valutazione equitativa ex art. 1226 cc tutte queste
circostanze –e tenuto conto anche del fatto che la domanda
originaria della ditta appellante conteneva una non
irrilevante imprecisione in quanto se è vero che la stessa
aveva una qualche disponibilità dell’impianto di Vimercate,
con conseguente possibilità di godere di condizioni
favorevoli, non ne era proprietaria- la percentuale delle
somme indicate in risposta ai quesiti nn. 2 e 3 del Ctu vada
determinata nella misura del 10% dei valori in essi
indicati.
4.2.4. Alla cifra concernente le “spese” ed il
deprezzamento dell’immobile, e pari ad Euro 461.679,47 si
dovranno sommare pertanto le seguenti voci:
- Euro 21.690,00 (il 10% di Euro 216.900,00); Euro 31.300,00
(il 10% di Euro 313.300,00); Euro 69.940,00 (il 10% di Euro
699.400,00) il che conduce ad una somma parziale pari ad
Euro 122.930,00 che, sommata ad Euro 461.679,47 porta alla
cifra finale da liquidare, che è quindi pari ad Euro
584.609,47.
Sul quantum di danno accertato per la perdita di
chance, trattandosi di un debito di valore, spetta anche la
rivalutazione monetaria da calcolarsi sino alla
pubblicazione della presente sentenza. A decorrere da tale
momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale, il
debito di valore si trasforma in debito di valuta e spettano
quindi solo gli interessi nella misura legale sino
all'effettivo soddisfo (Consiglio Stato, sez. VI, 23.07.2009
n. 4628).
5. Conclusivamente, in parziale accoglimento dell’appello,
ed in parziale riforma della sentenza appellata, il ricorso
di primo grado deve essere parzialmente accolto, e pertanto
il comune di Arcore deve essere condannato al pagamento in
favore della parte appellante della somma complessiva di
Euro € 584.609,47, oltre ad accessori come sopra indicati.
5.1. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante,
tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione
civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più
recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
5.2. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso.
6. Deve procedersi alla liquidazione del compenso
complessivo (onorario e spese) spettante al consulente
tecnico d'ufficio, che ne ha fatto espressa richiesta con
due apposite note, rispettivamente in data 05.09.2016 e
18.01.2017 rimettendone la determinazione all'apprezzamento
del giudice: in particolare, è stata richiesta la
liquidazione di euro 445,00 a titolo di spese, e di Euro
22.200,00 complessivi (ivi calcolando anche l’importo di
Euro 6.000,00 anticipato e posto provvisoriamente posto a
carico dell’appellante nella sentenza non definitiva n. 5158
del 12.11.2015) di cui 14.400,00 in favore dalla CTU prof. Ar., e 7.800,00 in favore del collaboratore di questa,
Prof. Pi..
L’importo residuo da liquidare, quindi, sarebbe pari ad Euro
16.200,00.
6.1. Tenuto conto anche della complessità dell’accertamento
ritiene il Collegio che esso possa essere complessivamente
contenuto (ivi comprese le spese, cioè) nella misura di Euro
ventimila (€ 20.000,00) il che, detratto l’anticipo già
erogato, implica che debbano corrispondersi restanti Euro
14.000,00.
6.2.. L'onorario spettante al consulente tecnico d'ufficio e
le spese da questi sostenute da intendersi comprensivo
dell'anticipo pari a Euro 6.000,00 provvisoriamente posto a
carico dell’appellante nella sentenza non definitiva n. 5158
del 12.11.2015 sono poste definitivamente a carico del
Comune di Arcore.
6.3. La complessità delle questioni trattate e la reciproca,
parziale, soccombenza costituiscono ad avviso della Sezione
ragioni idonee a giustificare tutte le spese del doppio
grado di giudizio, ivi comprese (ad esclusione di quelle
relative alla consulenza tecnica, liquidate come sopra).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in
epigrafe proposto, richiamata la propria precedente sentenza
non definitiva n. 5158 del 12.11.2015 così provvede:
a) accoglie parzialmente l’appello, ed in parziale riforma della
impugnata sentenza condanna il comune di Arcore appellato a
corrispondere alla appellante società Do. F.lli sas in
liquidazione ed in concordato preventivo la somma di Euro
584.609,47 siccome determinata in motivazione, oltre ad
accessori come determinati in motivazione;
b) liquida in favore del consulente tecnico d'ufficio, Prof.
An.Ma.Ar. l'importo complessivo di Euro 20.000,00
(comprensivo dell'anticipo pari a Euro 6.000,00, fissato
nella sentenza non definitiva n. 5158 del 12.11.2015) di cui
Euro. 19.555,00 a titolo di onorario ed Euro 445,00 a titolo
di spese ponendolo a carico del Comune di Arcore;
c) compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado di
giudizio (ad esclusione di quelle concernenti la consulenza
tecnica che restano a carico del comune) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 01.03.2017 n. 943 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2017 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione (trasporto e
raccolta) di rifiuti non pericolosi - Mancanza di
autorizzazione - Esclusione della occasionalità - Reato
istantaneo - Fattispecie - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256,
comma primo, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, trattandosi di
illecito istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta
integrante una delle ipotesi alternative previste dalla
norma, purché costituisca un'attività di gestione di rifiuti
e non sia assolutamente occasionale (Cass., Sez. 3, n. 8193
dell'11.02.2016, Revello; nei medesimi termini, quanto al
trasporto di rifiuti senza autorizzazione, e quindi
nell'ottica della sufficienza, per integrare il reato, anche
di un unico trasporto, tra le altre, Sez. 3, n. 02/10/2014,
Cristinzio; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino; Sez.
3, n. 21655 del 13/04/2010, Hrustic).
Nella specie, ai ricorrenti veniva contestato di aver
effettuato, in due distinte occasioni, un'attività di
gestione (trasporto e raccolta) di rifiuti non pericolosi in
difetto della prescritta autorizzazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.02.2017 n. 5611 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di rifiuto e limiti alla
qualificazione in sottoprodotto - Rigorosi presupposti di
legge - Onere probatorio - Fattispecie: segatura e
truciolati di legno - Artt. 183, 184-bis d.lgs. n. 152/2006
- Giurisprudenza.
Ai sensi
dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, è
rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si
disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo dì disfarsi;
esattamente quel che accade con gli scarti di produzione,
salva la possibilità della diversa qualificazione in
sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del
2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge.
Sicché, in genere la segatura ed i truciolati sono da
considerarsi scarti delle lavorazioni del legno e hanno la
natura di rifiuto, salvi i casi in cui il citato onere
probatorio in senso contrario (Cass., Sez. 3, n. 51422 del
06/11/2014, D'Itri; Sez. 3, n. 37208 del 09/04/2013,
Cartolano; Sez. 3, n. 48809 del 28/11/2012, Solimeno; Sez.
3, n. 18743 del 19/10/2011, Rosati). A prescindere dal "valore"
economico o commerciale di questo, specie nell'ottica di chi
in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di
natura privatistica.
RIFIUTI - Cessione onerosa di rifiuti -
Insufficiente per escludere la natura di rifiuto -
Ininfluenza del "valore" economico o commerciale del
rifiuto.
La circostanza che un rifiuto sia ceduto ad altra società
dietro pagamento di denaro regolarmente fatturato non
risulta sufficiente per escludere la natura di rifiuto, che,
una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto
di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo
di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi
(assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell'art.
184-bis d.lgs. n. 152/2006), non vien certo perduta in
ragione di un mero accordo con terzi ostensibile
all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), come se il
negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della
produzione e non -come in effetti- proprio un rifiuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2017 n. 5442
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ottobre 2016 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
ATTIVITÀ DI RAGGRUPPAMENTO E ABBRUCIAMENTO.
Rifiuti - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e
abbruciamento - Condizioni di liceità
Artt. 182, 185, 256, 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Le attività di raggruppamento e
abbruciamento in piccoli
cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri
per ettaro dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma
1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006, effettuate nel luogo di
produzione,
sono sottratte dalla disciplina sui rifiuti, poiché
sonoconsiderate normali pratiche agricole consentite per
il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, e non costituiscono perciò attività
di gestione di rifiuti.
Tal A., condannato per il reato di cui all’art. 256, comma
1,
D.Lgs. n. 152/2006 per aver smaltito scarti di tessuti
vegetali, senza la prescritta autorizzazione, proponeva
impugnazione assumendo di aver ritenuto, per errore,
che esistessero circostanze di esclusione della pena e di
aver agito per lo stato di necessità determinato
dall’urgenza
di smaltire una serie di rifiuti, per evitare lo sviluppo di
incendi.
La Corte ha ritenuto che il ricorso, nel suo complesso,
fosse
fondato per la sussistenza delle condizioni di esclusione
dalla
disciplina dei rifiuti previste dall’art. 182, comma 6-bis, D.Lgs.
n. 152/2006 introdotto dalla Legge 11.08.2014, n. 116.
Infatti -così osserva la Corte- la disposizione richiamata
stabilisce che “le attività di raggruppamento e abbruciamento
in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a
tre
metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui
all’articolo
185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di
produzione,
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego
dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti,
e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di
massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle
regioni, la combustione
di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.
I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia
ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o
vietare
la combustione del materiale di cui al presente comma
all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni
meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e
privata
incolumità e per la salute umana, con particolare
riferimento al
rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)”.
Si tratta, con tutta evidenza, di una disciplina in deroga
che ha ad
oggetto i materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1,
lett. f)
(richiamato dal nuovo comma 6-bis dell’art. 182) ossia:
“(...)
paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o
forestale
naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella
selvicoltura o per
la produzione di energia data le biomassa mediante
processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono
in pericolo la salute umana”.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri
steri
per ettaro dei materiali vegetali, di cui all’art. 185,
comma 1,
lett. f), effettuate nel luogo di produzione, sono, quindi,
sottratte,
dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono considerate
(costituiscono)
normali pratiche agricole consentite per il reimpiego
dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non
costituiscono più attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro “raggruppamento” ed “abbruciamento”, se
eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma 6-
bis dell’art. 182, non costituisce attività di gestione di
rifiuti, e
conseguentemente non può integrare alcun illecito previsto
dalla normativa di riferimento, per la fondamentale ragione
che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope
legis nel
novero dei rifiuti.
Richiamate le norme applicabili alla fattispecie, la Corte
ha
concluso che dal capo d’imputazione e dalla motivazione
della
sentenza non fosse possibile evincere il quantitativo dei
residui
vegetali bruciati, sicché non vi erano elementi per poter
ritenere che vi fossero state le condizioni oggettive per la
violazione di legge contestata (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.10.2016 n. 45406
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 1/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIUTILIZZO INERTI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Riutilizzo di inerti da demolizione - Attività di
recupero - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Tenuto conto della definizione di
“recupero” dettata
dall’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n. 152/2006, va
ricondotta
alla citata nozione l’attività consistente nell’utilizzare
rifiuti per realizzare un’opera edile (nella specie
il proprietario di un terreno era stato colto alla guida di
un escavatore nell’atto di spingere, all’interno di un fosso
demaniale, materiale di risulta da costruzione edile
misto a terra per rinsaldare il confine del terreno di sua
proprietà).
Il Tribunale
condannava A. per la contravvenzione di cui all’art.
256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 perché,
nella sua qualità di proprietario di un terreno, era stato
trovato alla guida di un escavatore nell’atto di spingere,
all’interno
di un fosso demaniale, del materiale di risulta da
costruzione
edile misto a terra: il Tribunale, ritenuta non contestabile
la natura di rifiuto dei beni movimentati, essendo
emerso dalle stesse dichiarazioni dell’imputato la sua
volontà
di disfarsi definitivamente del materiale di risulta,
presente
nel terreno di sua proprietà fin dal 2002, aveva opinato
che la preventiva raccolta del materiale e la successiva
movimentazione con l’escavatore, realizzate senza alcuna
autorizzazione ed al fine di realizzare un argine al confine
della proprietà, configurasse una attività non autorizzata
di
raccolta e di recupero/smaltimento di rifiuti.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato sosteneva
invece che, escluso che egli fosse titolare di una impresa o
di un ente, come erroneamente contestatogli, la
giurisprudenza
di legittimità configurava nelle condotte di occasionale
abbandono/deposito incontrollato di un proprio rifiuto
e nel trasporto dello stesso nel luogo destinato
all’abbandono,
un mero illecito amministrativo ex art. 255 laddove
sia la condotta di raccolta che quella successiva di
trasporto
si esaurivano nella fase preparatoria e preliminare rispetto
alla condotta finale e principale di abbandono, restando
in essa esaurite, senza assumere autonoma rilevanza ai fini
penali.
Pertanto, il primo giudice aveva errato nell’attribuire
valenza
penale al mero “spostamento” dei rifiuti, compiuto da
un privato ed in modo del tutto occasionale, essendo tale
condotta unicamente indirizzata all’abbandono dei materiali,
già giacenti nei pressi della propria abitazione,
all’interno
del fosso demaniale.
La Cassazione ha respinto il ricorso ritenendo corretta,
alla
stregua della destinazione dei rifiuti dichiarata dallo
stesso
imputato (il quale aveva riferito che gli stessi dovevano
essere
utilizzati per rinsaldare il confine del terreno di sua
proprietà), la qualificazione operata dal primo giudice, il
quale ha ricondotto tale attività alla nozione di
“recupero”.
Infatti, secondo l’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n.
152/2006, per “recupero” deve intendersi “qualsiasi
operazione
il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di
svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che
sarebbero
stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare
funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione,
all’interno
dell’impianto o nell’economia in generale”.
Rispetto a tale condotta, che, se svolta senza
autorizzazione,
configura già di per sé il reato di cui all’art. 256, comma
1, lett. a), secondo la Corte l’imputato si era reso
responsabile
di una ulteriore azione penalmente illecita, consistita
nel raccogliere il materiale di risulta, compattarlo e
spingerlo, con un escavatore, nel vicino fosso demaniale
posto al confine con la sua proprietà; condotta che,
correttamente,
il primo giudice aveva sussunto nella nozione legislativa
di “raccolta”.
Infatti, in base alla definizione offerta dall’art. 183,
comma
1, lett. o), per “raccolta” deve, infatti, intendersi “il
prelievo
dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito
preliminare
alla raccolta”.
La sentenza ha inoltre osservato che il richiamo che
l’imputato
aveva fatto ai principi dettati in Cass. n. 41352 del 06.10.2014, Parpaiola, Rv. 260648 (1), non era pertinente
non ricorrendo nella specie, per le ragioni già chiarite,
una
condotta di abbandono o di deposito incontrollato di
rifiuti,
riconducibile, invece, alla previsione dell’art. 255, comma
1, D.Lgs. n. 152/2006.
---------------
Nota:
(1) In questa Rivista, 2015, pag. 53 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2016
n. 44900 -
tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO RIFIUTI FERROSI.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti ferrosi - Reato - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra la contravvenzione di cui
all’art. 256, D.Lgs. n.
152/2006 il trasportare su un autocarro rifiuti, in gran
parte ferrosi, pacificamente destinati allo smaltimento
(nella specie, l’imputato trasportava due lavastoviglie
fuori uso, una lavatrice dismessa, una rete con doghe in
legno, una rete in metallo, una bici, un motore elettrico
e ferraglia varia e la Cassazione ha escluso che, per
l’eterogeneità
ed il quantitativo dei materiali rinvenuti,
l’attività di trasporto concernesse rifiuti prodotti
dall’imputato
il quale non era stato neppure in grado di dimostrare
come il trasporto fosse finalizzato all’esercizio
di attività commerciale in forma ambulante).
Per avere
effettuato, per mezzo di un autocarro, la raccolta
e il trasporto di rifiuti non pericolosi senza
autorizzazione
(nella parte cassonata del mezzo, furono rinvenuti dei
rifiuti,
in gran parte ferrosi, costituiti da due lavastoviglie fuori
uso, una lavatrice dismessa, una rete con doghe in legno,
una rete in metallo, una bici, un motore elettrico e
ferraglia
varia), tal C.M.M. veniva condannato per la contravvenzione
di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Secondo il ricorrente il Tribunale aveva però omesso di
argomentare
sulla natura imprenditoriale e non occasionale
del trasporto, non essendo stato dimostrato che avesse
partecipato alla raccolta e allo smaltimento rifiuti per
conto
di un terzo imprenditore; inoltre, il quantitativo di
rifiuti non
pericolosi era esiguo, l’episodio era isolato, l’autocarro
non
era di sua proprietà e tutto ciò avrebbe dovuto indurre il
primo giudice a ritenere che il trasporto fosse in realtà
funzionale
allo svolgimento dell’attività di commercio ambulante,
e non a quella di trasportatore di rifiuti; in ogni caso,
non rivestendo l’imputato la qualità di titolare di impresa
o
di un ente, l’occasionale trasporto di rifiuti configurava
un
mero illecito amministrativo ai sensi dell’art. 255, D.Lgs.
n.
152/2006.
La Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata
avesse adeguatamente esplicato le ragioni per le quali era
stata ritenuta integrata la fattispecie contestata, avendo
il
giudice dato conto, in maniera puntuale, del rinvenimento
dell’imputato a bordo di un mezzo che trasportava materiali
ferrosi in disuso, pacificamente destinati allo smaltimento;
né l’imputato era stato in grado di dimostrare come il
trasporto fosse finalizzato all’esercizio di attività
commerciale
in forma ambulante, considerato che la giurisprudenza
esclude la configurabilità del reato di gestione non
autorizzata
di rifiuti a condizione che l’imputato sia in possesso
del titolo che lo abilitati all’esercizio del commercio
ambulante.
La Corte ha anche ritenuto che proprio per la eterogeneità
ed il quantitativo dei materiali di risulta trasportati,
l’attività
di trasporto concernesse rifiuti non prodotti dall’imputato
e
destinati ad essere da lui abbandonati e tale fatto
configurava
il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n.
152/2006, il quale, nel punire l’attività di gestione di
rifiuti
non autorizzata, contempla espressamente la condotta di
chiunque effettui, tra le altre, una “attività di
trasporto” (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 24.10.2016
n. 44593 -
tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016). |
settembre 2016 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO RIFIUTI: RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO DEL
TERRENO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti ad opera di terzi -
Responsabilità del proprietario del terreno - Mancata
rimozione dei rifiuti scaricati - Esclusione -
Partecipazione consapevole all’abbandono - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso in cui proprietario di un
terreno, sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato,
non si attivi per la rimozione dei rifiuti non
è configurabile in forma omissiva il reato di cui all’art.
256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006; la responsabilità però
sussiste quando il proprietario consapevolmente partecipi
all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno
per il deposito di rifiuti, con conseguente trasformazione
dell’area.
Il Tribunale
condannava D. e A. per il reato di cui all’art.
256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per aver conferito su un
terreno di loro proprietà, senza la prescritta
autorizzazione,
terra e roccia da scavo.
Nel proposto ricorso, i prevenuti sostenevano che il giudice
era pervenuto all’affermazione della loro responsabilità
senza esplicitare il percorso argomentativo attraverso cui
era pervenuto alla configurazione del reato e all’attribuibilità
della condotta alle ricorrenti, responsabilità fondata sulla
mera presenza sul luogo del fatto.
La Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata
aveva sviluppato una motivazione congrua, adeguata e
corretta sul piano del diritto per l’affermazione della
responsabilità
delle ricorrenti in ordine al reato di deposito
non autorizzato di rifiuti. Infatti, il giudice, dopo aver
ricostruito
il fatto, per come accertato dal Corpo Forestale dello
Stato che aveva rilevato l’esistenza, all’interno di un
fondo,
di proprietà delle ricorrenti, di un cumulo di terra e rocce
da scavo, con innalzamento del piano di campagna, e
dunque di un cumulo di rilevanti dimensioni, aveva dato atto
che le ricorrenti, presenti sul posto, interpellate non
avevano
esibito l’autorizzazione al deposito di rifiuti, e che non
ricorreva l’esclusione dall’applicazione della disciplina
sui
rifiuti per le terre e rocce da scavo in assenza di prova
positiva,
gravante sulle ricorrenti, della loro riutilizzazione
secondo
un progetto ambientalmente compatibile.
La Cassazione ha inoltre ritenuto che il Tribunale aveva
correttamente
evidenziato, oltre alla circostanza che le ricorrenti
erano proprietarie del fondo, sul quale erano state
depositate
le terre e rocce da scavo, la materiale disponibilità
del fondo desunta dall’essere residenti presso il luogo del
deposito e dall’essere presenti sul luogo al momento
dell’accertamento.
Infine, la Suprema Corte ha evidenziato che il Tribunale
aveva fatto corretta applicazione del principio secondo cui
non è configurabile in forma omissiva il reato di cui
all’art.
256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, nei confronti del
proprietario
di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato
o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso
in
cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, perché tale
responsabilità
sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico
di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o movimentazione dei rifiuti, ed ha
condannato
le ricorrenti non già per la loro qualità di possessore
dell’area di deposito, ma per avere consapevolmente
partecipato
all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno
per il deposito di rocce e terra da scavo, con conseguente
trasformazione dell’area che, per le dimensioni di questa,
era necessariamente assentita dalle ricorrenti integrando,
così, un atto di gestione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2016
n. 39797 -
tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Sebbene
l'art. 107 d.lgs. n. 267/2000 attribuisca l'attività di
gestione ai dirigenti, compete al sindaco l'emanazione
dell'ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei
rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, in virtù del
carattere di specialità riconosciuto all'art. 192 d.lgs. n.
152/2006, da cui la stessa è disciplinata.
Altresì, nel caso di Unione di Comuni, deve ritenersi che i
Sindaci mantengano le competenze loro attribuite dalla norma
speciale, dal momento che dette Unioni operano
l’unificazione a livello degli uffici ovvero degli organi di
gestione amministrativa o tecnica-operativa, ma non
determinano alcun trasferimento di poteri degli organi di
indirizzo politico (v. art. 32 d.lgs. n. 267/2000).
---------------
- Visto l'art. 192 del codice dell'ambiente, ove dispone
che: "1. L'abbandono e il deposito incontrollati di
rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. E' altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi
genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli
articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”;
- Visto l’art. 107, comma 4, T.U. enti locali ove precisa
che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del
principio di cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate
soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata
in vigore del citato art. 192, c. 3;
- Atteso che, alla luce delle disposizioni sopra richiamate
e conformemente alla giurisprudenza maggioritaria, condivisa
dal Collegio, "sebbene l'art. 107 d.lgs. n. 267/2000
attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al
sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, in virtù del carattere di specialità riconosciuto
all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, da cui la stessa è
disciplinata" (C.S., Sez. V, 29.08.2012, n. 4635; Sez.
V, 12.06.2009, n. 3765; Sez. V, 10.03.2009, n. 1296, Sez. V
25.08.2008, n. 4061, TAR Lazio, Sez. II, 01.02.2013 n. 1142;
TAR Campania, Salerno, Sez. I, 17.09.2012 n. 1644; TAR
Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.06.2011, n. 867; TAR Emilia
Romagna-Bologna - Sez. II, 26.01.2011, n. 61; Consiglio
Stato - Sez. V, 25.08.2008, n. 4061);
- Ritenuto, inoltre, che anche in caso di Unione di Comuni,
deve ritenersi che i Sindaci mantengano le competenze loro
attribuite dalla norma speciale, dal momento che dette
Unioni operano l’unificazione a livello degli uffici ovvero
degli organi di gestione amministrativa o tecnica-operativa,
ma non determinano alcun trasferimento di poteri degli
organi di indirizzo politico (v. art. 32 d.lgs. n.
267/2000);
- Considerando, pertanto, fondata l’assorbente censura di
incompetenza con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato e rimessione all’organo competente per gli
ulteriori provvedimenti
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 06.09.2016 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO RIFIUTI SENZA FORMULARIO O CON DATI FALSI.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario
di identificazione o recante dati falsi - Intervenuta
depenalizzazione del reato
Art. 258, 260-bis, D.Lgs. n. 152/2006
In tema di rifiuti, il trasporto di
rifiuti pericolosi senza il
prescritto formulario, o con un formulario con dati
incompleti
o inesatti, eseguito sino al 16 agosto 2011 non è più
sanzionato penalmente né dal nuovo testo dell’art.
258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, che si riferisce
alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che prevede
la sanzione penale per altre condotte, né dall’art.
260-bis stesso dec., che punisce il trasporto di rifiuti
pericolosi
non accompagnato dalla scheda SISTRI.
Nella sentenza
che si riporta integralmente, la sez. feriale
della Cassazione ha colto l’occasione per ribadire, con una
serrata analisi delle norme succedutesi in materia di
trasporto
di rifiuti pericolosi con formulario identificativo (FIR)
recante false attestazioni, le conclusioni cui è giunta la
prevalente
giurisprudenza.
La Corte ha osservato che “il reato di illecito trasporto di
rifiuti
pericolosi senza formulario, ovvero con indicazione nel
formulario stesso di dati incompleti o inesatti, era
originariamente
previsto dall’art. 52, comma 3, D.Lgs. n. 22/1997,
il quale prevedeva l’applicabilità della pena di cui
all’art.
483 cod. pen.".
L’abrogazione del citato Decreto ad opera del D.Lgs. n.
152/2006, non ha prodotto, inizialmente, alcun effetto
rilevante,
in quanto l’art. 258, comma 4, aveva contenuto
pressoché identico a quello della disposizione previgente.
Il quadro normativo è rimasto immutato fino al 25.12.2010, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 205/2010,
il quale, con l’art. 35, comma 1, lett. c), ha disposto la
sostituzione
dell’art. 258, comma 4.
Per effetto di tale intervento
correttivo, l’art. 258, comma 4, nella sua attuale
formulazione
così recita: “Le imprese che raccolgono e trasportano
i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212,
comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema
di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui
all’art. 188-bis, comma 2, lett. a), ed effettuano il
trasporto
di rifiuti senza il formulario di cui all’art. 193 ovvero
indicano
nel formulario stesso dati incompleti o inesatti sono puniti
con la sanzione amministrativa pecuniaria da milleseicento
euro a novemilatrecento euro. Si applica la pena di
cui all’art. 483 cod. pen., a chi, nella predisposizione di
un
certificato di analisi di rifiuti, fornisce false
indicazioni sulla
natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche
dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante
il trasporto”.
L’intervento modificativo è stato effettuato in previsione
della pressoché concomitante piena operatività del SISTRI,
il sistema informatico di controllo della tracciabilità dei
rifiuti
la cui introduzione era prevista dall’art. 189, comma 3-bis, D.Lgs. n. 152/2006 (introdotto con il D.Lgs. n. 4/2008)
e che era finalizzato alla trasmissione e raccolta di
informazioni
su produzione, detenzione, trasporto e smaltimento di
rifiuti ed alla realizzazione, in formato elettronico, del
formulario
di identificazione dei rifiuti, dei registri di carico e
scarico e del MUD, da stabilirsi con apposito Decreto
ministeriale,
che il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio
e del mare ha emanato il 17.12.2009, dando
dunque attuazione alla disposizione richiamata.
Il contenuto del Decreto ministeriale è stato
successivamente
modificato ed integrato prorogando, però, anche i
termini originariamente fissati per la piena operatività del
sistema. Il D.Lgs. n. 205/2010, sempre considerando
l’imminente
entrata in funzione del SISTRI, che sostanzialmente
comporterebbe la sostituzione della documentazione
cartacea precedentemente utilizzata (MUD, Registri di carico
e scarico e FIR), ha provveduto, con l’art. 16, alla
sostituzione
degli artt. 188, 189, 190 e 193, all’introduzione degli
artt. 188-bis e 188-ter, nonché, con l’art. 36, alla
previsione
di specifiche sanzioni, contemplate dagli artt. 260-bis
e 260-ter.
Il D.Lgs. n. 205/2010, art. 16, comma 2, prevedeva,
tuttavia,
che le disposizioni in esso contenute entrassero in vigore
a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del
termine di cui al D.M. 17.12.2009, art. 12, comma
2, (quindi all’effettivo avvio del SISTRI), termine che
però,
come già evidenziato, è stato più volte prorogato.
Al medesimo termine faceva riferimento anche il D.Lgs. n.
205/2010, art. 39, recante disposizioni transitorie e
finali,
per ciò che concerneva le sanzioni relative SISTRI,
prevedendone
peraltro la graduazione nel primo periodo di attività
del nuovo sistema di controllo della tracciabilità dei
rifiuti.
Nessun termine, invece, era previsto per l’entrata in vigore
dell’art. 35, con la conseguenza di una immediata efficacia
delle modifiche apportate al D.Lgs. n. 152/2006, art.
258 (contestato nel caso di specie), comportanti, come si è
visto, un restringimento dell’ambito soggettivo di
applicabilità
della disposizione non riferita più a ‘chiunque effettui il
trasporto’, bensì alle sole ‘imprese che raccolgono e
trasportano
i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212,
comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema
di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)’ e
l’assenza
dello specifico richiamo all’art. 483 cod. pen., per il
trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario ovvero con
indicazione nel formulario stesso di dati incompleti o
inesatti.
A fronte di quello che è stato da più parti (compresi i
ricorrenti)
qualificato come vuoto normativo, è dunque intervenuto
nuovamente il legislatore, con il D.Lgs. n. 121/2011, il
quale, con l’art. 4, comma 2, ha apportato modificazioni al
D.Lgs. n. 205/2010, art. 39, disponendo, tra l’altro,
l’inserimento
dei commi 2-bis e 2-ter, che si riferiscono all’ambito
di efficacia temporale del D.Lgs. n. 152/2006, art. 258.
Stabilisce, in particolare, il comma 2-bis, che “anche in
attuazione
di quanto disposto al comma 1, i soggetti di cui al
D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 188-ter, commi 1, 2, 4 e
5,
e successive modificazioni, che fino alla decorrenza degli
obblighi di operatività del sistema di controllo della
tracciabilità
dei rifiuti (SISTRI) di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n.
152, art. 188-bis, comma 2, lett. a), e successive
modificazioni,
non adempiono alle prescrizioni di cui all’art. 28,
comma 2, del Decreto del Ministro dell’Ambiente e della
tutela del territorio e del mare 18.02.2011, n. 52,
sono
soggetti alle relative sanzioni previste dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 258, nella formulazione precedente
all’entrata
in vigore del presente Decreto”.
Il D.M. n. 52/2011, art. 28, comma 2, come modificato dal
successivo D.M. 10.11.2011, n. 219, stabilisce che
‘al fine di garantire l’adempimento degli obblighi di legge
e
la verifica della piena funzionalità del SISTRI, fino al
termine
di cui all’art. 12, comma 2, del Decreto del Ministro
dell’Ambiente
e della tutela del territorio e del mare del 17.12.2009 e successive modifiche e integrazioni, i soggetti
di cui agli artt. 3, 4 e 5 del presente Regolamento
rimangono
comunque tenuti agli adempimenti di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, artt. 190 e 193, e successive
modificazioni e sono soggetti alle relative sanzioni
previste
dal medesimo Decreto legislativo precedentemente all’entrata
in vigore del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205’.
Il richiamo all’applicabilità delle previgenti sanzioni
risulta contenuto anche nel D.L. 22.06.2012, n. 83, art. 52,
comma 1, convertito con modificazioni dalla I. 07.08.2012, n. 134, ove, nel sospendere il termine di entrata in
operatività del SISTRI, si precisa che i soggetti di cui
all’art. 188-ter, “rimangono comunque tenuti agli adempimenti
di
cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, artt. 190 e 193, ed
all’osservanza
della relativa disciplina, anche sanzionatoria,
vigente antecedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205”.
In esito all’emanazione del D.Lgs. n. 121/2011, si è posto
quindi il tema della natura - interpretativa od innovativa -
della medesima disciplina; orbene, ritiene questa Corte che
debba essere confermato l’indirizzo secondo cui il trasporto
di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario, o con
un formulario con dati incompleti o inesatti, non è più
sanzionato
penalmente né dal nuovo testo dell’art. 258, comma
4, D.Lgs. n. 152/2006 (come modificato nei termini
suddetti) -che si riferisce alle imprese che trasportano i
propri rifiuti e che prevede la sanzione penale per altre
condotte
(in particolare, per chi, nella predisposizione di
certificati
di analisi di rifiuti, fornisca false indicazioni sulla
tipologia
del rifiuto o fa uso del certificato falso)- né dall’art.
260-bis che punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non
accompagnato
dalla scheda SISTRI.
Deve ritenersi, pertanto, che le modifiche introdotte dal
D.Lgs. n. 205/2010, eliminando (con evidente effetto
immediato)
dall’art. 258, comma 4, il riferimento al trasporto
di rifiuti senza formulario o con formulario contenente dati
incompleti o inesatti, abbia sottratto tali condotte alla
sanzione
penale.
Vi sarebbe stato quindi un vuoto normativo nel periodo
intercorrente
tra il 25.12.2010, data di entrata in vigore
del D.Lgs. n. 205/2010 ed il 16.08.2011, data che
segna l’inizio della vigenza dell’intervento c.d. riparatore
effettuato
con il D.Lgs. n. 121/2011, art. 4, comma 2, con
conseguente applicabilità dell’art. 2 cod. pen. Al citato
Decreto
n. 121, pertanto, non può attribuirsi se non una natura
di norma penale innovativa, con la conseguenza della
applicabilità della norma penale più favorevole per i fatti
commessi in epoca antecedente al 16.08.2011.
Non pare condivisibile, per contro, la tesi che attribuisce
alla
disposizione in esame natura di norma interpretativa,
con conseguente effetto retroattivo e reviviscenza anche
per il passato di una norma sanzionatrice penale già
espressamente abrogata dal legislatore con cessazione
della sua efficacia [in tal senso, sez. 3, n. 3692 del 17.12.2013, La Valle (1)]; in senso contrario, infatti, depone
la mancanza di qualsivoglia, esplicita manifestazione di
volontà del legislatore al riguardo, di tal ché non pare
consentito
pervenire al medesimo risultato attraverso un intervento
dell’interprete, per di più in malam partem. In senso
contrario, ancora, depone la circostanza -pacifica- per
cui
l’effetto abrogativo opera di norma automaticamente, al
momento dell’entrata in vigore della norma abrogatrice.
Con la precisazione ulteriore secondo la quale il futuro
legislatore
può certamente abrogare una norma (a sua volta)
abrogatrice e disporre la reviviscenza della disposizione
precedentemente abrogata, ma -qualora si tratti di norma
penale- la stessa potrà tornare in vigore solo dalla
vigenza
di quella disposizione che, per così dire, l’ha richiamata
in
vita attraverso l’eliminazione dal sistema della norma che
l’aveva abrogata.
Alla luce di quanto precede, occorre quindi concludere
che, con il D.Lgs. n. 121/2011, art. 4, comma 2, il
legislatore
ha appunto inteso porre rimedio alla situazione normativa
scaturente dal D.Lgs. n. 205/2010, introducendo nuovamente
norme penali per sanzionare quelle stesse violazioni
o, meglio, disponendo che riprendessero vigore quelle
disposizioni
penali precedentemente abrogate. Ma, in forza
del principio costituzionale di legalità e di
irretroattività delle
norme penali, tale nuova efficacia non può che decorrere ex nunc e non
ex tunc.
Né questa efficacia retroattiva può
essere conferita mediante l’attribuzione alla disposizione
di
una natura di norma meramente interpretativa, anche per
la necessità di seguire un’interpretazione adeguatrice che
non ponga il risultato dell’esegesi in possibile contrasto
con l’art. 25 Cost. e con il principio di irretroattività
della
norma penale sanzionatoria.
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Nota: (1) In questa Rivista, 2014, pag. 479 (Corte
di
Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza 01.09.2016 n. 36275
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 11/2016). |
giugno 2016 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Abrogazione dell’art. 186
D.Lgs. n. 152/2006 - Esclusione - Natura di norma temporanea
- È tale
Art. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 2, cod. pen.
Ai sensi dell’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010,
l’abrogazione
dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 è destinata
ad operare solo a seguito dell’entrata in vigore dei D.M.
previsti dall’art. 184-bis del cit. decreto dovendo
corrispondere
il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi
stabiliti da tali provvedimenti. Considerato che il
citato art. 39, comma 4, prevede che l’abrogazione dell’art.
186 operi solo a far data dall’entrata in vigore dei
D.M. in materia di sottoprodotti, il predetto articolo ha
assunto natura di norma temporanea, con la conseguenza
che, ai sensi dell’art. 2 cod. pen. la relativa disciplina
si applica in ogni caso ai fatti commessi nella vigenza
della normativa in materia di terre e rocce da scavo.
Non sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica
di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di
disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della
loro produzione.
A G.P. (in concorso con G.G.) veniva addebitato di avere
effettuato
una gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi
(terre e rocce da scavo) e di non avere osservato le
condizioni
richieste con le iscrizioni, in quanto, in luogo di una
attività di recupero ambientale mediante utilizzo di rifiuti
in
un’area estesa circa 9000 mq. come da comunicazione alla
Provincia di Lucca del 09.06.2009 con la specifica
prescrizione
di riutilizzare nel recupero ambientale i rifiuti di
cui al punto 12.7 dell’all. 1 sub all. 1 D.M. 05.02.1998
(fanghi costituiti da inerti - codice CER 010412), veniva
invece
riscontrata, nel corso di un controllo effettuato il 09.12.2009 nella località “Roccalberti” destinata al recupero
ambientale, la presenza di rifiuti non pericolosi costituiti
da terre e rocce da scavo provenienti dalla escavazione
della Galleria di Castelnuovo non autorizzate dalla
Provincia.
In relazione a tale fatto, il Tribunale dichiarava i due
fratelli
colpevoli del reato di cui all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006.
Il proposto ricorso per cassazione è stato respinto.
La Cassazione ha, in primo luogo, notato che il Tribunale,
nel qualificare la condotta contestata, aveva ritenuto
applicabile
la disciplina di cui all’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006
dovendosi
le terre e rocce da scavo considerare rifiuti in
quanto la loro destinazione non era prevista nel progetto di
recupero ambientale e non erano state espletate tutte le
procedure previste per la esclusione di tali prodotti dalla
normativa sui rifiuti: in particolare, secondo il Tribunale,
il
materiale in questione non poteva essere qualificato come
sottoprodotto in assenza dei requisiti richiesti dal comma 1
dell’art. 186 e ciò anche dopo la modifica del menzionato
art. 186 intervenuta con la Legge n. 49/2009 in quanto il
comma 7-bis dell’art. 186 suddetto, come modificato dalla
legge ora menzionata, prescrive che “le terre e rocce da
scavo qualora ne siano accertate le caratteristiche
ambientali
possono essere utilizzate per interventi di miglioramento
ambientale anche in siti non degradati per il miglioramento
della qualità della copertura arborea o delle condizioni
idrogeologiche o della percezione paesaggistica”.
Il Tribunale aveva ritenuto comunque applicabile la norma
di cui all’art. 186 cit. interpretandola come norma di
carattere
temporaneo insuscettibile della applicazione dell’art. 2
cod. pen., rilevando che l’intera materia è stata poi
compiutamente
disciplinata dal D.M. n. 161 del 10.08.2012
entrato in vigore il successivo 6 ottobre. Pertanto,
mancando
all’epoca del sopralluogo previsioni specifiche in ordine
al riutilizzo di quei rifiuti e non potendosi essi
qualificare
come sottoprodotti, come peraltro deciso dalla stessa
azienda, tale materiale doveva considerarsi all’atto del
controllo
(09.12.2009) rifiuto.
La difesa, con il primo motivo, aveva ipotizzato invece
l’intervenuta
abrogazione dell’art. 186 per effetto di quanto disposto
dall’art. 39, D.Lgs. n. 205/2010, abrogazione confermata,
secondo la tesi difensiva, anche dall’art. 49 D.L. n.
1/2012 convertito nella Legge n. 27/2012 secondo la quale
“l’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con
Decreto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio
e del mare di concerto con il Ministero delle Infrastrutture
e Trasporti precisando che l’abrogazione della
norma sopra richiamata veniva differita alla data di entrata
in vigore del D.M.”.
Da qui il rilievo in ordine alla erronea applicazione della
legge
penale per avere il Tribunale ritenuto l’inapplicabilità
dell’art. 2 cod. pen. affermando la natura temporanea
dell’art.
186 più volte citato; in ogni caso, la qualifica di norma
temporanea sarebbe stata assunta solo con decorrenza 10.12.2010 e non oltre il
06.10.2012, con la
conseguenza
che all’epoca del controllo (09.10.2009) la norma
speciale non era più in vigore, dovendosi applicare, per
i fatti antecedenti al 10.12.2010, la disposizione di
cui all’art. 2, comma, cod. pen.
Il ricorso è stato giudicato infondato dalla Cassazione:
premesso
che la possibilità di utilizzazione diretta delle terre e
rocce da scavo, che determina l’esclusione della disciplina
dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante
sull’imputato,
della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente
compatibile, la Corte ha osservato che non basta dimostrare
che le terre e rocce non siano inquinate in vista dalla
applicabilità della speciale normativa ad esse inerenti. Nel
caso in esame, secondo le risultanze della sentenza
impugnata,
il G. era in possesso di un’autorizzazione per il recupero
ambientale nel Comune di Camporgiano, le cui prescrizioni
non erano state rispettate, con la conseguente insussistenza
dei requisiti richiesti dalla legge per sottrarre il
materiale
sequestrato alla disciplina dei rifiuti.
L’affermazione difensiva, secondo la quale le rocce e terre
da
scavo rispondevano ai requisiti per il loro impiego, era di
tipo
fattuale e non emergeva dalla sentenza, avendo, anzi, il
giudice
di merito affermato che i rifiuti da utilizzare per
l’attività di
recupero dovevano essere quelli identificati nel punto 12.7
dell’Allegato 1 Sub all. 1 al D.M. 05.02.1998 (fanghi
costituiti
da inerti con codice CER 01.04.12), mentre in sede di
sopralluogo, oltre a fanghi alternati con strati di terra ed
a un
cumulo di fanghi circa 750 metri cubi, vi era un cumulo di
terre e rocce da scavo da considerare come rifiuti ex art.
186
in quanto la loro destinazione per il riutilizzo non era
prevista
nel progetto che aveva poi dato luogo all’autorizzazione e
in
ogni caso non erano state portate a compimento tutte le
procedure
necessarie per l’esclusione di quel materiale estraneo
dalla normativa sui rifiuti.
Ciò chiarito circa gli aspetti fattuali, la Suprema Corte ha
ribadito
l’orientamento secondo cui, in relazione all’abrogazione
dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006, ai sensi dell’art. 39,
comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, la stessa è destinata ad
operare
solo a seguito dell’entrata in vigore dei D.M. previsti
dall’art. 184-bis del Testo Unico, dovendo corrispondere il
sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi
stabiliti da
tali provvedimenti. Considerato che il citato art. 39, comma
4, prevedeva che l’abrogazione dell’art. 186 operasse solo
a far data dall’entrata in vigore dei D.M. in materia di
sottoprodotti,
il predetto art. 186 ha assunto natura di norma
temporanea, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2
cod. pen. la relativa disciplina si applica in ogni caso ai
fatti
commessi nella vigenza della normativa in materia di terre
e rocce da scavo. Non sarebbe, infatti, possibile attribuire
la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla
base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca
della loro produzione.
Analoga sorte è stata riservata alla asserita
inapplicabilità
del regime previsto dall’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 in
forza
del principio di retroattività della legge più favorevole
conseguente
all’emissione del D.M. n. 161/2012 entrato in vigore
il 06.10.2012 (epoca successiva ai fatti oggetto
del processo).
Infatti, la Suprema Corte ha ritenuto di
confermare
l’orientamento secondo il quale l’abrogazione dell’art.
186 opera soltanto a decorrere dall’entrata in vigore
del Decreto Interministeriale in materia di sottoprodotti,
con la conseguenza che la disposizione va qualificata come
norma temporanea, sicché ai sensi dell’art. 2 cod. pen.
la relativa disciplina trova applicazione in ogni caso per i
fatti commessi nella vigenza della normativa precedente in
tema di terre e rocce da scavo, in quanto non è possibile
attribuire la qualifica di sottoprodotto a materiali sulla
base
di disposizioni amministrative inesistenti al momento della
loro produzione (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 20.06.2016 n. 25429
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 10/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
MATERIALI DA COSTRUZIONE E DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Materiali provenienti da attività di costruzioni
e/o demolizioni - Raccolta, trasporto e avviamento a
smaltimento illecito - Responsabilità del titolare
dell’impresa
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso di attività di raccolta,
trasporto e avviamento
a smaltimento illecito di rifiuti provenienti da attività di
costruzioni e/o demolizioni, è responsabile il titolare
dell’impresa, se di piccole dimensioni, ove risulti essere
a conoscenza degli spostamenti dei mezzi aziendali sul
territorio e dell’intenzione - manifestata da un soggetto
coimputato del quale non era stata comunque impedita
l’iniziativa - di riutilizzare in futuro quello stesso
materiale
giacché tali circostanze ricollegano logicamente il
trasporto alle “attività produttive dell’azienda”.
La titolare
dell’impresa individuale R. Costruzioni di R. G.,
veniva condannata - unitamente al fratello - per il reato
previsto
dall’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006,
perché operava la raccolta, il trasporto e l’avviamento a
smaltimento illecito di rifiuti non pericolosi provenienti
da
attività di costruzioni e/o demolizioni (CER 17.09.04)
utilizzando
un autocarro Fiat Iveco in assenza di iscrizione all’Albo
nazionale dei gestori ambientali.
Nel ricorrere per cassazione, l’imputata sosteneva che il
Tribunale non aveva tenuto conto che ella non era a bordo
dell’autocarro al momento del controllo da parte del
personale
del NIPAF di Avellino, e che il fratello aveva ammesso
ogni responsabilità in ordine al trasporto dei rifiuti.
Contestava
anche la disposta confisca stante il grave ed irreparabile
danno economico per una impresa di costruzione di
modeste dimensioni.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Suprema
Corte che ha svolto le seguenti considerazioni.
La censura oggetto del primo motivo era diretta a conseguire
una diversa valutazione dei fatti posti a fondamento
della affermazione di responsabilità dell’imputata, senza
tuttavia individuare vizi specifici della motivazione tali
da
intaccarne la intrinseca coerenza strutturale e logicità. La
sentenza impugnata comunque aveva ritenuto provata la
realizzazione, da parte della R., della contestata attività
di
raccolta, trasporto e avviamento a smaltimento illecito di
rifiuti
(non pericolosi) provenienti da attività di costruzioni
e/o demolizioni, sul rilievo che l’imputata era la titolare
di
una impresa di piccole dimensioni, che in tale qualità era a
conoscenza degli spostamenti dei mezzi aziendali sul
territorio,
oltre che del fatto che proprio il fratello aveva riferito
dell’intenzione di riutilizzare in futuro il materiale
residuo
per l’installazione di una baracca di cantiere, circostanza
che ricollegava logicamente il trasporto alle “attività
produttive
dell’azienda”.
Il fatto che il coimputato si fosse accollato la
responsabilità
dell’accaduto non costituiva elemento dimostrativo
dell’estraneità
della ricorrente alla realizzazione del reato, anche
sotto il profilo soggettivo, non avendo l’imputata comunque
impedito l’iniziativa del fratello.
Quanto al secondo motivo, la Cassazione ha osservato che
il Tribunale aveva puntualmente richiamato l’art. 259, comma
2, D.Lgs. n. 152/2006, disposizione che prevede la confisca
obbligatoria, in deroga al regime generale di tipo
facoltativo
di cui all’art. 240 cod. pen. sicché il mezzo di trasporto
utilizzato per il trasporto illecito di rifiuti è oggetto di
una presunzione legislativa di pericolosità che ne
giustifica la confisca (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
08.06.2016 n. 23690
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 8-9/2016). |
maggio 2016 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Autovetture fuori uso - Natura di rifiuto
pericoloso - Condizioni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Hanno natura di rifiuto pericoloso le
autovetture fuori
uso destinate alla demolizione, in relazione alle quali
non risulti la tenuta di documentazione cartacea idonea
a dimostrare la provenienza e le condizioni di manutenzione,
né l’adozione di alcuna procedura conforme al
D.Lgs. n. 209/2003 per il recupero ed il riciclaggio dei
materiali componenti i veicoli a fine vita, e comunque
non risulti la bonifica di tali mezzi mediante scomposizione
delle parti meccaniche e prelievo dell’olio esausto
dalle parti meccaniche (nella specie, era emersa la presenza
di batterie al piombo esauste e di autovetture prive
di targa e destinate alla demolizione, comprese di
motore e quindi di parti meccaniche miste ad olio, con
la conseguente qualificabilità di tali veicoli come rifiuti
pericolosi in ragione della presenza di scarti di olio per
motore).
La Corte
d’Appello confermava la sentenza di condanna
per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) e b),
D.Lgs.
n. 152/2006 emessa a carico di un soggetto che aveva
effettuato
attività abusiva di raccolta, smaltimento e stoccaggio
di rifiuti speciali pericolosi e non, in mancanza della
prescritta autorizzazione.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato evidenziava
la contraddittorietà tra la affermazione della natura di
rifiuti
pericolosi di quelli presenti nell’area nella sua
disponibilità
e quanto dichiarato dal teste Pensa, secondo cui nel momento
in cui aveva provveduto a ritirare il materiale presente
nell’area le batterie erano ancora efficienti, le
autovetture
erano state bonificate ed i motori d’auto non contenevano
oli.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile a causa della
sua
genericità.
La Cassazione ha infatti osservato che la Corte
territoriale
aveva ribadito la natura di rifiuti pericolosi di parte dei
materiali
depositati nell’area nella disponibilità dell’imputato,
quantomeno con riferimento alle autovetture fuori uso
rinvenute
e destinate alla demolizione, in relazione alle quali
non era emersa la tenuta di alcuna documentazione cartacea
idonea a dimostrare la loro provenienza e le loro condizioni
di manutenzione, né l’adozione di alcuna procedura
conforme al D.Lgs. n. 209/2003 per il recupero ed il
riciclaggio
dei materiali componenti i veicoli a fine vita, ed in
particolare della bonifica di tali mezzi mediante
scomposizione
delle loro parti meccaniche e prelievo dell’olio esausto
dalle parti meccaniche, essendo, per contro, emersa, in
occasione del sopralluogo della polizia giudiziaria, la
presenza
di batterie al piombo esauste e di autovetture prive
di targa e destinate alla demolizione, comprese di motore e
quindi di parti meccaniche miste ad olio, con la conseguente
qualificabilità di tali veicoli come rifiuti pericolosi in
ragione della presenza di scarti di olio per motore.
La Corte d’Appello aveva anche ritenuto irrilevante la
deposizione
del teste indotto dalla difesa che aveva dichiarato di
aver riscontrato che nel settembre 2009 (successivamente
al sopralluogo ed al sequestro eseguiti il 06.08.2009) le
batterie presenti nel sito erano ancora funzionanti, le
automobili
erano state bonificate ed i motori non contenevano
oli, non essendo tali dichiarazioni incompatibili con gli
accertamenti
in precedenza eseguiti dalla polizia giudiziaria e
dovendo, anzi, presumersi che le operazioni di bonifica
fossero
state compiute successivamente, a seguito del provvedimento
autorizzatorio del giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Lucera del 02.09.2009.
La Suprema Corte ha dunque concluso che, a fronte di tale
analitica ed articolata ricostruzione, l’imputato si era
limitato
a ribadire quanto esposto nell’atto d’appello circa la
mancata dimostrazione della natura di rifiuti pericolosi di
quelli rinvenuti nell’area nella sua disponibilità,
omettendo
di confrontarsi in modo critico con la motivazione del
provvedimento
impugnato, nella quale, invece, sono state approfonditamente
illustrate le ragioni sia della qualificazione
di rifiuti pericolosi di parte di quelli rinvenuti nell’area
nella
disponibilità del ricorrente, sia della irrilevanza delle
dichiarazioni
apparentemente inconciliabili del teste indicato dalla
difesa, di cui è stata spiegata la compatibilità con le
risultanze
del sopralluogo eseguito dalla polizia giudiziaria e
con le deposizioni dei testi dell’accusa (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.05.2016 n. 20149
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 7/2016). |
aprile 2016 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
DEPOSITO TEMPORANEO.
Rifiuti - Deposito temporaneo - Condizioni di legittimità -
Stoccaggio dei rifiuti alla rinfusa - Reato
Artt. 183, 256, D.Lgs. n. 152/2006
Lo stoccaggio dei rifiuti alla rinfusa
esclude la regolarità
del deposito temporaneo.
I legali
responsabili della società A.C. s.a.s. di G.R. & C. venivano
condannati per aver effettuato un deposito preliminare
di rifiuti non prodotti nell’esercizio della propria
attività
(ritagli di guaina bituminosa e guaina rimossa durante la
fase di demolizione e costruzione raggruppati in un luogo
diverso rispetto a quello dove erano stati prodotti).
La condanna si fondava sui seguenti fatti e considerazioni:
a) a seguito di sopralluoghi erano stati rinvenuti nel
piazzale
dell’impresa due cassoni pieni: l’uno, di guaina bituminosa
(ritagli di rotoli di materia prima e di guaina sostituita
durante le fasi di demolizione e costruzione); l’altro, di
imballaggi
misti costituiti da barattoli che in origine avevano
contenuto sostanze utilizzate per la posa in opera della
guaina;
b) tali rifiuti, accatastati alla rinfusa, provenivano dai
vari
cantieri gestiti dall’impresa che svolgeva attività di
impermeabilizzazione
e coperture per l’edilizia;
c) sul registro di carico e scarico mancava ogni indicazione
sui rifiuti in questione essendo registrati solo i movimenti
di quelli (rifiuti misti da demolizione) conferiti per lo
smaltimento
ad altra impresa;
d) i rifiuti non erano stati prodotti nel luogo del loro
rinvenimento
ove erano situati esclusivamente gli Uffici amministrativi
della società;
e) non era stata provata la tesi difensiva per cui tali
rifiuti
fossero destinati alla commercializzazione.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto avverso
la sentenza sotto il profilo della natura di rifiuto delle
guaine
e della regolarità del deposito.
La Cassazione ha premesso che, per escludere la natura di
rifiuto delle guaine bituminose, i ricorrenti avevano
utilizzato
argomenti di natura fattuale (attingendo a tal fine a dati
estrinseci al testo della sentenza) e nel merito ha
osservato
che:
a) il Tribunale aveva dato atto che le guaine erano
anch’esse
destinate allo smaltimento tramite impresa specializzata;
b) tale affermazione -di natura dirimente- si fondava su
elementi di prova indicati in sentenza di cui i ricorrenti
non
solo non eccepivano il travisamento, limitandosi ad opporre
la testimonianza della Coppo, secondo cui le guaine e le
latte venivano selezionate per decidere se riutilizzarle in
altri
impieghi o disfarsene, ma di cui riconoscevano la veridicità
allorquando opponevano l’inadempimento dell’impresa
in questione, a loro non imputabile;
c) in ogni caso, l’argomentazione difensiva (fondata sulla
testimonianza prima citata) secondo cui si trattava di
materie
prime secondarie, oltre ad essere contraddittoria con la
tesi dell’affidamento del deposito a terzi, non considerava
che tali erano solo quelle che rispettavano i requisiti e le
condizioni di cui ai decreti ministeriali indicati nell’art.
181-
bis, D.Lgs. n. 152/2006, non i residui della lavorazione dei
quali sia incerta la destinazione all’effettivo riutilizzo;
d) allo stesso modo, l’eccezione secondo cui il deposito
era regolare perché i rifiuti erano depositati nel “luogo di
produzione” (dovendosi per tale intendere, secondo la tesi
difensiva, anche la sede dell’impresa produttrice) non era
decisiva perché non considerava che lo stoccaggio alla
rinfusa
esclude “ex se” la regolarità del deposito stesso e che
in ogni caso il rispetto di tutte le modalità tecniche del
deposito
costituisce preciso onere di chi lo effettua, in
considerazione
della natura eccezionale e derogatoria del deposito
temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria, onere che
non può essere assolto per la prima volta in sede di
legittimità
con l’inammissibile allegazione di dati fattuali;
e) peraltro, era da escludere che la sede dell’impresa non
funzionalmente ed immediatamente collegata al luogo di
materiale produzione del rifiuto potesse esser considerata
anch’essa “luogo di produzione” del rifiuto e ciò a
prescindere
dal fatto che tale collegamento, se non emerge “ictu
oculi”, deve essere provato in modo rigoroso da chi lo
deduce.
La Corte ha motivato anche perché non ha ritenuto astrattamente
applicabile la causa di non punibilità per la particolare
tenuità del fatto: infatti, la richiesta contrastava con
la decisione del Tribunale di sanzionare la condotta degli
imputati con una pena che, ancorché pecuniaria, non era
in alcun modo prossima al minimo edittale il che escludeva
l’esiguità del pericolo di danno per l’ambiente (e, dunque,
la particolare tenuità dell’offesa) che deve essere minimo,
trascurabile.
Secondo la Corte, la natura esigua del danno
(o del pericolo) concorre a rendere non punibile un fatto
che è comunque offensivo, sicché essa non può essere
confusa con le ipotesi di “speciale (o particolare) tenuità”
o
di “lieve entità” del fatto che attenuano il reato, senza
escluderne l’offensività. Si tratta di concetti non
sovrapponibili
che collocano la non punibilità per particolare tenuità
del fatto nella angusta area schiacciata tra la totale
inoffensività
della condotta e il reato attenuato dalla speciale o
particolare tenuità del fatto o dalla sua lieve entità (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.04.2016 n. 17184
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 7/2016) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In materia di ordine di
rimozione e smaltimento rifiuti abbandonati su area privata,
il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi
dall’orientamento consolidato secondo cui il legislatore delegato ha
inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva
partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali
destinatari del provvedimento conclusivo.
Di conseguenza, la
preventiva, formale comunicazione dell'avvio del
procedimento costituisce un adempimento indispensabile al
fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati e -diversamente da
quanto ha affermato il TAR- non si può applicare il
temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa
legge.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Puglia – sede
staccata di Lecce, Sezione I n. 3210/2015, resa tra le
parti, concernente ordine di rimozione e smaltimento rifiuti
abbandonati su area privata.
...
Il primo motivo dell’appello è fondato.
Viene in questione il citato comma 3 dell’art. 192 del
decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale stabilisce: “Fatta
salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255
e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è
tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o
allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato
dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il
Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
Il Collegio ritiene di non avere ragione per discostarsi
dall’orientamento consolidato (cfr. per tutte Cons. Stato,
sez. V, 25.08.2008, n. 4061; Id., sez. II, parere 21.06.2013, n. 2916; Id., sez. V, 22.02.2016, n.
705), secondo cui, in materia, il legislatore delegato ha
inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un'effettiva
partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali
destinatari del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la
preventiva, formale comunicazione dell'avvio del
procedimento costituisce un adempimento indispensabile al
fine dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati e -diversamente da
quanto ha affermato il TAR- non si può applicare il
temperamento che l’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa
legge.
Nel caso di specie, è indiscusso che l’avviso di avvio del
procedimento non sia stato comunicato alla parte
destinataria dell’ordinanza sindacale, che ha visto leso il
proprio diritto alla partecipazione procedimentale.
Da ciò l’illegittimità del provvedimento impugnato, con
assorbimento dei motivi ulteriori dell’appello, tenuto conto
dei principi elaborati dall’Adunanza plenaria di questo
Consiglio di Stato con la sentenza 27.04.2015, n. 5.
Dalle considerazioni che precedono discende che, come già
detto, l’appello è fondato e va pertanto accolto. In riforma
della sentenza di primo grado, ne segue l’accoglimento del
ricorso introduttivo con annullamento dell’atto impugnato e
rimessione degli atti all’Autorità amministrativa, che
provvederà anche tenendo conto dei principi affermati
dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (con le
ordinanze n. 21 del 25.09.2013 e n. 25 del 13.11.2013), dalla Corte di giustizia dell’Unione europea
(con la sentenza 04.03.2015 in causa C-534/13) e dalla
sezione V del Consiglio di Stato (con la sentenza 25.02.2015, n. 933).
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ.,
sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti,
Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti
di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal
Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e
comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno
diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.04.2016 n. 1301 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2016 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'ordine di bonifica trasmesso agli eredi.
Nel caso di ordine di bonifica di un sito inquinato,
l'obbligo ripristinatorio è trasmissibile agli eredi.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la
sentenza 25.02.2016 n. 765 .
Nel caso in esame dei proprietari di terreni avevano chiesto
al Tar per la Lombardia l'annullamento dell'ordinanza del
sindaco del Comune di Cerro al Lambro nella parte in cui si
ordinava loro la messa in sicurezza, la bonifica e il
ripristino ambientale della località denominata «Cascina Gazzera», ai sensi degli artt. 14 e 17 del dlgs 22/1997.
Il primo giudice aveva accolto il ricorso rilevando che per
quanto concerneva i fenomeni di inquinamento sino al 1979,
gli stessi non potevano essere imputabili ai ricorrenti,
atteso che i terreni interessati non risultavano essere di
loro proprietà, ma del defunto padre.
Per quanto riguarda gli eventi successivi, invece, il comune
di Cerro al Lambro non aveva fornito la prova della «causazione
dei fenomeni» in questione da parte di questi ultimi che lo
avrebbero, invece, concesso in locazione ad una società.
Con appello il Comune di Cerro al Lambro aveva rivendicato
la legittimità del suo provvedimento.
I giudici di Palazzo Spada accolgono la tesi.
Essi riconoscono, innanzi tutto, come i casi di inquinamento
contestati nell'arco di oltre trent'anni siano da ricondurre
agli odierni proprietari, che «in alcun modo hanno impedito
lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno
provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per
impedire che l'attività di devastazione delle aree oggetto
dell'ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni».
E non vi è dubbio, a questo proposito, che l'obbligo ripristinatorio sia trasmissibile agli eredi, trattandosi di
obblighi di natura patrimoniale (cfr. Cons. St., sez. II, 06.03.2013, n. 2417).
Per quanto concerne, poi, l'ordine di bonifica del sito
inquinato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto
un contratto di locazione, atteso che va riconosciuta sia la
responsabilità del proprietario di un terreno sul quale
siano depositati rifiuti, ai sensi dell'art. 14, comma 3,
del dlgs 05.02.1997 n. 22, nel caso in cui il terreno sia
oggetto di un rapporto di locazione, sia la responsabilità
di qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in
un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli «di
esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata
ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a
discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia
dell'ambiente»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La giurisprudenza di questo Consiglio ha
precisato che l’obbligo ripristinatorio ambientale (in
termini di bonifica) è trasmissibile agli eredi, trattandosi
di obblighi di natura patrimoniale.
Quanto agli obblighi di bonifica posto che è accertata anche
all’indomani dell’acquisizione in proprietà del bene da
parte degli odierni appellati l’attività di sversamento di
rifiuti nel fondo in questione, da un lato, è irrilevante la
circostanza che sia intervenuto un contratto di locazione
tra la società I... e Fr.Da., atteso che la giurisprudenza è
ferma nel riconoscere sia la responsabilità del proprietario
di un terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi
del D.Lgs. n. 22/1997, art. 14, comma 3, nel caso in cui il
terreno sia oggetto di un rapporto di locazione, sia la
responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una
funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che
l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. Pertanto,
sia il proprietario locante, che colui che conduce in
locazione possono risultare responsabili per l’inquinamento
dei suoli.
Dall’altro, deve rinvenirsi una responsabilità in proprio in
capo agli aventi causa di Fr.Da., poiché il requisito della
colpa postulato dall’art. 14, d.lgs. 22/1997, ben può
consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo
che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti
nocivi.
Nella fattispecie, infatti, gli atti amministrativi
acquisiti al fascicolo di causa danno atto del verificarsi
dei fenomeni di inquinamento nell’arco di oltre trent’anni e
della loro riconducibilità agli odierni appellati ed al loro
dante causa, che in alcun modo hanno impedito lo sversamento
dei rifiuti sui loro suoli, né hanno provveduto alla
rimozione degli stessi, non attivandosi per impedire che
l’attività di devastazione delle aree oggetto dell’ordinanza
impugnata proseguisse nel corso degli anni.
----------------
... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA–MILANO,
SEZIONE I, n. 5443/2004, resa tra le parti, concernente
bonifica località e ripristino ambientale.
...
9. Sono fondate, invece, le doglianze con la quale
l’amministrazione sostiene la legittimità dell’ordinanza
impugnata contenente l’obbligo di rimozione dei rifiuti e di
bonifica in capo agli odierni appellati.
Va precisato che la pronuncia della Corte di Giustizia, 04.03.2015, C-534/13 non contiene principi di diritto utili
ai fini della decisione della presente controversia.
Infatti, non solo si pronuncia su una disciplina europea, ratione temporis, non applicabile alla controversia in
esame, ma in ogni caso giunge a conclusioni non esportabili
alla vicenda de qua, dal momento che esclude l’addebitabilità
in capo al proprietario degli obblighi di bonifica e di
ripristino discendenti dalla mera qualifica di titolare di
un diritto reale sul bene.
Esclude, quindi, la compatibilità
comunitaria di una disciplina nazionale che preveda una
responsabilità oggettiva discendente dalla mera qualifica di
titolare di un diritto reale sul bene.
9.1. Appare opportuno, inoltre, precisare che questa Sezione
in altro contenzioso proposto da I.. S.r.l. per
ottenere la caducazione dell’ordinanza impugnata anche dagli
odierni appellati ha escluso con la pronuncia n. 5305/2014,
la ricorrenza delle censure di legittimità ivi denunciate.
Sempre questa Sezione con sentenza n. 1026/2009, ha respinto
il ricorso proposto dagli odierni appellati avverso
l’ordinanza n. 8/1997 del Sindaco del comune di Cerro al Lambro con la quale venivano disposti obblighi per la
bonifica ambientale delle aree di proprietà di quest’ultimi
sui mappali n. 57 e 59 del foglio 10 del comune di Cerro al
Lambro, prossime a quelle oggetto dell’ordinanza impugnata
con il ricorso di prime cure, così riformando la sentenza
del TAR Lombardia n. 760/2000.
9.2. Tanto premesso va chiarito che nella fattispecie in
esame, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice,
sono ravvisabili elementi di imputazione in capo agli
originari ricorrenti degli obblighi di bonifica e di
ripristino discendenti dal loro comportamento colposo.
Innanzitutto, è utile precisare che la giurisprudenza di
questo Consiglio ha precisato che l’obbligo ripristinatorio
è trasmissibile agli eredi, trattandosi di obblighi di
natura patrimoniale (cfr. Cons. St., Sez. II, 06.03.2013,
n. 2417).
Quanto, invece, agli obblighi di bonifica posto
che è accertata anche all’indomani dell’acquisizione in
proprietà del bene da parte degli odierni appellati
l’attività di sversamento di rifiuti nel fondo in questione,
da un lato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto
un contratto di locazione tra la società I... e Fr.Da., atteso che la giurisprudenza è ferma nel
riconoscere sia la responsabilità del proprietario di un
terreno sul quale siano depositati rifiuti, ai sensi del
D.Lgs. n. 22/1997, art. 14, comma 3, nel caso in cui il
terreno sia oggetto di un rapporto di locazione (cfr. Cass.
civ. Sez. III, 22.03.2011, n. 6525), sia la
responsabilità di qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una
funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che
l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente. Pertanto,
sia il proprietario locante, che colui che conduce in
locazione possono risultare responsabili per l’inquinamento
dei suoli.
Dall’altro, deve rinvenirsi una responsabilità in
proprio in capo agli aventi causa di Fr.Da.,
poiché il requisito della colpa postulato dall’art. 14,
d.lgs. 22/1997, ben può consistere proprio nell'omissione
degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione
dell'area, così impedendo che possano essere in essa
indebitamente depositati rifiuti nocivi (cfr. Cass., Sez.
Un., 25.02.2009, n. 4472; Cons. Stato Sez. V, 16.07.2010, n. 4614).
Nella fattispecie, infatti, gli atti
amministrativi acquisiti al fascicolo di causa danno atto
del verificarsi dei fenomeni di inquinamento nell’arco di
oltre trent’anni e della loro riconducibilità agli odierni
appellati ed al loro dante causa, che in alcun modo hanno
impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno
provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per
impedire che l’attività di devastazione delle aree oggetto
dell’ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni.
10. L’odierno appello deve, quindi, essere accolto con ciò
che ne consegue in termini di riforma della sentenza
impugnata e di reiezione del ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.02.2016 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La giurisprudenza ha quasi costantemente
affermato che gli interventi di riparazione, di messa in
sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano
esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè
sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il
profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2, d.lgs.
n. 152 del 2006); se il responsabile non sia individuabile o
non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario
del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che
risultassero necessari sono adottati dall'Amministrazione
competente (art. 244, comma 4, d.lgs. cit.); le spese
sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che
giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare
l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi
l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei
confronti del medesimo soggetto ovvero la loro
infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario.
Per completezza va aggiunto che gli art. 244, 245 e 253
d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in
caso di accertata contaminazione di un sito e
d’impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o
di impossibilità di ottenere da quest'ultimo interventi di
riparazione, il Ministero dell'ambiente non può imporre al
proprietario non responsabile, che ha solo una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo
l'esecuzione degli interventi di bonifica, l'esecuzione
delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica.
---------------
E' il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale
gravano, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152 del 2006, gli
obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino
ambientale a seguito della constatazione di uno stato di
contaminazione, mentre il proprietario non responsabile è
gravato solo di una specifica obbligazione di "facere" che
riguarda, però, soltanto l'adozione delle misure di
prevenzione.
Per completezza va aggiunto che in tema di bonifica e
ripristino ambientale di un terreno inquinato ai sensi
dell'art. 242, comma 2 e seguenti, del d.lgs. n. 152 del
2006, nel caso di affitto del bene a terzi anche il
proprietario resta responsabile allorché sia a conoscenza
della pericolosità dell'attività svolta e dello stato
d’inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far
sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel
più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento
dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione.
La rimozione dei rifiuti viene ordinata nell’atto gravato
solo in via eventuale quando a seguito dell’indagine risulti
che è stata proprio la presenza dei rifiuti a causare la
contaminazione.
---------------
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza prot. n. 20428/15 dd 3.7.2015, notificata
in data 07.07.2015 con cui è stato intimato al ricorrente,
quale legale rappresentante del Consorzio per lo sviluppo
industriale del Comune di Montalcone, in sede di
accertamento del superamento dei limiti delle CSC
(Concentrazioni Soglia di Contaminazione) Idrocarburi, di
attivarsi secondo quanto stabilito dall'art. 242 del D.lgs.
152/2006 ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti ai sensi
dell'art. 249 del decreto medesimo;
- di presentare inoltre nel termine di giorni 30 dalla data
di notifica dell'ordinanza il piano di caratterizzazione a
Provincia, Regione, Comune, ARPA F.V.G. - Dipartimento di
Gorizia ed A.s.s. n. 2 "Bassa Friulana Isontina",
...
1. Viene in esame il ricorso del Consorzio per lo sviluppo
industriale del Comune di Monfalcone avverso il
provvedimento della Provincia di Gorizia del 03.07.2015
con cui si ordina al consorzio, quale corresponsabile della
potenziale contaminazione in un’area in cui è stato
accertato il superamento del parametro per quanto riguarda
gli idrocarburi, di attivarsi ai sensi dell’articolo 242 del
decreto legislativo 152 del 2006 e di presentare un piano di
caratterizzazione; si ordina altresì di rimuovere i rifiuti
qualora per la loro natura possano aver causato la
contaminazione del suolo.
2. Conviene prendere le mosse dall’atto impugnato, il quale
si rivolge alla lettera a) al Consorzio terme romane e alla
lettera b) al Consorzio per lo sviluppo industriale odierno
ricorrente, considerandolo “corresponsabile della potenziale
contaminazione limitatamente alla porzione di area in cui si
è accertata la presenza di un deposito di materiali/rifiuti
sul suolo nel corso del sopralluogo del mese di marzo 2014”.
Segue l’ordine di attivarsi ex art. 242 del d.lgs. 152 del
2006 ovvero qualora ne ricorrano i presupposti ex art. 249 e
nel termine di 30 giorni di presentare un piano di
caratterizzazione. Si aggiunge infine che le indagini
dovranno essere eseguite anche “a seguito della rimozione
dei rifiuti, qualora la natura degli stessi possa aver
causato la contaminazione del suolo”.
3. Va innanzi tutto riprodotto l’art. 242 citato nelle parti
che interessano:
"Art. 242
1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di contaminare il sito, il responsabile
dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le
misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata
comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo
304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di
individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora
comportare rischi di aggravamento della situazione di
contaminazione.
2. Il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie
misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla
contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri
oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello
delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia
stato superato, provvede al ripristino della zona
contaminata, dandone notizia, con apposita
autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti
per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione.
L'autocertificazione conclude il procedimento di notifica di
cui al presente articolo, ferme restando le attività di
verifica e di controllo da parte dell'autorità competente da
effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui
l'inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i
parametri da valutare devono essere individuati, caso per
caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi
svolte nel tempo.
OMISSIS
8. I criteri per la selezione e l'esecuzione degli
interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in
sicurezza operativa o permanente, nonché per
l'individuazione delle migliori tecniche di intervento a
costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available
Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle
normative comunitarie sono riportati nell'Allegato 3 alla
parte quarta del presente decreto,
9. La messa in sicurezza operativa, riguardante i siti
contaminati [con attività in esercizio], garantisce una
adeguata sicurezza sanitaria ed ambientale ed impedisce
un'ulteriore propagazione dei contaminanti. I progetti di
messa in sicurezza operativa sono accompagnati da accurati
piani di monitoraggio dell'efficacia delle misure adottate
ed indicano se all'atto della cessazione dell'attività si
renderà necessario un intervento di bonifica o un intervento
di messa in sicurezza permanente. Possono essere altresì
autorizzati interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria e di messa in sicurezza degli impianti e delle
reti tecnologiche, purché non compromettano la possibilità
di effettuare o completare gli interventi di bonifica che
siano condotti adottando appropriate misure di prevenzione
dei rischi.
10. Nel caso di caratterizzazione, bonifica, messa in
sicurezza e ripristino ambientale di siti con attività in
esercizio, la regione, fatto salvo l'obbligo di garantire la
tutela della salute pubblica e dell'ambiente, in sede di
approvazione del progetto assicura che i suddetti interventi
siano articolati in modo tale da risultare compatibili con
la prosecuzione della attività.
11. Nel caso di eventi avvenuti anteriormente all'entrata in
vigore della parte quarta del presente decreto che si
manifestino successivamente a tale data in assenza di
rischio immediato per l'ambiente e per la salute pubblica,
il soggetto interessato comunica alla regione, alla
provincia e al comune competenti l'esistenza di una
potenziale contaminazione unitamente al piano di
caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l'entità
e l'estensione con riferimento ai parametri indicati nelle
CSC ed applica le procedure di cui ai commi 4 e seguenti.
12. Le indagini ed attività istruttorie sono svolte dalla
provincia, che si avvale della competenza tecnica
dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente e si
coordina con le altre amministrazioni.
13. La procedura di approvazione della caratterizzazione e
del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di servizi
convocata dalla regione e costituita dalle amministrazioni
ordinariamente competenti a rilasciare i permessi,
autorizzazioni e concessioni per la realizzazione degli
interventi compresi nel piano e nel progetto. La relativa
documentazione è inviata ai componenti della conferenza di
servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la
discussione e, in caso di decisione a maggioranza, la
delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica
motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel
corso della conferenza. Compete alla provincia rilasciare la
certificazione di avvenuta bonifica. Qualora la provincia
non provveda a rilasciare tale certificazione entro trenta
giorni dal ricevimento della delibera di adozione, al
rilascio provvede la regione.
OMISSIS"
4. Va osservato che il riprodotto articolo di legge fa
riferimento, al comma 12, alla necessità per la provincia di
coordinarsi con le altre pubbliche amministrazioni, tra cui
nel caso anche il Consorzio industriale proprietario
dell’area.
La giurisprudenza ha quasi costantemente affermato che gli
interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul
responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al
quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo,
l'inquinamento (art. 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006);
se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e
non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro
soggetto interessato), gli interventi che risultassero
necessari sono adottati dall'Amministrazione competente
(art. 244, comma 4, d.lgs. cit.); le spese sostenute per
effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla
base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra
l'altro l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto
responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di
esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa
verso il proprietario (TAR L'Aquila, (Abruzzo), sez. I,
03/07/2014, n. 577; TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I,
05/05/2014, n. 183).
5. Per completezza va aggiunto che gli art. 244, 245 e 253
d.lgs. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in
caso di accertata contaminazione di un sito e
d’impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o
di impossibilità di ottenere da quest'ultimo interventi di
riparazione, il Ministero dell'ambiente non può imporre al
proprietario non responsabile, che ha solo una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo
l'esecuzione degli interventi di bonifica, l'esecuzione
delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica
(Consiglio di Stato ad. plen., 25/09/2013, n. 21).
6. Ne discende che sulla questione, ad avviso di questo
Collegio, risulta decisiva la considerazione che la bonifica
di un sito potenzialmente inquinante è una fattispecie
diversa e distinta dal deposito di rifiuti,
indipendentemente dalla causa.
Nell’atto impugnato non si
parla affatto di responsabilità a titolo penale del
Consorzio ricorrente, ma semplicemente di responsabilità a
titolo di proprietario ancorché incolpevole; del resto si
ordina al consorzio di procedere al piano di
caratterizzazione, che costituisce un’indagine preliminare
allo stesso accertamento della tipologia di rifiuti e di
inquinamento.
7. Che l’inquinamento poi vi fosse non è lecito dubitare,
visto che i parametri per quanto riguarda gli idrocarburi
non risultano rispettati a seguito dell’ispezione avvenuta
nel 2014, con l’intervento dell’ARPA regionale.
8. In sostanza, l’ordinanza si basa su due elementi non
messi in discussione nel ricorso: il primo è che il
consorzio industriale è e resta proprietario dell’area in
questione, anche se non ne ha avuto in ogni momento la
disponibilità. Il secondo elemento è che nel corso di un
accertamento avvenuto ad opera di una struttura pubblica nel
2014 si è accertato il superamento di alcuni parametri di
legge per quanto riguarda gli idrocarburi.
L’ordine
impugnato in sostanza chiede solo un piano di
caratterizzazione ed eventuali interventi ex articolo 242
del decreto legislativo 152 del 2006, limitatamente all’area
in cui è stata accertata la presenza di un deposito di
materiali o rifiuti nel corso del sopralluogo del marzo 2014
e solo nella misura che compete al proprietario incolpevole.
9. Invero, è il responsabile dell'inquinamento il soggetto
sul quale gravano, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152 del
2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e
ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno
stato di contaminazione, mentre il proprietario non
responsabile è gravato solo di una specifica obbligazione di
"facere" che riguarda, però, soltanto l'adozione delle
misure di prevenzione (TAR Milano, (Lombardia), sez. IV,
13/01/2014, n. 108).
10. Per completezza va aggiunto che in tema di bonifica e
ripristino ambientale di un terreno inquinato ai sensi
dell'art. 242, comma 2 e seguenti, del d.lgs. n. 152 del 2006,
nel caso di affitto del bene a terzi anche il proprietario
resta responsabile allorché sia a conoscenza della
pericolosità dell'attività svolta e dello stato
d’inquinamento del sito, essendo ciò sufficiente a far
sorgere un obbligo di attivarsi al fine di eliminare, nel
più breve tempo possibile ed anche in assenza di intervento
dell'autore dell'inquinamento, lo stato di contaminazione
(TAR Venezia, (Veneto), sez. III, 28/10/2014, n. 1346).
11. La rimozione dei rifiuti viene ordinata nell’atto
gravato solo in via eventuale quando a seguito dell’indagine
risulti che è stata proprio la presenza dei rifiuti a
causare la contaminazione.
12. Si tratta in sostanza per il Consorzio ricorrente di
attuare tutte e sole le misure di prevenzione previste
dall’articolo 242, quelle cioè poste a carico del
proprietario indipendentemente da una sua responsabilità.
13. Tutte le disquisizioni contenute sia nel ricorso sia
nelle memorie difensive relative alla mancanza di
comunicazione tra i due enti pubblici risultano irrilevanti
ai fini dell’esame della legittimità dell’atto impugnato.
Quest’ultimo, come ripetuto più volte, trova la sua
legittimità in due fatti obiettivi: l’accertamento di un
inquinamento superiore ai limiti di legge avvenuto nel 2014
e la circostanza che l’area in cui tale versamento è
avvenuto è di proprietà del consorzio ricorrente.
14. Ogni altro aspetto risulta importante per quanto
riguarda le conseguenze penali o di responsabilità, ma non
ai fini di valutare la legittimità dell’atto impugnato, che
risulta pertanto immune dai vizi sollevati.
15. Il ricorso va quindi rigettato: di conseguenza non si
può accogliere la domanda di risarcimento dei danni, tra
l’altro formulata in modo del tutto generico
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 24.02.2016 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Se un soggetto -anche, come nel caso di
specie, mero "detentore" di
rifiuti- appresta una serie di condotte finalizzate alla
gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta,
raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non
esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una "attività"
di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente
ottenere i necessari titoli abilitativi.
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3. In ordine alla pretesa irrilevanza penale della condotta
in ragione della occasionalità, va ribadito che, trattandosi
di illecito istantaneo, ai fini della configurabilità del
reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152 del
2006, è sufficiente anche una sola condotta integrante una
delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale
(Sez. 3, n. 8979 del 02/10/2014, dep. 2015, Cristinzio, Rv.
262514; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino, Rv.
257631; Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011, D'Andrea, Rv.
250674; Sez. 3, n. 21655 del 13/ 04/2010, Hrustic, Rv.
247605), purché costituisca una "attività" e non sia
assolutamente occasionale.
3.1. La natura occasionale delle condotte di gestione di
rifiuti è strettamente legata alla qualificazione della
fattispecie penale in termini di reato comune o proprio, e,
di conseguenza, alla dimensione delle attività di gestione.
L'art. 256, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, infatti, punisce "chiunque"
effettua una attività di "raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti" in
mancanza delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni
prescritte dagli artt. 208-216.
Innanzitutto, l'utilizzazione dell'espressione "chiunque"
a proposito del reato di esercizio abusivo di attività di
gestione di rifiuti indizia una qualificazione dell'illecito
in termini di reato comune, atteso che, al contrario, nel
reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
disciplinato dal successivo comma 2 (che rinvia al solo
trattamento sanzionatorio del primo comma, non già al
precetto), i soggetti attivi sono espressamente indicati
come i "titolari di imprese" ed i "responsabili di
enti"; in tal senso, del resto, depone altresì la
soppressione, ad opera dell'art. 7, comma 6, d.lgs.
08.11.1997, n. 389, dell'inciso, riferito all'appartenenza
dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, "prodotti da
terzi", contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22 del
1997 (successivamente trasfuso nell'art. 256 T.U. amb.)
(nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925
del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del
24/06/2014, Lazzaro).
Tuttavia, si è sostenuto, in dottrina, che il pronome "chiunque"
non è riferibile ad un agente indefinito, essendo in realtà
il destinatario della norma penale soltanto il soggetto che
abbia l'obbligo di sottoporsi al controllo della P.A.,
individuabile mediante il richiamo alle norme autorizzatorie
di cui agli artt. 208-216 T.U. amb.; in altri termini,
soltanto i soggetti che esercitano l'attività di gestione in
forma imprenditoriale possono (e devono) dotarsi dei titoli
abilitativi.
In tal senso, a corroborare la qualifica di reato proprio
della fattispecie penale in oggetto, si è, dunque,
evidenziata la necessità, per l'integrazione della tipicità,
dei requisiti di organizzazione e professionalità
dell'attività di gestione; e se ne è tratta conferma dal
principio secondo cui "In materia di rifiuti, il soggetto
privato, non titolare di una attività di impresa o
responsabile di un ente, che abbandoni in modo incontrollato
un proprio rifiuto e che, a tal fine, lo trasporti
occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato,
risponde solo dell'illecito amministrativo di cui all'art.
255 del D.Lgs. n. 152 del 2006 per l'abbandono e non anche
del reato di trasporto abusivo previsto dall'art. 256, comma
primo, del D.Lgs. cit., in quanto il trasporto costituisce
solo la fase preliminare e preparatoria rispetto alla
condotta finale di abbandono, nella quale rimane assorbito"
(Sez. 3, n. 41352 del 10/06/2014, Parpaiola).
La tesi, tuttavia, a parere di questo Collegio, dimostra più
di quanto la norma incriminatrice consenta.
Invero, se l'uso del pronome "chiunque" rappresenta
un mero indizio della qualificazione in termini di reato
comune, e la costruzione della fattispecie incriminatrice
secondo la consueta 'tecnica ingiunzionale' -mediante
penalizzazione di condotte poste in essere in assenza di
provvedimenti amministrativi autorizzatori, alla stregua di
un modello di tutela penale 'condizionato', e non 'puro'-
individua i soggetti destinatari degli obblighi delineati
dagli artt. 208-216 T.U. annb., nondimeno qualificare la
fattispecie quale reato proprio rischia di determinare
un'inversione metodologica nell'ermeneusi proposta. Ed anche
il richiamo al principio di diritto espresso da Sez. 3, n.
41352 del 10/06/2014, Parpaiola, non appare del tutto
conferente, in quanto la pronuncia richiamata esclude la
rilevanza penale del trasporto abusivo in quanto del tutto
occasionale, perché esclusivamente propedeutico e
strumentale ad un abbandono dei rifiuti (sanzionato in via
amministrativa dall'art. 255 T.U. amb.).
Quanto al soggetto attivo del reato, va chiarito che l'uso
normativo del pronome indefinito "chiunque" va
interpretato alla luce della tecnica di tutela 'relativa'
adottata dal legislatore, secondo il modello 'ingiunzionale':
in altri termini, l'agente può essere "chiunque"
eserciti abusivamente una delle attività di gestione
indicate, in via alternativa, nell'art. 256 cit.
(fattispecie a condotte alternative), anche se non
costituito formalmente in veste imprenditoriale; ciò che
rileva, dunque, per assumere la veste di agente del reato
non è una qualifica soggettiva (una forma imprenditoriale,
necessaria, ad esempio, per l'iscrizione all'Albo nazionale
dei gestori ambientali), bensì la concreta attività posta in
essere.
In tal senso, si è espressa altresì la giurisprudenza più
recente che ha affrontato il profilo della rilevanza penale
dell'attività "ambulante" di raccolta e trasporto,
secondo cui "la condotta sanzionata dal D.Lgs. n. 152 del
2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in
assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli art. 208,
209, 210, 211, 212, 214, 215 e 226 del medesimo Decreto,
svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda,
per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e
che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità"
(Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro; Sez. 3, n. 269
del 10/12/2014, dep. 2015, Seferovic).
Appare, dunque, improprio, e frutto di un'inversione
metodologica, qualificare la fattispecie di cui all'art.
256, comma 1, T.U. amb. come reato proprio, il cui soggetto
attivo può essere individuato soltanto nei soggetti operanti
in forme imprenditoriali, in quanto legittimati
all'iscrizione nell'Albo nazionale gestori ambientali.
Sarebbe sufficiente essere privi -come normalmente si
rileva- della qualifica soggettiva asseritamente richiesta
dalla norma per sottrarsi all'applicazione della fattispecie
incriminatrice. Non è la astratta qualifica soggettiva,
bensì la condotta concretamente posta in essere di gestione
abusiva di rifiuti a rilevare ai fini dell'applicabilità
della fattispecie in oggetto, che può essere "svolta
anche di fatto o in modo secondario" (Sez. 3, n. 29992
del 24/06/2014, Lazzaro), purché in assenza di uno dei
titoli abilitativi, e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Del resto, che l'attività imprenditoriale possa essere
esercitata, anche solo di fatto, in forma anche individuale
implica che non è la forma giuridica rivestita, bensì
l'attività concretamente posta in essere ad assumere rilievo
ai fini dell'obbligo di autorizzazione (art. 212 T.U. amb.),
e, di conseguenza, ai fini dell'individuazione del soggetto
attivo del reato.
Peraltro, la rilevanza della "assoluta occasionalità"
ai fini dell'esclusione della tipicità deriva non già da una
arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì
dal tenore della fattispecie penale, che, punendo la "attività"
di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione, concentra il disvalore d'azione su un
complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con la
condotta assolutamente occasionale (in tal senso, già Sez.
3, n. 5031 del 17/01/2012, Granata, non massimata, secondo
cui "con il termine "attività" deve intendersi ogni
condotta che non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità, mentre la norma non richiede ulteriori
requisiti di carattere soggettivo o oggettivo perché sia
integrata la fattispecie criminosa. Si tratta, infatti, di
reato comune, in quanto può essere commesso da "chiunque", e
non di reato proprio, sicché non occorrono i requisiti della
professionalità della condotta ovvero di un'organizzazione
imprenditoriale della stessa" (sez. 3, 28.10.2009 n. 79
del 2010, Guglielmo, RV 245709) (sez. 3, 15.01.2008 n. 7462,
Cozzoli, RV 239011) ).
È dunque la descrizione normativa ad escludere dall'area di
rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità (si
pensi alla dismissione, da parte di un privato, di quanto
contenuto in un proprio locale cantina).
Al contrario, proprio il pronome "chiunque" impone di
includere nella portata applicativa della norma
incriminatrice anche il "detentore" del rifiuto,
ovvero "il produttore dei rifiuti o la persona fisica o
giuridica che ne è in possesso" (secondo la norma
definitoria generale di cui all'art. 183, comma 1, lett. h),
T.U. amb.), allorquando l'attività di raccolta, trasporto,
commercio, ecc., sia caratterizzata non da assoluta
occasionalità.
Al riguardo, giova rilevare che la norma definitoria
generale in materia di rifiuti (art. 183, comma 1, lett. f),
g), h), i), I), T.U. amb.) distingue tra "produttore di
rifiuti" ("il soggetto la cui attività produce
rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile
detta produzione"), "produttore del prodotto" ("qualsiasi
persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppi,
fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti"),
"detentore" ("il produttore dei rifiuti o la
persona fisica o giuridica che ne è in possesso"), "commerciante"
("qualsiasi impresa che agisce in qualità di committente,
al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti")
e "intermediario" ("qualsiasi impresa che dispone
il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi").
Ebbene, il carattere imprenditoriale dell'attività viene
richiesto soltanto per i "commercianti" e gli "intermediari"
("qualsiasi impresa"), mentre la professionalità
dell'attività è requisito indispensabile per la categoria
del "produttore del prodotto" ("professionalmente");
al contrario, per il "produttore di rifiuti" e per il
"detentore" -che espressamente comprende anche la
nozione di produttore di rifiuti- non è richiesto alcun
requisito ulteriore, né di imprenditorialità, né di
professionalità.
Da tale considerazione deriva che il pronome indefinito "chiunque"
contenuto nella fattispecie di cui all'art. 256, comma 1,
T.U. amb., fa riferimento a tutte le categorie indicate
nella norma definitoria generale, e quindi anche al "detentore",
senza che al riguardo possano essere introdotte surrettizie
limitazioni interpretative fondate sui requisiti -non
espressamente richiesti- di imprenditorialità e/o di
professionalità; ciò che assume rilievo, ai fini
dell'individuazione dell'autore del reato, è l'attività
concretamente svolta di gestione di rifiuti, che, al di
fuori dell'ipotesi di assoluta occasionalità, integra la
tipicità del reato di gestione abusiva allorquando svolta in
assenza di autorizzazione.
In tal senso, del resto, depone altresì, come osservato in
precedenza, la soppressione, ad opera dell'art. 7, comma 6,
d.lgs. 08.11.1997, n. 389, dell'inciso, riferito
all'appartenenza dei rifiuti oggetto di abusiva gestione, "prodotti
da terzi", contenuto nel previgente art. 51 d.lgs. 22
del 1997 (successivamente trasfuso nell'art. 256 T.U. amb.)
(nella vigenza della precedente norma, già Sez. 3, n. 21925
del 06/06/2002, Saba; di recente, Sez. 3, n. 29992 del
24/06/2014, Lazzaro).
Pertanto, l'assoluta occasionalità non può essere desunta
esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente
(privato, imprenditore, ecc.), dovendo invece ritenersi non
integrata in presenza di una serie di indici dai quali poter
desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura
esclusivamente solipsistica della condotta (ad es., dato
ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, necessità di un
veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, fine
di profitto perseguito).
In altri termini, se un soggetto
-anche, come nel caso di specie, mero "detentore" di
rifiuti- appresta una serie di condotte finalizzate alla
gestione di rifiuti, mediante preliminare raccolta,
raggruppamento, trasporto e vendita di rifiuti, pur non
esercitando in forma imprenditoriale, pone in essere una "attività"
di gestione di rifiuti per la quale occorre preliminarmente
ottenere i necessari titoli abilitativi.
Evidentemente il profilo della assoluta occasionalità sarà
oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al
giudice del merito, e dunque questione essenzialmente
probatoria, e, ove congruamente motivata, non sarà
suscettibile di censura in sede di legittimità.
3.2. Nel caso di specie, e limitandosi alle condotte che
risultano contestate nell'imputazione, risulta che il
trasporto ed il conseguente commercio di rifiuti ferrosi
siano stati effettuati in tre distinte occasioni; tali
condotte, lungi dall'essere connotate da assoluta
occasionalità, denotano un minimum di organizzazione,
atteso che la raccolta di ben 932 kg. di rifiuti metallici
implica una preliminare fase di raggruppamento e cernita dei
soli metalli, il trasporto di un tale consistente
quantitativo di rifiuti necessita di un apposito veicolo,
adeguato e funzionale al contenimento degli stessi, ed il
commercio è evidentemente finalizzato all'ottenimento di un
profitto.
Peraltro, anche il richiamo, contenuto nella sentenza
impugnata, alla norma derogatoria di cui all'art. 193, comma
5, d.lgs. 152 del 2006 (come riformulato dall'art. 16, commi
1 e 2, d.lgs. 03.12.2010, n. 205) appare non conferente, in
quanto, oltre a superare di oltre nove volte il limite
massimo dei trasporti 'in deroga' (100 kg. all'anno),
essa riguarda l'applicabilità della disciplina sulla
tracciabilità dei rifiuti al gestore del servizio pubblico
di raccolta ed al produttore di rifiuti, ferma restando
l'illiceità del trasporto e del commercio dei rifiuti in
assenza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni o
comunicazioni di cui agli artt. 208-216 T.U. amb.
(Corte di Cassazione, Sez. III Penale,
sentenza
11.02.2016 n. 5716). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RAGGRUPPAMENTO E ABBRUCIAMENTO DI MATERIALI VEGETALI.
Rifiuti - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e
abbruciamento - Disciplina applicabile
Artt. 182, 185, 256, 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Costituisce attività di gestione di
rifiuti, esulando dalle
normali pratiche agricole, ogni attività di raggruppamento
e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all’art.
185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 eseguita
fuori dal luogo di produzione o, se eseguita nel luogo di
produzione, per una finalità diversa dal reimpiego dei
materiali come sostanze concimanti o ammendanti; ovvero
che sia eseguita nel luogo di produzione, per il
reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli
piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre metri steri
per ettaro.
Nel ricorso per cassazione deciso dalla sentenza che si
riporta,
il ricorrente, condannato per avere effettuato tramite
combustione a cielo aperto, sul nudo terreno lo smaltimento
di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da residui
della
trebbiatura del riso e in particolare da cumuli di pula e
paglia
di riso, assumeva che il Tribunale aveva ritenuto provata
la natura “dolosa” della combustione esclusivamente
sulla base della deposizione testimoniale del militare in
servizio
presso il Corpo dei Vigili del fuoco senza che questi
avesse in alcun modo accertato l’origine dolosa dell’abbruciamento
del cumulo di pula di riso dal quale fuoriusciva il
fumo.
Inoltre, il ricorrente, in relazione alla qualifica di
rifiuto
della pula di riso, sosteneva che il giudice aveva escluso
la qualifica dei materiali come sottoprodotto partendo dal
presupposto, non provato, che fosse stato l’imputato a dare
fuoco alla pula e alla paglia di riso presente sul fondo
agricolo: in altri termini, il Tribunale, partendo dal
presupposto
che il cumulo di pula di riso fosse stato deliberatamente
bruciato dal ricorrente, aveva dedotto che lo stesso
dovesse essere considerato a tutti gli effetti un rifiuto.
L’imputato
assumeva invece che la pula di riso rispettasse le
condizioni indicate dalla legge per essere considerata un
sottoprodotto, essendo indiscusso che la stessa fosse
originata
da un processo di produzione, quale è la produzione
del riso; la stessa era certamente utilizzata, nel corso
dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione,
da parte del produttore o di terzi, dal momento
che sono molteplici le modalità di utilizzo di tale
prodotto,
quale mangime per bovini e ovini, lettiera per gli animali,
utilizzo farmaceutico o per la produzione di energia nelle
centrali biogas; inoltre era prevista un’altra possibilità
di
utilizzo, utilizzata dal ricorrente ed incentivata dalla
comunità
europea (Regolamento Ce n. 73/2009), ovvero la sua
utilizzazione come concime, in considerazione delle
altissime
qualità energetiche, provvedendo al suo reinterramento
sul campo.
La Cassazione, nell’esaminare il primo motivo, ha osservato
che era stato accertato che i Vigili del fuoco ricevettero
una segnalazione di incendio presso l’azienda del
ricorrente;
che, sopraggiungendo sul posto, rinvennero all’interno
dell’azienda un cumulo di circa 80 mc. di pula di riso che
stava bruciando; che il ricorrente era la sola persona
presente
e che, all’arrivo degli operanti, stava chiudendo il
cancello di accesso all’azienda. Il teste, che aveva
coordinato
l’intervento, escluse che si trattasse di autocombustione,
rilevando che il fuoco era stato senz’altro appiccato
dall’esterno in quanto il fumo proveniva dalla superficie
esteriore del cumulo, tant’è che, quando i pompieri ruppero
la crosta esterna del cumulo, il fuoco si spense perché
all’interno il materiale era incombusto.
Successivamente, agenti del Corpo forestale si recarono
presso la citata azienda agricola e, alla presenza del
ricorrente
e di un suo dipendente, presero visione del cumulo,
oggetto dell’intervento dei pompieri e ormai ridotto in
cenere,
a ridosso del quale constatarono un nuovo abbruciamento di
residui vegetali derivanti dalla lavorazione del riso;
giusto nei pressi era infatti in funzione un essiccatoio,
in cui il riso veniva deumidificato e dai cui vagli uscivano
paglia di riso, cariossidi vuote, resti di erbe infestanti
eccetera
(nel piazzale vi erano anche cumuli di riso).
Sulla base di tali acquisizioni, il Tribunale aveva perciò
logicamente
escluso l’ipotesi dell’autocombustione.
Quanto al secondo motivo, la Cassazione, partendo dal fatto
che il fuoco era stato appiccato dall’imputato, proprietario
dell’azienda (recintata) ed unica persona presente al
momento dell’arrivo dei Vigili del fuoco, ha osservato che
il
Tribunale aveva ritenuto che l’attività di incenerimento in
questione andasse senz’altro considerata come attività di
smaltimento dei rifiuti, essendo volta a eliminare
(impropriamente)
degli scarti, peraltro di quantità significativa,
tanto che il fatto storico era ampiamente sussumibile nella
fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice,
non potendosi ritenere che, nel caso in esame, i residui
vegetali
bruciati fossero dei sottoprodotti. Infatti la condotta
di bruciare tali materiali denotava la chiara intenzione del
detentore di disfarsene.
Secondo la Corte, il Tribunale aveva giustamente escluso
che l’abbruciamento in questione fosse penalmente
irrilevante
ai sensi dell’art. 185, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 in
quanto tale norma, ai fini dell’esclusione dal campo di
applicazione
della disciplina dei rifiuti, richiede, tra l’altro, che
i residui vegetali siano destinati al reimpiego in
agricoltura
(circostanza esclusa nel caso concreto in quanto il periodo
della concimazione della semina era già ampiamente decorso)
e che i metodi di utilizzo non danneggino l’ambiente
e non mettano in pericolo la salute umana (il rispetto di
tale
requisito era da escludersi posto che la combustione era
avvenuta nei pressi di un edificio ed in periodo in cui
l’accensione
dei fuochi era vietata sul territorio regionale).
In ordine alla reclamata natura di sottoprodotto della pula
di riso, la Suprema Corte ha osservato che nella specie
non solo il ricorrente non aveva fornito la prova certa che
la sostanza (pula di riso) fosse utilizzata “nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione,
da parte del produttore o di terzi”, ma il giudice
del merito aveva anche evidenziato l’esistenza della prova
contraria in quanto il periodo della semina era ampiamente
decorso e i residui vegetali non erano stati utilizzati nei
campi; né tali residui potevano essere successivamente
utilizzati
perché la condotta di bruciarli denotava, di fatto, la
chiara intenzione del detentore di disfarsene, trattandoli
non come sottoprodotto, ma come rifiuto, attraverso lo
smaltimento di essi mediante combustione.
La Cassazione, su sollecitazione del Procuratore Generale,
ha infine affrontato la questione dello ius superveniens nel
senso che i fatti, così come ricostruiti nella sentenza
impugnata,
inducevano a ritenere non sussistenti nel caso di specie
le ulteriori condizioni di esclusione dalla disciplina dei
rifiuti
previste dall’art. 182, comma 6-bis, D.Lgs. n. 152/2006
introdotto dall’art. 14, comma 8, lett. b), D.L. 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n. 116, svolgendo in proposito due
considerazioni:
a) che nella stessa sentenza impugnata si dava atto
che i pompieri, sopraggiunti sul posto, avevano rinvenuto
all’interno
dell’azienda un cumulo di circa 80 mc di pula di riso
che stava bruciando, per cui era stato superato il limite di
3
metri steri per ettaro che l’art. 182, comma 6-bis, fissa
per la
irrilevanza penale del fatto, e
b) perché la stessa sentenza
dava atto che nel periodo interessato l’accensione dei
fuochi
era vietata sul territorio regionale.
La disposizione richiamata (art. 182, comma 6-bis) detta
una disciplina in deroga che ha ad oggetto i materiali
vegetali
di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006
(richiamato dal nuovo comma 6-bis dell’art. 182) ossia: “
(...) paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale
agricolo
o forestale naturale non pericoloso utilizzati in
agricoltura,
nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale
biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano
l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri
steri per ettaro dei materiali vegetali, di cui all’art.
185,
comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, sono,
quindi, sottratte, dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono
considerate (costituiscono) normali pratiche agricole
consentite
per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti
o ammendanti, e non costituiscono più attività di gestione
di rifiuti.
Quindi il loro “raggruppamento” ed “abbruciamento”, se
eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma
6-bis dell’art. 182, non costituisce attività di gestione di
rifiuti,
e conseguentemente non può integrare alcun illecito
previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale
ragione che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano
ope legis nel novero dei rifiuti.
Infatti, letta “in controluce”, la disposizione stabilisce
che
costituisce invece attività di gestione di rifiuti, esulando
dalle normali pratiche agricole, ogni attività di
raggruppamento
e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all’art.
185, comma 1, lett. f), eseguita fuori dal luogo di
produzione
o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità
diversa dal reimpiego dei materiali come sostanze concimanti
o ammendanti; ovvero che sia eseguita nel luogo di
produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze
concimanti o ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se
in cumuli piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre
metri
steri per ettaro.
Da ciò si ricava che l’art. 182, comma 6-bis, va coordinato
con la disciplina di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), il
quale
dispone che gli stessi materiali non rientrano nel campo di
applicazione della normativa sui rifiuti qualora siano
“utilizzati
in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa mediante processi o metodi che
non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute
umana”, richiedendosi pertanto un reimpiego finalisticamente
orientato (“come sostanze concimanti o ammendanti”
e quindi l’utilizzazione in agricoltura che è
realisticamente
fattibile se le attività sono eseguite nei luoghi di
produzione),
nonché richiedendo processi o metodi ambientalmente
salubri e non pericolosi (interessi, entrambi, compromessi
da incendi indiscriminati di enormi quantità di
materiali, non controllabili), e in tal senso spiegandosi,
cioè
nell’intima connessione esistente tra l’art. 182, comma 6-bis e l’art. 185, comma 1, lett. f), il secondo periodo
inserito
nella prima norma, apparentemente sganciato dalla disciplina
di deroga dettata dalla prima parte della medesima
disposizione ex 182, comma 6-bis D.Lgs. n. 152/2006 secondo
cui “nei periodi di massimo rischio per gli incendi
boschivi, dichiarati dalle Regioni, la combustione di
residui
vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I Comuni e
le
altre amministrazioni competenti in materia ambientale
hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la
combustione
del materiale di cui al presente comma all’aperto
in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e
privata
incolumità e per la salute umana, con particolare
riferimento
al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili
(PM10)”.
Pur nell’oggettiva difficoltà interpretativa, originata da
interventi
normativi, in materia, cronologicamente stratificati
e sistematicamente non omogenei, la Cassazione ha ritenuto
che -quando il materiale (non pericoloso) di cui all’art.
185, comma 1 lett. f) viene bruciato al di fuori delle
condizioni previste dall’art. 182, comma 6-bis, primo e
secondo
periodo, e, quindi, quando mancano le condizioni richieste
per l’esclusione dell’abbruciamento dalle attività di
gestione di rifiuti- è configurabile, contrariamente ad una
precedente decisione della stessa Corte (07.10.2014, Urcioli, Ced Cass., rv. 261790) il reato di cui all’art.
256,
comma 1, lett. a), relativo alle attività di gestione di
rifiuti
non autorizzate e non invece la disciplina sanzionatoria di
cui all’art. 256-bis in conformità all’approdo cui è giunta
in
parte qua la richiamata pronuncia, in virtù della clausola
di
riserva espressa nel secondo periodo del comma 6 dell’art.
256-bis secondo il quale “fermo restando quanto previsto
dall’art. 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente
articolo
(ossia dell’art. 256-bis) non si applicano all’abbruciamento
di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato
da verde pubblico o privato”.
Nel caso di specie, il ricorrente aveva ampiamente superato
(bruciando circa 80 metri cubi di pula di riso) il limite di
3 metri steri per ettaro, che la norma fissa per la
irrilevanza
penale del fatto (come noto, un metro stero rappresenta
l’unità di volume apparente, cioè comprendente il materiale
vegetale e gli spazi vuoti, che corrisponde ad una catasta
delle dimensioni di 1 metro x 1 metro x 1 metro), avendo
inoltre svolto l’attività di abbruciamento nel periodo in
cui, come emerge dal testo della sentenza impugnata,
l’accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.02.2016 n. 5504
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Vegetali, combustione rischiosa.
Bruciare i residui senza regole precise è gestione illecita.
I chiarimenti della Corte di cassazione sull'utilizzo dei
materiali agricoli o forestali.
Integra il vero e proprio reato di gestione illecita di
rifiuti l'abbruciamento di residui agricoli o forestali
senza l'osservanza di tutte le specifiche condizioni dettate
in materia dal Codice ambientale.
A chiarire i confini della
complessa e più volte novellata disciplina ex dlgs 152/2006
sull'utilizzo dei materiali vegetali è la
sentenza 10.02.2016 n. 5504 della Corte di
Cassazione, Sez. III penale.
Il contesto normativo. La pronuncia del giudice di
legittimità verte sulle attuali norme del dlgs 152/2006 che
consentono l'abbruciamento degli scarti vegetali fuori dal
regime dei rifiuti (comma 6-bis dell'articolo 182,
introdotto nel 2014) e il loro rapporto sia con il reato di
combustione illecita di residui (articolo 256-bis,
introdotto nel 2013 e riformulato nel 2014) che con la più
generale disciplina sulla gestione illecita degli stessi
(articolo 256).
Ai sensi dell'articolo 182 del dlgs
152/2006, lo ricordiamo, non costituiscono attività di
gestione rifiuti, ma normali pratiche agricole, l'abbruciamento
in piccoli cumuli e quantità giornaliere non superiori a tre
metri steri per ettaro dei materiali vegetali ex articolo
185, comma 1, lettera f (ossia: paglia, sfalci e potature,
altro materiale agricolo o forestale naturale non
pericoloso) effettuato nel luogo di produzione e finalizzato
al loro reimpiego come concimanti o ammendanti; la
combustione (aggiunge la disposizione in parola) è vietata
nei periodi «di rischio» dichiarati da regioni, comuni e
altre amministrazioni competenti in materia ambientale.
Il principio di diritto. Con la sentenza 5504/2016 la
Cassazione ha chiarito che l'attività di abbruciamento dei
materiali in questione effettuata in difetto di una delle
suddette condizioni integra pienamente il reato di gestione
di rifiuti non autorizzata ex articolo 256, comma 1, lettera
a), dello Codice ambientale.
Dal tenore della sentenza,
vertente sullo smaltimento tramite combustione di ingenti
cumuli di residui da trebbiatura di riso, appare emergere un
parziale mutamento rispetto all'orientamento configurato
dalla precedente pronuncia 76/2015 (sul punto richiamata)
con cui la stessa Corte aveva invece ritenuto applicabili le
sanzioni amministrative dettate dagli enti territoriali in
caso di violazione dei temporanei e citati divieti locali di abbruciamento.
Le novità in arrivo. Fulcro su cui ruota la deroga al regime
dei rifiuti accordata ai residui vegetali è la più generale
disposizione ex citato articolo 185, comma 1, lettera f), del dlgs 152/2006 che esclude dalla severa disciplina «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o
forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura,
nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale
biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano
l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Sulla
disposizione in parola promette di incidere radicalmente,
riducendo ulteriormente il campo di applicazione della
disciplina sui rifiuti, il ddl recante norme semplificatorie
per il settore agricolo approvato dalla camera il 16.02.2016. In base al provvedimento in itinere tra i
materiali vegetali esclusi (purché destinati al riutilizzo)
dalle norme sui rifiuti vi saranno infatti anche quelli
provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi ed aree
cimiteriali.
In base allo stesso disegno di legge, ora di
nuovo all'esame del senato, il riutilizzo dei residui
vegetali tutti (agricoli e non) potrà altresì avvenire fuori
dal luogo di produzione, e anche mediante cessione a terzi
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.03.2016).
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MASSIMA
3. Quanto al secondo motivo, posto che il fuoco fu
appiccato dall'imputato,
proprietario dell'azienda (recintata) ed unica persona
presente al momento
dell'arrivo dei Vigili del fuoco (l'intervento era stato
richiesto da un terzo), il
tribunale ha ritenuto che l'attività di incenerimento in
questione andasse
senz'altro considerata come attività di smaltimento dei
rifiuti, essendo volta a
eliminare (impropriamente) degli scarti, peraltro di
quantità significativa, tanto
che il fatto storico era ampiamente sussumibile nella
fattispecie astratta descritta
dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere che, nel
caso in esame, i
residui vegetali bruciati fossero dei sottoprodotti. Infatti
la condotta di bruciare
tali materiali denotava la chiara intenzione del detentore
di disfarsene (secondo
la nozione di cui all'articolo 183 decreto legislativo 152
del 2006).
Pur essendo
possibile che in altre occasioni il ricorrente avesse fatto
diverso uso di tali
materiali (spargendoli nei campi come concime, senza
bruciarli
preventivamente), nel caso in esame egli aveva invece inteso
smaltirli
(illecitamente). Il tribunale ha, tra l'altro, osservato
che, secondo quanto riferito
dall'imputato e dal teste Baretta, il cumulo era stato
formato in ottobre per
essere utilizzato non appena i terreni fossero liberi, prima
della semina, verso
maggio giugno.
Tale assunto non è stato tuttavia ritenuto (e
motivatamente)
coerente con il periodo dei fatti in esame
(agosto-settembre): il periodo della
semina era già infatti ampiamente decorso e i residui
vegetali non erano stati
utilizzati nei campi (bensì smaltiti mediante combustione).
Infine, il tribunale ha escluso che l'abbruciamento in
questione fosse penalmente irrilevante ai sensi
dell'articolo 185, lettera f), decreto legislativo 152 del
2006 in quanto tale norma, ai fini dell'esclusione dal campo
di applicazione della disciplina dei rifiuti, richiede, tra
l'altro, che i residui vegetali siano destinati al reimpiego
in agricoltura, circostanza esclusa nel caso concreto dal
fatto, già in precedenza evidenziato, che il periodo della
concimazione della semina era già ampiamente decorso) e che
i metodi di utilizzo non danneggino l'ambiente e non mettano
in pericolo la salute umana (ed il rispetto di tale
requisito è escluso posto che la combustione è avvenuta nei
pressi di un edificio ed in periodo in cui l'accensione dei
fuochi era vietata sul territorio regionale); nel caso in
esame, viceversa, la destinazione era proprio quella dello
smaltimento (lo stesso imputato aveva dichiarato infatti che
la pula andava sparsa sui terreni come concime senza essere
previamente bruciata).
3.1. Il ricorrente insiste, con il motivo di ricorso, sulla
natura di sottoprodotto della pula di riso.
Sul punto, il Procuratore generale ha opportunamente
segnalato gli approdi
cui è giunta la giurisprudenza di legittimità che, in
materia di gestione dei rifiuti,
è ferma nel ritenere che, ai fini della qualificazione come
sottoprodotto di
sostanze e materiali, incombe sull'interessato l'onere di
fornire la prova che un
determinato materiale sia destinato con certezza ed
effettività, e non come mera
eventualità, ad un ulteriore utilizzo (Sez. 3, n. 3202 del
02/10/2014, dep. 2015,
Giaccari, Rv. 262129).
Questo perché l'art. 184-bis digs. n. 152 del 2006,
definendo come
sottoprodotto qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi
"tutte" le condizioni
dettagliatamente indicate nella disposizione normativa (art.
184-bis) alle lettere
a), b), c) e d), sottrae il regime dei sottoprodotti a
quello dei rifiuti,
introducendo una disciplina avente natura eccezionale e
derogatoria rispetto a
quella ordinaria, con la conseguenza che spetta a colui che
voglia farla valere di
fornire la prova della sussistenza di tutte le condizioni,
che dunque devono
sussistere congiuntamente, previste per la sua operatività.
Nel caso di specie, non solo il ricorrente non ha fornito la
prova certa che la
sostanza (pula di riso) fosse utilizzata "nel corso dello
stesso o di un successivo
processo di produzione o di utilizzazione, da parte del
produttore o di terzi" (art.
184-ter, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152 del 2006) ma il
Giudice del merito, con
congrua motivazione, ha evidenziato l'esistenza della prova
contraria in quanto il
periodo della semina era già ampiamente decorso e i residui
vegetali non erano
stati utilizzati nei campi (in altre occasioni il ricorrente
ne aveva fatto un diverso
uso spargendo la sostanza nei campi come concime), né tali
residui potevano
essere successivamente utilizzati perché la condotta di
bruciarli denotava, di
fatto, la chiara intenzione del detentore di disfarsene,
trattandoli non come
sottoprodotto ma come rifiuto (secondo la nozione di cui
all'articolo 183, comma
1, lettera a), d.lgs. n. 152 del 2006), attraverso lo
smaltimento di essi mediante
combustione.
3.2. Sul condivisibile rilievo che trattasi di questione
rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione, in quanto anch'essa concernente lo
ius superveniens, il
Procuratore Generale ha correttamente osservato che i fatti,
così come ricostruiti
nella sentenza impugnata, inducono a ritenere non
sussistenti nel caso di specie
le ulteriori condizioni di esclusione dalla disciplina dei
rifiuti previste dall'articolo
182, comma 6-bis, d.lgs. n. 152 del 2006 introdotto
dall'art.14, comma 8,
lettera b) decreto-legge 24.06.2014, n. 91, convertito,
con modificazioni,
dalla legge 11.08.2014, n. 116, svolgendo in proposito
due considerazioni:
a) che nella stessa sentenza impugnata si dà atto che i
pompieri, sopraggiunti
sul posto, rinvenivano all'interno dell'azienda un cumulo di
circa 80 m 3 di pula di
riso che stava bruciando, per cui era stato superato il
limite di 3 metri steri per
ettaro che l'articolo 182, comma 6-bis, fissa per la
irrilevanza penale del fatto, e
h) perché la stessa sentenza
dà atto che nel periodo interessato l'accensione dei
fuochi era vietata sul territorio regionale.
3.3. La disposizione richiamata (articolo 182, comma 6-bis)
stabilisce che "le
attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli
e in quantità
giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei
materiali vegetali di cui
all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo
di produzione,
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego dei materiali
come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di
gestione dei rifiuti.
Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi,
dichiarati dalle regioni, la
combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata. I comuni e le
altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno
la facoltà di
sospendere, differire o vietare la combustione del materiale
di cui al presente
comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono
condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano
derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per
la salute umana, con
particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali
delle polveri sottili (PM10)".
Si tratta, con tutta evidenza, di una disciplina in deroga
che ha ad oggetto i
materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera
f), d.lgs. n. 152 del
2006 (richiamato dal nuovo comma 6-bis dell'art. 182) ossia:
"(...) paglia, sfalci
e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale
naturale non pericoloso
utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la
produzione di energia da tale
biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano
l'ambiente né
mettono in pericolo la salute umana".
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in
quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per
ettaro dei materiali
vegetali, di cui all'art. 185, comma 1, lettera f),
effettuate nel luogo di
produzione, sono, quindi, sottratte, dalla disciplina sui
rifiuti, poiché sono
considerate (costituiscono) normali pratiche agricole
consentite per il reimpiego
dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non
costituiscono più
attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro "raggruppamento" ed "abbruciannento", se
eseguito nel
rispetto delle condizioni imposte dal comma 6-bis dell'art.
182, non costituisce
attività di gestione di rifiuti, e conseguentemente non può
integrare alcun illecito
previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale
ragione che, a
condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope legis nel
novero dei rifiuti (Sez.
3, n. 47663 del 08/10/2014, De Santis, non mass.).
Infatti, letta "in controluce", la disposizione stabilisce
che costituisce invece
attività di gestione di rifiuti, esulando dalle normali
pratiche agricole, ogni attività
di raggruppamento e abbruciamento dei materiali vegetali di
cui all'articolo 185,
comma 1, lettera f), eseguita fuori dal luogo di produzione
o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità
diversa dal reimpiego dei materiali come
sostanze concimanti o ammendanti; ovvero che sia eseguita
nel luogo di
produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze
concimanti o
ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli
piccoli, in quantità
giornaliere superiori a tre metri steri per ettaro.
Da ciò si ricava che la disposizione ex art. 182, comma
6-bis, va coordinata
con la disciplina, che già conteneva in nuce il medesimo
principio, di cui all'art.
185, comma 1, lett. f), TUA il quale dispone che gli stessi
materiali non rientrano
nel campo di applicazione della normativa sui rifiuti
qualora siano "utilizzati in
agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa
mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né
mettono in
pericolo la salute umana", richiedendosi pertanto un
reimpiego finalisticamente
orientato ("come sostanze concimanti o ammendanti" e quindi
l'utilizzazione in
agricoltura che è realisticamente fattibile se le attività
sono eseguite nei luoghi di
produzione), nonché richiedendo processi o metodi
ambientalmente salubri e
non pericolosi (interessi, entrambi, compromessi da incendi
indiscriminati di
enormi quantità di materiali, non controllabili), e in tal
senso spiegandosi, cioè
nell'intima connessione esistente tra l'art. 182, comma
6-bis, TUA e l'art. 185,
comma 1, lett. f), TUA, il secondo periodo inserito nella
prima norma,
apparentemente sganciato dalla disciplina di deroga dettata
dalla prima parte
della medesima disposizione ex 182, comma 6-bis, TUA secondo
cui "nei periodi
di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati
dalle regioni, la
combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata. I comuni e le
altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno
la facoltà di
sospendere, differire o vietare la combustione del materiale
di cui al presente
comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono
condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano
derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per
la salute umana, con
particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali
delle polveri sottili (PM10)".
Pur nell'oggettiva difficoltà interpretativa, originata da
interventi normativi,
in materia, cronologicamente stratificati e sistematicamente
non omogenei, deve
ritenersi che -quando il materiale (non pericoloso) di cui
all'art. 185, comma 1,
lett. f), TUA viene bruciato al di fuori delle condizioni
previste dall'art. 182,
comma 6-bis, primo e secondo periodo, TUA e, quindi, quando
mancano le
condizioni richieste per l'esclusione dell'abbruciamento
dalle attività di gestione
di rifiuti- è configurabile, contrariamente all'approdo cui
è giunta in parte qua
una precedente decisione (Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014, dep.
2015, Urcioli, in
motiv.), il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a),
TUA relativo alle attività di
gestione di rifiuti non autorizzate e non invece la
disciplina sanzionatoria di cui
all'art. 256-bis TUE, in conformità all'approdo cui è giunta
in parte qua la richiamata pronuncia di questa Sezione (Sez.
3, n. 76 del 07/10/2014, cit., in
motiv.), in virtù della clausola di riserva espressa nel
secondo periodo del
comma 6 dell'art. 256-bis TUE secondo il quale "fermo
restando quanto previsto
dall'articolo 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente
articolo (ossia dell'art.
256-bis) non si applicano all'abbruciamento di materiale
agricolo o forestale
naturale, anche derivato da verde pubblico o privato".
3.4. Nel caso di specie, il ricorrente ha ampiamente
superato (bruciando
circa 80 metri cubi di pula di riso) il limite di 3 metri
steri per ettaro, che la
norma fissa per la irrilevanza penale del fatto (come noto,
un metro stero
rappresenta l'unità di volume apparente, cioè comprendente
il materiale vegetale
e gli spazi vuoti, che corrisponde ad una catasta delle
dimensioni di 1 metro x 1
metro x 1 metro), avendo inoltre svolto l'attività di
abbruciamento nel periodo in
cui, come emerge dal testo della sentenza impugnata,
l'accensione dei fuochi era
vietata sul territorio regionale.
Peraltro, allo stesso modo che per la disciplina dei
sottoprodotti, va chiarito che, siccome l'art. 182, comma
6-bis, TUE è da considerarsi
norma che deroga
alla disciplina ordinaria dei rifiuti, introducendo una
regolamentazione avente
natura eccezionale, l'onere della prova circa la sussistenza
delle condizioni di
legge per la sua applicazione deve essere assolto da colui
che la deroga invoca.
Ne consegue l'infondatezza anche del secondo motivo. |
gennaio 2016 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Merita
condivisione la censura prospettata nel primo motivo di
ricorso, incentrata sulla violazione dell’art. 7 l.
241/1990, posto che non si rinvengono nella normativa di
settore e nella fattispecie concreta in esame ragioni per
sottrarre il procedimento preordinato all'emanazione
dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti, ai
sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152 del 2006, alla
disciplina comune sulla comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7 e ss., l. 07.08.1990, n. 241,
trattandosi di un adempimento obbligatorio, la cui mancanza
determina l’illegittimità dell’atto non preceduto dallo
stesso.
----------------
Il terzo comma dell'art. 192 dlgs 152/2006 prescrive che
l’autore della condotta di abbandono incontrollato di
rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate”.
La disposizione testé riportata viene costantemente intesa
dal giudice amministrativo nel senso che essa impone, da un
lato, la sussistenza dell’elemento oggettivo del dolo o
della colpa, e, dall'altro, l'accertamento “in
contraddittorio” con i soggetti interessati, ciò in coerenza
con il complessivo assetto normativo del Codice
dell’Ambiente, tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale e nel quale non v'è spazio alcuno
per ipotesi di responsabilità oggettiva, di tal che, in base
al d.lgs. n. 152/2006, “la P.A. non può imporre ai privati
che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né
indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che
vengano individuati solo quali proprietari o gestori o
addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento
di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino
stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le Autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai
fini della responsabilità in questione è perciò necessario
che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di
adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità
fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo
concreto ed attuale di superamento— dei limiti di
contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o
al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale
qualità”.
----------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 23 del 11/05/2015,
ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 con la quale
veniva ordinato al Genio Civile di Napoli ed al Consorzio
Generale di Bacino ricorrente di provvedere…alla rimozione
del materiale abbandonato (canne fumarie in Eternit) nel
Regio Lagno (Alveo Troncito) alla località Migliano del
Comune di Lauro e allo smaltimento di esso mediante ditte
aventi opportune autorizzazioni;
...
Il ricorso è fondato sotto diversi profili e va, pertanto,
accolto
In primo luogo, merita condivisione la censura prospettata
nel primo motivo di ricorso, incentrata sulla violazione
dell’art. 7 l. 241/1990, posto che non si rinvengono nella
normativa di settore e nella fattispecie concreta in esame
ragioni per sottrarre il procedimento preordinato
all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei
rifiuti, ai sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152
del 2006, alla disciplina comune sulla comunicazione di
avvio del procedimento ex art. 7 e ss., l. 07.08.1990, n.
241, trattandosi di un adempimento obbligatorio, la cui
mancanza determina l’illegittimità dell’atto non preceduto
dallo stesso (TAR Potenza, sez. I, 26/08/2014 n. 561)
Quanto gli altri motivi di ricorso, il Collegio osserva che
correttamente la difesa del Consorzio ricorrente si duole
del fatto che il Comune di Lauro, nell’emanare l’ordinanza
impugnata, non ha tenuto conto dei presupposti
legislativamente individuati per l’esercizio del potere
repressivo di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (Codice
dell’Ambiente), così come interpretati dal prevalente
orientamento dei giudici amministrativi.
Invero, il terzo comma del citato art. 192 prescrive che
l’autore della condotta di abbandono incontrollato di
rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
La disposizione testé riportata viene costantemente intesa
dal giudice amministrativo nel senso che essa impone, da un
lato, la sussistenza dell’elemento oggettivo del dolo o
della colpa, e, dall'altro, l'accertamento “in
contraddittorio” con i soggetti interessati, ciò in
coerenza con il complessivo assetto normativo del Codice
dell’Ambiente, tutto incentrato su una rigorosa tipicità
dell'illecito ambientale e nel quale non v'è spazio alcuno
per ipotesi di responsabilità oggettiva, di tal che, in base
al d.lgs. n. 152/2006, “la P.A. non può imporre ai
privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta,
né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che
vengano individuati solo quali proprietari o gestori o
addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento
di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino
stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le Autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai
fini della responsabilità in questione è perciò necessario
che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di
adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità
fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo
concreto ed attuale di superamento— dei limiti di
contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o
al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale
qualità” (TAR Salerno, II, 04/02/2015 n. 232; TAR Lecce,
I, 12/01/2015 n. 108; Id., 09/10/2014 n. 2452; TAR Potenza,
sez. I. 26/08/2014, n. 561; Cons. Stato, sez. V, 17/07/2014
n. 3786).
Nel caso di specie, nessun riferimento è contenuto nell’atto
impugnato circa lo svolgimento di accertamenti volti ad
individuare il responsabile o i responsabili della condotta
sanzionata e circa l’instaurazione del contraddittorio con i
soggetti proprietari o detentori del fondo, né alcuna prova
è stata offerta al riguardo dal Comune di Lauro, peraltro
non costituitosi in giudizio. Al contrario, il Consorzio
ricorrente, unitamente al Genio Civile di Napoli, pure esso
evocato in giudizio, ma non costituitosi, viene considerato
tout court, senza indagine e interlocuzione alcuna, -e
perciò in maniera del tutto illegittima- soggetto
responsabile “per l’abbandono e deposito incontrollato di
rifiuti speciali e non”.
Infine –e il rilievo vale a sancire la fondatezza anche
dell’ultimo motivo di gravame- neppure il Consorzio
ricorrente può ritenersi attualmente investito dell’obbligo
di custodia e manutenzione dell’Alveo Troncito, sito in
località Migliano nel Comune di Lauro, non avendo la Regione
Campania ancora provveduto alla formale consegna di detta
opera idrica ai sensi della l.r. 4/2003 (cfr. sentenza TRAP
presso la Corte di Appello di Napoli n. 110 del 16
maggio–15.07.2011).
Alla luce dei rilievi esposti, il gravame va, pertanto,
disatteso (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 29.01.2016 n. 581 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione - Mancanza della
prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione -
Configurabilità del reato - Artt.208, 209, 210, 211, 212,
214, 215, 216, 256 e 266, D.Lgs. n.152/2006.
Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del D.Lgs.
03.04.2006 n. 152, che sanziona le attività di gestione
compiute in mancanza della prescritta autorizzazione,
iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo D.Lgs. è configurabile
nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di
fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di
una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità, salva
l'applicabilità della deroga di cui al comma quinto
dell'art. 266 del D.Lgs. 152 del 2006, per la cui
operatività occorre che il soggetto sia in possesso del
titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale
in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114 e
che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo
commercio (Cass. Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep.
08/01/2015, P.M. in proc. Seferovic; Sez. 3, n. 29992 del
24/06/2014 - dep. 09/07/2014, P.M. in proc. Lazzaro).
RIFIUTI - Trasporto non autorizzato di
rifiuti - Condotta occasionale - Configurabilità del reato.
Il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti si
configuri anche in presenza di una condotta occasionale, in
ciò differenziandosi dall'art. 260 D.Lgs. 03.04.2006, n.
152, che sanziona la continuità della attività illecita
(Cass. Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011 - dep. 17/06/2011,
D'Andrea).
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti -
Presupposto della inapplicabilità del regime ordinario -
Onere probatorio incombente in capo a chi invoca.
In tema di rifiuti, non va nemmeno dimenticato che il
presupposto della inapplicabilità del regime ordinario di
gestione dei rifiuti e della contestuale applicabilità del
regime giuridico più favorevole andrebbe provato da chi lo
invoca, in quanto trattasi di disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria
(giurisprudenza costante: v., sull'onere probatorio
incombente in capo a chi invoca l'applicabilità di una
disciplina in deroga nella materia della gestione dei
rifiuti, da ultimo, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015 - dep.
17/04/2015, Fortunato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.01.2016 n. 2230 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Abbandono di rifiuti lungo la strada.
L’art. 14 del codice della strada prescinde da qualsivoglia
accertamento in contraddittorio del dolo o della colpa,
avendo quale finalità prevalente ed espressa quella di
garantire “la sicurezza e la fluidità della circolazione” (co.
1) ed è incontestata la circostanza che i rifiuti,
trovandosi lungo il percorso stradale, "possano costituire
pericolo alla sicurezza e fluidità della circolazione”.
Sicché, è legittima l'ordinanza sindacale che ha ordinato
all’ANAS s.p.a. la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti
lungo il percorso extraurbano della Strada Statale n. ...7,
previa caratterizzazione degli stessi, secondo la normativa
vigente in materia, ripristinando lo stato dei luoghi e le
matrici ambientali, ove necessario, entro il termine di gg.
30 dalla notifica.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 29.09.2015
con cui il sindaco del comune di Cassano Irpino ha ordinato
alla ricorrente di procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi dell'area su cui risulta abbandonato
materiale inquinante e precisamente nel sottopaggio in
corrispondenza del km 329+350 della strada SS. 7 in località
Acquaviva;
...
Premesso che:
- con ordinanza n. 21 del 29.09.2015, prot. n. 3749, il
Sindaco del Comune di Cassano Irpino ha ordinato all’ANAS
s.p.a. la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti lungo il
percorso extraurbano della Strada Statale n. 7, al Km
329+350, previa caratterizzazione degli stessi, secondo la
normativa vigente in materia, ripristinando lo stato dei
luoghi e le matrici ambientali, ove necessario, entro il
termine di gg. 30 dalla notifica;
- con ricorso notificato il 19.11.2015 e depositato il
successivo 27 novembre, l’ANAS chiedeva l’annullamento di
tale ordine, per i seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione dell'art. 192, co. 3,
d.lgs. n. 152/2006, ed in particolare della direttiva
2004/35 CEE con particolare riferimento al principio “chi
inquina paga”, inesistenza del presupposto e difetto di
motivazione, non essendo di per sé sufficiente il dato non
controverso della proprietà dell’area interessata
dall’abbandono di materiale di rifiuto anche particolarmente
dannoso;
Considerato che il provvedimento qui gravato può trovare
adeguato fondamento nell’art. 14 del Codice della Strada
–come giustamente eccepito dalla difesa della parte
resistente– ed a cui può attingere comunque l’ordinanza
contingibile ed urgente disposta dal Sindaco del Comune di
Cassano Irpino per la semplice ed essenziale evenienza
legata al fatto che i rifiuti in contestazione, di cui si
ordina la rimozione all’ANAS, risultano collocati lungo il
percorso extraurbano della Strada Statale n. (dato in
concreto affatto smentito dal ricorrente);
Considerato altresì che:
- la norma dell’art. 14 della Codice della Strada,
intitolato “poteri e compiti degli enti proprietari delle
strade”, e per essi dei concessionari, dispone che detti
proprietari e concessionari, “allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione”, debbano
provvedere (lett. a) “alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi”;
- “anche sotto un profilo di sicurezza stradale e di
efficiente operatività del servizio di raccolta rifiuti una
diversa interpretazione non trova apprezzabili riscontri,
perché sarebbe, con tutta evidenza, illogico imporre al
Comune il dovere di rimuovere i rifiuti abbandonati su
strada e sue pertinenze, di proprietà di soggetto terzo,
poiché la relativa attività comporterebbe l’occupazione
della carreggiata con mezzi pesanti per la raccolta e il
trasporto dei rifiuti, nonché il transito di operatori
ecologici per le altre attività proprie della raccolta
rifiuti, che sono oggettivamente incompatibili, o comunque
interferenti, con il normale flusso della circolazione
stradale”; sicché “è soltanto l’ente proprietario o
gestore della strada che […] può razionalmente ed
efficacemente programmare ed attuare in sicurezza la pulizia
della strada e delle sue pertinenze, poiché solo essi
possono programmare e gestire tutte le misure e le cautele
idonee a garantire la sicurezza della circolazione e degli
operatori addetti alle pulizie” (Cons. di Stato, IV,
sent. n. 2677/2011, che conferma TAR Lazio, sent. n.
7027/2009, TAR Napoli, sent. n. 7428/2006 e TAR Basilicata
n. 441/2010);
- la citata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ritiene
l’art. 14 della Codice della Strada norma speciale di
settore che, per sua natura, non può ritenersi derogata se
non da altra norma speciale che espressamente la privi della
sua efficacia, ovvero disponga diversamente per ipotesi
individuate, laddove il d.lgs. n. 152/2006 non contiene
previsioni specifiche in materia di sicurezza stradale;
- non può, pertanto, rilevare la giurisprudenza relativa a
ordinanze di rimozione di rifiuti urbani da luoghi diversi
dalla sede stradale e sue pertinenze;
- l’art. 14 del codice della strada, citato, inoltre,
prescinde da qualsivoglia accertamento in contraddittorio
del dolo o della colpa, avendo quale finalità prevalente ed
espressa quella di garantire “la sicurezza e la fluidità
della circolazione” (co. 1) ed è incontestata la
circostanza che i rifiuti, trovandosi lungo il percorso
stradale, "possano costituire pericolo alla sicurezza e
fluidità della circolazione” (TAR Salerno, II, sent. n.
330/2013, n. 1373/2015 e TAR Puglia Sede d Bari, Sez. III,
n. 65 del 2015);
Ritenuto, alla luce delle sopra esposte osservazioni, che il
ricorso è infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.01.2016 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, il
proprietario del sito ove i rifiuti son stati illecitamente
depositati, o a fine di abbandono o a fine di smaltimento,
non risponde, per la sola ragione della sua qualifica
dominicale rispetto al terreno o comunque al sito in
questione, dei reati dì realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso
in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti stessi, in
quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, il che
potrebbe verificarsi solo nell'ipotesi, che non risulta
essere stata riscontrata nel presente caso, in cui il
proprietario abbia compiuto autonomi atti di gestione o di
movimentazione dei rifiuti.
In assenza, pertanto, di un obbligo giuridico di impedire
l'evento ed in assenza di alcuna prova in ordine alla sua
cooperazione nella determinazione dello stesso (cooperazione
che, peraltro, potrebbe, in linea di principio, realizzarsi
anche laddove vi sia in capo al proprietario del terreno la
consapevolezza di aver ceduto la disponibilità di quello ad
un terzo acciocché costui vi realizzi una discarica
abusiva), nessuna responsabilità può essere attribuita al
titolare del terreno che ometta di vigilare sulle condotte,
tanto più se abusive dal punto di vista civilistico, di chi,
in assenza di un valido titolo ovvero sulla base di un
titolo finalizzato ad un uso non illecito della cosa, abbia
la materiale disponibilità del terreno in questione.
---------------
Oggetto del sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma
1, cod. proc. pen. può ben essere qualsiasi bene -a chiunque
appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato-
purché esso sia, sebbene indirettamente, collegato al reato
e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire
pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze
del reato ovvero di agevolazione della commissione di
ulteriori fatti penalmente rilevanti.
---------------
Il ricorso, con le precisazioni che saranno di seguito
svolte, è, comunque, infondato e, pertanto, lo stesso deve
essere rigettato.
Rileva, infatti, il Collegio come il ragionamento svolto dal
Tribunale del riesame sia -ancorché solo in parte ed in modo
tale da non pregiudicarne, data la perspicuità delle
restanti argomentazioni, la correttezza del dispositivo-
erroneo e illogico.
Invero, erra il Tribunale di Roma nell'attribuire a carico
della Casentini, in quanto proprietaria del fabbricato e del
terreno ove è stato rinvenuto un deposito incontrollato di
rifiuti, pericolosi e non pericolosi, una posizione definita
di responsabilità rispetto alla condotta criminosa ivi in
corso di realizzazione.
Invero, questa Corte ha precisato in più occasioni che in
materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, il
proprietario del sito ove i rifiuti son stati illecitamente
depositati, o a fine di abbandono o a fine di smaltimento,
non risponde, per la sola ragione della sua qualifica
dominicale rispetto al terreno o comunque al sito in
questione, dei reati dì realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso
in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti stessi, in
quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire l'evento lesivo, il che
potrebbe verificarsi solo nell'ipotesi, che non risulta
essere stata riscontrata nel presente caso a carico della
Ca., in cui il proprietario abbia compiuto autonomi atti di
gestione o di movimentazione dei rifiuti (Corte di
cassazione Sezione III penale, 01.10.2014, n. 40528; idem
Sezione III penale, 19.12.2013, n. 49327).
In assenza, pertanto, di un obbligo giuridico di impedire
l'evento ed in assenza di alcuna prova in ordine alla sua
cooperazione nella determinazione dello stesso (cooperazione
che, peraltro, potrebbe, in linea di principio, realizzarsi
anche laddove vi sia in capo al proprietario del terreno la
consapevolezza di aver ceduto la disponibilità di quello ad
un terzo acciocché costui vi realizzi una discarica
abusiva), nessuna responsabilità può essere attribuita al
titolare del terreno che ometta di vigilare sulle condotte,
tanto più se abusive dal punto di vista civilistico, di chi,
in assenza di un valido titolo ovvero sulla base di un
titolo finalizzato ad un uso non illecito della cosa, abbia
la materiale disponibilità del terreno in questione.
Del tutto illogico è il rilievo svolto dal Tribunale del
riesame nella parte in cui ravvisa un titolo di
responsabilità a carico della Ca. nel fatto che questa non
abbia formalizzato in base ad un titolo negoziale la
situazione possessoria del terreno in favore del Ma.; al
riguardo infatti non può non rilevarsi che l'eventuale
assenza di un valido titolo che legittimi il possesso del
terzo costituirebbe, semmai, elemento scriminante rispetto
alla condotta del proprietario del terreno, il quale non
avrebbe neppure cooperato col terzo tramite la messa a
disposizione dell'area da questo destinata alla
realizzazione della discarica.
Rileva, tuttavia, questa Corte che la fallacia sul punto del
ragionamento del Tribunale del riesame non è comunque
fattore idoneo a privare per il resto di legittimità
l'ordinanza impugnata.
Questa, infatti, si fonda essenzialmente non sulla esigenza
di assicurare i futuri effetti della eventualmente
disponenda confisca del terreno ai sensi dell'art. 240 cod.
pen. (il che presupporrebbe l'esistenza di elementi tali da
consentire la ravvisabilità nella condotta ipotizzata a
carico del titolare del bene sequestrato dei profili
dell'illecito penale), ma sul fine di sottrarre il terreno
ove in maniera indiscussa è in corso di realizzazione la
attività illecita oggetto della provvisoria imputazione
mossa alla ricorrente ed a tale Ma.Mo., possessore del
terreno de quo, alla libera disponibilità di quest'ultimo
onde rimuovere il pericolo che il reato in provvisoria
contestazione possa protrarsi o, comunque, essere portato a
conseguenze ulteriori.
Tanto riscontrato, va, perciò, ribadito, come questa Corte
ha in passato puntualizzato, che oggetto del sequestro
preventivo di cui all'art. 321, comma 1, cod. proc. pen. può
ben essere qualsiasi bene -a chiunque appartenente e,
quindi, anche a persona estranea al reato- purché esso sia,
sebbene indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato
in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di
aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato
ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti
penalmente rilevanti (Corte di cassazione, Sezione V penale,
24.03.2010, n. 11287; idem Sezione IV penale, 12.08.2009, n.
32964).
Ricorrendo le predette condizioni nel caso in esame la
ordinanza del Tribunale di Roma va ritenuta, fatta la
precisazione di cui alla parte iniziale della presente
sentenza, pienamente legittima ed il ricorso proposto dalla
Casentini avverso si essa deve essere rigettato, con le
derivanti conseguenze, precisate in dispositivo, in tema di
regolamento delle spese processuali a carico della medesima
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1158). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Spetta
al Sindaco e non al dirigente ordinare la rimozione dei
rifiuti abbandonati sul territorio.
Per pacifica giurisprudenza, l’art. 192,
comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione speciale
sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del D.lgs. n.
267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco la
competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie
alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal
comma 2.
La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000.
---------------
1. Con l’ordinanza n. 12 del 15.03.2007, il Responsabile del
Settore Vigilanza del Comune di Rivello ha intimato all’Anas
-ai sensi dell’art. 14, comma 3, D.Lgs. n. 22 del 1997- di
procedere entro 30 giorni dalla notifica di tale ordinanza
alla rimozione dei rifiuti abusivamente abbandonati in una
zona limitrofa alla strada statale n. 585 «Fondovalle del
Noce», tra il km. 25,500 ed il km. 25,600, avente una
superficie di circa 100 mq., con lo smaltimento a propria
cura e spese, esibendo poi al Comune la prova dell’avvenuto
smaltimento;
2. Con il ricorso di primo grado, proposto al TAR per la
Basilicata, la s.p.a. ANAS ha impugnato l’ordinanza n. 12
del 15.03.2007, deducendo la violazione degli artt. 7, comma
2, lett. d), 13, 14, comma 3, 21, 49, comma 2, e 58, comma
3, D.Lgs. n. 22/1997, e degli artt. 192 e 198 D.Lgs. n.
152/2006 (per insussistenza del dolo o della colpa), degli
artt. 3, 7 e 8 L. n. 241/1990, nonché il proprio difetto di
legittimazione passiva, l’incompetenza del Dirigente
comunale in luogo del Sindaco, ed eccesso di potere per
difetto di istruttoria, travisamento dei fatti,
insussistenza dei presupposti.
Il Comune di Rivello si è costituito in giudizio ed ha
sostenuto l’inammissibilità del ricorso, per mancata
impugnazione della presupposta nota del Comando della
Stazione dei Carabinieri di Lagonegro n. 1464 del
26.02.2007, recante la segnalazione della presenza dei
rifiuti e per la mancata notifica del ricorso al medesimo
Comando.
Il Comune, in subordine, ha chiesto che il ricorso sia
respinto, perché infondato.
3. Con la sentenza n. 488 del 29.06.2007, il Tar,
prescindendo dalle eccezioni di inammissibilità, ha respinto
il ricorso, rilevandone l’infondatezza.
4. Con l’appello in esame, notificato l’08.10.2007, la
s.p.a. Anas ha impugnato la sentenza del TAR, riproponendo
le censure respinte in primo grado.
Il Comune di Rivello si è costituito in giudizio ed ha
ribadito le eccezioni di inammissibilità già formulate in
primo grado, chiedendo comunque la reiezione dell’appello.
5, La Sezione ritiene che vadano respinte le eccezioni di
inammissibilità del ricorso di primo grado, riproposte in
questa sede dal Comune di Rivello, poiché il verbale del
Comando della Stazione dei Carabinieri di Lagonegro n. 1464
del 26.02.2007 costituisce null’altro che la denuncia che ha
attivato l’esercizio del potere comunale: esso, quale atto
meramente istruttorio e di informazione dei fatti accaduti,
non ha un carattere autonomamente lesivo della sfera
giuridica dell’appellante.
6. Passando all’esame delle censure formulate in primo grado
e riproposte con l’atto d’appello, ritiene la Sezione che
risulta fondata la censura con cui è stata dedotta
l’incompetenza del Responsabile del Settore Vigilanza.
Per la pacifica giurisprudenza di questa Sezione, l’art.
192, comma 3, del D.lgs. n. 152/2006, è una disposizione
speciale sopravvenuta rispetto all'art. 107, comma 5, del
D.lgs. n. 267/2000, ed attribuisce espressamente al Sindaco
la competenza a disporre con ordinanza le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti
previste dal comma 2.
La disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell’art.
107, comma 5, del D.lgs. n. 267/2000 (Cons. Stato, V,
29.08.2012, n. 4635; id., 12.06.2009, n. 3765; id.,
10.03.2009, n. 1296; id., 25.08.2008, n. 4061).
7. La fondatezza della censura di incompetenza comporta
l’assorbimento delle altre censure formulate
dall’appellante, sicché in questa sede diventa irrilevante
l’esame degli aspetti della legittimità sostanziale del
provvedimento impugnato in primo grado.
8. Per le ragioni che precedono, in accoglimento
dell’appello, il ricorso di primo grado va accolto, con il
conseguente annullamento dell’atto impugnato n. 12 del
15.03.2007, salvi gli ulteriori provvedimenti del Comune di
Rivello
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.01.2016 n. 57 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha
chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare
sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può
essere destinataria, a titolo di responsabilità di
posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento
omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando
tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via,
alcun dovere del curatore di adottare particolari
comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria
degli immobili destinati alla bonifica da fattori
inquinanti.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Direttore della
Divisione Agro-Alimentare della Provincia di Pavia prot. n.
24058 dell’08.04.2014 (Anno 2014 Titolo 009 Classe 011 Fasc.
19) notificato in data 17.04.2014, nella parte in cui
richiede ai Curatori fallimentari, in qualità di legali
rappresentanti della fallita F.lli B. S.p.a, la
presentazione di un piano per il ripristino dell’area
oggetto dell’impianto di recupero rifiuti, sito in Via ...
n. 2 Vigevano, entro sessanta giorni della notifica del
provvedimento; - nonché di tutti gli atti presupposti,
connessi e consequenziali.
...
2. Il ricorso è fondato.
Dall’esame degli atti risulta che il provvedimento impugnato
contiene un espresso obbligo per i curatori fallimentari di
presentazione di un piano per il ripristino dell'area
oggetto dell'impianto di recupero rifiuti. Non si tratta
quindi di un mero atto di conoscenza ed è irrilevante il
fatto che l’obbligo sorga ex lege o per provvedimento
dell’amministrazione.
In secondo luogo non è contestato che i suddetti curatori
non erano stati autorizzati all’esercizio provvisorio
dell’impresa e non l’hanno comunque esercitata.
In merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha
chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare
sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può
essere destinataria, a titolo di responsabilità di
posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento
omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando
tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via,
alcun dovere del curatore di adottare particolari
comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria
degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti
(TAR Campania, Salerno, Sez. I, 18.10.2010, n. 11823; TAR
Toscana, Sez. II, 08.01.2010, n. 8; TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV, sentenza 05.08.2013 n. 2062; TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 04.12.2012 n. 1498).
In definitiva quindi il ricorso va accolto con annullamento
degli atti impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 05.01.2016 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
dicembre 2015 |
 |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Dal disposto dell’art. 192
del d.lgs. n. 152/2006 si ricava il principio secondo cui vi
deve essere necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa
del proprietario dell'area, per configurare un suo obbligo a
provvedere allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati,
precisando, inoltre, che l'ordine di rimozione può essere
adottato esclusivamente in base agli accertamenti
effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
dai soggetti preposti al controllo.
E’ stato, in particolare, affermato che:
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22, oggi sostituito
dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n. 152 ("Norme
in materia ambientale") prevede la corresponsabilità
solidale del proprietario o del titolare di diritti
personali o reali di godimento sull'area ove sono stati
abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il
conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile
anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa”;
- “L'art. 192, d.lgs. n. 152/2006 dispone che l'obbligo di
procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido
con il responsabile, anche a carico del proprietario del
sito e del titolare di diritti reali o personali di
godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia
anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai preposti al controllo”;
- “In tema di abbandono di rifiuti, ai sensi dell'art. 192
del D.L.vo n. 152 del 2006, il proprietario dell'area è
tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che
ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori
dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere
un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo”.
---------------
Riguardo, invece, alla carenza di motivazione, si ritiene
che, dall’esame del corpo del provvedimento, risulti
assolutamente immotivato l’ordine di esecuzione della
rimozione nei confronti della ricorrente per la sua mera
qualità di proprietaria dell’area, senza un previo
accertamento della sua responsabilità per l’abbandono dei
rifiuti.
Deve, inoltre, ricordarsi che tale orientamento risulta,
altresì, supportato dalla nota sentenza della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea del 04.03.2015, causa
C-534/2013, che si è pronunciata sulla questione
pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, in Adunanza
plenaria, con le ordinanze 25.09.2013, n. 21 e 13.11.2013,
n. 25 con riferimento agli obblighi del proprietario
incolpevole in ordine alla messa in sicurezza e alla
bonifica di un sito inquinato.
Sposando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza
amministrativa, ritenuto conforme all’ordinamento
comunitario e, in particolare, al principio “chi inquina
paga” sancito dell’art. 191 TFUE, il Giudice europeo ha
confermato che, qualora il proprietario di un’area inquinata
non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad
adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di
bonifica della stessa.
L’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla
Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale ha, invero, come
suo ineludibile presupposto essenziale l’individuazione di
un soggetto che possa essere qualificato come responsabile
della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione
accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività
svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato.
Nel caso in cui il proprietario risulti incolpevole sarà,
quindi, tenuto al mero rimborso delle spese relative agli
interventi realizzati d’ufficio dall’Autorità competente,
nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi e solo nell’ipotesi in cui
non sia stata nel frattempo accertata la responsabilità di
altri soggetti o se risulti impossibile rivalersi nei
confronti dei medesimi.
Tali principi devono, senza alcun dubbio, ricevere
applicazione anche nell’ipotesi di abbandono di rifiuti.
---------------
Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il
Direttore dell’Area Gestione, Territorio e Ambiente del
comune intimato, rilevata a seguito di sopralluogo compiuto
dalla Polizia Locale la presenza di materiali vari e macerie
lungo il tratto di strada sterrata che congiunge la via
Pirandello con la via Adda, ne ha ordinato alla società
istante la rimozione, il recupero o lo smaltimento entro 60
giorni, ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, nella
sua qualità di proprietaria dell’area.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha dedotto la
violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990,
dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, oltre che l’eccesso di
potere per carenza dei presupposti di fatto, difetto di
istruttoria e di motivazione, ingiustizia manifesta e
contraddittorietà.
Successivamente l’istante ha prodotto una memoria a sostegno
delle proprie conclusioni.
Alla pubblica udienza del 26.11.2015 il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
Il ricorso è fondato.
Il collegio ritiene, invero, che l’ordine che il Comune
intimato ha emesso nei confronti della ricorrente si ponga
in contrasto con il disposto dell’art. 192 del d.lgs. n.
152/2006 e che non sia sorretto da adeguata motivazione.
In ordine al primo profilo di censura, infatti, ai sensi
della norma succitata: “1. L'abbandono e il deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi
genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli
articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate…”.
In proposito, la costante giurisprudenza ha affermato che
dal disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 si ricava
il principio secondo cui vi deve essere necessaria
imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario
dell'area, per configurare un suo obbligo a provvedere allo
smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati, precisando,
inoltre, che l'ordine di rimozione può essere adottato
esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo.
E’ stato, in particolare, affermato che:
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22, oggi
sostituito dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n.
152 ("Norme in materia ambientale") prevede la
corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare
di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono
stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il
conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile
anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa” (Cons.
Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 84);
- “L'art. 192, d.lgs. n. 152/2006 dispone che l'obbligo
di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in
solido con il responsabile, anche a carico del proprietario
del sito e del titolare di diritti reali o personali di
godimento relativi ad esso, solo se tale violazione sia
anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai preposti al controllo” (Cons.
Stato, sez. V, 25 giugno 2010, n. 4073);
- “In tema di abbandono di rifiuti, ai sensi dell'art.
192 del D.L.vo n. 152 del 2006, il proprietario dell'area è
tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che
ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori
dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere
un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o
colposo” (Cons. Stato, sez. V, 20.08.2012, n. 4635).
Riguardo, invece, alla carenza di motivazione, si ritiene
che, dall’esame del corpo del provvedimento, risulti
assolutamente immotivato l’ordine di esecuzione della
rimozione nei confronti della ricorrente per la sua mera
qualità di proprietaria dell’area, senza un previo
accertamento della sua responsabilità per l’abbandono dei
rifiuti.
Deve, inoltre, ricordarsi che tale orientamento risulta,
altresì, supportato dalla nota sentenza della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea del 04.03.2015, causa
C-534/2013, che si è pronunciata sulla questione
pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, in Adunanza
plenaria, con le ordinanze 25.09.2013, n. 21 e 13.11.2013,
n. 25 con riferimento agli obblighi del proprietario
incolpevole in ordine alla messa in sicurezza e alla
bonifica di un sito inquinato.
Sposando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza
amministrativa, ritenuto conforme all’ordinamento
comunitario e, in particolare, al principio “chi inquina
paga” sancito dell’art. 191 TFUE, il Giudice europeo ha
confermato che, qualora il proprietario di un’area inquinata
non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad
adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di
bonifica della stessa.
L’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla
Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale ha, invero, come
suo ineludibile presupposto essenziale l’individuazione di
un soggetto che possa essere qualificato come responsabile
della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione
accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività
svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato.
Nel caso in cui il proprietario risulti incolpevole sarà,
quindi, tenuto al mero rimborso delle spese relative agli
interventi realizzati d’ufficio dall’Autorità competente,
nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi e solo nell’ipotesi in cui
non sia stata nel frattempo accertata la responsabilità di
altri soggetti o se risulti impossibile rivalersi nei
confronti dei medesimi.
Tali principi devono, senza alcun dubbio, ricevere
applicazione anche nell’ipotesi di abbandono di rifiuti.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento del
provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 30.12.2015 n. 2867 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto e terzo estraneo al reato.
L'art. 259 del d.lgs. n. 152 del 2006
deve essere interpretata nel senso che, al fine di evitare
la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto utilizzato
per la gestione abusiva dei rifiuti, incombe al terzo
estraneo al reato che ne sia il proprietario l'onere di
provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del
mezzo gli era ignoto e non era collegabile ad un suo
comportamento negligente.
---------------
4. - I ricorsi delle imputate sono inammissibili. Con essi
ci si limita, infatti, a formulare generiche e indimostrate
asserzioni circa un preteso errore di destinazione nel quale
le stesse sarebbero incorse nel condurre l'autocarro con i
rifiuti e Circa una sostanziale mancanza di riprovazione
sociale del comportamento tenuto nel contesto del campo
nomadi nel quale esse vivono.
E ciò, a fronte della dettagliata e coerente motivazione
della sentenza impugnata, nella quale si dà, oltretutto
conto delle insanabili contraddizioni tra le giustificazioni
dei fatti fornite dalle imputate e da un ulteriore testimone
sentito.
Con il ricorso non si contestano, del resto, la materialità
del fatto e la mancanza di qualsivoglia titolo abitativo per
il trasporto dei rifiuti, i quali consistevano perlopiù in
rottami ed erano abusivamente condotti presso una ditta
specializzata nell'acquisto del ferro.
5. - È invece fondato il ricorso del pubblico ministero, con
cui si lamenta l'erronea applicazione dell'art. 259 del
d.lgs. n. 152 del 2006. Tale disposizione deve, infatti,
essere interpretata nel senso che, al fine
di evitare la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto
utilizzato per la gestione abusiva dei rifiuti, incombe al
terzo estraneo al reato che ne sia il proprietario l'onere
di provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito del
mezzo gli era ignoto e non era collegabile ad un suo
comportamento negligente
(ex plurimis, sez. 3, 16.01.2015, n. 18515, rv.
263772; sez. 3, 17.01.2013, n. 9579, rv. 254749).
Il Tribunale non ha fatto corretta applicazione di tale
principio, perché ha proceduto alla restituzione del mezzo
al terzo proprietario sul rilievo della mancanza in atti di
elementi da cui desumere un suo coinvolgimento materiale o
psicologico nel reato, così sostanzialmente sottraendo
quest'ultimo all'onere di provare positivamente la sua buona
fede (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2015 n. 51001 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Il reato previsto dall'art. 256, comma primo,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (attività di gestione di rifiuti
non autorizzata), è ascrivibile al titolare dell'impresa
anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato
dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta
vietata.
---------------
1. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente osservare, con riferimento al primo
motivo di ricorso, che le censure formulate nell'atto di
impugnazione fanno quasi esclusivamente riferimento ad una
condotta di abbandono di rifiuti che non è, tuttavia, quella
contestata nel caso in esame, avendo l'imputazione
espressamente ad oggetto le attività di raccolta e
stoccaggio di rifiuti, evidentemente in assenza di titolo
abilitativo.
L'art. 183, comma 1, lett. o), d.lgs. 152/2006 descrive la
raccolta come «il prelievo dei rifiuti, compresi la
cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta,
ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla
lettera "mm", ai fini del loro trasporto in un impianto di
trattamento». La successiva lettera aa) definisce
inoltre lo stoccaggio come «le attività di smaltimento
consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di
rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B alla parte
quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero
consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti
di cui al punto R13 dell'allegato C alla medesima parte
quarta».
Il punto D15 dell'allegato B alla parte quarta riguarda il «deposito
preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da
D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della
raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».
Le operazioni cui si riferisce l'allegato B sono quelle di
smaltimento, definito dalla lettera z) dell'art. 183 d.lgs.
152/2006 come «qualsiasi operazione diversa dal recupero
anche quando l'operazione ha come conseguenza secondaria il
recupero di sostanze o di energia. L'Allegato B alla parte
IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo
delle operazioni di smaltimento».
Tra le operazioni descritte nell'allegato B figura, al punto
D1, il «deposito sul o nel suolo» che, sulla base di
quanto riportato in sentenza, sembra essere quella rilevante
nel caso di specie.
2. Risulta infatti dalla decisione impugnata che,
all'atto dell'accertamento da parte della polizia
giudiziaria presso l'area di cava nella disponibilità della
società del ricorrente, il 02/07/2009, venivano sorpresi due
operai intenti a «vagliare» «qualche centinaio di
metri cubi» di «materiale composto da terre e rocce e
rifiuti provenienti da demolizione stradali ed edili di
varia natura (pezzi di cemento, pezzi di asfalto, altre
demolizioni, mattoni)».
Ad un successivo sopralluogo del 10/07/2009 erano state
realizzate «7 trincee sul fondo di cava, sia sulla
porzione di area destinata esclusivamente all'attività di
cava, sia sulla porzione destinata all'attività di recupero
rifiuti».
Sempre da quanto specificato in sentenza, emerge che tale
attività aveva come finalità la «ricomposizione mediante
riempimento» della cava ad attività ormai cessata.
Sulla base di quanto verificato in fatto dal Tribunale,
dunque, appare corretto il riferimento, effettuato
nell'imputazione, alle attività di gestione in esso
indicate, mentre del tutto inconferenti risultano i richiami
del ricorrente ad attività di abbandono mai contestata.
3. Risulta parimenti rilevato in fatto dal giudice del
merito che dette attività erano svolte, quanto meno in
parte, sulla zona di cava nella quale non era autorizzata
l'attività di recupero (peraltro diversa da quelle accertate
dalla polizia giudiziaria) e che l'area oggetto
dell'intervento era accessibile ai soli dipendenti della
società ed, infatti, tali erano coloro che vennero trovati
sul posto.
L'attività di gestione illecita veniva
dunque svolta nella sede operativa della società, indicata
anche nel capo di imputazione ed era certamente obbligo del
legale rappresentante della società medesima, in assenza di
particolari assetti societari o specifiche deleghe di
funzioni, prendere cognizione della violazione di specifici
obblighi di legge da parte dei dipendenti, considerando
anche che egli avrebbe beneficiato dei vantaggi conseguiti
dalla società dall'inosservanza delle specifiche
disposizioni in materia di rifiuti.
Va peraltro ricordato, a tale proposito, che
la responsabilità per la attività di gestione non
autorizzata non attiene necessariamente al profilo della
consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo
scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza
per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per
evitare illeciti nella predetta gestione e che
legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla
direzione dell'azienda
(Sez. 3, n. 47432 del 05/11/2003, Bellesini ed altri, Rv.
226868. Conf. Sez. 3, n. 19332 del 11/03/2009, Soria, non
massimata; Sez. 3, n. 23971 del 25/05/2011, Graniero, Rv.
250485. Vedi anche Cass. Sez. 3, n. 45932 del 03/05/2013,
Manti, non massimata; Sez. 3 n. 15989 del 14/03/2007,
Minella, non massimata).
4. Va pertanto ribadito che il reato
previsto dall'art. 256, comma primo, d.lgs. 03.04.2006, n.
152 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata), è
ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo
della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno
posto in essere la condotta vietata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.12.2015 n. 49591). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti non pericolosi, ok al trasporto degli ambulanti.
L'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non
pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante,
non integra il reato di gestione non autorizzata dei
rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto
sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di
attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che
si tratti di rifiuti che formavano oggetto del suo commercio. Presupposto necessario, pertanto, è che i rifiuti in
oggetto non siano pericolosi.
Questo è il principio espresso
dalla Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la
sentenza 11.12.2015 n. 48952.
L'attività di
trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi,
effettuata da soggetti abilitati allo svolgimento
dell'attività in forma ambulante, non prevede l'iscrizione
all'albo dei gestori dei rifiuti, con conseguente esclusione
della configurabilità del reato d'illecito trasporto, purché
sussistano alcune condizioni: in primo luogo, tale attività
deve essere effettuata previo conseguimento del titolo
abilitativo attraverso l'iscrizione alla camera di commercio
e i successivi adempimenti amministrativi.
In secondo luogo,
si richiede che il soggetto che la esercita tratti solo
rifiuti che formano oggetto del suo commercio, con la
conseguenza che deve essere oggetto di adeguata verifica il
settore merceologico entro il quale il commerciante è
abilitato a operare, così come la riconducibilità del
rifiuto trasportato all'attività autorizzata.
In pratica, la
deroga prevista dall'articolo 266, 2° comma, dlgs 152/2006
opera se ricorrono due condizioni: che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l'esercizio
dell'attività commerciale in forma ambulante e che si tratti
di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Senza le
condizioni indicate, l'attività condotta in mancanza delle
autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni ambientali
previste dallo stesso dlgs 152/2006, integra il reato di
«gestione di rifiuti non autorizzata» (articolo 256, comma
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