ANNO 2023
ANNO 2022
ANNO 2021
ANNO 2020
ANNO 2019
ANNO 2018
ANNO 2017
ANNO 2016
ANNO 2015
ANNO 2014
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ANNO 2013
ANNO 2012
SINO ALL'ANNO 2011
ANNO 2023 |
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aggiornamento al
19.07.2023 |
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INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
per funzioni tecniche, nuova disciplina applicabile solo alle procedure
avviate dal 1° luglio.
Rebus progettazioni interne svolte entro il 30.06.2023, in caso di gare o
affidamenti avviati a far data dal 01.07.2023.
L'efficacia del nuovo Codice dei contratti a partire dal 01.07.2023 segna
l'avvio anche della nuova disciplina degli incentivi per le funzioni
tecniche contenuta nell'articolo 45 del Dlgs 36/2023.
Tra le tante novità che dovranno essere tenute in considerazione dalle
stazioni appaltanti, segnaliamo: la reintroduzione tra le attività
incentivate della progettazione, uscita di scena con il Dlgs 50/2016;
l'applicazione del fondo a tutti i tipi di procedure, non solo gli appalti
ma anche alle concessioni e, più in generale, ai partenariati pubblico
privati; il superamento della gara quale condizione per remunerare le
prestazioni svolte dai dipendenti interni.
Oggi accedono agli incentivi anche le procedure negoziate (con e senza
bando) e gli affidamenti diretti (con e senza procedura comparativa),
secondo criteri e importi da definire nel regolamento. Del resto,
l'innalzamento delle soglie per gli affidamenti diretti aveva già portato la
Corte dei conti ad estendere gli incentivi alle procedure che prevedono lo
svolgimento di indagini di mercato e la comparazione concorrenziale tra più
soluzioni negoziali disposta attraverso la valutazione tra diverse offerte
secondo canoni predeterminati, a contenuto più o meno complesso (Corte dei
conti Marche,
parere 10.05.2023 n. 106;
Corte dei conti Toscana,
parere 02.12.2022 n. 234);
l'innalzamento del limite rispetto al trattamento economico annuo lordo dal
50% al 100%, elevabile al 115% in caso di procedure digitali.
La disciplina transitoria
Uno dei tanti aspetti da prendere in considerazione riguarda la disciplina
transitoria: da quando deve trovare applicazione l'articolo 45 del Dlgs
36/2023?
Come sappiamo dalla data di efficacia del nuovo Codice (01.07.2023) è stato
abrogato il decreto legislativo 50 del 2016 (articolo 226, comma 1, del Dlgs
36/2023).
Ciononostante, la vecchia disciplina continua a essere applicata a tutti i
procedimenti in corso alla data del 01.07.2023, intendendosi per tali (comma
2 del citato articolo 226):
a) le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui
si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima
della data in cui il codice acquista efficacia;
b) in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, le
procedure e i contratti in relazione ai quali, alla data in cui il codice
acquista efficacia, siano stati già inviati gli avvisi a presentare le
offerte.
Ciò significa che gli enti dovranno seguire un doppio binario: la disciplina
ex articolo 113 del Dlgs 50/2016, per tutte le procedure avviate entro il
30.06.2023 ai sensi del medesimo decreto 50/2016.
Per questi incentivi gli enti continueranno ad applicare il regolamento già
approvato, con le regole ivi contenute, fino a quando non saranno chiusi gli
interventi oggetto di incentivazione; la disciplina ex articolo 45 del Dlgs
36/2023, per tutte le procedure avviate a partire dal 01.07.2023.
C'è da chiedersi come dovranno essere gestite le progettazioni interne
svolte entro il 30.06.2023, nel caso di procedure di gara o affidamenti che
saranno avviati a far data dal 01.07.2023.
Sul punto, mutuando il principio del "tempus regit actum" elaborato
dalla Corte dei conti in tema di incentivazioni del personale (Corte dei
conti Sezione autonomie,
deliberazione 08.05.2009 n. 7
e
deliberazione 24.03.2015 n. 11),
l'ANAC (comunicato del Presidente 06.09.2017)
aveva già avuto modo di esprimersi in ordine al passaggio dal Dlgs 163/2016
al Dlgs 50/2016, precisando come «ciò che rileva ai fini
dell'individuazione della disciplina normativa applicabile e il compimento
delle attività oggetto di incentivazione. Ne consegue che le disposizioni di
cui all'art. 113 del nuovo codice dei contratti si applicano alle attività
incentivate svolte successivamente all'entrata in vigore del Codice».
Analogamente il Dlgs 36/2023, che è tornato ad incentivare la progettazione,
troverà applicazione unicamente per le attività di progettazione che saranno
svolte a far data dal 01.07.2023 in avanti, anche in considerazione della
semplificazione dei livelli di progettazione, passati da tre a due.
Il regolamento
Ovviamente per poter riconoscere i nuovi incentivi sarà necessario approvare
il regolamento, atto necessario in quanto la destinazione delle risorse al
fondo per le funzioni tecniche rappresenta un obbligo per le stazioni
appaltanti e gli enti concedenti. Il termine -fissato dall'articolo 45- è
scaduto al 30.04.2023.
Tuttavia, ciò non fa venir meno l'obbligo di provvedere con celerità, tenuto
conto che l'inerzia espone l'ente ad azioni di responsabilità da parte dei
dipendenti per perdita di «chance».
Che fare nelle more dell'approvazione del regolamento?
In passato, in vigenza del Dlgs 50/2016, si era aperto il tema legato alla
possibilità di liquidare, dopo l'approvazione del regolamento, gli incentivi
per attività svolte prima della sua approvazione, attribuendo allo stesso
una sorta di effetto retroattivo.
La Corte dei conti Sezione Autonomie (deliberazione
26.10.2021 n. 16)
si è dichiarata favorevole a questa soluzione, a condizione che: le risorse
siano state precedentemente previste nel QTE ed accantonate la liquidazione
avvenga solo dopo approvazione del regolamento (non viene quindi
riconosciuto effetto sanante alle liquidazioni disposte prima).
Fino a quando non verrà approvato il regolamento, gli enti sono invitati a
prevedere nei quadri economici degli interventi le risorse da destinare al
fondo per le funzioni tecniche, mutuando i criteri già approvati con il
vecchio regolamento, accantonando le relative risorse. Resta il nodo delle
nuove procedure prima non ammesse al beneficio, per le quali mancano
riferimenti utili per la quantificazione delle risorse (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 19.07.2023). |
aggiornamento all'11.07.2023 |
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ATTI AMMINISTRATIVI: Le
notifiche p.a. arrivano on-line. Al via l’Indice nazionale
dei domicili digitali. Serve la Pec. Multe, cartelle,
accertamenti, detrazioni, rimborsi direttamente sulla posta
elettronica.
Da ieri 6 luglio, il sistema di comunicazione con la
p.a. diventa a tutti gli effetti digitalizzato, in quanto si
avvia l'Inad (Indice azionale dei domicili digitali) che
consente di eleggere il proprio domicilio digitale tramite
l'indicazione di un indirizzo posta elettronica certificata.
Ne consegue che tutti i cittadini saranno invitati a dotarsi
della Pec che consente la ricezione di atti con un sistema
equiparato alla raccomandata, consentendo l'opponibilità a
terzi dell'avvenuta consegna.
Con la creazione dell'Inad, ogni indirizzo Pec viene
registrato nell'indice nazionale, consentendo la più rapida
ricezione di multe, cartelle di pagamento, accertamenti,
detrazioni e rimborsi fiscali. Già da tempo la Pec è
obbligatoria per aziende, professionisti e pubbliche
amministrazioni.
La previsione trova la sua ratio nella necessità di
rendere il rapporto tra cittadino e p.a. più efficiente e
celere, in conformità alle ultime riforme attuate con il dl
Semplificazioni, che è intervenuto anche in materia di
accesso e trasparenza garantendo il rispetto del principio
di buon andamento ed efficienza dell'amministrazione (art.
97 Cost.).
Si ricorda che già con la legge 15/2005 è stato inserito
l'art. 3-bis nella legge 241/1990, statuendo che “per
conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le
amministrazioni pubbliche incentivano l'uso della
telematica, nei rapporti interni, tra le diverse
amministrazioni e tra queste e i privati”.
Attraverso l'utilizzo della Pec, oltre a garantire
l'efficienza del sistema, la riforma ha volutamente posto in
luce la necessità di garantire la certezza del diritto e del
dialogo con la p.a., posto che lo strumento in questione è
volto a conservare l'autenticità delle comunicazioni, dato
il valore legale della Pec assimilabile a una raccomandata
con ricevuta di ritorno.
Entro il 6 luglio la p.a. è tenuta a verificare la presenza
dei cittadini nel sistema digitalizzato: qualora non
risultino iscritti nel registro Inad, potranno ricevere le
comunicazioni tramite il vecchio sistema cartaceo fino al
30/11/2023. I cittadini che ne siano in possesso sono
pertanto tenuti
(1) a registrare la
propria Pec su
https://domiciliodigitale.gov.it, con l'obbligo di
verificare la propria identità tramite Spid, Cie o Cns.
Non è ancora chiaro cosa accadrà dopo il 30 novembre per
quei cittadini che non siano dotati di alcun sistema
digitale. Nel decreto p.a. si legge che “al fine di
garantire la piena inclusione dei soggetti in divario
digitale, fino al 30.11.2023, il gestore della piattaforma
per la notificazione digitale degli atti della pubblica
amministrazione invia al destinatario sprovvisto di
domicilio digitale che non abbia già perfezionato la
notifica tramite accesso alla piattaforma l'avviso di
avvenuta ricezione in formato cartaceo”.
Pertanto al momento si desume che l'acquisizione di una Pec
non è obbligatoria per tutti i cittadini, quanto piuttosto
consigliata, essendo posta a garanzia dell'efficienza del
sistema amministrativo.
Il sistema Pec, infatti, è in linea anche con l'economicità
del sistema della p.a. (art. 1 L. 291/1990). Già dal
06/06/2023, in attuazione dell'art. 6-quater, c. 2 del Cad,
tutte le Pec dei professionisti presenti in
Ini-Pec (l'Indice nazionale degli Indirizzi Pec di
società, imprese individuali e professionisti iscritti a un
Ordine professionale) sono stati importati automaticamente
anche su Inad, in qualità di domicili digitali di persone
fisiche. I professionisti hanno facoltà di modificare il
domicilio su Inad, indicando un'altra Pec diversa da quella
presente in Ini-Pec.
Dal 6 luglio, pertanto, sarà possibile la consultazione di
tutti i domicili eletti o modificati pubblicati in Inad,
inserendo il codice fiscale della persona di cui si vuole
conoscere il domicilio digitale.
La novità non riguarda solo avvisi di accertamento o
richieste impositive, ma ogni tipo di comunicazione con la
p.a.. Ne deriva un chiaro vantaggio per il cittadino che
sarà destinatario di comunicazioni notificate in tempi più
ristretti e in modo automatico, con notevoli risparmi legati
al minore utilizzo della carta e all'azzeramento dei costi
di postalizzazione. In merito alla disciplina inerente alla
notifica di atti, enunciata nell'art. 60 del dpr 600/1973,
si desume che il contribuente ha la “facoltà” di
eleggere domicilio per la notifica degli atti che lo
riguardano.
Nel silenzio dell'odierna riforma, stante l'incertezza
legislativa e il mancato intervento circa le conseguenze
dell'inottemperanza alle nuove modalità di notifica
digitale, non sembrano venire in rilievo profili di nullità
dell'eventuale notifica attuata tramite le modalità
ordinarie in forma cartacea.
Pertanto, si ritiene che in difetto di notifica a mezzo Pec
nei confronti di un cittadino regolarmente iscritto nell'Inad,
potrebbe venir in rilievo una mera irregolarità se si
considera che le forme di nullità devono essere previste
ex lege.
In tal senso, potrebbe riscontrarsi una forma di
responsabilità della p.a. per violazione delle regole di
correttezza e buona fede, previste dall'art. 1, co. 2-bis,
legge 241/1990. Diversamente, qualora si facesse leva sul
carattere imperativo che rivestono le norme di diritto
amministrativo, il mancato rispetto delle nuove normative
potrebbe dar seguito a una forma di “nullità virtuale per
violazione di norme imperative”.
Appare preferibile, tuttavia, la conclusione secondo cui, in
attesa di un riscontro legislativo più chiaro, la notifica
attuata tramite raccomandata -nonostante l'avvenuta
iscrizione del cittadino nel registro Inad– è in ogni caso
valida, dal momento che la novità del decreto p.a. prevede
una mera facoltà di iscrizione della Pec e non un obbligo,
almeno fino al 30/11/2023, data in cui si auspica una
precisazione da parte del legislatore.
Si ricorda, da ultimo, che il dm Economia e Finanze del
14/04/2023 ha disposto all'art. 2, tra l'altro, che il costo
della notifica “è fissato nella misura unitaria di euro
7,83 per le notifiche effettuate mediante invio di
raccomandata con avviso di ricevimento, di euro 6,51 per le
raccomandate semplici, di euro 2 per le notifiche effettuate
mediante l'invio a mezzo posta elettronica certificata (…)".
Pertanto, è evidente come il costo della Pec sia
maggiormente conveniente rispetto alle notifiche attuate
tramite raccomandata.
Quanto detto è in linea con la riforma in esame, che
consente di ottemperare a esigenze di efficienza e celerità
-anche in termini di costi– che verrebbero soddisfatte
dall'attuazione di notifiche a mezzo Pec anche nei confronti
dei singoli cittadini, oltre che degli enti come già
previsto (articolo ItaliaOggi del 07.07.2023).
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(1)
Parrebbe che, al contrario, ad oggi non sussista l'obbligo
normativo di registrarsi all'INAD: in merito
si legga qui |
ATTI AMMINISTRATIVI: Domicili
digitali persone fisiche, da domani via all'Indice (Inad). A segnalarlo è il
Consiglio nazionale forense.
Da domani via libera all'Inad, l'indice nazionale dei domicili digitali
delle persone fisiche, dei professionisti non ordinisti e degli enti di
diritto privato non tenuti all'iscrizione nell'Ini-Pec: saranno consultabili
gli indirizzi Pec eletti (o modificati) dove ricevere tutte le comunicazioni
ufficiali della pubblica amministrazione come rimborsi fiscali, accertamenti
e verbali di sanzioni.
A segnalarlo è il Consiglio nazionale forense con la
nota 28.06.2023 agli Ordini territoriali: i domicili digitali
eletti nell'Inad, infatti, sono validi per effettuare notifiche e
comunicazioni. E per gli avvocati l'indirizzo Pec presente in Ini-Pec è
inserito di default nell'Inad.
Elezione volontaria.
I domicili digitali presenti nell'Inad (https://domiciliodigitale.gov.it),
ricorda il Cnf, valgono ai fini delle notificazioni e delle comunicazioni
degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e
stragiudiziale. Idem vale per le notifiche eseguite in proprio degli
avvocati tramite posta elettronica certificata.
La riforma Cartabia del processo civile ha reso obbligatoria per l'avvocato
la modalità telematica quando i destinatari sono avvocati, altri
professionisti iscritti in albi o elenchi, imprese individuali e collettive,
pubbliche amministrazioni, gestori di servizi pubblici, società a controllo
pubblico oppure soggetti che, pur non essendo obbligati, hanno eletto
domicilio digitale proprio iscrivendosi all'Inad.
Gestione e modifica.
Per gli avvocati il domicilio digitale personale predefinito nell'Inad è
l'indirizzo Pec presente nel registro Ini-Pec (www.inipec.gov.it/cerca-pec)
che risulta importato in automatico: il professionista può tuttavia
eleggerne uno differente come domicilio digitale delle persone fisiche.
Anche i cittadini possono modificare e gestire il proprio domicilio
elettronico personale, grazie alle funzioni del portale Inad e in seguito
anche tramite il portale dell'Anpr, l'anagrafe nazionale della popolazione
residente, indicando un account di Pec diverso da quello presente in
Ini-Pec.
E possono scegliere di cessare dal domicilio digitale senza doverne indicare
uno nuovo, facoltà che invece non è riconosciuta ai professionisti iscritti
all'Inad.
Magnifici sette.
Con l'avvento di quest'ultimo diventano sette gli elenchi pubblici in
cui si possono reperire indirizzi Pec per le comunicazioni elettroniche a
valore legale in base al codice dell'amministrazione digitale. Gli altri
sono:
-
Ini-Pec, l'indice nazionale della posta elettronica certificata gestito
dal ministero dello Sviluppo economico;
-
Anpr, l'anagrafe nazionale della popolazione residente;
- registro Pa, formato dal ministero della Giustizia e
consultabile solo da uffici giudiziari, uffici notifiche, esecuzione e
protesti oltre che dagli avvocati;
-
registro imprese delle Camere di commercio;
-
Reginde, gestito anch'esso da via Arenula, con le Pec di avvocati,
notai, avvocati dello Stato e degli enti e ausiliari del giudice;
-
Ipa, l'indice dei domicili digitali della p.a. e dei gestori di pubblici
servizi, gestito dall'Agid, Agenzia per l'Italia digitale (articolo ItaliaOggi del 05.07.2023). |
ANNO 2022 |
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aggiornamento al
05.12.2022 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nessun obbligo di rimborso a carico della Pa per la tassa di iscrizione
all'albo professionale di architetti e ingegneri.
È quanto chiarito dal Dipartimento della Funzione pubblica, con un parere
reso al Maeci e al Mef.
Impossibilità per architetti e ingegneri di chiedere
alla Pubblica amministrazione con la quale intrattengono un rapporto di
lavoro il rimborso dell'onere sostenuto per il versamento della tassa
d'iscrizione al relativo albo professionale.
È quanto chiarito dal Dipartimento della Funzione pubblica, col parere
24.11.2021 n. 48721 di prot. reso al Maeci e al Mef, nel
presupposto che tale versamento sia da considerarsi di carattere
strettamente personale anche quando l'iscrizione risulti necessaria per lo
svolgimento dell'attività nei confronti dell'Amministrazione di dipendenza.
L'iscrizione all'albo, infatti, è prevista dalle leggi professionali in via
generale e astratta, quale condizione per l'esercizio di attività
professionali regolamentate dalla legge cui il professionista aderisce in
virtù di una scelta individuale, per garantirsi la possibilità di svolgere
professionalmente un'attività lavorativa di tipo intellettuale anche nei
confronti della pubblica amministrazione.
Si chiude, almeno per ora, la querelle sorta per effetto di diverse
interpretazioni nel tempo formatesi riguardo il soggetto tenuto a farsi
carico del costo.
A iniziare con la Corte di Cassazione (Sez. Lavoro,
sentenza 20.02.2007 n. 3928) che in relazione alla vertenza
instaurata da un avvocato dipendente di un ente pubblico, ha ritenuto che
rientrino nell'interesse del privato le spese relative agli studi
universitari e all'acquisizione dell'abilitazione all'esercizio della
professione forense, mentre quelle relative al mantenimento dei requisiti
per l'espletamento della professione siano a carico del datore essendo lo
svolgimento della stessa effettuato nell'interesse esclusivo del datore di
lavoro.
Di contro, la Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo per la Puglia,
che con il
parere 01.10.2008 n. 29 ha stabilito che il medesimo versamento
sia da considerarsi esclusivamente nell'interesse dell'avvocato che ne
chiede il rimborso, posto che in mancanza dell'annuale versamento (cui
consegue la cancellazione) egli non sarebbe più posto in condizione di
svolgere l'attività professionale dedotta nel contratto di lavoro con l'ente
pubblico.
Il parere della Funzione Pubblica trae inoltre spunto dalla considerazione
che per le professioni in esame non è neanche prevista una disciplina
dell'esclusività della prestazione professionale, analoga a quella prevista
per gli avvocati iscritti all'elenco speciale, non potendo ritenersi esclusa
in astratto la possibilità dello svolgimento di attività professionale in
regime di part-time al 50% ovvero previa autorizzazione resa in osservanza
della disciplina stabilita dall'articolo 53 del Dlgs n. 165/2001.
Conclude il parere ribadendo che osta al riconoscimento dell'onere di
rimborso della tassa di iscrizione l'articolo 2, comma 3, del Dlgs 165/2001,
salvo specifiche eccezioni/deroghe previste dagli stessi contratti
collettivi.
Sovviene, ad esempio, l'articolo 84 del contratto Area Funzioni Centrali
09.03.2018 triennio 2016-2018 che nel disciplinare le materie oggetto di
contrattazione integrativa, individua, tra l'altro, i criteri generali per
la destinazione di risorse stabili del fondo per il trattamento accessorio
dei professionisti al rimborso della quota annuale di iscrizione agli albi
professionali, secondo la disciplina del successivo articolo 106 (Iscrizione
agli albi professionali) e ai sensi del quale, nei casi in cui l'iscrizione
negli elenchi speciali di determinati albi professionali sia richiesta come
requisito per l'esercizio delle attività del professionista, questi cura
tutti gli adempimenti necessari per il periodico rinnovo dell'iscrizione
stessa, assumendosi anche il pagamento della quota annuale a tal fine
prevista.
In tali situazione, continua l'articolo 106, la contrattazione integrativa
può prevedere la rimborsabilità della quota annuale di iscrizione agli albi
professionali con oneri a carico delle risorse del fondo per il trattamento
accessorio dei professionisti (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 01.12.2021).
---------------
Dipartimento della Funzione Pubblica, parere
24.11.2021 n. 48721 di prot..
...
Si fa seguito alla propria nota n. 7509 del 07.02.2020, inviata al
Ministero dell’economia e delle finanze e per conoscenza a codesto
Ministero, per illustrare la posizione sul tema oggetto di quesito condivisa
con il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato all’esito
dell’incontro tecnico del 3 novembre u.s. presso questo Dipartimento.
Preliminarmente, pare utile ribadire che il dovere di esclusività
della prestazione di lavoro dei dipendenti pubblici, sancito dall’articolo
60 del d.P.R. n. 3 del 1957, costituisce un principio cardine del lavoro
alle dipendenze della pubblica amministrazione e, pertanto, l’obbligata
cornice entro cui svolgere le presenti considerazioni.
È, quindi, necessario che le particolari previsioni degli
ordinamenti professionali di provenienza in materia di iscrizione ai
relativi albi debbano trovare esplicazione, nella disciplina del rapporto di
lavoro dei professionisti della pubblica amministrazione, compatibilmente
con l’osservanza del sopra richiamato dovere di esclusività e del
conseguente divieto di esercizio dell’attività professionale posto dal
citato art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, fatte salve le deroghe espresse
previste dall’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e dalla
legge in materia di lavoro a tempo parziale di cui all’articolo 1, comma 56
e seguenti, della legge n. 662 del 1996.
In buona sostanza, la circostanza che la prestazione lavorativa di
natura professionale -per il cui svolgimento la legge professionale richiede
l’iscrizione all’albo- sia svolta in regime di lavoro subordinato con la
pubblica amministrazione deve comportare per il professionista dipendente
l’osservanza del citato dovere di esclusività, fatte salve le eccezioni
legislativamente previste.
Con particolare riguardo alla professione di avvocato, tali profili
sono affrontati, come noto, nella
sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Corte di Cassazione, le cui
conclusioni sono da riferire alla peculiare disciplina professionale degli
avvocati dell’INPS iscritti all’elenco speciale annesso all’albo, fermo
restando il divieto di estensione del giudicato.
Ciò premesso, per ragionare in un’ottica di sistema, occorre
evidenziare che l’iscrizione all’albo è prevista dalle leggi professionali
in via generale ed astratta, quale condizione per l’esercizio di attività
professionali regolamentate dalla legge cui il professionista aderisce in
virtù di una scelta individuale, per garantirsi la possibilità di svolgere
professionalmente un’attività lavorativa di tipo intellettuale.
Tale condizione sussiste anche quando la prestazione di natura
professionale sia richiesta in regime di lavoro subordinato con la pubblica
amministrazione configurandosi, come nel caso di specie, quale requisito di
accesso al lavoro alle dipendenze del datore di lavoro pubblico.
Conseguentemente, come osservato dalla magistratura contabile
[1], la tassa di
iscrizione all’albo professionale assicura anche in tal caso -non
diversamente dallo svolgimento in autonomia- benefici diretti nella sfera
dell’iscritto che, pertanto, sarebbe comunque tenuto a sopportarne il costo.
In linea con tale chiave di lettura, si ritiene, pertanto, che il
versamento della tassa d’iscrizione all’albo professionale degli architetti
o ingegneri sia da considerare di carattere strettamente personale anche
quando tale iscrizione risulti necessaria per lo svolgimento dell’attività
nei confronti dell’amministrazione. Tale conclusione pare avvalorata laddove
si consideri che per le professioni in esame non è neanche prevista una
disciplina dell’esclusività della prestazione professionale, analoga a
quella prevista per gli avvocati iscritti all’elenco speciale, non potendo,
pertanto, ritenersi esclusa in astratto la possibilità 3 AM/cc dello
svolgimento di attività professionale in regime di part-time al 50 per cento
ovvero previa autorizzazione resa in osservanza della disciplina di cui al
citato art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.
In ogni caso, corre l’obbligo di rammentare che, secondo quanto
previsto dall’articolo 2, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente
mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante
contratto individuale: di conseguenza, in assenza di previsioni che
riconoscano ai professionisti dipendenti della pubblica amministrazione -e
quindi anche ai funzionari architetti e ingegneri dipendenti del Maeci- il
diritto al rimborso della tassa d’iscrizione all’albo, non pare vi siano
margini per riconoscere il beneficio in parola, non potendosi dar corso alla
corresponsione di emolumenti in via interpretativa. Appare significativo, a
tal proposito, il fatto che gli strumenti di contrattazione collettiva
-fatte salve isolate eccezioni [2]-
non abbiano previsto alcun specifico onere a carico dell’amministrazione.
Ciò posto, tenuto conto che la materia in argomento rinviene deve
tenere conto anche della disciplina primaria rimessa all’autonomia
regolamentare degli ordini, come espressa attraverso le rispettive leggi
professionali, eventuali previsioni da parte della contrattazione collettiva
non possono che inscriversi nella cornice dei contratti nazionali o di
comparto, con contestuale onere, a carico degli stessi, di reperire le
relative risorse, nell'ambito di quelle deputate a finanziare i trattamenti
accessori, per lo svolgimento di prestazioni connotate da particolare
qualificazione professionale.
---------------
[1] Secondo Corte Conti, sez. reg. Puglia,
parere 01.10.2008 n. 29 “..nell’ipotesi in cui l’iscrizione
all’Albo si ponga per il dipendente pubblico come facoltativa, nulla
quaestio nel sostenere che l’iscrizione medesima, costituendo scelta
individuale, non possa che ricadere sul professionista; nel caso in cui
invece un dipendente risulti obbligatoriamente iscritto ad un Albo quale
ineludibile requisito per svolgere la propria attività, si ritiene comunque
che debba essere cura del soggetto assunto nella compagine dell’ente
pubblico per svolgere quella determinata professione farsi carico degli
adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito
che ha costituito (o è divenuto in seguito) condicio sine qua non della sua
assunzione o dello svolgimento della relativa professione”.
[2] V. art. 84 e 106 CCNL Area Funzioni Centrali 09.03.2018
triennio 2016-2018 e art. 13 CCNL Area VI 21.07.2010-biennio economico
2008-2009. |
ANNO 2021 |
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aggiornamento al
31.12.2021 (ore 23,59) |
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EDILIZIA PRIVATA: Titoli
edilizi, illegittima la proroga automatica decisa dalla Lombardia per il
Covid.
La Regione Lombardia non può prorogare la validità dei titoli edilizi
rilasciati durante l'emergenza Covid 2019 oltre il termine previsto dalla
normativa nazionale in quanto il regime dei titoli abilitativi costituisce
principio fondamentale della materia concorrente "governo del territorio"
rimesso alla potestà legislativa dello Stato ex articolo 117, comma terzo,
della Costituzione.
Lo ha stabilito la Consulta con la
sentenza 21.12.2021 n. 245,
che, su ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ha
dichiarato incostituzionale l'articolo 28, comma 1, lettera a), della legge
regionale 07.08.2020 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di
leggi regionali) che proroga automaticamente di tre anni «la validità di
tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti
o titoli abilitativi, comunque denominati, fino al 31.12.2021».
Norma che il Giudice delle leggi ha ritenuto in contrasto con:
- l'articolo 103, comma 2, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 "Misure
connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" secondo cui tutti i
titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e la dichiarazione di
cessazione dello stato di emergenza (ad oggi fissata al 31.03.2022)
conservano la loro efficacia sino ai novanta giorni successivi a tale
dichiarazione;
- l'articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 76 del 2020 "Misure
urgenti per la semplificazione", nuovamente intervenuto in materia, di
emergenza Covid- 19, che stabilisce che, «[p]er effetto della
comunicazione del soggetto interessato di volersi avvalere del presente
comma, sono prorogati di tre anni i termini di inizio e di ultimazione dei
lavori di cui all'articolo 15, come indicati nei permessi di costruire
rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti
termini non siano già decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in
contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi
strumenti urbanistici approvati o adottati»;
- gli articoli 12 e 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, recanti
rispettivamente la disciplina in tema di presupposti per il rilascio del
permesso di costruire e di efficacia temporale e decadenza del permesso di
costruire.
La sentenza
L'Avvocatura generale dello Stato aveva impugnato la norma regionale
evidenziando che:
1) il legislatore statale era intervenuto in materia con interventi
graduali, proporzionati alla situazione emergenziale, subordinando la
proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei permessi di
costruire alla comunicazione dell'interessato e alla perdurante conformità
del titolo agli strumenti urbanistici approvati o adottati, mentre la
Regione Lombardia aveva introdotto una proroga automatica e di maggiore
ampiezza al punto di rendere «variabile lo ius aedificandi»;
2) la norma regionale si sarebbe discostata dalla disciplina
statale che subordina la proroga alla compatibilità del titolo abilitativo
con gli strumenti urbanistici «anche meramente adottati», in
applicazione dell'articolo 12, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 («In
caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di
costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa
ogni determinazione in ordine alla domanda»).
Argomentazioni che ha la Corte costituzionale ha condiviso («Le pur gravi
difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro
riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano
l'introduzione di un regime regionale difforme»).
L'Alta Corte ha confermato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui le
norme che disciplinano i titoli abilitativi sono riconducibili al rango di
principi fondamentali della materia "governo del territorio" (ex
plurimis, sentenza n. 125 del 2017, n. 49 del 2016 e n. 309 del 2011: «La
Corte ritiene principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste
ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al
procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali».
Orientamento che l'Alta Corte ha più volte ribadito. Basta citare la
sentenza n. 2 del 2021 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di
alcune norme della legge della Regione Toscana 22.11.2019, n. 69
(Disposizioni in materia di governo del territorio) affermando che l'obbligo
di non iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla segnalazione,
stabilito dall'articolo 23, comma 1, del testo unico edilizia, «concorre
a caratterizzare indefettibilmente il regime del titolo abilitativo della
"superScia", e costituisce anch'esso principio fondamentale della materia
"governo del territorio"»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.12.2021). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titoli edilizi ed emergenza Covid: incostituzionale la proroga della
Lombardia. La Corte Costituzionale ha confermato il contrasto con quanto
disposto dallo Stato a seguito dell'emergenza sanitaria.
Scadenza termini titoli abilitativi ed emergenza COVID-19: la proroga
disposta dalla regione Lombardia (legge 18/2020) è incostituzionale.
Proroga termini titoli abilitativi: la sentenza della Corte
Costituzionale
Così ha disposto la Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245,
per avere agito in difformità da quanto ha previsto lo Stato con i decreti
legge n. 18/2020 e n. 76/2020.
Nella fattispecie, il giudizio ha riguardato la legittimità costituzionale
dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18
(Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
Tale norma prevedeva:
●
la proroga di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza
dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa
scadenza;
●
la proroga delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e
dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi
similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in
materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in
vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla
relativa scadenza.
Secondo il Governo, la disposizione regionale impugnata ha dettato una
disciplina difforme da quella statale, contenuta nell’art. 103, commi 2 e
2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 (c.d. Decreto “Cura Italia”),
convertito, con modificazioni, in legge 24.04.2020, n. 27, e nel successivo,
integrativo art. 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76
(c.d. “Decreto Semplificazioni”) convertito, con modificazioni, in
legge 11.09.2020, n. 120.
In particolare, viene sottolineata:
●
la maggiore ampiezza della proroga disposta in ambito regionale, che ha
prolungato di tre anni la validità dei permessi di costruire in scadenza
fino al 31.12.2021;
●
l’automatismo che la connota, laddove il legislatore statale ha proceduto
con interventi graduali, proporzionati alla situazione emergenziale,
subordinando la proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei
permessi di costruire alla comunicazione dell’interessato, nonché alla
perdurante conformità del titolo agli strumenti urbanistici approvati o
adottati: in particolare l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 ne
subordina l’efficacia alla richiesta dell’interessato e alla perdurante
compatibilità del titolo oggetto della richiesta di proroga con gli
strumenti urbanistici, generali o particolareggiati, nel frattempo adottati.
Inoltre la norma impugnata:
●
sarebbe costituzionalmente illegittima anche sotto il profilo della
violazione del principio di necessaria unitarietà della proroga, tanto dei
termini di validità dei titoli, quanto dei termini di inizio e ultimazione
dei lavori;
●
contrasterebbe con la legislazione statale prima richiamata anche con
riferimento alla causale dell’emergenza su cui esplicitamente si fonda,
poiché vengono meno i principi di proporzionalità e limitatezza temporale.
La proroga disposta dal legislatore regionale, riferita ai titoli
abilitativi in scadenza fino al 31.12.2021, violerebbe palesemente tali
principi.
Emergenza
Covid-19 e proroga titoli edilizi: il quadro normativo di riferimento
Nel giudicare il caso, la Corte Costituzionale ha preliminarmente fatto un
excursus delle norme di riferimento:
●
con l’art. 103, comma 1, del d.l. n. 18 del 17.03.2020 (cosiddetto Decreto
cura Italia), il legislatore ha approntato il primo intervento urgente: la
paralisi dell’attività amministrativa e l’esigenza di garantire la
protezione della salute e gli interessi collegati all’azione della pubblica
amministrazione, hanno indotto a prevedere la sospensione dei termini di
tutti i procedimenti amministrativi;
●
in sede di conversione in legge, si è stabilito che gli atti e i titoli in
scadenza tra il 31 gennaio e il 31.07.2020 conservano «validità» per
i novanta giorni successivi alla data della dichiarazione di cessazione
dello stato di emergenza, con previsione espressamente estesa ai termini di
inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R., n.
380/2001, alle segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA), alle
segnalazioni di agibilità, alle autorizzazioni paesaggistiche e alle
autorizzazioni ambientali, comunque denominate;
●
nel luglio 2020, nel permanere dell’emergenza, il legislatore è tornato a
occuparsi di alcuni provvedimenti specifici –i permessi di costruire– per
ricalibrare la proroga automatica e generalizzata inizialmente disposta con
l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020: ecco quindi l’art. 10, comma
4, del d.l. n. 76 del 2020 (cosiddetto Decreto semplificazioni), come
convertito nella legge n. 120 del 2020, che ha previsto che i termini di
inizio e ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001,
come indicati nei permessi di costruire formatisi fino al 31.12.2020, sono
prorogati, se l’interessato comunica di volersi avvalere di tale proroga. Al
momento della comunicazione i termini non devono essere già decorsi e il
titolo deve risultare conforme agli strumenti urbanistici approvati o
adottati. Questa disciplina è stata espressamente estesa alle segnalazioni
di inizio attività presentate entro lo stesso termine (31.12.2020).
●
a causa del protrarsi dell’emergenza epidemiologica, il legislatore è
nuovamente intervenuto: l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 125 del
2020, come convertito, ha modificato l’art. 103, comma 2, sostituendo la
data del «31.07.2020» con «la data della dichiarazione di
cessazione dello stato di emergenza», così prorogando la validità di
tutti gli atti e titoli in scadenza nell’intero periodo emergenziale, a
partire dal 31.01.2020;
●
l’art. 3-bis, comma 1, lettera b), dello stesso d.l. n. 125 del 2020, ha
introdotto nell’art. 103 il comma 2-sexies, in cui si prevede che tutti gli
atti e provvedimenti indicati al comma 2 dell’art. 103 «scaduti» tra
il 01.08.2020 e la data di entrata in vigore della legge di conversione n.
159 del 2020 (27.11.2020), e non rinnovati, «si intendono validi e sono
soggetti alla disciplina di cui al medesimo comma 2». In questo modo, è
stata recuperata la validità degli atti in scadenza nel periodo successivo
al 31.07.2020, non compresi nella prima proroga. La disciplina dettata
dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 è riferita solo ai permessi
di costruire e alla SCIA, mentre gli altri titoli abilitativi sono
assoggettati alla previsione dell’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del
2020, come modificato.
Infine, con il decreto-legge 23.07.2021, n. 105, convertito, con
modificazioni, in legge 16.09.2021, n. 126, l’emergenza da COVID-19 è stata
prorogata fino al 31.12.2021.
Proroga automatica contrasta con le norme statali
La Corte Costituzionale quindi ha evidenziato che l’art. 28, comma 1,
lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la
proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella
disciplina statale (artt. 103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come
convertito, e 10, comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in
collisione con un principio fondamentale.
Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende
palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione
Lombardia in riferimento a:
●
tipologia dei titoli abilitativi;
●
durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni
dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel
novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato
di emergenza;
●
art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina
specifica della proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori
indicati nei permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del
2001, eliminando l’automatismo e subordinando la concessione della proroga
alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante compatibilità del
titolo oggetto di proroga con gli strumenti urbanistici approvati o
adottati.
Inoltre, nel testo che risulta a seguito della legge di conversione, è
previsto un termine differenziato di proroga dei suddetti termini,
rispettivamente di un anno e di tre anni.
La disciplina regionale è, pertanto, completamente differente rispetto a
quella statale.
Il Collegio ha quindi ricordato che la durata dei titoli abilitativi
rappresenta un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di
tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di trasformazione del
territorio compatibili con la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo
urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore
statale, secondo il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
La
disciplina statale riguarda tutto il territorio nazionale
In una situazione inusuale di emergenza epidemiologica come quella da
COVID-19, l’intervento del legislatore è consistito nel prorogare i titoli
abilitativi in termini omogenei su tutto il territorio nazionale: "incidendo
sulla durata, le norme statali interposte partecipano della natura di
“principio fondamentale” che connota la disciplina dei titoli abilitativi,
con l’effetto di vincolare le Regioni. Le pur gravi difficoltà che investono
il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in
altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime
regionale difforme”.
Con le norme emanate, lo Stato ha disposto la proroga generalizzata dei
titoli abilitativi, seguendo lo sviluppo dell’emergenza epidemiologica e
delle sue ricadute, nel bilanciamento di interessi potenzialmente
confliggenti che connotano gli interventi sul territorio: da un lato,
l’interesse dei beneficiari dei titoli abilitativi a esercitare i propri
diritti, e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un
tempo eccessivo, dall’altro. L’intervento statale ha inteso rispondere a
esigenze che riguardano l’intero territorio nazionale, colpito dalla
pandemia, con effetti drammatici che hanno inciso il tessuto sociale ed
economico.
L’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia
07.08.2020, n. 18, è stato quindi giudicato illegittimo, ad esclusione della
parte in cui, nel testo antecedente all’entrata in vigore della legge reg.
Lombardia n. 22 del 2020, prevedeva la proroga delle autorizzazioni
paesaggistiche (23.12.2021 - tratto da e link a
www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proroga dei titoli abilitativi edilizi è riservata allo Stato.
La Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245,
ha dichiarato illegittima la disposizione della Regione Lombardia di proroga
dei termini dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di
lottizzazione, impugnata dal Governo perché in contrasto con la disciplina
statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della
natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio. “Le
pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in
Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non
giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art.
117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020,
n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
In particolare la disposizione regionale impugnata, prevedeva che in
considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle
costruzioni, derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, “fosse
prorogata la validità:
a) di tutti certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza
dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa
scadenza;
b) delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e
dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi
similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in
materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in
vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla
relativa scadenza".
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione
regionale violi il riparto di competenze in quanto proroga la validità dei
titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione. Infatti
la normativa in esame è riconducibile alla materia «governo del
territorio», di competenza legislativa concorrente, e che, all’interno
di tale ambito materiale, la disciplina dei titoli edilizi e paesaggistici
assurga al rango di principio fondamentale, anche con riferimento alla
durata.
La disposizione regionale, con l’introdurre una disciplina sostitutiva di
quella statale sulla proroga dei titoli, violerebbe l’art. 117, terzo comma,
Cost., per il tramite del parametro interposto costituito dalle norme
statali richiamate, che esprimono principi fondamentali della materia.
Sentenza della Corte
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 245/2021 del 21.12.2021, ha
dichiarato incostituzionale la proroga dei termini dei titoli abilitativi
disposta durante l’emergenza COVID-19 dalla regione Lombardia (legge
18/2020) in modo difforme da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge
18 e 76 del 2020.
‘‘Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in
Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non
giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’. La Corte
ha inoltre osservato che, nel seguire lo sviluppo dell’emergenza COVID-19 e
delle sue drammatiche ricadute, il legislatore statale ha inteso bilanciare
l’interesse dei beneficiari dei titoli a conservare i rispettivi diritti e
l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo
eccessivo. Di qui la proroga generalizzata dei titoli abilitativi su tutto
il territorio nazionale, fino al novantesimo giorno successivo alla
cessazione dello stato di emergenza (21.12.2021 - tratto da
www.ipsoa.it). |
aggiornamento al
29.11.2021 |
|
TRIBUTI:
Incentivo per il recupero dell'evasione IMU, il vincolo
dell'approvazione del bilancio frena gli Enti.
Neanche la pandemia Convid-19 riesce a scalfire la
rigida interpretazione fornita da alcune Corti dei conti in tema di
incentivo per il recupero dell'evasione Imu.
Si ricorderà che la normativa Ici prevedeva la possibilità per i Comuni di
destinare parte del gettito da recupero dell'evasione all'incentivazione del
personale. Questa possibilità non era stata replicata all'inizio nell'Imu,
ma è stata successivamente introdotta con l'articolo 1, comma 1091, della
legge 145/2018 (legge di bilancio 2019).
Occorre premettere che uno dei mali peggiori che affligge gli enti locali è
la difficoltà di accertare l'evasione e di riscuotere le proprie entrate. La
Corte dei conti ripete sistematicamente che una delle principali cause di
dissesto dei Comuni va proprio ricercata nella diffusa inefficienza della
capacità di riscossione delle proprie entrate, a iniziare da quelle
tributarie.
Negli ultimi anni il legislatore ha finalmente fornito strumenti più
efficaci per incrementare il tasso di riscossione. Da ultimo, con
l'accertamento esecutivo e con le nuove regole sulla riscossione coattiva,
che sono intervenute risolvendo annose problematiche, come quelle relative
alla figura del funzionario responsabile della riscossione e agli oneri
ripetibili dal debitore.
Ma per incrementare il recupero dell'evasione, che in Italia raggiunge
livelli elevatissimi anche nell'ambito dei tributi comunali, occorrono non
solo norme chiare ma anche personale.
Dall'analisi sul patrimonio immobiliare in Italia del Mef e dell'agenzia
dell'Entrate, si stima solo per l'Imu un'evasione annuale di 5,2 miliardi,
con un percentuale media di evasione del 27%, con punte del 45% nel
meridione e tassi che non scendono comunque sotto il 10% neanche al Nord.
Conti alla mano, quindi, i Comuni hanno un bacino di recupero nei cinque
anni accertabili di ben 26 miliardi di euro. E allora si comprende
l'esigenza del legislatore di dare una sferzata anche agli uffici tributi
del Comune, ugualmente a quanto avviene per i dipendenti dell'agenzia
dell'Entrate, destinatari anche loro di Incentivi sul recupero
dell'evasione.
Ma la scrittura del comma 1091 è risultata criptica in più punti. Uno di
questi attiene al vincolo dell'approvazione del bilancio preventivo e del
rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico, ovvero 31 dicembre e
30 aprile.
Ma se il termine del 31 dicembre viene prorogato, come poi è sempre
avvenuto, l'approvazione entro il nuovo termine è tardiva? Approvare il
bilancio di previsione entro il 31.07.2020 vuol dire approvare il bilancio
entro i termini stabiliti dal Tuel?
La risposta è ovviamente sì. Le proroghe non vengono disposte così, ma
sempre in conseguenza di modifiche normative che richiedono un recepimento
nell'ordinamento comunale. Non approvare il bilancio entro il 31 dicembre
perché la legge di bilancio ha stravolto il quadro normativo di riferimento
non è sintomo di inefficienza, come pure qualche Corte ha sostenuto.
Nel 2020 praticamente l'incentivo spetterà solo a qualche isolato Comune,
che è riuscito ad approvare il bilancio preventivo a dicembre e il
rendiconto entro il 30 aprile, nonostante la pandemia.
Ma ci si chiede, qual è la correlazione logica che esiste tra incentivo al
recupero dell'evasione dei tributi e termine di approvazione del bilancio:
nessuna.
Peraltro, nell'organizzazione comunale questi sono adempimenti posti a capo
di uffici diversi. il personale del servizio tributi deve subire le
conseguenze delle attività svolte dal personale del servizio ragioneria?
Sarebbe totalmente illogico.
L'incentivo del comma 1091 mira a potenziare l'attività di recupero
dell'evasione e della riscossione dei tributi comunali, non mira a far
rispettare i termini di approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi.
A questo punto non resta che sperare nel buon senso di una modifica
normativa
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.06.2020). |
TRIBUTI: Incentivi
per il recupero delle entrate comunali. Interessate
anche poste non tributarie, precisa Ifel. Le premialità introdotte
dall’ultima manovra possono remunerare anche obiettivi afferenti a poste non
tributarie. Per la relativa quantificazione, occorre adottare un criterio di
cassa, senza necessità di confronti intertemporali.
Incentivi a tutto campo per il recupero delle entrate
comunali: le premialità introdotte dall'ultima manovra possono remunerare
anche obiettivi afferenti a poste non tributarie. Per la relativa
quantificazione, occorre adottare un criterio di cassa, senza necessità di
confronti intertemporali.
Sono alcune delle precisazioni contenute nella nota predisposta dall'Ifel
per illustrare la disciplina dettata dal comma 1091 della legge 145/2018.
In base a tale disposizione, i comuni che approvano il bilancio e il
rendiconto entro i termini previsti dal Tuel possono, con proprio
regolamento, stabilire che il maggior gettito accertato e riscosso
relativamente all'Imu e alla Tari nell'esercizio fiscale precedente sia
destinato, nella misura massima del 5%, al potenziamento delle risorse
strumentali degli uffici competenti, nonché al trattamento accessorio del
personale ad essi preposto, anche in deroga al tetto imposto dall'art. 23
del dlgs 75/2017.
Secondo Ifel, potranno essere premiate tutte le risorse umane impegnate a
stanare gli evasori, non solo, quindi, quelle direttamente adibite
all'ufficio tributi, ma anche il personale degli altri uffici che in vario
modo concorrono al raggiungimento degli obiettivi del «settore entrate».
Il documento (corredato da uno schema di regolamento e di delibera di
approvazione) si sofferma diffusamente anche sui meccanismi di alimentazione
del fondo incentivante, precisando che la nozione di «maggior gettito»
non può che riferirsi al gettito aggiuntivo rispetto a quello che risulta
ordinariamente acquisito sui due tributi menzionati, nelle forme proprie di
ciascuno: l'autoliquidazione a scadenze predeterminate dalla legge, nel caso
dell'Imu, la richiesta comunale o del diverso soggetto preposto,
generalmente mediante avviso bonario, nel caso della Tari.
Pertanto, non c'è alcun confronto intertemporale da effettuare, bensì
dovranno essere considerate tutte le riscossioni diverse da quelle
ordinarie, generate da attività di verifica e controllo poste in essere dal
comune. A monte, però, deve esserci atto di accertamento emesso dall'ente,
anche se poi l'incasso è stato operato da terzi. Inoltre, quello che rileva
è quanto riscosso in un determinato anno, indipendentemente dal periodo di
emissione dell'atto.
Infine, Ifel conferma che la condizione di applicabilità legata alla
tempistica di approvazione dei documenti contabili è da intendersi
realizzata purché l'ente rispetti i termini di legge, anche se eventualmente
prorogati. Il meccanismo è attivabile fin dal corrente anno avendo riguardo
alle riscossioni realizzate nel 2018; l'erogazione dell'incentivo avverrà
nel 2020, nella misura in cui saranno stati realizzati gli obiettivi di
recupero
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2019). |
aggiornamento al
11.09.2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rischi
penali per le pause caffè senza timbrare. Solo episodi singoli possono
evitare la maxi-sanzione grazie alla «lieve tenuità».
La «lieve tenuità» può evitare le sanzioni penali, ma le indicazioni
offerte dalla
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della Cassazione
(Sole 24 Ore del 26 agosto) dettano principi piuttosto rigidi
sull’applicazione delle norme anti-assenteismo. L’allontanamento
dall’ufficio per la pausa caffè senza la timbratura dell’uscita integra per
i giudici il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato
commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del
fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che
i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di un vincolo della
timbratura; maturano le condizioni per contestare l’aggravante dell’essere
pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza non strettamente
collegata all’esercizio delle attività; la condotta determina la maturazione
del danno all’immagine.
La Corte dà inoltre conto del fatto che vi sono letture contrastanti sulla
scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del
danno, posto che in caso di risposta positiva va dimostrato che il
dipendente è nelle condizioni economiche di poter dare corso al
risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida
e figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano
disservizi e danneggiano la credibilità delle Pa, ma che il tutto va
ricondotto ai principi generali dell’ordinamento penale.
La prima indicazione netta è che non è necessario, per irrogare la sanzione
penale della reclusione e della multa prevista dall’articolo 55-quinquies
del Dlgs 165/2001 (reclusione da uno a cinque anni e sanzione da 400 a 1.600
euro), dimostrare che la condotta è stata caratterizzata da continuità,
abitualità o reiterazione. Anche un singolo episodio integra gli estremi del
reato. Che matura per la semplice mancata timbratura dell’uscita e non sono
necessari l’alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle
presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il fatto che
il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non è registrata.
Un’altra indicazione rigida deriva dalla scelta legislativa: è sufficiente a
integrare il reato il dolo generico e non serve la dimostrazione di una
volontà specifica. I dipendenti vanno sanzionati se conoscono l’esistenza di
un vincolo all’uso del badge e non ci sono giustificazioni convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l’aggravante dell’essere un
pubblico ufficiale: la norma non richiede «un nesso funzionale tra tali
poteri o doveri e il compimento del reato». Il fatto di essere un
dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la norma prevede il risarcimento da parte del
dipendente del danno provocato all’ente, sia di natura patrimoniale per la
retribuzione che ha percepito indebitamente, sia all’immagine, con
quantificazione della misura minima. In applicazione dei principi di
carattere generale e segnatamente dell’articolo 131-bis del Codice penale,
matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto».
Il che richiede che la mancanza sia una sola, che abbia determinato effetti
di lieve entità e che le modalità della condotta consentano questo giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2021). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Rischi
penali per le pause caffè senza timbrare.
L'allontanamento dall'ufficio per la cosiddetta pausa caffè senza la
timbratura dell'uscita integra il reato della falsa attestazione della
presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri
la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo
specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza della
esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per
contestare l'aggravante dell'essere pubblico ufficiale, anche se si tratta
di una circostanza che non è strettamente collegata all'esercizio delle
attività; tale condotta determina la maturazione del danno all'immagine.
Sono queste le principali
indicazioni contenute nella
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
La stessa dà inoltre conto del fatto che ci sono letture contrastanti sulla
scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del
danno, posto che in caso di risposta positiva sull'utilizzazione di questa
possibilità occorre dimostrare che il dipendente è nelle condizioni
economiche di potere dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia
quanto la scelta legislativa sia rigida e sia figlia della volontà di punire
duramente comportamenti che creano disservizi e determinano danni rilevanti
alla credibilità delle Pa, ma che il dettato legislativo deve essere
comunque ricondotto nel rispetto dei principi di carattere generale dettati
dall'ordinamento penale.
La prima indicazione molto netta è che non è necessario, per potere irrogare
la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall'articolo
55-quinquies del Dlgs 165/2001 dimostrare che la condotta del dipendente è
stata caratterizzata dalla continuità o dalla abitualità o dalla
reiterazione. Di conseguenza, anche un singolo episodio integra gli estremi
per la maturazione del reato. Intimamente connessa a tale principio è la
considerazione che il reato matura per la semplice mancata timbratura della
uscita e non sono necessari l'alterazione o la manomissione del sistema di
rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si
determina per il semplice fatto che il dipendente non è in ufficio e che la
sua assenza non risulta registrata dal sistema di rilevazione delle
presenze.
Un'altra indicazione che possiamo definire come rigida e che deriva
direttamente dalla scelta legislativa è la seguente: è sufficiente a
integrare il reato il dolo generico e non è necessaria la dimostrazione di
una volontà specifica. Quindi, i dipendenti vanno sanzionati se sono a
conoscenza della esistenza di un vincolo alla utilizzazione del badge e se
non vi sono elementi di giustificazione convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l'elemento per cui si deve
contestare la circostanza aggravante dell'essere il dipendente un pubblico
ufficiale: il dettato legislativo non richiede che vi sia «un nesso
funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato». In
altri termini, il semplice fatto di essere un dipendente di Pa determina un
«maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la disposizione prevede che il dipendente debba
risarcire il danno che ha provocato all'ente, sia di natura patrimoniale per
la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia alla immagine della Pa,
con la quantificazione della misura minima.
In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente
dell'articolo 131-bis del codice penale, matura la non punibilità nel caso
di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una
sola, che essa abbia determinato degli effetti di lieve entità e che le
modalità della condotta consentano la maturazione di tale giudizio
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La Cassazione chiude un occhio sulla fuga per la pausa caffè.
Resta reato ma punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante
per la Pa. I dipendenti non timbravano il badge e confidavano su prassi e
tolleranza.
I futili motivi che inducono i furbetti del cartellino a
uscire per la pausa caffè e le sigarette non bastano a escludere la non
punibilità, per la particolare tenuità del fatto. Per negare il beneficio,
previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale serve, infatti, la prova
dell’abitualità del comportamento e del danno rilevante per la pubblica
amministrazione. Due elementi
che la Corte d’appello, disattesa dalla Cassazione (sentenza 29.07.2021 n.
29674), aveva rilevato.
Per la Corte territoriale erano punibili due impiegati del Comune, finiti
nelle maglie della giustizia, perché assenti ingiustificati durante un
controllo dei Carabinieri. Un’uscita, senza timbrare il badge, per
comprare le sigarette e andare al bar. In realtà a metterli davvero nei guai
erano state le loro giustificazioni. Il bevitore di caffè aveva parlato di
necessità, non essendoci in ufficio un distributore e di prassi seguita in
tutti i luoghi di lavoro. Il dipendente che era andato dal tabaccaio, aveva
maledetto la cattiva sorte, perché in 36 anni di servizio non gli era mai
capitata una cosa del genere.
Frasi che, per la Corte territoriale, provavano l’abitualità dei
comportamenti. Dello stesso parere il Pubblico ministero, secondo il quale
il beneficio era stato giustamente negato, anche ai fini delle attenuanti
generiche, perché era stato violato il principale dovere di un lavoratore:
la presenza sul posto di lavoro. Gli imputati avevano agito con noncuranza
verso l’utenza tendendo a sminuire l’azione commessa.
Sulla stessa linea sia il Tribunale sia la corte d’Appello, che avevano
messo l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite, e sulla gravità
dell’allontanamento non registrato. Una condotta idonea «ad incrementare
un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare
un danno all’immagine della casa Comunale». E questo per assecondare
«bisogni della vita del tutto accessori».
In più, dalle dichiarazioni degli imputati, risultava che l’allontanamento
non era occasionale, anzi , una prassi «una consuetudine mattutina,
radicata e addirittura abituale».
Diversa la lettura della Suprema corte, secondo la quale le affermazioni, «incriminate»
dai giudici di merito, non provavano affatto l’abitualità. E i giudici di
legittimità richiamano alla necessità di stare ai fatti.
I due ricorrenti non avevano timbrato il badge in uscita e dunque, in
base all’orario di entrata, potevano essere stati via dai cinque minuti a
un’ora. Né è corretta l’affermazione sull’ostacolo al beneficio dato dalla
futilità dei motivi.
Una causa ostativa che la Corte di merito ha tratto dal comma 2
dell’articolo 131-bis, in base al quale l’offesa non può essere considerata
di particolare tenuità se l’autore ha agito per motivi abietti o futili. Nel
caso specifico, però, ad avviso della Cassazione, l’errore non nasce da un
istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella
tolleranza dei superiori. Detto questo, i giudici di legittimità confermano
il reato, previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo
55-quinquies). Una norma, rivista dal Dlgs 116/2016, secondo la quale la
falsa attestazione scatta qualunque modalità venga usata per far risultare
in servizio chi è assente.
Viene dunque confermata anche la condanna a risarcire il danno alla Pa. Ma
la Corte d’Appello è invitata a rivedere il no alla non punibilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIAGO: Il
badge anche per la pausa caffè. Non sufficiente l’autorizzazione orale del
capo ufficio. La Corte di cassazione ha confermato il reato di attestazione
fraudolenta della presenza.
L'allontanamento dal posto di lavoro, per fruire
della pausa caffè, deve essere accertato dal sistema di rilevazione delle
presenze, anche in presenza dell'autorizzazione orale del capo ufficio. In
questo caso, infatti, il dipendente incorre nel reato falsa attestazione
della presenza, essendo sufficiente che, ai fini dell'integrazione del
reato, la situazione di fatto (presenza in ufficio) sia diversa da quella
reale (allontanamento al bar).
Con queste indicazioni la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 29.07.2021 n.
29674) ha, da un lato, confermato la fattispecie del reato
ma, dall'altro lato, ha accolto il ricorso dei ricorrenti sulla
possibile applicazione della particolare tenuità del reato, anche in caso di
reiterazione, rinviando al giudice di merito la relativa decisione.
La vicenda. Il
Tribunale di primo grado e la Corte di appello hanno confermato il reato, di
attestazione fraudolenta della presenza, di due dipendenti che, a seguito
del riscontro effettuato dalle forze dell'ordine, si erano allontananti
dall'ufficio, il primo per una pausa caffè ed il secondo per recarsi al
tabaccaio.
Trattandosi di pochi minuti di allontanamento, tra la fase di uscita, in
assenza della timbratura al cartellino marcatempo, e quella in entrata, i
convenuti hanno, tra l'altro evidenziato la particolare tenuità del fatto.
Uno dei ricorrenti ha, inoltre, precisato che l'allontanamento dall'ufficio,
per pochi minuti, era stato in ogni caso preventivamente autorizzato dal
capo ufficio, in assenza del distributore automatico di bevande.
Le indicazioni della Cassazione.
Il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma, a
dire dei giudici di legittimità, con la realizzazione di qualsiasi
comportamento fraudolento che, consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi
di rilevazione delle presenze e che, il reato in questione concorre con la
truffa aggravata, in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente
pubblico provoca un danno all'amministrazione (decreto legislativo n.
165/200).
Ricorda la Cassazione che, il nuovo testo dell'art. 55-quater riguardante il
licenziamento disciplinare, ha precisato al comma 1-bis, che costituisce
falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta
posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente
in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto
dell'orario di lavoro.
Nel caso di specie, il delitto si consuma con la realizzazione, da parte dei
pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente
nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, poiché
in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di
quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale presta servizio.
Pertanto, nessun rilievo può assumere la circostanza sollevata, in ordine
alla "pausa caffè", considerato che la stessa non integra uno stato
di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa
o permesso implicano necessariamente che, l'allontanamento non solo deve
essere autorizzato, ma deve trovare traccia nell'utilizzo del badge che
segna l'uscita del dipendente. È stata, invece, accolta l'eccezione della
difesa sulla particolare tenuità del fatto.
Infatti, anche in presenza di ipotesi di reiterazioni, l'applicabilità
dell'art. 131 c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole
condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata
ripetizione, nell'articolo citato, dell'inciso "anche se ciascun fatto,
isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In altri termini, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la
possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime,
abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di
una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli
fatti. Spetterà al giudice di appello, cui la causa è rinviata, verificare
se gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al
crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i
suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti
penali, durata temporale della violazione, numero delle leggi violate,
effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato,
interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese
alla condotta (articolo ItaliaOggi del
05.08.2021).
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SENTENZA
4. Entrambi i motivi sono infondati.
4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre
individuare
il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall'art.
55-quinquies,
D.Lgs. n. 165/2001. La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in
particolare,
l'ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei
profili di concorrenza
con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall'altro, delle
conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le
violazioni
non siano state reiterate e ripetute ma limitate. Al riguardo, la norma
evidenzia
in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non
richiede continuità o abitualità.
In generale, il delitto di "false
attestazioni o certificazioni"
si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento
che consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle
presenze e che
il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata
dall'art. 640, co.
2, n. 1, c.p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico
provoca
un danno all'Amministrazione poiché al primo comma del citato art.
55-quinquies
è espressamente previsto "fermo quanto previsto dal Codice penale" (Sez. III,
n.
45698 del 27/10/ 2015).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha
rigettato
le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di
essersi
allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all'uscita, non
sarebbero
riconducibili all'art. 55- quinquies citato, non essendovi stata
un'alterazione dei sistemi
di rilevamento delle presenze e non essendo riconnprese nelle altre modalità
fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere
interpretate
restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di
registrazione.
Ed infatti, la condotta contemplata dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta
falsamente
la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a
priori predeterminate dal legislatore. Non sussiste alcun contrasto con il
principio
di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all'art.
25 Cost.,
in quanto l'enunciazione della condotta del reato, pur descritta
genericamente,
consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed
al contesto
ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato
delle
parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non
specifiche,
ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente
chiara ed
immediata del valore precettivo di essa.
Né è legittimo fare ricorso all'interpretazione analogica con le modalità
indicate
da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di
interpretazione
letterale per attribuire alla norma un significato univoco.
4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell'art. 55-quater che
tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1-bis, con una
integrazione
effettuata con D.lgs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione
della presenza
in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche
avvalendosi
di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione
circa il rispetto dell'orario di lavoro.
La fattispecie disciplinare di
fonte
legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione
del sistema,
ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione
della
presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è
rimasto in
ufficio durante l'intervallo temporale compreso tra le
timbrature/registrazioni in
entrata ed in uscita.
Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di
legittimità in
sede civile (Sez. lav., n. 24574 del 01/12/2016) precisando che a
prescindere
dall'intervento riformatore dell'art. 55-quater cit., la ricostruzione
innanzi effettuata
era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale
non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel
passato
la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione
intesa come
manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n.
17637/2016,
17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n. 257508 del 14/12/2016).
Pertanto, la formulazione del Dlgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma
1, lett. a), ed anche la sua "ratto" (potenziamento del livello di efficienza
degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e
di assenteismo), inducono
ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del
sistema
di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa
solo se
nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il
lavoratore è
effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente
attestata nei
casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore
è presente
in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura
in
uscita.
Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto
dall'art.
55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici
dipendenti di
un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei
sistemi di
rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in
ragione
della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume,
qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è
di per sé
idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio
in
merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a
dimostrare, ossia
la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel
caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato
di cui
all'art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di
truffa aggravata
e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art.
55-quinquies (sul
rapporto tra l'art. 640 cpv. c.p. e il D.lgs. n. 165 del 2001, art.
55- quinquies: Sez.
III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del
27/10/2015; Id., n. 45947 del 10/10/2019).
In sintesi, è stato sottolineato
che
l'illecito descritto al D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies,
diversamente dalla
truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente
pubblico
della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di
rilevamento delle
presenze. Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di
prevenire
o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio pubblico, le
condotte
assenteistiche.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità
amministrativa
e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la
P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i
periodi per i
quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche
il danno
non patrimoniale (ad es. quello all'immagine subito dall'amministrazione
stessa).
Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale
si sia concretizzato nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione
delle presenze, possa
costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa.
Il legislatore quindi pone l'attenzione sulle modalità esplicative del
comportamento
illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia
l'induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito
dall'agente i
quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della
fattispecie di
cui all'art. 55-quinquies prefato.
...
10. Vanno trattati congiuntamente
anche il secondo motivo del Ca. e
il secondo motivo del Se., in quanto entrambi afferiscono al tema del
mancato
riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., motivi,
come
anticipato, da ritenersi invece fondati.
10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della
sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.
È stato affermato che la clausola generale di "non punibilità per
particolare
tenuità del fatto" prevista dall'art. 131-bis c.p. è applicabile solamente
nei casi nei
quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia
stata del
tutto episodica e, comunque, l'offesa sia di particolare tenuità (Sez. II,
n. 38997
del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o
reiterazione del
comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di
non punibilità.
In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è
possibile
applicare l'esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve
entità, è
configurabile e sanzionabile la condotta con l'applicazione della pena
prevista per
il delitto di "false attestazioni o certificazioni".
Si rammenta poi che l'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è
esclusa
quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del
pericolo,
valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, l'offesa è di particolare
tenuità e il comportamento risulta non abituale. Sul punto, deve richiamarsi
la giurisprudenza
di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità
per particolare
tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali
ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante
reiterazione
della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 05/04/2017), in quanto viene
a configurarsi una ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al
riconoscimento
del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di
reiterazione
non sono mancate decisioni nelle quali l'applicabilità dell'art. 131-bis
c.p. è
stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente
considerate.
Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell'articolo summenzionato
dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve
entità".
In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità,
in caso di
"reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di
applicare
l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità
delle singole
condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non
siano
espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere
soppesata
l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del
reato, capacità
a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della
violazione,
numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta
antecedente, contemporanea
o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni,
anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per
particolare
tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto
dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis
c.p. ritenuto,
evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/06/2018; Sez. VI, n. 55107
del 08/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere
effettuato
con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, ma non è
necessaria la
disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente
l'indicazione
di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).
...
12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell'interesse
del Ca..
12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.
Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all'art.
61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del Ca., ovvero
l'allontanarsi dal
luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita, integra la
violazione dei
doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 03/06/2005; Sez. II,
n. 22972 del 16/02/2018).
Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla
citata pronuncia
n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di
presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di
servizio, agisce
come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente
esercitata. Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di
ciascun dipendente,
non ha fatto venir meno l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la
condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con
finalità
fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro
in realtà
inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione,
risulta essere
stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in
"palese violazione
di precise direttive superiori".
La medesima condotta ha comunque integrato
la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico
servizio,
la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore
indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.
Del resto, si è affermato che l'aggravante di aver commesso il fatto con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica
funzione o ad
un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale
abbia agito
al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua
qualità
abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del
07/11/2013) e non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra
tali
poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n. 20870
del
30/04/2009; Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013; Id. n. 13057 del 28/10/2015; Sez.
III, n. 24979 del 22/12/2017; Sez. V, n. 9102 del 16/10/2019; Sez. III, n. 17386
del
28/01/2021).
Inoltre, tra le circostanze concernenti le "qualità personali" del colpevole
rientra certamente quella dell'aver commesso il fatto con abuso dei poteri
inerenti
a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all'art. 61 c.p.,
n. 9, che é
di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico
ufficiale, ma
perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità
dell'azione,
con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai
sensi
dell'art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53687 del 25/11/2014).
12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo
commesso
attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale
ha
abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante
rapporto pubblicistico:
si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.
In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal Caterino non risulta
essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la
doglianza,
non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel
giudizio
di legittimità.
...
13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche
significativi
riflessi patrimoniali.
Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni
indebitamente
erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte
fraudolente
di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano
all'Amministrazione
un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che
investe
l'autorevolezza e la credibilità dell'Amministrazione Pubblica, in generale,
e
dell'Ente interessato. Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che
l'attestazione
falsa di presenza in servizio lede l'immagine dell'Amministrazione ed ha
determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla
gravità o
dalla reiterazione della condotta.
La giurisprudenza contabile ha rilevato
che l'art.
55-quinquies, D.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di
danno
all'immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale
diretta
a determinare l'importo della lesione erariale, consistente nella condotta
del dipendente
pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di
lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l'interruzione della prestazione
attraverso
il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in
servizio
(Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 06/03/2019; Corte dei
conti, Sez.
giurisd. Abruzzo, n. 110 del 06/09/2018).
Si è precisato che il legislatore ha inteso
prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno
dell'assenteismo
pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette
assenteistiche sono causa di lesione all'immagine" (Corte dei conti, n. 163
del
17/05/2018).
In proposito, la nozione di danno all'immagine deve essere
considerata
unitaria e, in ogni caso, espressiva di un'effettiva compromissione della
reputazione
dell'Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di
notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione dei
consociati in
merito alla correttezza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni.
Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in
conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento
nell'art.
55-quinquies, comma 2 sopra citato, in forza del quale "Nei casi di cui
al comma
1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le
relative sanzioni,
è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto
a titolo
di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata
prestazione, nonché
il danno d'immagine di cui all'art. 55-quater, comma 3-quater".
Avendo il ricorrente commesso l'illecito di cui all'art. 55-quinquies, il
medesimo
è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla
P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro
omettendo
di timbrare il badge all'uscita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.07.2021 n.
29674). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Troppe
pause caffè? È truffa continuata ma il reato è impunito se il danno alla Pa
è lieve.
Particolare tenuità del fatto applicabile anche al reato continuato, se il
pregiudizio, da calcolare in base allo stipendio, non è rilevante e manca
una propensione al crimine da parte degli amanti del break al bar.
Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione,
habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A
far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma
sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il
danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine.
Nel caso esaminato
il reato era prescritto, ma la Cassazione (Sez. II penale,
sentenza 31.12.2020 n. 37913) analizza comunque la condotta
prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva
condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Le violazioni ripetute
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata
contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro,
calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza
passare il badge. Per la Suprema corte la sentenza della Corte d’Appello era
contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come
singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era
stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto
reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad
avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non
punibilità.
L’apprezzabilità del danno
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio,
la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al
momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano
spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale
era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis. Secondo la
giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i
reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile.
Il
giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione
episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla
gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette.
Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del
ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato.
Anche nella
sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia
massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei
patiti della moka non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè
reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno un
stipendio più pesante
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.01.2021). |
aggiornamento al
24.08.2021 |
|
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Funzioni
tecniche, incentivi solo con regolamento, contratto e verifica.
Le istruzioni della Corte dei conti.
Gli enti devono inserire gli incentivi per le funzioni tecniche nel quadro
economico, ma la loro concreta erogazione è subordinata alla adozione del
regolamento e alla contrattazione, oltre che all'accertamento delle attività
effettivamente svolte dai singoli dipendenti.
Questi incentivi possono
essere erogati anche nel caso di appalti con affidamento diretto se si è
dato corso alla utilizzazione di procedure comparative, mentre non possono
essere erogati nel caso di affidamenti diretti, quali ad esempio i cottimi.
Nel caso di appalti di servizi e forniture possono essere erogati non solo
per quelli di importo superiore a 500.000 euro, ma anche per cifre inferiori
a condizione che sussistano le condizioni che impongono la distinzione di
compiti tra il Rup ed il direttore dell'esecuzione e possono essere erogati
anche nel caso di adesione ad una convenzione quadro.
Questi oneri non vanno
compresi nella spesa del personale per gli appalti avviati a partire dal 01.01.2018. Il coordinatore della sicurezza può essere remunerato
solamente per i compiti svolti come direttore dei lavori, se vi è
coincidenza tra queste figure, o come collaboratore dello stesso e non già
in modo autonomo.
Sono queste alcune tra le indicazioni fornite dalle sezioni regionali di
controllo della Corte dei Conti sulla erogazione degli incentivi delle
funzioni tecniche. Tali pareri risultano assai utili sul versante dei
suggerimenti operativi e sembrano essere complessivamente ispirate da una
particolare attenzione al rispetto dei vincoli, anche formali, dettati dal
legislatore.
Segnaliamo, in particolare, le deliberazioni di questo anno
della sezione regionale di controllo della magistratura contabile
dell'Emilia Romagna e, segnatamente,
parere 04.02.2021 n. 7 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del 17
febbraio),
parere 08.04.2021 n. 43 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del 19 aprile) e
parere 120,
della Liguria
parere 12.04.2021 n. 59, della Lombardia
parere 07.05.2021 n. 73 e della Campania
parere 18.02.2021 n. 14.
L'adozione del regolamento è condizione per la erogazione degli incentivi
per le funzioni tecniche; per potere dare corso alla loro liquidazione
occorre che le risorse finanziarie del fondo siano ripartite per singolo
appalto con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
integrativa decentrata, che l'impegno di spesa sia assunto a valere sulle
risorse già accantonate nel quadro economico dell'appalto e che la
liquidazione dell'incentivo sia preceduta dall'accertamento delle specifiche
attività svolte dal dipendente.
L'incentivo per le funzioni tecniche richiede, come condizione essenziale,
che si sia dato corso a un appalto. Per la magistratura contabile in tale
ambito vanno comprese le procedure negoziate senza bando (art. 63 del Dlgs n. 50 del 2016, temporaneamente estese dall'articolo 1 del decreto
legge 76/2020) e gli affidamenti diretti dove mediati dalla previa richiesta
di preventivi (sul modello previsto dall'articolo 36, comma 2, lett. b),
del Dlgs n. 50 del 2016). Nella stessa direzione vanno anche le indicazioni
per cui le acquisizioni effettuate attraverso l'amministrazione diretta, ivi
compreso il cottimo fiduciario, non consentono la erogazione del compenso.
Per gli appalti di servizi e forniture di importo inferiore a 500.000 euro
questi compensi possono essere erogati se sussistano le condizioni di
complessità che impongono la differenziazione tra il direttore
dell'esecuzione ed il Rup.
Gli oneri per gli incentivi di funzioni tecniche non sono da comprendere
nella spesa del personale, anche ai fini della determinazione del rapporto
con le entrate correnti per la fissazione delle capacità assunzionali.
Questi compensi possono essere riconosciuti al personale che ha svolto
funzioni tecniche nella fase di esecuzione di un appalto di servizi concluso
mediante adesione a convenzione quadro stipulata da un soggetto aggregatore,
ovviamente tranne che il bando sia stato pubblicato prima dell'entrata in
vigore del Dlgs 50/2016
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.05.2021). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi tecnici nelle partecipate fra aperture normative ed esigenze di
controllo.
Il Dl 90 del 2014 nella sua originaria formulazione aveva del tutto abolito
il compenso incentivante per i progettisti pubblici dipendenti (e suoi
collaboratori) di un'opera pubblica, previsto inizialmente dall'articolo 18
della legge 109 del 1994 e ribadito dal Dlgs 163 del 2006.
In sede di conversione, all'abrogazione si è aggiunta, con l'introduzione
dell'articolo 13-bis alla legge 114/2014, una norma che da un lato conferma
l'esistenza del compenso nella misura del 2%, sebbene con alcuni distinguo
rispetto alla versione precedente; dall'altro lato apre la possibilità a una
contrattazione decentrata sulla stessa materia anche per gli uffici tecnici
degli organismi di diritto pubblico, con un significativo impatto sulle
spese di personale e con l'aggiunta di un altro tassello al mosaico della
equiparazione tra rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni e rapporto di lavoro alle dipendenze di società partecipate
da pubbliche amministrazioni.
Pertanto, le amministrazioni aggiudicatrici che non sono pubbliche
amministrazioni in senso soggettivo e che, però, soggiacciono a medesimi
limiti (per esempio assunzionali) possono prevedere un compenso per
prestazioni di progettazione interna analogamente agli uffici tecnici dei
soci controllanti.
La norma del precedente Codice dei contratti pubblici risulta ancora di più
confermata nel successivo art. 113 del Dlgs 50/2016, poiché il comma 2
prevede che «a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le
amministrazioni aggiudicatrici destinano». La differenza terminologica con
il precedente dato è fondamentale.
Fino al 2016 le Pa costituivano il fondo per il compenso incentivante e le
amministrazioni aggiudicatrici (quindi gli organismi di diritto pubblico)
potevano costituire un fondo analogo.
La prospettiva del legislatore del 2016 è completamente diversa.
Non si effettua una classificazione e differenziazione tra pubbliche
amministrazioni e organismi di diritto pubblico; si parla in senso ampio di
amministrazioni aggiudicatrici, intendendosi, in base alla tassonomia
dell'articolo 3 del codice, sia le Pa in senso soggettivo sia gli organismi
che fanno riferimento alle prime.
Resta da verificare come si atteggeranno i comportamenti degli enti soci,
che in base all'articolo 19 del Testo unico sulle partecipate devono dare
indicazioni alle società partecipate anche ai fini del contenimento delle
spese di personale
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.10.2020). |
aggiornamento al
31.05.2021 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Case ante 1945, cappotti con permessi paesaggistici. Anche senza
un vincolo specifico occorre il sì della Sovrintendenza. Gli architetti
preoccupati:
«Possiamo valutare noi l'impatto reale del lavoro».
Case
antiche, moderne, vecchie, belle o brutte, basta la data fatale: 1945, forse
perché dal momento della ricostruzione sono stati commessi i peggiori
obbrobri architettonici, che in qualche caso è meglio coprire con un bel
cappotto termico. Ma vai a capire.
La
circolare 04.03.2021 n. 4
del Mibact (si veda il sole 24 Ore di ieri) precisa comunque che agli
immobili «di edilizia storica», edificati in Italia prima del 1945,
non può essere automaticamente applicata l’esenzione dall’autorizzazione
paesaggistica semplificata (punto B3 dell’allegato B al Dpr 31/2017).
Le
conseguenze
La conseguenza pratica è che il 17,3% della popolazione italiana, che vive
in immobili precedenti al 1945 (dati Istat) si troverà per forza a
confrontarsi con l’autorizzazione paesaggistica (al cui interno esistono
diversi tipi di vincoli) nel caso intendesse percorrere l’accidentata strada
del superbonus.
Naturalmente la questione riguarda anche gli immobili costruiti
successivamente, se «alterino l’aspetto esteriore anche in termini di
finiture». Ma colpisce che nell’obbligo sparisca la distinzione tra
tutela diretta e indiretta, dato che i beni possono anche trovarsi distanti
dai primi, visto che l’unico criterio è la data di costruzione.
La pratica
In cosa consiste la «autorizzazione semplificata»? Occorre presentare
allo Sportello unico edilizia dell’ente locale una serie di documenti. Lo
Sportello attiva la conferenza di servizi semplificata inviando tutto alla
sovrintendenza, che ha 20 giorni per rispondere (se non risponde scatta il «silenzio
provvedimentale», qualcosa più del silenzio-assenso). Il procedimento
autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro
il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Fabrizio Pistolesi, (Segretario del Consiglio nazionale degli arcitetti -
coordinatore Dipartimento semplificazione), esprime «La grande
preoccupazione che abbiamo riguardo a ciò che occorre fare per il 110%. La
burocrazia sta ostacolando molto la partenza del superbonus, su 1,2 milioni
di condomìni sono partiti in meno di 500. Mentre occorre efficientare il
nostro datato patrimonio edilizio, dal punto di vista energetico ma anche e
soprattutto sismico. Qualsiasi ulteriore adempimento è un vero problema. E
la semplificazione sulla Cila che sarà contenuta nel Dl Semplificazioni è
stata studiata da noi per sgravare gli Sportelli unici dalla massa di
richieste di accesso agli atti per la conformità edilizia. I tempi sono
infatti strettissimi, anche se si parla di proroghe».
Una proposta operativa
Pistolesi propone un’idea di razionalizzazione: «In quel contesto ci sono
sicuramente edifici degli degni di tutela, diciamo il 2-3%, ma anche
tantissima edilizia che non ha nessuna prerogativa per essere tutelata.
Quello che auspichiamo è che gli Ordini possano lavorare con le
Soprintendenze realizzando schede metodologiche di questi immobili (come è
avvenuto per il sisma nelle Marche) e in base a queste analisi il
professionista si assume la responsabilità di procedere, salvo controlli
successivi. Per tutti gli immobili ante 1945 potremmo così non gravare le
sovrintendenze di una massa di carta» (articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.04.2021). |
EDILIZIA PRIVATA: Superbonus,
edifici ante 1945: stop al cappotto se non si passa prima dalla
soprintendenza. Stabilito in 20 giorni il termine per esprimere
l'autorizzazione semplificata.
Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli
edifici costruiti prima del 1945.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4, del
Ministero della Cultura, «le specifiche caratteristiche
tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi
di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della
soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto
dall’intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili
di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa
l’edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a
condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
degli edifìci» come stabilito dall’articolo 149 del Dlgs 42/2004, le
specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per
edifici di edilizia storica così come definiti nella
circolare Mibact
42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la
soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere
“contemporaneo” del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche
categorizzabile, secondo una nomenclatura anch’essa diffusa, quale
“patrimonio del secondo Novecento”): ciò sulla base della considerazione
dell’indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che
(e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella
produzione edilizia successiva alla data suddetta».
In breve
La
circolare Mic 4/2021 stabilisce in venti giorni il termine per esprimere
l’autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell’Allegato B del Dpr
31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici
all’attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla
osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 42/2017, la
sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a “cappotto”
(con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica
significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere
ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella
riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri
l’aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il
27 febbraio, recte
nota 17.02.2021 n.
2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l’applicazione di “cappotti”
o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della
facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non
compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui
realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi per i quali potrà
essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva
nota del 16 marzo, recte
nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima
entità»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.03.2021). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le sovrintendenze: edifici ante 1945 sotto esame prima dl
cappotto. Stop al cappotto se non si passa
prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945.
Stabilito in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione
paesaggistica.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4
dei Beni culturali, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive,
definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche
significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica
prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall'intervento».
Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili
di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa
l'edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli
interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino
lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici» come stabilito
dall'articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche
tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi
obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia
storica così come definiti nella
circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che
costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere
individuato il carattere "contemporaneo" del patrimonio architettonico ed
edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura
anch'essa diffusa, quale "patrimonio del secondo Novecento"): ciò sulla base
della considerazione dell'indubbia cesura, sia sotto il profilo delle
tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi
architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data
suddetta».
La
circolare 4/2021 Mibact stabilisce in venti giorni il termine per
esprimere l'autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell'Allegato B
del Dpr 31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato
gli uffici all'attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio
dei nulla-osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della
circolare 21.07.2017 n. 42, la sola fattispecie di immobili per
la quale anche il rivestimento a "cappotto" (con un accrescimento
apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue
caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi
indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili
realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l'aspetto esteriore anche per
le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il 27
febbraio, recte
nota 17.02.2021 n.
2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva
l'applicazione di "cappotti" o intonaci con caratteristiche termoisolanti
sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico
appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta
eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo
post-bellico e per casi peri quali potrà essere svolta una verifica puntuale»,
ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte
nota 15.03.2021)
la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità» (articolo
Il Sole 24 Ore del 31.03.2021). |
ANNO 2020 |
|
aggiornamento al
29.02.2020 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate senza comunicazione alle Entrate. È stato superato
l'avviso al Centro operativo di Pescara.
Anche per il bonus facciate, come per gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio, non è necessario, alla fine dei lavori, inviare al
Centro operativo di Pescara, la «dichiarazione di esecuzione» degli
stessi, se questi sono di importo superiore a 5.645,69 euro. La norma
istitutiva della nuova detrazione Irpef e Ires del 90% a sulle facciate
esterne degli edifici prevede che si applichino le disposizioni del decreto
del ministro delle Finanze 41/1998.
Pertanto, tutti i contribuenti (anche se imprese) devono indicare nella
propria dichiarazione (730 o Redditi) i dati catastali dell'immobile e gli
eventuali estremi di registrazione dell'atto di detenzione (locazione o
comodato). Questo adempimento ha sostituito dal 14.05.2011 la comunicazione
che doveva essere effettuata al Centro di Pescara, prima dell'inizio degli
interventi di recupero del patrimonio edilizio (articolo 7, comma 2, lettera
q, decreto legge 70/2011); in ogni caso, i dati catastali non vanno
riportati se gli interventi sono influenti dal punto di vista termico o
interessano oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda
dell'edificio (circolare 2/E/2020).
Ancora oggi l'articolo 1, comma 1, lettera d), del decreto 41/1998 prevede
che, per gli interventi oltre 51.645,69 euro, si debba inviare al Centro di
Pescara, al termine dei lavori, una dichiarazione di esecuzione lavori,
sottoscritta da un soggetto iscritto all'albo ingegneri, architetti e
geometri o altro soggetto abilitato all'esecuzione degli stessi. Anche per
il bonus facciate, però, dovrebbe valere il chiarimento della circolare
13/E/2013, secondo la quale, dall'01.01.2012, questa dichiarazione non è più
necessaria ai fini dei controlli, considerando che il provvedimento delle
Entrate 149646/2011, relativo ai documenti da conservare, dall'01.01.2012,
ai fini della detrazione per gli interventi sul recupero del patrimonio
edilizio non ha citato questa comunicazione.
Una conferma di ciò deriva anche dal silenzio su questo adempimento da parte
della circolare del 2/E/2020.
Anche per il bonus facciate, invece, i contribuenti devono conservare ed
esibire, in caso di controllo, i documenti indicati nel citato provvedimento
del 02.11.2011:
• le abilitazioni amministrative richieste (Scia, Cila o altro) o
l'autocertificazione relativa al non obbligo di alcun titolo abilitativo
(come per la manutenzione ordinaria) e della data di inizio lavori;
• l'eventuale accatastamento per gli immobili non censiti;
• le ricevute di pagamento dell'Imu, se dovuta;
• le ricevute di pagamento degli altri «tributi locali sugli
immobili» (adempimento aggiunto dalla circolare 2/E/2020);
• l'eventuale delibera di approvazione di esecuzione lavori per
parti comuni e tabella millesimale;
• l'eventuale dichiarazione di consenso del possessore
all'esecuzione dei lavori, se gli stessi sono effettuati dal detentore del
bene che non è un convivente;
• l'eventuale comunicazione preventiva all'Asl, se prevista
dall'articolo 99, comma 1, Dlgs 81/2008;
• fatture e ricevute fiscali della spesa e ricevute dei bonifici «parlanti».
La mancata effettuazione dei predetti adempimenti non consente la fruizione
del bonus facciate
(articolo
Il Sole 24 Ore 29.02.2020 - tratto da www.fondazionecni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus Facciate: il MEF risponde a una interrogazione sulle zone A
e B.
“L’emanazione di tavole di raccordo finalizzate ad
individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente
classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle
competenze dell’Amministrazione finanziaria. Sarà cura dell’Amministrazione
finanziaria valutare la spettanza dell’agevolazione in argomento sulla base
delle peculiarità del caso concreto”.
Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-03670 - risposta
26.02.2020 in Commissione VI (Finanze) Camera dei Deputati (On.
Gian Mario Fragomeli).
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INTERROGAZIONE
Per sapere –premesso che:
- l'articolo 1, commi da 219 a 224, della legge 27.12.2019, n. 160,
recante la legge di bilancio 2020, ha introdotto l'agevolazione fiscale per
gli interventi finalizzati al recupero o al restauro degli edifici esistenti
che, nello specifico, consente una detrazione dall'imposta lorda pari al 90
per cento delle spese sostenute per gli interventi finalizzati al recupero o
al restauro della facciata esterna degli edifici esistenti ubicati in zona A
o B, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, cosiddetto «bonus
facciate»;
- in particolare, la parte corrispondente alla zona A è spesso
identificata con l'ambito storico del comune e la parte corrispondente alla
zona B è associata agli ambiti residenziali; la legge esclude invece
dall'agevolazione i proprietari di immobili situati nelle Zona C, le
cosiddette «aree di espansione urbanistica»;
- la guida dell'Agenzia delle entrate afferma che è possibile
riferirsi a zone assimilabili alle categorie A o B, specificando che: «L'assimilazione
alle zone A o B della zona territoriale nella quale ricade l'edificio
oggetto dell'intervento dovrà risultare dalle certificazioni urbanistiche
rilasciate dagli enti competenti»;
- in alcuni piani urbanistici predisposti dalle amministrazioni
comunali non vi è alcun riferimento alle zone A o B sostituite, invece, da
altre sigle;
- nella regione Lombardia, ad esempio, i piani delle regole (Pdr)
più recenti, utilizzano il concetto di tessuto urbano consolidato (Tuc) del
territorio che ha sostituito il lessico originario della zonizzazione; in
questo caso si parla di aree P1, considerate non completate e quindi escluse
dal «bonus facciate» e di aree P2 coincidenti con le zone che in
altre regioni danno diritto al bonus;
- è necessario, al fine di applicare il «bonus facciate» in
maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, predisporre una
ricognizione urbanistica per individuare in maniera ufficiale le
equipollenze–:
●
se non ritenga necessario assumere le iniziative di competenza per definire
quanto prima, le tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di
ricognizione urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad
individuare in maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente
sono individuate in maniera differente ma che risultano comunque
compatibili, al fine di applicare il «bonus facciate» in maniera
omogenea su tutto il territorio nazionale.
RISPOSTA
Con il documento in esame gli Onorevoli interroganti fanno riferimento
all'agevolazione fiscale introdotta dall'articolo 1, commi da 219 a 224,
della legge n. 160 del 2019, per gli interventi finalizzati al recupero o
restauro degli edifici esistenti ubicati nelle zone A o B ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (c.d. bonus facciate).
In relazione a detta agevolazione la Guida predisposta dall'Agenzia delle
entrate afferma che è possibile riferirsi a zone assimilabili alle categorie
A o B in base alle risultanze delle certificazioni urbanistiche rilasciate
dagli enti competenti.
Gli Onorevoli interroganti, evidenziano tuttavia che «in alcuni piani
urbanistici predisposti dalle amministrazioni comunali non vi è alcun
riferimento alle zone A o B sostituite invece da altre sigle», e, pertanto,
chiedono di sapere se non si ritiene necessario «emanare quanto prima le
tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di ricognizione
urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad individuare in
maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente sono
individuate in maniera differente ma che risultano comunque compatibili al
fine di applicare il bonus facciate in maniera omogenea su tutto il
territorio nazionale».
Al riguardo, si precisa che l'emanazione di tavole di raccordo finalizzate
ad individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente
classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle
competenze dell'Amministrazione finanziaria.
Sarà cura dell'Amministrazione finanziaria valutare la spettanza
dell'agevolazione in argomento sulla base delle peculiarità del caso
concreto. |
EDILIZIA PRIVATA: Facciate,
agevolazione estesa ai titolari di reddito d’impresa.
I chiarimenti delle Entrate sulla detrazione per la riqualificazione
esterna degli edifici.
Detrazione del 90% in dieci quote annuali costanti per chi, nel 2020, decida
di riqualificare la facciata esterna del proprio edificio. Platea ampia
inoltre tra i soggetti beneficiari dell'agevolazione vista l'estensione,
oltre che alle persone fisiche e ai lavoratori autonomi, anche al mondo
delle imprese. Agevolabili infine non solo la semplice pulitura o
tinteggiatura della facciata ma anche interventi su balconi, su grondaie,
sui cornicioni nonché sui cappotti termici.
Sono questi i principali aspetti presenti nella
circolare 14.02.2020 n. 2/E
dell'Agenzia delle entrate.
L'agevolazione.
Pubblicate le istruzioni dell'Agenzia delle entrate per usufruire del
cosiddetto bonus facciate. La detrazione, da ripartire in dieci quote
annuali costanti, è pari al 90% della spesa sostenuta senza limiti di tetto
massimo detraibile e di spesa ammissibile. Gli edifici sui quali si
eseguiranno interventi finalizzati al recupero della struttura opaca del
perimetro esterno (vale a dire tutti gli elementi che compongono l'involucro
esterno dell'edificio esclusi infissi e vetrate) dovranno però interessare
gli immobili (di qualsiasi categoria catastale) che si trovino nelle zone A
e B del
decreto ministeriale 1444/1968.
L'art. 2 di tale decreto definisce la zona A come quella parte del
territorio interessata da agglomerati urbani che rivestano carattere
storico, artistico e di particolare pregio ambientale. La zona B invece
comprende le parti del territorio urbano edificato ove la superficie coperta
dagli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% della superficie
fondiaria della zona. Ciò detto, sarà comunque fondamentale farsi rilasciare
un certificato da parte del comune competente che attesti la localizzazione
dell'immobile in una delle due zone descritte.
Veniamo ora alle modalità di fruizione: a differenza se i beneficiari siano
persone fisiche (o esercenti arti e professioni) o titolari di reddito
d'impresa (imprese individuali, società di persone, società di capitali o
enti commerciali) il criterio da seguire varierà. Nel primo caso infatti
varrà il principio di cassa: si terrà dunque conto della data dell'effettivo
pagamento a prescindere da quando siano effettivamente iniziati gli
interventi cui i pagamenti si riferiscono: l'intervento per esempio iniziato
nel 2019 ma con pagamenti nel 2020 beneficerà pienamente del bonus.
Viceversa, pagamenti avvenuti in parte nel 2019 e in parte nel 2020,
renderanno ammissibile il bonus facciate solo rispetto a questi ultimi.
Discorso ben diverso va fatto rispetto ai titolari di reddito di impresa per
cui varrà il principio di competenza: il riferimento è ai lavori effettuati
durante l'arco 2020 a prescindere dalla data dei pagamenti e dalla data di
avvio degli interventi.
I beneficiari e i titoli abilitativi.
La platea, rispetto alle altre agevolazioni fiscali, è estremamente amplia
coinvolgendo tutti i contribuenti residenti e non che sostengono spese per
l'esecuzione degli interventi agevolati a prescindere dalla tipologia di
reddito di cui sono titolari. Gli unici esclusi sono i redditi assoggettati
a tassazione separata o a imposta sostitutiva (come per esempio le attività
che aderiscono al regime forfettario) a meno che gli stessi non posseggano
altri redditi che concorrano alla formazione del reddito complessivo.
Volendo dare un elenco esaustivo, rientrano nell'agevolazione le persone
fisiche (includendo tra queste gli esercenti arti e professioni), gli enti
pubblici e privati che non svolgono attività commerciale, le società
semplici, le associazioni tra professionisti e i soggetti che conseguono
reddito d'impresa (includiamo in tale categoria le ditte individuali, gli
enti commerciali, le società di persone e le società di capitali). Il bonus
spetta infine ai possessori o ai detentori dell'immobile in base a un titolo
idoneo al momento dell'avvio dei lavori o al sostenimento della spesa se
antecedente l'avvio.
Ai fini del possesso, varrà la qualifica di proprietario, di nudo
proprietario o di titolare di diritto reale di godimento (usufrutto, uso,
abitazione o superficie). Nel caso di detenzione invece, bisognerà disporre
di regolare contratto di affitto o di comodato registrato oltre ad avere il
consenso all'esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
I lavori agevolabili.
La ratio dell'agevolazione è quella di incentivare interventi che
vadano a migliorare il decoro urbano pur conservando l'organismo edilizio
nel rispetto della forma e della struttura. Oltre dunque al classico
intervento di pulitura e tinteggiatura esterna sulle strutture opache della
facciata, la circolare ha chiarito che vi rientrano anche quelli su balconi,
ornamenti e fregi.
Ancora, sono agevolabili lavori riferiti alle grondaie, ai pluviali, ai
parapetti, ai cornicioni e alla sistemazione di tutte le parti
impiantistiche che insistono sulla parte opaca della facciata oltre
all'acquisto di materiali (utile nel caso di lavori in economia o di
utilizzo di sola manodopera). Vi sono inoltre una serie di spese «collaterali»
che beneficiano comunque del 90% come per esempio la progettazione e le
prestazioni professionali connesse, l'effettuazione di perizie e il rilascio
di eventuali attestati di prestazione energetica, l'installazione di
ponteggi, lo smaltimento di materiali rimossi e l'Iva qualora non vi siano
le condizioni per poterla detrarre.
In ultimo (si veda l'approfondimento nella pagina seguente), accedono al
beneficio del 90% anche gli interventi sulla facciata influenti da un punto
di vista termico (i cosiddetti cappotti termici) o che interessino oltre il
10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva
dell'edificio.
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Per le società vale la competenza.
La grande novità del bonus
facciate riguarda il diverso principio applicativo nel caso di
ristrutturazione della facciata esterna da parte di persone fisiche e in
quello di reddito d'impresa. Mentre per le prime varrà, come siamo abituati
oramai anche per gli altri bonus casa, il principio di cassa, per le società
bisognerà invece guardare alla competenza economica.
Ciò sarà valido, non solo per le società in contabilità ordinaria ma, in
generale, per tutti i soggetti titolari di reddito d'impresa (non vien fatta
eccezione per i soggetti che applichino il principio di cassa pura né per
quelli che applichino il principio di cassa con presunzione di incassi e
pagamenti delle fatture registrate): la circolare, prevede infatti che la
competenza si applichi «a prescindere dalla circostanza che il soggetto
beneficiario applichi tale regola per la determinazione del proprio reddito
imponibile ai fini delle imposte sul reddito».
Diverrà dunque fondamentale la data di ultimazione lavori: trattandosi
infatti di servizi, in base all'art. 109 del Tuir, comma 2, lett. b), la
spesa si intenderà sostenuta alla data di ultimazione della prestazione.
Soprattutto nelle ipotesi di chiusura lavori a cavallo tra due esercizi
dunque, il suggerimento, onde evitare che venga disconosciuto il primo
decimo di detrazione, sarà proprio quello di ultimare i lavori entro il
31/12 (questo anche da un punto di vista formale mediante le relative
comunicazioni da fare ai competenti enti).
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L’iter per non fare passi falsi. Fondamentali alcuni
adempimenti per evitare il futuro disconoscimento del bonus.
Pagamenti mediante bonifico dal quale risultino causale,
codice fiscale del beneficiario e numero di partita Iva del fornitore,
indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali identificativi
dell'immobile oggetto dell'agevolazione, conservazione delle ricevute di
pagamento dei tributi locali sugli immobili e copia della delibera
assembleare qualora gli interventi riguardino parti comuni di edifici
residenziali.
Sono questi, in breve, alcuni degli adempimenti da porre in essere per
evitare un possibile disconoscimento del bonus facciate da parte del fisco.
Adempimenti delle persone fisiche.
Le persone fisiche (compresi gli esercenti arti e professioni) sono chiamate
a porre estrema attenzione nelle procedure da seguire per ottenere il
riconoscimento fiscale. Innanzitutto le modalità di pagamento: come per l'ecobonus
e per il bonus casa è previsto, anche in questo caso, il cosiddetto bonifico
parlante (cui la banca applicherà la ritenuta di acconto dell'8%).
La circolare prevede espressamente che il bonifico, bancario o postale,
debba contenere la causale del versamento, il codice fiscale del
beneficiario e il numero di partita Iva del soggetto a favore del quale è
effettuato. Considerando che la modulistica non è ancora adeguata con la
nuova causale relativa al «bonus facciate», sarà comunque possibile
utilizzare i bonifici parlanti utilizzati per l'ecobonus o per gli
interventi di recupero del patrimonio edilizio.
Altro aspetto formale su cui bisogna porre attenzione è la compilazione del
modello unico. Andranno infatti indicati non solo i dati catastali
identificativi dell'immobile ma anche, qualora i lavori fossero eseguiti dal
detentore, gli estremi di registrazione dell'atto che ne costituisce titolo.
Ancora, andrà comunicato da un lato alla Asl competente, in maniera
preventiva, l'inizio lavori qualora tale comunicazione sia obbligatoria in
base alle disposizioni in materia di sicurezza dei cantieri e, dall'altro,
andranno richieste (sempre prima dell'inizio lavori) al comune le
abilitazioni necessarie sulla base della tipologia dei lavori da realizzare.
Infine, in caso di lavori effettuati dal detentore dell'immobile, sarà
necessaria una dichiarazione di consenso del proprietario all'esecuzione dei
lavori. Veniamo ora alla documentazione che va conservata e, se del caso,
esibita in seguito a controlli. Innanzitutto andranno conservate tutte le
fatture e le relative ricevute del bonifico di pagamento (bonifici eseguiti
con le modalità descritte sopra).
Nel caso in cui l'agevolazione si riferisca ad immobili non ancora censiti,
andrà conservata copia della domanda di accatastamento. Qualora invece
oggetto del bonus facciate sia una parte comune di edifici residenziali,
andrà conservata copia della delibera assembleare di approvazione
dell'esecuzione dei lavori e tabella millesimale di ripartizione delle spese
valida in quel momento. Infine, la circolare precisa espressamente che
andranno conservate le ricevute di pagamento dei tributi locali sugli
immobili qualora dovute.
Adempimenti in caso di interventi di efficienza energetica.
Nel caso in cui l'intervento sulla facciata esterna sia influente da un
punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco, oltre agli
adempimenti sopra descritti se ne aggiungeranno degli altri tipici della
riqualificazione energetica. Stiamo parlando, nello specifico, di due
ulteriori adempimenti e di una comunicazione.
Il primo adempimento si riferisce all'acquisizione e alla conservazione
dell'asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi la corrispondenza
degli interventi effettuati rispetto ai requisiti tecnici richiesti. Tale
asseverazione può anche essere sostituita con quella resa dal direttore
lavori sulla conformità al progetto.
Il secondo riguarda invece l'attestato di prestazione energetica (Ape) che
dovrà essere redatto da un tecnico non coinvolto nei lavori e per ogni
singola unità immobiliare per cui si richiedono le detrazioni fiscali. Per
quanto riguarda invece la comunicazione, così come previsto per gli
interventi da ecobonus, dovrà essere inviata all'Enea, entro i successivi 90
giorni dall'ultimazione dei lavori, la scheda descrittiva relativa agli
interventi realizzati.
Adempimenti dei titolari di reddito d'impresa.
Tutti gli adempimenti previsti per le persone fisiche e tutta la
documentazione da conservare sono validi anche per i titolari di reddito
d'impresa con un'unica differenza: non è obbligatorio il pagamento mediante
bonifico in quanto il momento dell'effettivo pagamento è irrilevante
valendo, per tale categoria di contribuenti, il principio di competenza
economica e non quello di cassa. Andranno inoltre rispettati gli ulteriori
adempimenti descritti nel precedente paragrafo qualora l'intervento sia
influente da un punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco
del bene.
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Anche il cappotto termico è agevolabile.
Gli interventi di efficienza energetica sulla facciata
esterna dell'edificio seguono il bonus del 90%. Da un lato il cappotto
termico, dall'altro tutti gli interventi che interessano oltre il 10%
dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio
sono infatti agevolabili con il vantaggioso bonus facciate invece del 65%.
È quanto chiarito dalle Entrate sia nella guida fiscale sia nella
circolare 14.02.2020 n. 2/E, emanate la scorsa settimana.
Affinché ciò sia dunque possibile, occorre che i suddetti lavori soddisfino
contemporaneamente due requisiti: da un lato i requisiti indicati dal Mise
nel decreto del 26.06.2015 e dall'altro i valori limite di trasmittanza
termica delle strutture componenti l'involucro edilizio. Gli unici immobili
esclusi da tale agevolazione sarebbero quelli di notevole interesse pubblico
quando, il rispetto delle suddette prescrizioni, implichi un'alterazione
sostanziale del loro carattere o aspetto (si pensi ai profili storici,
artistici o paesaggistici).
Viene chiarito inoltre come approcciare al calcolo del 10% dell'intonaco: in
sostanza l'intervento dovrà interessare l'intonaco per oltre il 10% della
superficie lorda complessiva disperdente (pareti verticali, pavimenti,
tetti, infissi) confinanti con l'esterno, vani freddi o terreno. Se
l'intervento dovesse riferirsi ad una facciata rivestita di piastrelle o
altri materiali che impossibilitano interventi termicamente influenti (se
non mutando l'aspetto dell'edificio), il limite del 10% andrà calcolato
rapportando la superficie della facciata interessata dall'intervento e la
superficie totale della superficie disperdente.
La circolare ricorda infine che per gli interventi di efficienza energetica
sulle facciate, ai fini delle verifiche e dei controlli, si applicano le
stesse procedure previste per la riqualificazione energetica degli edifici
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate, cosa fare se si pensa che il Comune sbagli. Esistono tre strade.
Sul bonus facciate c’è ancora da chiarire. Ovviamente non per chi è
palesemente in zona A e B e quindi ha accesso al bonus del 90 per cento.
Stiamo parlando invece di chi va in Comune e gli viene detto che l’immobile
è in zona è C e quindi escluso dall’agevolazione. Ma se il cittadino non
fosse pienamente convinto?
Il quesito
Il tema odierno è quindi il seguente: se un privato cittadino/amministratore
di condominio si reca all’ufficio tecnico del Comune A dove un geometra gli
fa vedere la planimetria dove sorge l’edificio dicendo: «Guardi, essendo
la sua area classificata “Ambito urbano consolidato (R1)“ per quanto mi
riguarda è zona C. Quindi non ha diritto all’esenzione» cosa può fare se
non è convinto?
La dicitura "ambito urbano consolidato" gli sembra lessicalmente
idonea per avere il bonus del 90% ma di fronte alla sicurezza del dipendente
comunale non gli resta che incassare e informarsi per vedere se tante le
volte il giudizio del Comune è in qualche modo modificabile.
Anche un professore universitario, interpellato, ha espresso perplessità
sulla risposta del tecnico comunale.
E anche un collega del geometra del Comune A gli dice che è probabile che si
stia sbagliando. Quindi? Mettiamo i primi punti fermi.
La certificazione ai fini del bonus
L’agenzia delle Entrate la considera obbligatoria mentre il ministero no.
Comunque sia, questo il contenuto della mail dell’ufficio tecnico del Comune
B.
«Le certificazioni di ordine urbanistico emesse da questo ufficio,
assimilabili a quella indicata nella circolare che cita (la
circolare 14.02.2020 n. 2/E),
genericamente riportano la zona urbanistica in cui ricade il mappale di cui
si richiede, appunto, la certificazione oltre ogni altro vincolo posto
all’attività edilizia.
Di norma nella certificazione non riportiamo gli indicatori planivolumetrici
previsti dal piano urbanistico (indici di fabbricazione, rapporto di
copertura e così via), perché riportati nelle norme tecniche, tra l’altro
non utili per la finalità fiscale di cui chiede; ciò non toglie che se ne
avesse bisogno, basterà specificarlo nella domanda di certificato di
destinazione urbanistica e l’ufficio li espliciterà nel testo del
provvedimento.
Debbo però rammentarle che questo ufficio non si occupa di incentivi e di
sgravi fiscali applicabili alle opere edilizie, quindi per ogni
approfondimento in merito le converrà sentire dei commercialisti o
fiscalisti».
Prima presunta certezza
Per avere nel certificato gli indicatori planivolumetrici -cioè per
verificare se la superficie coperta dall’edificio sia superiore al 12,5% (un
ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità
territoriale sia superiore a 1,5 m3/m2- bisogna chiederli appositamente.
Zone A, B e C a macchia di leopardo
Con il Comune B c’è stata anche una conversazione telefonica al termine
della quale si è saputo che:
1) ci sono Comuni della Lombardia dove i documenti urbanistici
fanno ancora riferimento alle zone A, B e C;
2) che nel caso di specie è possibile che il Comune A, in cui è
utilizzato un piano del governo del territorio con la nuova terminologia
(R1, R2 e così via), per sapere se l’edificio dove si trova l’edificio vada
a vedere il vecchio piano regolatore, per esempio degli anni 80, e dica cosa
risulta lì. «Ma -sempre per il Comune B- sarebbe sbagliato fare così
perché la zonizzazione degli anni ’80 va sostituita con quella attuale
tramite un’interpretazione e un’attualizzazione della norma».
Cosa fare/1
Bisogna cercare sul sito del Comune A il piano delle regole e vedere cosa
dice la relazione illustrativa a proposito della zonizzazione dell’edificio.
Nel caso in questione l’“Ambito consolidato urbano” R1 viene
definitivo «la categoria caratterizzata da un’edificazione con tipologia
edilizia mista. Tale ambito connota la gran parte del terreno edificato e
rappresenta la crescita storica e recente del paese nella sua complessità».
Poi va preso il
decreto 1444/1968 in cui come zona B viene definita quella «composta
dalle parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse
dalle zone A, cioè quella a carattere storico, artistico e di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che
possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli
agglomerati stessi».
Sempre nel decreto 1444/1968 si definiscono parzialmente edificate le zone
in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al
12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la
densità territoriale sia superiore a 1,5 mc/mq;
In conclusione
Il Comune B -che peraltro come detto ha ancora planimetrie indicanti le zone
A, B e C- suggerisce di convincere il Comune A che bisogna andare al di là
degli indicatori planivolumetrici ma non è così facile. Ecco l’ultima
risposta:
«Purtroppo il nostro mandato è fornire un supporto nell’interpretazione
delle norme urbanistiche vigenti nel nostro comune, mentre lei necessita di
un professionista di parte che analizzi il suo caso e controbatta
l’interpretazione del collega del lecchese.
Potrebbe
1) contattare l’estensore del Piano per chiedergli
un’interpretazione univoca della corrispondenza fra azzonamento vigente e
zone ex Dm 1444/1968, oltre
2) a sollecitare un confronto con il tecnico comunale -il tema, del
resto, non interessa solo lei, ma tutti i cittadini nella stessa condizione.
Detto questo, le rammento comunque che:
a) le Zone C sono di espansione, qui ciò che è già costruito
all’approvazione del piano dovrebbe essere o B o A;
b) se si prendessero a riferimento solo i parametri urbanistici per definire
le zone di appartenenza,
3) basta verificare se le zone edificate classificate come R1 e
simili hanno residui volumetrici oppure no; nel secondo caso,
indipendentemente dai parametri stabiliti dal Dm, i lotti saranno da
considerarsi “saturi” (cioè senza ulteriore possibilità di ampliarsi) e
conseguentemente non posso essere classificati come zone C (zone di
espansione)».
Il problema è che un amministratore di condominio non ha tempo per aspettare
la risposta (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate, il Mibact «corregge» le Entrate sulle zone. Il documento
servirebbe solo se il Comune non ha mai applicato il Dm 1444/1968.
La nebbia si va diradando sulla questione delle zone A e B, nelle quali deve
trovarsi l’edificio per beneficiare del bonus facciate con la detrazione del
90% delle spese.
Mentre passano i giorni (i pagamenti devono essere effettuati nel 2020) la
circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate ha già chiarito molti aspetti importanti (si veda il
Sole 24 Ore del 15 e 16 febbraio) ma rimane un aspetto centrale, legato
all’ubicazione degli edifici su cui effettuare i lavori. La legge 160/2019
parla infatti delle sole zone A e B indicate nel
Dm 1444/1968.
Nel concreto, l’individuazione delle zone non sembra semplice, perché nei
Piani di governo del territorio o nei Prgc (ma si tratta solo di due sigle
tra molte) le denominazioni A e B non esistono più, sostituite a volte da
“R” o “AC-R” o altre ancora, dove la lettera R di solito indica la
destinazione residenziale di un'area o una zona di riqualificazione.
Insomma, a poco a che fare con le zone da A a F indicate nel decreto del
1968 e avere un piano regolatore con la zonizzazione da A a F, a quanto
risulta al Sole 24 Ore, sembra piuttosto raro.
Il Mibact, con la lettera del Capo di gabinetto Lorenzo Casini (nota
19.02.2020 n. 4961 di prot.) inviata a una serie di sindaci piemontesi, ha però
spiegato che il
decreto 1444/1968 non imponeva ai Comuni «di applicare
meccanicamente la suddivisione in zone e la conseguente denominazione ivi
previste. Il decreto, invece, identifica zone omogenee al fine di stabilire
le dotazioni urbanistiche, i limiti di densità edilizia, le altezze e le
distanze tra gli edifici».
Per ottenere il beneficio, quindi, basta «che gli edifici si trovino in
aree che, indipendentemente dalla loro denominazione, siano riconducibili o
comunque equipollenti a quelle A o B descritte dal Dm 1444/1968:
un’informazione ricavabile proprio come quando le amministrazioni debbono
applicare i limiti di densità edilizia (...)».
Quindi, prosegue il Mibact, «è evidente che nella maggior parte dei
centri abitati per i cittadini non sarà necessario rivolgersi
all’amministrazione locale per sapere in quale zone si trova l’immobile,
potendo ricavare agevolmente tale informazione dagli strumenti urbanistici
ed edilizi comunali».
Anzi, il Mibact si spinge anche più in là, affermando che la certificazione
urbanistica, che per la guida delle Entrate (e per la
circolare 14.02.2020 n. 2/E,
pagina 7) è indispensabile per l’assimilazione alle zone A e B della zone in
cui sorge l’edificio, va richiesta solo nei casi «verosimilmente
limitati, in cui un Comune mai ha adottato un qualsiasi atto che abbia
implicato l’applicazione del
Dm 1444/1968 nel proprio territorio. In tutte
le altre ipotesi, infatti, la stessa guida non richiede specifici
adempimenti e la ubicazione dell’immobile in area A o B, o equipollente in
base agli strumenti urbanistici ed edilizi del Comune, può facilmente essere
accertata dai soggetti interessati».
Ogni comune interessato, su richiesta dei cittadini e dei condomìni, dovrà
quindi fare una ricognizione sul proprio territorio e individuare le «equipollenze»
ed eventualmente rilasciare la certificazione urbanistica indicata dalle
Entrate (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate, cappotto termico limitato da piastrelle e rivestimenti. Se la
copertura è integrale non scatta l’obbligo dei lavori «termici». In caso di
interventi solo su una parte «trasmittanza» calcolata in proporzione.
Poche righe in una circolare di venti pagine, ed ecco il
risparmio energetico previsto nel bonus facciate molto ridimensionato.
Nonostante le battaglie di chi, in fase di predisposizione della norma,
aveva chiesto di incentivare in maniera robusta, oltre al decoro urbano,
anche la realizzazione dei cappotti termici.
La
circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate, dedicata al
bonus facciate, afferma infatti che, a differenza di quanto indicato nella
legge 160/2019 (dove di fatto si rende obbligatorio il cappotto termico per
gli edifici quando si rifanno gli intonaci per oltre il 10% della superficie
opaca), quando le facciate sono rivestite in piastrelle o con altri
materiali «che non rendono possibile realizzare interventi influenti dal
punto di vista termico se non mutando completamente l’aspetto dell’edificio»,
bisogna fare un conto diverso.
È necessario, cioè, eseguire «il rapporto tra la restante superficie
della facciata interessata dall’intervento e la superficie totale lorda
complessiva della superficie disperdente». Quindi, se la superficie
opaca della facciata è di mille metri quadrati, ma di questi sono coperti di
piastrelle (in genere il “klinker”), il 20% risulta essere la parte
da considerare.
Ma se le piastrelle ricoprono tutto l’edificio, allora non c’è alcun obbligo
di fare lavori per il risparmio energetico. In pratica, i lavori di
rifacimento delle parti ammalorate beneficeranno della detrazione del 90%
senza investimenti ulteriori.
In questo modo, allora, si limitano moltissimo i casi nei quali sarà
obbligatorio investire in un cappotto termico.
Per non parlare degli edifici dove siano presenti anche gli «altri
materiali» di cui parla la circolare delle Entrate. Si tratta di una
definizione parecchio ampia che include praticamente tutti gli edifici di un
certo pregio realizzati tra l’inizio del Novecento e gli anni Venti: in
tutti questi casi, niente lavori di risparmio energetico.
C’è poi da considerare che tutte queste esclusioni avranno un impatto molto
significativo sul calcolo dell’efficienza energetica dell’edificio.
Sarà, cioè, molto frequente il caso di facciate nelle quali alcune parti non
saranno considerate nella misurazione di quella che tecnicamente viene
definita “trasmittanza”.
Un vero e proprio slalom per i tecnici, che dovranno capire come verificare
il rispetto dei parametri fissati dal ministero dello Sviluppo economico e
richiamati dalla circolare dell’agenzia delle Entrate.
Per Diego Zoppi, consigliere nazionale degli architetti, la soluzione è
semplice: «La trasmittanza si misura su singole sezioni murarie omogenee
e si moltiplica per la superficie di riferimento. Cioè, ogni volta che c’è
un certo tipo di muro si calcola la trasmittanza e poi si applica quel
valore all’area della parete verticale». In base a questo principio è
allora possibile misurare la trasmittanza anche su superfici disomogenee.
All’atto pratico, per Zoppi, questo calcolo «non dovrebbe creare problemi».
Nel caso di chi interviene su facciate storiche o che comunque non possono
essere modificate, sarà però possibile -conclude Zoppi- usufruire «delle
agevolazioni anche non soddisfacendo i parametri di legge sul risparmio
energetico».
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IN SINTESI
1. Le piastrelle - Se la facciata è ricoperta da piastrelle o altri
materiali per cui gli interventi “termici” non si potrebbero
realizzare senza cambiare l’aspetto dell’edificio, scompare l’obbligo di
effettuare questi interventi, che negli altri casi scatta quando i lavori
sulle parti ammalorate superano il 10% delle superfici opache
2. La trasmittanza - Anche quando si interviene solo su una parte
della facciata, quella priva di piastrelle o di materiali particolari, il
rispetto dei requisiti di trasmittanza per i lavori termici (qualora
obbligatori) è possibile perché il calcolo verrà fatto sulla parte
interessata (articolo Il Sole
24 Ore del
20.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate, Italia divisa in due sulle aree ammesse al
credito d’imposta. Alcune Regioni (come la Lombardia) nelle planimetrie non
usano la divisione in zone A, B e C. Serve una tabella di corrispondenza tra
le definizioni.
Il bonus facciate presenta un
punto critico in merito all’ubicazione dell’edificio ammesso al credito
d’imposta del 90% delle spese sostenute. Una problematica che accomuna le
facciate esterne tanto degli edifici condominiali quanto di quelli con un
unico proprietario. I riferimenti generali sono la legge di Bilancio 2020,
la
circolare 14.02.2020 n. 2/E
e il
decreto ministeriale 1444/1968.
Il problema si pone perché in regioni come, per esempio, la Lombardia e la
Liguria ci sono Comuni che non usano più, nei propri strumenti urbanistici,
le definizioni zona A, B e C come invece, a titolo esemplificativo fanno
ancora oggi la Puglia e la Sicilia, ma utilizzano nuovi termini. Come ambito
storico, ambiti residenziali -con sigle da R1 a R4- e ambiti di
trasformazione .
Un problema di «traduzione»
Definizioni su cui si è cimentato un cattedratico di urbanistica da noi
sentito per il quale -anche se guardando solo una legenda e non la relativa
planimetria di un Comune lombardo- «è sicuramente zona omogenea A
l’ambito storico ed è quasi sicuramente zona omogenea B l’ambito
residenziale consolidato mentre non si evince se gli altri ambiti
residenziali R2 e R3 e soprattutto gli ambiti di trasformazione abbiano i
requisiti previsti dal
Dm
1444/1968 per essere considerati zona omogenea B oppure zona
omogenea C».
Questa l’opinione di Roberto Mascarucci, professore ordinario di urbanistica
all’università d’Annunzio di Chieti-Pescara e presidente dell'Inu (Istituto
nazionale di urbanistica), sezione Abruzzo e Molise.
Invece, a detta dell’ufficio tecnico del Comune in oggetto, all’interno
dell’ambito residenziale, quello consolidato (R1) è invece assimilato
all’area C e quindi escluso dal bonus. Dietro al parere del Comune -l’ente
competente citato dalle Entrate per il rilascio della certificazione- non
c’è una delibera in cui ogni nuova definizione è stata ricondotta alle zone
A, B e C ma il rinvio al vecchio piano regolatore che andrebbe però
interpretato e attualizzato.
Altra cosa è farsi domande sulla praticabilità di un’istanza di un cittadino
che, a seguito di una relazione tecnica, riuscisse a provare al Comune che
nella planimetria c’è un errore e che il proprio immobile soddisfa i
requisiti dell’area B e ha diritto alla certificazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
facciate 2020 escluso per i cortili chiusi. Detrazione del 90% anche sui
cappotti termici. Sono inclusi i costi dei progetti, dei ponteggi, dei
balconi e delle grondaie.
Sono state pubblicate le
indicazioni dell’agenzia delle Entrate per usufruire del «bonus facciate»,
la detrazione fiscale del 90% delle spese sostenute per gli interventi di
recupero o restauro della facciata esterna degli edifici esistenti, prevista
dalla legge di Bilancio 2020.
Nel testo si ricorda che la super detrazione fiscale si recupera in dieci
rate annuali di pari importo e che è esclusa la formula della cessione del
credito/sconto in fattura prevista per gli ecobonus.
Solo sul perimetro esterno
La
circolare 14.02.2020 n. 2/E spiega che l’agevolazione riguarda
gli interventi effettuati sull’involucro esterno visibile dell’edificio,
vale a dire sia sulla parte anteriore, frontale e principale dell’edificio,
sia sugli altri lati dello stabile (intero perimetro esterno).
Tra i lavori agevolabili rientrano quelli per il rinnovo e consolidamento
della facciata esterna dell’edificio, inclusa la mera tinteggiatura o
pulitura della superficie, e lo stesso vale per i balconi o per eventuali
fregi esterni. E ancora, lavori sulle grondaie, sui pluviali, sui parapetti,
sui cornicioni e su tutte le parti impiantistiche coinvolte perché parte
della facciata dell’edificio.
Il cappotto in facciata è al 90%
Anche le spese per perizie, sopralluoghi, progettazione dei lavori,
installazioni di ponteggi sono comprese nell’agevolazione. Inoltre anche gli
interventi influenti dal punto di vista termico, o che interessino oltre il
10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva
dell'edificio, rientrano nel campo del bonus facciate.
Inquilini tra i beneficiari
I soggetti beneficiari devono possedere o detenere l’immobile oggetto
dell’intervento in qualità di proprietario, nudo proprietario o di titolare
di altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o
superficie) oppure detenere l’immobile in base a un contratto di locazione,
anche finanziaria, o di comodato, regolarmente registrato, ed essere in
possesso del consenso all’esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
Per i privati bonifici entro il 2020
Per il calcolo del «bonus facciate», per le persone fisiche, compresi
gli esercenti arti e professioni, e per gli enti non commerciali, si deve
far riferimento al criterio di cassa, ovvero, alla data dell’effettivo
pagamento, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi. Ad
esempio, un intervento ammissibile iniziato a luglio 2019, ma con pagamenti
effettuati sia nel 2019 che nel 2020, consentirà sì la fruizione del “bonus
facciate” ma solo con riferimento alle spese sostenute nel 2020.
Per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, si guarderà
al “criterio di competenza” e, quindi, alle spese da imputare al
periodo di imposta in corso al 31.12.2020, indipendentemente dalla data di
avvio degli interventi cui le spese si riferiscono e indipendentemente dalla
data dei pagamenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2020). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus facciate in stand-by. Cosa fare senza istruzioni.
Lo sconto fiscale c'è, le istruzioni no. Il bonus facciate del 90% è in
vigore dallo scorso 1° gennaio. Ma il ritardo del Fisco nel fornire le
indicazioni applicative -unito a un testo di legge poco comprensibile- sta
bloccando molti cantieri. Partendo dalle istruzioni emanate dalle Entrate in
oltre 20 anni di bonus casa, comunque, si può tentare di mettere qualche
punto fermo. (...continua)
(articolo
Il Sole 24 Ore 10.02.2020
- tratto da www.fondazionecni.it). |
ANNO 2019 |
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aggiornamento al 06.11.2019 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Edilizia
popolare, le modalità di calcolo del corrispettivo di
svincolo competono al Ministero.
La possibilità di affrancamento dei soggetti contraenti
convenzioni di edilizia popolare dal vincolo del prezzo
massimo di cessione è disciplinata dalla legge e può essere
autorizzata solo nel rispetto delle competenze, delle
modalità e delle forme di garanzia disciplinate.
Con il
parere 25.09.2019 n. 368, la Sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Lombardia ha chiarito
che la competenza alla definizione della percentuale
necessaria al calcolo del corrispettivo dovuto è sottratta
alla potestà decisionale dei Comuni e ritorna a essere a
tutti gli effetti di natura ministeriale.
Il nuovo assetto regolatorio della materia attribuisce a un
decreto attuativo del ministero dell'Economia e delle
Finanze il compito di individuare le modalità che dovranno
seguire i Comuni per concedere le dilazioni di pagamento del
corrispettivo di affrancamento e le eventuali forme di
garanzia concesse.
La competenza sulle modalità di calcolo del
corrispettivo di svincolo
Già l'articolo 5, comma 3-bis, della legge 106/2011
prevedeva una specifica e definita procedura di
affrancamento dai vincoli in questione, finalizzata ad
agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari con
riguardo all'edilizia convenzionata. Secondo questa
impostazione, per l'applicazione della procedura di svincolo
il venditore era tenuto a corrispondere al Comune un
corrispettivo da calcolarsi sulla base dell'individuazione
di parametri che dovevano essere stabiliti a livello
ministeriale, tramite un decreto attuativo del ministero
dell'Economia e delle Finanze.
Con la legge 14/2012 (articolo 29, comma 16-undecies) la
competenza è temporaneamente attribuita ai Comuni, fino
all'emanazione di una ulteriore modifica all'articolo 31
della legge 448/1998 che, riprendendo e correggendo la
formulazione originaria, riassegna al ministero
dell'Economia e delle Finanze la competenza in materia di
individuazione delle percentuali di calcolo del
corrispettivo di svincolo.
Le regole sullo svincolo
Secondo le vigenti disposizioni, i vincoli relativi alla
determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole
unità abitative e loro pertinenze, nonché del canone massimo
di locazione, possono essere rimossi, dopo che siano
trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo
trasferimento, con atto pubblico o scrittura privata
autenticata.
La stipula dell'atto è effettuata a richiesta delle persone
fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari
di diritti reali sul bene immobile ed è prevista la
trascrizione presso la conservatoria dei registri
immobiliari. Il corrispettivo da pagare deve essere
proporzionale alla corrispondente quota millesimale,
determinato, anche per le unità in diritto di superficie, e
può prevedere eventuali riduzioni in relazione alla durata
residua del vincolo, con decreto del Ministro dell'economia
e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza
unificata.
Il decreto individua altresì i criteri e le modalità per la
concessione da parte dei Comuni di dilazioni di pagamento
del corrispettivo di affrancamento dal vincolo. In pendenza
della rimozione dei vincoli, il contratto di trasferimento
dell'immobile non produce effetti limitatamente alla
differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.10.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Doppio giro contabile per gli incentivi tecnici.
Doppio giro contabile per l'incentivo relativo alle funzioni tecniche
(articolo 113) per garantire il «passaggio» nel fondo incentivante del
personale e la conseguente iscrizione nell'ambito della parte corrente del
bilancio. La spesa iscritta nella specifica voce di spesa (corrente o in
conto capitale) deve trovare una contropartita di entrata nella parte
corrente destinata proprio a finanziare la spesa di personale legata
all'incentivo.
È quanto prevede il decreto del 01.08.2019 di aggiornamento del
Principio contabile applicato n. 4/2 valorizzando una specifica previsione
normativa contenuta nell'articolo 1, comma 526, della legge 205/2017 secondo
la quale questi incentivi «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto
per i singoli lavori, servizi e forniture».
Partendo da questo presupposto il principio ora chiarisce che «gli impegni
di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui
all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, compresi i relativi oneri contributivi ed
erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i
medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della
spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e
forniture».
Conto capitale e parte corrente
Di conseguenza, in funzione della previsione normativa, vige una regola di
sostanziale accessorietà, in forza della quale l'incentivo deve essere
imputato agli stanziamenti concernenti le corrispondenti spese a cui si
riferiscono, seguendone anche la collocazione tanto se in conto capitale
quanto se di parte corrente.
L'impegno, più specificamente, è registrato con imputazione all'esercizio in
corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle
risorse stanziate in bilancio e è tempestivamente emesso il relativo ordine
di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo terzo delle entrate,
tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre
entrate correnti Nac», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001
Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
Infatti, non va dimenticato, che trattandosi di incentivi specifici per il
personale devono «transitare» nell'ambito del fondo del comparto, con la
conseguenza che il finanziamento dell'erogazione deve, comunque, avvenire
nell'ambito della parte corrente del bilancio, anche laddove si tratti di un
incentivo correlato a un'opera pubblica con finanziamento, pertanto,
nell'ambito della gestione in conto capitale.
Ecco perché è richiesto, proprio dal principio, di impegnare la spesa
riguardante gli incentivi tecnici anche tra le spese di personale, negli
stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel
rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e
premiale del personale (anche in termini di maturazione della condizione di
esigibilità).
Il finanziamento di questa spesa è rappresentato proprio dall'accertamento
di entrata assunto in corrispondenza e in contropartita
dell'impegno/pagamento effettuato sullo stanziamento relativo alla singola
tipologia di spesa (servizio, fornitura o lavori), con una soluzione che
consente, altresì e congiuntamente, di rettificare il doppio impegno,
evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Fondo innovazione
Le medesime modalità di registrazione sono adottate anche per la quota del
20 percento, sempre prevista dal comma 4 dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016
(cosiddetto fondo innovazione) destinata all'acquisto di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione nonché per
l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento, che, a seguito della
formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Anche in questo caso, infatti, la spesa è impegnata a carico degli
stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi e forniture con
imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è tempestivamente emesso
il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo
terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti»,
categoria 3059900 «Altre entrate correnti Nac».
La quota del 20 percento è, infatti, impegnata anche tra le spese correnti o
di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del
principio contabile della competenza finanziaria, con copertura costituita,
ancora, proprio dall'indicato accertamento di entrata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.09.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Definiti
gli step per incentivi tecnici e fondo innovazione.
Chiarite le modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni
tecniche e delle spese finanziate dal fondo innovazione.
L'undicesimo
decreto correttivo al Dlgs 118/2011, il decreto 01.08.2019 pubblicato
con i suoi allegati sulla Gazzetta Ufficiale del 22.08.2019 n. 196, ha
definito i passaggi contabili finalizzati alla corretta rappresentazione nel
bilancio finanziario dell'ente del pagamento delle somme incentivanti al
personale interno e delle spese finanziate con il fondo innovazione.
Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche
(articolo 113 del Dlgs 50/2016), compresi i relativi oneri contributivi ed
erariali, devono essere assunti a carico degli stanziamenti riguardanti i
lavori, servizi e forniture cui si riferiscono. La registrazione dunque è
effettuata al titolo II della spesa ove si tratti di opere o lavori pubblici
e al titolo I, nel caso di servizi e forniture, con imputazione
all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al
fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Tempestivamente deve essere
emesso l'ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle
entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre entrate correnti, categoria 3059900
Altre entrate correnti n.a.c., voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001
Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici deve poi essere impegnata anche
tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la
contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per
il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura della spesa
è costituita dall'accertamento di entrata, che svolge anche la funzione di
rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione
contabile. Gli accertamenti alla voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001
e la liquidazione degli impegni correlati non generano formazione di ricavi
o costi.
Analoghe modalità di registrazione sono previste per la quota del 20 per
cento destinata all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali
a progetti di innovazione, nonché al finanziamento di tirocini formativi e
di orientamento.
Anche le somme del fondo innovazione devono infatti essere
impegnate a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi
e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, e deve
essere tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre
entrate correnti, categoria 3059900 Altre entrate correnti n.a.c.
La quota è poi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in
base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile
della competenza finanziaria. La copertura è costituita dall'accertamento di
entrata, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno,
evitando gli effetti della duplicazione della spesa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.08.2019). |
aggiornamento al 30.09.2019 |
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INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Tripla incognita sugli incentivi tecnici. Il nuovo regolamento
inciampa su corruzione, rotazione e fondo.
È «uno dei primi casi applicativi dell’articolo 113 del
Codice dei contratti pubblici del 2016».
Così si è espresso il Consiglio di Stato (Sez. Consultiva per gli Atti
Normativi,
parere 09.09.2019 n. 2368) sulla bozza di regolamento degli
incentivi per le funzioni tecniche predisposto dal Mit. Sono trascorsi tre
anni dal Dlgs 50/2016 e un anno dall’accordo con i sindacati. Ma l’iter è
tutt’altro che terminato.
I giudici rinviano il parere in quanto la bozza non è corredata di documenti
indispensabili per la valutazione come la relazione tecnica, e il testo non
è bollinato dalla Rgs. Eppure il Mef dovrebbe percepire come prioritaria una
nuova disciplina di questi compensi: la precedente regolamentazione si
riferiva al Dlgs 163/2006 col
d.m. 17.03.2008 n. 84, con buona pace delle modifiche intervenute
nel frattempo.
Tre sono i punti qualificanti del regolamento.
Il primo affronta il nodo della corruzione. Nella bozza si legge che
va garantita l’equa ripartizione degli incarichi. Sulla carta sembra
semplice, ma concretamente non ci sono previsioni sulle modalità attuative.
Ancora, si deve assicurare il principio di rotazione, anche qui di difficile
realizzazione considerato che gli incarichi possono interessare anche
dipendenti di altre Pa. Più facile la verifica dell’assenza di condanne
penali per reati di natura corruttiva.
Viene previsto però che non possono essere conferiti incarichi ai dipendenti
condannati in base all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Richiamo
normativo fuori luogo considerato che quella legge ha due articoli. Infine,
sembra rimessa ai sindacati la vigilanza. Si prevede che il dirigente
responsabile della stazione appaltante comunichi semestralmente a loro gli
incarichi per il monitoraggio sul «rispetto dei principi di trasparenza e
rotazione».
Il secondo punto rilevante si preoccupa di garantire il conferimenti
degli incarichi a soggetti qualificati. Nei requisiti vengono elencate le
esperienze professionali e l’espletamento di attività simili con risultati
positivi. In assenza di questi, l’incarico può essere affidato solo se sia
stato frequentato un corso di qualificazione professionale o un
affiancamento.
Un terzo aspetto riguarda la costituzione del fondo. Viene
specificato che non può superare il 2% dell’importo a base di gara. La
percentuale effettiva viene individuata con la costituzione del fondo nel
momento in cui è determinata la previsione di spesa all’interno di ogni
quadro economico. Si stabilisce che non formano base su cui quantificare
l’incentivo le somme per accantonamenti, imprevisti, acquisizione ed
espropri di immobili e l’Iva. L’80% del fondo che va ai dipendenti comprende
gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, ma
nulla si dice sull’Irap, lasciando aperta la partita a ricorsi. Non sono a
carico del fondo le spese per trasferte o missioni.
Poca attenzione sembra rilevarsi, sul rispetto dei tempi di realizzazione.
Il regolamento impone, nell’atto di conferimento dell’incarico,
l’individuazione dei termini entro i quali deve essere espletato, ma molto
contenute sono le sanzioni per chi sfora: il compenso viene ridotto dell’1%
per ogni settimana di ritardo, ma la riduzione non può andare oltre il 10%.
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I tre nodi irrisolti
1. ANTICORRUZIONE
Nella bozza di regolamento preparata dal Mit si prevede una serie di divieti
al conferimento di incarichi, per esempio ai soggetti condannati in base
all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Ma l’articolo 35-bis non esiste
2. ROTAZIONE
Si chiede di garantire l’equa ripartizione degli incarichi, ma non si dice
nulla su come attuare questo principio. La vigilanza viene affidata ai
sindacati
3. IL FONDO
Nulla si dice sulla contabilizzazione dell’Irap (articolo Il Sole 24 Ore del
30.09.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, arriva il regolamento del Mit.
È proprio il caso di dire:
cantieri aperti in tema di regolamento dei compensi per le funzioni
tecniche. Il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che, per sua
natura, è molto interessato all'argomento, aggiorna la disciplina di questi
incentivi, a tre anni di distanza dall'approvazione del codice degli
appalti.
La bozza
La bozza di nuovo regolamento risulta dall'applicazione dell'articolo 113
del Dlgs 50/2016 e, ovviamente, è attanagliato alle specificità di un
ministero: detta norme sulla possibilità di ricorrere a dipendenti di altri
ministeri o di altre amministrazioni in generale, disciplina i movimenti che
devono attuarsi nella contabilità dello Stato per il pagamento ai dipendenti
interessati e richiama i pareri del ministero dell'Economia e delle finanze
e del Consiglio di Stato.
Alcune indicazioni, però, hanno valenza generale. I soggetti che svolgono le
funzioni incentivate, ben specificate, devono essere individuati con formale
provvedimento, che, nel caso, assume la veste di decreto direttoriale. Nello
stesso atto sono indicati non solo i tecnici ma anche i dipendenti con
funzioni amministrative ai quali deve essere riconosciuto il compenso.
Per l'individuazione di tali soggetti, il regolamento elenca una serie di
criteri: l'integrazione tra diverse competenze professionali, le esperienze
passate, l'autonomia e la responsabilità dimostrate, la capacità di
collaborare con i colleghi. Ma prima di tutto deve essere garantita la
rotazione e l'equa ripartizione degli incarichi. Sono, in ogni caso, esclusi
i dipendenti con carichi pendenti di natura corruttiva.
Nelle modalità di ripartizione del fondo distingue i lavori, dove risultano
maggiormente premiati il Rup e il direttore lavori, dai servizi e forniture,
dove la parte del leone la fanno il Rup e il direttore dell'esecuzione,
unitamente ai rispettivi collaboratori. Per la maggior parte degli stessi
viene individuata una fascia, rimettendo alla contrattazione integrativa
territoriale la fissazione della percentuale puntuale.
Il parere
Molto interessante il relativo
parere 09.09.2019 n. 2368 del Consiglio di Stato. Tra l'altro si
legge come la normativa, nelle finalità e nelle linee portanti, non risulti
radicalmente mutata e, pertanto, sia opportuno un paragone fra il vecchio e
il nuovo.
Da questo emerge un'interessante indicazione, vale a dire l'inversione
nell'ordine dei lavori. In altre parole, mentre nel regime precedente, il
regolamento era posteriore alla contrattazione decentrata, dovendone
recepire i contenuti, nella nuova disciplina, il regolamento rappresenta il
presupposto da cui devono prendere il via le relazioni sindacali.
Il Consiglio di Stato suggerisce di non riportare nei regolamenti quelle
norme che non fanno altro che ripetere pedissequamente il dettato
legislativo, sostituendolo con un richiamo allo stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
24.09.2019). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi, non in ordine sparso.
Serve un coordinamento per evitare difformità applicative.
Parere
del Cds sullo schema di regolamento per la ripartizione ai tecnici della
p.a..
È
necessario un incisivo coordinamento sull'attuazione delle norme sugli
incentivi ai tecnici delle amministrazioni previsti dal codice appalti per
evitare difformità applicative, oltre ad un attento confronto con la
disciplina previgente; necessaria anche l'integrazione con l'analisi di
impatto sulla regolazione e con la bollinatura.
È quanto ha precisato il
Consiglio di stato nel
parere 09.09.2019 n. 2368 della sezione
consultiva per gli atti normativi emesso sullo
schema di regolamento recante «Norme per la ripartizione dell'incentivo per
le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50», trasmesso dal ministero delle infrastrutture al Consiglio di
stato il 05.07.2019.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell'art. 113 del nuovo codice
dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 e poi integrato
nel dalla legge di bilancio 2018. Lo schema è stato predisposto sulla base
delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti e dal Mef, oltre che dalla
contrattazione con i sindacati.
I giudici della sezione consultiva hanno premesso che si tratta di una bozza
di provvedimento che «riveste indubbiamente un considerevole rilievo, in
primo luogo per la specialissima importanza e il predominante peso che il Mit riveste nel campo dei lavori pubblici e inoltre perché esso dovrebbe
costituire un essenziale parametro in vista della prossima adozione di
analoghi atti da parte degli altri ministeri e delle altre amministrazioni
aggiudicatrici».
In relazione al fatto che l'art. 113 del Codice determinerà l'emanazione di
un numero prevedibilmente elevato di regolamenti da parte delle numerose
amministrazioni pubbliche aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, il
parere evidenzia in primo luogo «la necessità dell'esercizio di un incisivo
ruolo di coordinamento di tali regolamenti da parte della presidenza del
consiglio e in particolare del suo Dagl, onde evitare che le singole
amministrazioni affrontino la tematica in esame, per così dire, in ordine
sparso».
Nel merito dei contenuti i giudici hanno rilevato «la mancanza di relazione
tecnica, ovvero di bollinatura da parte della Ragioneria generale dello
Stato, ovvero della attestazione della mancanza di oneri derivanti dalla sua
applicazione». E sì vero che vi è un parere espresso dall'Ufficio
legislativo del ministero dell'economia e delle finanze, cui peraltro nella
sostanza lo schema in esame si attiene, ma le mancanze «devono essere
sanate». Questo, si legge nel parere, assume rilievo soprattutto per quanto
riguarda la mancanza della relazione di Air: «l'analisi di impatto della
regolazione avrebbe potuto fornire utili elementi ai fini della valutazione
della congruità della disciplina sottoposta, tanto più ove fosse stato
operato un opportuno confronto con gli effetti prodotti finora dalla
disciplina che il testo in esame mira ad abrogare (d.m. 17.03.2008, n. 84)». Visto che la materia è poco mutata, per i giudici «resta utile un
attento raffronto tra il regime anteriore e quello che viene introdotto con
il nuovo regolamento».
Non risulta poi conforme alla norma la procedura adottata per la redazione
dello schema visto che, si legge, «dall'esame degli atti, pare doversi
desumere che nel caso in esame la contrattazione abbia preceduto la
predisposizione dello schema di regolamento, e che quest'ultimo si sia
limitato a recepirne i contenuti». Di fatto si ricomincia da capo
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incaricati senza libertà d’orario.
Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici.
Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni
organizzative sarebbe nullo.
Gli
incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria
attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli
uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e
specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle
disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di
lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109,
comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107,
commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera
d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del
sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli
enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque
necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da
quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di
attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi
ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non
trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in
qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del
comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla
rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con
il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale
incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni
lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art.
10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39,
comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non
sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati
potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in
relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina
relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla
relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl
non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il
potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita,
invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione
organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto,
incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione
dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con
diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le
disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59,
comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione
disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di
assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o
direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di
fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e
inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente
alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei
confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità
disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta
responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza
dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza
giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la
segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni
manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a
condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i
soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a
un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento
prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e
comma 3-quinquies» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
aggiornamento all'11.09.2019 |
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LAVORI PUBBLICI: Lavori
di somma urgenza, è sempre obbligatorio il riconoscimento come debiti fuori
bilancio.
Sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma
urgenza per i quali non è stato rispettato l'iter del procedimento di spesa.
Con l'introduzione dell'articolo 65-bis al disegno di legge di bilancio 2019
viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel, il
riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare
l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio
derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di
un evento eccezionale o imprevedibile.
La giunta, secondo la nuova versione
della norma, sarà pertanto tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro
venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le
modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel.
Il provvedimento di riconoscimento
In altre parole, sarà necessario precedere al riconoscimento consiliare
delle spese derivanti dalla acquisizione di beni e servizi, effettuate in
violazione degli obblighi dell'articolo 191 del Tuel, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
Contestualmente, deve essere prevista la relativa copertura finanziaria nei
limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio
alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte
dell'organo esecutivo, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se
a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo
interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare.
Le indicazioni dei giudici contabili
La modifica in questione determina un cambiamento di rotta
nell'interpretazione del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel. Già con
il
parere 18.03.2013 n. 12 ed il
parere 10.05.2013 n. 22, la Sezione regionale di controllo della
Corte dei conti per la Liguria aveva espresso il proprio parere in merito,
specificando come il riferimento alla carenza dei fondi a bilancio
costituisse una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di
“autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di
situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela
di interessi primari.
A parere dei magistrati liguri, la vigente versione dell'articolo 191, terzo
comma, del Tuel consentirebbe di interpretare chiaramente la volontà del
legislatore, che sarebbe quella di consentire una deroga alla procedura
ordinaria non solo in presenza di lavori di somma urgenza ma anche quando i
fondi a questo fine stanziati non risultino sufficienti. La carenza di
fondi, difatti, rende impossibile l'assunzione dell'impegno di spesa sul
competente capitolo o intervento di bilancio.
Diversamente, la presenza di fondi destinati o, in altre parole, quando
l'ente può attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta necessario
ricorrere alla disciplina derogatoria e attivare la procedura di
riconoscimento di debito fuori bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2018). |
aggiornamento al
20.05.2019 |
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APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Appalti,
niente gare fino a 1 mln. Estese le procedure negoziate. Stop incentivi ai
progettisti. A un convegno Ance, il relatore del dl Sblocca cantieri
Santillo annuncia le novità.
Alzare a un milione la soglia per la procedura negoziata, limitare la
responsabilità per danno erariale dei funzionari pubblici; ripristinare il
tetto per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa; portare al
40% il limite del subappalto; togliere l'incentivo del 2% a favore dei
tecnici delle pubbliche amministrazioni per la fase progettuale; norma
«salva imprese» legata al ribasso ma inserita nelle somme a disposizione
della stazione appaltante.
Sono questi i punti sui quali, Agostino Santillo, relatore del disegno di
legge di conversione del decreto Sblocca cantieri (dl 32/2019) ha anticipato
che si interverrà con emendamenti ad hoc in commissione, per arrivare
all'esame in aula martedì 28 maggio, quindi dopo le votazioni per le
elezioni europee di domenica 26.
L'annuncio è stato dato durante il convegno organizzato ieri dall'Ance,
l'Associazione nazionale costruttori edili, dal titolo «Sblocca cantieri:
quali risorse e quali regole» cui hanno partecipato, fra gli altri,
oltre al presidente dei costruttori Gabriele Buia e al vice presidente
Edoardo Bianchi, anche il vice ministro per l'economia Laura Castelli.
Dopo avere precisato che, con il decreto 32 «si è inteso toccare le corde
giuste per riavviare le procedure e in particolare l'affidamento dei lavori
perché è li che bisogna intervenire immediatamente con un cambio di
paradigma», è proprio sulla parte procedurale, oggetto di serrato
confronto con la Lega, che il relatore ha annunciato una prima modifica. «Ci
sono tante proposte che condividiamo perché la nostra posizione non è rigida
e possiamo ragionare su alcuni temi con le altre forze politiche», ha
osservato Santillo. Un passaggio apprezzato anche dal capogruppo Pd in
commissione, Salvatore Margiotta, che ha poi posto l'accento sulla necessità
di una accurata disciplina della fase transitoria del provvedimento.
Fra le novità annunciate da Santillo, in primo luogo è stata richiamata la
revisione della soglie per le procedure negoziate (nel decreto 32 ammessa
fino a 200 mila, mentre oltre tale importo scatta la procedura aperta). In
questo caso la soglia può essere rivisitata verso l'alto, a un milione (si
veda ItaliaOggi del 10 maggio) purché dalla soglia massima fino a 5,2
milioni la procedura sia sempre aperta con esclusione automatica delle
offerte anomale. «Poi vedremo se l'esperienza ci darà ragione e vedremo
sarà il caso di alzare il tetto oltre la soglia di un milione», ha
aggiunto.
Un secondo punto sul quale viene recepita l'esigenza di intervenire è quella
della responsabilità per danno erariale in capo ai funzionari pubblici, su
cui, ha anticipato il senatore M5S, «stiamo preparando un emendamento in
commissione».
Altro punto oggetto di intervento, è quello relativo alla la soglia del
subappalto, portata nel testo dal 30% al 50%; in particolare la nuova
soglia, ha spiegato, «potrebbe essere spostata verso il basso, ad esempio
al 40%», così come proposto in un emendamento presentato dei
Cinquestelle, «ma in ogni caso dobbiamo evitare che facciano lavori
soggetti che non hanno la formazione adatta come imprese di costruzioni».
Sulla norma che ripristina l'incentivo del 2% a favore dei tecnici della
p.a. per la progettazione, Santillo ha annunciato di raccogliere «l'appello
che è stato formulato per non fare rientrare nell'incentivo del 2% anche la
progettazione perché questo secondo noi non aiuta la specializzazione
progettuale del mercato esterno alla p.a. e soprattutto fa sì che chi
progetta debba anche controllare l'esecuzione di quanto progettato e questo
potrebbe determinare un agevole conflitto di interessi».
Sull'appalto integrato il relatore ha precisato che si sta «ragionando
anche sulla possibilità o meno di estendere l'utilizzo dell'appalto
integrato fino al 2020 che a volte può essere la manna scesa dal cielo ma
altre volte ne farei a meno». Ad essere modificate, secondo Santillo,
sarà inoltre la norma che esclude le imprese per irregolarità fiscale e
contributiva non ancora accertata. Il comma, ha spiegato, sarà eliminato.
Si stanno infine «facendo dei ragionamenti sul ripristino della soglia
del 30% per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa». «Noi
siamo a favore», ha spiegato. Sulla norma «salva pmi» in caso di
fallimento dell'impresa, Santillo ha concluso che il governo «non vuole
che questi costi ricadano sull'appaltatore e quindi la quota percentuale
sarà legata al ribasso dell'aggiudicatario, ma sarà fatta ricadere nel
quadro economico come somma a disposizione della stazione appaltante e non
dell'impresa aggiudicataria»
(articolo ItaliaOggi del 15.05.2019). |
INCARICHI
PROGETTUALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Compenso
anticipato per i professionisti
Anticipazione del 20% del valore del contratto anche per i professionisti e
le società che operano nell'ambito degli appalti di servizi e di forniture;
pagamento diretto del progettista negli appalti integrati; reintroduzione
dell'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni.
Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse per professionisti, studi
e società che operano nell'ambito dei servizi tecnici legati alla
realizzazione di opere pubbliche, contenuti nel
D.L. 18.04.2019 n. 32.
In primo luogo si interviene sul contenuto dei livelli di progettazione con
il rinvio al regolamento unico della disciplina dei contenuti della
progettazione nei tre livelli progettuali (in luogo di uno specifico decreto
ministeriale previsto dal testo previgente), nonché del contenuto minimo del
quadro esigenziale che devono predisporre le stazioni appaltanti.
Viene eliminato anche il rinvio a un regolamento ministeriale per la
cosiddetta progettazione semplificata prevista fino a 2,5 milioni: adesso è
una norma ad hoc e stabile che si prescinde dalla redazione del
progetto esecutiva per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria
che non prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle
opere o degli impianti. Si potranno quindi affidare i contratti sulla base
del progetto definitivo, a condizione che lo stesso abbia un contenuto
informativo minimo, indicato dalla norma, consentendo quindi di eseguire i
lavori senza redigere e/o approvare il progetto esecutivo.
Di immediato interesse per tutti gli operatori economici dei servizi e delle
forniture è poi l'introduzione dell'anticipazione contrattuale del 20% sul
valore del contratto (oggi contemplata soltanto per i lavori). Nell'ambito
della riapertura della «finestra» per potere affidare appalti
integrati (possibili bandi fino al 2021 per progetti approvati entro fine
2020), rappresentano comunque un elemento positivo due disposizioni di
interesse per i progettisti: la prima è l'obbligo per le stazioni appaltanti
di indicare le modalità per il pagamento diretto del progettista di cui si
avvale l'impresa che partecipa ad una gara per l'affidamento di un appalto
integrato.
La seconda riguarda la previsione della dimostrazione, da parte delle
imprese di costruzione, dei requisiti progettuali per partecipare ad appalti
integrati e, in assenza di tale dimostrazione, l'obbligo di avvalersi o di
associare un progettista che ne sia in possesso.
Potrebbe invece risultare negativo sotto il profilo di una possibile
riduzione della domanda di ingegneria la reintroduzione dell'incentivo del
2% a favore dei tecnici delle amministrazioni per la fase di progettazione,
eliminato per questa attività dal 2016. Viene inoltre prevista la
possibilità per gli affidatari di incarichi di progettazione, per progetti
posti a base di gara di concessioni, di essere anche affidatari della
concessione di lavori pubblici a condizione che il concedente adotti misure
adeguate per garantire che la concorrenza non sia falsata dalla loro
partecipazione.
Di interesse per i progettisti anche l'eliminazione dell'obbligo di indicare
la terna dei subappaltatori, un onere eccessivo per l'entità degli incarichi
e per la presenza di una disciplina già molto stringente per il subappalto
di progettazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Giro
contabile per incentivi e fondo innovazione.
Incentivi tecnici e fondo innovazione con giro contabile. È questa la
soluzione al rebus sulla corretta registrazione a bilancio delle due voci
incentivanti individuata dalla Commissione Arconet.
L'organismo che sovrintende all'applicazione del nuovo ordinamento contabile
degli enti territoriali ha affrontato la questione nella
riunione del 20 marzo scorso, il cui resoconto è stato appena
pubblicato. Sugli incentivi tecnici, la Commissione recepisce e integra
quanto già previsto dall'art. 113, comma 5-bis, del dlgs 50/2016, ai sensi
del quale le relative spese vanno imputate al medesimo capitolo previsto per
l'appalto. Quest'ultimo andrà collocato nel titolo II, ove si tratti di
opere, o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture.
L'impegno è registrato, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a
seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate ed è
tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre
entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.»,
voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00 Fondi incentivanti il
personale (legge Merloni).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di
personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione
integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento
accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita
dall'accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche
la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della
duplicazione della spesa.
Ricordiamo che, in base alla
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della sezione autonomie, gli incentivi non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dall'art. 23, comma 2, del dlgs
75/2017. Le stesse modalità di registrazione sono adottate anche per la
quota del 20% prevista dal comma 4 dell'art. 113 (c.d. «fondo innovazione»)
destinata all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di
orientamento.
Tale quota è quindi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento
in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio
contabile della competenza finanziaria
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Enti
senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza
dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale
occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito
dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl
21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro
assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.
L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle
posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo
non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte
degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente
che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente
previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14
del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle
posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono
presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono
conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la
disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella
disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018:
«negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili
delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche
dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire
gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica
una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è
da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si
applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso
meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i
funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai
sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di
ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi
dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente
posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre
nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni
organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento
amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di
servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica
l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare
operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle
posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico
di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura
gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni
dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad
una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si
può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione
organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal
sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel:
norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di
durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per
analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato.
Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si
può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo
19, comma 2, del dlgs 165/2001
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il
proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida,
note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione
organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di
conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione».
L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018
introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la
possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle
funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali
aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia
tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto
professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un
albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita
attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in
posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa
figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un
importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la
gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare
direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore
autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare,
permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la
possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse
stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È,
inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle
figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire
funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore
incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha
assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione
secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per
il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono
stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà
contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti
la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla
graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione
della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli
incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente
contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che
devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere
attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono
dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta
categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che
opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che
suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di
P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una
metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del
ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci,
il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come
finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed
esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello
svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento
non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta
la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In
parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità
sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere
legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è
incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento
al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà
(soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei
passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla
posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del
tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione
e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la
rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario
in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria
non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata
e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente
disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata
la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere
valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del
programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni
organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni
locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione
del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni,
ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso
disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie
prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al
personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo
sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che
potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi
sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a
privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi
qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione
organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e
gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.05.2019). |
INCENTIVI
FUNZIONI TECNICHE: Arconet,
incentivi tecnici e fondo innovazione sempre in parte corrente.
Gli incentivi tecnici e il fondo innovazione devono sempre essere
contabilizzati nella parte corrente del bilancio.
Il tema, molto attuale per gli enti locali in un periodo di espansione degli
investimenti, spunta nelle carte di lavoro appena pubblicate della
Commissione Arconet (resoconto della riunione del 20
marzo scorso) che approva la modifica dei principi contabili
finalizzata a chiarire le modalità di registrazione degli incentivi tecnici
sia nella contabilità finanziaria (paragrafo 5.2), sia in quella
economico-patrimoniale (paragrafo 3).
Gli incentivi tecnici
Gli impegni riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche previsti
dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (compresi i relativi oneri contributivi
ed erariali) devono essere assunti all'interno degli stanziamenti di spesa
riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono.
Sono dunque contabilizzati nel titolo II della spesa per le opere pubbliche
o nel titolo I per servizi e forniture. L'impegno è registrato, con
imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale
destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto
dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, ed è tempestivamente emesso il
relativo ordine di pagamento a favore del Titolo terzo delle entrate,
tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre
entrate correnti n.a.c.», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00
Fondi incentivanti il personale.
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di
personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione
integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento
accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita
dall'accertamento di entrata di cui sopra, che svolge anche la funzione di
rettificare il doppio impegno, evitando effetti di duplicazione della spesa.
Il fondo innovazione
Tali modalità di registrazione si applicano anche per la quota del 20%
prevista dal comma 4 dell'articolo 113 («fondo innovazione») destinata
all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti
d'innovazione, nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di
orientamento.
A seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in
bilancio, nel rispetto dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, la spesa è
impegnata a carico degli stanziamenti di uscita riguardanti i lavori,
servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è
tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre
entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.». Tale
quota del 20% è poi impegnata anche tra le poste correnti o di investimento
in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio
contabile della competenza finanziaria.
La copertura finanziaria è costituita dall'accertamento di entrata di cui
sopra, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno,
evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Risvolti economico-patrimoniali
È puntualizzato, poi, che in contabilità economico-patrimoniale gli
accertamenti effettuati a valere della voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001
«Fondi incentivanti il personale (legge Merloni)» non determinano la
formazione di ricavi. La liquidazione degli impegni correlati a tali
entrate, assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti gli
incentivi tecnici e il fondo risorse finanziarie previsti dall'articolo 113,
comma 2, del Dlgs n. 50/2016 non determina la formazione di costi.
Fra le novità, infine, la ridenominazione della voce del piano dei conti
3.05.99.02.00, dove viene inserito il riferimento all'articolo 113 del Dlgs
50/2016 (al posto del richiamo della legge Merloni) e la conseguente
modifica del glossario SIOPE
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: SBLOCCA-CANTIERI/
Ancora una volta indefinita la decorrenza dei nuovi incentivi.
Per i premi ai tecnici da rifare integrativo e regolamento.
Dal 19 aprile i tecnici pubblici festeggiano il ritorno dei "loro"
incentivi. Con l'entrata in vigore del decreto sblocca-cantieri è stato
rimodificato il Codice degli appalti, inserendo nuovamente i progettisti fra
i destinatari dei premi collegati alle funzioni tecniche.
La telenovela dei compensi registra un'altra puntata. Come si ricorderà,
con l'approvazione del Dlgs 50/2016 erano stati messi alla porta una serie
di soggetti che, storicamente, annoveravano nella loro busta paga compensi i
quali, nel corso del tempo, hanno modificato la loro denominazione
(incentivi Merloni, «per la progettazione»), ma non la loro sostanza: ai
dipendenti pubblici che progettavano spettava anche una quota di
retribuzione legata all' opera da realizzare. Con il nuovo Codice degli
appalti si sposta l'attenzione sulle fasi di programmazione e controllo
della spesa e, quindi, anche gli incentivi vanno a premiare i soggetti che
gestiscono queste funzioni.
Ovviamente i tecnici mal digeriscono il cambio di rotta e, alla prima
occasione utile, con un colpo di coda, spazzano via i supervisori di budget
e consuntivi e li sostituiscono con i progettisti.
Fin qui la storia. Ma ora, in pratica, cosa succede? Sicuramente i tecnici
non possono presentarsi alla cassa per la riscossione già da domani. Lo
stesso Dlgs 50/2016 disegna un iter ben preciso che gli enti devono
rispettare per poter liquidare i compensi. Innanzitutto devono riprendere in
mano i propri regolamenti e adeguarli alla nuova norma. L' operazione deve
però essere preceduta da una sessione di contrattazione decentrata
integrativa, dove vanno stabiliti le modalità e i criteri di ripartizione
degli incentivi. Al regolamento, oltre a recepire quanto deciso nell'integrativo, spetta una funzione importante: decidere la percentuale da
applicare all' importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara
per ottenere il fondo che va a finanziare, per l'80%, i compensi in
questione. Percentuale che non può essere superiore al 2%.
E come tutte le modifiche che si rispettino, l'intervento normativo non è
accompagnato da una norma transitoria, che regolamenti il passaggio dalla
vecchia disciplina a quella nuova. Quindi? Sicuramente basta attendere
qualche mese e potremmo trovare fiumi di pareri da parte delle sezioni
regionali della Corte dei Conti le quali, chiamate a rispondere ai quesiti
delle amministrazioni, forniscono indirizzi purtroppo non sempre univoci.
Come spartiacque si può infatti pensare all' espletamento delle gare di
appalto, considerato che sono il perno su cui poggia l'incentivo, oppure al
momento in cui viene svolta l'attività compensata dall' incentivo. Anche a
questo proposito, nel tempo, i magistrati contabili hanno abbracciato tesi
differenziate.
Su una linea sembrano ormai concordi i vari interpreti istituzionali: la
liquidazione degli incentivi non può avvenire in assenza del regolamento;
ma, una volta approvato l' atto, si può procedere al pagamento anche di
quelle somme accantonate in precedenza, in quanto si riferiscono a gare o
attività svolte dopo l' entrata in vigore della norma e prima dell'approvazione del regolamento (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE: Progettazione,
torna l' incentivo per i tecnici Pa. Architetti e ingegneri: forte impatto
sul mercato dei bandi per i progettisti.
Ripristinato l'incentivo per le attività legate alla progettazione, svolte
dai dipendenti della pubblica amministrazione.
Il decreto 32/2019, lo sblocca cantieri, abbandona la filosofia del Codice
appalti in vigore, che riservava ai tecnici della Pa, nella sostanza, solo
compiti di programmazione e controllo delle opere pubbliche. Tornando a
dargli un ruolo primario anche sul fronte della redazione degli elaborati.
La novità, di grande impatto per il mercato, ritocca l'articolo 113 del
Codice appalti, riportando in vita l'accantonamento «in misura non
superiore al 2 per cento» (modulato sugli importi stanziati per lavori,
servizi e forniture) per le attività «di progettazione, di coordinamento
della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica
preventiva della progettazione». Questo denaro viene ripartito tra i
soggetti che svolgono funzioni tecniche nelle diverse amministrazioni.
Nella precedente versione l'incentivo esisteva, in misura esattamente
identica, ma era riservato ad altri compiti: programmazione della spesa per
investimenti, controllo delle procedure di gara, esecuzione dei contratti.
In sostanza, la nuova versione spinge gli uffici pubblici ad utilizzare in
misura maggiore le proprie strutture per la progettazione, anziché bandire
gare per coinvolgere professionisti esterni.
Evidente, allora, che la novità non piaccia a tutte quelle categorie
abituate a partecipare agli appalti pubblici per la progettazione. Lo spiega
Rino La Mendola, vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti:
«Siamo perplessi per questa modifica. Pensiamo che sia i dipendenti pubblici
che i liberi professionisti debbano essere valorizzati nel loro ruolo,
riservando ai dipendenti pubblici soprattutto l'attività di controllo. E c'
è anche da considerare che questo intervento fa il paio con le novità sulla
centrale di progettazione: c' è una chiara volontà da parte del Governo di
statalizzare la progettazione».
Una posizione condivisa in pieno da Michele Lapenna, componente del
Consiglio nazionale degli ingegneri: «Sarebbe stato meglio tenere una
distinzione netta tra uffici tecnici e progettisti privati. Detto questo,
comunque, per noi è fondamentale tutelare la qualità della progettazione.
Per questo chiederemo che i tecnici interni dimostrino gli stessi requisiti
che vengono richiesti oggi ai professionisti». Probabile, sul fronte del
mercato, che queste novità abbiano un forte impatto, limitando le risorse
che vengono messe a disposizione dei progettisti esterni: «È evidente
-conclude Lapenna- che si tratta di un rischio molto concreto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Attivo
l'indice dei domicili digitali, Pubbliche Amministrazioni sempre più
trasparenti.
La transizione al digitale della pubblica amministrazione fa un altro passo
avanti con l'entrata in vigore (da ieri) dell'indice dei domicili digitali
delle Pa e dei gestori di pubblici servizi.
Gestito dall'Agid, che guida l'innovazione nella Pa secondo un
cronoprogramma definito, l'Ipa è in sostanza un elenco pubblico nel quale
sono registrati i domicili digitali che amministrazioni, gestori di servizi
pubblici e privati devono utilizzare per inviare comunicazioni e scambiarsi
informazioni e documenti tutto in maniera legale.
I domicili digitali, come intuibile, sono gli indirizzi elettronici
associati agli enti e alle relative articolazioni organizzative.
L'Ipa e le linee guida
L'indice è stato sviluppato seguendo il percorso tracciato dall'Agid nelle
relative linee guida adottate, in base all'articolo 71 del Cad, con la
determinazione 04.04.2019 n. 97/2019
(e relative "LINEE
GUIDA DELL’INDICE DEI DOMICILI DIGITALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E
DEI GESTORI DI PUBBLICI SERVIZI - Versione 1.0 del 27.02.2019") e messa
in rete lunedì scorso nel sito dell'Agenzia.
Devono iscriversi le Pa e i gestori di pubblici servizi, tutti i soggetti
inclusi nell'elenco Istat articolo 1 della 196/2009, cioè rientranti
nell'«armonizzazione contabile», e che non sono compresi tra le Pa articolo
1, comma 2, del Dlgs 165/2001, cioè il raggruppamento di enti cui fa
riferimento la legislazione sul pubblico impiego.
L'iscrizione va ottenuta con un'istanza di accreditamento, al buon esito
della quale segue l'assegnazione del codice Ipa da parte del gestore (l'Agid),
che non è modificabile.
I domicili digitali vanno costantemente aggiornati se cambiano informazioni
e dati che lo formano e cioé quelli che caratterizzano l'ente, quelli
relativi al registro di protocollo e infine quelli relativi ai diversi
uffici. L'istanza di cancellazione dall'elenco dovrà essere presentata dai
soggetti che non hanno più titolo per essere inlusi in esso.
La fatturazione elettronica
Una delle funzioni più delicate cui deve assolvere l'Ipa è quella di
archivio nel quale cercare per individuare i codici degli uffici di
fatturazione elettronica delle amministrazioni e delle società in conto
economico consolidato (Scec).
Su www.indicepa.gov.it si trovano tutti i dati e le informazioni necessari,
che nell'ottica della trasparenza possono essere consultati e riutilizzati
in formato «open data» tramite interfaccia web, nonché, registrandosi al
portale, anche tramite interfaccia applicativa o protocollo LDAP.
Tre sono macrolivelli nei quali sono strutturati i contenuti dell'Ipa:
1) informazioni di sintesi sull'ente (denominazione, uguale a
quella registrata nell'Anagrafe tributaria, associata al codice fiscale
indicato, codice fiscale, indirizzo della sede principale, nome del
rappresentante legale e nome del referente Ipa e relativo codice fiscale,
indirizzo pec primario;
2) informazioni dettagliate sulla struttura organizzativa e
gerarchica e sui singoli uffici - unità organizzative (denominazione,
indirizzo, codice identificativo, nominativo del responsabile, data di
istituzione e di eventuale cessazione);
3) informazioni sugli uffici di protocollo - aree organizzative
omogenee (codice ufficio, che è definito dall'ente, codice univoco ufficio,
assegnato dal sistema e univoco in Ipa, denominazione, Aoo di riferimento,
che è unica tranne che per gli Scec, nome del responsabile, l’indirizzo,
relazione gerarchica con altra unità organizzativa.
La verifica dei dati
Ogni ente accreditato è responsabile della veridicità e della completezza
dei dati presenti in Ipa. L'Agid effettua il monitoraggio della qualità dei
dati con controlli sistematici e a campione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori
determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e
criteri per graduare le aree.
Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel
nuovo Quaderno sul tema,
propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti
locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno
adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o
attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e
quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre
gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione
dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione
dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove
sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo
conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di
alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella
proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni
punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre
anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le
procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli
incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con
la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni
organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto
invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i
responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per
pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va
dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai
9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei
Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra
quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la
complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle
attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza
l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti
con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per
contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il
Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario
correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal
garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori
proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione
di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata
all’interno del decentrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi
incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera.
Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i
sindacati.
Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni
organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un
nuovo
Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di
affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo
strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto
conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio
prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito
ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che
devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di
revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree
è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura
prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali
e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il
tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per
essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi
inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi
proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli
con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad
esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della
retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le
dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con
il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le
posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono
problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la
riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto
dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla
contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per
le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il
fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore
possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di
valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della
retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila
euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci
si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti
con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da
una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione
dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente
adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto
sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e
quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre
quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo
indipendente di valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi,
le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della
richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in
assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate
alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti
obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl
01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl
delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche
solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra
il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della
prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti
obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono
inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente
definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare
lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti
non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il
fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il
progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti
dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i
trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale
copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della
contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica
situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta
di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata,
sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un
rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che,
tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito
prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo
aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito
gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di
ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato
l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto
alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero
attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria
solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori
dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla
vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo
del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti
costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno
di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili
destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i
ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di
dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione
decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente
perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si
trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al
mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il
riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo
Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il
compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno;
l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere
preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i
risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non
inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente
individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un
noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine
dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con
la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli,
analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto
decentrato;
2. risorse previste nel bilancio annuale;
3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati
del progetto”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente
tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L
per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione
dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di
progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5,
del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità,
tra le quali:
1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più
obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione
di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel
piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione
della gestione;
2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto,
diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza
dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale
coinvolto;
4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono
erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli
obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato
correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro
analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di
performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento,
possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già
conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto
delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla
necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento,
continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del
personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre
ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di
spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di
incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto
sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei
ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte
eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di
natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare
l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare
come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle
prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non
azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario,
se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della
prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran,
pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i
cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere
finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del
richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali
di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto
inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali
sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative
dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e
valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs
150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni
sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione
integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con
la performance organizzativa, con il piano della performance e con la
relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo
sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee
guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione
Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della
rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative,
che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un
inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono
innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il
portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una
rilevanza strategica”
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Il
regolamento sugli incentivi tecnici assorbe il passato con la retroattività
«debole»
Il principio della cosiddetta retroattività «debole» rende legittima la
disciplina del regolamento degli incentivi tecnici che disponga il
pagamento, oltre che per il futuro, anche per le attività svolte prima della
sua approvazione. L'inclusione o esclusione dal fondo delle risorse
decentrate di questi incentivi (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017),
tuttavia, dovrà confrontarsi con la normativa vigente all'epoca delle
attività espletate divenute remunerabili solo a regolamento approvato.
Queste sono le indicazioni della Corte dei conti della Liguria (parere 03.04.2019
n. 31).
Il principio della retroattività «debole»
I giudici contabili liguri danno risposta positiva alla possibilità, da
parte del regolamento dell'ente, di poter attrarre quali attività
incentivabili anche quelle espletate prima della sua approvazione. Questo è
possibile grazie al principio della cosiddetta retroattività «debole» che
produce i suoi effetti dalla data di approvazione anche sulla base di una
fattispecie realizzatasi nel passato, a differenza della retroattività «forte»
che riguarda una espressa previsione della norma intesa a comprendere, dalla
sua entrata in vigore, anche le fattispecie e gli effetti avvenuti nel
passato.
La retroattività «debole» vale anche per gli incentivi tecnici i cui
effetti sono validi per il futuro ma che possono attrarre anche gli
accantonamenti ai fondi destinati agli incentivi effettuati prima della
disciplina regolamentare. Al medesimo ragionamento, secondo il collegio
contabile ligure, si giunge anche per altra via. Infatti, ove la legge
disciplina per il passato anche l'eventuale fonte regolamentare potrebbe
disciplinare ora per allora situazioni pregresse.
Nel caso degli incentivi tecnici, infatti, le disposizioni del Dlgs 50/2016
disciplinano situazioni del passato in due commi dell'articolo 216. Al comma
1 dove la nuova disciplina «si applica alle procedure e ai contratti per
i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente alla sua data di entrata in
vigore nonché, in caso di pubblicazione di contratti senza pubblicazione di
bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati
inviati gli inviti a presentare offerte». Al comma 3 quando si precisa
che «Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all'articolo
21, comma 8, si applicano gli atti di programmazione già adottati ed
efficaci …».
Le regole da rispettare
Per i giudici contabili liguri una cosa sono gli effetti retroattivi del
regolamento, altra cosa è la legge applicabile alla distribuzione degli
incentivi che non può che essere quella vigente al momento delle attività
espletate dai dipendenti (nel caso di specie il precedente codice dei
contratti Dlgs 163/2006). Le medesime regole troveranno applicazione anche
alle nuove disposizioni della legge di bilancio 2018 che, inserendo
all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, il comma 5-bis, ha posto gli incentivi
fuori dai limiti e vincoli del salario accessorio (articolo 23, comma 2,
Dlgs 75/2017).
Alle medesime conclusioni giunge anche la Corte dell'Umbria (parere
28.03.2019 n. 56) che, dopo aver condiviso la possibilità che i regolamenti
possono attrarre anche accantonamenti già effettuati, precisano che
l'impegno di spesa sugli incentivi tecnici potrà essere assunto solo a
partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, con la sola
precisazione che gli incentivi prima del 2018 dovranno essere considerati
quali spese del personale (soggetti ai vincoli del fondo) mentre quelli
successivi a questa data dovranno essere afferenti al medesimo capitolo
degli appalti, servizi o forniture (fuori dai limiti del fondo)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2019). |
INCENTIVI
PROGETTAZIONE:
Tornano gli incentivi per la progettazione.
Il decreto sblocca-cantieri si traduce anche nel provvedimento
sblocca-incentivi per i dipendenti pubblici, mandando in soffitta i compensi
per le funzioni tecniche per fare largo ai vecchi e, forse, mai tramontati
incentivi per la progettazione.
La lista dei beneficiari
Con un colpo di mano quasi preannunciato, viste le pressioni della categoria
per riprendersi il maltolto, la norma modifica il comma 2 dell'articolo 113
del codice degli appalti, andando a riscrivere parte dell'elenco dei
beneficiari dei compensi per le funzioni tecniche.
Al posto dei dipendenti
che svolgono le attività di programmazione della spesa per investimenti, di
valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, sono inseriti i
lavoratori ai quali è affidata l'attività di progettazione, di coordinamento
della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica
preventiva della progettazione. Sono salvi, in continuità con il passato, il Rup, la direzione dei lavori, la direzione dell'esecuzione, il collaudo
tecnico amministrativo, la verifica di conformità e il collaudo statico.
Si tratta, come detto, di una marcia indietro rispetto alla novità
introdotta con il Dlgs 50/2016, dove l'obiettivo era quello di compensare i
soggetti che avevano il compito di tenere sotto controllo la spesa, facendo
rientrare nell'alveo sia la fase di programmazione che quella di scelta del
contraente. Sostanzialmente, vengono, di nuovo, esclusi dagli incentivi quei
dipendenti che non sono tecnici e che svolgono le attività amministrative
strettamente connesse ai lavori, ai servizi e alle forniture.
Rientrano in gioco gli architetti, gli ingegneri e i geometri delle
pubbliche amministrazioni a cui saranno affidate le progettazioni, con la
fine di discussioni spesso spiacevoli per l'attribuzione di compiti non più,
a loro dire, equamente remunerati.
Problemi applicativi
Come ogni modifica che si rispetti, anche in questo caso ripartiranno i
problemi applicativi. In primis, in mancanza di una norma transitoria, dovrà
essere chiarito quando applicare la vecchia disposizione e quando la nuova
previsione. Si farà riferimento all'espletamento dell'attività compensata
oppure al bando di gara? E per le attività ovvero le procedure attualmente
in corso?
E ancora. Per poter applicare la norma appena approvata è necessario che le
amministrazioni provvedano a definire le modalità e i criteri di riparto
delle risorse a disposizione in sede di contrattazione decentrata e ad
adottare il regolamento. Percorso alquanto impegnativo se si pensa che, a
oggi, alcune amministrazioni non hanno ancora regolamenti adeguati alla
prima versione del Dlgs 50/2016.
Concludendo, possiamo dire che, per il momento, nella partita fra tecnici e
amministrativi, si affermano i primi, i quali, però, dovranno pazientare un
po' per godere dei frutti della vittoria in quanto, prima, vanno sistemate
le carte
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019). |
INCARICHI
PROGETTUALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Progettazione,
la modifica al principio chiarisce la contabilizzazione.
La modifica al principio applicato della contabilità finanziaria decisa da
Arconet nella
seduta del 09.01.2019 e destinata a dare attuazione a
quanto previsto dalla legge 145/2018 (articolo 1, comma 910) in materia di
costituzione del fondo pluriennale vincolato in relazione alla gestione
degli investimenti, ha il merito di chiarire anche il trattamento contabile
delle progettazioni.
In proposito, si manifestano alcune incertezze, anche
in funzione delle casistiche che la prassi propone, in ordine alla
collocazione contabile delle spese tra parte corrente e parte conto
capitale, con i conseguenti effetti e impatti in termini di modalità di
finanziamento e di risorse concretamente utilizzabili.
Progettazione interna o esterna
È così chiarito, ora, che la spesa riguardante il livello minimo di
progettazione richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel
programma triennale dei lavori pubblici è, ovviamente, registrata nel
bilancio di previsione prima dello stanziamento per l'opera.
In questo caso, nondimeno, l'iscrizione della spesa nella parte investimenti
(conto capitale) è condizionata all'individuazione, da parte dei documenti
di programmazione dell'ente concernenti la realizzazione delle opere
pubbliche (Dup), in modo specifico, dell'investimento da eseguire con le
correlate modalità di copertura finanziaria. Questa indicazione vale
naturalmente per la spesa che riguarda la progettazione esterna la cui
contabilizzazione avverrà mediante l'utilizzo della voce U.2.02.03.05.001
concernente «Incarichi professionali per la realizzazione di investimenti».
Nel caso di progettazione interna, invece, la contabilizzazione seguirà la
natura economica dei fattori, con la conseguenza che la spesa di personale
sarà classificata nell'ambito della parte corrente, mentre eventuali
attrezzature saranno classificate nell'ambito delle spese in capitale. Fermo
restando questo trattamento nel quadro della contabilità finanziaria, è
comunque necessario procedere, nella contabilità economico-patrimoniale,
alla capitalizzazione dei costi mediante apposita registrazione in fase di
scrittura di assestamento.
Il finanziamento in attesa della contribuzione
È anche da segnalare che è pure chiarito, opportunamente, che, nel caso in
cui la copertura dell'intervento sia costituita da un contributo per il
finanziamento dell'opera (comprensivo della spesa di progettazione) concesso
nell'esercizio successivo a quello in cui è stata impegnata la spesa
concernente la progettazione, la quota riguardante la progettazione deve
essere gestita quale entrata libera, considerando che il vincolo è già stato
rispettato.
Si tratta del caso, piuttosto frequente, nel quale l'ente finanzia
autonomamente (con risorse proprie) la progettazione in attesa della
contribuzione (la cui richiesta implica, ad esempio, la partecipazione ad un
apposito bando) e che comporta, successivamente, l'esigenza di ripristinare
la disponibilità delle risorse medio-tempore impiegate con la medesima
natura (libera o vincolata).
I piccoli importi
Peraltro, la modifica al principio si occupa anche del trattamento degli
interventi di importo inferiore a 100.000 euro che non implicano la
preventiva attività di programmazione dei lavori pubblici, con la
conseguenza che lo stanziamento a bilancio può avvenire pure in caso di
mancato inserimento nel programma triennale.
In questa fattispecie, la spesa di progettazione è registrata nel Titolo II
della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera
complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione
esterna, sulla base dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016.
Quest'ultimo, in
particolare, prevede che «gli oneri inerenti alla progettazione, alla
direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al
collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione
dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza
in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari
per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti».
Anche in questa ipotesi, nondimeno, seguendo la natura economica, gli
stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione devono
essere classificati tra le spese di personale, con la conseguente
capitalizzazione nell'ambito della contabilità economico-patrimoniale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019). |
ENTI LOCALI
- INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Spesa
di personale, revisori obbligati ai controlli anche sugli incentivi per
funzioni tecniche.
La verifica del rispetto delle disposizioni in materia di personale è sempre
stato un tema molto sentito dagli organi di revisione economico finanziaria,
anche per la complessità della normativa.
Il
documento n. 6
(Controlli sui vincoli di assunzione e sulle spese di personale) dei principi di
revisione approvati dal Cndcec (e si veda anche il Quotidiano degli enti
locali e della Pa del 28 febbraio, del 1° marzo e del 4 marzo) ricorda in
proposito che «L'obiettivo di contenimento delle spese di personale è un
punto fermo della disciplina vincolistica ispirata al riequilibrio della
finanza pubblica ed è annoverato tra gli obiettivi prioritari di intervento
anche per il quadro sanzionatorio da cui è assistito».
Per questo motivo gli
organi di revisione sono tenuti a verificare:
• il rispetto del limite di spesa di personale in base ai commi 557 e 562
della legge 296/2006, mediante confronto di serie storiche omogenee. In
particolare, la verifica dovrà riguardare:
1. in sede di bilancio di previsione, il rispetto programmatico del
vincolo di contenimento delle spese di personale oltre che il rispetto
tendenziale del limite nell'esercizio precedente, dandone atto nell'ambito
del parere richiesto dall'articolo 239 del Tuel;
2. durante la gestione, il permanere del rispetto programmatico del
vincolo di contenimento delle spese di personale, soprattutto in relazione
ai provvedimenti (come le variazioni di bilancio) che sono destinati a
produrre un impatto su queste ultime anche in modo prospettico;
3. in sede di rendiconto, l'effettivo rispetto del vincolo di
contenimento delle spese di personale, dandone atto nell'ambito della
relazione al rendiconto prevista dall'articolo 239 del Tuel;
4. nell'esercizio successivo a quello di mancato rispetto del
vincolo di contenimento delle spese di personale, l'effettiva applicazione
dei meccanismi sanzionatori previsti.
• il rispetto del limite di spesa per lavoro flessibile, secondo la
disciplina contenuta nell'articolo 9, comma 28, del decreto legge 78/2010,
che abbraccia tutte le forme contrattuali (tempi determinati, Co.co.co.,
somministrazione, convenzioni o comandi, contratti di formazione e lavoro o
tirocini formativi);
• il rispetto del limite di spesa delle risorse destinate al salario
accessorio del personale fissato dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017
nell'ammontare corrisposto per l'anno 2016 e la conformità delle clausole
dei contratti decentrati integrativi (normativi ed economici) alla
disciplina sovraordinata. L'organo di revisione dovrà in particolare
verificare la corretta applicazione degli istituti previsti dalla
contrattazione nazionale, la compatibilità dei costi della contrattazione
decentrata con gli stanziamenti del bilancio di previsione, la conformità
delle risorse riportate nel fondo per il trattamento accessorio
(distintamente per la dirigenza e per il comparto) con le disposizioni che
ne disciplinano la costituzione, la sussistenza delle condizioni che
legittimano l'inserimento di risorse aggiuntive. Il parere dovrà essere reso
sulla base della relazione illustrativa e tecnico finanziaria, presupposti
imprescindibili per l'attività di controllo;
• il rispetto dei vincoli in materia di turn-over, determinati in funzione
delle caratteristiche dell'ente locale, dell'evoluzione normativa e di
alcuni elementi di premialità.
Gli incentivi per funzioni tecniche
Sebbene rubricati in documento diverso da quello dedicato alle spese di
personale [documento
n. 2 (pag. 84) - Funzioni dell’Organo di revisione: attività di collaborazione, pareri
obbligatori e vigilanza], i principi demandano all'organo di revisione anche il controllo e
la vigilanza in materia di incentivi per funzioni tecniche. Il fatto che
questi incentivi non siano più considerati spesa di personale e assoggettati
ai limiti delle risorse destinate al salario accessorio non fa spegnere i
riflettori su questa delicata materia.
Più che al rilascio del parere sul
regolamento di disciplina degli incentivi, da approvare previa stipula di un
accordo di contrattazione decentrata (parere non esplicitamente previsto né
dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 né tanto meno dai principi di revisione),
il controllo verte piuttosto –secondo un approccio sostanzialistico- sulla
verifica della corretta gestione del ciclo degli incentivi.
L'organo di revisione deve infatti accertare:
• in sede di quantificazione:
1. che sia stata calcolata e finanziata la percentuale degli
incentivi da accantonare nel fondo in coerenza con i tempi di esecuzione del
contratto, riportati nel cronoprogramma di attività e di spesa;
2. che l'accantonamento venga riportato nello stesso capitolo di
spesa delle altre voci del quadro economico previsto;
3. che sia stato costituito il gruppo di lavoro.
• in fase di liquidazione, se:
1. è stato adempiuto l'onere della preventiva fissazione dei
criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad esso
specificamente "destinate" in sede di contrattazione collettiva decentrata;
2. l'ente abbia disciplinato e modulato (comma 2 dell'articolo 113
del Dlgs 50/2016) con apposito regolamento la ripartizione degli incentivi
per funzioni tecniche con l'obiettivo di premiare i dipendenti che
concretizzano l'esecuzione dell'opera, del servizio o della fornitura nel
rispetto di importi e tempi programmati;
3. la determina di approvazione del dirigente/responsabile del
servizio documenti il completamento delle attività e le persone impegnate
nello svolgimento dell'attività;
4. i singoli importi per gli incentivi rispettino i limiti fissati
nel regolamento approvato dalla giunta;
5. le somme complessivamente erogate al personale rispettino i due
limiti finanziari di contenimento: uno di carattere generale (il tetto
massimo al 2% dell'importo posto a base di gara, senza considerare eventuali
ribassi) e l'altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del
trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo
dipendente);
6. gli incentivi sono destinati solo ai componenti del gruppo di
lavoro, gia formalmente individuato a monte dal dirigente o dal responsabile
del servizio su proposta del responsabile unico del procedimento, tenendo
presente le attività realmente svolte, la spesa sostenuta rispetto a quella
prevista, nonché i tempi di realizzazione rispetto a quelli previsti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni
sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione
organizzativa.
Due nodi assai intricati nella
disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle
relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere
destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la
potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli.
Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto
su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente,
sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del
fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di
tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale
prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa
quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali
per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una
eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi
previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per
prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i
contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le
funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle
amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di
relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento
dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di
sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune
amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al
25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999,
era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse
per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di
questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni
possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il
contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le
risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo
che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche
ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la
dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da
sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme
dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più
flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle
amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il
consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario
accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran
parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del
fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni
organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come
risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di
aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a
tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio
precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente
utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che
questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che
hanno una dimensione maggiore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la
decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle
posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena
l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò
deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale:
la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la
definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della
indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare
autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento
dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena
disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o
proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo
ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti
esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla
definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si
conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono
offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a
posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative
che presentino particolare complessità;
b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato
grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare
attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una
elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello
universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali,
in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che
deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del
curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative
al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le
amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono
specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e
indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali
caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta
di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art.
13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al
rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento
degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti
sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali
definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione
organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità
professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e
la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico
l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti
delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e
dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai
responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono
essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs
267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109,
comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi
vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo
107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire
l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi
previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle
risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di
risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016
e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla
retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che
incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore
complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse
decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i
seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle
responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri
l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di
valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di
graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si
intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in
presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile
il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del
posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il
trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle
graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben
presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere
predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito
l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti
dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione
alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione
istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono
essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano
nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con
riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla
significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito
nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di
criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei
criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta
l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non
è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto
che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere
una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione,
l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il
contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di
firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi
aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e
manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono
predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per
specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega,
quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non
è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e
manageriale del dirigente medesimo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le
delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e
regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e
graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.
La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio,
cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle
funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018,
determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito
dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle
amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle
more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione
devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di
aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e
graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una
deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di
informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei
lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli
enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in
assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima
di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi
contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si
può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere
assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e
quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra
quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte
professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei
principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli
stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura
e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali
posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono
scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche
disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un
avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti
con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo
come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla
scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti
può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o
per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle
previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in
caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e
che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza
dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite
dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di
posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro.
Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la
misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in
16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono
anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle
responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene
aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la
connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti
contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del
decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle
posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il
finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà
avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale
(articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere
coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per
equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone
l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle
maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa,
dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni
dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono
state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute
nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai
titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile
conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane
condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione
delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni
esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a
tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali
per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni
avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti
assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle
cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non
potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013
(comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno
2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata
dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte
corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi
erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000
euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C),
rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di
conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma
2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario
accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Ok dalla sezione Autonomie agli incentivi tecnici anche per le
manutenzioni ordinarie e straordinarie «complesse».
In modo simile all'estensione degli incentivi agli appalti di servizi e
forniture, che la legge limita alla sola presenza del direttore
dell'esecuzione e per importi non inferiori ai 500mila euro o di particolare
complessità, anche le manutenzioni ordinarie e straordinarie possono essere
oggetto di incentivazione, a patto che siano di particolare complessità.
Sono queste le indicazioni
della Corte dei conti, sezione delle Autonomie, nella
deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Il contrasto tra le sezioni regionali
La Sezione di controllo per l'Umbria ha rimesso la questione di massima alla
Sezione delle Autonomie, per capire se, nel nuovo quadro legislativo,
rientrassero o meno gli incentivi tecnici legati ad attività di manutenzioni
ordinarie e straordinarie (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della
Pa del 16 ottobre) in considerazione del contrasto di soluzioni tra Sezioni
di controllo.
Si ricorda come il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione
Sicilia (parere
16.03.2018 n. 121) ne aveva delimitato il possibile ambito di
applicazione alle sole manutenzioni straordinarie, escludendo quelle
ordinarie.
Il percorso logico della Sezione Autonomie
Secondo la Sezione delle Autonomie, il legislatore, con le nuove
disposizioni del Dlgs 50/2016 (articolo 113), ha ritenuto incentivabili le
attività compiute, dai diversi profili tecnici e amministrativi, del
personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione all'esecuzione del contratto, consentendo l'erogazione degli
incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture e non più, come in
passato, per i soli appalti di lavori.
Tuttavia, per evitare una erogazione indiscriminata per gli appalti di
servizi e forniture, ha stabilito che questi ultimi potranno essere oggetto
di incentivazione solo in presenza della nomina del direttore
dell'esecuzione, obbligatoria per appalti di importo superiore a 500.000
euro ovvero qualora di particolare complessità.
Sicuramente la manutenzione straordinaria presenta caratteristiche
particolari potendo rientrare nel novero delle attività complesse, tali da
richiedere, da parte del personale tecnico-amministrativo, un'attività di
programmazione della spesa, di valutazione del progetto o di controllo delle
procedure di gara e dell'esecuzione del contratto rispetto ai termini del
documento di gara, esattamente come qualunque altro appalto di lavori,
servizi o forniture.
A differenza delle manutenzioni straordinarie, quelle ordinarie possono
essere di semplice realizzazione, in quanto spesso prive di un progetto da
attuare o perché l'amministrazione procede all'affidamento con modalità
diverse dalla gara che costituisce presupposto indefettibile della norma ai
fini della determinazione del fondo vincolato.
Conclusioni
In definitiva per la Sezione delle Autonomie anche le attività di
manutenzione straordinaria o ordinaria potrebbero rientrare, a pieno titolo,
tra le funzioni incentivabili purché caratterizzate da problematiche
realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento
di attività da parte del personale interno all'amministrazione affinché il
procedimento, che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali, si
svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto,
nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo,
l'efficienza e l'efficacia della spesa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.01.2019). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Revoca
quasi impossibile per il ragioniere capo.
I nuovi principi contabili hanno inciso in modo significativo sul ruolo del
responsabile dei servizi finanziari, tanto che l'Osservatorio sulla finanza
locale e la contabilità degli enti locali, ha emanato l'atto di
orientamento 26.10.2018 teso a evitare strumentali rotazioni degli incarichi o revoche
anticipate in considerazione del delicato ruolo attribuitogli
dall'ordinamento.
Le indicazioni del decreto del 2012
Si ricorda come le iniziali indicazioni del Dl 174/2012 prevedevano che
«L'incarico di responsabile del servizio finanziario di cui all'articolo
153, comma 4, può essere revocato esclusivamente in caso di gravi
irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. La revoca
é disposta con Ordinanza del legale rappresentante dell'Ente, previo parere
obbligatorio del Ministero dell'interno e del Ministero dell'economia e
delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato».
La norma, tuttavia, è stata successivamente espunta in sede di conversione
dalla legge 213/2012, mentre sono restate intatte le ulteriori funzioni che
attribuiscono al responsabile finanziario il controllo sugli equilibri di
bilancio e dei vincoli di finanza pubblica, disponendo, altresì, che
nell'esercizio di queste funzioni il responsabile del servizio finanziario
agisce «in autonomia», segnalando, fra l'altro, eventuali squilibri anche
alla Corte dei conti.
Precisa l'Osservatorio come, la Consulta (sentenza n. 184/2016) abbia avuto
modo di esaltare la regola che la copertura economica di spese ed equilibri
di bilancio sono due facce della stessa medaglia dal momento che
l'equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla
previa individuazione delle risorse.
Pertanto, nel ruolo affidato al
responsabile del servizio finanziario è di primaria importanza la
realizzazione di questi obiettivi con la conseguenza della tendenziale
stabilità nel tempo della figura del responsabile finanziario.
Sulla rotazione degli incarichi
Una volta chiarita la necessaria stabilità del ruolo del responsabile dei
servizi finanziari è necessario trovare un coordinamento con le disposizioni
dei piani anticorruzione che indicano come necessaria la rotazione degli
incarichi dirigenziali. In questo caso una rotazione del ruolo del
responsabile finanziario non potrà che essere attentamente valutata
dall'ente tenendo conto obbligatoriamente dell'infungibilità di questa
figura dirigenziale, con alcune precisazioni.
La prima precisazione riguarda la verifica che la rotazione non comprometta
il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa e cioè che non
siano in alcun modo compromesse le funzioni di conservazione e salvaguardia
degli equilibri di bilancio. In altri termini le motivazioni di una
rotazione dell'incarico dovranno essere indirizzate sulle necessarie
competenze professionali del nuovo responsabile necessarie per lo
svolgimento delle attribuzioni del servizio finanziario.
La seconda precisazione riguarda la sostanziale infungibilità della
posizione del responsabile finanziario con obbligo di soprassedere
dall'attuare la misura di prevenzione della corruzione qualora non sia in
grado di garantire il conferimento dell'incarico a soggetti dotati delle
competenze necessarie per assicurare la continuità dell'azione
amministrativa.
Sulla revoca degli incarichi
Al fine di stabilire ed evitare che l'ente possa attuare forme
discriminatorie di risoluzione anticipata degli incarichi dei responsabili
degli uffici finanziari, l'Osservatorio fa proprie le prime indicazioni del
Dl 174/2012 ma, in considerazione della sua espunzione in sede di
conversione in legge, mediante specifico inserimento nel regolamento di
contabilità.
In altri termini, il regolamento di contabilità potrà prevedere
che la revoca sindacale dell'incarico di responsabile finanziario, attesa
l'assoluta prevalenza delle sue attribuzioni alla tutela di profili ordinamentali,
potrà essere limitata ai casi di gravi e riscontrate irregolarità contabili
e subordinata all'acquisizione di un parere obbligatorio e vincolante del
Consiglio dell'ente, da comunicare entro 30 giorni dall'adozione alla
competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti
locali, ragionieri stabili. Rotazione e revoca solo in caso di gravi
irregolarità. L’Osservatorio per la finanza e la contabilità: valutare
attentamente l’avvicendamento.
Rotazione e revoca cum grano salis per i ragionieri di
comuni, province e città metropolitane. Le due misure, che di fatto
determinano (sia pure per ragioni diverse) la sostituzione del responsabile
del servizio finanziario, devono essere attentamente soppesate e motivate al
fine di non pregiudicare il buon andamento e la continuità dell'azione
amministrativa.
Possono essere sintetizzate in
questi termini le
indicazioni 26.10.2018 fornite dall'Osservatorio per la finanza e la
contabilità degli enti locali, che ha dedicato all'argomento un
atto di orientamento finalizzato a incentivare comportamenti omogenei
nell'adozione di provvedimenti organizzativi che incidano su tale cruciale
figura. Quest'ultima svolge, infatti, funzioni di primaria importanza ai
fini della salvaguardia degli equilibri finanziari e contabili delle
amministrazioni, sia per i compiti di verifica della veridicità delle
previsioni, sia per quelli di vigilanza sulla legittimità degli atti di
gestione.
Logico corollario di tale specifica responsabilità non può che essere, in
via di principio, la tendenziale stabilità nel tempo della stessa figura.
Basti pensare che il dl 174/2012 aveva subordinato la revoca del ragioniere
al parere obbligatorio del ministero dell'interno e della Ragioneria
generale dello stato. Tale norma è stata poi stralciata, ma l'esigenza
rimane ferma.
L'Osservatorio, quindi, suggerisce di disciplinare a livello regolamentare
il procedimento, consentendone l'avvio solo per «casi di gravi e
riscontrate irregolarità contabili» e prevedendo l'acquisizione di un
parere obbligatorio e vincolante del consiglio dell'ente, da comunicare
entro 30 giorni alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
Analogamente, la rotazione per finalità di prevenzione della corruzione
dovrà essere disposta solo in modo da non compromettere il regolare
svolgimento delle suddette funzioni.
Tale garanzia non dovrà esaurirsi in una mera clausola di stile
motivazionale, ma dovrà indicare le concrete misure che la inverano, tra le
quali, di primaria importanza, la sussistenza reale delle competenze
professionali del nuovo responsabile. In mancanza, gli enti potranno
soprassedere e optare per misure anticorruttive alternative (articolo ItaliaOggi del 14.11.2018). |
ANNO 2018 |
|
aggiornamento al
19.02.2018 |
|
VARI: Shopper
da casa al supermercato. Via libera dallo
Sviluppo economico.
Salvo diverso avviso del ministero della
Salute, nei reparti di vendita di alimenti
organizzati a libero servizio, la clientela
può utilizzare gli shopper già in suo
possesso.
Gli enti del Terzo settore, invece, in
occasione di particolari eventi o
manifestazioni, possono, per il periodo del
loro svolgimento, somministrare alimenti e
bevande, previa segnalazione di inizio
attività e comunicazione, in deroga al
possesso dei requisiti professionali
(articolo 71 del dlgs 26.03.2010, n. 59) e
di onorabilità (commi 1 e 2 del medesimo
articolo 71).
Queste novità sono contenute negli ultimi
pareri (risoluzione
07.02.2018 n. 537605 e
risoluzione 26.09.2017 n. 398528)
emessi dal Ministero dello sviluppo
economico, in materia di esercizio della
somministrare alimenti e bevande da parte
dei nuovi enti del terzo settore (dlgs
03.07.2017, n. 11) e l'applicabilità della
normativa in materia di sottocosto agli
shoppers ultraleggeri commercializzati
(articolo ItaliaOggi del
17.02.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 – Chiarimenti PCM –
Ufficio per la semplificazione e la sburocratizzazione su
SCIA di agibilità (Ministero dello Sviluppo Economico -
Direzione Generale per il Mercato, la Concorrenza, il
Consumatore, la Vigilanza e la Normativa Tecnica - Divisione IV - Promozione della concorrenza e semplificazioni per le
imprese,
risoluzione 14.09.2017 n. 375622).
---------------
Scia di
agibilità. «Le
modifiche recate al Testo unico edilizia dal d.lgs. n. 69
del 2013 hanno esteso la facoltà prevista per l'edilizia
produttiva di presentare la dichiarazione o attestazione di
agibilità da parte del direttore dei lavori o dal
professionista abilitato (articolo 10, dpr n. 160 del 2010)
in alternativa al certificato di agibilità (articolo 25 del
T.u. edilizia), all'edilizia residenziale (articolo 25,
comma 5-bis, dpr n. 380 del 2001).
In attuazione della delega di cui all'articolo 5 del d.lgs.
n. 124/2015, l'articolo del d.lgs. n. 222/2016 e la tabella
allegata hanno individuato un unico regime amministrativo
per l'agibilità.
Infatti, è stato abrogato l'articolo 25 e sostituito
l'articolo 24 del dpr n. 380 del 2001 introducendo la
segnalazione certificata di inizio di attività ai fini
dell'agibilità.
Tale nuovo regime, che supera quello previgente (ivi
compreso quello di cui all'art. 10 del dpr n. 160 del 2010)
si applica, in tutti i casi, sia all'edilizia produttiva che
all'edilizia residenziale».
Questo è quanto si legge nella
risoluzione 14.09.2017 n. 375622 del Ministero
dello Sviluppo economico in merito alle disposizioni in
materia di Scia di agibilità
(articolo ItaliaOggi del
17.02.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Contrordine dei giudici contabili, gli incentivi
tecnici non sono esclusi dal fondo del salario accessorio.
Dopo che la Corte dei conti umbra (sul Quotidiano degli enti
locali e della Pa del 7 febbraio) e la Corte friulana (sul
Quotidiano degli enti locali e della Pa dell’8 febbraio)
avevano dato speranza di vedere esclusi dal salario
accessorio gli incentivi per funzioni tecniche, arriva la
doccia fredda della Sezione della Puglia (deliberazione
09.02.2018 n. 9) che va in senso opposto tanto da
rimettere la questione di massima nuovamente alla Sezione
delle Autonomie.
Le tesi sul superamento delle deliberazioni
della Sezione Autonomie
Rispetto alle conclusioni della Sezione delle Autonomie (deliberazione
06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24),
è nuovamente intervenuto il legislatore con l'articolo 1,
comma 526, della legge di bilancio 2018, prevedendo
l'allocazione della spesa per incentivi per funzioni
tecniche nei capitoli di spesa destinati alle opere
pubbliche; determinandone, di fatto, l'allocazione
nell'ambito della spesa per investimenti.
La novità è stata oggetto di interpretazione da parte della
magistratura contabile secondo cui gli incentivi tecnici non
rientrerebbero nei capitoli della spesa del personale, ma
dovrebbero essere ricompresi nel costo complessivo
dell'opera (sezione di controllo della regione autonoma
Friuli Venezia Giulia,
parere 02.02.2018 n. 6).
A rafforzare l'esclusione di questi incentivi dal limite di
crescita dei fondi decentrati previsti dall'articolo 23,
comma 2, del Dlgs 75/2017 si è anche schierata la sezione
dell'Umbria, con il
parere 05.02.2018 n. 14.
Secondo questa delibera l'individuazione dei soggetti che
hanno diritto all'incentivo avviene tenendo conto delle
funzioni “tecniche” garantendo il bonus ai dipendenti
pubblici che le espletano. Non si registra un ampliamento
indeterminato della spesa in quanto lo stesso sistema
normativo contiene regole che consentono di determinare e
contenere la spesa del personale, evitando che la stessa
assuma un carattere incontrollato.
La posizione della Corte pugliese
La posizione assunta dalle Corti regionali non convince i
giudici contabili pugliesi per le seguenti motivazioni:
• l'appostazione contabile degli incentivi di natura tecnica
nell'ambito del «medesimo capitolo di spesa» previsto
per i singoli lavori, servizi o forniture non potrebbe
mutarne la natura di spesa corrente trattandosi, in ogni
caso, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al
personale;
• secondo il glossario Siope «le entrate riguardanti i compensi
erogati al personale concernenti la realizzazione di
attività di progettazione finalizzate ad un investimento
diretto, registrate sia tra gli investimenti diretti sia tra
le spese di personale, devono essere oggetto di regolazione
contabile con gli incentivi di progettazione impegnati tra
gli investimenti diretti, in modo da consentire l'effettivo
pagamento della spesa sui capitoli del bilancio relativi
alla spesa del personale»;
• qualora si considerassero spese di investimento e non di
personale, si potrebbe configurare una violazione della
disciplina di cui all'articolo 3, comma 18, della legge n.
350/2003, che ha stabilito ipotesi tipizzate di spese di
investimento;
• infine, il finanziamento di questa spesa non potrebbe comunque
avvenire mediante ricorso all'indebitamento stante il
disposto dell'articolo 119, ultimo comma, della
Costituzione.
In considerazione del contrasto tra Sezione regionali sulla
corretta imputazione degli incentivi per funzioni tecniche,
la Sezione pugliese rimette nuovamente al questione di
massima alla sezione delle Autonomie (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2018). |
APPALTI: Stazioni
appaltanti certificate. Contratti
pubblici/il dpcm attuativo del codice.
Presenza di un sistema di qualità
certificato, basso livello di soccombenza
nel contenzioso, laureati in economia per
affidare gare di concessione o Ppp
(Partenariato pubblico privato).
Sono questi alcuni dei requisiti previsti
per qualificare le stazioni appaltanti
contenuti nell'atteso dpcm (ex art. 38 del
codice dei contratti pubblici) che si
applicherà agli appalti di servizi e
forniture oltre 40 mila e di lavori oltre i
150 mila euro e consentirà anche di ridurne
il numero in attuazione dei principi della
legge delega 1/2016.
Si tratta però di un
provvedimento che, come altri previsti nel
codice, ha una applicazione alquanto lenta:
una volta approvato il dpcm –e per
arrivarci bisognerà acquisire il parere
dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac),
del Consiglio di stato e della Conferenza
unificata- serviranno ancora altri due
provvedimenti: uno dell'Anac finalizzato a
definire (ex art. 38, comma 6 del codice dei
contratti) le «modalità attuative del
sistema di qualificazione» prevedendo anche
«un congruo termine per dotarsi dei
requisiti necessari alla qualificazione».
Una volta approvato questo atto, nei 90
giorni successivi il sistema entrerà a
regime. Quindi senza queste indicazioni
tutta la macchina rimarrà bloccata. Nel
frattempo dovrà essere adottato un secondo
provvedimento (entro 90 giorni dall'entrata
in vigore del dpcm) che rimane in capo al
ministero dell'economia e servirà a mettere
a punto «apposite linee guida esplicative»
dei criteri adottati per la verifica degli
adempimenti organizzativi.
Assai articolata è anche la disciplina
transitoria delineata nel testo che, come
detto, presuppone che Anac emani l'atto di
sua competenza. Si lasciano infatti 18 mesi
alle stazioni appaltanti che hanno fatto
domanda per attrezzarsi, quindi per un anno
e mezzo potranno conservare «la capacità di
espletare la propria attività, e di
acquisire il codice identificativo di gara (Cig)».
Nel merito il testo uscito da Palazzo Chigi,
trasmesso a regioni e comuni per acquisire
l'intesa in sede di conferenza unificata,
prevede requisiti di qualificazione minimi
che le amministrazioni dovranno soddisfare,
legati a tre ambiti operativi:
programmazione e progettazione; gestione e
controllo della fase di affidamento;
gestione e controllo di esecuzione, collaudo
e messa in opera. Le stazioni appaltanti
saranno qualificate in quattro fasce di
importo e in relazione alla stabilità
dell'organizzazione deputata a gestire le
gare in un determinato ambito territoriale
(ad esempio è rilevante la presenza di sedi
decentrate). Per quel che concerne le
qualifiche del personale, ad esempio, viene
prevista l'obbligatoria presenza di un
laureato in scienze economiche per gestire
affidamenti in concessione o in Ppp.
Per i lavori il personale dovrà assicurare
l'utilizzo di proprio personale
nell'esecuzione e nel collaudo dei lavori
Per quel che riguarda il sistema di
formazione interno alla stazione appaltante
si fa riferimento anche alle conoscenze in
materia di anticorruzione e trasparenza.
Vengono previsti anche dei requisiti
premianti legati alla presenza di sistemi di
gestione della qualità ISO 9001 certificati
da organismi accreditati, dall'utilizzo di
metodi e strumenti elettronici (esempio il
Bim, Building information modelling), alla
valutazione da parte di Anac sull'adozione
di misure di prevenzione dei rischi di
corruzione e promozione della legalità.
Sarà
valutato anche il livello di soccombenza nel
contenzioso negli ultimi tre anni (non più
del 30%). Le amministrazioni senza requisiti
potranno scegliere se dotarsi di quanto
previsto nel decreto o delegare una stazione
appaltante qualificata
(articolo ItaliaOggi del
13.02.2018). |
VARI: Telemarketing, si azzera tutto.
Revocati i precedenti consensi a ricevere le
telefonate.
Gli effetti della l. 5/2018 sul Registro
delle opposizioni: scelta mirata e sempre
revocabile.
I numeri telefonici non passano più da una
lista all'altra: stop alle telefonate
moleste anche sui telefonini. L'interessato
ha il diritto di scegliersi da chi ricevere
proposte telefoniche di acquisto di beni e
prodotti. E chi chiama non può nascondersi:
si deve capire subito se è una telefonata di
marketing diretto.
Sono questi gli effetti attesi della legge
5/2018 (nuove disposizioni in materia di
iscrizione e funzionamento del registro
delle opposizioni e istituzione di prefissi
nazionali per le chiamate telefoniche a
scopo statistico, promozionale e di ricerche
di mercato) pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 28 del 03.02.2018).
Nell'attesa del regolamento attuativo, ecco
un vademecum per orientarsi nel nuovo
registro delle opposizioni.
Le novità riguardano, infatti, proprio il
registro delle opposizioni. È un elenco per
evitare di ricevere le chiamate telefoniche
indesiderate. È operativo dal 31.012011. Da quella data gli abbonati agli
elenchi telefonici pubblici che non vogliono
più ricevere chiamate dagli operatori di
telemarketing per attività commerciali,
promozionali o per il compimento di ricerche
di mercato tramite l'uso del telefono,
possono opporsi alle telefonate indesiderate
iscrivendosi al registro pubblico delle
opposizioni. Quel sistema ha manifestato
negli anni aspetti di strutturale
ineffettività e l'abbonato si è trovato
esposto a telefonate promozionale senza un
solido argine.
Il problema è rappresentato anche e
soprattutto dalla regola della prevalenza
del consenso rilasciato a un singolo
operatore. Quel consenso non era superato
dall'iscrizione nel registro. Se si unisce
questa regola al fatto che il consenso può
avere a oggetto la comunicazione a terzi dei
dati per finalità di marketing di terzi, ciò
aumentava a dismisura la possibilità di
chiamate di marketing diretto.
Non a caso sul sito del registro
(www.registrodelleopposizioni.it) si spiega
che evidenzia la novità dell'annullamento
dei consensi precedentemente prestati dai
cittadini per finalità pubblicitarie
(articolo 23 del Codice della privacy) nel
momento in cui diventerà effettiva
l'iscrizione nel registro. Tale previsione
punta a permettere ai cittadini di liberarsi
da tutte quelle chiamate commerciali per cui
il consenso è stato dato con leggerezza,
magari per avere una tessera sconti o la
carta fedeltà del supermercato. In questo
scenario compare la nuova legge 5/2018, che
cambia un po' di cose. Vediamo di costruire
una lista di domande e risposte per
illustrare il contenuto della novella.
Da quando hanno effetto le novità?
La legge 5/2018 è in vigore formalmente dal
04.02.2018, ma sarà operativa dopo
l'emanazione del regolamento attuativo (che
aggiorna il regolamento originario e cioè il
dpr n. 178/2010), in cui saranno definite le
modalità tecniche di iscrizione degli
abbonati al nuovo registro e gli obblighi di
consultazione degli operatori di
telemarketing.
Questo significa che, per esempio, il
diritto di opposizione alle chiamate
pubblicitarie indesiderate verso i cellulari
e i numeri fissi non presenti negli elenchi
telefonici pubblici (queste alcune delle
novità) verosimilmente nel secondo semestre
2018.
Chi può iscriversi nel registro delle
opposizioni ed evitare chiamate moleste?
Possono iscriversi, tutti gli interessati
che vogliano opporsi al trattamento delle
proprie numerazioni telefoniche effettuato
mediante operatore con l'impiego del
telefono per fini di invio di materiale
pubblicitario o di vendita diretta, o per il
compimento di ricerche di mercato o di
comunicazione commerciale.
L'iscrizione non è automatica, ma ci vuole
una specifica richiesta, anche
contemporaneamente per tutte le utenze
telefoniche, fisse e mobili, loro intestate.
A contrario le utenze non iscritte possono
essere utilizzate per chiamate commerciali,
senza il consenso dell'interessato e fatta
sempre salva la possibile opposizione.
Per le chiamate automatizzate ci vuole,
invece, sempre il consenso preventivo.
Non ci vuole la specifica richiesta di
iscrizione, in quanto iscritte d'ufficio,
per le numerazioni fisse non pubblicate
negli elenchi di abbonati.
Posso scegliere da chi ricevere telefonate?
Certo, gli interessati iscritti al registro
possono revocare, anche per periodi di tempo
definiti, la propria opposizione nei
confronti di uno o più soggetti. Si tratta
di scelte mirate a ricevere proposte
telefoniche commerciali.
Inoltre rimane la possibilità di dare il
consenso al trattamento dei dati personali
prestato dall'interessato, ai titolari da
questo indicati, successivamente
all'iscrizione nel registro.
L'iscrizione al registro cancella i consensi
individuali a ricevere telefonate rilasciati
a singoli operatori?
Sì, è questa una delle novità più
importanti.
Con l'iscrizione al registro, dice la legge,
si intendono revocati tutti i consensi
precedentemente espressi per ricevere
pubblicità telefonica.
Inoltre con l'iscrizione al registro (altra
novità) sarà precluso, per le medesime
finalità, l'uso delle numerazioni
telefoniche cedute a terzi dal titolare del
trattamento sulla base dei consensi
precedentemente rilasciati.
Attenzione, però, all'eccezione: sono fatti
salvi i consensi prestati nell'ambito di
specifici rapporti contrattuali in essere, o
cessati da non più di 30 giorni, aventi a
oggetto la fornitura di beni o servizi, per
i quali è comunque assicurata, con procedure
semplificate, la facoltà di revoca.
Vedremo come le autorità interpreteranno
questa eccezione. C'è una lettura più
garantista per l'abbonato e cioè le
telefonate si possono ricevere solo per un
mese a fine di un contratto e ciò per dare
la possibilità all'imprenditore di
recuperare il cliente; c'è poi una lettura
più estensiva e cioè se c'è stato un
contratto con una raccolta di un consenso in
precedenza all'entrata in vigore della legge
questo rimane sempre valido (sono fatti
salvi i consensi forniti «nell'ambito» di
contratti).
Il mio numero di telefono può passare di
mano in mano?
No, a decorrere dal 04.02.2018 sono
vietati, con qualsiasi forma o mezzo, la
comunicazione a terzi, il trasferimento e la
diffusione di dati personali degli
interessati iscritti al registro, per fini
di pubblicità o di vendita o per il
compimento di ricerche di mercato o di
comunicazione commerciale non riferibili
alle attività, ai prodotti o ai servizi
offerti dal titolare del trattamento.
Quindi abbiamo una possibilità limitata di
circolazione dei numeri telefonici, anche se
il divieto non è assoluto (l'eccezione non è
soggettiva, ma riguarda prodotti e servizi).
Posso sapere a chi sono stati trasferiti i
miei dati?
Sì, in caso di cessione a terzi di dati
relativi alle numerazioni telefoniche, il
titolare del trattamento è tenuto a
comunicare agli interessati gli estremi
identificativi del soggetto a cui i medesimi
dati sono trasferiti.
Se c'è una violazione chi ne risponde?
Il titolare del trattamento dei dati
personali, dice la legge, è responsabile in
solido delle violazioni delle disposizioni
della presente legge anche nel caso di
affidamento a terzi di attività di call
center per l'effettuazione delle chiamate
telefoniche.
L'operatore commerciale, che si affida a un
call center, rimane il responsabile
Cosa cambia per gli operatori che utilizzano
i sistemi di pubblicità telefonica?
Viene istituito l'obbligo di consultare
mensilmente, e comunque precedentemente
all'inizio di ogni campagna promozionale, il
registro pubblico delle opposizioni e di
provvedere all'aggiornamento delle proprie
liste. Sono previste agevolazioni tariffarie
e modalità semplificate di consultazione del
registro.
Si possono usare compositori telefonici?
No i call center non potranno usare
compositori telefonici per la ricerca
automatica di numeri telefonici.
Si può mascherare l'identificazione della
linea?
No, tutti i call center devono garantire la
piena attuazione dell'obbligo di
presentazione dell'identificazione della
linea chiamante.
Si dovranno usare due codici o prefissi
specifici, atti a identificare e distinguere
in modo univoco le chiamate telefoniche
finalizzate ad attività statistiche da
quelle finalizzate al compimento di ricerche
di mercato e ad attività di pubblicità,
vendita e comunicazione commerciale.
Quindi i call center devono dotarsi di
questi numeri (si devono attendere i
provvedimenti attuativi dell'Agcom). Ma c'è
un'eccezione anche qui: ci si può limitare a
presentare l'identità della linea a cui
possono essere contattati
(articolo ItaliaOggi
Sette del
12.02.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Comuni, illegittimo porre a carico del
contribuente spese indebite.
È ingiustificato che un Comune possa addebitare oltre alle
proprie spettanze relative alle entrate patrimoniali e
tributarie, anche costi che non trovano nessun addentellato
nella normativa, come la famigerata voce per «ricerca
eredi».
Il caso
Un Comune in un'intimazione riguardante il pagamento di
alcune spettanze per soli 26 euro ha addebitato al
contribuente la voce «ricerca eredi» pari a 75 euro.
Tuttavia, in nessuna parte della normativa è consentito
all'ente locale di poter caricare sul contribuente voci o
poste, in assenza di copertura legislativa.
La Pubblica amministrazione, difatti, è chiamata a dare
applicazione alla norma e non a gravare il contribuente di
costose e inutili ricerche.
Rimane da capire ancora in cosa consistano queste ricerche
che sicuramente presuppongono l'utilizzo di banche dati e
come si sia potuto arrivare a una cifra del genere anche in
rapporto alla pretesa.
La notifica agli eredi del contribuente
Sì, perché la voce per «ricerca eredi», non ha alcun
ragione giuridica, difatti, gli uffici tributi sono
ampiamente garantiti dall'articolo 65, comma 4, del Dpr n.
600 del 1973 in cui è stabilito che la notifica degli atti
intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi
impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio
dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che,
almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la
comunicazione. Quest'ultima consiste nell'informazione con
cui gli eredi del dante causa, comunicano le loro generalità
e il loro domicilio fiscale. Questo significa che l'ente non
avrebbe certamente dovuto perdere tempo e denaro per
concentrarsi su ricerche del tutto inutili, in
considerazione di quanto prevede la norma.
In mancanza della comunicazione, il Comune procede con la
notificazione degli atti agli eredi presso l'ultimo
domicilio del dante causa.
L'ente locale grazie al meccanismo legislativo è posto in
grado di notificare senza dover procedere con ricerche, che
comunque non potrebbero essere poste a carico del
destinatario. Viceversa, qualora, la comunicazione sia stata
eseguita, occorrerà una notifica personale agli eredi,
all'indirizzo dagli stessi indicato.
In conclusione
Gli enti locali non sono tutti uguali, alcuni perseguono il
loro compito nel pieno rispetto della normativa, con
un'organizzazione da far invidia a una qualsiasi società
efficiente.
Lo sforzo di questi Comuni, di investire sulla formazione
del personale degli uffici tributi, è ripagato in termini di
qualità dei servizi erogati e di recupero delle entrate
patrimoniali e tributarie.
In contrasto con queste realtà, si collocano però tutti
quegli enti, che non formano o non tengono aggiornato il
loro personale, con conseguenze nefaste sui loro bilanci,
ciò a seguito dei ricorsi volti a chiedere l'annullamento
degli atti, colmi di clamorosi svarioni ed errori.
Da tutto ciò deriva per il contribuente, anche fuori dal
caso preso in esame, che si veda addebitare costi avulsi dal
quadro normativo, di poter adire l'autorità giudiziaria, con
ripercussioni sulle casse pubbliche dell'ente locale (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.02.2018). |
ANNO 2017 |
|
aggiornamento al
28.12.2017 |
|
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Funzioni
tecniche, premi a parte. Incentivi fuori dal
tetto per la contrattazione decentrata.
Gli incentivi ai tecnici debbono essere
considerati fuori dal tetto del fondo per la
contrattazione decentrata.
È stato approvato l'emendamento
49.22 (di iniziativa della I
Commissione) e l'emendamento
49.19 (di iniziativa dell'On.
Fabbri, sottoscritto anche dall'On.
Fragomeli) alla legge di Bilancio (Atto
Camera n. 4768), presentato anche
su iniziativa dell'Unitel (Unione nazionale
italiana tecnici enti locali) finalizzato a
risolvere il garbuglio della composizione
delle risorse decentrate, derivante dalla
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della Sezione Autonomie della Corte dei
conti.
Come è noto, la Sezione ha enunciato il
principio di diritto secondo il quale «Gli
incentivi per funzioni tecniche di cui
all'articolo 113, comma 2, dlgs n. 50/2016
sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all'articolo 1, comma 236,
l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)».
Le indicazioni della Sezione, peraltro non
condivise dalla Sezione Liguria, e comunque
riconfermate dalla
deliberazione 10.10.2017 n. 24,
hanno letteralmente gettato nel panico le
amministrazioni, perché improvvisamente il
fondo della contrattazione decentrata si è
visto dover finanziare gli incentivi per i
servizi tecnici previsti dal codice, che
invece erano sempre state considerate spese
finanziate al di fuori del fondo.
Si è immediatamente creata una situazione di
stallo nelle trattative, di per sé già molto
complesse, per la destinazione dei fondi.
Infatti, l'interpretazione data dalla
Sezione Autonomie finisce per erodere i
fondi, dai quali sottrarre le risorse per
gli incentivi tecnici, visto che non sono
nemmeno possibili incrementi della parte
variabile che vadano oltre il tetto del
2016, imposto dalla riforma Madia
all'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017.
La chiave di lettura offerta dalla Sezione
Autonomie non ha né convinto sul piano
giuridico operatori ed enti, né ha trovato
accoglienza favorevole sul piano politico e
sindacale.
Da qui, la necessità di fare chiarezza,
mediante l'emendamento il cui testo prevede
modifica l'articolo 113 del dlgs 50/2016 (il
codice dei contratti), inserendo il seguente
nuovo comma 5-bis: «Gli incentivi di cui
al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture».
L'emendamento (cfr.
il testo approvato il
21.12.2017 dalla V Commissione permanente
Bilancio, tesoro e programmazione della
Camera dei Deputati) smentisce la
ricostruzione della Corte dei conti e
chiarisce che il finanziamento degli
incentivi deriva da fonti esterne al
bilancio, così da poter consentire
l'incremento dei fondi per la contrattazione
decentrata.
Occorrerà verificare se la magistratura
contabile si farà convincere che la modifica
normativa risolve i problemi creati con le
interpretazioni restrittive fin qui
espresse. Di certo, si deve osservare che
non è la prima volta che letture rigorose e
comunque non allineate con le esigenze
gestionali degli enti da parte della Corte
dei conti inducono il legislatore a
correzioni di rotta mediante interventi
normativi.
Era avvenuto qualcosa di simile anche
relativamente al tema del computo delle
assunzioni dei dirigenti a contratto ai
sensi dell'articolo 110 del Tuel: la
magistratura contabile riteneva prima che la
spesa non rientrasse nel tetto di spesa
dell'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010,
per poi cambiare idea; il legislatore ha
stabilito che detta spesa non rientra nel
tetto, ma la Corte dei conti con delibere
successive ha confermato che, invece, la
spesa per i dirigenti a contratto comunque
sta nel tetto di spesa dei contratti
flessibili.
È evidente che simili rimpalli di
interpretazioni e rincorse a chiarire
significati di norme, molte volte poco
esplicite ma altre volte non così oscure e
contraddittorie, finisce solo per creare
grande disorientamento tra gli operatori,
con comprensibili svantaggi di molti generi
nell'attività gestionale
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2017).
---------------
Al riguardo, si leggano anche i seguenti
ulteriori documenti:
●
Le modifiche approvate dalla Camera dei
Deputati (Senato della
Repubblica, dossier dicembre 2017);
●
Sintesi degli emendamenti approvati dalla V
Commissione Bilancio della Camera dei
Deputati (Senato della
Repubblica, dossier dicembre 2017).
Il Senato della Repubblica, il 23.12.2013,
ha approvato il seguente disegno di legge
d’iniziativa del Governo (Atto
Senato n. 2960-B), già approvato
dal Senato e modificato dalla Camera dei
deputati:
Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2018 e bilancio
pluriennale per il triennio 2018-2020
(in attesa di pubblicazione sulla G.U.R.I.).
Per quanto qui interessa, l'art. 1, comma
526, così dispone:
526.
All’articolo 113 del codice dei contratti
pubblici, di cui al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il
seguente comma:
«5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al
medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture». |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi ai tecnici solo se c’è il
direttore dell’esecuzione.
Gli incentivi per forniture e servizi
possono essere assegnati solo quando risulti
obbligatorio incaricare un direttore
dell’esecuzione diverso dal responsabile
unico del procedimento.
Non può che essere
letta in questo modo la previsione
dell’articolo 113, comma 2, ultimo periodo,
del dlgs 50/2016 come modificata dal decreto
«correttivo», ai sensi del quale «la
disposizione di cui al presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o
forniture nel caso in cui è nominato il
direttore dell’esecuzione».
La previsione
introdotta dal dlgs 56/2017 ha lo scopo
chiarissimo di limitare quanto più possibile
la spesa per incentivazione delle attività
tecniche connesse agli appalti per
l’acquisizione di beni e servizi, per
evitare una crescita incontrollabile della
spesa del personale. Sarebbe fin troppo
facile eludere la norma, nominando sempre
espressamente un direttore dell’esecuzione
per ciascuna fornitura e ciascun servizio:
significherebbe vanificare totalmente lo
scopo della riforma.
Pare necessario,
allora, leggere la previsione dell’articolo
113, comma 2, del codice dei contratti in
stretta connessione con il punto 10 delle
Linee Guida Anac 3/2016, dedicate al Rup di
servizi e forniture.
Tale punto 10 evidenzia
cinque casi nei quali il responsabile unico
del procedimento non può coincidere col
direttore dell’esecuzione:
a) quando si
tratta prestazioni di importo superiore a
500 mila euro;
b) per interventi
particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico;
c) per prestazioni che
richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della
funzionalità delle strutture sanitarie che
comprendono trasporto, pulizie,
ristorazione, sterilizzazione, vigilanza,
socio sanitario, supporto informatico);
d)
se si tratta di interventi caratterizzati
dall’utilizzo di componenti o di processi
produttivi innovativi o dalla necessità di
elevate prestazioni per quanto riguarda la
loro funzionalità;
e) per ragioni
concernente l’organizzazione interna alla
stazione appaltante, che impongano il
coinvolgimento di unità organizzativa
diversa da quella cui afferiscono i soggetti
che hanno curato l’affidamento.
Solo quando
ricorrono queste ipotesi, da specificare e
motivare in profondità nei provvedimenti con
cui si incarica un direttore dell’esecuzione
diverso dal responsabile unico del
procedimento, appare possibile innescare
l’incentivo. Ovviamente, nulla esclude che
anche non ricorrendo le 5 ipotesi previste
dal codice ciascuna amministrazione per fare
fronte a particolari proprie esigenze
organizzative disponga comunque di non far
coincidere l’incarico di Rup con quello di
direttore dell’esecuzione.
Il regolamento sull’assegnazione degli
incentivi, allora, in questo caso dovrà
essere estremamente chiaro nell’escludere
che spetti la ripartizione degli incentivi
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
aggiornamento al
31.07.2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
sottotetti, Scia o Pc. Lombardia.
Recupero abitativo dei sottotetti in
Lombardia: regime giuridico da individuare
di volta per volta sulla base degli elementi
progettuali. In quanto essendo considerata
«ristrutturazione edilizia», la disciplina
applicabile non è più quello della denuncia
di inizio attività. Potrà essere una Scia o
un permesso di costruire per la
ristrutturazione c.d. «leggera» e permesso
di costruire o Scia alternativa per la
ristrutturazione c.d. «pesante».
Questi i chiarimenti contenuti nella
circolare 20.07.2017 n. 10
della Regione Lombardia.
Le novità introdotte dai decreti legislativi
n. 126 e n. 222 del 2016 -ricorda la
circolare- hanno reso necessario
l'adeguamento della modulistica per i titoli
edilizi (si veda ItaliaOggi del 17.05.2017).
Tutti i nuovi moduli edilizi unificati e
standardizzati, approvati il 4 maggio e il 6
luglio scorsi in conferenza unificata, con
accordo tra il governo, le regioni e gli
enti locali, sono stati adeguati alle
normative regionali e approvati, in un unico
provvedimento, con la deliberazione della
Giunta regionale Lombarda del 17.07.2017, n.
6894.
Nelle more di un aggiornamento e
riallineamento della normativa regionale, i
tecnici lombardi forniscono alcune
considerazioni in merito ad aspetti della
disciplina edilizia di più frequente
ricorrenza: come noto, infatti, il dpr
06.06.2001, n. 380 (Testo unico
dell'edilizia) è stato interessato negli
ultimi tempi da ripetuti interventi di
modifica. I funzionari Lombardi inoltre
sottolineano che a fronte di una
giurisprudenza costituzionale consolidata in
questi anni, si è affermato espressamente
che «la definizione delle diverse
categorie di interventi edilizi spetta allo
Stato».
Pertanto la disciplina degli interventi
edilizi dettata all'articolo 27 della legge
regionale n. 12/2005 è da considerarsi
superata, dovendosi ormai fare riferimento
alle definizioni di cui all'articolo 3 del
dpr 380/2001, in quanto disposizioni
espressamente qualificate dalla corte
costituzionale come «principi
fondamentali della materia»
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017). |
ENTI LOCALI - VARI:
Autovelox: addio cartelli con l’avviso se
non c’è alcun controllo. Fuorilegge i
cartelli che avvisano della presenza di un
autovelox che poi non c’è o se il box ai
margini della strada è vuoto.
Da oggi in poi, se troveremo un cartello con
su scritto «controllo elettronico della
velocità» vorrà dire che, molto
probabilmente, l’autovelox c’è davvero. Non
potranno più esistere –e se ci sono andranno
rimossi– gli avvisi posti in quei luoghi ove
la polizia non fa più le multe con i
dispositivi di controllo a distanza come
tutor, autovelox e telelaser.
A stabilirlo è il Ministero degli Interni
che, due giorni fa, ha diramato una
importante direttiva (direttiva
21.07.2017 n. 300/A/5620/17/144/5/20/3 di
prot. - che probabilmente,
da oggi in poi, sarà meglio nota come
circolare Minniti) e che aggiorna le regole
stabilite dalla altrettanto famosa direttiva
Maroni del 2009 in tema di prevenzione degli
incidenti stradali e di contrasto alle
violazioni del codice della strada. Tra i
tanti aspetti trattati dal documento
ministeriale vi è la messa la bando dei
segnali permanenti che evidenziano
l’accertamento elettronico della velocità se
il tratto stradale non viene utilizzato
sistematicamente per l’attività di
controllo.
Addio quindi a tutta quell’infinita serie di
segnali di avviso di controllo elettronico
della velocità, disseminati qua e là sulle
nostre autostrade, figli di epoche in cui
l’utilizzo degli autovelox era selvaggio e
massiccio.
Dopo i numerosi ricorsi da parte degli
automobilisti, i Comuni hanno compreso che
non basta più mettere un cartello con
scritto «controllo elettronico della
velocità» per poter fotografare un
automobilista e poi inviargli la multa a
casa. Ci sono distanze da rispettare,
autorizzazioni Prefettizie da chiedere e
segnaletiche da apporre. In tutto questo,
anche se l’uso degli autovelox continua ad
essere il principale spauracchio per molti
automobilisti, di certo la tecnica del
tranello si è dovuta raffinare rispettando
le numerose (e spesso confuse) regole.
Ora, dopo otto anni dalla famosa circolare
Maroni che aveva tentato di disciplinare
l’utilizzo degli autovelox, la circolare
Minniti chiede quantomeno un po’ di ordine:
che si tolgano dai lati delle strade gli
avvisi di controllo della velocità che non
fanno altro che rallentare il traffico sul
più bello anche laddove non ve n’è bisogno.
Diventano così fuori legge i segnali che
avvertono della presenza di un controllore
elettronico senza alcuna strumentazione nei
paraggi.
Riportiamo il testo della circolare che qui
interessa di più: «Per le postazioni
temporanee possono essere utilizzati segnali
collocati in modo permanente sulla strada
solo quando la posizione dei dispositivi di
rilevamento sia stata oggetto di preventiva
pianificazione coordinata ed i loro impiego
in quel tratto di strada non sia
occasionale, ma, per la frequenza dei
controlli, assuma il carattere di
sistematicità.
Per «pianificazione del servizio di attività
di controllo con misuratori di velocità» si
intende quella possibilmente definita in
seno alla conferenza provinciale permanente.
L’attività pianificata, se programmata con
carattere sistematico, dovrà necessariamente
assumere una natura non occasionale (esempio
almeno X giorni la settimana per X mesi o
con altra cadenza) assumendo a tal fine
importanza prioritaria non tanto la
determinazione di un numero X di controlli,
ma la indicazione dell’intervallo temporale
in cui viene effettuata l’attività di
controllo stesso. Pertanto l’effettuazione
di un numero X di periodi di controlli
ripetuti, in un arco temporale definito, fa
assumere all’attività di controllo il
carattere di sistematicità. Ovvio che più è
frequente l’attività meglio credibile
risulta anche il segnalamento.
Salvo i caso sopracitati, infatti,
l’utilizzazione di segnaletica permanente
per segnalare postazioni temporanee, se pur
non vietate dalle disposizioni vigenti,
risulta non coerente con la tipologia
utilizzata e con l’esigenza di credibilità
che il messaggio segnaletico deve fornire.
Pertanto, salvo i casi sopraindicati, le
postazioni temporanee dovrebbero essere
segnalate con segnali stradali temporanei»
(23.07.2017 - link a
www.laleggepertutti.it). |
ANNO 2016 |
|
aggiornamento al
09.12.2016 |
|
INCARICHI PROFESSIONALI: Codice
appalti, due strade per i servizi degli avvocati.
Alcuni dicono che serve una mini gara, altri
sostengono l'affidamento diretto dell'incarico.
La nuova disciplina dei contratti pubblici sulla
rappresentanza e difesa in giudizio della p.a..
Pasticciaccio sugli incarichi agli avvocati da parte
delle p.a. dopo il nuovo codice degli appalti. C'è
chi dice che bisogna fare una mini gara perché sono
contratti di appalto, anche se si escludono le
procedure più pesanti (gara pubblica) e c'è chi dice
che è un contratto d'opera, assolutamente estraneo
al campo di applicazione del codice dei contratti
pubblici (dlgs 50/2016).
Tutto sta nel fatto che proprio il nuovo codice dei
contratti pubblici indica la rappresentanza e difesa
in giudizio come «servizio escluso». Con
questa classificazione, però, si apre la strada alla
applicazione delle mini gare: se siamo di fronte a
un contratto escluso dall'applicazione dei
procedimenti ordinari, è pur vero che questo
presupporrebbe che siamo nel campo della normativa
sui contratto di appalto. Per stare al di fuori di
questa logica, bisogna qualificare il contratto con
l'avvocato incaricato della difesa in giudizio non
come contratto di appalto di servizi, ma come
contratto d'opera intellettuale.
Ma analizziamo le due impostazioni, mentre le p.a.
vanno a tentoni e aspettano un chiarimento dalla
giurisprudenza.
Appalto.
Una tesi sostiene che gli incarichi ad avvocati sono
appalto di servizio, per cui è escluso l'affidamento
diretto su basi fiduciarie (in latino «intuitu
personae»).
Questa tesi si appoggia sull'art. 17 del codice dei
contratti, che inserisce, tra i contratti cosiddetti
esclusi, i servizi legali, anche quelli concernenti
la rappresentanza legale di un cliente da parte di
un avvocato in un arbitrato o conciliazione, nei
procedimenti giudiziari.
Secondo questa impostazione l'esclusione non
significa che le amministrazioni hanno mano libera.
Anzi è nuova la classificazione di queste attività
come servizi ed è quindi preclusa la strada
dell'affidamento dell'incarico ai sensi del codice
civile, che vale solo per i committenti privati. Il
risultato di questa impostazione è che bisogna
applicare i principi generali degli appalti, tra cui
l'economicità, la trasparenza, la par condicio
tra i concorrenti.
Ci vorrebbe un avviso pubblico, precisando le
caratteristiche del servizio, magari richiedendo
particolari esperienze o specializzazioni. Si può
acquisire le manifestazioni di interesse e poi
passare a un confronto concorrenziale. Non si
esclude la possibilità di una scelta diretta, ma
solo se motivata da urgenza delle procedure.
Opera intellettuale.
La tesi diametralmente opposta fa leva sull'articolo
4 del codice degli appalti. Questo articolo
definisce l'ambito di applicazione dei dlgs 50/2016
ai soli contratti di appalto, tra cui non può essere
inserito il mandato difensivo. L'appalto, infatti, è
un contratto con cui l'appaltatore si assume il
rischio connesso al compimento dell'opera o del
servizio; nel mandato difensivo manca questa
caratteristica, anzi l'articolo 2230 del codice
civile esprime una regola del tutto diversa (tanto
che si parla di obbligazione di mezzi e non di
risultato).
Peraltro sarebbe opinabile una norma che impedisse a
un soggetto giuridico di scegliersi il difensore,
prerogativa certamente connaturata al diritto di
difesa costituzionalmente garantito.
E non si potrebbe dire che il codice dei contratti
del 2016 abbia abrogato implicitamente le
disposizioni del codice civile sull'attività
professionale. Infine viene ricordata la
giurisprudenza del consiglio di stato che si era
pronunciata nel senso di escludere le gare per gli
affidamenti ai legali in vigenza del vecchio codice
dei contratti pubblici (dlgs 163/2006).
Secondo il Consiglio di stato, Sez. V, 11.05.2012 n.
2730 la scelta dell'avvocato per la difesa in
giudizio dell'amministrazione costituisce
prestazione intellettuale, estranea all'applicazione
dell'obbligo di gara per i servizi legali.
Da ultimo ci si chiede come si possa fare a
imbastire le procedure di mini gara quando scadono i
termini processuali e si rischia di incaricare
l'avvocato a ridosso delle scadenze. Ci si chiede
altresì come possa sostenersi la necessità di
rispettare il principio di economicità (prendere
l'avvocato che offre il prezzo più basso) quando in
giudizio vale la regola dell'accollo delle spese in
base alla soccombenza in giudizio (articolo
ItaliaOggi Sette del 05.12.2016 - tratto
da www.centrostudicni.it). |
aggiornamento al
31.10.2016 |
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EDILIZIA PRIVATA: Intesa
sul regolamento edilizio unico. Entro sei mesi il
recepimento delle Regioni, poi altri sei mesi per l’adozione
nei Comuni.
Semplificazioni. Ieri la firma fra Infrastrutture,
governatori e sindaci - In arrivo 42 definizioni standard
valide per tutti gli enti locali
Accordo fatto sullo schema di
regolamento edilizio nazionale, la principale riforma
promessa dal governo Renzi in materia di semplificazione e
vero “pezzo forte” dell’agenda sulle semplificazioni
edilizie.
Il traguardo –storico– è stato raggiunto ieri in conferenza
unificata, dopo una lunga e non facile discussione avviata a
maggio del 2015 al tavolo presso il ministero guidato da
Graziano Delrio con i rappresentanti di Comuni e Regioni.
A partire da oggi le Regioni hanno sei mesi di tempo per
recepire lo schema di regolamento con un proprio
provvedimento (legge o delibera). A partire dal recepimento
regionale, gli enti locali avranno altri sei mesi per
adottarlo. In altre parole –se tutto fila liscio e al limite
massimo dei tempi fissati– in un anno il regolamento
edilizio standard si trasformerà in realtà nei vari municipi
d’Italia. C’è comunque da ricordare che l’impegno
sottoscritto ieri riguarda in prima battuta le Regioni a
statuto ordinario, ed è opzionale per quelle a statuto
speciale.
Lo
schema di regolamento edilizio approvato ieri si
compone di tre parti: lo schema guida per la redazione del
regolamento più due allegati.
Il cuore innovativo del regolamento sta negli allegati.
L’allegato “a” elenca le 42 definizioni standard «uniformi»
valide per tutti gli enti locali. È la prima volta che ci si
mette d’accordo su un vocabolario unico per definire, per
esempio, la «superficie netta», la «superficie utile» oppure
anche solo l’«altezza dell’edificio».
Altrettanto rivoluzionario l’allegato “b” che elenca 118
norme statali che hanno un impatto sull’edilizia. L’aspetto
innovativo sta nel fatto che, nel nuovo regolamento
comunale, qualsiasi norma statale viene richiamata
esclusivamente attraverso il rinvio all’allegato “b”. In
questo modo si mette fine alla prassi che ha finora visto i
Comuni accogliere e fissare nei loro regolamenti norme
statali –o anche solo pezzi di norme nazionali– che magari
venivano poi modificate dal legislatore statale.
In altre parole il regolamento unico spazza via l’attuale
babele che si è creata negli anni a causa della
“personalizzazione” municipale. Infine c’è lo schema unico,
che rappresenta una guida per la redazione, e ha la forma di
un indice, che spetta al Comune riempire di contenuti.
Fin qui lo schema generale. C’è da dire che il regolamento
unico in realtà non sarà unico. Ciascuna regione può infatti
aggiungere proprie norme che hanno incidenza sull’attività
edilizia, e di cui il comune dovrà tenere conto. Non solo.
Le regioni potranno, in via transitoria, modificare «le
definizioni (uniformi) aventi incidenza sulle previsioni
dimensionali» dei piani regolatori. La formula, spiegano i
tecnici, è stata concessa per consentire a un ristretto
numero di regioni (e solo in via transitoria) di non
impattare sulle volumetrie previste dagli strumenti
urbanistici.
Questo obiettivo, spiegano sempre i tecnici, può essere
conseguito con limitati interventi sulla definizione di
«superficie accessoria». L’accordo impegna tuttavia le
Regioni a ritornare alla versione originale della
definizione «nei propri provvedimenti legislativi e
regolamentari, che saranno adottati» dopo l’accordo firmato
ieri.
Poi ci sono gli Enti locali, che a loro volta potranno
integrare lo schema con proprie misure che vanno oltre le
regole comuni, per esempio in materia di performance
energetiche o materiali “bio”.
Se le Regioni recepiscono lo schema di regolamento, il
comune è anch’esso obbligato ad adottarlo; e se non lo fa,
scaduti i sei mesi, le definizioni uniformi e le norme
sovraordinate (statali e regionali) «trovano diretta
applicazione». Se invece le Regioni non si adeguano entro la
loro scadenza –ovviamente non sono previste sanzioni– il
comune può recepire il regolamento ma non è obbligato a
farlo (articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
lingua comune in edilizia. Regolamento tipo con 42
definizioni standardizzate. La Conferenza unificata ha
sancito l'intesa sul decreto del ministero delle
infrastrutture.
Via libera definitiva dalla Conferenza unificata al
regolamento edilizio tipo. Sarà costituito da un unico
glossario per l'intero Paese e un elenco di titoli che
saranno il corpo dei regolamenti edilizi in tutti i comuni.
Le 42 definizioni allegate allo schema di regolamento
rappresentano una sorta di mini vocabolario per cui termini
come porticato, tettoia o veranda avranno lo stesso
significato in tutta la Penisola.
Suddiviso in due parti conterrà: un capitolo dedicato ai
princìpi generali e un secondo alle disposizioni
regolamentali comunali.
La Conferenza unificata del 20.10.2016 ha espresso parere
positivo allo schema di decreto del ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, Graziano Delrio, sul
regolamento edilizio tipo che contiene al suo interno le 42
definizioni standardizzate adottate già all'inizio
dell'anno.
Dal momento dell'accordo (tra regioni, governo e comuni
raggiunto il 20.10.2016), le regioni avranno 180 giorni
di tempo per recepire il regolamento edilizio tipo e
stabiliranno le scadenze a cui i comuni si dovranno attenere
per uniformarsi. Per favorire la conoscibilità della
disciplina generale dell'attività edilizia avente diretta e
uniforme applicazione, i comuni provvederanno alla
pubblicazione del link nel proprio sito istituzionale.
Doppia suddivisione del regolamento.
Il regolamento edilizio tipo si dividerà in due diversi
parti. Nella prima rubricata «principi generali e disciplina
generale in materia edilizia» è richiamata e non riprodotta
la disciplina generale dell'attività edilizia operante in
modo uniforme su tutto il territorio nazionale e regionale.
Nella seconda denominata «disposizioni regolamentari
comunali in materia edilizia» è raccolta la disciplina
regolamentare in materia edilizia di competenza comunale, la
quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e
l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata
nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il
territorio statale. I requisiti tecnici integrativi devono
essere espressi attraverso norme prestazionali, che fissino
risultati da perseguirsi nelle trasformazioni edilizie.
Le prestazioni da raggiungere potranno essere prescritte in
forma quantitativa, ossia attraverso l'enunciazione di
azioni da praticarsi affinché l'intervento persegua l'esito
atteso.
Prima parte regolamenti edilizi. Nella prima parte dei
regolamenti edilizi, al fine di evitare inutili duplicazioni
delle disposizioni nazionali e regionali, basterà richiamare
con apposita formula di rinvio, la disciplina relativa alle
materia di seguito elencate, la quale opererà direttamente
senza la necessità di un atto di recepimento nei regolamenti
edilizi:
- definizioni uniformi dei parametri urbanistici e edilizi;
- definizioni degli interventi edilizi e delle destinazioni
d'uso;
- procedimento per il rilascio e la presentazione dei titoli
abilitativi edilizi e le modalità di controllo degli stessi;
- modulistica unificata edilizia, gli elaborati e la
documentazione da allegare alla stessa;
- requisiti generali edilizi (ad esempio servitù militari,
accessi stradali e siti contaminati);
- disciplina relativa agli immobili soggetti a vincoli e
tutele di ordine paesaggistico, ambientale , storico
culturale e territoriale;
- discipline settoriali aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia, tra cui la normativa sui requisiti
tecnici delle opere edilizie e le prescrizioni specifiche
stabilite dalla normativa statale e regionale per alcuni
insediamenti e impianti.
Seconda parte regolamenti edilizi.
La seconda parte dei regolamenti edilizi, avrà per oggetto
le norme comunali che attengono all'organizzazione e alle
procedure interne dell'ente nonché alla qualità, sicurezza,
sostenibilità delle opere edilizie realizzate, dei cantieri
e dell'ambiente urbano, anche attraverso l'individuazione
dei requisiti tecnici e integrativi complementari, rispetto
alla normativa uniforme richiamata nella prima parte del
regolamento edilizio
(articolo ItaliaOggi del 21.10.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: "Nove
anni di mobbing per le mie segnalazioni".
Una strada di 423 metri diventò magicamente di 1,7
chilometri. Non potevo restarmene zitto.
«Alla fine, dopo aver girato per
mezza Italia, l'Inail mi ha riconosciuto la malattia
professionale per mobbing».
L'ingegnere civile Vito Sabato sa bene qual è il
prezzo da pagare per chi denuncia le corruttele.
«Inizia tutto nel 2006 -racconta- quando feci una
prima segnalazione al Comune di Pavia perché
venivano truccate le gare dei lavori stradali:
pagavamo fino a tre volte lo stesso committente. In
un altro caso abbiamo sborsato soldi senza che fosse
eseguita la prestazione». Degli illeciti
continui, ai limiti dell'immaginazione.
«Una strada di 423 metri diventò magicamente di
un chilometro e sette». E poi, come se non
bastasse, nuove segnalazioni sulle irregolarità
nelle modalità di assunzione dei dirigenti comunali.
Con concorsi banditi e poi revocati «per
favoritismi clientelari».
L'ingegnere Sabato ha denunciato, salvo pagarne il
conto in termine di carriera e salute. «Siamo al
paradosso: mi hanno messo in un settore che non è il
mio. E mi sono ritrovato a fare fax e poco altro»,
racconta Sabato. Una situazione paradossale: «Pensi
che il Comune è arrivato a chiedere a me, che sono
ancora un suo dipendente, una consulenza su un
parcheggio sotterraneo».
L'anno scorso Sabato ha anche ricevuto un simbolico
premio produzione, poco meno di 200 euro: lui ha
pubblicato copia del bonifico su Facebook e l'ha
restituito. Perché sostiene di essere stato messo da
parte dal 2007, ormai nove anni fa.
«Cosa vuole che le dica? Io ci ho solo rimesso,
anche di salute. Ho subito delle violenze
psicologiche aggravate e continuate che hanno
influito sulla mia vita privata», racconta il
58enne. «Adesso ho la malattia professionale, ma
se tornassi indietro lo rifarei. Non è cambiato
nulla ma non potevo scendere a compromessi con la
mia coscienza. Forse -conclude Sabato- se la gente
si comportasse così in Italia avremmo un po' meno
corruzione» (articolo
La Stampa del 12.10.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
aggiornamento al
14.06.2016 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Strade, reti e servizi: il Codice appalti
riscrive le procedure. Realizzabili senza gara gli
interventi extra-standard.
Opere di urbanizzazione. Regole diverse per i lavori a
scomputo.
La nuova
disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le
operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs
50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i
costruttori per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.
Il vecchio sistema
Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso
regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e
fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali
e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui
l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla
soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a
5.225.000 euro per gli appalti di lavori).
In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con
valore superiore alla soglia seguiva una procedura a
evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara
–aperta o ristretta– previsto dal vecchio Codice. Mentre
l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di
urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore
alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura
negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito
rivolto ad almeno cinque soggetti idonei (articolo 122, comma
8, Dlgs 163/2006).
In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001
(introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere
di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia
comunitaria -sempreché funzionali all’intervento di
trasformazione urbanistica- potevano invece essere
realizzate a cura del titolare del permesso di costruire
(ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza
applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di
urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale
all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata
prevista all’articolo 122, comma 8.
Il nuovo sistema
Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in
modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra
la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle
procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal
nuovo Codice. Così come, per le opere di urbanizzazione
primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di
trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista
dal comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per
quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non
funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso
alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara
(articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).
Le opere non a scomputo
Altra novità rilevante, ma all’insegna della
semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto
dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di
urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di
costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle
convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli
obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai
costruttori.
A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare
le procedure a evidenza pubblica viene normalmente
riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione.
E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si
dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo
(ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).
In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici
(determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo
delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai
contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un
corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte
dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo
quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di
liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di
evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a
realizzarle.
L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece
l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in
cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e
immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando
un’amministrazione stipula una convenzione con cui un
soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè
senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune,
un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o
programmi urbanistici.
In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione
svolga una funzione di controllo preventivo: prima della
stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle
opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre
alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di
inadempimento.
---------------
Per importi elevati si applica ancora
l’iter ordinario. Valori rilevanti. Confermata la prassi del
Dlgs 163/2006.
Il quadro dei
procedimenti previsti per realizzare le opere di
urbanizzazione a scomputo è stato parzialmente rivisto.
Pur continuando a differenziare, a livello nominale, tra
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di valore
superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria,
il Dlgs 50/2016 mantiene solo alcune delle distinzioni del
precedente assetto normativo (Dlgs 163/2006).
Per quanto concerne le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria sopra la soglia di rilevanza comunitaria, la
scelta del soggetto a cui affidare i lavori è rinviata dal
nuovo Codice –così come dal previgente– alle ordinarie
procedure di gara, aperte o ristrette, previa pubblicazione
di un bando o un avviso (si veda l’articolo a lato).
In caso di procedura aperta, qualsiasi operatore economico
interessato potrà dunque presentare un’offerta in risposta
all’avviso di gara. Mentre nelle procedure ristrette si
dovrà presentare una specifica «domanda di partecipazione»,
e solo gli operatori economici espressamente invitati –dopo
l’opportuna valutazione– potranno presentare un’offerta.
Diversamente da quanto previsto in passato, per effetto
dell’articolo 36, comma 3, del Dlgs 50/2016, le procedure
ordinarie sono oggi applicabili anche per l’affidamento dei
lavori per le opere di urbanizzazione primaria, non
funzionali all’intervento, e secondaria a scomputo, anche se
di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Nel quadro complessivo relativo alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione permane, in ogni caso, un’eccezione.
Il nuovo Codice appalti fa infatti salvo quanto previsto dal
comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001 secondo cui,
nell’ambito degli strumenti attuativi, nonché degli
interventi in attuazione dello strumento urbanistico
generale, l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione
primaria di importo inferiore alla soglia -se funzionali
all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio-
è a carico del titolare del permesso di costruire, e non si
applicano le disposizioni in materia di contratti pubblici.
In tali fattispecie, la realizzazione delle opere potrà
dunque avvenire prescindendo dalle regole per la selezione a
evidenza pubblica dell’appaltatore previste dal nuovo
Codice. Come rilevato dall’Autorità nazionale anticorruzione
(nella deliberazione 46 del 03.05.2012), con la norma in
esame «il legislatore ha di fatto estromesso detta
tipologia di lavori dalla categoria delle opere pubbliche».
---------------
La convenzione già stipulata segue la vecchia
normativa. Entrata in vigore. Fuori dal DLgs 50/2016 gli
accordi aggiudicati prima del 20 aprile.
Il Codice degli
appalti «entra in vigore il giorno stesso della sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» e «si applica
alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi
con cui si indice la procedura di scelta del contraente
siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata
in vigore».
Così è scritto nel Dlgs 50/2016, che è stato pubblicato
online sulla Gazzetta Ufficiale (n. 91) il 19 aprile scorso,
ma dopo le 22. Tale circostanza –come ha spiegato l’Anac con
nota del 3 maggio scorso– impone che, in base all’articolo
11 delle preleggi al Codice civile e «all’esigenza di
tutela della buona fede delle stazioni appaltanti», le
disposizioni del decreto si applichino a bandi e avvisi
pubblicati a decorrere dal 20.04.2016.
La stessa Autorità anticorruzione, pochi giorni dopo quella
nota, ha però dovuto chiarire a quali ulteriori casi
specifici –oltre quelli enunciati dalla norma– continuano ad
applicarsi le disposizioni previgenti. Con un comunicato del
presidente Raffaele Cantone, l’11 maggio è stato dunque
precisato che le norme del “vecchio” Dlgs 163/2006
valgono anche per gli «affidamenti diretti o procedure
negoziate in attuazione di accordi quadro aggiudicati prima
dell’entrata in vigore del nuovo Codice» e per le «adesioni
a convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore del
nuovo Codice».
Il chiarimento dell’Anac sembra fondarsi sulla necessità di
garantire l’affidamento generato dalle convenzioni stipulate
con l’amministrazione, che prevedano l’applicazione di
determinate procedure, nonché sulla necessità di
salvaguardare le attività già avviate ai fini delle
procedure stesse: ciò anche in conformità ai principi di
efficacia ed efficienza della Pa enunciati all’articolo 97
della Costituzione.
Ma il chiarimento può avere notevole incidenza sulle opere
di urbanizzazione a scomputo previste nell’ambito delle
convenzioni urbanistiche, per le quali è mutato il regime di
scelta dell’appaltatore (si vedano l’articolo e lo schema in
pagina). Il richiamo alle «convenzioni stipulate prima
dell’entrata in vigore del nuovo Codice» sembra infatti
riferibile anche a tale specifica tipologia di accordi: in
particolare, a tutti i casi in cui la convenzione
urbanistica disciplini le modalità per la selezione
dell’impresa o comunque contenga previsioni tali da generare
un affidamento sul soggetto attuatore.
Al contrario, alle convenzioni urbanistiche che non
dispongono sulle procedure per realizzare le opere di
urbanizzazione, e per le quali non siano comunque stati
pubblicati i relativi bandi o avvisi, dovrebbe applicarsi il
regime del nuovo Codice, con conseguenze di forte apertura
(si pensi alle opere extra-oneri ora tendenzialmente
liberalizzate) o di appesantimento procedurale (come nel
caso delle opere secondarie sotto soglia ora soggette alle
procedure a evidenza pubblica ordinarie).
Ad ogni modo, il tema potrà essere ulteriormente declinato
grazie alle linee giuda che l’Anac è impegnata ad adottare
entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Dlgs 50/2016, per
offrire indicazioni interpretative e attuative agli
operatori del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
aggiornamento al
31.03.2016 |
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APPALTI:
Convenzioni Consip optional. Nessun
obbligo per gli enti. Acquisti extra senza nulla
osta. Lo conferma il Mef con
la circolare sul contenimento delle spese dei conti
pubblici.
Gli enti locali hanno la facoltà e non un obbligo di
aderire alle convenzioni-quadro della Consip o degli
altri soggetti aggregatori.
Lo conferma la
circolare 23.03.2016 n. 12 del Mef, in
tema di misure di contenimento delle spese dei
bilanci pubblici. Indirettamente, quindi, la
circolare conferma che agli enti locali non si
applicano (se non in parte) le disposizioni
contenute nell'articolo 1, comma 510, della legge
208/2015.
Come è noto, la disposizione da ultimo citata ha
suscitato una serie di problemi applicativi, perché
subordina la possibilità delle amministrazioni di
effettuare acquisizioni di beni e servizi al di
fuori delle convenzioni quadro solo previa
autorizzazione specificamente motivata resa da un
non meglio identificato «organo di vertice
amministrativo».
Nell'ambito degli enti locali si è immediatamente
posto il problema di identificare tale organo. Le
tesi in campo sono due. Secondo una prima tesi,
non essendo l'autorizzazione un atto inerente la
gestione ma la programmazione e il controllo, la
competenza è della giunta. Secondo la seconda tesi,
al contrario, spetta al segretario comunale emanare
l'autorizzazione.
In questo secondo filone interpretativo si è
inserita la Corte dei conti, sezione Liguria, con la
deliberazione 24.02.2016 n. 14. Una
decisione che, tuttavia, ha destato parecchie
perplessità, perché ha considerato l'autorizzazione
alla stregua di un atto gestionale ed ha, inoltre,
considerato come già vigente negli enti locali il «dirigente
apicale», che invece è solo oggetto di una
futura attuazione della legge 124/2015.
Non si è trattato degli unici elementi critici della
deliberazione della sezione Liguria. Tra essi, ha
spiccato proprio l'assenza dell'analisi in merito
all'obbligatorietà dell'articolo 1, comma 510, della
legge 208/2015 per gli enti locali. La sezione lo ha
dato per scontato.
Tuttavia, si tratta di un'omissione di analisi
piuttosto rilevante. Infatti, l'articolo 1, comma
510, della legge 208/2015 impone l'autorizzazione
preventiva per effettuare acquisizioni fuori
convenzioni solo alle «amministrazioni pubbliche
obbligate ad approvvigionarsi attraverso le
convenzioni di cui all'articolo 26 della legge
23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip spa, ovvero
dalle centrali di committenza regionali».
Ma, come spiega la circolare 12/2016 alle
convenzioni-quadro «le amministrazioni pubbliche,
diverse dalle amministrazioni statali centrali e
periferiche, di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le
autorità indipendenti, hanno facoltà di ricorrere ai
sensi dell'articolo 1, comma 449, della legge
27.12.2006, n. 296, e fermo restando l'obbligo, in
caso di mancato ricorso, dell'utilizzo dei relativi
parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per
la stipulazione dei contratti». E gli enti
locali rientrano tra le amministrazioni diverse da
quelle statali centrali e periferiche.
Non essendovi, dunque, per i comuni e le province,
l'obbligo di utilizzare le convenzioni-quadro, non
c'è nemmeno l'obbligo di far precedere le
acquisizioni extra convenzioni da alcuna
autorizzazione, né di trasmettere l'autorizzazione
alla sezione regionale di controllo della Corte dei
conti.
L'autorizzazione, invece, appare necessaria ai sensi
dell'articolo 1, comma 516, della legge 208/2015, ai
fini dell'acquisizione di beni e servizi
informatici. Allo stesso modo, l'autorizzazione è da
ritenere necessaria per l'acquisizione dei beni e
dei servizi previsti dal dpcm 24.12.2015 di
attuazione dell'articolo 9, comma 3, del dl 66/2014,
convertito in legge 89/2014.
In questi casi, resta ancora aperto il problema
dell'individuazione dell'organo di vertice
amministrativo competente negli enti locali
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Per i piccoli lavori ridotte pubblicità e
trasparenza. Codice appalti. Sotto
il milione inviti a meno imprese.
Paletti più laschi sull’assegnazione
degli appalti sotto al milione di euro. È lo scenario che si
verificherà senza una correzione di rotta prima
dell’approvazione finale del nuovo codice dei contratti
pubblici.
Un paradosso clamoroso, considerando lo spirito della legge
delega approvata in Parlamento, mirata a garantire massima
trasparenza e rigore nella lotta alla corruzione, dopo le
inchieste sulle gare truccate messe in moto dalle procure di
mezza Italia.
Gli appalti sotto al milione rappresentano il cuore delle
opere pubbliche: circa l’80% delle gare (12.754 su 15.870,
secondo i dati Cresme 2015) riguardano interventi sotto
questa soglia. E proprio in questa fascia, dove si annida la
“zona grigia” degli appalti, il nuovo codice rischia
di alleggerire obblighi di pubblicità e concorrenza.
Vincoli, già tutt'altro che a a prova di bomba, considerata
anche la scelta di far cadere gli obblighi di pubblicità sui
giornali, per tutti gli appalti, dall’anno prossimo.
Nulla cambia per i piccoli contratti (sotto i 40 mila euro)
dove sia ora che in futuro rimane l’affidamento diretto a
imprese di fiducia della stazione appaltante. Per il resto,
non si può fare a meno di notare che viene anzitutto
confermata la scelta compiuta nel 2011 dal governo
Berlusconi di mantenere la soglia, raddoppiata allora da
500mila euro a un milione, per la procedura negoziata basata
su indagini di mercato.
Resta, così, la possibilità di assegnare sostanzialmente
senza gara un’ampia quota di lavori. Anche con il nuovo
codice, per i lavori sotto al milione, le Pa non dovranno
pubblicare alcun vero bando sull’intenzione di assegnare una
commessa, se si eccettua un semplice avviso pubblicato sul
proprio sito, per un periodo minimo di 15 giorni, con
l’indicazione dei requisiti necessari a svolgere il compito.
Più nel dettaglio, per i lavori fino a 150 mila euro, in
futuro si potranno invitare solo tre imprese invece che
cinque. Ma è soprattutto negli appalti tra 500mila euro e un
milione che avverrà la “semplificazione” maggiore.
Mentre ora servono almeno 10 inviti, in futuro ne basteranno
cinque. Addio poi alla pubblicità post-aggiudicazione di
valore più “formale”. Mentre ora bisogna pubblicare
la notizia dell’aggiudicazione e la lista degli invitati
sulla Gazzetta Ufficiale e su almeno due quotidiani (uno a
tiratura nazionale, l’altro locale, oltre che sui siti
istituzionali), il nuovo codice mantiene solo un generico
richiamo all’obbligo di pubblicità successiva. Non solo.
Insieme ai lavori, va segnalato anche che con il nuovo
codice raddoppia da centomila a 209mila euro le soglie per
gli affidamenti a “trattativa privata” degli
incarichi di progettazione.
Insomma, nessun faro acceso su i “piccoli” appalti. A
meno di un futuro intervento dell’Anac di Cantone, cui
toccherà il compito di «migliorare la qualità delle
procedure» per assegnare i tantissimi micro-cantieri,
che già oggi viaggiano all’ombra (articolo Il Sole 24 Ore del
30.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Niente
accatastamento per le reti di Tlc.
Infrastrutture. Il chiarimento è fornito dal decreto
attuativo della direttiva 2014/61.
Il decreto attuativo
della direttiva 2014/61 fa chiarezza: le infrastrutture di
reti di comunicazione elettronica non vanno accatastate. Le
infrastrutture di telecomunicazione non sono unità
immobiliari e, come tali, non vanno iscritte in catasto e
non soggiacciono alla fiscalità conseguente.
È d’impatto l’intervento del legislatore che, nell’ambito
del decreto legislativo 33/2016 attuativo della direttiva
2014/61/Ue sulla riduzione dei costi delle reti di
comunicazione elettronica ad alta velocità, ha deciso di
dare una svolta all’annosa questione dell’accatastamento
delle infrastrutture Tlc. Si tratta dei tralicci,
ripetitori, stazioni radio base, antenne -oltre alle opere
per l'installazione della rete- ancorati a muri o altri
supporti oppure impiantati dentro aree recintate.
In passato sia l’agenzia del Territorio (circolare 4/2006,
6/2012) sia la giurisprudenza si sono occupate del
trattamento catastale: la prima per affermarne l’obbligo di
accatastamento (in forma autonoma o come variazioni di
preesistenti unità immobiliari); la seconda talvolta si è
adeguata alla posizione dell’Agenzia, più spesso ha invece
accolto i ricorsi che ne sostenevano l’irrilevanza sul piano
catastale, specie in virtù dell’assimilazione alle «opere
di urbanizzazione primaria» (articolo 86, comma 3, del
Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con il decreto legge Sblocca Italia del 2014 sembrava che la
questione fosse risolta a favore di questa seconda
interpretazione, essendo stabilito che le infrastrutture Tlc
costituiscono opere di urbanizzazione primaria.
La Corte di Cassazione però con la sentenza 24026/2015 in
materia di Ici (si veda «Il Sole 24 Ore» del 26.11.2015) ha
di recente sposato la tesi del Fisco. Invero, la Suprema
corte non ha minimamente affrontato il punto che il decreto
legge Sblocca Italia mirava a risolvere e, con scarna
motivazione, ha deciso per l’accatastamento dei ripetitori
di telefonia mobile nella categoria D.
L’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 33/2016
rimette ordine: non solo le reti ad alta velocità in fibra
ottica, ma tutte le infrastrutture comprese negli articoli
87-88 Cce, da chiunque possedute, sono da considerarsi beni
diversi dalle unità immobiliari in base al Dm 28/1998 e per
questo esclusi dall’accatastamento e dai tributi che ne
conseguono (Imu, Tasi, Ici a suo tempo).
Ciò che rileva, infatti, non è tanto l’autonomia funzionale
e reddituale di queste infrastrutture -e neppure la
destinazione a interesse collettivo per cui in passato sono
state talvolta classificate nella categoria E/3- ma il fatto
che il legislatore ne riconosca una «pubblica utilità»,
analoga per esempio a quella delle fognature o della rete
idrica. La norma, peraltro, dovrebbe avere portata
interpretativa, visto che, secondo la relazione
illustrativa, rappresenta un «chiarimento» volto a
esplicitare quanto già previsto dal Cce.
Natura questa confermata dalla sua collocazione sistematica,
nell’articolo 12 tra le «disposizioni di coordinamento»,
dove al comma 1 si ribadisce che in caso di discordanze
prevalgono le norme del Cce.
Per effetto, il Fisco e gli enti locali non solo dovranno
escludere dall’accatastamento le nuove infrastrutture di
telecomunicazione, ma anche rinunciare alle pretese di
accatastamento già avanzate (articolo Il Sole 24 Ore del
29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Giro di vite sugli appalti illeciti. Con la
depenalizzazione sanzioni fino a 50 mila euro.
I rischi per le aziende a seguito dell'entrata in
vigore il 6 febbraio scorso del dlgs 8/2016.
Arriva la depenalizzazione in materia di appalti illeciti,
ma per le aziende, forse, c'è poco di cui rallegrarsi.
Infatti, ciò non significherà meno «punizioni». Anzi. Dal 6
febbraio gli ispettori del lavoro sono in agguato per
contestare «in proprio» anche gli (ex) reati commessi nel
passato e non ancora prescritti. Per gli illeciti aumentano
anche le sanzioni, ora tra gli 5.000 e gli 50.000.
A partire dal 6 febbraio il dlgs n. 8/2016 ha reso illeciti
amministrativi molte fattispecie di reato di natura
contravvenzionale, punite per lo più con la sola ammenda
(ossia la minore pena pecuniaria). Tra di essi vi sono anche
i reati previsti dall'art. 18, dlgs 276/2003, quelli
attinenti la somministrazione illecita di manodopera, come
pure il distacco di personale e i pseudo appalti di servizi
labour intensive.
Insomma, il classico caso della cooperativa di lavoro che,
fingendo di appaltare un servizio, in realtà «impresta»
personale. Sul punto nei giorni scorsi si è espressa la
Corte di cassazione, con la sent. 10484/2016, ribadendo,
come anche lo stesso ministero del lavoro con la circolare
n. 6/2016, che fornire manodopera da parte di soggetti non
autorizzati (cioè, non agenzie per il lavoro), continua ad
essere vietato dall'ordinamento.
Ciò che oggi cambia, sono le sanzioni, non più penali,
dunque, e naturalmente, per così dire, l'approccio
repressivo. Che peggiora senz'altro. Va detto che fino a
oggi tutto il meccanismo punitivo era basato, in linea di
massima, sulla difficile sincronia tra l'azione degli
ispettori del Ministero del lavoro e quella delle procure
della repubblica. Soprattutto a causa del fatto che le
contestazioni in materia di somministrazione di lavoro era
poco «trattata degli uffici giudiziari» (dati i
sovente notevoli carichi di lavoro che li faceva propendere
per fattispecie di ben altra gravità penale e di ritenuto
maggiore disvalore sociale), gli stessi uffici del lavoro
sono apparsi non di rado in difficoltà nel reprimere
situazioni, talvolta, dubbie.
A disincentivare un'eccessiva attenzione su tali divieti si
aggiungeva la circostanza di un sistema repressivo che,
quantunque penalistico nominalmente, in realtà si era negli
anni già sostanzialmente depenalizzato. Senz'altro in forme
di maggiore favore rispetto alle quelle oggi previste dal
dlgs 8/2016. Infatti, grazie alla possibilità di
regolarizzare il reato, estinguendolo, con il pagamento di
una somma in via amministrativa (ex dlgs 758/1994),
bastavano spesso pochissimi euro per mettere le cose a
posto. Per esempio, nel caso di somministrazione illecita di
un lavoratore per dieci giorni, erano sufficienti 125 (ossia
un quarto dell'ammenda giornaliera, 50, come previsto per
legge) a definire il reato.
Oggi, ex art. 1, comma 6, dlgs 8/2016, la stessa somma in
via amministrativa «non può, in ogni caso, essere
inferiore a 5.000». In definitiva, chi non ha sanato
entro il 6 febbraio, si trova ora in questa esatta
condizione. Così oggi, tolte di mezzo per legge le Procure e
chiamate in causa le direzioni territoriali del ministero
del lavoro (e presto le sedi territoriali del nuovo
Ispettorato nazionale del lavoro), c'è da aspettarsi che la
gestione in proprio, con contestazioni da parte degli
ispettori e azioni di recupero pecuniario per mezzo delle
ingiunzioni degli uffici, creerà, rispetto al passato, una
ben diversa pressione e conseguente contenzioso.
Del resto, che quello della contestazione di appalti e
distacchi illeciti rischi di diventare un leitmotiv
ispettivo della seconda parte del 2016, sembra una non
difficile previsione, dato che il dlgs 8/2016 ha previsto
l'obbligo per le procure della repubblica di trasmettere
entro 90 giorni alle direzione del ministero del lavoro i
fascicoli in loro possesso.
Gli ispettori saranno poi chiamati per legge alle
contestazioni nei successivi 90 giorni. Come a dire che, se
tutto «fila liscio» (cioè nei tempi di legge), entro
agosto, alle aziende di cui sono stati rilevati reati gli
anni scorsi, dovrebbe essere richiesto il pagamento delle
nuove sanzioni amministrative
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
aggiornamento al
09.03.2016 |
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APPALTI:
Centralizzazione degli acquisti, per le deroghe serve il via
libera del «vertice amministrativo» (nei Comuni è il
segretario).
Gli acquisti di beni e servizi in deroga
agli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da
Consip e dai soggetti aggregatori regionali devono essere
autorizzati dagli organi amministrativi di vertice delle
pubbliche amministrazioni e sono assoggettati a specifiche
comunicazioni.
L'intervento della manovra
La legge n. 208/2015 ha definito norme molto rigorose sul
possibile approvvigionamento autonomo da parte delle
amministrazioni, quando il prodotto o il servizio
disponibile con le convenzioni centralizzate non sia idoneo
al soddisfacimento del loro specifico fabbisogno per
mancanza di caratteristiche essenziali.
La regolamentazione della deroga è prevista sia in termini
generali (comma 510) sia con riferimento specifico a beni e
servizi informatici (comma 516), ma le disposizioni della
legge di stabilità 2016 devono essere connesse con
l'articolato quadro normativo vigente in tema di
razionalizzazione degli acquisti per individuare i
presupposti applicativi, soprattutto con riguardo agli enti
locali.
Il quadro delle regole
Gli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da
Consip e dai soggetti aggregatori regionali in base all'art.
26 della legge n. 488/1999 sono definiti:
• dall'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, che
prevede un obbligo assoluto per le amministrazioni statali e
per gli enti del servizio sanitario nazionale, nonché una
facoltà di utilizzo da parte delle altre amministrazioni,
tuttavia con obbligo relativo di fare riferimento ai
parametri qualità-prezzo per gli acquisti gestiti in
autonomia;
• dall'articolo 1, comma 7, del Dl 95/2012 convertito nella
legge 135/2012, che stabilisce l'obbligo di ricorso alle
convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori
regionali per alcune categorie merceologiche di beni e
servizi (telefonia, energia elettrica, gas, carburanti,
eccetera), riferendolo a tutte le pubbliche amministrazioni;
• dall'articolo 9, comma 3, del Dl 66/2014 convertito nella
legge 89/2014, il quale prevede l'obbligo di utilizzo delle
convenzioni stipulate dai soggetti aggregatori (Consip e
centrali di committenza regionali) per alcune tipologie di
beni e servizi di valore superiore a una determinata
macro-soglia.
La previsione del decreto "spending review" del 2012
è stata peraltro recentemente modificata dall'articolo 1,
comma 494 nella parte in cui consente alle amministrazioni
di procedere autonomamente, a condizione di sviluppare
procedure a evidenza pubblica e con una base d'asta
inferiore del 3 o del 10 per cento ai valori delle
convenzioni.
Rispetto a questo quadro, il comma 510 della legge di
stabilità 2016 ha stabilito una regola generale per
disciplinare le eventuali procedure autonome di
approvvigionamento da parte delle amministrazioni pubbliche
assoggettate agli obblighi di utilizzo delle convenzioni
stipulate da Consip o dai soggetti aggregatori.
Le condizioni
Il presupposto oggettivo in base al quale può essere
esperita questa possibilità si determina quando il bene o il
servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al
soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali.
La procedura autonoma di acquisto, però, è sviluppabile
esclusivamente a seguito di autorizzazione specificamente
motivata resa dall'organo di vertice amministrativo e
trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti (la
sezione regionale di controllo, deputata a queste attività
di verifica anche da altre disposizioni di legge).
L'eccezionalità del processo di acquisto autonomo rispetto
all'obbligo di utilizzo delle convenzioni centralizzate (su
base nazionale o regionale) è sottoposta al vaglio
autorizzativo dell'organo di vertice amministrativo.
Questa definizione esclude gli organi politici (in altre
disposizioni, il legislatore ha specificato il riferimento
all'organo di indirizzo politico-amministrativo) e risulta
assimilabile a quella di contenuto analogo, esplicitata
nell'articolo 1, comma 2, lettera i), del Dlgs 39/2013 con
riferimento agli incarichi amministrativi di vertice, intesi
come gli incarichi di livello apicale, quali quelli di
segretario generale, direttore generale o posizioni
assimilate nelle pubbliche amministrazioni conferiti a
soggetti interni o esterni all'amministrazione o all'ente
che conferisce l'incarico, che non comportano l'esercizio in
via esclusiva delle competenze di amministrazione e
gestione.
I compiti del segretario
Nei comuni, ad esempio, l'organo di vertice amministrativo è
individuabile, secondo questo schema comparativo, nel
segretario generale e sembra connettersi ai ruolo dallo
stesso svolti come figura di riferimento del sistema dei
controlli interni e come responsabile della prevenzione
della corruzione, in una prospettiva di verifica a spettro
ampio su scelte di acquisto derogatorie, quindi rischiose
sia sotto il profilo legittimistico sia, potenzialmente,
sotto quello dei possibili fenomeni corruttivi.
Lo schema autorizzativo in capo all'organo di vertice
amministrativo è replicato dal comma 516 della legge
208/2015, che lo prevede per approvvigionamenti di beni e
servizi informatici al di fuori dell'obbligo di ricorso a
Consip e ai soggetti aggregatori, sempre sulla base del
presupposto oggettivo di inidoneità del bene o servizio
disponibile in convenzione rispetto agli specifici
fabbisogni dell'amministrazione.
La disposizione, tuttavia, prevede un ulteriore presupposto
oggettivo che può permettere l'esperimento della procedura
autonoma, rilevabile nei casi di necessità e urgenza, quando
gli acquisti siano funzionali ad assicurare la continuità
della gestione amministrativa. La decisione di acquisto in
autonomia per i beni e i servizi informatici deve essere
comunicata all'Anac e all'Agid.
In entrambe i casi (la disposizione generale del comma 510 e
quella specifica del comma 516) l'autorizzazione al processo
di acquisizione deve essere specificamente motivata, quindi
con una dettagliata analisi della sussistenza dei
presupposti oggettivi, supportata da un confronto sulle
specifiche tecniche tale da consentire l'evidenziazione
della radicale difformità rispetto al fabbisogno
dell'amministrazione (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.01.2016 -
tratto da www.elenafissore.it). |
APPALTI:
Per tutti i comuni acquisti in
autonomia sotto i 40 mila euro.
Facoltà per tutti i comuni di procedere in autonomia
sotto la soglia dei 40.000 euro. Facoltà di derogare
alle convenzioni Consip o delle centrali di
committenza regionali quando il bene, o il servizio,
offerto non sia idoneo a soddisfare i fabbisogni
dell'amministrazione. Facoltà di bypassare il MePa
fino a 1.000 euro.
Sono queste le principali novità in materia di
acquisti degli enti locali previste dalla legge di
stabilità 2016 (legge 208/2015). Tutte, pur
confermando la generale tendenza alla
centralizzazione, puntano a rendere l'obbligo meno
rigido per le commesse di importo modesto o quando
vi siano esigenze particolari non standardizzabili.
In questa direzione si muove innanzitutto il comma
501, che estende a tutti i comuni la possibilità di
effettuare acquisti in via autonoma sotto la soglia
dei 40.000 euro. In precedenza, la deroga era
consentita ai soli municipi con popolazione
superiore a 10.000 abitanti.
Restano ferme, peraltro, le norme che impongono di
fare ricorso alle convenzioni Consip e a quelle
stipulate dalla centrali di committenza regionali.
Per quanto riguarda gli enti locali, tuttavia, tale
obbligo riguarda solo le fattispecie previste
dall'art. 9, comma 3, del dl 66/2014 (che prevede
l'individuazione ogni anno di categorie di beni e
servizi e relative soglie di valore al superamento
delle quali è comunque obbligatorio ricorrere a
Consip o ad altri soggetti aggregatori), dall'art.
1, comma 512, della stessa legge 208 (per i beni e
servizi informatici) e dall'art. 1, comma 7, del dl
95/2012 (per le categorie merceologiche energia
elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra
rete, combustibili per riscaldamento, telefonia
fissa e telefonia mobile).
Rispetto a quest'ultima norma, peraltro, sempre la
legge 208 ha previsto, al comma 494, la possibilità
di derogare alle convenzioni se si spuntano
corrispettivi inferiori almeno del 10% per telefonia
fissa e mobile e del 3% per carburanti extra rete,
carburanti rete, energia elettrica, gas e
combustibili per il riscaldamento. I contratti
stipulati in deroga devono essere inviati all'Anac.
Inoltre, il comma 510 ha previsto un'altra
possibilità di dribblare le convenzioni, allorché il
bene, o il servizio, da esse offerto non sia idoneo
al soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali. A tal fine, occorre un'apposita
autorizzazione specificamente motivata resa
dall'organo di vertice amministrativo (non è chiaro
se ci si riferisca al segretario o direttore
generale, ovvero, secondo altre letture, alla
giunta) e trasmessa alla Corte dei conti.
Si può ritenere, tuttavia, che l'autorizzazione non
sia necessaria se l'acquisto riguarda categorie
merceologiche che non sono presenti nelle
convenzioni. Negli altri casi, occorrerà motivare il
provvedimento confrontando in modo tecnicamente
rigoroso le caratteristiche essenziali dei beni o
servizi oggetto della convenzione e le
caratteristiche essenziali dei beni, o servizi,
necessari per soddisfare il fabbisogno dell'ente.
Infine, ricordiamo che il comma 450 della legge
296/2006 impone di fare ricorso al MePa, ma a
seguito della modifica introdotta dal comma 502
della legge 208 solo per acquisti sopra i 1.000
euro. Trattandosi di un acquisto autonomo, anche in
tal caso sembra necessaria l'autorizzazione, salvo
il caso di assenza di convenzioni idonee (articolo
ItaliaOggi del 15.01.2016). |
ANNO 2015 |
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aggiornamento al
06.11.2015 |
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SICUREZZA LAVORO:
Delega di
funzioni, il lavoratore può dire di no. Sicurezza.
Chiarimento ministeriale.
Non esiste alcun obbligo di accettazione della
delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro da
parte del soggetto delegato individuato dal datore di
lavoro: il lavoratore interessato, infatti, può rifiutare
tale delega.
Il chiarimento è
stato fornito dalla Commissione per gli interpelli in
materia di salute e sicurezza sul lavoro, istituita presso
il Ministero del Lavoro, con l’interpello
02.11.2015 n. 7/2015.
La questione è stata sempre dibattuta a causa delle varie
soluzioni sinora fornite al quesito sia nel settore
pubblico, sia in quello privato, influenzate da
problematiche di ordine burocratico o gerarchico, ossia se
la delega di funzioni rientrasse nella discrezionalità del
datore di lavoro o del dirigente (nel settore pubblico), di
definire l’assetto dell’organizzazione del lavoro fino ad
individuare inderogabilmente il soggetto a cui conferire la
delega stessa.
L’interpello riporta all’articolo 16 del Dlgs 81/2008 (Testo
unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), nel
cui comma 1 viene stabilito che la delega delle funzioni da
parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è
ammessa a condizione che risulti da atto scritto con data
certa; il delegato sia in possesso di tutti i requisiti
professionali e d’esperienza richiesti dalla natura delle
funzioni delegate; con essa vengano attribuiti al delegato
tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo
richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
con essa venga attribuita al delegato l’autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento della funzione oggetto di
delega; la delega sia accettata dal delegato.
Perché dunque la delega sia efficace occorre che si
verifichino tutte le caratteristiche di cui si è fatto
cenno, preordinate all’accettazione, in forma scritta, da
parte del delegato. Del resto, spesso la non accettazione è
motivata dal riconoscimento da parte del soggetto
individuato dal datore di lavoro o dirigente di non
possedere i requisiti professionali per il corretto e
completo svolgimento della funzione, la quale è quasi sempre
accompagnata da provvedimenti sanzionatori penali in caso di
inosservanze, ovvero di non riconoscere sufficientemente
l’organizzazione del lavoro a cui è preposto, oppure, il più
delle volte, dalla mancanza delle risorse economiche per far
fronte alle varie e mutevoli esigenze che caratterizzano la
funzione.
Va osservato, infatti, che fatta salva l’esclusione della
nomina del responsabile del servizio di prevenzione
protezione, la valutazione dei rischi e la redazione del
documento della sicurezza, tutte le altre funzioni elencate
nell’articolo 18 del Testo unico sono delegabili e tutte
richiedono professionalità specifica, potere di
organizzazione e di spesa che se non coperte o previste
possono costituire un valido motivo di non accettazione del
soggetto individuato (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La stretta sul personale minaccia i mini enti.
Pericolo stretta sulla spesa di personale dei mini-enti. Dal
2016, infatti, i comuni sotto i 1.000 abitanti rischiano di
essere attratti dal regime più rigido finora applicato solo
a quelli più grandi.
È uno dei possibili effetti collaterali dell'addio al Patto
sancito dal disegno di legge di stabilità 2016 e che rischia
di presentare un conto salato alle amministrazioni di minori
dimensioni.
In base al ddl, dal prossimo anno, il Patto verrà
disapplicato e sostituito dall'obbligo del pareggio di
bilancio. Nel nuovo regime, tuttavia, viene meno
l'esclusione dai vincoli finora sempre riconosciuta favore
dei comuni (circa 2000 in tutta Italia) che non raggiungono
il migliaio di residenti (si veda ItaliaOggi del
20/10/2015). Ma non si tratta dell'unica controindicazione.
Il nuovo regime, infatti, rischia di assoggettare i piccoli
comuni alla più rigorosa normativa sul personale prevista
per quelli medi e grandi. Finora, infatti, la disciplina
della materia è sempre stata differenziata, rispettivamente,
per gli enti soggetti e per quelli non soggetti al Patto. Ai
primi, si applica il comma 557, mentre ai secondi il
successivo comma 562 della l 296/2006. Il comma 557 prevede
che ogni ente soggetto al Patto debba ridurre la spesa di
personale rispetto alla media del triennio 2011-2013,
fissando un tetto più severo di quello previsto dal comma
562, che impone agli enti di fuori Patto di non superare il
più generoso limite rappresentato dalla spesa 2008.
Inoltre, dove si applica il Patto il turn-over è sempre
stato più ridotto, in quanto quantificato in percentuale
rispetto alla spesa dei dipendenti cessati dal servizio
nell'anno precedente, mentre negli altri casi vale la regola
«per teste» (una nuova assunzione per ogni
cessazione).
Infine, il comma 557, come recentemente interpretato dalla
Sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione n.
27/2014) impone agli enti soggetti al Patto anche di ridurre
il rapporto spesa di personale/spesa corrente, mentre il
comma 562 non prevede tale obbligo. Cosa accadrà ora?
Al riguardo, sono possibili due letture. Da un lato, la
disapplicazione del Patto dovrebbe portare ad applicare a
tutti gli enti le stesse regole, che ovviamente non
potrebbero che essere quelle più restrittive finora
riservate agli enti soggetti al Patto (in caso contrario, si
avrebbe un intesso incremento della spesa di personale).
Ma ciò rischia di complicare ulteriormente la vita alle
amministrazioni più piccole, spesso già alle prese con
organici risicati e con la conseguente difficoltà di
sostituire i cessati. In alternativa, si potrebbe sostenere
che nulla cambi rispetto al personale, malgrado
l'assoggettamento anche dei mini enti all'obbligo del
pareggio.
Tale tesi emerge anche dalla relazione al ddl, che continua
a richiamare la distinzione fra enti soggetti e non al Patto
in merito alla disposizione (art. 18) che riduce al 25% il
turn-over per gli anni 2016-2018 e che viene collegata solo
ai primi
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015). |
SICUREZZA LAVORO:
Controlli
sanitari previsti per tutti.
INTERPELLO/2 - Medico competente.
Tutti i lavoratori hanno diritto a richiedere la visita
presso il medico competente (se nominato in azienda).
Lo precisa, tra l'altro, la commissione per gli interpelli
sulla sicurezza del lavoro nell'interpello
02.11.2015 n. 8/2015 a risposta dei quesiti della
Cisl.
Due, in particolare, le richieste formulate dal sindacato:
a) se la visita medica possa essere richiesta esclusivamente
dai lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria ovvero da
tutti i lavoratori;
b) se il medico competente, nel visitare gli ambienti di
lavoro almeno una volta all'anno, sia tenuto a recarsi in
ogni ambiente di lavoro nel quale si svolge l'attività o se
debba limitarsi a fare i sopralluoghi soltanto nelle
postazioni dove sono occupati i lavoratori soggetti a
sorveglianza sanitaria.
A risposta del primo quesito, la commissione precisa che «la
richiesta di essere sottoposto a visita media da parte del
medico competenze, ove nominato, può essere avanzata da
qualsiasi lavoratore, indipendentemente dal fatto che lo
stesso sia o meno già sottoposto a sorveglianza sanitaria,
con l'unico limite che il medico competente la ritenga
accoglibile in quanto correlata a rischi lavorativi».
In merito al secondo quesito, relativo all'obbligo per il
medico competente di visitare i luoghi di lavoro, la
commissione, considerato che l'obbligo è strettamente
correlato alla valutazione dei rischi, ritiene che la visita
agli ambienti di lavoro debba essere estesa a tutti quei
luoghi che possano avere rilevanza per la prevista
collaborazione con il datore di lavoro e con il servizio di
prevenzione e protezione «alla valutazione dei rischi
anche ai fini della programmazione, ove necessario, della
sorveglianza sanitaria, alla predisposizione dell'attuazione
delle misure per la tutela della salute e dell'integrità
psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e
informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di
competenza, e all'organizzazione del servizio di primo
soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed
esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro»
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza,
la delega deve essere accettata.
INTERPELLO/1 - Possibile il rifiuto del
destinatario.
La delega di funzioni sulla sicurezza del lavoro deve essere
accettata dal delegato, altrimenti non è valida. A
differenza del conferimento d'incarico che implica
l'impossibilità del rifiuto, infatti, la delega presuppone
la possibilità della non accettazione da parte del
destinatario.
Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza
del lavoro nell'interpello
02.11.2015 n. 7/2015.
La questione.
La precisazione arriva a risposta di un quesito formulato
dall'unione sindacale di base vigili del fuoco, in merito
all'istituto della «delega di funzioni» disciplinato
dall'art. 16 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Tale articolo, in particolare, prevede che la delega di
funzioni da parte del datore di lavoro, ove non
espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e
condizioni:
a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di
professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica
natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di
organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
In relazione all'ultimo requisito, l'unione sindacale ha
chiesto di sapere «se esiste l'obbligo di accettazione
della delega da parte del soggetto delegato individuato dal
datore di lavoro e se il soggetto delegato può rifiutare
tale delegata».
Ammesso il rifiuto di delega.
Il ministero spiega, innanzitutto, che la disposizione
(citato art. 16 del T.u. sicurezza) prevede, per il datore
di lavoro, la possibilità di delegare i propri obblighi a
eccezione della valutazione dei rischi e relativo documento
e la designazione del responsabile del servizio prevenzione
e protezione (Rspp) ad altro soggetto dotato dei requisiti
di professionalità ed esperienze che sono richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate.
Poi spiega che, affinché la delega sia efficace, è
necessario che abbia «tutte» le caratteristiche
previste dalla norma (art. 16), quali la forma scritta, la
certezza della data, il possesso da parte del delegato di
tutti gli elementi di professionalità ed esperienza
richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate e,
infine, la possibilità da parte dello stesso delegato di
disporre di tutti i poteri di organizzazione, gestione e
controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni a
lui delegate. In conclusione, a risposta del quesito,
precisa che la delega deve essere accettata dal delegato per
iscritto.
Infatti, aggiunge, «tra le caratteristiche indicate
nell'art. 16, comma 1, il legislatore ha espressamente
previsto, alla lettera e) del decreto, che la delega «sia
accettata dal delegato per iscritto», elemento che la
distingue dal conferimento di incarico, il che implica la
possibilità di una non accettazione della stessa»
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo a
ore, cumulo ridotto. Permessi incompatibili con i riposi per
allattamento.
L'Inps chiarisce il regime introdotto dal dlgs
80/2015: decide la contrattazione collettiva.
Chi fruisce del congedo parentale a ore non può fruire,
nella stessa giornata, di altri permessi per maternità
neanche se riferiti ad altri figli. Deroghe a tale principio
possono essere previste dalla contrattazione collettiva.
Lo precisa l'Inps nel
messaggio 03.11.2015 n. 6704 emesso ieri,
integrando le prime istruzioni della circolare n. 152/2015.
L'Inps aggiunge, inoltre, che il congedo a ore è invece
compatibile con eventuali permessi per assistenza a disabili
(ex legge n. 104/1992).
Congedo parentale a ore.
La possibilità di fruire a ore il congedo parentale è
operativa dal 25 giugno in seguito al dlgs n. 80/2015. La
facoltà, in via di principio, è subordinata alla preventiva
previsione da parte della contrattazione collettiva di
settore di tale modalità di fruizione, compresi i criteri di
calcolo. In caso di mancata regolamentazione, la fruizione
oraria è consentita a ciascun genitore per la metà
dell'orario medio giornaliero di lavoro.
L'incumulabilità.
Nel fornire le prime indicazioni operative (circolare n.
152/2015 su ItaliaOggi del 19 agosto), l'Inps spiegava che
il congedo era incumulabile con altri permessi o riposi
disciplinati dal T.u. maternità/paternità (dlgs n.
151/2001). Tale incumulabilità, spiega adesso l'Inps,
risponde all'esigenza di conciliare al meglio i tempi di
vita e di lavoro utilizzando il congedo in modalità oraria
essenzialmente nei casi in cui il lavoratore intenda
assicurare, nella medesima giornata, una (parziale)
prestazione lavorativa.
Alla luce di questo principio, integrando le precedenti
istruzioni, l'Inps spiega che il genitore lavoratore
dipendente che si astiene dal lavoro per congedo parentale a
ore «non può usufruire nella medesima giornata né di
congedo parentale a ore per altro figlio, né dei riposi
orari per allattamento (ex artt. 39 e 40 del T.u.), anche se
richiesti per bambini differenti».
Allo stesso modo, aggiunge l'istituto di previdenza, il
congedo parentale fruito in modalità oraria «non è
cumulabile con i riposi orari giornalieri di cui al
combinato disposto degli artt. 33, comma 2, e 42, comma 1,
del T.u., previsti per i figli disabili gravi in alternativa
al prolungamento del congedo parentale (art. 33 c. 1, T.u.
maternità), anche se richiesti per bambini differenti».
La cumulabilità.
Diversamente invece, risulta compatibile la fruizione del
congedo parentale su base oraria con permessi o riposi
disciplinati da disposizioni normative diverse dal T.u.
maternità/paternità, quali ad esempio i permessi per
assistenza a disabili (di cui all'art. 33, commi 3 e 6,
della legge n. 104/1992), quando fruiti in modalità oraria.
Parola alla contrattazione.
Infine, l'Inps precisa che le predette ipotesi di
incumulabilità trovano applicazione nei casi di mancata
regolamentazione, da parte della contrattazione collettiva,
anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del
congedo parentale su base oraria.
Di conseguenza, pertanto, la contrattazione collettiva,
anche di livello aziendale, nel definire le modalità di
fruizione del congedo parentale, può prevedere criteri di
cumulabilità differenti rispetto a quelli illustrati
dall'Inps che fanno riferimento, pertanto, al caso in cui la
fruizione oraria sia concesso su base normativa (per il 50%
dell'orario di lavoro)
(articolo ItaliaOggi del 04.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici storici, termotecnici da Belle arti.
La diagnosi energetica è uno dei processi fondamentali della
riqualificazione energetica degli edifici storici. Ne deriva
che il progettista termotecnico che si trovi a dover
intervenire su un edificio storico, soprattutto se vincolato
secondo il dlgs n. 42/2004, è spesso tenuto ad acquisire la
documentazione necessaria alla conoscenza del fabbricato non
solo per gli aspetti tecnici di sua competenza, ma anche per
quelli relativi al ruolo che quell'edifico svolge nella
storia dell'uomo e all'interno del contesto urbano e
paesaggistico in cui è inserito.
Questo è quanto si legge nelle
linee guida
(28.10.2015)
sull'efficienza energetica degli edifici storici
redatte dal Ministero dei beni culturali .
Per quanto riguarda specificatamente gli edifici storici, il
miglioramento della prestazione energetica richiede talvolta
modifiche dell'organismo architettonico che, se non
accuratamente progettate sulla base di una corretta diagnosi
energetica, possono comportare problemi che vanno dal
pregiudicare il valore monumentale e/o documentale del
manufatto al mettere in discussione la sicurezza statica
dell'edificio.
Lo scopo principale della diagnosi energetica è la
valutazione dei consumi energetici dell'edificio al fine di
ridurli, nel rispetto delle condizioni di qualità
dell'ambiente interno che sono descritte in precedenza. Per
far ciò è necessario identificare innanzitutto le funzioni
che i sistemi architettonici e tecnologici devono
soddisfare, che possono andare dalla semplice
climatizzazione se l'edificio è destinato a usi residenziali
o terziari al controllo del microclima se nell'edificio sono
ospitate collezioni, al controllo dell'umidità da risalita
in presenza di falde acquifere o acque disperse nel
sottosuolo.
Poi devono essere identificati i vettori energetici
utilizzati da ogni servizio e i flussi di energia associati
a ciascun vettore. A questo punto è possibile valutare
l'efficienza energetica di ogni servizio e identificare le
opportunità di risparmio energetico ed economico che possono
essere proposte per l'edificio in esame
(articolo ItaliaOggi del 03.11.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Ricorso bocciato, sì al taglio dell’onorario del legale
d’ufficio.
Difesa in giudizio. Il carattere pubblico dell’importo
lascia ampia discrezionalità al magistrato.
Il compenso
del difensore d’ufficio, nominato al fine di fornire
assistenza tecnica a un contribuente ammesso ai benefici del
patrocinio gratuito, può essere legittimamente ridotto dal
giudice tributario. La liquidazione degli onorari
costituisce, infatti, espressione di un potere
discrezionale.
È quanto emerge dalla
sentenza 23.09.2015 n. 7543/1/15
della Ctp di Milano (giudice Paolo Roggero), con la quale è
stato rigettato il ricorso presentato dal difensore
d’ufficio del contribuente contro il provvedimento con il
quale altro collegio giudicante, con precedente sentenza,
aveva liquidato compensi inferiori a quelli da lui
richiesti.
Il legale rappresentante di una Srl aveva ottenuto dalla
commissione per l’assistenza tecnica a spese dello Stato
l’ammissione ai benefici del patrocinio gratuito in quanto,
seppur priva di mezzi, aveva la necessità di difendersi in
giudizio dagli avvisi di accertamento emessi dall’ufficio
per anni dal 2005 al 2008.
Il patrocinio veniva assunto da un avvocato che redigeva il
ricorso, dichiarato poi inammissibile dai giudici di primo
grado in quanto tardivo.
Il difensore d’ufficio della ricorrente presentava, così, la
nota spese con la quale chiedeva, a titolo di compenso per
la prestazione svolta, la liquidazione dell’importo
complessivo di 5.124,6 euro, oltre agli oneri accessori. Il
collegio adito, con provvedimento del 06.02.2015,
liquidava al difensore 1.800 euro.
Il difensore presentava ricorso contro il decreto di
pagamento (in base agli articoli 84 e 170, legge 115/2002),
eccependo che la sua nota spesa rispettava i parametri
ministeriali, già abbattuti del 50% ai sensi dell’articolo
130 del Testo unico sulle spese di giustizia. Lamentava
altresì il fatto che il collegio avesse provveduto a
ridimensionare fortemente il proprio compenso, senza
tuttavia motivare al riguardo e violando, in ogni caso, la
tariffa regolamentata dalla vigente normativa.
Il ministero dell’Economia e delle finanze si costituiva in
giudizio, resistendo al ricorso. In conclusione, la Ctp di
Milano respingeva l’atto impugnato dal difensore d’ufficio.
Pur rilevando come lo stesso legale avesse depositato una
nota spese rispettosa dei parametri ministeriali (abbattuti
del 50%), la liquidazione poteva dar luogo a un importo
inferiore, tenuto conto del caso concreto e non dovendosi
comunque fare esclusivo riferimento alla media delle
tariffe. Infatti, il carattere pubblico del compenso e il
fatto che l’importo gravasse, di fatto, sull’intera
collettività, consentivano un’ampia discrezionalità al
giudice. L’obiettivo è assicurare che l’onorario sia
effettivamente commisurato all’importanza e alla qualità
della prestazione professionale svolta, nonché ai risultati
ottenuti.
Sulla base di tali principi, la Ctp ha ritenuto corretta la
liquidazione effettuata dal collegio giudicante di primo
grado, in quanto basata su ragioni valide quali l’operato
del difensore e sul fatto che il ricorso fosse stato
dichiarato inammissibile (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
VARI: All’acquirente l’onere di provare la vendita a prezzo
«inferiore».
Imposte indirette. La regolare contabilità e la natura del
compratore giustificano la valutazione.
Spetta al
contribuente dimostrare che il prezzo al quale ha venduto un
immobile è inferiore a quello definito dall’acquirente ai
fini dell’imposta di registro. La lieve differenza tra i due
valori, la particolare natura giuridica del soggetto
acquirente e la regolare tenuta della contabilità soddisfano
tale onere.
Ad affermarlo è la
sentenza 09.07.2015 n. 804/1/2015 della Ctr
Liguria (presidente Soave, relatore Venturini).
La vicenda scaturisce dagli avvisi di accertamento emessi
dall’agenzia delle Entrate nei confronti di una società di
persone e dei relativi soci. A seguito della cessione di due
immobili, l’ufficio ha rideterminato, ai fini del reddito di
impresa, la plusvalenza realizzata considerando come prezzo
di cessione il maggior valore definito ai fini dell’imposta
di registro dall’acquirente. L’ufficio per la prima vendita
considera un prezzo di cessione di 252mila euro anziché
240mila; per la seconda 126mila euro anziché 120mila. I soci
e la società ricorrono in Ctp.
I contribuenti evidenziano che, ai fini delle imposte
dirette, rileva il prezzo di cessione indicato nell’atto di
compravendita e non quello definito ai fini del registro.
Inoltre, la definizione del valore ai fini del registro era
stata effettuata per sola volontà della parte acquirente,
che non aveva interesse a impostare un contenzioso
considerata la modesta differenza tra i due valori.
Difficilmente, infine, le cessioni potevano prestarsi a
importi non dichiarati considerato che l’acquirente degli
immobili era un istituto di credito.
I giudici di primo gado respingono il ricorso. I
contribuenti, allora, propongono appello alla Ctr della
Liguria che lo accoglie. Innanzitutto la commissione osserva
che, ai sensi dell’articolo 86 del Dpr 917/1986, la
plusvalenza da assoggettare a tassazione va calcolata in
relazione al corrispettivo effettivamente percepito e non in
base al prezzo teorico del bene determinato ai fini
dell’imposta di registro. Tuttavia, puntualizza il collegio,
secondo l’orientamento della Cassazione, l’ufficio è
legittimato a procedere in via induttiva all’accertamento
della plusvalenza sulla base del valore definito ai fini
dell’imposta di registro. Spetta, poi, al contribuente
superare tale presunzione dimostrando di avere, in concreto,
venduto a un prezzo inferiore.
Nel caso specifico, rileva il collegio:
l’istituto di credito acquirente aveva deciso di accettare
ai fini del registro la definizione di un prezzo leggermente
superiore rispetto a quello dichiarato nell’atto di
compravendita;
la contabilità aziendale non è stata contestata
dall’ufficio;
il fatto che fosse un istituto di credito va valutato come
elemento indiziario della circostanza (difficilmente, per un
tale soggetto, è possibile accedere ad acquisti parzialmente
in nero);
appare difficile credere in un’operazione fraudolenta per
una differenza di valori di così bassa entità.
In base a questi elementi risulta attendibile che il prezzo
reale di vendita sia stato inferiore a quello determinato ai
fini dell’imposta di registro, alla luce anche dell’attuale
stagnazione del mercato immobiliare (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto, tre strade per la bonifica.
Il materiale può essere incapsulato, confinato o rimosso da
ditte iscritte all’Albo gestori.
Sicurezza. Obbligatorio comunicare alla Asl il piano di
lavoro, che si intende approvato dopo 30 giorni con il
silenzio-assenso.
Nelle
abitazioni sono diversi i casi in cui ci si può imbattere
nell'amianto: pannelli, pavimenti, rivestimenti di camini,
tubazioni, lastre di copertura, canne fumarie, serbatoi
idrici, guarnizioni stufe, intonaco.
Come afferma l’allegato
sulla valutazione del rischio al Dm 06.09.1994, la
presenza di materiali che contengono amianto in un edificio
non comporta di per sé un pericolo per la salute degli
occupanti: «Se il materiale è in buone condizioni e non
viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un
pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto». Lo
stesso allegato indica norme e metodologie tecniche di
applicazione della legge 257/1992 che ha messo al bando
questo materiale.
Le indicazioni del decreto si applicano a tutte le strutture
edilizie: ad uso civile, commerciale o industriale.
Il proprietario dell’immobile -l’amministratore di
condominio per le parti comuni, o il gestore dell’attività-
deve sempre designare una figura responsabile del rischio
amianto, con compiti di controllo e coordinamento
dell’attività manutentiva, da cui passa la valutazione
dell'eventuale bonifica. Il proprietario deve anche tenere i
documenti relativi all’ubicazione dell’amianto, predisporre
la segnaletica e le misure di sicurezza, fornire una
corretta informazione agli occupanti dell’edificio sui
rischi potenziali e i comportamenti da adottare.
A seconda del tipo di matrice, si predispone quindi un
controllo visivo e strumentale periodico. «Il responsabile
deve individuare la ditta qualificata e abilitata ad
eseguire i lavori: cioè un’impresa iscritta all’Albo
nazionale gestori ambientali, in categoria 10, con
coordinatore e operai specificamente formati», aggiunge
Erminio Barbati, vicepresidente Aibam (Associazione imprese
bonificatori amianto).
La ditta deve redigere un “piano di lavoro” da presentare
all'Asl competente per territorio -tranne casi di urgenza-
almeno 30 giorni prima dell’inizio dei lavori. Dopo 30
giorni scatta il silenzio-assenso.
A seconda delle caratteristiche di installazione e dello
stato di conservazione, la bonifica può esser fatta tramite
incapsulamento (trattare con vernice che ricostruisce la
superficie e impedisce la fuga del materiale), confinamento
(“chiusura” dietro murature) o rimozione del materiale. Non
sempre è possibile rimuovere il materiale, a causa di
impedimenti strutturali dell’edificio. In ogni caso, una
volta accertata la presenza dell’amianto, è necessario
stilare almeno un programma di controllo e manutenzione, per
prevenire il rilascio e la dispersione di fibre, e nel caso
intervenire per rimuovere o mettere in sicurezza.
«Il rischio è rappresentato dalla friabilità dei materiali e
dalla loro esposizione. L’amianto in matrice compatta,
comunemente conosciuto come cemento-amianto (fibrocemento, o
eternit, dal nome del più diffuso prodotto commerciale), è
meno pericoloso di quello in matrice friabile, che ha fibre
libere o debolmente legate. Ma va sottoposto alla
valutazione periodica dell’indice di degrado», spiega Nicola
Giovanni Grillo, presidente di Aibam. In ogni caso, i lavori
non si effettuano mai in presenza di abitanti.
«Quanto alle autorizzazioni edilizie -aggiunge Grillo-
dipendono dal tipo di intervento collegato: se rimuovo
soltanto una parte, non necessito di alcun particolare
documento; se tolgo il cemento-amianto e rimetto un’altra
copertura, coibentata, dovrò fare una comunicazione di
inizio lavori».
Una volta completata l’opera, il materiale rimosso va
portato in un centro di stoccaggio o direttamente in
discarica. «A farlo può essere la stessa ditta che ha
eseguito i lavori, ma per il trasporto deve esser comunque
iscritta all’Albo in categoria 5: tutto è indicato nel piano
di lavoro inviato all’Asl, anche il tragitto compiuto per lo
smaltimento», dice il presidente di Assoamianto, Sergio
Clarelli.
«Al proprietario deve poi tornare entro 90 giorni
una copia del Fir (formulario di identificazione rifiuti),
che attesta il conferimento presso una discarica
autorizzata. Questo documento si aggiunge al certificato di
fine lavori, e all’eventuale copia del campionamento
dell’aria successivo all’intervento».
---------------
PERMESSI E NULLA OSTA
Il piano di lavoro predisposto dalla ditta abilitata alla
bonifica va inviato alla Asl del proprio territorio 30
giorni prima dell’inizio delle opere. Se entro 30 giorni
l’Asl non richiede integrazioni o modifiche, né dà
prescrizioni, la ditta può eseguire le opere.
Le autorizzazioni edilizie dipendono dal tipo di intervento
e dalle norme regionali o locali. In generale, in caso di
sola rimozione di una parte di amianto, non serve alcun
titolo abilitativo; se, ad esempio, si sostituisce una
copertura in eternit con un altro manto coibentato, ci sarà
bisogno di una Cila.
L’IMPRESA
L’impresa che effettua i lavori deve essere iscritta
all'Albo nazionale gestori ambientali, in categoria 10:
categoria 10A e/o 10B, a seconda che sia abilitata al
trattamento dei soli materiali compatti (di solito
cemento-amianto, eternit) o a tutti i tipi di bonifica.
La
ditta deve avere dipendenti provvisti di patentino di
abilitazione per coordinatore e operatori addetti alla
bonifica. L’impresa che trasporta i materiali alla discarica
–può essere anche la stessa che ha eseguito la rimozione–
deve essere iscritta all’Albo in categoria 5.
AGEVOLAZIONI PER PERSONE FISICHE
Anche per le spese di rimozione dell’amianto su abitazioni e
pertinenze (box, cantina, soffitta) si applica la detrazione
Ipref del 50%, entro il limite di 96mila euro (articolo 16-bis del Dpr 917/1986). Per accedere ai benefici basta pagare
le fatture con bonifico bancario o postale.
Se la rimozione
dell’amianto è intervento di carattere condominiale sarà
l’amministratore a provvedere
al pagamento con bonifico in cui oltre alla partiva Iva
dell’impresa esecutrice dei lavori indicherà anche il codice
fiscale del condominio.
AGEVOLAZIONI PER LE SOCIETÀ
La detrazione del 50% non è applicabile per gli immobili
posseduti da imprese e società nell’esercizio dell’attività
commerciale. Ma le spese di rimozione amianto rientrano tra
quelle detraibili quando si effettuano contestualmente gli
interventi di risparmio energetico cui si applica la
detrazione del 65 per cento.
Oltre agli edifici abitativi
anche tutti gli edifici non residenziali e quelli a
destinazione produttiva fruiscono di questa detrazione, se
dotati di impianto di riscaldamento preesistente.
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Bonus del 50% anche per il 2016.
Persone fisiche. La detrazione confermata per gli immobili
abitativi con il disegno di legge di Stabilità - In arrivo
un credito di imposta per beni e strutture produttive.
Anche la leva
fiscale può essere utilizzata per la rimozione di
amianto/eternit presente nel patrimonio edilizio esistente
in modo da ridurre significativamente i costi di questa
operazione.
Gli sconti fiscali applicabili attualmente per le persone
fisiche consentono la detrazione del 50% e, in taluni casi,
del 65% per i contestuali interventi di risparmio energetico
(si veda articolo in basso).
Si tratta di un’ottima opportunità di risparmio per chi
vuole smaltire l’amianto. Ma come funziona l’incentivo?
L’articolo 16-bis, comma 1, lettera l) del Dpr 917/1986,
prevede espressamente, per gli interventi eseguiti su
immobili abitativi e relative pertinenze (box, cantina,
soffitta), la detraibilità dall’Irpef del 50% delle spese
sostenute, entro il limite massimo di 96mila euro per gli
interventi di bonifica dall’amianto.
La formulazione testuale della norma lascerebbe pensare che
i benefici fiscali si possano applicare anche agli
interventi eseguiti su immobili non abitativi, anche non
pertinenziali, sempreché posseduti da persone fisiche,
tenuto conto del carattere oggettivo della normativa che non
limita espressamente alle abitazioni questa tipologia
specifica di intervento. In pratica, se posseduto da una
persona fisica l’edificio non residenziale (ufficio,
negozio, capannone, ma anche tettoie, pollai e ricoveri di
materiali), fruirebbe del bonus del 50% previsto per le
abitazioni. Ma sul punto non sono mai arrivate conferme
ufficiali.
Sino al 31.12.2015 (per ora ma la proroga al dicembre
2016 è contenuta nella legge di stabilità) l’importo della
detrazione è pari al 50% delle spese sostenute sino a un
ammontare massimo di 96mila euro, cioè 48mila euro da
ripartirsi in dieci rate annuali fino a 4.800 euro ciascuna
da recuperare con la presentazione della dichiarazione dei
redditi. Perciò, chi spende 20mila euro per la bonifica
dall’amianto potrà recuperare 10 mila euro in 10 quote
annuali da mille euro.
A regime, invece, la detrazione sarà pari al 36% delle spese
sostenute fino a un ammontare massimo di 48mila euro, cioè
17.280 euro da ripartirsi in dieci quote.
Per accedere ai benefici basta pagare le fatture con
bonifico bancario o postale.
Nella maggior parte dei casi la rimozione dell’amianto è un
intervento che interessa i condomini: in questo caso sarà
l’amministratore a provvedere al pagamento con bonifico, in
cui oltre alla partiva Iva dell’impresa esecutrice dei
lavori indicherà anche il codice fiscale del condominio. Lo
stesso amministratore poi rilascerà ai singoli condomini
un’attestazione degli importi da ciascuno dei condomini
detraibili sulla base della tabella millesimale.
Da ultimo nel Ddl «Collegato ambientale« (atto Senato 1676),
è stato approvato un emendamento presentato dal Governo che
prevede un credito di imposta del 50% delle spese sostenute
nel 2016 per interventi di bonifica dell’amianto anche su
beni e strutture produttive (con fondi pari a 5,6 milioni di
euro per il triennio 2017-2019).
Il credito di imposta -quando entrerà in vigore- non si
applicherà per investimenti di importo unitario inferiore a
20mila euro.
L’importo del credito sarà ripartito in tre
quote di pari importo da recuperare in sede di dichiarazione
dei redditi. Il credito non concorre alla determinazione del
reddito né dell’imponibile Irap. Modalità e termini di
applicazione del beneficio saranno rimesse a uno specifico
decreto del Mef.
---------------
Per le società abbinamento con il risparmio energetico
Persone giuridiche. Recuperabili al 65% i lavori connessi
all’isolamento termico.
Per gli
immobili posseduti da imprese e società nell’esercizio
dell’attività commerciale la detrazione Irpef del 50% non è
applicabile. Tuttavia, le spese di rimozione dell’amianto
rientrano tra quelle detraibili quando si effettuano
contestualmente gli interventi di risparmio energetico cui
si applica la detrazione Irpef/Ires del 65% (prorogata al
2016 secondo il Ddl di stabilità).
In sostanza se
l’intervento di rimozione dell’eternit è collegato a
interventi sui serramenti, all’implementazione di un
cappotto termico, all’installazione di pannelli solari
termici, o caldaie a condensazione, all’aggiunta di un
camino solare, o pompe di calore, allora la detrazione è
pari al 65% della spesa sostenuta sino a un importo massimo
di detrazione pari a 100mila euro per gli interventi di
riqualificazione globale, ovvero 60mila per gli interventi
sulle strutture opache orizzontali o verticali (cappotto,
finestre o solai) o 30mila per gli interventi di
sostituzione degli impianti termici.
Il perimetro
In pratica, mentre la detrazione del 65% non si applica di
per sé alla sola rimozione dell’amianto, le spese
complessive di riqualificazione energetica con contestuale
rimozione dell’amianto, se non separatamente fatturate
(altrimenti si perde il diritto al beneficio), fruiscono
anche di questa maggiore detrazione.
Trattandosi di intervento di risparmio energetico non
sussistono i limiti oggettivi previsti per la detrazione del
50%: quindi l’agevolazione vale sia per le abitazioni sia
per tutti gli edifici non residenziali e quelli a
destinazione produttiva. L’importante è che gli stessi siano
accatastati prima dell’inizio dell’intervento e siano dotati
di impianto di riscaldamento preesistente.
Anche sotto il
profilo soggettivo, la detrazione del 65% non subisce i
limiti previsto per il bonus fiscale per le ristrutturazioni
edilizie e, quindi, si applica oltre che ai soggetti Irpef
anche a imprese e società (soggetti Ires). In entrambi i
casi, trattandosi di una detrazione è necessario che il
soggetto che sostiene le spese abbia capienza di imposta,
cioè Irpef o Ires da versare nell’anno di imposta da cui
poter scomputare l’importo detraibile.
Facciamo un esempio: una società vuole rimuovere l’amianto
e, contestualmente, coibentare il tetto per migliorare
l’isolamento termico dell’edificio. Nell’ipotesi in cui al
termine dei lavori di rifacimento del tetto si conseguano i
prescritti valori di trasmittanza termica, tutte le spese
sostenute, anche per la rimozione dell’amianto nel tetto,
fruiscono dei benefici fiscali.
Se si tratta di intervento
di risparmio energetico eseguito su immobile strumentale, la
detrazione si applica senza problemi a prescindere dal fatto
che le spese sostenute sono già elemento di costo nella
determinazione del reddito di impresa o arti e professione
(es. maggiore ammortamento per capitalizzazione
dell’investimento ovvero abbattimento dal reddito
imponibile). In sostanza, la spesa sostenuta rileva, sia
nella determinazione del reddito che come detrazione dalle
imposte sul reddito dovute sull’utile (Irpef o Ires). Fanno
eccezione gli immobili non abitativi locati per i quali
l’agenzia delle Entrate ha posto dei limiti all’applicazione
del 65 per cento.
Per i titolari di reddito d’impresa (ditte individuali,
società di persone o di capitali), infatti, la detrazione
del 65% spetta solo se gli interventi di riqualificazione
energetica sono eseguiti su fabbricati strumentali (per
natura o destinazione) utilizzati nell’esercizio
dell’attività imprenditoriale. Sono pertanto esclusi gli
immobili locati a terzi (risoluzione n. 340/E/2008) e gli
altri immobili posseduti dalle imprese o società. Tuttavia, i
più recenti orientamenti giurisprudenziali di merito non
riconoscono legittima questa interpretazione (si veda Il
Sole 24 Ore del 29 giugno scorso).
La procedura
Il contribuente deve, in primo luogo, acquisire
l’asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi il
rispetto dei requisiti di trasmittanza termica. È necessario
acquisire anche l’attestato di prestazione energetica
dell’edificio e la scheda informativa dei lavori secondo lo
schema contenuto nel Dm 19.02.2007.
Una volta ottenuta l’asseverazione, l’Ape e la scheda
informativa, il contribuente deve inviarli all’Enea (tramite
il programma informatico disponibile sul sito internet
www.acs.enea.it) entro i 90 giorni successivi alla fine
dell’intervento (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, turn-over ancora vincolato agli ex provinciali.
Personale/1. La mobilità «copre» tutti gli spazi.
La
disposizione contenuta nel disegno di legge di Stabilità
2016, che impone la riduzione del turn-over al 25%, non
modifica il fatto che gli spazi assunzionali restano
integralmente vincolati al riassorbimento dei dipendenti
soprannumerari, mentre il 2017 e il 2018 sembrano essere
orizzonti temporalmente troppo lontani per essere
preoccupati ora per allora, considerata la “velocità” delle
modifiche legislative.
L’ultimo intervento normativo in materia è rappresentato
dall’articolo 3, comma 5, del Dl 90/2014, il quale
stabilisce che gli enti locali possono assumere nel 2015 nel
limite del 60% della spesa relativa alle cessazioni
dell’anno precedente, nel 2016 e nel 2017 l’aliquota è
fissata all’80% per salire al 100% dal 2018. Su questo
impianto legislativo interviene il comma 424 della legge di
stabilità di quest’anno, che impone di destinare le facoltà
2015 e 2016 all’assunzione dei vincitori di concorso
relativi a graduatorie in vigore e approvate al 01.01.2015 e alla ricollocazione dei dipendenti in esubero degli
enti di area vasta.
Considerato che, negli enti locali, è poca diffusa la
situazione nella quale si hanno graduatorie approvate in
assenza della nomina dei vincitori ovvero i pochi casi
presenti si esauriranno con le facoltà 2015, nella sostanza
tutto il budget 2016 a disposizione delle assunzioni vanno a
favore dei soprannumerari degli enti di area vasta. Ma la
disposizione prima richiamata impone agli enti locali di
destinare anche la restante percentuale per arrivare al turn-over pieno alla sola ricollocazione del personale
soprannumerario.
Riassumendo, per il 2016, l’80% delle cessazioni
verificatesi nel 2015 è destinato ai vincitori di concorso,
che, nei Comuni, saranno, presumibilmente, pari a zero, e
agli ex provinciali, mentre il restante 20% è riservato ai
soli soprannumerari. In pratica, quindi, tutta la spesa 2016
pari alle cessazioni 2015 è da destinare al riassorbimento
del personale degli enti di area vasta in esubero.
In questo contesto, a cosa serve ridurre le facoltà
assunzionali dall’80% al 25%? In costanza della previsione
normativa attuale, l’80% delle cessazioni 2015 va a favore
dei vincitori di concorso (che saranno assenti) e agli
esuberi e il restante 20% ai soli soprannumerari. Con la
nuova previsione contenuta nel disegno di legge di Stabilità
per il 2016 si dovrebbe riservare il 25% alla prima
fattispecie e l’ulteriore 75% alla seconda ipotesi. Ma in
entrambi i casi, il totale (100%) sono destinati agli ex
provinciali. E, quindi, quale è l’utilità o l’obiettivo
della nuova disposizione? Le risposte sono del tutto ignote.
E se questo non fosse sufficiente, la legge di Stabilità
2016 aggiunge che «al solo fine di definire il processo di
mobilità del personale degli enti di area vasta destinato a
funzioni non fondamentali…. restano ferme le percentuali
stabilite dall’articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90….».
Quindi, con riferimento al 2016, resta ferma la percentuale
dell’80% al solo fine dei riassorbire i provinciali. Se non
si comprende quale sia la portata del primo periodo del
comma in questione, ancora più perplessi lascia questa
seconda parte. A cosa serve specificare che il turn-over
resta all’80%? E quale destinazione possono avere queste
facoltà assunzionali se non a favore degli ex provinciali?
La previsione della legge di stabilità 2016 potrebbe
acquisire un significato solo nel caso in cui il percorso di
riassorbimento dei dipendenti soprannumerari degli enti di
area vasta si concludesse secondo le previsioni contenute
nel decreto del ministero per la Semplificazione e per la
pubblica amministrazione 14.09.2015, vale a dire
entro la fine del marzo 2016, con la completa ricollocazione
di tutti gli esuberi.
Ipotesi alla quale sembra non credere
nemmeno il legislatore tanto che prevede, nella stessa legge
di Stabilità, il commissariamento delle Regioni che, alla
data del 30.01.2016, risultino ancora inadempienti
rispetto alla scadenza, oggi fissata al 31.10.2015 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il rinnovo dei contratti dribbla i tetti di spesa.
Personale/2. I costi sono a carico dei bilanci locali ma non
entrano negli indicatori.
Sono passati
più di sei anni dall’ultimo contratto nazionale. Talmente
tanto che gli enti locali si trovano quasi disorientati di
fronte alle percentuali e agli importi che circolano in
questi giorni sui futuri incrementi stipendiali.
C’è bisogno di ripercorrere le regole vigenti, anche se, il
mutato contesto normativo, potrebbe portare anche a
soluzioni interpretative diverse.
Il tutto prende il via dall’articolo 48 del Dlgs 165/2001
che prevede che per le Regioni e gli enti locali le risorse
per gli incrementi retributivi per il rinnovo dei contratti
collettivi nazionali sono definite dal Governo, nel rispetto
dei vincoli di bilancio, del patto di stabilità e di
analoghi strumenti di contenimento della spesa, previa
consultazione con le rispettive rappresentanze istituzionali
del sistema delle autonomie.
Lo stesso articolo, afferma, inequivocabilmente, che gli
oneri di tale contrattazione sono determinati a carico dei
rispettivi bilanci. Ciascun ente, quindi, dovrà prevedere in
sede di bilancio, le somme per l’erogazione dei benefici a
favore dei propri dipendenti.
Il contratto nazionale, poi, spalmerà gli importi a
disposizione sulle varie categorie e posizioni economiche
del comparto, prevedendo le somme da inserire in busta paga.
Ai fini del calcolo della spesa di personale, le somme
riferite ai rinnovi contrattuali vanno escluse dalla base di
calcolo. Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 557, della
legge 296/2006 (finanziaria 2007) tali costi sono da
neutralizzare per il monitoraggio nel tempo dell’obbligo di
contenimento della spesa di personale, che, ai sensi del
comma 557-quater della medesima disposizione, dovrà avvenire
rispetto alla media del triennio 2011/2013. Per gli enti non
soggetti a patto di stabilità, il riferimento, invece, è la
spesa di competenza dell’anno 2008.
Su tale aspetto non debbono esserci dubbi. Oltre al chiaro
disposto letterale della norma, la Corte dei conti, sezione
autonomie, con la deliberazione 27/2011 ne ha individuato la
ratio: da un lato operando il confronto tra esercizi
escludendo in entrambi gli effetti dei rinnovi contrattuali
si eliminano turbative all’andamento della serie, dall’altro
i contratti nazionali hanno copertura predeterminata e
comportano decisioni di spesa assunte aliunde e non di
dominio immediato dell’ente.
I magistrati, però, ricordano che tali esclusioni non si
possono applicare agli incrementi delle somme a favore della
contrattazione integrativa decentrata.
La deliberazione, prende in esame, però, anche un’altra
questione, ovvero quali voci siano da includere o da
escludere al momento del calcolo del rapporto tra spese di
personale e spese correnti, che, come stabilito dalla
deliberazione 27/2015 della medesima sezione autonomie,
riveste carattere cogente.
Al fine di verificare il rispetto dei parametri d’incidenza
tra le spese di personale e la spesa corrente, l’aggregato
spese di personale può essere direttamente riferito a quello
già impiegato per l’applicazione del comma 557, ma è
necessario operare un correttivo, per ristabilire
l’equilibrio del confronto con l’insieme della spesa
corrente. In tale prospettiva vanno, quindi, incluse
nell’aggregato “spesa del personale” le voci escluse ai fini
dell’applicazione del comma 557.
Al numeratore, quindi, va sempre indicata una spesa di
personale “lorda” (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015). |
APPALTI:
Enti
pubblici al test riciclaggio. Sotto la lente appalti,
sanità, rifiuti, energie rinnovabili.
Riorganizzazione delle amministrazioni richiesta
dagli adempimenti di segnalazione.
Appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta
e smaltimento dei rifiuti sono le attività che presentano i
maggiori rischi di riciclaggio, nonché i settori economici
interessati dall'erogazione di fondi pubblici, anche di
fonte comunitaria.
Sono questi, quindi, gli ambiti che devono essere monitorati
con particolare attenzione dagli operatori di enti locali,
istituti, scuole, aziende sanitarie e amministrazioni della
p.a., secondo il
decreto 25.09.2015
del Ministero dell'interno, ai fini della segnalazione delle operazioni
sospette di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.
Ciò
comporta una sostanziale opera di riorganizzazione degli
uffici pubblici che dovranno concretamente attrezzarsi per
verificare la sussistenza delle fattispecie previste negli
indicatori previsti dal decreto, per scovare il possibile
coinvolgimento dell'imprenditore, che entri in contatto con
l'amministrazione, in situazioni di riciclaggio o
finanziamento del terrorismo.
La collaborazione attiva delle pubbliche amministrazioni.
Non più solo i professionisti e gli intermediari finanziari
devono preoccuparsi, da un punto di vista operativo, di
provvedere alle segnalazioni di operazioni sospette e agli
obblighi antiriciclaggio.
Con il decreto del 25/09/2015,
infatti, anche tutta la pubblica amministrazione deve
concretamente attivarsi al fine di agevolare
l'individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e
di finanziamento del terrorismo (si veda ItaliaOggi del
09/10/2015). In effetti, ricordiamo che gli uffici della
pubblica amministrazione rientrano fra i destinatari della
normativa antiriciclaggio fin dalla legge 197/1991. Il dlgs
231/2007 conferma tale scelta all'art. 10, comma 2,
prevedendo per detti uffici esclusivamente il rispetto degli
obblighi di segnalazione di operazioni sospette.
Nonostante
il dato normativo, tuttavia, afferma l'Uif nel suo rapporto
annuale per il 2014: «Finora la pubblica amministrazione non
ha dimostrato di avere, in generale, consapevolezza del
proprio ruolo nell'ambito della collaborazione attiva». In
proposito, il National Risk Assessment rileva che si tratta
di una «vulnerabilità non di poco conto se si pensa alla
rilevanza del fenomeno della corruzione ovvero alla presenza
di ambiti fortemente appetibili per la criminalità come il
settore degli appalti pubblici o dei finanziamenti
comunitari».
Proprio al fine di sensibilizzare la p.a. sugli
obblighi di collaborazione attiva, la Uif, unitamente al
ministero dell'interno, ha provveduto a definire gli
specifici indicatori di anomalia in commento che, in accordo
al principio di proporzionalità e secondo un approccio
basato sul rischio, tengono conto dei settori pubblici
maggiormente esposti al rischio di riciclaggio. In
proposito, gli ambiti di attività più colpiti risultano
quelli interessati dalla movimentazione di elevati flussi
finanziari, anche di natura pubblica, quali il settore
fiscale, gli appalti e i finanziamenti pubblici.
Sul tema, comunque si tiene a precisare che la via
intrapresa dall'Italia, non trova corrispondenza con la
normativa europea in quanto la Direttiva 2005/60/Ce (c.d.
III Direttiva), così come la Direttiva 2015/849 del 20.05.2015 (c.d. IV Direttiva), pubblicata in Guue del
05.06.2015 e da recepire negli ordinamenti nazionali entro
la data del 26.06.2017 (si veda ItaliaOggi Sette del
05/10/2015), non contengono riferimenti a obblighi di
prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del
terrorismo a carico della p.a..
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Massima allerta sui comportamenti sotto
la lente.
Non basta la verifica formale della documentazione fornita
dalle imprese che chiedono di partecipare agli appalti o di
ricevere dei fondi pubblici, piuttosto serve un controllo
sostanziale dei comportamenti attuati dai richiedenti per
individuare possibili fattispecie tipizzate negli indicatori
previsti dal decreto con conseguente responsabilità sui
responsabili dei procedimenti e sui dirigenti delle
strutture pubbliche.
Si tratta di controlli di non semplice
realizzazione pratica anche considerando che il decreto
tiene a precisare la non esaustività dell'elencazione delle
anomalie e inoltre che l'impossibilità di ricondurre
operazioni o comportamenti a uno o più degli indicatori
previsti nell'allegato del decreto non è sufficiente a
escludere che l'operazione sia sospetta.
Gli operatori
devono, pertanto, valutare con la massima attenzione
ulteriori comportamenti e caratteristiche dell'operazione
che, sebbene non descritti negli indicatori, siano
egualmente sintomatici di profili di sospetto. Per quanto
riguarda, poi, il sospetto di operazioni riconducibili al
finanziamento del terrorismo, il decreto puntualizza che lo
stesso può essere desunto anche dal riscontro di un
nominativo e dei relativi dati anagrafici nelle liste
pubbliche consultabili sul sito della Uif.
A riguardo, si
chiarisce comunque che, ai fini della segnalazione, non è
sufficiente la mera omonimia, qualora il segnalante possa
escludere, sulla base di tutti gli elementi disponibili, che
uno o più dei dati identificativi siano effettivamente gli
stessi indicati nelle liste, intendendo per dati
identificativi le cariche, le qualifiche e ogni altro dato
riferito nelle liste che risulti incompatibile con il
profilo economico-finanziario e con le caratteristiche
oggettive e soggettive del nominativo.
Nell'ottica
operativa, infine, il decreto richiede che gli operatori
della p.a. adottino in base alla propria autonomia
organizzativa, procedure interne di valutazione che
culminano con la trasmissione delle informazioni relative
all'operazione sospetta a un soggetto denominato «gestore».
Quest'ultimo può coincidere con il responsabile della
prevenzione della corruzione previsto dall'art. 1, comma 7,
legge 190/2012. Negli enti locali con popolazione inferiore
a 15 mila abitanti può essere individuato un gestore comune
ai fini dell'adempimento dell'obbligo di segnalazione delle
operazioni sospette
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gestioni
associate verso lo stop. Nei correttivi incentivi reali e la
cancellazione delle rigidità del meccanismo.
L’assemblea dell’Anci. Comuni fino a 5mila abitanti: il
Governo apre alla sospensione degli obblighi previsti dal
01.01.2016.
Dal governo
arriva, all’assemblea dell’Anci, un sostanziale via libera
alla sospensione degli obblighi di gestione associata per i
quasi 6mila piccoli Comuni, che dovrebbe partire dal 1°
gennaio senza che però siano stati affrontati i problemi
alla base della pioggia di proroghe di questi anni.
«Avviamo
subito il confronto con i sindaci sulla via da imboccare -apre il sottosegretario di Palazzo Chigi, Claudio De
Vincenti, che segue i dossier della manovra sugli enti
locali- tenendo fisso l’obiettivo di una crescita
dimensionale delle amministrazioni per aumentare la capacità
di garantire servizi». L’obiettivo, almeno nelle
dichiarazioni ufficiali, è condiviso, ma finora gli obblighi
di gestione associata hanno prodotto più rinvii che
riorganizzazioni amministrative per gestire insieme servizi
sociali, sicurezza, asili nido, protezione civile e così
via.
La storia di questi obblighi data infatti dal 2010, e
prevedeva un calendario progressivo con l’associazione di
tre funzioni fondamentali all’anno: il fallimento di queste
tappe ha portato al termine unico del 1° gennaio prossimo,
ma le indagini avviate nelle scorse settimane dal Viminale
hanno certificato che la situazione è ferma. Di qui l’idea
della nuova sospensione, che potrebbe arrivare con gli
emendamenti alla manovra o in un altro provvedimento se sarà
considerata misura troppo “ordinamentale” per finire nella
legge di stabilità.
Gli ostacoli lamentati dai Comuni sono due: l’assenza di
incentivi reali alle associazioni e soprattutto l’eccessiva
rigidità del meccanismo, che impone a tutti i Comuni sotto i
5mila abitanti (3mila in montagna) di costruire associazioni
che amministrino almeno 10mila abitanti.
Densità
demografiche e articolazioni dei servizi cambiano però da
territorio a territorio, e lo stesso target di 10mila
abitanti può rivelarsi facilissimo da raggiungere in alcune
aree e praticamente impossibile in altre. Le Regioni
avrebbero potuto ritoccare questi parametri, ma poche
l’hanno fatto a conferma di una scarsa attenzione collettiva
sulla traduzione degli obblighi in realtà.
Una nuova sospensione non basterebbe ovviamente a risolvere
i problemi, ma l’idea è di utilizzare il nuovo tempo
supplementare per ripensare integralmente le regole.
«Bisogna cancellare il criterio legato al numero di abitanti
-rilancia Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente Anci- e cominciare a ragionare per bacini omogenei di
aggregazione, dentro cui sviluppare unioni decise dagli
stessi Comuni. In sei mesi si può fare».
Nell’agenda dei piccoli Comuni c’è però anche un’altra
scadenza, ancora più ravvicinata e intricata nella gestione.
Dal 1° novembre i sindaci fino a 10mila abitanti non
potranno più ottenere il via libera per nessun acquisto che
non passi dalle centrali uniche, mentre la manovra ridisegna
tutto il sistema dal 1° gennaio prossimo, estendendo ai
piccoli Comuni la deroga per i mini-acquisti (fino a 40mila
euro) già prevista per gli altri.
Senza un intervento, si
rischia un blocco bimestrale degli appalti provocato da una
norma che di fatto è stata accantonata dallo stesso governo:
per rimediare, però, è indispensabile un correttivo da far
entrare in vigore subito. La sede potrebbe essere il decreto
con il salva-Regioni che nel prossimo Consiglio dei ministri
fisserà le regole per consentire il ripiano in 30 anni dei
disavanzi creati dall’errata gestione delle anticipazioni di
liquidità prodotte dai provvedimenti del 2013 che hanno
sbloccato i pagamenti alle imprese.
In discussione, in vista
di quel provvedimento, c’è anche l’ipotesi di sanatoria per
le delibere con gli aumenti fiscali approvate dai Comuni
dopo il termine per i bilanci preventivi scaduto il 30
luglio scorso (il problema non riguarda la Sicilia, dov’era
arrivata la proroga fino al 30 settembre).
Il problema
riguarda circa mille Comuni, molto spesso per la revisione
dei parametri della Tari (la tariffa rifiuti era stata
oggetto di sanatoria ex post anche nel 2014), la pressione
per un intervento è forte ma si scontra con la contrarietà
di Palazzo Chigi (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), perché
permettere di applicare le aliquote approvate fino al 30
settembre significherebbe nei fatti annullare l’effetto più
importante del «no» a nuove proroghe dei preventivi imposto
a luglio dal Governo. Non solo: l’annuncio dell’addio alla Tasi sull’abitazione principale è stato dato dal premier
Matteo Renzi il 18 luglio, e c’è il timore di possibili
aumenti “strumentali” con il solo obiettivo di far crescere
i rimborsi per il mancato gettito dei prossimi anni (come
accaduto sulla mini-Imu due anni fa).
Intanto l’Economia, che nelle settimane scorse aveva
invitato i sindaci ad annullare le delibere in autotutela,
ha avviato i ricorsi contro i Comuni che stanno provando ad
applicarle comunque, chiedendo al Tar la sospensione per
evitare problemi nel saldo di dicembre (articolo Il Sole 24 Ore del
30.10.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Associazionismo forzoso flop. Meglio forme di aggregazione
spontanee e omogenee.
ASSEMBLEA ANCI/ La tesi dei comuni piace al
governo. L'obbligo verso il rinvio.
L'associazionismo comunale forzoso è fallito. L'obbligo per
i piccoli comuni di mettere insieme le funzioni su base
demografica, imposto dal decreto legge n. 78/2010, va messo
definitivamente da parte, per ripartire invece da forme di
aggregazione spontanea, dal basso, sulla base di bacini
omogenei per territorio.
Ecco perché l'appuntamento con l'obbligo di gestione
associata delle funzioni, previsto per il 01.01.2016,
va nuovamente spostato in avanti. Ma questa volta non dovrà
trattarsi di una semplice proroga, bensì di un ripensamento
globale di un modello che «ha fallito» (come certificato
anche dal ministero dell'interno e dalla Corte dei conti, si
veda ItaliaOggi del 04/09/2015).
Lo chiedono i comuni e lo
pensa anche il governo che su questo punto ha promesso «non
il solito emendamento di proroga per risolvere una
situazione emergenziale, ma un intervento di ampio respiro
per realizzare processi aggregativi senza forzature».
Il sottosegretario al ministero dell'interno, Gianpiero
Bocci, intervenendo a Torino all'assemblea dell'Anci, ha
risposto così alle sollecitazioni dei sindaci dei piccoli
comuni, i primi interessati a uscire da una situazione di
stallo che sta penalizzando anche le unioni.
«L'obbligatorietà delle funzioni sta creando un clima di
sfiducia», ha osservato Dimitri Tasso, coordinatore della
Conferenza nazionale Unioni di comuni e associazionismo
dell'Anci, «perché la normativa non chiarisce bene quali
siano le funzioni da mettere insieme, mentre invece
associare i servizi non crea alcun problema.
Ecco perché occorre una sospensiva, per riscrivere
velocemente le regole. Sei mesi potrebbero bastare per
individuare i bacini omogenei».
Parole che suonano come
musica per le orecchie di chi come Franca Biglio, presidente
dell'Anpci, l'associazione nazionale dei piccoli comuni, si
è sempre pervicacemente opposto all'associazionismo calato
dall'alto, propugnando invece un modello di aggregazione
basato sulla condivisione dei servizi. «Finalmente l'Anci ha
capito quello che noi diciamo da sempre: l'associazionismo
forzoso avrebbe distrutto i piccoli comuni e il paese». «Ora
però», ha messo in guardia il sindaco di Marsaglia (Cn),
«non vorremmo che si cadesse dalla padella alla brace. I
bacini ottimali devono essere decisi dal basso, ma non dalle
province, come invece sostiene l'Anci (lo ha ribadito ieri
in assemblea il sindaco di Pesaro Matteo Ricci ndr) perché
questo significherebbe far prevalere nuovamente le decisioni
dei grandi comuni favoriti dal meccanismo del voto
ponderato».
I piccoli comuni saranno dunque al centro delle
interlocuzione tra sindaci e governo nei prossimi mesi. E
per questo la platea dell'Anci ha accolto con favore
l'annuncio del ministro dell'interno, Angelino Alfano, di
dedicare una delle prossime riunioni della Conferenza
stato-città esclusivamente alle problematiche dei mini enti
che spesso lamentano di essere dimenticati dal governo
nonostante costituiscano il 70% dei municipi italiani e il
54% del territorio.
«I piccoli comuni rappresentano solo
l'1% della spesa pubblica ma in questi anni sono stati
colpiti da politiche restrittive che ne hanno solo
incrementato la crisi e lo spopolamento», precisa Massimo
Castelli, sindaco di Cerignale (Pc) e coordinatore nazionale
Anci piccoli comuni, «bisogna quanto prima invertire la
rotta favorendone il ripopolamento con incentivi e
semplificazioni».
La legge di stabilità, tuttavia, nella parte in cui riduce
il turnover al 25%, rendendo di fatto impossibile
rimpiazzare il personale cessato nei mini enti, sembra
andare in direzione opposta.
Il tema delle riforme si lega, infatti, a doppio filo al
cantiere della manovra che in linea di massima piace all'Anci.
I sindaci apprezzano il superamento del patto di stabilità,
sostituito con il pareggio di bilancio light (entrate finali
e spese finali di competenza), lo sblocco degli avanzi di
amministrazione per realizzare gli investimenti (anche se
sul punto, a causa anche della scarsa chiarezza del ddl,
permangono forti dubbi, come ha osservato Pier Sandro Scano,
sindaco di Villamar (Vs) e presidente di Anci Sardegna), la
maggiore spinta su fabbisogni standard e capacità fiscale
per l'attribuzione delle risorse e la compensazione
integrale del gettito Imu-Tasi mancante dopo l'abolizione
delle tasse sulla prima casa. Ma ci sono ancora alcuni
importanti nodi da sciogliere. In primis i 500 milioni di
tagli alle province che renderebbero impossibile agli enti
di area vasta la gestione delle funzioni fondamentali.
Sul
punto, però, è arrivata un'apertura dal sottosegretario alla
presidenza del consiglio, Claudio De Vincenti che ha
promesso alle province l'impegno del governo a «garantire le
risorse necessarie a svolgere la loro missione istituzionale
in attesa che si compia il processo di riforma». Un impegno
apprezzato dal presidente dell'Upi e sindaco di Vicenza,
Achille Variati.
«È un segnale positivo che va nella direzione giusta, per
arrivare a modificare il taglio agli enti di area vasta,
partendo da dati certi», ha commentato. De Vincenti,
infine, ha difeso il contestato tetto del turnover,
precisando come non sia in contraddizione col decreto Madia
del 2014, ma vada invece inquadrato proprio nell'ottica
della riforma della p.a. recentemente approvata dal
parlamento (legge n. 124/2015). Il tetto in ogni caso non
impatterà negativamente sul ricollocamento del personale
provinciale
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
trattamento accessorio ancorato ai soldi del 2015.
Dal 2016, l'ammontare delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale pubblico non potrà
superare l'importo del 2015 e dovrà essere progressivamente
ridotto in proporzione alle cessazioni dal servizio.
Il ddl
di stabilità 2016 torna all'antico e, dopo la breve pausa
del 2015, rimette la sordina alla contrattazione decentrata.
È solo da quest'anno, infatti, che è venuto meno il tetto
previsto dall'art. 9, c. 2-bis, del dl 78/2010, che fino al
2014 prevedeva un meccanismo analogo di contenimento,
calibrato però sul 2010 come anno di riferimento. La nuova
norma, peraltro, presenta una formulazione leggermente
diversa da quella contenuta nelle prime bozze. Da un lato,
il limite viene esplicitamente previsto solo «nelle more
dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli
articoli 11 e 17» della Legge Madia.
Dall'altro lato, fermo
restando che il tetto al fondo è rappresentato, come detto,
dall'importo del 2015, non si prevede più che esso debba
essere «determinato ( ) ai sensi dell'art. 9, c. 2-bis,
secondo periodo» del dl 78/2010. Tale inciso sembrava
implicare che eventuali incrementi, pur possibili nel 2015,
dovessero essere recuperati dal 2016. Inoltre, a differenza
di quanto accadeva in passato, è stato inserito un nuovo
riferimento al «personale assumibile» per calcolare l'entità
del taglio.
Restano comunque possibili le progressioni
economiche orizzontali. Ovviamente, come evidenzia la
relazione al testo, a essere cambiato è soprattutto il
contesto generale, in quanto si è riattivato il meccanismo
degli scatti stipendiali. In questo contesto, è chiaro che
gli enti hanno ora convenienza ad aumentare il più possibile
il fondo 2015, sia per ripararsi dai futuri tagli, sia per
incrementare il proprio monte salari in vista di un
eventuale ulteriore incremento del contratto collettivo
nazionale.
Di regola, infatti, la quota di incremento del Ccnl legato alla produttività, e dunque attribuito al fondo,
è espresso come una percentuale del monte salari di ciascun
ente. Sui contratti, c'è da notare che i 300 milioni valgono
lo 0,3% dato dall'inflazione prevista nel 2015. Non si parla
più dell'indice Ipca che in base alla riforma Brunetta
doveva sostituire il vecchio sistema proprio da questa
tornata contrattuale e che è molto superiore: 1,5 nel 2015
(articolo ItaliaOggi del
30.10.2015). |
TRIBUTI:
Online il nuovo portale della giustizia
tributaria.
Dal calcolo del contributo unificato dovuto sul ricorso alla
prenotazione degli appuntamenti con la commissione
tributaria, dalla modulistica per richiedere copia delle
sentenze o il certificato di pendenza all'elenco dei
soggetti autorizzati alla difesa del contribuente presso Ctp
e Ctr.
È online il nuovo portale della giustizia tributaria,
realizzato dal Dipartimento delle finanze del Mef. Il sito,
i cui contenuti e l'erogazione dei servizi sono curati dalla
Direzione giustizia tributaria, svolgerà anche la funzione
di punto unico di accesso al processo tributario telematico,
in partenza dal prossimo 1° dicembre in via sperimentale
nelle commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Attraverso l'indirizzo web
http://giustiziatributaria.gov.it contribuenti ed enti
impositori potranno effettuare online il deposito dei
ricorsi e degli atti processuali, come pure accedere al
fascicolo informatico del processo e consultare tutti gli
atti e i provvedimenti emanati dal giudice. Strumenti
necessari per poter fruire dei servizi del processo
tributario telematico sono il possesso di una casella di
posta elettronica certificata e di una firma digitale
valida.
Il sito contiene anche una sezione specifica dedicata alla
rassegna di giurisprudenza tributaria. Ed è proprio su
questo tema che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, a
poche ore dal «lancio» del portale alcuni giudici hanno
sollevato qualche perplessità, relativa ai criteri di
selezione delle sentenze da parte del Mef.
Come spiegato
dalla Direzione giustizia tributaria sul sito, tuttavia, la
panoramica sulle massime «si propone di offrire risalto ad
alcune delle più interessanti pronunce segnalate dalle
commissioni tributarie», senza quindi privilegiare né quelle
pro-fisco né quelle pro-contribuente e in maniera più
tempestiva che in passato (l'aggiornamento avverrà ogni 15
giorni).
Il portale sarà utilizzabile anche dai magistrati tributari,
che potranno fruire di diversi servizi personalizzati
accessibili dalla «scrivania del giudice», tra cui la
ricerca delle sentenze delle commissioni tributarie e la
consultazione del fascicolo processuale telematico
(articolo ItaliaOggi del
29.10.2015). |
APPALTI: Comuni, gli appalti a rischio.
Il sistema non è pronto: Cantone sollecita una soluzione al
Governo.
Spending review. Dal primo novembre scatta l’obbligo di
aggregare le gare per le città non capoluogo.
Appalti dei
Comuni a rischio blocco dal primo novembre. Dopo sei
proroghe consecutive entra in vigore la norma che impone a
tutte le città non capoluogo di aggregare le gare,
attraverso consorzi e unioni di comuni oppure passando dagli
uffici di una provincia o da un soggetto aggregatore.
Dalla prossima settimana solo i grandi comuni potranno
continuare a bandire le gare in autonomia. Per tutti gli
enti non capoluogo scatta invece la tagliola prevista dalla
spending review inaugurata dal Governo Monti nel 2012: per
risparmiare e permettere di controllare meglio la spesa le
gare vanno aggregate. Un principio che vale per beni e
servizi, ma anche per i lavori pubblici.
A meno di proroghe dell’ultim’ora non c’è possibilità di
aggirare i vincoli. Chi non si adegua non potrà neppure
avviare l’iter di gara. La norma del codice appalti che
impone l’aggregazione, e che finora è rimasta congelata a
suon di proroghe (articolo 33, comma 3-bis), vieta infatti
all’Autorità Anticorruzione di rilasciare il codice che
identifica la procedura (il cosiddetto codice Cig) la cui
richiesta è propedeutica alla pubblicazione dei bandi di
gara.
Uno spauracchio che non è bastato. Nel Paese degli 8mila
campanili finora poco o nulla si è mosso sul fronte della
centralizzazione degli appalti. Anche il sistema dei 35
soggetti aggregatori è in via di formazione. Qualche Regione
è pronta a partire, altre sono indietro. In alcune aree del
paese i sindaci non saprebbero a chi rivolgersi per bandire
le loro gare. Dunque è più che concreto il pericolo di
mandare in stallo gli appalti dei comuni: il principale tra
i motori che in questi ultimi mesi hanno tenuto
faticosamente a galla i lavori pubblici.
Se ne rende conto anche l’Anac di Raffaele Cantone. Che non
a caso in queste ore sta lavorando a un documento da inviare
a Governo e Parlamento per segnalare l’urgenza di una
soluzione. Il problema si era già posto, negli stessi
termini, a luglio 2014, alla scadenza di una delle tante
proroghe concesse ai Comuni in ritardo sugli obblighi di
aggregazione degli acquisti. Allora l'impasse fu superata
con l'inserimento di una nuova proroga nel Dl 90/2014 e la
decisione di Cantone di sbloccare il rilascio dei codici di
gara (Cig) in anticipo sulla conversione del decreto. Uno
scenario che potrebbe replicarsi anche ora.
Ad aggravare la situazione e c'è il fatto che l'entrata in
vigore dal primo novembre porterebbe due mesi di caos totale
per i Comuni più piccoli. Con le regole in vigore, infatti,
quelli sotto i 10mila abitanti non possono bandire gare in
autonomia, neppure sotto la soglia di 40mila euro. Dal primo
gennaio, però, in base alla legge di Stabilità potranno
farlo. C'è da scommettere che in questi 60 giorni la
maggioranza dei sindaci tirerà i remi in barca, aspettando
il 2016 per ricominciare a gestire gli appalti in maniera
ordinata.
Per questo è allo studio un emendamento al Dl sulla finanza
locale (promosso dai Comuni, ma non ancora presentato), per
collegare l’entrata in vigore dei vincoli di aggregazione
alla partenza del nuovo Codice appalti. Una riforma che
peraltro continua a slittare in Parlamento.
L’esame della
delega al governo per riscrivere il sistema dei contratti
pubblici, calendarizzato per ieri, è stato rinviato alla
prossima settimana su richiesta del Governo. Motivazione
ufficiale: la necessità di riesaminare il testo varato dalla
Commissione Lavori pubblici guidata da Ermete Realacci per
blindarlo rispetto a ipotesi di ulteriori modifiche al
Senato. Ma forse pesa anche l’assenza del premier Matteo
Renzi , impegnato nel viaggio istituzionale in Sud America,
alla vigilia dell’approvazione di una riforma decisiva per
il settore
(articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2015). |
VARI: Prestito vitalizio ipotecario, pronto lo schema di offerta.
Accesso al credito. Parere favorevole del Consiglio di Stato
al regolamento.
Il prestito
vitalizio ipotecario è quasi pronto per il debutto, in
conseguenza del parere favorevole espresso dal Consiglio di
Stato (parere
16.10.2015 n. 2791)
sullo schema di regolamento attuativo, previsto
dall'articolo 1, legge 02.04.2015, numero 44 (che ha
sostituito il comma 12 dell'articolo 11-quaterdecies del
decreto legge 203/2005): la nuova norma ha rivisitato, un
istituto finora assai poco diffuso, finalizzato a consentire
l'accesso al credito al proprietario di età superiore a 60
anni di un immobile
In poche parole, si consente alla persona avanti con gli
anni di acquisire liquidità senza dover vendere la piena o
la nuda proprietà dell'immobile; e ciò mediante la stipula
di un mutuo a garanzia del quale viene iscritta un'ipoteca
sull'immobile di sua titolarità.
In caso di decesso del mutuatario, i suoi eredi hanno
l'alternativa di “recuperare” l'immobile libero da ipoteche,
corrispondendo alla banca quanto le è dovuto, oppure di
vendere il bene e soddisfare il credito della banca, in
tutto o in parte, con quanto ricavato dalla cessione;
infine, qualora entro dodici mesi dall'apertura della
successione il credito della banca non risulti soddisfatto,
la banca potrà vendere l'immobile in base al valore del bene
determinato in una perizia predisposta da un perito
indipendente (con la facoltà di trattenere la parte del
prezzo occorrente per soddisfare il suo credito e riversando
il resto agli eredi).
La nuova normativa dunque imponeva al ministro dello
Sviluppo economico (Mise) di emanare, entro tre mesi dalla
sua data di entrata in vigore (06.05.2015), una
disciplina regolamentare sentite l'associazione bancaria
italiana (Abi) e le associazioni dei consumatori: nel
regolamento il Mise avrebbe dovuto fissare le regole cui il
soggetto finanziatore si deve attenere nell'offerta al
pubblico e nella diffusione sul mercato del prestito
vitalizio ipotecario, nell'ottica di garantire trasparenza e
certezza in merito all'importo oggetto del finanziamento, ai
termini di pagamento, alla corresponsione degli interessi e
a ogni altro costo dovuto dal cliente.
Dallo schema di decreto si evince che, a tutela del soggetto
finanziato, il soggetto finanziatore dovrà sottoporre al
richiedente due prospetti informativi, esemplificativi del
piano di ammortamento, al fine di palesare il possibile
andamento del debito nel tempo; e pure dovrà produrre la
relativa documentazione precontrattuale e le informazioni
minime circa l'operazione. È disposto inoltre che il
soggetto finanziato potrà stipulare la polizza assicurativa
inerente l'immobile concesso in garanzia anche presso un
soggetto differente da quello finanziatore; e che egli avrà,
in ogni caso, il diritto di ricevere un resoconto della
propria posizione debitoria.
Viene anche previsto che, qualora il soggetto finanziato non
intenda addivenire alla stipula del prestito vitalizio
ipotecario, pur avendo egli attivato la fase
pre-contrattuale, sarà vietato all'istituto finanziatore di
esigere il pagamento delle spese sostenute dal finanziatore.
Il Consiglio di Stato, pur avendo espresso il proprio parere
favorevole allo schema di decreto di regolamento, ha
tuttavia invitato il Mise ad apportarvi taluni emendamenti
al fine di fornire maggiori tutela e informazione al
soggetto finanziato.
In particolare sono state richieste modifiche alle modalità
di revoca integrale del finanziamento qualora l'immobile
concesso in garanzia subisca procedimenti conservativi o
esecutivi di importo pari o superiore a una data percentuale
del valore del finanziamento o del valore dell'immobile
concesso in garanzia, nonché, agli effetti dell'eventuale
anticipata estinzione del finanziamento nei confronti degli
eredi (articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il legale non paga per l’Albo.
Dipendenti pubblici. Due le condizioni: elenco speciale e
rapporto subordinato.
La Ragioneria
generale dello Stato ha emesso un parere sulla competenza a
pagare l'iscrizione dei dipendenti pubblici agli albi
professionali.
Dopo la sentenza della Corte di Cassazione
7776/2015, e dopo che alcune sezioni regionali della Corte dei
conti hanno ritenuto di non entrare nel merito, con la
nota
19.10.2015 n. 79309 di prot. in risposta a una specifica
richiesta di un comune, vengono forniti i chiarimenti
operativi per gli enti locali.
Affinché i costi della tassa
di iscrizione all'albo degli avvocati possano gravare
sull'ente pubblico (e quindi essere rimborsati costituendo
peraltro spese di personale), sono necessarie due
contemporanee condizioni. Innanzitutto deve esistere
carattere obbligatorio dell'iscrizione nell'elenco speciale
annesso all'albo ai fini dell'espletamento dell'attività del
professionista.
In secondo luogo vi deve essere il carattere esclusivo
dell'esercizio dell'attività professionale in regime di
subordinazione, in cui l'ente locale è l'unico soggetto
beneficiario dei risultati di detta attività.
Il parere si occupa anche di altre categorie di dipendenti:
ingegneri, architetti, geometri, assistenti sociali. In
questi casi l'iscrizione al relativo albo professionale non
assume, in via generale, carattere obbligatorio ai fini
dell'espletamento delle attività cui soni preposti i
lavoratori, né sussistono, elenchi speciali sul modello
dell'albo degli avvocati. Quindi, viene a mancare la prima
condizione sopra elencata e l'ente locale non può rimborsare
la tassa di iscrizione all'albo professionale.
La Rgs,
spiega, altresì che per i responsabili degli uffici tecnici
non è richiesta l'iscrizione all'albo per la redazione di
progetti a favore dell'amministrazione da cui dipendono e
questo in virtù dell'articolo 90, comma 1, lett. a), del
decreto legislativo 163/2006, in quanto è sufficiente il
rapporto di servizio esistente e la conseguente
incardinazione nella struttura dell'ente
(articolo Il Sole 24 Ore del
28.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti elettrici più facili da smaltire.
Semplificato lo svolgimento delle attività di ritiro
gratuito da parte dei distributori di rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di
piccolissime dimensioni. Tale semplificazione si applica ai
distributori obbligati a effettuare il ritiro secondo il
criterio dell'uno contro zero, ma anche a quei distributori
che, pur non essendo obbligati a farlo (perché la loro
superficie di vendita è inferiore a 400 mq o perché
effettuano solo vendite a distanza) decidano spontaneamente
di adottare tale criterio di ritiro gratuito.
Il consiglio di stato con il
parere 06.10.2015 n. 2750 ha dato l'ok allo
schema di decreto ministeriale recante «Modalità
semplificate per lo svolgimento delle attività di ritiro
gratuito da parte dei distributori di rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di
piccolissime dimensioni, nonché requisiti tecnici per lo
svolgimento del deposito preliminare alla raccolta».
Viene ribadito, inoltre, che il ritiro secondo il criterio
dell'uno contro zero ha a oggetto soltanto Raee di
piccolissime dimensioni provenienti dai nuclei domestici,
conformemente a quanto previsto dall'articolo 11 del dlgs n.
49 del 2014.
L'art. 4 del dm prevede due principi
fondamentali in materia di ritiro secondo il criterio
dell'uno contro zero: la gratuità e l'informazione
all'utilizzatore finale. I distributori devono garantire il
rispetto di tali principi, e in particolare, con riferimento
al secondo, hanno l'obbligo di informare gli utilizzatori
finali della gratuità del ritiro, e promuovere campagne
informative al fine di incentivarlo.
Vengono definite le
procedure per il conferimento dei Raee di piccolissime
dimensioni da parte degli utilizzatori finali e disciplina i
requisiti tecnici per allestire il luogo di ritiro
all'interno dei locali del punto vendita del distributore o
in prossimità immediata di essi, determinandone in maniera
precisa le caratteristiche.
Si tratta di uno o più
contenitori che il distributore mette a disposizione
dell'utilizzatore finale, e che sono facilmente accessibili
e individuabili, riparati da agenti atmosferici, tali da
tutelare la salute e la sicurezza di colui che conferisce i Raee e impedire che soggetti terzi possano asportare quanto
conferito.
Conformemente a quanto previsto dall'articolo 11,
comma 3, dlgs n. 49 del 2014 (che aveva riguardo solo al
regime transitorio) si prevede una raccolta separata dei
Raee d'illuminazione e di quelli pericolosi dagli altri Raee
conferiti
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2015). |
CONDOMINIO: Le
«varie ed eventuali» non ammettono delibere.
Prevale l’obbligo di preventiva
informazione.
Assemblee. Vademecum sull’uso dello spazio
aperto nell’ordine del giorno.
A fine assemblea,
l’ultimo punto dell’ordine del giorno
presenta invariabilmente la dicitura “varie
ed eventuali”. Ma cosa può concretamente
significare? E cosa si può decidere davvero?
I giuristi che hanno indagato la formula
sono concordi nel ritenere che la voce in
esame sia volta a individuare:
1) comunicazioni rese dall’amministratore o
dai condomini senza l’impegno di spesa,
salvo il caso di minimi esborsi;
2) suggerimenti e raccomandazioni rivolte
dai condomini alla persona
dell’amministratore;
3) richieste di chiarimenti allo stesso
amministratore al fine di ottenere
indicazioni operative in ordine a
particolari condotte o prassi applicative;
4) richieste di inserimento di una
determinata questione o argomento all’ordine
del giorno di una prossima assemblea;
5) relazioni di aggiornamento su questioni
già oggetto di precedente discussione
all’esito di mandati esplorativi o di
attività di scrutinio e selezione di
preventivi di spesa;
6) argomenti di secondaria importanza e di
minimo rilievo pratico e comunque tali da
non richiedere una specifica menzione
nell’ordine del giorno e di essere oggetto
di una deliberazione assembleare.
Ma quali criticità può sollevare l’eventuale
inserimento di questa voce, apparentemente
innocente, nell’ordine del giorno?
La questione principale è data dalle
conseguenze che possono determinarsi a
fronte di una eventuale discussione e
deliberazione da parte dell’organo
assembleare. Infatti, le delibere assunte
sotto la voce in esame, potendo violare
l’obbligo di preventiva informazione dei
condomini convocati in assemblea, si
prestano a essere impugnate al fine di farne
accertare la loro invalidità.
Tale voce, infatti «non può tradursi in
un contenitore eterogeneo, da cui far
scaturire argomenti a sorpresa per gli
ignari condomini» (così afferma il
Tribunale di Roma, sentenza del 19.06.2012,
n. 12684). Ciò ha condotto parte della
dottrina e della giurisprudenza a orientarsi
per una tesi decisamente restrittiva, la
quale ritiene che, pur consentendo tale voce
la discussione in sede assembleare di
qualsiasi argomento, ancorché lo stesso non
figuri espressamente nell’ordine del giorno,
nessuna deliberazione, a pena di
annullabilità, può invece essere assunta
all’esito della discussione medesima.
Ne consegue che se, a seguito
dell’informazione e della relativa
discussione sul punto, emerga la necessità
di adottare una decisione in merito a
qualche argomento ritenuto particolarmente
rilevante e bisognoso di una più
approfondita valutazione, la delibera dovrà
necessariamente essere rimandata a una
successiva riunione, nella quale sarà
inserito tale argomento nell’ordine del
giorno con una voce specifica.
La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha
segnato i limiti di impiego della formula di
stile offrendo un ventaglio di fattispecie
concrete senza dubbio idonee a orientare la
condotta dell’amministratore e della stessa
assemblea dei condòmini.
In particolare, tra le deliberazioni assunte
dall’assemblea che risultano non idonee a
essere inserite sotto la dizione “varie
ed eventuali” si segnalano:
1) l’esecuzione di lavori di rifacimento
della facciata dell’edificio condominiale,
precisandosi, al riguardo, che il relativo
argomento debba al contrario essere
specificamente inserito nell’avviso di
convocazione dell’assemblea, in quanto
attinente alla materia dell’amministrazione
straordinaria del bene comune;
2) la diffida assembleare alla rimozione di
piante posizionate sul balcone di un
condomino;
3) la costituzione di un fondo speciale
finalizzato a fronteggiare spese
condominiali urgenti;
4) il pagamento del compenso a un
professionista il quale abbia prestato la
propria opera a vantaggio del condominio,
laddove tale spesa non sia contemplata
nell’ordine del giorno e ove non sia
raggiunta la prova circa il conferimento
dell’incarico stesso;
5) la decisione di abbattimento di un albero
proposta dal condomino quale utilizzatore
esclusivo di un giardinetto condominiale;
6) la decisione di stipulare un contratto di
assicurazione contro gli incendi;
7) l’autorizzazione concessa a un condomino
per la realizzazione di una pensilina;
8) la decisione di diniego all’installazione
da parte di un condomino di una canna
fumaria sul muro perimetrale dello stabile
condominiale
(articolo
Il Sole 24 Ore del 27.10.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Libertà di parabola, limiti all’installazione.
Tlc. Sul tetto solo se non c’è spazio nei locali privati.
L’installazione
di una parabola o antenna sul terrazzo condominiale può
essere effettuata dal condòmino non arbitrariamente, ma
tenendo conto del libero uso della proprietà comune da parte
degli altri condòmini, nel rispetto del decoro
architettonico e se non c’è la possibilità di utilizzare
spazi propri.
L’applicazione di tali regole, fissate
dall’articolo 1122-bis del Codice civile, sono state
ribadite dal TRIBUNALE di Roma con la sentenza n. 9279/2015.
A fronteggiarsi sono un condominio e una società conduttrice
di un ampio locale commerciale all’interno del fabbricato.
La società chiede all’amministratore una copia delle chiavi
di accesso al terrazzo condominiale, per poter installare
un’antenna parabolica per la ricezione del segnale
satellitare, utile per lo svolgimento della propria attività
lavorativa, comprendente gestione di attività di front e
back office, recapito corrispondenza e sorveglianza non
armata. L’amministratore si rifiuta di consegnare le chiavi,
negando il diritto all’uso del bene comune.
La disputa, dopo l’esito negativo della procedura di
mediazione, arriva in Tribunale dove la società ribadisce il
suo diritto all’installazione della parabola, che le avrebbe
fatto risparmiare anche 84 euro al mese rispetto
all’abbonamento Adsl che aveva in essere. Il condominio, dal
canto suo, sostiene che il diritto vantato dalla società non
sia assoluto, ma che deve invece «considerarsi subordinato
alla condizione della impossibilità di utilizzare spazi
propri»: condizione che nel caso non sussisteva, potendo la
società «installare l’antenna sulle mura del fabbricato da
essa condotto in locazione».
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della società, alla
luce del costante indirizzo giurisprudenziale che riconosce
l’esistenza del diritto a installare parabole e antenne sul
terrazzo condominiale, prevedendo però alcuni limiti:
l’impianto non deve impedire il libero uso della proprietà
comune da parte degli altri condomini; non deve recar danno
alla proprietà comune, specie sotto il profilo del decoro
architettonico; e deve risultare l’impossibilità per il
condomino di utilizzare spazi propri.
E in riferimento a
tale ultimo limite, la non adeguatezza degli spazi propri
deve essere provata. Nel caso di specie, la società non solo
non ha fornito la prova della impossibilità di installare
l’impianto sull’immobile da essa condotto in locazione, ma
la parabola, come affermato dalla Ctu, avrebbe potuto
effettivamente essere installata sulla porzione di
fabbricato della stessa società (articolo Il Sole 24 Ore del
27.10.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ingegneri, niente albo se lavorano per la p.a..
Non è automatico il diritto al rimborso della tassa di
iscrizione all'albo per gli ingegneri dipendenti per cui è
previsto il solo obbligo di abilitazione professionale. Gli
ingegneri dipendenti pubblici e appartenenti agli uffici
tecnici delle stazioni appaltanti possono espletare attività
di progettazione per conto della p.a. con il requisito della
(mera) abilitazione, senza necessità di iscrizione all'albo.
Perciò in questo caso, a differenza degli avvocati, non si
può affermare che l'iscrizione all'albo è presupposto
indispensabile per svolgere l'attività a favore dell'ente di
appartenenza.
Questa è quanto si legge nella
circolare 21.10.2015 n. 615 del Consiglio
nazionale ingegneri in merito alla sentenza n. 7776 del 2015
con cui la Corte di cassazione (in una vertenza tra l'Inps
ed un avvocato dipendente pubblico) ha stabilito che il
rimborso della tassa annuale di iscrizione all'albo degli
avvocati dovesse essere corrisposto dall'ente pubblico
datore di lavoro.
Ne deriva che viene meno la condizione per
esigere il rimborso della quota di iscrizione eventualmente
pagata dall'interessato. Inoltre, a parere del Consiglio
nazionale degli ingegneri, «qualora la normativa preveda
l'obbligatorietà dell'iscrizione all'albo per il dipendente
ingegnere, il pagamento della relativa tassa annuale di
iscrizione (facendo applicazione dei principi fissati dalla
giurisprudenza del Consiglio di stato e della Corte di
cassazione) sarà a carico dell'ente datore di lavoro e, se
il versamento è stato anticipato dal dipendente, deve
essergli rimborsato».
Concludendo il Consiglio nazionale
sottolinea «il carattere eccezionale della previsione
dettata dalla normativa sugli appalti pubblici, ovvero la
sussistenza di una disposizione espressa che richiede la
sola abilitazione per svolgere attività professionale. Tale
disposizione va intesa come eccezione alla regola generale
della necessaria iscrizione all'albo e non può quindi
trovare applicazione al di fuori dei casi legislativamente
previsti (articolo 90, dlgs n. 163/2006, e articolo 9, dpr
n. 207/2010), nemmeno per effetto di una interpretazione
estensiva o analogica»
(articolo ItaliaOggi del
27.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Lunga vita alle detrazioni casa.
Agevolazioni de 65 e 50% prorogate per il 2016.
LEGGE DI STABILITÀ/Incentivi per ristrutturazioni e
riqualificazioni energetiche.
Ecobonus, ristrutturazioni edilizie e bonus mobili
confermati anche per l'anno prossimo. In base a quanto
previsto dalla legge di Stabilità 2016, la proroga delle
detrazioni fiscali del 65% per il risparmio energetico e del
50% per le ristrutturazioni abitative semplici si allunga
così di un anno. Mantenuta in vita per un altro anno anche
la detrazione del 65% per gli interventi relativi
all'adozione di misure antisismiche su costruzioni che si
trovano in zone ad alta pericolosità, se adibite ad
abitazione principale o ad attività produttive.
Tra le novità del testo della manovra, il bonus mobili
allargato alle coppie under 35 e l'ecobonus esteso agli
immobili ex Iacp.
Detrazioni fiscale ristrutturazione. La proroga al 2016
riguarda la detrazione del 50% per gli interventi edilizi.
Confermato anche il limite massimo di spesa di 96 mila euro
per unità immobiliare.
Danno diritto alla detrazione gli interventi di:
- manutenzione ordinaria, effettuati sulle parti comuni di
edificio residenziale;
- manutenzione straordinaria effettuati sulle parti comuni
di edificio residenziale e su singole unità immobiliari
residenziali;
- restauro e di risanamento conservativo, effettuati sulle
parti comuni di edificio residenziale e su singole unità
immobiliari residenziali;
- ristrutturazione edilizia, effettuati sulle parti comuni
di edificio residenziale e su singole unità immobiliari
residenziali;
- ricostruzione o ripristino dell'immobile danneggiato a
seguito di eventi calamitosi, anche se non rientranti nelle
categorie elencati nei punti precedenti, sempreché sia stato
dichiarato lo stato di emergenza;
- restauro, risanamento conservativo, e ristrutturazione
edilizia, riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese
di costruzione o ristrutturazione immobiliare e da
cooperative edilizie, che provvedano entro 18 mesi dal
termine dei lavori alla successiva alienazione o
assegnazione dell'immobile.
Nel bonus ristrutturazioni rientrano non solo gli interventi
effettuati sulle unità immobiliari di tipo abitativo, ma
eventualmente anche quelli riguardanti le relative
pertinenze. In particolare, si ha diritto alla detrazione
per la realizzazione o l'acquisto di autorimesse e posti
auto pertinenziali, pure se a proprietà comune.
Detrazione per riqualificazione energetica. Anche per gli
interventi di riqualificazione energetica degli edifici è
stata prorogata fino al 31.12.2016 la misura
maggiorata al 65%. A usufruire del bonus sono tutti i
contribuenti, anche i titolari di reddito d'impresa,
possessori dell'immobile. Per il 2016, la legge di Stabilità
ha esteso gli incentivi agli immobili ex Iacp (istituti
autonomi case popolari).
Sono ammesse alla detrazione del 65% le spese sostenute su
edifici di qualsiasi categoria catastale per:
- interventi di riqualificazione energetica di interi
edifici per l'abbattimento dell'indice di prestazione
energetica per la climatizzazione invernale (detrazione
massima 100 mila euro);
- interventi sugli involucri di edifici per la riduzione
della trasmittanza termica delle pareti opache orizzontali o
verticali, compresa la sostituzione di vetri e/o infissi
(detrazione massima 60 mila euro);
- installazione di pannelli solari per la produzione di
acqua calda (detrazione massima 60 mila euro);
- sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale
(detrazione massima 30 mila euro);
- acquisto e posa in opera di schermature solari con le
caratteristiche previste dall'allegato M al dlgs 311/2006:
tende esterne da sole con marchiatura obbligatoria Ce e
certificate UNI EN 13561; chiusure oscuranti con marchiatura
obbligatoria CE e certificate UNI EN 13659; i dispositivi di
protezione solare, anche in combinazione con vetrate, di cui
alle norme armonizzate europee UNI EN 14501, 13363.01,
13363.02 (detrazione massima 60 mila euro);
- acquisto e posa in opera di impianti di climatizzazione
invernale con impianti dotati di generatori di calore
alimentati da biomasse (detrazione massima 30 mila euro).
Si può usufruire dell'ecobonus sia per gli interventi di
riqualificazione dei singoli appartamenti che delle parti
comuni dei condomini. La detrazione non è cumulabile a
quella per il bonus ristrutturazioni.
Bonus lavori adeguamento antisismico. È stata ugualmente
confermata a tutto il 2016 la detrazione del 65% per lavori
di adeguamento antisismico per la messa in sicurezza degli
edifici esistenti.
La detrazione deve essere calcolata su un
importo massimo di 96 mila euro per unità immobiliare (da
ripartire in dieci quote annuali di pari importo) e
beneficiari sono i soggetti passivi Irpef e Ires (quindi sia
persone fisiche che imprese) a condizione che le spese siano
rimaste a loro carico e che possiedano o detengano
l'immobile in base a un titolo idoneo (diritto di proprietà
o altro diritto reale, contratto di locazione, o altro
diritto personale di godimento).
Il bonus antisismico può
essere richiesto se l'intervento è effettuato su costruzioni
adibite ad abitazione principale o anche ad attività
produttive (unità immobiliari in cui si svolgono attività
agricole, professionali, produttive di beni e servizi,
commerciali o non commerciali) e sempre l'immobile si trova
in zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), i cui
criteri di identificazione sono stati fissati con
l'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n.
3274 del 20.03.2003
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, semplificazioni allargate.
Corsia preferenziale per imprese già abilitate al trasporto.
Dall'Albo gestori i criteri per estendere l'attività al
ritiro alleggerito dei tecno-rifiuti.
Accesso agevolato per le imprese già autorizzate dall'Albo
gestori ambientali a raccolta e trasporto professionale di
rifiuti alle analoghe attività di gestione semplificata dei
Raee provenienti da circuiti di vendita e riparazione delle
apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. Aee).
La
novità arriva con la
deliberazione 16.09.2015 n. 2
di prot.
del Comitato nazionale dell'Albo (integrata con
deliberazione 15.10.2015 n. 3 di prot.) che detta i criteri
operativi per estendere, tramite richiesta alla Sezione
regionale o provinciale di competenza, le proprie
autorizzazioni ex categoria 4 (raccolta e trasporto di
rifiuti speciali non pericolosi) e 5 (speciali pericolosi)
del dm 120/2014 a quella ex 3-bis (Raee ritirati da
distributori di nuove Aee, installatori, e centri di
assistenza), la quale consente una tenuta semplificata dei
documenti di tracciamento dei rifiuti.
Le novità dall'Albo gestori ambientali. Alla base della
nuova deliberazione del Comitato nazionale dell'Albo due
disposizioni, ossia: l'articolo 212, comma 7, del dlgs
152/2006 per il quale enti e imprese già autorizzate a
raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi sono esonerate
(a condizione di immutata classe di appartenenza)
dall'obbligo di iscrizione per le analoghe attività sui non
pericolosi; l'articolo 8, comma 2, del dm Ambiente 120/2014
(il nuovo regolamento dell'Albo), per il quale le iscrizioni
nelle citate categorie 4 e 5 consentono (sempre a immutate
condizioni) sia l'esercizio delle attività di cui alla
categoria 2-bis (auto-trasporto dei propri rifiuti) sia
quelle ex 3-bis.
A chiarimento della prima disposizione e in
attuazione della seconda intervengono le nuove regole
dell'Albo. Due le novità di rilevo: l'iscrizione alla
categoria 4 (rifiuti non pericolosi) che consente, tra le
altre (previa compatibilità tecnica e richiesta di
estensione alla 2-bis), il trasporto anche dei rifiuti
pericolosi di propria produzione iniziale in quantità non
eccedenti 30 chilogrammi o 30 litri al giorno (ex art. 212,
comma 8, dlgs 152/2006); l'iscrizione a una delle due
categorie 4 e 5 che consente (previa richiesta di estensione
alla categoria 3-bis) anche il trasporto in regime
semplificato dei Raee (pericolosi e non pericolosi) ritirati
dal circuito Aee nel rispetto delle regole (e dei limiti)
stabiliti dal dm 65/2010.
L'allargamento dell'autorizzazione
alla gestione semplificata Raee, precisa la nuova delibera
dell'Albo, è consentita nei seguenti termini: le imprese
abilitate al trasporto rifiuti per conto terzi possono
svolgere le analoghe attività in nome e per conto dei
distributori di Aee; le imprese munite di soli veicoli per
uso proprio possono invece essere abilitate al trasporto
semplificato dei Raee di cui esse stesse risultino essere
detentrici in quanto distributori, installatori o gestori di
centri di assistenza Aee.
Alle imprese già iscritte nelle
citate categorie 4 e 5 in linea con i parametri richiesti
dall'Albo è consentito fin da subito richiedere
l'allargamento (sia alla 2-bis che alla 3-bis) utilizzando
il modello «b» allegato alla nuova delibera.
Il regime semplificato per i Raee. Il dm 65/2010 richiamato
dalla delibera 2/2015 prevede (in attuazione del dlgs
151/2005) per distributori, installatori, gestori di centri
di assistenza Aee (e trasportatori terzi dei rifiuti, di cui
i primi eventualmente si avvalgono) di utilizzare, nel
rispetto di determinate condizioni tecniche, un regime
burocratico light per condurre le (rispettive) attività di
raccolta e trasporto Raee (sia domestici che professionali)
di cui hanno la detenzione in ragione della propria
attività.
Regime che consiste in: iscrizione semplificata
all'Albo gestori (tramite mera comunicazione e senza obbligo
di presentare garanzie finanziarie); tenuta di uno
«schedario di carico e scarico» e di un «documento di
trasporto» (in luogo dei più onerosi registri e formulario
ex dlgs 152/2006). Successivamente al dm 65/2010, è bene
ricordarlo, è intervenuto il dlgs 49/2014 di riformulazione
della speciale disciplina sulla gestione dei Raee.
Nel
sostituire pressoché integralmente il dlgs 151/2005, il dlgs
49/2014 ha da un lato confermato alcune disposizioni
dell'uscente regime (come l'obbligo per i distributori di
ritiro gratuito «uno contro uno» delle Aee conferite dai
consumatori all'acquisto di equivalenti beni e la
possibilità di gestione semplificata ex dm 65/2010) e
dall'altro introdotto rilevanti novità che incidono sugli
adempimenti cui sono chiamati gli stessi operatori del
settore.
In base al riformulato quadro normativo, sono
infatti inquadrati come «distributori» (con i sottesi e
citati obblighi): tutti coloro che rendono disponibili sul
mercato e per qualsiasi uso delle Aee (dunque, anche gli
installatori e gestori di centri di assistenza che
nell'ambito della propria attività forniscono tali beni, per
esempio come ricambi); tutti i soggetti che forniscono Aee
utilizzando tecniche di vendita a distanza tramite internet
(c.d. «e-commerce»).
Appare da ultimo utile ricordare come i
distributori di Aee che importano o immettono comunque
dall'estero nuovi beni sul mercato nazionale rientrano, ai
sensi del citato dlgs 49/2014, nella più gravosa categoria
di «produttori», con i conseguenti e più ampi oneri
(previsti dallo stesso provvedimento) di istituzione e
finanziamento del sistema di gestione dei relativi Raee.
Alla luce di tale rinnovato orizzonte, i criteri dell'Albo
che consentono di allargare la portata dei titoli
autorizzativi alle attività di gestione semplificata dei Raee appaiono dunque essere di rilevante interesse sia per
le imprese di trasporto rifiuti sia per gli stessi
distributori di nuove Aee, laddove per i primi potrebbero
prospettarsi nuovi mercati, per i secondi un incremento (con
i benefici economici dati dalla concorrenza) del novero di
aziende cui rivolgersi per la gestione dei Raee.
Ritiro Raee nell'e-commerce. In relazione ai distributori di Aee, alcune criticità sono tuttavia state rilevate in
relazione agli operatori del settore «e-commerce», come
risulta da un'indagine presentata lo scorso 14.10.2015
da Remedia (fra i principali sistemi collettivi italiani non
profit per la gestione ecosostenibile anche dei
tecno-rifiuti) e Netcomm (il consorzio del commercio
elettronico italiano).
Oltre a evidenziare una carenza sotto
il profilo dell'obbligo di informativa all'utenza del
sistema di ritiro «one on one» (si veda ItaliaOggi Sette del
19/10/2015), lo studio mette in luce alcuni nodi della
filiera (rappresentante il 13% del mercato online nazionale
di Aee) proprio nel ritiro e trasporto dei Raee. Per
adempiere agli obblighi del «one on one» i distributori
online di Aee possono ricorrere sia a un sistema
auto-organizzato (c.d. «make», gestendo a tutto tondo
ritiro, raggruppamento e successivo trasporto dei Raee a
centri di trattamento), sia affidarsi (totalmente o
parzialmente) a soggetti esterni.
In tale contesto, le prime
problematiche riguardano le modalità di ritiro dei Raee
presso l'utenza, laddove nell'opzione di consegna a
domicilio delle nuove Aee occorre necessariamente prevedere
la presa in carico di quelle usate da parte trasportatori
autorizzati nei termini più sopra citati (condizione che
spesso può rendere necessario l'intervento successivo e
differito di un soggetto diverso dall'ordinario corriere che
ha effettuato la consegna del nuovo bene).
Criticità possono
altresì presentare le differenti modalità di consegna del
nuovo e ritiro del vecchio presso luoghi presidiati, come
uffici postali e negozi convenzionati, in vista del
successivo e necessario trasporto (autorizzato) verso gli
impianti di trattamento; in tale ambito le soluzioni
preferibili appaino essere quelle di ricorrere a punti «pick
and pay» gestiti direttamente dagli stessi distributori (in
regola con i sottesi e citati adempimenti) o ricorrere alla
convenzione con supermercati, nella maggior parte dei casi
già forniti di un proprio sistema di prima gestione Raee
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
TRIBUTI:
Baratto amministrativo soltanto con l'inerenza.
Deliberazioni di riduzione o di esenzione di tributi
«inerenti il tipo di attività posta in essere». In cambio di
lavori fatti in tali ambiti di attività.
Con
nota di approfondimento del 16.10.2015 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre scorso), l'Ifel fornisce
chiarimenti per il corretto inquadramento del baratto
amministrativo e per la sua applicazione ai tributi locali.
Beneficiari del baratto amministrativo potranno essere
individuati in cittadini singoli o associati. Si
privilegeranno le «Comunità di cittadini costituite in forme
associative stabili e giuridicamente riconosciute».
L'Istituto per la finanza e l'economia locale ritiene che la
riduzione o l'esenzione potrà essere concessa con riguardo
alle obbligazioni tributarie di cui è soggetto passivo
l'associazione stessa. Altro aspetto delicato afferisce il
perimetro d'intervento.
A parere dell'Ifel, l'intervento dei
cittadini dovrà riguardare un territorio da qualificare ed
essere alternativo e sostitutivo rispetto a quello del
comune. A fronte dell'intervento dei cittadini, il comune
potrà disporre deliberazioni di riduzione o esenzione di
tributi «inerenti al tipo di attività posta in essere».
La
ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera
di agevolazione al tributo di riferimento anche se in
apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività
posta in essere. Il concetto di «inerenza» del tributo per
cui si prevede l'agevolazione all'attività svolta dai
cittadini (singoli o associati), dovrà essere valutato in
sede di predisposizione della delibera di agevolazione ed
ispirato a criteri di ragionevolezza e corrispondenza tra
beneficio reso ed agevolazione concessa.
L'Ifel ritiene
opportuno basare la quantificazione economica
dell'agevolazione secondo politiche ispirate a
responsabilità e ragionevolezza del trattamento agevolativo,
specificando che il riconoscimento dell'agevolazione non
deve essere solo «legittimo» ma anche «controllabile».
Da
ultimo, l'Istituto tiene a precisare che non appare coerente
con la ratio della norma la possibilità di prevedere
riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali
debiti tributari del contribuente. La ragione è da ritrovare
nei principi di indisponibilità ed irrinunciabilità al
credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate
tributarie comunali
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
VARI:
Box occupato, l'invalido sosta gratis.
Il titolare del contrassegno invalidi che trova il box
riservato occupato può parcheggiare nelle zone a pagamento
gratuitamente. Purché l'ente locale abbia deciso di
ammettere questa facoltà dandone informazione agli utenti.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
04.09.2015 n.
4341 di prot..
Il riformulato articolo 381 del
regolamento stradale specifica che il comune ora può
potenziare il numero dei parcheggi riservati agli invalidi
anche nelle zone a pagamento. Ma l'ente locale può anche
prevedere la sosta gratuita agli invalidi sulle strisce blu
quando i box riservati ai titolari dei contrassegni
risultino già occupati o indisponibili.
A parere della
Cassazione però senza il nulla osta del comune non è
automatico poter parcheggiare gratuitamente i veicoli muniti
di contrassegno invalidi nelle zone a pagamento.
Specifica
infatti il parere centrale che con la sentenza n. 21271 del
05.10.2009 la II sezione civile della Corte di cassazione ha
bocciato il via libera generico alla gratuità della sosta
degli invalidi in zone blu, confermando le recenti
indicazioni normative che richiedono una determinazione
comunale in tal senso
(articolo ItaliaOggi Sette del
26.10.2015). |
aggiornamento al
18.09.2015 |
|
APPALTI:
Riforma
appalti, niente regolamento. Edilizia. Delrio conferma la
semplificazione.
Via al recepimento tramite il Codice, senza
transitare dal regolamento. E più poteri alle linee guida
dell’Anac di Raffaele Cantone, che saranno però sottoposte a
un parere (non vincolante) del Parlamento.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio ieri in
commissione Ambiente alla Camera si è per la prima volta
pronunciato sulle modifiche che il Governo ha intenzione di
portare al Ddl delega di recepimento delle direttive appalti
(Atto
Camera n. 3194).
Tutto ruota attorno a un emendamento che cancellerà il
regolamento dai radar della riforma e che sarà presentato
all’inizio della prossima settimana. Anche se non è il solo
intervento in preventivo: qualcosa cambierà sul fronte dei
lavori in house delle concessionarie.
Il presidente dell’ottava commissione, Ermete Realacci fa il
punto sul calendario. «È evidente che non possiamo far
proseguire i lavori senza la proposta di modifica del
Governo». Il riferimento è all’emendamento annunciato
ieri formalmente da Delrio: cancellazione del regolamento di
attuazione del Codice, con un ruolo più pesante per le linee
guida dell’Anac. A monitorare il lavoro dell’Autorità ci
sarà il Parlamento. Alcuni dettagli dell’intervento, però,
sono oggetto di limature. In attesa di questi aggiustamenti,
la commissione starà ferma. «Tra lunedì e martedì
-prosegue Realacci- aspettiamo le proposte del Governo. Le
votazioni partiranno lunedì 28 settembre». Sul piatto
non c’è solo il tema del regolamento. Dal Governo è attesa
una proposta anche sul tema dei lavori in house delle
concessionarie.
A completare il quadro ci saranno alcune proposte della
maggioranza e della relatrice, Raffaella Mariani. Che ieri
in una giornata di studi sugli appalti, organizzata da Tor
Vergata e ospitata dall’Antitrust, ha confermato anche la
scelta di spostare sui controlli il bonus del 2%
riconosciuto ai progettisti della Pa. Norme più stringenti
arriveranno anche per facilitare l’accesso agli appalti da
parte delle Pmi, come chiesto ieri dal presidente della
Piccola Industria di Unindustria Angelo Camilli.
Dall’Antitrust sono arrivate la proposta di una patente a
punti per valutare la reputazione delle imprese e la
richiesta di stringere le maglie sugli appalti in house,
limitando questa possibilità alle società a capitale
interamente pubblico. Vero che le direttive su questo punto
aprono alla presenza di privati. «Ma si tratta di una
norma a recepimento volontario», ha chiarito Valentina
Guidi, dirigente del dipartimento Politiche europee di
palazzo Chigi (articolo Il Sole 24 Ore
del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Sono ancora fuorilegge i semafori troppo moderni.
Devono ancora restare spenti i diffusi semafori laser in
grado di attivarsi all'arrivo di veicoli troppo veloci. E
non possono neanche essere posizionati regolarmente i
tabelloni luminosi che evidenziano all'utente il tempo
residuo di accensione delle lanterne semaforiche.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere
n. 3805/2015.
Un comune friulano ha richiesto indicazioni sulle nuove
opportunità tecnologiche introdotte dall'art. 60 della legge
120/2010, ovvero sulla possibilità di installare ai semafori
sistemi avanzati in grado di misurare la velocità dei
veicoli e variare conseguentemente il ciclo delle lanterne.
Oppure semplicemente posizionare tabelloni luminosi agli
incroci per evidenziare agli utenti in transito la durata
residua dei cicli semaforici.
Al momento resta tutto invariato ovvero vietato, ha
specificato il ministero. L'art. 60 della legge di riforma
stradale dell'agosto 2010 rinvia infatti ad un decreto
ministeriale la definizione delle caratteristiche per
l'omologazione e per l'installazione di questi ingegnosi
dispositivi.
Questo decreto, anche se in fase di completamento, non è
però ancora stato emanato, specifica il parere centrale, e
peraltro diventerà efficace solo dopo 6 mesi dalla sua
emanazione. I dispositivi di count down, specifica la
nota, non dovranno interferire con alcun sistema di
controllo del traffico e nemmeno con il ciclo semaforico.
Inoltre secondo il ministero non sarà possibile installare
dispositivi che variano il ciclo delle lanterne in relazione
alla velocità dei veicoli, nonostante le diverse indicazioni
della legge 120/2010. Sul territorio nazionale sono state
effettuate sperimentazioni ma ancora nessun congegno è stato
omologato e può essere utilizzato. In pratica allo stato
attuale i semafori più o meno intelligenti restano fuori
legge.
L'unica funzione ammessa dalla normativa per gli impianti
semaforici è ancora quella prevista dall'art. 158 del
regolamento stradale, ovvero regolare i flussi del traffico
senza interferenze tecnologicamente troppo sviluppate. Tutte
le postazioni attive e troppo creative non sono pertanto
conformi alla normativa stradale e vanno spente
(articolo ItaliaOggi
del 17.09.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Diplomati
tecnici in forse. Accesso al tirocinio a misura di
professione.
Le posizioni delle categorie in attesa di
chiarimenti di Miur e Giustizia.
Nuovi diplomati tecnici appesi a un
filo. O meglio, in balia dei ministeri della giustizia e
dell'istruzione.
Dopo la circolare con cui il Miur ha fissato nel IV livello
di qualifica europeo (Eqf) le competenze rilasciate dal
nuovo titolo di istruzione tecnica, i ragazzi che a luglio
scorso sono entrati in possesso del diploma stanno andando
incontro a sorti differenti (si veda ItaliaOggi del
28.08.2015).
A seconda della categorie interessate (periti industriali,
geometri, periti agrari e agrotecnici) le soluzioni proposte
per le iscrizioni ai tirocini cambiano. Almeno per ora. Il
22 settembre prossimo, infatti, presso il Miur è in
programma un incontro interlocutorio tra i presidenti delle
categorie e i funzionari che si stanno occupando della
vicenda nella speranza che anche il dicastero del ministro
Andrea Orlando si faccia sentire. In attesa, però, che la
politica faccia il suo corso le categorie hanno dovuto
scegliere quale strada percorre.
Divisi tra coloro che ritengono che il contenuto della
circolare non imponga alcun tipo di restrizione e coloro che
invece ritengono che la circolare metta un punto ad una
questione su cui il Miur aveva sempre taciuto, in ballo c'è
il futuro di migliaia di ragazzi in fila per le iscrizioni.
E se i neodiplomati in questione sono aspiranti periti
agrari la risposta che si sentiranno dare è un «forse».
Come, infatti, ha sottolineato il presidente del Centro
studi Aspera (Associazione periti agrari) Andrea Bottaro, «è
necessario che i ragazzi abbiano pazienza. Posto che secondo
noi i neodiplomati non hanno effettivamente i requisiti per
l'accesso al tirocinio in quanto, di fatto, non in possesso
del titolo di periti agrari perché il nuovo diploma non lo
prevede, stiamo mettendo in piedi una confronto con il
ministero della giustizia affinché questi giovani possano
usufruire dell'equivalenza del titolo», ha spiegato
Bottaro, «così facendo, in un secondo momento potremo,
prima farli iscrivere al tirocinio e, successivamente, fare
arrivare i ragazzi ad un livello di preparazione tale da
permettergli di fare l'esame finale». Per ora, quindi,
tutti in fila in attesa. Situazione diversa, invece, quella
dei periti industriali che ritengono che la circolare non
lascia dubbi di sorta circa l'impossibilità di far accedere
i ragazzi al tirocinio.
«Al momento abbiamo dato l'input ai nostri uffici di non
accettare le iscrizioni dei neodiplomati», ha spiegato a
ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale dei periti
industriali e dei periti industriali Laureati, Giampiero
Giovannetti, «fino a che non arriveranno chiarimenti dai
ministeri le porte sono chiuse. Non possiamo, infatti,
correre il rischio di far iscrivere dei ragazzi e poi dover
dire loro a percorso iniziato che non possono più avere
accesso all'esame perché privi dei requisiti necessari».
Strade percorribili, quindi, o l'iscrizione all'università o
un percorso presso gli istituti tecnici superiori, con tutte
le conseguenze del caso. Ipotesi diametralmente opposta,
quella di geometri e agrotecnici. Per entrambi, infatti, se
pur con motivazioni differenti non sussistono dubbi di sorta
circa la possibilità di fare iscrivere i ragazzi
neodiplomati.
«Per quanto riguarda la nostra categoria», ha
spiegato a ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale
geometri e geometri laureati Maurizio Savoncelli, «i
riferimenti normativi sono chiari ( dpr 328/2010 e legge
75/1985) e ci danno la possibilità di far iscrivere senza
nessun problema i ragazzi al praticantato. Esiste, infatti,
raccordo normativo tra il vecchio e il nuovo diploma».
Per gli aspiranti geometri, quindi, nessun problema e
iscrizioni aperte. Stessa sorte, infine, anche per gli
aspiranti agrotecnici
(articolo ItaliaOggi
del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Riforma
appalti, progetti della Pa senza bonus 2%. Delrio in
commissione per sciogliere il nodo regolamento.
Contratti pubblici. Semplificazioni sul subappalto tra gli
emendamenti della relatrice Mariani.
Sarà Graziano Delrio
oggi in commissione Ambiente della Camera a sciogliere gli
ultimi nodi sulla riforma degli appalti (Atto
Camera n. 3194). Primo fra tutti quello della
normativa secondaria che dovrà attuare il nuovo codice degli
appalti: il ministro delle Infrastrutture confermerà la sua
posizione, che si può fare a meno del regolamento generale,
per fare posto a una soft law guidata dall'Anac di
Raffaele Cantone.
Il ministro dovrà anche spiegare che tipo di soft law
ha in mente e dovrà in sostanza anticipare i contenuti
dell'emendamento che i suoi uffici stanno ancora
predisponendo e che dovrebbe essere presentato fra domani e
l'inizio della prossima settimana.
Intanto la relatrice del disegno di legge in commissione,
Raffaella Mariani (Pd), ha pronti alcuni emendamenti che
dovrebbero riformulare parzialmente alcuni dei criteri di
delega contenuti nel testo approvato a Palazzo Madama.
Sul subappalto, per esempio, Mariani è orientata a
semplificare la procedura di gara spostando l'obbligo di
presentazione della terna di subappaltatori per ogni
tipologia di lavorazione (prevista dalla lettera LLL) dal
momento della presentazione dell'offerta in gara a quello
dell'aggiudicazione.
L'altra questione che si dovrebbe risolvere, con un
emendamento della relatrice, è l'incentivo del 2% dato ai
dipendenti pubblici o alle strutture della PA che effettuano
progettazioni. Una vecchia questione fortemente distorsiva
del mercato della progettazione in termini di concorrenza e
di qualità del risultato finale. L'emendamento Mariani
dovrebbe lasciare l'incentivo del 2% alle strutture interne
delle amministrazioni, ma dovrebbe essere sposato su
attività che la Pa svolge effettivamente in esclusiva, come
la programmazione o l'esecuzione contrattuale.
Quella dell'eliminazione del regolamento e del tipo di
soft law che dovrebbe sostituirlo è l'ultima grande
questione aperta del nuovo codice appalti, ma non è affatto
secondaria. Non a caso sta bloccando i lavori della
commissione Ambiente che ha sul tavolo già dai primi di
agosto gli emendamenti dei gruppi.
«Non ha senso riprendere i lavori per affrontare aspetti
marginali quando abbiamo davanti questa questione
fondamentale da affrontare», dice il presidente della
commissione Ambiente, Ermete Realacci. «La correttezza e
la trasparenza del passaggio parlamentare -aggiunge-
richiede questa condizione. C'è accordo con il ministro che
la discussione debba riprendere da questo emendamento, anche
perché i gruppi e i relatori avranno poi la possibilità di
presentare subemendamenti».
Il primo obiettivo che l'abolizione del regolamento vuole
ottenere è una grande semplificazione della struttura
normativa che governa il settore. Il secondo, non meno
importante nella decisione iniziale di procedere su questa
strada, è consentire realisticamente il recepimento delle
direttive europee 23, 24 e 25 del 2014 entro il termine del
18 aprile con l'approvazione del solo codice senza dover
approvare contemporaneamente anche il regolamento, come
aveva previsto il testo del Senato (ma non quello originario
del Governo).
L'altro aspetto per cui si attende da Delrio un'indicazione
è come debba essere prodotta la «soft law», a quale
condizione essa possa procedere senza trovare ostacoli di
legittimità generale e come possa essere ricondotta a
coerenza l'enorme mole di poteri affidati all'Autorità
nazionale anticorruzione, che, dopo i poteri di vigilanza,
acquisirà quelli fondamentali di regolazione del settore e
ora anche di regolamentazione.
La scuola di pensiero che oggi sembra prevalere è che il
regolamento dovrebbe essere sostituito da una o più linee
guida generali dell'Anac, approvate subito dopo l'entrata in
vigore del codice. Una sorta di regolamento semplificato e
flessibile che poi sarebbe a sua volta attuato con
linee-guida di settore.
Non è escluso che i tempi lunghi dell'emendamento
governativo siano dati anche dalla necessità di stabilire un
coordinamento con l'Autorità Anticorruzione che ha fatto già
sapere di essere in grado di far fronte al nuovo compito, ma
ha bisogno di conoscere anche le modalità in cui esso sarà
esercitato (articolo Il Sole 24 Ore
del 16.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Verbali
stradali, salgono le spese.
Notifiche, da oggi via agli aumenti.
Da oggi, le spese di accertamento e notifica sui verbali di
violazione al codice della strada, accertate dalla Polizia
Stradale, passano a 15,23 euro. Somme che, a seguito di
intervenute modifiche normative o sulla base di maggiori o
minori costi di accertamento, potranno essere rideterminate
con successivi provvedimenti.
È quanto si prevede nel testo del dm Interno 08.07.2015
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 214 di ieri con cui
si determinano i nuovi importi a carico dei trasgressori di
norme del Codice della strada, quando tali violazioni sono
accertate dal personale della Polizia di stato.
Pertanto, a partire dal 16.09.2015, i verbali di
accertamento conteranno, oltre all'importo della sanzione
amministrativa, anche la somma di 15,23 euro quale spesa di
notifica, i cui costi sono anticipati da Poste Italiane. Il
dm specifica, altresì, che entro il 30 novembre e il 31
maggio di ogni anno il Servizio Polizia Stradale provvede a
verificare le spese di accertamento e di notifica dei
verbali di contestazione dovute a Poste, così da assicurare
l'idonea copertura economica delle suddette attività.
Con tali somme, si leggo e nel decreto, si rimborsa la
società Poste Italiane per la fornitura degli adeguamenti
dei software, già nella disponibilità della Polizia
Stradale, nonché per i costi relativi all'hardware e al
software di base necessari a supportare tali applicativi.
Sotto questo profilo, il dm in osservazione, prevede inoltre
che i vertici della Polstrada potranno segnalare una
rideterminazione degli importi dovuti a titolo di spese di
notifica, alla luce di intervenute modifiche normative,
ovvero sulla base dei maggiori o minori costi di
accertamento per il responsabile del pagamento, derivanti
dalle innovazioni tecnologiche e dall'applicazione di nuove
soluzioni informatiche ai servizi resi da Poste Italiane
alla stessa Polizia Stradale
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
ENTI LOCALI - VARI:
Disabili,
nuovi contrassegni.
Niente sanzioni.
Da ieri non si possono più utilizzare i vecchi contrassegni
arancioni che agevolano la circolazione e la sosta delle
persone invalide. Ma i comuni che non hanno ancora adeguato
la segnaletica stradale con i nuovi simboli blu europei non
rischiano sanzioni. Purché gli impianti siano ancora
dignitosi e comprensibili.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere
n. 3630/2015.
Il dpr 151/2012 ha introdotto novità per i veicoli al
servizio di persone invalide, apportando modifiche all'art.
381 del regolamento stradale. Il nuovo contrassegno, di
colore blu, deve essere esposto sempre in originale nella
parte anteriore del veicolo in modo chiaramente visibile per
consentire i controlli.
È stata poi introdotta un'importante condizione per
l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei
casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità
di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del
contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un
autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di
non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato
accessibile e fruibile.
Il comune poi potrà prevedere la gratuità della sosta per
gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino
già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati.
L'ente locale potrà inoltre stabilire, anche nelle aree a
pagamento gestite in concessione, un numero di posti
destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di
contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni
cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili.
Per quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce
che delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il
simbolo della carrozzella diventa blu. La sostituzione del
vecchio contrassegno e l'adeguamento della segnaletica
dovevano però completarsi entro il 14.09.2015. Per questo
motivo un comune ritardatario ha richiesto chiarimenti al
ministero.
A parere dell'organo centrale è consentito mantenere in
opera, temporaneamente, anche la segnaletica obsoleta purché
ancora comprensibile. In buona sostanza il comune non
rischia multe
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
Madia firma il decreto sulla mobilità.
Ora il testo andrà alla corte conti e poi in g.u..
Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ha
firmato il decreto ministeriale sulla mobilità del personale
delle province. Il provvedimento sarà quindi inviato alla
Corte dei conti per poi essere pubblicato in Gazzetta
Ufficiale. E a quel punto scatterà il cronoprogramma,
fissato dal provvedimento, che porterà i 18 mila dipendenti
provinciali in sovrannumero ad accasarsi presso altri enti (in
primis regioni e comuni, ma anche enti del Servizio
sanitario nazionale, mentre per quanto riguarda le
amministrazioni statali il principale ricettore dei
dipendenti provinciali sarà il ministero della giustizia).
Entro 20 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, le province dovranno inserire nel portale «Mobilità.gov»
gli elenchi dei dipendenti in sovrannumero. Entro 40 giorni
dalla pubblicazione, regioni, enti locali, inclusi gli enti
pubblici non economici e gli enti del Ssn, inseriranno i
posti disponibili, in modo che entro 60 giorni, sempre
decorrenti dalla pubblicazione in G.U., palazzo Vidoni possa
rendere pubbliche le dotazioni disponibili.
A questo punto i dipendenti in sovrannumero (compreso il
personale di polizia provinciale e i dipendenti della Croce
rossa italiana) avranno 30 giorni di tempo per presentare le
istanze di mobilità in relazione all'offerta di posti,
compilando il modulo disponibile sul portale «Mobilità.gov».
Al fine di favorire l'incontro tra domanda e offerta, lo
schema di decreto prevede una serie di criteri.
I dipendenti in comando o fuori ruolo verranno
prioritariamente assegnati alle amministrazioni in cui
prestano servizio. Analogamente, la polizia provinciale
verrà prioritariamente destinata ai comuni con funzione di
polizia locale, mentre al ministero delle infrastrutture
andranno coloro che nelle province si occupavano della
gestione degli albi provinciali degli autotrasportatori.
A parte questi criteri particolari, regola generale sarà
l'assegnazione dei dipendenti in sovrannumero alle regioni e
agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e
quelli del Ssn. Per i lavoratori della Croce rossa, la
mobilità sarà verso le amministrazioni statali con priorità
per il ministero della giustizia. Sul piano individuale sarà
favorito chi gode dei benefici della legge 104/1992 e chi ha
figli fino a tre anni di età.
Sul provvedimento, come si ricorderà, non è stata raggiunta
l'intesa in Conferenza unificata. Ma ciononostante il 4
settembre scorso il consiglio dei ministri ha deciso di «autorizzare»
ugualmente il ministro Madia «a dare corso alla
definizione dei criteri per la mobilità del personale
dipendente a tempo indeterminato degli enti di area vasta
dichiarati in sovrannumero»
(articolo ItaliaOggi
del 16.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Accensione caldaie per zone.
Deroghe con i contabilizzatori che consentono di regolare la
temperatura.
Impianti. Entro poche settimane in funzione in buona parte
d’Italia con vincoli di orari giornalieri.
Tra un mese,
in buona parte d’Italia, si accenderanno le caldaie nei condomìni con impianto centralizzato. Un appuntamento
fondamentale per l’economia, dato che uno studio della Ue
sul piano di efficienza energetica 2011 ha sottolineato che
gli immobili rappresentano il 40% del consumo finale di
energia dell’Unione. Inoltre, gli edifici sono stati
ritenuti fondamentali per conseguire l'obiettivo dell’Unione
di ridurre dell’80-95% le emissioni di gas serra entro il
2050 rispetto al 1990.
Presso ogni impianto termico centralizzato, che serva quindi
almeno due unità immobiliari residenziali e assimilate, il
proprietario o l'amministratore devono esporre una tabella
contenente:
-
l’indicazione del periodo annuale di esercizio dell'impianto
termico e dell'orario di attivazione giornaliera prescelto;
-
le generalità e il recapito del responsabile dell'impianto
termico;
-
il codice dell’impianto assegnato dal Catasto territoriale
degli impianti termici istituito dalla Regione o Provincia
autonoma.
Non in tutta Italia è possibile mettere in funzione
l'impianto di riscaldamento nello stesso giorno. Il
legislatore ha infatti suddiviso l’Italia in sei zone
climatiche (si veda la scheda qui a lato). E per ciascuna di
esse è stata stabilita la durata giornaliera di accensione.
La maggioranza del territorio ricade, nel Centro-Nord, in
zona E o D, mentre al Sud in zona B e C; in zona F è l’arco
alpino e in zona A pochi Comuni delle isole meridionali.
Al di fuori di tali periodi, gli impianti termici possono
essere attivati solo in presenza di situazioni climatiche
che ne giustifichino l'esercizio e, comunque, con una durata
giornaliera non superiore alla metà di quella consentita in
via ordinaria. I sindaci, con propria ordinanza, possono
ampliare o ridurre, a fronte di comprovate esigenze, i
periodi annuali di esercizio e la durata giornaliera di
attivazione, nonché stabilire riduzioni di temperatura
ambiente massima consentita sia nei centri abitati sia nei
singoli immobili.
Nell’arco temporale indicato, i condomìni possono scegliere
gli orari di funzionamento purché lo stesso sia compreso tra
le ore 5 e le ore 23.
È però consigliabile non interrompere il funzionamento. Il
maggior dispendio di energia (e quindi il maggior costo) si
ha infatti con l’accensione per portare l'acqua alla
temperatura utile. Per il resto della giornata vi è dunque
solo la necessità di mantenere tale temperatura. Lo
spegnimento della caldaia durante il giorno per alcune ore
non porta quindi a un risparmio ma a un maggior costo.
Negli edifici a uso residenziale, sono però ammesse deroghe
al funzionamento dell’impianto di riscaldamento per quanto
riguarda la durata giornaliera. Tra le principali vengono
indicate le seguenti:
se il calore proviene da centrali di cogenerazione oppure se
vi siano pannelli radianti incassati nell'opera muraria;
se vi è un gruppo termoregolatore pilotato da una sonda di
rilevamento della temperatura esterna con programmatore che
consenta la regolazione almeno su due livelli della
temperatura ambiente nell'arco delle 24 ore; la temperatura
negli ambienti deve essere pari a 16°C + 2°C di tolleranza
nelle ore al di fuori della durata giornaliera;
se in ogni unità immobiliare sia installato un sistema di
contabilizzazione del calore e un sistema di
termoregolazione della temperatura con un programmatore che
consenta la regolazione almeno su due livelli della
temperatura nell'arco delle 24 ore;
se l’impianto termico è condotto mediante “contratto di
servizio energia” purché la temperatura negli ambienti,
durante le ore al di fuori della durata di legge, non siano
superiori ai 16°C + 2°C di tolleranza.
Si consideri, infine, che entro il 31.12.2016 tutti
gli edifici nei quali vi è un impianto centralizzato, ove
tecnicamente possibile e se vi sia un buon rapporto
costi/benefici, dovranno essere dotati di sistemi di
contabilizzazione e termoregolazione.
---------------
Non si possono superare i 22 gradi.
Comfort. Nulle le delibere in contrasto.
Negli edifici
a carattere residenziale, durante il funzionamento
dell'impianto di riscaldamento (prodotto da impianti sia
centralizzati sia autonomi), la media delle temperature
dell'aria, misurate nei singoli ambienti riscaldati di
ciascuna unità immobiliare, non deve superare i 20°C + 2°C
di tolleranza (si veda la scheda nella pagina).
È nulla (quindi impugnabile in ogni tempo) la delibera
condominiale che dovesse decidere di tenere una temperatura
più elevata.
L’impianto termico condominiale, quindi, deve essere in
grado di erogare tale calore. In caso contrario, il
condòmino che non riuscisse ad avere la temperatura di legge
nella propria unità immobiliare, può provocare una delibera
attinente agli eventuali interventi necessari per la piena
funzionalità dell’impianto. Nel caso in cui l’assemblea non
deliberasse le opere necessarie, può rivolgersi direttamente
all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento che
obblighi il condominio ad adottare quanto necessario per
sopperire guasti o deficienze dell’impianto ed
eventualmente, ove ne ricorrono i presupposti, richiedere il
risarcimento del danno.
Nel frattempo, però, non può sospendere il pagamento degli
oneri condominiali lamentando il disservizio. Il condominio,
d’altro canto, non può pretendere che per ovviare al
malfunzionamento il condomino stesso sia tenuto ad
effettuare interventi a proprie spese nella suo appartamento
(Cassazione sentenza 19616/2012).
La norma, però, non va intesa nel senso che anche i
condòmini siano costretti a tenere questa temperatura nelle
proprie unità immobiliari. Le leggi in materia di
contenimento dei consumi energetici e di riduzione dello
scarico in atmosfera dei prodotti della combustione (gas ad
effetto serra) incentivano la riduzione della temperatura
negli ambienti.
Il Dlgs 04.07.2014 n. 102, all’articolo
9, comma 5, prevede che ciascuno sia tenuto a contribuire ai
costi per il riscaldamento solo per il calore che
effettivamente ha prelevato dai termosifoni (oltre a una
quota fissa riferita alle dispersioni e alle spese generali
per la manutenzione dell’impianto). Ne consegue che per
risparmiare danari o perché l’alloggio non è abitato, i
condomini potranno tenere le valvole termostatiche
parzialmente o totalmente chiuse, con conseguente minore
temperatura nell’appartamento.
I condomini confinanti che devono prelevare maggior calore
dai propri termosifoni per compensare quel calore che viene
ceduto agli alloggi freddi, non possono pretendere nulla né
dal vicino né nei confronti del condominio in sede di
ripartizione della spesa complessiva del riscaldamento
mediante l’adozione dei cosiddetti coefficienti correttivi.
Questi, infatti, sono vietati dalla legge, anche per quegli
appartamenti posti all’ultimo piano o a Nord.
Nemmeno un regolamento avente natura contrattuale (allegato
al primo atto di vendita e richiamato per accettazione in
tutti i successivi) potrà prevedere “compensazioni” o
obblighi di tenere una determinata temperatura negli
alloggi. Lo stesso, infatti, sarebbe contrario a norme
imperative.
Nel caso in cui in un’unità immobiliare dovessero passare le
tubazioni della rete di distribuzione che porta il calore
negli altri alloggi, non potrà essere richiesto alcun
pagamento al condomino. Infatti, l’attraversamento della
proprietà individuale non determina alcuna appartenenza, ma
semmai implica una servitù a carico dell’appartamento
interessato (Tribunale Milano, sezione XIII, sentenza del 26.01.2012) (articolo Il Sole 24 Ore
del 15.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nuova
«pagella verde» per gli immobili. Dal primo ottobre cambiano
calcoli e documenti per misurare i consumi.
Efficienza energetica. Ape obbligatorio per affittare o
vendere l’immobile ma i vecchi certificati sono validi se
non si eseguono lavori.
Dopo tre mesi di
rodaggio, per adeguarsi al sistema, il
nuovo modello di
attestato energetico per gli immobili è pronto a entrare in
vigore: dal 1° ottobre cambiano le modalità per la
compilazione dell’attestato di prestazione energetica (o
Ape) degli edifici e delle unità immobiliari.
La normativa di riferimento, che modifica il Dlgs 192/2005 e
attua in Italia la direttiva europea 2010/31/Ue, è contenuta
nelle linee guida emanate dal ministero dello Sviluppo
economico lo scorso 26 giugno (pubblicate sulla Gazzetta n.
162/2015). Il nuovo «certificato» che attesta i consumi
energetici dell’immobile è composto da cinque pagine,
suddivise in due parti: una prima più generica, di facile
comprensione per tutti, dove viene indicata la classe
energetica dell’immobile, l’indice di prestazione energetica
globale (da energia non rinnovabile e rinnovabile) e dove
sono riportate le raccomandazioni per migliorare
l’efficienza dell’edificio attraverso gli interventi più
significativi ed economicamente convenienti. Nella seconda
parte si trovano informazioni più di dettaglio e di maggior
contenuto tecnico, utili agli addetti al lavori per una
conoscenza più approfondita dell’edificio o
dell’appartamento.
Cosa cambia
Anche se nella denominazione l’attestato di prestazione
energetica ha sostituito ormai da due anni il vecchio
attestato di certificazione energetica (Ace) fino ad oggi,
di fatto, le modalità di compilazione erano rimaste ferme al
passato. Ora si cambia. Innanzitutto, aumenta il numero dei
servizi energetici presenti in casa che vengono presi in
considerazione ai fini dell’esame di efficienza: oltre alla
climatizzazione invernale e alla produzione di acqua calda
sanitaria, vengono esaminati –se presenti– la
climatizzazione estiva e la ventilazione meccanica.
Per gli edifici terziari si tiene conto anche
dell’illuminazione e dei servizi di trasporto a persone o
cose (ascensori e montacarichi). Non solo. Dal 1° ottobre,
la performance del fabbricato o dell’alloggio è ricavata
confrontando l’unità con il cosiddetto edificio standard, un
fabbricato “ombra” in tutto e per tutto analogo al progetto
reale, ma progettato in condizioni ottimali. Come in
passato, il giudizio finale è espresso in classi di merito
identificate da lettere, dalla A (la più virtuosa) alla G.
I livelli complessivi sono 10 (prima erano sette): i primi
quattro fanno tutti riferimento alla lettera A, con quattro
gradazioni, da A4 (il più efficiente) ad A1.
Ultima novità di rilievo è che decadono i sistemi regionali
per il calcolo delle prestazioni dell’edificio. Pregio della
nuova norma, infatti, è essere riuscita infatti a far
dialogare le Regioni, riportando la metodologia di esame
delle prestazioni a un unico sistema nazionale, con poche
eccezioni.
Per chi è obbligatorio
La nuova targa energetica è composta secondo le nuove regole
in tutti i casi di nuova costruzione o risanamento di uno
stabile già esistente. Nei casi di vendita o affitto
dell’unità immobiliare l’attestato è prodotto secondo il
nuovo modello solo se non è già presente un vecchio Ape o
Ace ancora in corso di validità (il documento ha una vita di
10 anni, salvo lavori di ristrutturazione tali da modificare
le prestazioni energetiche del fabbricato).
Per chi dovrà rifare l’Ape (non a fronte di lavori di
recupero, ma per naturale scadenza), uno dei risvolti (forse
non graditi) nel passaggio dal sistema regionale a quello
unico nazionale sarà la possibilità che si verifichino
“declassamenti”. In pratica, la casa, che magari era stata
venduta come performante e in classe A secondo la scala
adottata dal territorio di riferimento, potrebbe finire
bruscamente in classe B.
Le sanzioni
Se in passato la verifica sugli attestati è sempre stata
blanda, dal prossimo mese i controlli scatteranno d’obbligo
da parte delle Regioni almeno sul 2% degli Ape, a partire da
quelli che dichiarano classi più efficienti. Se manca
l’attestato per gli edifici di nuova costruzione e per
quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il
costruttore o il proprietario sono puniti con una sanzione
amministrativa che parte da un minimo di tremila euro, ma
può arrivare fino a 18mila.
Se manca l’Ape in un atto di compravendita o locazione il
venditore o il proprietario incorrono in multe fra i 3mila e
i 18mila euro nel primo caso e fra i 300 e 1.800 nel
secondo. Rispetto al passato, non è però più prevista la
nullità dell’atto di trasferimento dell’immobile o del
contratto di affitto.
---------------
L’attestato trova lo standard unico.
L’iter. Stop ai diversi sistemi regionali.
Una delle
principali novità che scatteranno con l’entrata in vigore
del nuovo attestato di prestazione energetica sarà il
ritorno a un sistema di calcolo unico, nazionale, per
arrivare alla definizione delle performance energetiche
dell’edificio e dunque all’attribuzione delle classi di
merito.
Il lavoro per il ritorno all’omogeneità, anche dove erano
stati sviluppati negli anni passati sistemi regionali di
certificazione, è partito da settimane: la prospettiva è una
semplificazione per i cittadini che devono far redigere la
targa energetica.
Dal 1° ottobre, ad esempio, il modello di Ape sarà conforme
a quello nazionale anche in Lombardia, la Regione che più di
altre aveva tenuto in passato una linea autonoma. A
stabilirlo è una delibera, la n. 3868 del 16.07.2015.
L’attestato –che in questa Regione è necessario anche per
gli immobili senza impianti– sarà ritenuto valido tuttavia
solo se prodotto attraverso l’utilizzo del software
Cened+2.0 (la versione beta è già disponibile online) o di
un software commerciale che però abbia ricevuto il via
libera da parte di Infrastrutture Lombarde (la società che
gestisce l’accreditamento locale). Ogni targa energetica
continuerà, inoltre, a prevedere un costo di emissione di 50
euro. Infine, sul territorio amministrato dalla Giunta
Maroni, continueranno a poter rilasciare gli Ape solo le
persone fisiche e non le società.
Nessuna differenza fra il sistema nazionale e quello
regionale, invece, in Emilia Romagna, dove la Regione ha
recepito in estate le linee guida con la Dgr 967 del 20.07.2015. Stessa linea quella che dovrebbe essere
adottata dal Piemonte, dove da qualche tempo è stata
abrogata la legge 13/2007, che dettava la metodologia per la
certificazione energetica degli edifici e dove sta per
uscire una delibera di recepimento del Decreto del 26 giugno
scorso.
L’unica eccezione a un quadro di generale uniformità arriva
dalle Province autonome. La Provincia di Bolzano, che con il
sistema Casaclima ha dimostrato da tempo di aver recepito
interamente la direttiva comunitaria 2010/31/Ue, potrà
mantenere attivo (come prescrive lo stesso decreto di
giugno) un proprio sistema, che pur deve essere il più
possibile reso vicino a quello statale. Ciò significa che,
in Alto Adige, gli Ape continueranno a seguire il sistema
locale, che già tiene conto per il residenziale delle
performance dell’edificio per la climatizzazione estiva
dell’immobile e della ventilazione meccanica dello stesso.
In Provincia di Trento, dove il metodo di calcolo da sempre
è quello nazionale della norma Uni, è infine in corso una
verifica per capire se sia possibile o meno mantenere un
sistema peculiare di attribuzione delle classi, che (come
già in passato) si basa sul consumo effettivo di energia,
anziché sul raffronto con l’edificio tipo. «Una riflessione
–spiegano dagli uffici tecnici– che è in corso e che
presto definiremo» (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province,
sul personale niente risparmi nel 2015. Senza la
ridefinizione delle funzioni in tutte le Regioni non partono
gli elenchi nominativi degli «esuberi».
Riforma Delrio. Gli enti che hanno stanziato solo parte
delle risorse in previsione dei trasferimenti devono
rivedere i conti per garantire gli stipendi.
Quali speranze
hanno i dipendenti della provincia di vedere la conclusione
della loro vicenda? Potranno trovarsi, un giorno,
tranquilli, anche se presso un diverso datore di lavoro?
I dubbi sono oggi più che legittimi in quanto, rispetto alla
tabella di marcia disegnata dal Governo, i tempi si stanno
allungando parecchio. Uno dei primi passi per poter dar
corso all’incontro fra domanda e offerta di lavoro
prospettato dalla Funzione pubblica è rappresentato
dall’atto, adottato dalle amministrazioni provinciali, con
il quale vengono individuati nominativamente i dipendenti da
considerare in soprannumero. Ma quale è il dirigente che si
prende la responsabilità, oggi, di adottare questa
determina?
Tuttora, ci sono elementi che incidono su questa
scelta e che non risultano delineati. Per poter procedere
alla compilazione dell’elenco nominativo è necessario che
vengano individuate le funzioni che restano in capo agli
enti di area vasta, siano esse fondamentali oppure delegate
dalle regioni. In sostanza, serve la legge regionale con la
quale si individuano i compiti che le stesse amministrazioni
si riservano di svolgere direttamente e quelle che invece
scelgono di ri-delegare agli enti di area vasta. In questo
modo, sono quantificati i dipendenti che vengono trasferiti
e quelli che restano nei ruoli delle ex Province.
Molte
regioni non hanno ancora provveduto in tal senso, e per
questa ragione il processo è bloccato. Anche nell’ipotesi in
cui questa fase dovesse subire un’improvvisa accelerazione,
magari per effetto delle sanzioni introdotte dal decreto
enti locali per le Regioni che non chiuderanno la procedura
entro fine ottobre, lo stop verrebbe dalla mancanza dei
criteri sulla mobilità, previsti dal comma 423 della legge
di stabilità 2015. Infatti, mentre è stato approvato il
decreto con il quale sono fissate le tabelle di
equiparazione fra le categorie dei diversi comparti
pubblici, il provvedimento sui criteri è stato esaminato in
sede di conferenza unificata (e anticipato sul Sole 24 Ore
del 15 luglio), ma non ha ancora visto il varo definitivo. È
evidente che, in assenza di regole, la procedura non può
essere portata a termine.
Ne consegue che il calendario delle operazioni
inevitabilmente slitta. Ma questo procrastinarsi non è del
tutto indolore. Sorge, innanzitutto, il problema di dare
certezza allo stipendio dei dipendenti ex provinciali. Le
norme garantiscono loro, in caso di mobilità, il trattamento
fondamentale e il salario accessorio, limitatamente alle
voci con carattere di generalità e natura fissa e
continuativa. Stante l’assenza di una definizione, a livello
sia normativo sia contrattuale, di tali caratteristiche, la
battaglia sarà inevitabile. Ancora, questo salario
accessorio non ha trovato, ad oggi, un suo pacifico e
condiviso finanziamento, a causa delle incertezze che le
norme di riferimento hanno creato sul tema.
Superate anche queste perplessità, la bozza di provvedimento
sui criteri della mobilità disegna un cronoprogramma che,
nella migliore delle ipotesi, di pubblicazione del decreto
nei prossimi giorni, vede la conclusione del processo alla
fine dell’anno, bruciando, di fatto, la prima annualità del
biennio 2015-2016 a disposizione. Questo significa che, per
l’anno corrente, gli stipendi di tutti i dipendenti delle ex
Province, compresi quelli dichiarati in soprannumero, devono
trovare spazio nei bilanci degli enti di area vasta.
E non è
così scontato che questi bilanci reggano. Gli input che
provenivano dalla Funzione pubblica a inizio anno avevano
fatto ipotizzare che i trasferimenti del personale in
esubero potessero avvenire attorno alla fine del primo
semestre 2015 o, al massimo, in autunno. L’aver previsto la
spesa solo per una parte dell’anno, magari per poter far
quadrare un bilancio che sopportava tagli non indifferenti,
mette a rischio le casse degli enti di area vasta.
Inevitabili sono, quindi, interventi che, da un lato,
aumentino gli stanziamenti di bilancio per gli stipendi dei
dipendenti e dall’altro, allarghino l’arco temporale dal
biennio al triennio, includendo anche il 2017. Forse non a
caso, la scorsa primavera, la Funzione pubblica ha chiesto
alle singole amministrazione anche le cessazioni dal
servizio del 2016.
Una cosa è certa: la storia insegna che, spesso, le proroghe
sono state il viatico per far naufragare ovvero posticipare
sine die intere operazioni (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’impasse
blocca anche i Comuni. Effetto domino. Le conseguenze
dell’obbligo di riservare gli spazi assunzionali agli ex
provinciali.
I Comuni e le Regioni possono effettuare
pochissime assunzioni a tempo indeterminato nel 2015; ciò
sta determinando problemi assai pesanti in numerosi municipi
di piccola e media dimensione dove si sono avute cessazioni
di personale che occupava posizioni strategiche (quali ad
esempio i responsabili dei settori finanziari, dei lavori
pubblici, dei servizi sociali) e che non possono
rimpiazzarli se non a tempo determinato.
Le assunzioni del 2015 e del 2016 sono dalla legge di
stabilità 2015 riservate al personale degli enti di area
vasta collocati in sovrannumero. Ma sono pochissime le
realtà in cui queste dichiarazioni sono state rese.
Lo schema di Dpcm sui criteri dei trasferimenti che doveva
essere approvato entro la scorsa primavera è stato adottato
nei giorni scorsi dal Governo.
Ma ciononostante ci vuole del tempo alle Province delle
regioni che legifereranno (forse, visto che la norma statale
solleva dubbi di legittimità costituzionale) nelle prossime
settimane, per individuare il personale in eccedenza.
E dal momento in cui il Dpcm sui trasferimenti sarà
pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» ci vogliono almeno
quattro mesi perché il personale in sovrannumero degli enti
di area vasta possa essere effettivamente trasferito ai
Comuni oppure alle Regioni.
Con il Dl 78/2015 le assunzioni a tempo indeterminato di
vigili urbani sono bloccate in attesa della messa in
disponibilità di quelli provinciali.
È in discussione che si possano effettuare assunzioni in
mobilità, anche di personale delle Province. Per la Funzione
Pubblica e gli Affari Regionali (circolare n. 1/2015) le
mobilità volontarie possono essere effettuate, fino a che
non sarà stata attivata l’apposita piattaforma telematica,
purché riservate al personale degli enti di area vasta.
Ma la successiva deliberazione n. 19/2015 della sezione
Autonomie della Corte dei Conti ha limitato questa
possibilità solamente al personale degli enti di area vasta
collocato in esubero. Il che produce, in pratica, l’effetto
che questo strumento può essere utilizzato in misura molto
limitata.
Lo strumento di maggiore rilievo che rimane ai Comuni è
l’utilizzazione per assunzioni con procedure ordinarie dei
risparmi derivanti dalle cessazioni degli anni dal 2011 al
2014 che non sono stati già spesi per finanziare nuove
assunzioni.
Questa possibilità si può considerare acquisita sulla base
delle indicazioni del Dl 78/2015 e del parere della sezione
Autonomie della Corte dei Conti n. 26/2015, ma produce
effetti solamente per un numero ridotto di amministrazioni
locali.
I Comuni possono inoltre dare corso ad assunzioni di
personale in possesso di specifici titoli abilitanti da
destinare ai servizi educativi e scolastici, per profili non
esistenti tra quelli degli enti di area vasta. Questa
possibilità si può, sulla base del parere della sezione
autonomie della Corte dei Conti n. 19/2015, estendere a
tutti i profili che non esistono negli enti di area vasta.
Le ultime possibilità di assunzione che restano ai Comuni e
alle Regioni sono le seguenti due.
In primo luogo, l’assunzione di personale appartenente alle
categorie protette per coprire le quote minime obbligatorie.
E infine, possibilità ammessa implicitamente dal parere n.
26/2015 della sezione autonomie della Corte dei Conti, di
trasformazione a tempo pieno del personale assunto su posti
in part-time. Cioè, tutto sommato, assunzioni in misura
assai ridotta (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Per la
polizia trasferimenti automatici in deroga ai vincoli su
spese e ingressi. Decreto enti locali. Da rispettare i
limiti di fabbisogno e organici.
La mobilità dei dipendenti degli enti
territoriali è ormai un concetto estremamente flessibile. Se
fino a qualche mese fa i casi si potevano ricondurre al
massimo a tre fattispecie, l’obbligo di riassorbimento dei
dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta ha
mescolato le carte e gli enti si trovano in un vero e
proprio labirinto.
Alla luce delle diverse interpretazioni, come la circolare
n. 1/2015 della Funzione pubblica o le deliberazioni n. 19 e
26 della Corte dei conti Sezione Autonomie, non si riesce,
ad esempio, a conciliare il concetto di «nuova assunzione»
con il principio di «neutralità» da sempre posto in capo
alle procedure di mobilità. Ma non solo. L’evoluzione
dell’istituto transita anche da trasferimenti forzati come
nel caso della polizia locale, destinate ad accogliere
obbligatoriamente i dipendenti della polizia provinciale.
Entro il 31 ottobre prossimo, infatti, le Province hanno
l’obbligo di individuare quali lavoratori appartenenti al
corpo rimarranno a propria disposizione per altre attività;
dopo questo termine i dipendenti in soprannumero o non
individuati transiteranno presso gli enti locali,
all’interno delle funzioni di polizia locale. Si tratta, di
un’ulteriore complicazione rispetto alla già difficile
partita da giocarsi sull’articolo 1, comma 424, della legge
190/2014.
Questa disposizione chiede ai Comuni di vincolare
la capacità assunzionale per gli anni 2015 e 2016 a favore
dei dipendenti degli enti di area vasta. Prima di attivare
le procedure concorsuali o di scorrere le graduatorie per
assumere gli idonei, è necessario utilizzare il turn-over
per il riassorbimento dei lavoratori di Province e Città
metropolitane.
Per la polizia locale, però, la questione si fa più
drastica. Infatti, fino a quando non vi sarà il totale
passaggio dei dipendenti della polizia provinciale, è fatto
divieto agli enti locali di procedere ad assunzione di
qualsiasi tipo per la medesima funzione, fatta eccezione per
le esigenze di stagionalità valutata per un massimo di
cinque mesi per anno solare. Con un’aggravante: per la
polizia locale non sarà neppure possibile attingere ai
“resti” della capacità assunzionale degli anni precedenti,
che la Corte dei Conti Sezione Autonomie, con la
deliberazione n. 26/2015 ha sdoganato rendendoli liberi da
ogni vincolo.
Siamo così di fronte all’ennesimo trasferimento di mobilità
imposto dal legislatore. Per la polizia locale, questa
procedura potrà avvenire nel rispetto della dotazione
organica e del fabbisogno di personale, ma in deroga alle
disposizioni in materia di limitazioni alle spese e alle
assunzioni di personale.
Riassumendo: le procedure di mobilità volontaria possono
essere attivate in tutti i settori dell’ente (polizia locale
esclusa), esclusivamente nei confronti dei dipendenti in
soprannumero degli enti di area vasta erodendo, a questo
punto, capacità assunzionale; è possibile, come indicato
dalla nota 20506/2015 della Funzione pubblica, la mobilità
per interscambio e questa dovrebbe rimanere «neutra»; i
dipendenti della polizia provinciale in soprannumero
transiteranno obbligatoriamente negli enti locali in barba
ad ogni regola su spese e assunzioni.
Il nodo mobilità, quindi, non è per niente risolto e neppure
il decreto con le tabelle di equiparazione viene in aiuto. I
tempi, peraltro si allungano, ed è difficile credere che le
cose si sistemeranno entro il 2016 come prevede la
normativa (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.09.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ciascun
rifiuto ha una gestione. Focus su toner, Raee, pile, parti
di veicoli e vegetali.
Precisazioni da Minambiente, Arpa e Corte di cassazione su
regole per specifici residui.
Dalla gestione dei toner aziendali esauriti alla raccolta in
aree urbane di residui vegetali, passando per il commercio
di oggetti in disuso ad alto potenziale d'impatto
ambientale.
Arrivano da Ministero dell'ambiente, Agenzia regionale per
la protezione ambientale della Toscana e Corte di cassazione
gli ultimi chiarimenti in merito alle norme che disciplinano
particolari categorie di rifiuti.
Toner esauriti.
Affinché un'azienda sia esonerata dagli oneri imposti dal
Codice ambientale per la gestione dei toner esauriti delle
proprie stampanti occorre che essa affidi a terzi tramite
regolare contratto l'intero ciclo della manutenzione delle
apparecchiature, dalla sostituzione delle cartucce al loro
ritiro e trasporto, senza procedere a deposito in loco.
Diversamente, essa azienda soggiace agli obblighi formali e
sostanziali previsti dal dlgs 152/2006 in funzione delle
attività poste in essere su tali rifiuti speciali e alla
natura pericolosa o meno degli stessi, obblighi che possono
andare dal tracciamento dei residui tramite scritture
ambientali al rispetto delle regole sul loro deposito (anche
se effettuato con i noti «ecobox»).
È quanto si evince dalla
nota 30.06.2015 n. 7692 di prot. elaborata dal Minambiente in
risposta a un quesito sulla portata dell'articolo 266, comma
4, del citato decreto, a mente del quale: «I rifiuti
provenienti da attività di manutenzione ( ) si considerano
prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che
svolge tali attività», norma che consente dunque in via di
principio al titolare delle apparecchiature da cui detti
rifiuti derivano di spostare su terzi i citati oneri
ambientali.
Al riguardo il dicastero indica come le
condizioni per invocare l'applicazione della norma siano:
l'esistenza di un valido contratto stipulato tra committente
e terzo manutentore; l'essere l'attività commissionata
svolta esclusivamente e interamente dai tecnici dall'impresa
di manutenzione; il comprendere tale attività sia il
mantenimento delle stampanti (sostituzione delle cartucce
compresa) che il contestuale trasporto dei rifiuti
coincidenti con i toner esauriti verso la destinazione di
trattamento. Rispettate tali condizioni, chiarisce il
dicastero, nella documentazione per il trasporto dei rifiuti
dovrà dunque essere indicato quale produttore l'impresa di
manutenzione, evidenziando nelle note il luogo in cui si è
svolta fisicamente l'attività.
È utile in tale contesto
ricordare come alla luce della riformulata definizione di
«produttore di rifiuto» ex dlgs 152/2006 in vigore dallo
scorso luglio (e in base alla quale è tale anche «il
soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta
produzione») sia altresì diventata condizione necessaria per
evitare di concorrere nell'eventuale reato di gestione
illecita di rifiuti posta in essere dal soggetto affidatario
della manutenzione la verifica da parte dell'azienda
committente sia sulla sussistenza in capo a quest'ultimo
delle necessarie autorizzazioni ambientali che sul buon fine
della destinazione finale dei residui.
Commercio ambulante.
Batterie usate, apparecchiature elettriche ed elettroniche
non funzionanti, parti meccaniche di veicoli così come
oggetti in disuso anche presumibilmente contenenti sostanze
pericolose non possono essere raccolti e trasportati dai
cosiddetti «robivecchi» senza onorare gli obblighi previsti
dal Codice ambientale.
Con la
sentenza 17.08.2015 n. 34917 la Corte di
Cassazione, Sez. III penale ha, infatti, precisato come per tali
materiali non valga il regime derogatorio previsto
dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, in base al
quale: «Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e
212 (obblighi di denuncia annuale rifiuti, tenuta dei
registri di carico/scarico, formulario di trasporto,
iscrizione all'Albo gestori ambientali, ndr) non si
applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti
effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle
attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai
rifiuti che formano oggetto del loro commercio».
Il giudice
di legittimità ha sottolineato come tale deroga sia infatti
giustificata dalla valutazione di minor pericolosità per la
salute e per l'ambiente operata dal legislatore in relazione
alle attività in parola e non può dunque essere applicata
alla gestione di materiali (come i citati) oggetto di
puntuale disciplina. Per questi, specifica la Corte, non
solo vanno osservate le regole direttamente richiamate
dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, ma anche tutte
le altre disposizioni dettate dalle speciali norme di
settore (come il dlgs 49/2014 sui Raee, il dlgs 188/2008
sulle pile, quelle dello stesso Codice ambientale sui
rifiuti pericolosi e quelle sui veicoli fuori uso previste
dal dlgs 152/2006 unitamente al dlgs 209/2003). Dalla
sentenza della Suprema corte appare altresì evincibile come
tali oggetti non possano dunque essere eventualmente offerti
in vendita tal quali dagli stessi soggetti tramite
bancarelle o banchi dei propri negozi.
L'abilitazione di cui
parla il citato articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006 è,
infatti, quella prevista dal dlgs 114/1998 che ammette il
commercio ambulante esclusivamente nell'ambito del commercio
al dettaglio, ossia indirizzato ai consumatori, i quali
(essendo diversi dai professionisti) non dispongono della
necessaria autorizzazione al trattamento dei rifiuti.
Residui naturali da eventi atmosferici.
Nelle aree urbane, sia pubbliche che private, è possibile
gestire fuori dal regime dei rifiuti la raccolta di legno e
altri residui naturali generati da particolari eventi di
origine non antropica.
È l'Agenzia regionale per protezione
ambientale della Toscana con un
comunicato pubblicato il 27.08.2015 sul proprio portale internet a dare alcuni utili
chiarimenti sul regime di favore introdotto nel 2014
nell'articolo 183, comma 1, lettera n), del Codice
ambientale, nel tenore del quale «Non costituiscono attività
di gestione dei rifiuti le operazioni di prelievo,
raggruppamento, cernita e deposito preliminari alla raccolta
di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi
atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene,
anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica
effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario,
presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno
depositati».
L'Arpa ha individuato quali condizioni per
l'applicazione dell'istituto in parola le seguenti: deposito mono-materiale dei residui naturali identificati tramite la
preliminare cernita (separato dunque da quello degli
eventuali materiali di origine antropica, che restano
rifiuti, e identificabile quale deposito temporaneo ex dlgs
152/2006); rispetto della tempistica prevista dal Codice
ambientale, eventualmente declinata dagli Enti pubblici di
competenza per determinate fattispecie (come
l'organizzazione per la rimozione dei materiali depositatisi
su spiagge a causa di mareggiate o prima dell'inizio della
stagione balneare). Non è contemplata, ricorda infine
l'Arpa, la possibilità di abbruciamento di tali residui
legnosi in situ.
Ciò evidentemente, in quanto le descritte
disposizioni derogatorie ex articolo 183, comma 1, lettera
n) del Codice ambientale si pongono come regime fondato su
presupposti (si pensi alla possibile presenza di materiale
antropico nei residui) e scopi (di ripristino dei luoghi
interessati dai fenomeni atmosferici) diversi rispetto a
quelli sottesi alle apparentemente analoghe regole di favore
per gli scarti vegetali previste dalle altre disposizioni
del dlgs 152/2006.
Le ipotesi di deroga previste
dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 per la gestione dei
residui verdi da aree agricole e forestali, così come quelle
per la combustione degli analoghi scarti vegetali ex
articoli 182, comma 6-bis, e 256-bis dello stesso Codice sono
infatti giustificate dalla natura a monte esclusivamente
naturale dei materiali e dalla finalità del loro riutilizzo
nello stesso ambito produttivo
(articolo ItaliaOggi Sette
del 14.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province,
a fine anno le liste per la mobilità. Enti locali. Pronto il
decreto sui passaggi da una Pa all’altra.
Entro l’anno il ministero della Pubblica
amministrazione elaborerà gli elenchi del personale delle
Province in esubero e le liste dei posti liberi nelle altre
Pa, a partire da Regioni e Comuni.
A prevederlo è la
bozza del decreto sui criteri per la mobilità negli enti di
area vasta (su cui si veda Il Sole 24 Ore del 15 luglio) che
sta ancora aspettando la registrazione della Corte dei conti
e che verrà emanato nonostante il mancato accordo in
conferenza unificata.
Al momento la prima scadenza è fissata per il 31 ottobre
quando le Province dovranno fornire i dati sui dipendenti in
soprannumero. Entro la stessa data infatti le Regioni
dovranno avere definito le leggi con cui decidono le
funzioni, e quindi i dipendenti, delle Province da assorbire
in attuazione della riforma Delrio. Quanti non hanno trovato
una collocazione nel passaggio devono essere quindi inseriti
in elenchi ad hoc, da spedire al portale dedicato alla
mobilità (www.mobilità.gov.it).
A quel punto tutte le altre Pa, centrali e locali, avranno
tempo fino a fine novembre per indicare quanti e quali posti
mettono a disposizione. Serviranno infine altri 30 giorni, e
arriviamo così a fine 2015, al ministero della Pubblica
amministrazione per pubblicare i posti a disposizione e
l’elenco nominativo del personale in soprannumero. Personale
che dovrà esprimere le sue preferenze entro fine gennaio.
Altrimenti la Funzione pubblica a procedere unilateralmente (articolo Il Sole 24 Ore
del 13.09.2015). |
LAVORI PUBBLICI:
Le
proteste giustificano il blocco dell’opera. Tar Lazio. Per i
giudici le manifestazioni legittimano la marcia indietro dei
Comuni.
L’effetto Nimby entra nella giurisprudenza. La
rivolta popolare può, infatti, legittimare la revoca della
decisione di un comune.
L’indicazione arriva
da una sentenza del Tar del Lazio, chiamato a pronunciarsi
su un impianto per servizi alla popolazione. È un principio
consolidato, a livello normativo e giurisprudenziale, quello
per cui alla Pa è consentito revocare i propri provvedimenti
per effetto di una nuova (cioè rinnovata) valutazione
dell’interesse pubblico. Così come è pacifico che,
nell’esercizio di questo potere di ripensamento,
l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità.
Ora, con la
sentenza 08.09.2015 n. 11098
del
TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
viene chiarito che «deve ritenersi che la manifestazione da
parte della popolazione del Comune della contrarietà alla
realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a
rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione,
costituiscano espressione di una nuova valutazione
dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del
cosiddetto jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia
discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a
fondamento della revoca non sia affetta da vizi di
legittimità». Se il principio di fondo non è nuovo,
fortemente innovativo è invece il riferimento espresso alla
contrarietà della popolazione locale come fattore di
legittimazione della revoca.
La decisione spinge a due considerazioni. La prima è che la
sentenza è sul piano formale da ritenere corretta (anche
nella parte in cui nega l’indennizzo richiesto dal
proponente riguardo al project financing rimasto, per
effetto del «legittimo» ripensamento, solo a metà del
guado). La seconda considerazione è che, tuttavia, nel
momento in cui si ammette la legittimità della revoca dei
provvedimenti (nel caso di specie, di quelli intermedi
nell’ambito dell’iter di realizzazione dell’opera pubblica)
in nome, apertamente, della «manifestazione da parte della
popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione
dell’opera», assumendo che essa fonda «l’interesse primario
... a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa
popolazione», ciò fa riesplodere l’irrisolto problema
dell’effetto Nimby e della sua incidenza come freno a
crescita e sviluppo.
Tema spinoso e difficile, schiacciato
com’è fra spinte contrapposte: crisi di credibilità delle
istituzioni rappresentative (per colpe oggettive e
antipolitica), evidente insufficienza strutturale dello
strumento asettico del procedimento amministrativo a
comporre conflitti, diffidenze e incomprensioni fra opposti
punti di vista (specie su questioni e aspetti a forte
connotazione tecnica), carenze di completezza e obiettività
delle fonti di informazione e dei processi di comunicazione
utilizzati dall’apparato burocratico.
Per uscirne, appare
essenziale cambiare metodo, sul piano legislativo. Per
evitare questi conflitti a posteriori che disseminano il
Paese di opere iniziate e non finite (con corredo di onerosi
indennizzi dovuti ai privati delusi nei loro legittimi
affidamenti, in molti casi) occorre istituire la verifica “a
monte”, prima ancora di fare il progetto preliminare, della
reale “fattibilità di contesto” di un’opera di livello
medio/grande.
Confrontando (e se necessario, opponendo)
argomenti tecnici, economici e sociali a controargomenti
della stessa natura, nel contraddittorio –ove occorra– fra
esperti di parte.
È lo schema del debat public alla
francese, all’attenzione del Senato (AS 980, 1724 e 1845),
che prova a conciliare il dovere di non prendere
decisioni contro la volontà popolare con la
necessità di evitare che un territorio resti
ostaggio di minoranze ben organizzate (articolo Il Sole 24 Ore
del 12.09.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, esuberi ancora al palo.
I trasferimenti dei dipendenti in sovrannumero delle
province restano ancora al palo.
Il dpcm 26.06.2015,
contenente la «Definizione delle tabelle di equiparazione
fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti
collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione
del personale non dirigenziale» registrato dalla Corte dei
conti e ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, non è in grado di risolvere i problemi posti
dalla riforma delle province, che restano tutti sul tappeto
e, anzi, si aggravano.
Mobilità al palo. Il Dpcm che tra breve entrerà in vigore da
molti è considerato la chiave per aprire le procedure di
mobilità intercompartimentale e sbloccare, quindi, la
situazione dei circa 20 mila dipendenti provinciali in
sovrannumero. Le cose non stanno così. Il Dpcm è utile solo
per le tabelle di equiparazione nel caso di trasferimenti
tra diversi comparti della p.a., ma di per sé non fornisce
alcuna spinta al complicatissimo processo di ricollocazione
dei dipendenti provinciali in sovrannumero.
Del resto, in attesa che si avvii la piattaforma telematica
per gestire la mobilità prevista da un altro Dpcm ancora
fermo per l'opposizione delle regioni, i dipendenti
provinciali avrebbero potuto senza alcuna necessità di
tabelle di equiparazione passare a comuni e regioni, che
fanno parte del medesimo comparto. Le mobilità tra province
e altri enti locali, invece, ci sono state col contagocce,
anche perché la gran parte delle province non ha formalmente
approvato liste nominative dei propri dipendenti in
sovrannumero.
Trattamento economico. Il Dpcm sulle tabelle di
equiparazione garantisce ai dipendenti che passino da
un'amministrazione all'altra «il trattamento economico
fondamentale e accessorio ove più favorevole - limitatamente
alle voci con carattere di generalità e natura fissa e
continuativa».
Non si rispetta, per quanto riguarda i
provinciali, la previsione di cui all'articolo 1, comma 96,
lettera a), della legge 56/2014, che invece garantisce ai
dipendenti provinciali l'intero trattamento economico,
ponendone il finanziamento a carico delle province. Il
governo ha inserito questa clausola che modifica l'assetto
normativo consapevole che la legge 190/2014, avendo imposto
un prelievo forzoso di 3 miliardi a regime alle province non
consente di prelevare da esse le risorse per finanziare
anche integralmente il personale da trasferire (la cifra si
aggira intorno agli 840 milioni).
Tuttavia, è evidente che
non essendo stato abolito l'articolo 1, comma 96, della
legge Delrio ciascun dipendente ha un diritto fondato dalla
legge a non vedersi decurtato lo stipendio e potrebbe
rivolgersi giudizialmente avverso la provincia, per ottenere
da questa il trasferimento delle risorse che finanziano il
trattamento economico verso l'ente di destinazione. Anche in
questo caso il rischio di un contenzioso incontrollabile è
enorme e altrettanto grande è la probabilità di un salasso
per le province.
Bandi in corso. C'è poi il problema dei bandi di mobilità in
corso, quelli che ai sensi della circolare 1/2015 della
Funzione pubblica si sono considerati legittimi se riservati
ai dipendenti provinciali in sovrannumero.
Di particolare delicatezza è quello per 1031 posti presso il
ministero della giustizia, la cui procedura si avvicina
verso i colloqui selettivi. Oltre a non essere stato
interamente riservato ai dipendenti provinciali, il bando e
la connessa procedura sono particolarmente delicati perché
hanno partecipato moltissimi dipendenti provinciali e di
città metropolitane non formalmente inseriti nelle liste dei
soprannumerari
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015). |
ANNO 2014 |
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aggiornamento al
17.11.2014 |
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ENTI
LOCALI:
Gestioni associate e basta. Niente
proroga ai comuni sotto 5 mila abitanti.
Il chiarimento del ministero degli affari
regionali a un convegno.
Nessuna ulteriore proroga sulle gestioni associate
dei piccoli comuni.
Questa è la posizione del governo, stando a quanto
dichiarato dal capo della segreteria tecnica del
ministero degli affari regionali, Francesco Zito, in
un convegno svoltosi ieri presso la Scuola umbra di
amministrazione pubblica.
L'obbligo è stato previsto dall'art. 14 del dl
78/2010 e interessa tutti i comuni inferiori a 5.000
abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli
appartenenti o appartenuti a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate
come fondamentali dalla legge statale: al momento,
il relativo elenco è dettato dall'art. 14, comma 27,
del dl 78, come sostituito dall'art. 19, comma 1,
del dl 95/2012.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue
proroghe: al momento, tre funzioni sono state
associate entro il 31.12.2012, altre tre avrebbero
dovuto esserlo entro il 30 settembre, mentre per le
restanti la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però, stanno venendo al pettine solo ora,
dato che funzioni già devolute a livello
sovracomunale o erano già gestite in forma associata
(per esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere»
(per esempio, protezione civile o catasto). Il vero
core business include le funzioni «pesanti»
(come, per esempio, amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo, servizi
pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed
è ancora tutto da trasferire. Così come le procedure
di acquisto, che tutti i comuni non capoluogo (anche
se con più di 5.000 abitanti) devono centralizzare
sempre entro fine anno per i beni e i servizi, entro
il 30.06.2015 per i lavori.
Questa è la tempistica, ha detto Zito. Ma sul
territorio è alta l'attesa per un nuovo rinvio.
Opzione che, però, al momento non è sul tavolo
dell'esecutivo.
Naturalmente, non è escluso che il correttivo possa
arrivare dal parlamento, magari in sede di
approvazione del ddl stabilità 2015.
Il problema, puntualmente evidenziato da Zito, è che
le sanzioni per gli enti inadempienti sono di dubbia
efficacia. In teoria, passata inutilmente la
scadenza, il prefetto dovrebbe fissare un termine
perentorio e quindi nominare un commissario ad
acta. Ma quest'ultimo (ammesso che sia
individuato) non potrà far altro che svolgere una
funzione di stimolo. Servirebbero sanzioni più
forti, accompagnate anche da incentivi reali per chi
si aggrega (articolo ItaliaOggi del 12.11.2014). |
aggiornamento al
19.06.2014 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
C'è semplificazione in edilizia. Modelli Scia e
permesso di costruire validi ovunque.
Il via libera dal ministero ai moduli unificati.
Stop alle richieste di documenti.
Un unico modello, valido per tutto il territorio nazionale,
di Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) e
permesso di costruire.
A diffonderli è stato ieri il ministero per la
semplificazione e la pubblica amministrazione che li ha
adottati in forza dell'accordo Italia Semplice siglato il
12.06.2014 tra governo, regioni ed enti locali. In sostanza
dunque, spiega una nota ministeriale, invece degli oltre 8
mila moduli, sinora in uso, ci sarà un solo modulo che, dove
necessario, potrà essere adeguato alle specificità della
normativa regionale.
Tra le altre novità previste, lo stop alla richiesta di
documentazione che l'amministrazione ha già in possesso.
Basterà una semplice autocertificazione o l'indicazione
degli elementi che consentono all'amministrazione di
reperire la documentazione.
Le due versioni dei moduli unificati per la
Scia e il
permesso di costruire prevedono tutta la
casistica degli adempimenti connessi ai due adempimenti su
tutto il territorio nazionale.
Adesso, spiegano dal dicastero, le prossime tappe saranno la
verifica dell'effettiva diffusione del modulo (il risultato
non è raggiunto fino a quando non è percepito da imprese e
cittadini), adottare gli altri moduli per l'edilizia,
l'ambiente e l'avvio delle attività produttive, proseguire
infine con la semplificazione delle procedure connesse alle
attività edilizie.
Intanto, i modelli unificati diffusi ieri puntano ad
agevolare l'informatizzazione delle procedure e la
trasparenza per cittadini e imprese. L'accordo Italia
Semplice lancia un'alleanza istituzionale per riformare la
pubblica amministrazione, attraverso la condivisione tra
governo e autonomie di punti e obiettivi da raggiungere
insieme nei vari livelli e organismi dello stato. L'intesa
prevede il ripensamento dell'organizzazione delle pubbliche
amministrazioni territoriali e nazionali sul territorio e la
valorizzazione del capitale umano quale elemento vitale
della capacità della p.a. di dare risposte certe in tempi
rapidi.
Tra le priorità vi sono: la mobilità intercompartimentale,
la staffetta generazionale, pochi parametri e limiti alla
spesa per il personale, l'adozione di un sistema di regole
per il personale che coinvolga anche le società partecipate,
la realizzazione di un «mercato» organico della
dirigenza su base territoriale, che implichi anche un
intervento sulla disciplina dei segretari comunali e
provinciali, il ripensamento del sistema di accesso e norme
tendenzialmente uniformi per tutti i soggetti che compongono
la p.a. nel suo complesso, la semplificazione per crescere,
ridefinire e rendere semplici le procedure, la
digitalizzazione come unica forma di dialogo fra p.a.,
cittadini e imprese, l'Open data e la trasparenza come
elementi centrali dell'azione amministrativa.
A molte di queste esigenze provano a dare risposta i
provvedimenti (un decreto legge e un ddl) approvati venerdì
scorso dal consiglio dei ministri
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
«Mobilità obbligatoria anche negli enti locali».
Rughetti: dal decreto Pa risparmi per oltre mezzo miliardo.
La forza della riforma della Pa non sta solo nell'attuazione
in tempi certi e brevi del decreto ma anche negli accordi
che dovranno esser siglati in Conferenza unificata per far
camminare le nuove misure anche nelle autonomie. A partire
dalla mobilità obbligatoria, prevista entro una distanza
massima di 50 chilometri per le amministrazioni centrali
dello Stato.
«Noi punteremo a confermare quel limite geografico anche per
la mobilità obbligatoria tra Comuni o Regioni diverse
-spiega Angelo Rughetti, sottosegretario alle
Semplificazioni e la Pa- anche perché questa riforma dovrà
essere attuata in parallelo al riordino delle Province
previsto dalla legge 56».
La legge Delrio (56/2014) prevede il varo entro l'8 luglio
del Dpcm che fisserà i criteri generali per l'individuazione
delle risorse umane e i dei beni strumentali che dovranno
esser trasferiti dalla Province a Regioni, Comuni, Città
metropolitano o Unioni di Comuni.
Un decreto che dovrà
essere adottato d'intesa con la Conferenza unificata: «Questo
passaggio è cruciale e lo utilizzeremo per definire un
modello di quella che dovrà essere la mobilità del personale
tra gli enti locali -dice ancora Rughetti-. L'organicità
della riforma che abbiamo messo a punto sta proprio qui:
nella definizioni di piani industriali territoriali con cui
andremo a ridefinire le articolazioni della Repubblica sui
territori. E con gli accordi in Conferenza unificata
definiremo i budget ottimali e fabbisogni del personale
nelle singole amministrazioni».
Il decreto stanzia risorse per sostenere questo processo
che, se non si realizzerà anche a livello territoriale dove
è impiegato oltre il 40% dei dipendenti pubblici rischia di
rimanere un esercizio limitato: «C'è la priorità dei
settemila posti da coprire negli uffici giudiziari con
personale delle Province -ricorda il sottosegretario- ma i
casi di mobilità mancata da cui dobbiamo uscire sono tanti.
Per esempio, nessun dipendente degli ospedali chiusi nel
Lazio negli ultimi anni è ancora stato trasferito».
Da declinare con gli enti locali sarà, anche, la riforma
della dirigenza. «In questa prospettiva -spiega Rughetti-
la misura che prevede l'aumento dal 10 al 30% della
possibilità di ricorrere a incarichi dirigenziali esterni e
la loro durata va letta nella prospettiva della delega: per
tutti i dirigenti interni e esterni, a regime, la durata
sarà di tre anni più tre per lo stesso incarico».
Il decreto Pa è ancora all'esame della Ragioneria generale
dello Stato per le verifiche tecniche, indispensabili per
l'invio formale alla firma del Colle. La sua pubblicazione
in Gazzetta Ufficiale è attesa entro la fine della
settimana. Dopo quel passaggio si conosceranno, con la
relazione tecnica, le quantificazioni in termini di
risparmio determinato per cittadini, imprese e casse dello
Stato, visto che il decreto, come ha detto due giorni fa
Pier Carlo Padoan, «deve essere letto come un'ulteriore
attuazione della spending review».
Angelo Rughetti anticipa una cifra dei risparmi da cui si
parte: «Siamo oltre il mezzo miliardo, ma si può anche
salire». Il sottosegretario enumera le principali misure
di minor spesa certa «in attesa della Bollinatura della
Ragioneria». C'è il taglio del 50% dei diritti annuali
dovuti dalle imprese alle Camere di Commercio, che vale da
solo 400 milioni, il taglio degli onorari agli avvocati
dello Stato, più di 60 milioni, il dimezzamento dei permessi
e dei distacchi sindacali, altri 60 milioni, l'unificazione
della scuole di formazione, che darà risparmi pari al 20%
della spesa complessiva attuale (non meno di 8 milioni).
«L'elenco della misure che daranno risparmi continua e
stiamo aspettando le quantificazioni -dice ancora Rughetti-
basti ricordare la stretta sulle spese per attività
strumentali delle Authority indipendenti, il taglio ai
diritti di rogito dei segretari comunali, il taglio
ulteriore del 10% alla consulenze» (articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2014). |
APPALTI:
Appalti, autorità spacchettata. Piano Cantone,
entro il 2014 competenze spartite tra Anac e Infrastrutture.
Non sarà una transizione né
facile né breve quella che porterà a un riordino del sistema
di vigilanza degli appalti targata Raffaele Cantone. Chi
pensava che in quattro e quattr'otto si sarebbe chiusa
l'attuale Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp)
per trasferire con un colpo di bacchetta magica tutto nelle
mani del neo presidente dell'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) deve aver sottovalutato il groviglio
di competenze che è necessario districare per dare un
assetto razionale ai nuovi poteri.
Anche perché a giocare la partita sono in molti. A partire
dalla vecchia Avcp, che non si rassegna a passare la mano
completamente al ministero delle Infrastrutture, che da mesi
ha messo nel mirino soprattutto le competenze sulla
qualificazione. Senza dimenticare che anche la magistratura
ha messo sotto inchiesta il sistema Soa (società organismo
di attestazione) e in particolare le finte cessioni di ramo
d'azienda con un'inchiesta che a marzo ha portato la Guardia
di Finanza nelle sedi di tutte le 26 società attive in
Italia.
Ecco allora che le ultime versioni del decreto legge, quelle
in cui evidentemente è passata la mano esperta di Cantone,
sembrano assumere una maggiore dose di realismo e delineare
un percorso che può ridare razionalità al sistema. La
bacchetta magica è sostituita da un piano che Cantone, in
veste di commissario, dovrà mettere a punto entro il
31.12.2014 con l'ausilio di un vice-commissario.
Ad approvare il piano sarà il Consiglio dei ministri e solo
in quel momento l'Avcp sarà soppressa. Oggi Cantone, che va
in audizione alla commissione Lavori pubblici della Camera,
comincerà forse a dire come la pensa. Il testo del decreto,
che peraltro è ancora oggetto di messe a punto a Palazzo
Chigi, comincia già ad abbozzare la spartizione delle future
competenze, ma sarà necessario definire con precisione anche
le categorie stesse che il provvedimento usa.
In particolare alle Infrastrutture andranno le attività di «precontenzioso»
(cioè i pareri non vincolanti sulle gare in corso rilasciati
su richiesta di imprese e Pa, con l'obiettivo di ridurre il
ricorso ai giudici amministrativi) e di «attività
consultiva», che al momento si sostanzia negli atti di
segnalazione che Via Ripetta invia a Governo e Parlamento
sulla normativa (necessità di modifiche o difficoltà di
applicazione).
Un po' paradossale che sia il ministero a dare pareri a se
stesso. Secondo l'ultima versione del testo, all'Anac
andrebbero invece le «funzioni di vigilanza» sul
mercato, le banche dati sui contratti pubblici e i «poteri
sanzionatori». Sembrerebbe doversi desumere che sia il
controllo sulle Soa e sui requisiti delle imprese, sia l'Avcpass,
la banca dati dei requisiti delle imprese che partecipano
alla gara (ancora largamente lacunosa), rientrino nelle
competenze da trasferire all'Anac, anche se le categorie
prescelte non danno certezze in questo senso. Così come non
è chiaro a chi spettino altre attività, soprattutto di
regolazione del mercato, decisive per l'efficientamento
degli appalti: i costi standard, per esempio, o i bandi tipo
che imprese e amministrazioni invocano da anni o i nuovi
compiti in materia di trasparenza e controllo della spesa
pubblica che la legge Severino e l'ultimo decreto Irpef
assegnano proprio all'Authority in via di "soppressione".
Se per l'eredità dell'Avcp le ultime bozze fanno comunque
pensare a un passo avanti, con la cancellazione subordinata
a un piano di riordino, sembra tornare in alto mare il
capitolo sulla riforma delle norme sugli appalti. Clamorosa
sarebbe l'uscita dal testo dell'articolo forse più
significativo, quello che prevedeva la stretta sulle
varianti, con un obbligo di comunicazione proprio all'Anac.
Ma nel lavoro di revisione delle ultime ore, che
evidentemente tiene conto anche di eventuale obiezioni del
Quirinale sulla eterogeneità del provvedimento, rischiano di
saltare anche la cancellazione dell'incentivo del 2% per i
progetti interni alla Pa e l'ammorbidimento dei requisiti
per le gare di progettazione. Confermata la cancellazione
della responsabilità solidale negli appalti. Scende all'1%
la sanzione per le liti temerarie (articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: DECRETO
CRESCITA/
Spoils system a tutto spiano. Rafforzate le possibilità di
nomine intuitu personae. Le
disposizioni in materia di pubblica amministrazione.
Si scrive semplificazione del lavoro pubblico, si legge
estensione senza limiti dello spoils system all'italiana.
Il pacchetto della riforma approvato dal governo il 13
giugno scorso contiene diverse norme io cui scopo non è
tanto semplificare procedure o contenere costi, ma
potenziare a dismisura il potere della politica sugli
apparati amministrativi e dare un potere di nomina intuitu
personae senza alcun vincolo o controllo.
Il disegno di legge delega nei fatti attribuisce alla
politica poteri vastissimi sulla dirigenza, volti a creare,
nella sostanza, una dirigenza se non «schierata» e colorata
politicamente, molto saldamente imbrigliata dal potere del
ministro di turno. Gli strumenti sono tre.
Il primo
riguarderà gli incarichi dirigenziali di vertice. I
dirigenti che vi aspirino, dovranno rispondere a
«interpelli» e i loro curriculum, comprensivi delle
valutazioni, saranno valutati da una Commissione per la
dirigenza pubblica, che li selezionerà sulla base di criteri
da definire. Ma, la Commissione si limiterà a sottoporre ai
ministri una rosa di dirigenti; il disegno di legge prevede
che la legge delegata consenta agli organi politici di
individuare i dirigenti da incaricare sulla base di una
successiva «scelta non motivata», introducendo per la prima
volta il caso di un provvedimento amministrativo del quale
il soggetto che lo adotta non debba dar conto delle ragioni
che ne stanno alla base.
Insomma, al di là della procedura
formale, sarà comunque la politica a scegliersi i dirigenti
che più le piacciono. Il secondo strumento amplia
ulteriormente la possibilità di scelta fiduciaria,
consentendo agli organi politici di incaricare non i
dirigenti di ruolo, ma di assumere a tempo determinato i
dirigenti «a contratto» ai sensi dell'articolo 19, comma 6,
del dlgs 165/2001 «senza previa verifica della disponibilità
di dirigenti di ruolo aventi corrispondenti
caratteristiche». Insomma, anche in questo caso si intende
sottrarre la politica dall'obbligo di spiegare come mai si
assumano dirigenti esterni, sebbene nei ruoli siano presenti
dirigenti, magari privi di incarico, che dispongano
esattamente della professionalità necessaria ai fini
dell'incarico che si intende assegnare (con maggiori oneri
finanziari) a soggetti esterni.
Il terzo strumento consiste nella licenzi abilità dei
dirigenti di ruolo privi di incarico. Per liberarsi dei
dirigenti «scomodi» non sarà necessario utilizzare le
complesse procedure finalizzate a rilevare il mancato
conseguimento degli obiettivi e, dunque, il sistema di
valutazione. Basterà, per esempio, attingere a piene mani
proprio a dirigenti esterni ai ruoli e lasciare quelli di
ruolo senza incarico, per ottenerne senza sforzo il
licenziamento. Con un costo comunque non indifferente,
perché per un certo lasso di tempo i dirigenti senza
incarico percepiranno lo stesso uno stipendio, sebbene
limitato al solo «tabellare», senza cioè la retribuzione di
posizione, legata allo svolgimento di un incarico preciso,
né la retribuzione di risultato, ovviamente connessa alla
capacità di ottenere i risultati connessi a quell'incarico.
Un ulteriore omaggio allo spoils system, inizialmente
previsto è invece saltato. Era la possibilità per i sindaci
di attribuire al personale del proprio staff trattamenti
economici da funzionari, se non da dirigenti, anche se i
destinatari fossero privi dei titoli di studio e
professionali necessari per accedere ai posti con concorsi
pubblici
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO: Più mobilità per i pubblici. Senza il nulla-osta dell'ente
passaggi volontari solo nei ministeri.
Decreto Pa. Niente più consenso del dipendente per i
trasferimenti nello stesso comune o entro i 50 chilometri.
Una spinta forte alla
mobilità obbligatoria, mentre sulla volontaria le novità
sembrano limitarsi a qualche piccola sperimentazione, un
deciso accompagnamento all'uscita dei dipendenti vicini alla
pensione, che rafforza comunque regole già presenti
nell'ordinamento, e un taglio secco ai compensi aggiuntivi
che fino a oggi hanno accompagnato mansioni "ordinarie".
Sul piano dell'attuazione concreta suona così la riforma
della Pubblica amministrazione, almeno nelle bozze circolate
fino a ieri sera in attesa del testo definitivo, per la
parte che riguarda il pubblico impiego.
Sulla mobilità, la regola chiave è quella che considera
unica «unità produttiva» tutti gli uffici collocati nello
stesso Comune o comunque a 50 chilometri di distanza dalla
sede di prima assegnazione del dipendente. Questo significa,
Codice civile alla mano (articolo 2103), che gli spostamenti
in questo raggio possono essere decisi dall'amministrazione
senza il consenso del dipendente.
Il riferimento ai 50
chilometri interessa ovviamente in via quasi esclusiva le Pa
centrali o regionali, ma attenzione: se il dipendente è già
stato trasferito in passato (ma qui il testo della bozza
zoppica parecchio), il nuovo spostamento deve avvenire in un
raggio di cinque chilometri. Sulla mobilità volontaria,
invece, l'addio al nulla osta dell'amministrazione cedente è
per ora limitato, in via sperimentale, alle sedi centrali di
ministeri, agenzie ed enti non economici: una questione solo
romana, insomma, in attesa di sviluppi su un'ipotetica
individuazione dei «fabbisogni standard di personale» delle
Pa.
Decisamente più forti le regole accompagnate dalle tagliole
per cancellare i compensi aggiuntivi di varie categorie di
personale. Oltre ai 347 avvocati dello Stato e ai quasi
4mila segretari comunali, che perdono i «diritti di rogito»
con cui la loro busta paga poteva crescere anche di un terzo
(si veda Il Sole 24 Ore di sabato scorso),
una sforbiciata
drastica arriva per i progettisti interni alle Pubbliche
amministrazioni, che vedono sfumare gli «incentivi Merloni»:
questi "premi", che riguardano decine di migliaia di persone
in tutte le Pa centrali e locali, servivano a incentivare i
progetti realizzati all'interno dell'amministrazione
evitando di affidare consulenze esterne, potevano arrivare
al 2% del valore dell'opera e avevano già subito un taglio
allo 0,5%, poi cancellato. Solo il testo definitivo
permetterà di capire se l'abolizione interverrà per
«competenza», impedendo di fissare premi d'ora in poi, o per
«cassa», cancellando anche gli incentivi già decisi ma non
ancora pagati.
Più variegati, infine, sembrano gli effetti dell'addio tout
court al possibile trattenimento biennale in servizio dopo
il raggiungimento dei requisiti previdenziali, che in
particolare negli enti territoriali era ormai poco usato
perché veniva conteggiato come nuova assunzione nei vincoli
al turn over (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Via libera alle assunzioni nelle società controllate.
Enti locali. Saltano i limiti di spesa.
Liberi tutti nelle
società controllate dagli enti locali, nelle aziende
speciali e nelle istituzioni. Il decreto sulla Pa, almeno
nelle bozze circolate finora, cambia ancora le regole sul
personale e sui cda, e con gli emendamenti approvati al
Senato al decreto Irpef riscrive in due mosse la disciplina
di queste società.
L'apertura più importante arriva sulle assunzioni. Scompare
il tetto che impone al "gruppo" costituito da ente locale e
società controllate di non impegnare nelle spese di
personale più del 50% delle uscite correnti: il limite, come
accadeva nel 2008, torna a riferirsi al solo ente locale,
che viene ora chiamato a «coordinare le politiche assunzionali» di società, aziende speciali e istituzioni per
determinare «una graduale riduzione» dell'incidenza delle
spese di personale sui loro conti. Il vincolo, come si vede,
è molto più morbido, e fa il paio con la modifica appena
intervenuta nel decreto Irpef, che cancella l'applicazione
automatica alle società controllate dei limiti alle
assunzioni previsti per gli enti proprietari.
Anche in
questo caso una regola rigida viene sostituita da
un'indicazione flessibile, con cui si spiega che queste
partecipate «si attengono al principio di riduzione dei
costi del personale». Queste novità rappresentano una buona
notizia soprattutto per le aziende pubbliche con i conti più
in difficoltà, gravate da spese di personale elevate in
rapporto al loro bilancio, o possedute da enti nei quali lo
sforamento del Patto di stabilità o dei limiti
all'indebitamento hanno determinato il blocco delle
assunzioni: blocco che, con le vecchie norme, si sarebbe
esteso in automatico alle realtà controllate.
Queste novità intervengono proprio mentre il commissario
alla spending review Carlo Cottarelli è stato incaricato
(dallo stesso decreto Irpef, all'articolo 23) di scrivere
«un programma di razionalizzazione delle aziende speciali,
delle istituzioni e delle società direttamente o
indirettamente controllate dagli enti locali»; anzi, il
termine del 31 ottobre scritto nel decreto originario per il
varo di questo piano è stato considerato troppo lungo, ed
anticipato al 31 luglio da un emendamento approvato in
Senato.
Ma nel decreto Pa c'è anche un cambio di rotta esplicito nei
confronti della spending review di Monti e Bondi, con
la cancellazione della regola che imponeva di far occupare
da dipendenti dell'amministrazione controllante la
maggioranza dei posti nei consigli di amministrazione (si
veda il Sole 24 Ore di sabato). Nelle bozze si prevede ora
che nei prossimi rinnovi la maggioranza dei consiglieri sia
indicata «d'intesa» tra l'ente proprietario e quello
«proprietario dei poteri di indirizzo e vigilanza»;
difficile al momento prevederne le modalità applicative, ma
resta il fatto che la nomina dei dipendenti, introdotta per
esigenze di risparmio due anni fa (i dipendenti della Pa
devono riversare i gettoni nelle casse dell'ente
controllante), è saltata (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La legge «censisce» gli imballaggi.
Ambiente e rifiuti. Dal 14 giugno i chiarimenti: fuori toner
e custodie dei cd.
Si chiarisce il concetto
di imballaggio. La puntualizzazione è contenuta nel Dm 22.04.2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 136 del 14
giugno e in vigore dalla medesima data.
I chiarimenti sono
importanti soprattutto per quei prodotti che sfuggivano alla
concezione classica e non legislativa di imballaggio o che,
invece, apparentemente, vi rientravano. Ora, ad esempio,
sono inequivocabilmente imballaggi: i pizzi per le torte
(venduti con le torte); i rotoli, i tubi e i cilindri sui
quali è avvolta la pellicola, il foglio di alluminio o la
carta; le grucce per indumenti (vendute con l'indumento) e i
vasi da fiori per la vendita e il trasporto di piante.
Sfuggono viceversa dal concetto legislativo di imballaggio
(tra i molti) le cartucce per stampanti, le custodie per cd,
i macinapepe ricaricabili; le bustine solubili per i
detersivi e i vasi da fiori destinati a restare con la
pianta per tutta la sua durata di vita. Mentre le etichette
adesive apposte su un altro articolo di "packaging" sono
considerate parti di imballaggio, quelle di identificazione
a radiofrequenza (Rifid) non sono imballi.
Il nuovo decreto modifica l'allegato E alla parte quarta del
Codice ambientale (Dlgs 152/2006) e attua la direttiva
2013/2/Ue che ha modificato l'allegato I alla direttiva
"packaging" 94/62/Ce, recepita con il Dlgs 152/2006, parte
quarta. Poiché si tratta di allegati, il recepimento della
direttiva mediante Dm è legittimato dall'articolo 264, comma
2-bis, del "Codice" che vede nel Dm Ambiente, di concerto con
Salute e Sviluppo economico, lo strumento per modificare gli
allegati in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica
dei siti contaminati.
Il chiarimento, in realtà, è riferito ai prodotti, ma quando
questi concludono il loro ciclo di vita diventano rifiuti e
precisamente rifiuti di imballaggio che vanno gestiti
secondo le regole stabilite dalla parte quarta del Codice
ambientale; pertanto, si è potuto procedere mediante
decreto. Le nuove disposizioni integrano e modificano gli
esempi posti alla base dei criteri interpretativi e già
presenti al n. 2, allegato E, parte quarta, Dlgs 152/2006.
Il decreto e la direttiva hanno eliminato alcune incertezze
e fatto chiarezza essendo i vari esempi molto più ampi e
puntuali: così gli Stati membri sono più allineati nella
identificazione degli imballaggi e dei rifiuti che derivano
dal loro utilizzo per una migliore e paritetica applicazione
della disciplina anche in materia di import-export dei
rifiuti (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
CONDOMINIO: Parti comuni, cambi difficili. La convocazione deve arrivare
per raccomandata o per mail certificata.
I locali accessori. Per variare la destinazione l'avviso di
assemblea va affisso almeno 30 giorni prima.
Maggioranza speciale e
regole di convocazione dell'assemblea differenti rispetto a
quelle ordinarie per il cambio di destinazione d'uso in
condominio.
Con la riforma (la legge 11.12.2012, n.
220, entrata in vigore il 18.06.2013) è diventato
più difficile che in passato variare la finalità a cui sono
adibiti locali e porzioni di immobili comuni. Si pensi, ad
esempio, al cambio di destinazione d'uso dei locali di
portineria e alloggio del portiere, quando sia stato
soppresso il servizio di portierato.
Partiamo dalle regole per approvare la variazione. Nel
regime anteriore alla legge 220/2012, la modifica avveniva
con la stessa maggioranza prevista dall'articolo 1136,
quinto comma del Codice civile, per le innovazioni. Cioè la
maggioranza dei condomini oltre ai due terzi dei millesimi.
Da un anno il quadro è cambiato. L'articolo 1117-ter del
Codice civile, introdotto dalla legge di riforma, stabilisce
infatti che la destinazione d'uso delle parti comuni possa
essere modificata «con un numero di voti che rappresenta i
quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro
quinti del valore dell'edificio».
Pertanto è necessaria la maggioranza per i cambi di
destinazione d'uso.
Anche la nuova norma, comunque, ribadisce comunque che il
cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla
stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di
tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
Comunque si sia arrivati alla versione finale del testo
dell'articolo 1136, il risultato è che oggi il riuso di
spazi condominiali non più utilizzati è ostacolato,
piuttosto che agevolato.
Oltre alle maggioranze, sono più stringenti rispetto alla
situazione antecedente anche i termini di convocazione
dell'assemblea.
L'avviso d'indizione deve essere affisso per non meno di 30
giorni consecutivi nei «locali di maggior uso comune o negli
spazi a tale fine destinati».
La comunicazione ai singoli proprietari, invece, deve
arrivare mediante lettera raccomandata o mezzi telematici
equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo. Ciò significa
che non dovrebbe essere ammesso un semplice fax o la
consegna a mano.
Infine, all'interno della convocazione è necessario indicare
quali siano le parti comuni oggetto della modificazione e
quale la nuova destinazione d'uso proposta. Pena la nullità
della convocazione.
Sulla conseguente e logica nullità anche della delibera
(eventualmente approvata nel corso di una riunione nulla)
non c'è, invece, ancora chiarezza. Ma quasi certamente
toccherà alla magistratura offrire, di fronte al presentarsi
di casi concreti, le prime indicazioni sul punto.
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Passo per passo
01|LA MAGGIORANZA
Per approvare un cambio di destinazioni d'uso, dopo la
riforma, occorre il consenso dei quattro quinti dei
partecipanti al condominio, che rappresenti almeno i quattro
quinti dei millesimi
02|I LIMITI
Il cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla
stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di
tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
03|L'ASSEMBLEA
L'avviso di convocazione deve essere affisso per non meno di
30 giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o
negli spazi a tale fine destinati mentre la comunicazione ai
singoli proprietari deve arrivare per raccomandata o mezzi
telematici equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo.
Quindi risultano inammissibili il fax o la consegna a mano.
04|I CONTENUTI
Nella convocazione è necessario indicare quali siano le
parti comuni oggetto della modificazione e quale la nuova
destinazione d'uso proposta, pena la nullità della
convocazione (articolo Il
Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
CONDOMINIO: L'antenna
satellitare ammessa nel rispetto del decoro della casa.
Che cosa fare se un
condomino ha installato un'antenna satellitare facendo
passare i cavi in ogni dove e i suoi vicini se ne lamentano?
In casi del genere, l'assemblea potrebbe risolvere il
problema.
Nel marasma di «padelloni» che spesso infestano le facciate
interne degli edifici, la lamentela principale ha riguardato
l'alterazione del decoro. All'amministratore spetta la prima
valutazione dello stato dei luoghi e un compito: spiegare ai
condomini che il decoro architettonico cede il passo al
diritto all'informazione. Non solo: è sempre utile ricordare
che la valutazione della lesione del decoro architettonico
dev'essere eseguita tenendo in considerazione la percezione
comune di determinate opere ed installazioni (giudice di
pace di Grosseto, sentenza 1038 del 19.08.2011);
parabole, condizionatori e simili, dice la sentenza, sono
percepiti come normali impianti che non sono in grado
d'incidere oltremodo sull'aspetto del condominio.
Insomma
considerare violazione del decoro l'installazione di
un'antenna parabolica non è cosa così scontata.
In questo contesto la riforma del condominio ha previsto un
rimedio, passato sotto silenzio: l'articolo 155-bis delle
Disposizioni di attuazione del Codice civile. Partiamo
dall'articolo 1122-bis del Codice. Tale norma riguarda gli
impianti installati dopo il 18.06.2013 (entrata in
vigore della legge 220/2012 di riforma del condominio). Per
quelli installati prima di tale data, però, le norme codicistiche prevedono un rimedio specifico; è qui che
assume rilievo l'articolo 155-bis delle Disposizioni.
La
norma, infatti, consente all'assemblea di deliberare –con
le maggioranze semplici previste per la prima e seconda
convocazione– le prescrizioni necessarie a far sì che gli
impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva
e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo (anche da satellite e via cavo) non rechino
pregiudizio alla sicurezza, alla stabilità e al decoro
dell'edificio. In sostanza, per tutti i casi analoghi,
l'assemblea può imporre l'adozione di accorgimenti con spese
a carico del condomino interessato. L'amministratore cui è
stata segnalata una situazione simile, quindi, avrà il
compito di convocare l'assise per le più opportune decisioni
in merito.
Si badi che le prescrizioni assembleari devono attenere
all'uso delle cose comuni sicuro e alla salvaguardia del
decoro senza mai potersi spingere al dettato di accorgimenti
che, di fatto, vanificherebbero il diritto d'uso del
singolo. Quindi al condomino che ritiene le prescrizioni
lesive dei propri diritti spetta sempre il rimedio
dell'impugnazione della delibera assembleare.
--------------
I punti chiave
01|I RISCHI
Le antenne televisive poste a servizio delle singole unità
immobiliari sono in grado di alterare il decoro
architettonico dell'edificio
02|IL RIMEDIO
Le norme permettono di ovviare al problema anche per gli
impianti installati prima dell'entrata in vigore della
riforma; l'amministratore convoca l'assemblea e la stessa, a
maggioranza semplice, può deliberare l'adeguamento degli
impianti
03|L'IMPUGNAZIONE
Il condomino cui sono rivolte le prescrizioni può
contestarle in assemblea e comunque impugnare la
deliberazione (articolo Il
Sole 24 Ore del 17.06.2014). |
aggiornamento al
21.05.2014 |
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APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Niente stop agli incentivi se il Durc è negativo.
Il Durc dice addio alla carta. Il dl n. 34/2014, infatti, ha
trasformato in versione telematica il documento unico di
regolarità contributiva. Perciò, ferma restando la validità
di quattro mesi, il documento unico di regolarità
contributiva si potrà scaricare da internet tagliando in
questo modo circa cinque milioni di certificazioni su carta.
Altra novità interessante è il diritto, per le imprese prive
di regolarità contributiva, di ricevere comunque le
agevolazioni. Tuttavia, prima di finire nelle casse
aziendali, gli incentivi salderanno le scoperture
contributive.
Per regolarità contributiva s'intende la correttezza nei
pagamenti e adempimenti previdenziali, assistenziali e
assicurativi (Inps e Inail, nonché casse edili nel caso di
imprese di tale settore) con riferimento ai tutti gli
obblighi ricadenti sull'intera situazione aziendale. Il Durc
è un certificato che attesta tale regolarità per un'impresa.
La regolarità contributiva (ossia il possesso del Durc da
parte dell'azienda) è richiesta in diversi casi: appalti,
lavori edili ecc. La Finanziaria 2007 (art. 1, comma 1175,
della legge n. 296/2007) ha esteso tale vincolo anche ai
benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa
in materia di lavoro e legislazione sociale, fermo restando
il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali
nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali.
La legge n. 98/2013 (conversione del dl n. 69/2013) ha
previsto che alle erogazioni di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di
qualunque genere, compresi quelli di cui all'art. 1, comma
553, della legge n. 266/2005 (cioè i benefici e le
sovvenzioni comunitarie per la realizzazione
d'investimenti), da parte di pubbliche amministrazioni, per
le quali e «prevista» l'acquisizione del Durc, si applicano
«in quanto compatibili» le previsione del comma 3 dell'art.
31 della stessa legge.
Quest'ultima norma disciplina il c.d.
«intervento sostitutivo», vale a dire l'obbligo per le
pubbliche amministrazioni di trattenere dal pagamento da
fare a un'impresa non in regolarità contributiva, l'importo
corrispondente alle inadempienze evidenziate dal Durc. In
pratica è previsto che in presenza di un Durc negativo con
irregolarità nei versamenti dovuti a Inail, Inps o casse
edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano all'impresa
debitrice (appaltatrice o subappaltatrice avente) e
procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito
contributivo (a Inps, Inail o casse edili) trattenendo il
relativo importo dal corrispettivo dovuto in forza
dell'appalto.
La legge n. 98/2013, dunque, ha esteso l'utilizzo di questa
disciplina (l'intervento sostitutivo) prevedendone
l'applicazione «in quanto compatibile» anche alle
amministrazioni pubbliche che erogano contributi,
sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici
di qualunque genere per i quali sia «prevista»
l'acquisizione d'ufficio del Durc.
Il dl n. 34/2014 interviene proprio su questa norma della
legge n. 98/2013. Due le novità. La prima rende obbligatorio
il Durc a tutte le erogazioni di sovvenzioni, contributi,
sussidi, ausili finanziarie e vantaggi economici di
qualunque genere, compresi benefici e sovvenzioni Ue per la
realizzazione d'investimenti. La seconda rende obbligatoria
negli stessi casi l'intervento sostitutivo. La conseguenza
più interessante sembra quella a favore delle aziende. Fino
al 21 marzo, infatti, era previsto che in caso di Durc
negativo l'azienda non avesse diritto a incentivi per un
mese ovvero, in caso di Durc positivo, ne avesse diritto per
quattro mesi.
In altri casi, l'assenza di regolarità contributiva negava
addirittura l'accesso a un bando di assegnazione di
agevolazioni: è il caso, per esempio, dei finanziamenti
Inail (Isi). In questi due esempi, allora, le modifiche del
dl n. 34/2014 comportano che l'azienda è comunque e sempre
ammessa agli incentivi, cioè anche se in possesso di Durc
negativo. Però, con l'obbligatorietà dell'intervento
sostitutivo, Inps o Inail prima di erogare materialmente gli
incentivi, copriranno le scoperture contributive
(articolo ItaliaOggi Sette del
19.05.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Via libera condizionato ai contratti decentrati. Gli
integrativi irregolari possono ancora essere pagati.
Pubblico impiego. La circolare del 12 maggio blocca le
misure del Dl salva-Roma.
Il primo tentativo di
risolvere le diffuse irregolarità dei fondi e dei contratti
decentrati negli enti locali, contenuto nell'articolo 4 del
Dl 16/2014, si scontra con un immediato stop da parte del
Governo. I motivi –specificati nella
circolare
12.05.2014 n. 60 di prot., firmata dai ministri per gli Affari regionali,
Maria Carmela Lanzetta, per la Semplificazione e la pubblica
amministrazione, Marianna Madia, e dell'Economia, Pier Carlo
Padoan– trovano origine nella «particolare complessità e
stratificazione della disciplina», con la conseguente
costituzione di un comitato temporaneo in Conferenza
unificata che dovrà fornire indicazioni operative anche
attraverso interventi normativi e direttive all'Aran.
Sembra evidente che il percorso prospettato richiederà molto
tempo, tanto è vero che viene introdotto un periodo di
sostanziale moratoria. Dietro al paravento della garanzia
dei servizi, si è colta l'occasione per sdoganare
(temporaneamente e salvo recupero) tutte le clausole
contrattuali vigenti, anche se evidentemente viziate.
Si tratta quindi di una sanatoria ex ante di tutti i
comportamenti adottati da oggi in poi e che trovano origine
nei contratti decentrati firmati prima della circolare. A
ben guardare, non si tratta di una semplice moratoria visto
che rimane l'obbligo di recupero, ma di un sostanziale
lasciapassare per i dirigenti che oggi sono chiamati ad
applicare contratti decentrati di dubbia legittimità.
L'obiettivo, neppure troppo velato, è quello di sollevare i
responsabili del personale dal rischio di danno erariale
derivante da colpa grave.
Perché proprio oggi è necessario garantire questa immunità?
Perché cominciano a far sentire i loro effetti i verbali
della Ragioneria dello Stato: è chiaro che un dirigente, a
fronte di illegittimità rilevate in sede ispettiva, non può
più far finta di niente e perpetrare comportamenti
consolidati. In caso contrario ne risponderebbe in prima
persona. Questo implica, quantomeno, la sospensione delle
clausole contestate con la conseguente riduzione dello
stipendio variabile per la generalità dei dipendenti.
Di cosa si tratta in pratica? Principalmente delle
progressioni orizzontali stratificate nel tempo e
riconosciute senza la necessaria selettività. Se a queste
aggiungiamo i compensi che, seppure previsti nel contratto
collettivo, sono stati male applicati (come rischio,
disagio, responsabilità) e quelli nati dalla fervida
fantasia che ha caratterizzato i tavoli della contrattazione
decentrata (ad esempio, indennità di sportello, servizi
aggiuntivi, indennità di chiamata, indennità di divisa) si
può arrivare tranquillamente a una riduzione dello stipendio
mensile del 20-30 per cento.
La situazione, già molto precaria, è stata ulteriormente
aggravata dall'innesto della riforma Brunetta che imponeva
la revisione dei contratti decentrati con l'obiettivo di
enfatizzare gli istituti incentivanti legati alla
performance. Riforma che, a distanza di anni e nonostante il
riverbero mediatico, è inascoltata anche nelle realtà più
grandi. L'inadempienza, troppo spesso sottovalutata,
travolge, al contrario, l'intero contratto decentrato
rendendo fin troppo facile la vita agli ispettori.
Ma per garantire tutto questo, è sufficiente una circolare,
seppure a firma di tre ministri? Difficilmente il dirigente
potrà soprassedere al testo normativo e ad anni di
giurisprudenza e orientamenti consolidati.
---------------
Caos recupero sugli stipendi.
I limiti. Difficile rispettare la prescrizione di riprendere
le somme versate in base a clausole di dubbia legittimità.
La circolare
interministeriale 60 del 12 maggio autorizza il pagamento
delle indennità previste nei contratti decentrati vigenti,
anche di dubbia legittimità, ma necessarie per garantire i
servizi indispensabili. A due condizioni:
1- in via temporanea
2- e salvo recupero.
Già sulla temporaneità si nutrono forti dubbi: il lavoro del
comitato, che deve tendere a proporre soluzioni
interpretative uniformi dell'articolo 4 del Dl 16/2014,
appare alquanto arduo e, quindi, difficilmente risolvibile
nel breve periodo. Sul recupero, le perplessità diventano
quasi certezze in quanto sarà molto improbabile dar corso
alla previsione della circolare. Le possibilità sono due: la
riduzione del fondo per le risorse decentrate o la
restituzione da parte dei dipendenti.
Per quanto riguarda i fondi, il Dl 16/2014 rappresenta una
sorta di sanatoria per il passato, ma impone un
comportamento irreprensibile per il futuro. Per questo il
dirigente responsabile sarà obbligato a ricalcolare il suo
ammontare per riportarlo a quell'importo che risulta dalla
puntuale ricostruzione storica, sulla base di
interpretazioni prudenziali delle previsioni contrattuali.
L'operazione è tutt'altro che indolore: spesso vuol dire
eliminare somme considerevoli e, quindi, anche il fondo
risulta decurtato in modo sensibile.
Se sulla carta il sistema potrebbe anche funzionare, in
pratica ci sono grossi problemi. In molti casi le risorse
stabili del fondo sono appena sufficienti a garantire gli
utilizzi stabili (progressioni, comparto e retribuzione di
posizione), atteso che nei periodi di risorse abbondanti non
si sono lesinati gli incentivi stabili a scapito di quelli
variabili. Se a questi si aggiungono le risorse necessarie
per il pagamento di turni e reperibilità, quello che rimane
non è di certo sufficiente ad assorbire i recuperi. Ne
consegue che l'operazione sui fondi teorizzata dal Dl
salva-Roma potrebbe richiedere molti anni determinando
l'azzeramento della produttività e il sostanziale fallimento
del sistema.
L'alternativa potrebbe consistere nel recupero sugli
stipendi dei dipendenti. Pur volendo prescindere dal dettato
dello stesso Dl salva-Roma, l'esperienza insegna che
politicamente è molto difficile, se non impossibile, ridurre
sensibilmente e per lunghi periodi gli stipendi alla
generalità dei dipendenti. Stipendi fermi dal 2010 a seguito
del blocco dei contratti collettivi e che risentono del
contenimento dei fondi (articolo Il Sole 24 Ore del
19.05.2014). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Fine mandato, relazione alle sezioni regionali.
Bilanci. Servono istruzioni dalla Corte.
Cambiano le regole sulla
relazione di fine mandato dei sindaci: la legge 68/2014, di
conversione del Dl salva-Roma ter, rivedendo la disciplina
in materia, ha assegnato alla sezione regionale di controllo
il ruolo di destinatario "giudicante".
Il maggior problema è rappresentato dalla mancata
definizione del ruolo che andranno a svolgere in materia le
sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Un
silenzio nei confronti del quale spetterà allo stesso
giudice contabile rimediare. Ciò in quanto ogni sezione
regionale dovrà necessariamente esprimersi, deliberando in
proposito, quantomeno in termini di rispetto o meno dei
tempi e delle procedure seguite dai Comuni.
Un dovere
ineludibile, considerata la ratio legislativa intesa a
riconoscere negli organi di giustizia erariale la migliore
garanzia sull'operato finale dei sindaci. Un tale
adempimento è peraltro dovuto, considerato lo stretto
rapporto di analisi che lega i "saldi" giuridici ed
economici, da rappresentare nel format ministeriale della
relazione di fine mandato, con gli adempimenti routinari
affidati alle sezioni regionali di controllo dall'articolo
148-bis del Tuel e dall'articolo 6, comma 2, del Dlgs n.
149/2011.
È necessario, quindi, che la sezione delle Autonomie approvi
rapidamente linee guida ad hoc, per determinare
comportamenti uniformi sul territorio nazionale.
Quanto auspicato è in linea con quanto sancito nell'articolo
6, comma 4, del Dl n. 174/2012 secondo cui «in presenza di
interpretazioni discordanti delle norme rilevanti per
l'attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di
questioni di massima di particolare rilevanza, la sezione
delle Autonomie emana delibera di orientamento alla quale le
Sezioni regionali di controllo si conformano».
Ci si augura, pertanto, un chiarimento "filo istruttorio" su
questi punti: la definizione dei termini in relazione alla
loro perentorietà o meno; il limite che separa la mancata
presentazione dalla non conformità e/o dalla non esauriente
redazione della relazione; la necessità di chiarire se
l'obbligatorietà della sottoscrizione si estenda alla
certificazione e/o alla trasmissione, o anche –in termini
di sanzione economica– se questa vada posta a carico dei
soggetti tenuti alla redazione della relazione nell'ipotesi
di successiva mancata sottoscrizione della stessa da parte
del sindaco (articolo Il Sole 24 Ore del
19.05.2014). |
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Cresce il plafond degli incentivi destinati ai contratti di
solidarietà.
Tra le varie misure
contenute nel decreto legge 34/2014 a vantaggio delle
imprese, appaiono particolarmente interessanti i
provvedimenti con cui si interviene sulla disciplina del
documento unico di regolarità contributiva (Durc) e
sull'impianto a sostegno degli incentivi connessi ai
contratti di solidarietà (Cds).
Le due norme sono orientate da logiche ben chiare:
semplificazione e trasformazione per il Durc, destinato a
smaterializzarsi; rivisitazione della normativa riferita
alle agevolazioni per i contratti di solidarietà,
stanziamento di maggiori risorse per i relativi incentivi e
uniformazione della misura.
La rivisitazione del Durc è disciplinata dall'articolo 4 del
decreto, con cui il governo si prefigge di far rivivere un
progetto non nuovo: convertire il documento unico di
regolarità contributiva in una semplice interrogazione
online che ognuno, compresa l'impresa interessata, potrà
eseguire dal proprio computer.
La sua realizzazione passa, in pratica, attraverso
l'apertura delle banche dati in cui sono memorizzate le
informazioni che servono a controllare se un determinato
soggetto è in regola con i vari versamenti. Sarà possibile
verificare, in tempo reale, la posizione dei contribuenti
nei riguardi di Inps e Inail nonché, per le imprese
interessate, anche della Cassa edile. Al momento, in realtà,
si tratta soltanto di una previsione: sarà, infatti, un
decreto interministeriale (Lavoro-Economia) –la cui
emanazione è prevista entro 60 giorni dall'entrata in vigore
del Dl 34, avvenuta il 21.03.2014– a dettare le regole.
Una volta che l'impianto sarà funzionante, l'interessato
potrà controllare online la regolarità. L'esito varrà 120
giorni e le sue risultanze sostituiranno a ogni effetto il
Durc, in tutti i casi in cui lo stesso è previsto, ad
eccezione delle ipotesi di esclusione individuate dal
decreto. Saranno, altresì, eseguibili le verifiche disposte
in materia dal codice dei contratti pubblici. In tale ambito
è determinante acquisire informazioni relative ai soggetti
coinvolti che, se hanno commesso violazioni gravi
definitivamente accertate alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali, potranno essere
esclusi dalle gare di affidamento delle concessioni, degli
appalti e dei subappalti.
La norma, inoltre, aggiunge che dalla data di entrata in
vigore del decreto interministeriale di regolamentazione,
ogni disposizione di legge incompatibile con le previsioni
del decreto lavoro sarà abrogata.
Attualmente le stazioni appaltanti possono verificare online
il possesso dei requisiti di capacità generale e
tecnico-economica delle imprese. Il controllo si esegue
accedendo alla Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp)
operativa presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici (Avcp). Per rendere possibile lo scambio di
informazioni telematiche tra le stazioni appaltanti e le
imprese che vogliono partecipare a pubbliche gare d'appalto
di lavori, forniture e servizi, è stata realizzata una
piattaforma telematica denominata Avcpass. Previa
registrazione, il sistema permette alle stazioni
appaltanti/enti aggiudicatori l'acquisizione della
documentazione comprovante il possesso dei requisiti di
carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario per l'affidamento dei contratti
pubblici; consente, inoltre, agli operatori economici di
inserire a sistema i documenti richiesti dalle procedure di
affidamento.
Nella delibera 111/2012, l'Autorità ha, tra l'altro,
affermato che nella documentazione comprovante il possesso
dei requisiti generali (articoli 38 e 39 del codice) figura
anche il Durc fornito dall'Inail. Stante, dunque, quanto
previsto dal Dl 34/2014, quando sarà pronto il decreto di
regolamentazione del Durc smaterializzato, il passaggio all'Avcpass
non dovrebbe più essere obbligatorio in quanto sarà
sufficiente l'interrogazione online.
Il decreto lavoro si interessa anche dei contratti di
solidarietà accompagnati da Cigs. La crisi economica che ha
coinvolto il nostro Paese in questi ultimi anni ha visto
crescere in maniera esponenziale il ricorso all'istituto del
contratto di solidarietà come possibile strumento per la
salvaguardia occupazionale.
Preso atto di questa realtà, con le nuove disposizioni si
prevede un piccolo ma interessante maquillage delle regole
inerenti l'accesso alle agevolazioni contributive a supporto
dei Cds, si aumenta (triplicandolo) il plafond per
finanziare gli incentivi e, parallelamente, si prevede
un'agevolazione con misura uniformata che non tiene più
conto delle diverse percentuali di riduzione dell'orario
contrattuale, né della collocazione territoriale delle
imprese (articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2014). |
APPALTI:
Nei comuni acquisti centralizzati.
Causa mafia.
Scioglimento dei comuni per mafia, si cambia: per quelli
«riabilitati» scatterà l'obbligo di realizzare centrali
uniche per acquisti e appalti. E un salto di qualità lo
faranno i segretari comunali, la cui figura (di controllo)
avrà «un senso» nell'assicurare la correttezza delle
procedure.
È Filippo Bubbico, viceministro all'interno, ad
anticipare i contenuti di un provvedimento in tempi stretti
all'esame del Cdm, nel corso di una visita effettuata ieri,
a Reggio Calabria.
Non manca molto alla messa in opera del restyling sullo scioglimento delle giunte in cui le
organizzazioni criminali hanno allungato i tentacoli,
condizionandone l'andamento e i servizi, giacché, riferisce,
«siamo nella fase conclusiva della concertazione», laddove
il Viminale da un lato ed il dicastero della giustizia
dall'altro «hanno già condiviso un testo. Ora aspettiamo il
passaggio conclusivo del Mef per gli aspetti relativi alla
copertura delle spese conseguenti, anche in relazione alle
innovazioni introdotte», quali, appunto, il vincolo di
canali unici per il controllo delle forniture, degli
incarichi e l'assegnazione delle concessioni per effettuare
i lavori pubblici.
Nuova vita, dunque, per gli enti su cui
le mafie hanno avuto influenza (il cui numero aumenta,
sottolinea nel capoluogo calabrese), mediante un iter di
«riabilitazione democratica», esteso anche ad «organismi
istituzionali e ai momenti decisionali propri delle
amministrazioni locali, a partire dalla gestione degli
appalti e dell'affidamento di commesse all'esterno».
Necessarie, secondo l'esponente governativo, «procedure di
qualità, di verifica costante sulla correttezza dei
procedimenti amministrativi, e occorre dare anche un senso
al ruolo ed alla funzione dei segretari comunali e
restituire anche momenti di controllo non sul merito delle
decisioni, ma sulla legittimità degli atti e anche il
controllo di natura contabile e di natura finanziaria».
E,
all'orizzonte, c'è anche la Carta dei diritti dei testimoni
di giustizia che, prosegue Bubbico, sarà stilata da una
commissione composta da sociologi, avvocati, magistrati e
funzionari del servizio centrale di Protezione, che nei
prossimi sei mesi rivaluterà strumenti per garantire loro
sicurezza e «risarcirli» per i disagi tollerati
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2014). |
APPALTI: Fattura elettronica, il Senato chiede i codici solo dal 2015.
Dl Irpef. Emendamenti bipartisan.
Lavori in corso per
evitare che la partenza della fatturazione elettronica si
trasformi in un boomerang per i fornitori della Pa. Una
serie di emendamenti trasversali al decreto Irpef presentati
al Senato punta a prorogare e correggere le norme che
rischiano di bloccare i pagamenti nel caso in cui le nuove
fatture telematiche non contengano il Codice identificativo
di gara (Cig) e il Codice unico di progetto (Cup).
Come noto, il 6 giugno prossimo scatta l'obbligo
dell'utilizzo della fattura nei rapporti con ministeri,
agenzie fiscali ed enti di previdenza. Il Dl anticipa
inoltre al 31.03.2015 (dal 06.06.2015) l'obbligo per
forniture verso tutte le altre Pa. Ma un'altra delle novità
introdotte dal decreto, cioè l'obbligo per i fornitori di
inserire nelle fatture il Cig e il Cup, ha fatto scattare
nelle ultime settimane l'allarme delle imprese, dai più
piccoli ai più grandi fornitori della Pa.
Il problema è finito al centro di alcuni emendamenti che
mirano in prima battuta a rinviare l'obbligo di riportare i
codici dal 06.06.2014 al 31.03.2015 (in subordine, le
imprese propongono di spostarlo fino a 180 giorni dalla data
di entrata in vigore della legge di conversione). E,
inoltre, secondo emendamenti analoghi presentati da Pd, Ncd,
Forza Italia e gruppo Per l'Italia, in assenza di codici la
Pa sono legittimate a non pagare solo se in precedenza
avevano comunicato queste informazioni ai fornitori.
Su questi aspetti ci sono stati diversi incontri a livello
tecnico, anche con Ragioneria dello Stato, Agenzia delle
entrate, Agenzia per l'Italia digitale e con gli altri
attori che partecipano al Forum italiano sulla fatturazione
elettronica. Il decreto introduce l'obbligo di prevedere nei
documenti digitali Cig e Cup con l'obiettivo, sollecitato
dalla Ragioneria, di avere in automatico un continuo
monitoraggio dell'avanzamento della spesa per singoli
progetti e unità organizzative. Un fine condivisibile,
secondo le stesse imprese, perché consentirebbe di avere
finalmente un quadro certo dei pagamenti arretrati e di
mettere fine al fenomeno dei debiti fuori bilancio.
Il
problema è rappresentato dai tempi, estremamente stretti per
chi ha già effettuato investimenti per adeguare i sistemi
informatici, e soprattutto dalla previsione del divieto di
pagamento da parte delle Pa in caso di mancato inserimento
dei codici. I fornitori potrebbero in realtà non disporne,
dal momento che la normativa di riferimento (relativa alla
tracciabilità finanziaria) ne prevede solo l'inserimento
nelle operazioni di pagamento da parte delle Pa ma non
dispone un esplicito obbligo di comunicarli ai fornitori.
Insomma: in assenza di modifiche, da giugno le imprese
potrebbero avere l'obbligo di mettere in fattura dati che
non hanno mai ricevuto e che per altro sono in già possesso
dei committenti (articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2014). |
ENTI LOCALI - VARI: Autovelox, gli scatolotti sono ok.
Nessuna disposizione normativa impedisce ai comuni di
installare gli armadietti porta autovelox dove meglio
credono. Anche come semplici dissuasori. Purché ogni tanto
venga effettivamente realizzato qualche controllo di polizia
stradale ospitando un misuratore al loro interno. E nella
segnaletica di preavviso non vengano impiegati marchi che
trasformano il segnale in pubblicità.
Lo ha confermato il
Ministero dei trasporti con due distinti pareri nn. 1638 e
1870 rispettivamente dell'8 e 18.04.2014.
Nonostante le
diverse indicazioni del ministro Lupi il suo dicastero
continua a sostenere la legittimità di queste installazioni.
Almeno fin tanto che non intervenga una possibile modifica
normativa che potrebbe essere contenuta nell'imminente
decreto interministeriale sulle multe all'esame in questi
giorni della Conferenza stato-città. La questione dei finti
autovelox si è infiammata dopo una trasmissione televisiva
che ha evidenziato un impiego eccessivo di manufatti in
materiale plastico realizzato in alcuni comuni.
Il ministro
delle infrastrutture ha quindi preso posizione specificando
sul suo blog il 26 marzo scorso che «gli autovelox finti non
possono essere comprati e installati dai comuni. La
limitazione alla velocità è prevista con appositi cartelli,
previsti a livello europeo. Quei comuni che stanno
utilizzando questi finti autovelox se ne assumono la
responsabilità».
Con i due pareri in esame il suo dicastero
contraddice questa posizione in linea con i precedenti
orientamenti già espressi sul delicato tema negli ultimi
anni. I manufatti porta autovelox non devono essere
omologati o approvati e possono essere installati su
qualsiasi tratto di strada, specifica il Mit, nel rispetto
delle più elementari regole sulla sicurezza e dell'obbligo
dell'eventuale presenza degli agenti in caso di strada non
ammessa al controllo automatico.
Nessuna disposizione ne vieta l'uso anche come semplici
dissuasori, prosegue il ministero, «a condizione che
ospitino anche non continuativamente i dispositivi di
controllo della velocità dei veicoli». Attenzione però ai
segnali di avvertimento. L'uso di marchi registrati è
vietato e trasforma il segnale in pubblicità (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Input a forme associative da risorse per i dipendenti.
In caso di trasferimento di personale da un comune a
un'unione di comuni, le risorse già quantificate sulla base
degli accordi decentrati e destinate nel precedente anno a
finanziare istituti contrattuali collettivi ulteriori
rispetto al trattamento economico fondamentale confluiscono
nelle corrispondenti risorse dell'unione.
Lo prevede l'art.
1, comma 114, della legge 56/2014 (c.d. legge Delrio), con
l'evidente obiettivo di agevolare il percorso di
costituzione delle forme associative che (insieme alla
convenzioni) dovranno svolgere, entro fine anno, quasi tutte
le funzioni fondamentali (restano fuori solo anagrafe, stato
civile e servizi elettorali) spettanti ai piccoli comuni.
Per la verità, la norma non distingue e, quindi, si applica
a tutte le unioni, comprese quelle di cui fanno o faranno
parte comuni con popolazione superiore alle soglie
demografiche sotto le quali scatta l'obbligo di gestione
associata (5.000 abitanti in pianura, 3.000 per quelli
appartenenti o appartenuti a comunità montane, salvo diversa
decisione assunta dalle regioni).
Viene così introdotta una modifica alla disciplina
contrattuale che regola il passaggio di personale dai comuni
alle unioni: in particolare, ad essere superata è la
disciplina di cui all'art. 13, comma 4, lett. a), del Ccnl
del 22/1/2004, in base alla quale, in sede di prima
applicazione, le unioni definiscono le risorse finanziarie
destinate a compensare le prestazioni di lavoro
straordinario e a sostenere le politiche di sviluppo delle
risorse umane e della produttività, relativamente al
personale assunto direttamente (anche per mobilità), sulla
base di un valore medio pro capite ricavato dai valori
vigenti presso gli enti aderenti per la quota di risorse
aventi carattere di stabilità e di continuità.
Relativamente
al personale temporaneamente messo a disposizione dai
medesimi comuni, invece, il Ccnl prevede un trasferimento di
risorse per il finanziamento degli istituti tipici del
salario accessorio e con esclusione delle progressioni
orizzontali, dagli stessi enti, in rapporto alla
classificazione dei lavoratori interessati e alla durata
temporale della stessa assegnazione; l'entità delle risorse
viene periodicamente aggiornata in relazione alle variazioni
intervenute nell'ente di provenienza a seguito dei
successivi rinnovi contrattuali.
La novella legislativa è sicuramente migliorativa, ma non
basta a risolvere tutte le problematiche che la costituzione
delle unioni pone rispetto al passaggio delle risorse umane
coinvolte nell'esercizio delle funzioni da trasferire. In
molti casi, infatti, il fondo per la contrattazione
decentrata delle costituende unioni rischia di non essere
abbastanza capiente per coprire tutte le esigenze del nuovo
ente e garantire l'ottimale riorganizzazione del personale.
L'ostacolo principale deriva dai restrittivi vincoli di
spesa previsti dalla legge statale, che al 31.12.2014
impone il blocco del fondo all'importo dell'anno 2010 (oltre
all'automatica riduzione dello stesso in misura
proporzionale alla riduzione del personale in servizio).
Per esemplificare quali criticità possano emergere nella
pratica, si pensi al caso di tre comuni di 4.500, 1.000 e
800 abitanti che intendano mettere in gestione associata le
funzioni relative alla polizia locale. Se l'ente più grande
ha cinque vigili che lavorano per turni, percependo la
relativa indennità, quest'ultima non potrà essere estesa
anche agli agenti degli altri due comuni se essi hanno (come
di norma accade nei piccoli comuni) un orario normale.
Quindi, il servizio dovrà essere completamente
riorganizzato, con non poche difficoltà
(articolo ItaliaOggi del 16.05.2014). |
APPALTI: Codice degli appalti da abolire.
Sufficiente applicare le direttive europee disponibili.
Da Pinto (presidente Asmel) idea shock contro la corruzione
e per rilanciare l'economia.
L'idea è stata lanciata dal presidente Asmel, Francesco
Pinto, durante l'assemblea dell'associazione che raggruppa
1861 enti locali in tutt'Italia svoltasi presso la sede del
Tar Campania e che ha visto la presenza attiva di oltre 400
comuni.
Nel corso della tavola rotonda su «Appalti e
Legalità», cui hanno partecipato, tra gli altri, il
presidente dell'Avcp Santoro e quello del Tar Campania
Mastrocola, è stata proposta l'integrale e immediata
abolizione del Codice degli appalti.
Una ragnatela di norme (vedi riquadro) che rendono la vita
difficile, se non impossibile, alle stazioni appaltanti e
che, anziché contrastare corruttela e malaffare di fatto li
«coprono».
D'altra parte, l'integrale abolizione di questa giungla di
disposizioni, non creerebbe un vuoto normativo. Le stazioni
appaltanti sarebbero chiamate ad applicare le direttive
sugli appalti appena entrate in vigore a livello europeo, di
fatto già autoapplicative (cosiddette self-executive) senza
attendere il loro recepimento nella legislazione italiana,
previsto entro due anni. Si tratta di testi scritti in un
italiano fluente e già tradotti in inglese con gran
soddisfazione di operatori e investitori esteri che, come
noto, si tengono alla larga dal mercato italiano,
principalmente, a causa della farraginosità della nostra
normativa. Una miriade di precetti bizantini e prescrittivi
capaci di produrre solo deresponsabilizzazione e smarrimento
negli uffici acquisti.
La loro abolizione, assieme
all'introduzione delle nuove norme sulla centralizzazione
delle committenze, porterebbe gli uffici comunali, composti
per la stragrande maggioranza da persone perbene e motivate,
a impegnarsi solo sui risultati. In questo senso con Asmel
la possibilità di costituire centrali di committenza tra
comuni mediante «accordi consortili avvalendosi dei
competenti uffici» viene declinata lasciando ampia autonomia
agli stessi nei compiti da delegare alla centrale, che
possono essere limitati a «pezzi» dell'attività o prevedere
la delega completa. Esattamente come previsto dalle nuove
direttive europee che lasciano libere le stazioni appaltanti
di affidarsi alle centrali di committenza anche
limitatamente a funzioni «ausiliarie».
Una simile proposta è in grado di ridurre drasticamente il
contenzioso. Le statistiche dimostrano che esso è alimentato
per la gran parte proprio dalle intricatissime norme che
regolano le cosiddette «buste amministrative», e di dare una
forte accelerazione agli investimenti pubblici e privati.
Tenuto conto che il volume annuo degli appalti pubblici in
Italia ammonta a circa 100 miliardi di euro, pari a circa
l'8% del Pil, è sufficiente un'accelerazione della spesa nel
settore pari al 15 per cento annuo per raddoppiare il tasso
di crescita della nostra economia attualmente stimato per il
2015 nell'1,2%.
Di certo, una simile proposta andrà corredata dal
rafforzamento del ruolo di vigilanza sull'attività delle
Stazioni appaltanti già oggi svolto dall'Avcp in maniera
incisiva, ma che, liberata dai vari orpelli, avrà maggiori
poteri per perseguire i comportamenti dolosi. Nei comuni
andrà rafforzato, invece, il ruolo dei segretari comunali,
per affiancare gli uffici acquisti orfani della normativa di
riferimento.
---------------
Una ragnatela di norme.
Il Codice degli appalti è un testo di legge composto da 273
articoli, 1.560 commi e corredato da rinvii ad altre 148
norme di legge. Dal 2006, data di entrata in vigore, i suoi
articoli hanno subito modifiche per 563 volte senza contare
quelle entrate in vigore per un periodo limitato nei decreti
legge che poi non hanno trovato conversione.
Per la sua corretta applicazione occorre far riferimento
alle 6.155 pronunce dell'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici e dei tribunali amministrativi, che fanno
giurisprudenza e dunque obbligano di fatto le stazioni
appalti ad uniformarsi. Per non parlare delle migliaia di
pronunce emanate in «sede consultiva» dalle sezioni
regionali della Corte dei conti, che, come tutti sanno,
hanno un potere molto incisivo sull'azione dei pubblici
funzionari. Non basta, al Codice va aggiunto il Regolamento
attuativo, con i suoi 358 articoli e 1392 commi, e i
Regolamenti regionali, anch'essi con valore di legge.
Infine, le stazioni appaltanti sono chiamate anche a
uniformarsi alle intricate norme sulla privacy, sui
«protocolli di integrità», «patti di legalità», e sul
programma triennale anticorruzione, oltre a tutta la
normativa sui procedimenti amministrativi
(articolo ItaliaOggi del 16.05.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Il bonus mobili torna «libero».
Via libera agli incentivi agli acquisti anche di valore
superiore alle ristrutturazioni.
Dal Parlamento. Approvato al Senato il decreto casa - Sì
alla cedolare secca nei Comuni interessati da stati di
emergenza.
Il decreto casa (47/2014)
rilancia il bonus mobili «libero», assegnato cioè a
prescindere dal valore della ristrutturazione a cui è
collegato, e allarga la cedolare secca ai Comuni che sono
stati coinvolti in stati di emergenza negli ultimi cinque
anni, promettendo anche entro un mese un nuovo elenco Cipe
con i centri ad alta intensità abitativa in cui si possono
scrivere contratti di locazione a canone concordato.
Si
perde invece per strada, nonostante i molti tentativi, l'Imu
al 4% sulle case affittate ad affitto calmierato,
caldeggiata dallo stesso ministro delle Infrastrutture,
Maurizio Lupi, che rappresenta il "padre" del provvedimento,
oltre all'intervento che avrebbe sbloccato stipendi dei
dipendenti e premi dei dirigenti nel Comune di Milano. A
Palazzo Marino, come nelle altre città, si dovranno
accontentare della sanatoria sugli integrativi fuori norma
(a Milano non sono arrivate ancora contestazioni, ma i
problemi ci sono) scritta nella circolare «salva-Roma»
quater diffusa mercoledì (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Suona così il bilancio della legge di conversione del
decreto «casa-Expo» dopo il primo passaggio parlamentare,
che si è concluso ieri in Senato con l'approvazione, con 133
voti a favore e 99 contrari. Un bilancio che ha buone
probabilità di essere quello definitivo, dal momento che i
tempi per la conversione definitiva scadono il 28 maggio e
non offrono troppi spazi per modifiche alla Camera da far
ulteriormente ratificare da Palazzo Madama.
Le ultime novità sono state definite nelle sedute di martedì
e di ieri, dove sono state disattese una serie di
indicazioni della commissione Bilancio e sono stati
ripescati anche molti emendamenti bocciati dalle commissioni
riunite. Ecco le più rilevanti.
Anzitutto, la detrazione del 55% sugli acquisti di arredi
perde il tetto di spesa legato a quanto si è pagato per i
lavori di recupero edilizio. Resta quindi solo il tetto di
spesa a 10mila euro. Poi c'è la sanatoria dei «mini-canoni»
degli inquilini che hanno denunciato i proprietari per gli
affitti in nero e hanno sfruttato i grossi sconti offerti
dalla norma poi cancellata dalla sentenza 50/2014 della
Corte costituzionale: gli «effetti prodotti» da quella
regola vengono «fatti salvi fino al 31.12.2015», con
un intervento non proprio esemplare dal punto di vista
costituzionale.
Sul fronte affitti, il Fondo nazionale per il sostegno
all'accesso alle abitazioni in locazione e alla «morosità
incolpevole» servirà anche a rinegoziare i canoni esistenti
attraverso agenzie per l'affitto e ad aiutare anche chi è
colpito da sfratto per finita locazione, e non solo per
morosità.
Per liberare le case popolari dagli abusivi, il decreto
mette in campo parecchie norme, alcune approvate in ultima
battuta dall'Aula del Senato: quella che vieta gli allacci
di acqua, luce e gas a chi occuperà abusivamente una casa,
anche se vuota (viene cancellato il possibile effetto
retroattivo del provvedimento originale), e il divieto, per
almeno cinque anni, di iscriversi nella lista per le
aggiudicazioni delle case popolari. Novità anche per il
riscatto delle case ex Iacp: non sarà ammesso prima dei
sette anni di locazione, sarà limitato solo a chi non
possiede altro alloggio idoneo alla famiglia e non si potrà
rivendere la casa prima di altri cinque anni. Inoltre,
alloggi di housing sociale sono considerati tali anche
quando vengono locati (oltre che a famiglie in stato di
disagio sociale) a donne ospiti di centri anti violenza.
Infine, esce dal concetto di «nuova costruzione» (quindi non
serve più il permesso edilizio) l'installazione di manufatti
leggeri (prefabbricati, roulotte, camper, case mobili,
imbarcazioni usate come abitazioni o depositi) che siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno
di strutture ricettive all'aperto. Sugli appalti è infine
ampliato a cinque anni il periodo per dimostrare i requisiti
per le attività di verifica dei progetti, sono fatti salvi
quelli messi a rischio dalle contraddizioni normative sui
lavori specialistici e viene eliminato il principio di
corrispondenza tra quote di partecipazione alle Ati e
percentuale di esecuzione dei lavori per i raggruppamenti di
imprese (articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Comuni, stipendi liberi a maggio e riforma in vista.
Pa. Diffusa la circolare «salva-Roma» quater.
Gli stipendi di maggio nei Comuni sono salvi, e i
dirigenti che danno il via libera sono al riparo da
contestazioni di nuovo danno erariali.
A difenderli c'è la
circolare
12.05.2014 n. 60 di prot.
tri-firmata (il ministro
dell'Economia Padoan, la collega degli Affari Regionali
Maria Carmela Lanzetta e la titolare della Pa Maria Anna
Madia) anticipata dal Sole 24 Ore di ieri e diffusa dalla
Funzione pubblica.
Con il «salva-Roma» quater, in verità un «salva-città», sono
infatti impossibili nuove contestazioni per dolo o colpa
grave a carico dei funzionari. L'applicazione degli
integrativi fuori linea potrà avvenire se viene considerata
inevitabile per «garantire la continuità dei servizi
necessari e indispensabili» dei Comuni, ma di fatto questa
condizione si può verificare sempre: basta guardare al
caso-principe, quello di Roma, dove i sindacati avevano già
programmato uno sciopero per lunedì prossimo e un blocco
degli straordinari che avrebbe paralizzato il Campidoglio
sotto elezioni.
Gli integrativi giudicati illegittimi dalla
Ragioneria generale potranno sopravvivere «in via temporanea
e salvo recupero», anche se proprio i recuperi sono uno dei
nodi più intricati nella querelle sui contratti: chiedere ai
dipendenti la restituzione di somme già erogate ovviamente
fa esplodere il conflitto, ma anche i tagli compensativi ai
fondi decentrati si traducono in molti casi
nell'impossibilità di continuare a pagare gli stessi
stipendi di prima, perché le risorse mancano.
Sul futuro immediato, del resto, le incognite rimangono
superiori alle certezze. Un «comitato temporaneo» composto
da Stato, Regioni e Comuni e insediato in Conferenza
Unificata dovrà fare «indicazioni operative nel più breve
tempo possibile» su come gestire la patata bollente dei
contratti integrativi fuori norma. Per farlo, potrà proporre
nuove «disposizioni normative» oppure indirizzi per «la
redazione di direttive all'Aran»: su questa seconda strada
gli ostacoli non sono pochi, anche perché la revisione dei
comparti pubblici prevista dalla riforma Brunetta non è mai
stata attuata, e quindi manca la cornice in cui avviare il
lavoro sulle nuove regole.
La mancata applicazione della riforma Brunetta rappresenta
più in generale uno degli inneschi che hanno fatto esplodere
la mina contratti. Le contestazioni della Ragioneria si
appuntano sulla distribuzione "a pioggia" delle voci che si
aggiungono al tabellare e al mancato adeguamento alla
riforma, che farebbe scattare la decadenza degli integrativi
a partire dal 1° gennaio scorso. Questa seconda ragione ha
prodotto contestazioni milionarie per danno erariale a
carico di alcuni dirigenti del Comune di Roma, ma la
situazione si ripresenta in molte altre città.
Per questa ragione Cgil, Cisl e Uil sostengono in una nota
congiunta diffusa ieri che la circolare «non basta a
risolvere una situazione potenzialmente esplosiva», perché
«in Toscana come in Veneto e in Emilia Romagna, a Roma come
a Parma e Salerno, si susseguono casi analoghi. Serve una
soluzione vera», concludono i sindacati, che passa
attraverso «il rilancio della contrattazione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2014). |
APPALTI: Contratti pubblici.
Al setaccio le gare bandite prima del 12 maggio.
Entro il mese di agosto le stazioni appaltanti dovranno
verificare i dati delle gare bandite prima del 12 maggio
2014 e comunicare le informazioni alla banca dati delle
amministrazioni pubbliche che il Mineconomia avvierà a
ottobre; previste sanzioni disciplinari per i responsabili
del procedimento.
È quanto prevede l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici con il
comunicato del Presidente 08.05.2014, Sergio Santoro, che detta
nuove modalità operative di invio dei dati a carico delle
stazioni appaltanti.
Si tratta dei dati che devono
alimentare la Banca dati delle amministrazioni pubbliche (Bdap)
istituita in seno al ministero dell'economia con la legge n.
196/2009. L'Autorità precisa che dal 12.05.2014 le
amministrazioni dovranno obbligatoriamente indicare sul
sistema Simog (Sistema informativo monitoraggio gare), in
sede di creazione del Cig (codice identificativo gara), il
Cup (codice unico progetto) identificativo del progetto
nell'ambito del quale si colloca lo specifico appalto.
Inoltre si specifica che per tutti i contratti per i quali
alla data del 12.05.2014 risultino già trasmesse le
relative schede di aggiudicazione, il responsabile unico del
procedimento dovrà verificare che per le fattispecie per le
quali è necessaria l'acquisizione del Cup, quest'ultimo
risulti associato al Cig cui si riferisce, nell'ambito del
sistema Simog
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Salvagente all'integrativo.
Verso una sanatoria dei contratti collettivi.
Circolare interministeriale dà le prime indicazioni agli
enti locali.
Verso una sanatoria dei contratti collettivi degli enti
locali.
La
circolare
12.05.2014 n. 60 di prot.
sottoscritta dai ministri Lanzetta, Madia e Padoan per
fornire indicazioni sull'applicazione dell'articolo 4 del dl
16/2014, convertito in legge 68/2014 (decreto «salva Roma»)
lascia intuire che questo potrà essere lo sbocco per
risolvere i problemi dei contratti decentrati di comuni,
regioni e province.
Come è noto, comuni come Roma, Firenze, Vicenza e Reggio
Calabria, per restare ai capoluoghi (ma moltissimi altri più
piccoli sono coinvolti), sono stati interessati da ispezioni
del Mef, che hanno riscontrato una serie di violazioni a
vincoli normativi e finanziari posti alla contrattazione
collettiva decentrata dalla legge e dai Ccnl.
Le relazioni degli ispettori impongono alle amministrazioni
di agire per il recupero delle somme che sarebbero state
spese oltre i limiti normativi.
Ma, le iniziative dei comuni stanno portando a reazioni
fortissime dei sindacati e dei lavoratori, come gli scioperi
che hanno paralizzato Roma in questi giorni.
La mini sanatoria contenuta nell'articolo 4 del dl 16/2014
si è rivelata inadeguata a risolvere i problemi della
contrattazione. Essa, per un verso, consente di non chiedere
indietro ai lavoratori degli enti locali le maggiori somme
percepite. Ma, per altro verso, impone di ridurre
drasticamente l'ammontare dei fondi destinati alla
contrattazione in un arco di tempo che appare essere cinque
anni. Troppo pochi: le decurtazioni ai fondi finirebbero,
così, per intaccare parti fisse degli stipendi, come
l'indennità di comparto o le progressioni verticali. Per
questa ragione, le organizzazioni sindacali si oppongono
all'applicazione dell'articolo 4, nonostante esso possa
rappresentare una via d'uscita per evitare contenziosi e gli
strali del Mef.
La circolare interministeriale prende atto della situazione,
rilevando che, al di là delle violazioni riscontrate, esiste
un problema posto «dalla particolare complessità e
stratificazione» delle norme e dei contratti. Per altro
aggravato, è da aggiungere, da un improprio esercizio di una
funzione di «pareristica» da parte dell'Aran, che con gli
anni ha attribuito alle disposizioni contrattuali
significati non espressi chiaramente dalle clausole, però
fatti propri dai servizi ispettivi.
I ministri, se da un lato annunciano la costituzione di un
«comitato temporaneo» per fornire indicazioni applicative
dell'articolo 4 del «salva Roma», dall'altro evidenziano
indirettamente la sostanziale poca utilità della misura
normativa applicata. Non a caso, la circolare 60/gab altro
non è se non un'ulteriore sanatoria temporanea extra ordinem.
Infatti, nelle more dei risultati dell'attività del comitato
istituito e delle direttive Aran sull'applicazione delle
norme e dei contratti, la circolare autorizza gli organi di
governo di regioni ed enti locali ad applicare il citato
articolo 4 del «salva Roma» solo parzialmente, nei limiti in
cui sia accettabile da sindacati e lavoratori. Non solo: i
ministri indicano agli organi di governo perfino di
applicare, sia pure «in via temporanea» le clausole
contrattuali integrative da ritenere in violazione dei
vincoli normativi, la cui attuazione risulti tuttavia
indispensabile per evitare scioperi e blocchi delle
attività, salvo successivo recupero delle somme
(illegittimamente) esborsate.
Risulta evidente che quella delineata dalla circolare è solo
una soluzione di ripiego, per altro in gran parte
contrastante con le previsioni dell'articolo 4 del «salva-Roma»,
finalizzata a stemperare le tensioni fortissime nei comuni
interessati dalle ispezioni
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2014). |
PATRIMONIO: Decreto in G.U..
Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività
istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare
preventivamente alle principali regole di indispensabilità e
indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto
dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse
pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa
dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal
vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al
prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità
rilasciato dall'Agenzia del demanio.
Lo prevede il dm
Economia 14/02/2014, in G.U. del 12/05/2014, in relazione
alle disposizioni contenute all'art. 12, c. 1-bis, del dl
98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni
pubbliche, tranne gli enti territoriali, previdenziali e
quelli del Servizio sanitario nazionale, comunicano alla
ragioneria generale dello stato il piano triennale di
investimento, come prevede il decreto attuativo delle
disposizioni sopra richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il
responsabile del procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà
contestualmente documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità
dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il
dm, attiene alla necessità di procedere in tal senso sia per
un obbligo giuridico che incombe all'amministrazione per il
perseguimento delle proprie finalità che per la tutela ed il
soddisfacimento dei superiori interessi pubblici. Il
secondo, attiene all'impossibilità di differire l'acquisto
senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi
istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono
soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti
finanziari ed economici positivi, così riscontrati
dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio
della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si
pronunci l'Agenzia del demanio con l'attestazione di
congruità del prezzo. Documento, questo, che deve essere
acquisito prima della definizione delle operazioni e che
sarà rilasciato gratuitamente per le amministrazioni
indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001,
mentre le restanti amministrazioni dovranno provvedere al
rimborso delle spese sostenute
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, il
Sistri cambia registro. Aggiornate le schede di movimentazione. Codice fiscale per
la ricerca anagrafica.
Per il Sistri aggiornata l'applicazione della scheda «area
movimentazione» e la sezione delle guide e dei documenti.
Ottimizzate le ricerche in anagrafica Sistri utilizzando
come chiave il codice fiscale per reperire la scheda
movimentazione.
È stata rilasciata la nuova relase
dell'applicazione movimentazione che rende disponibili le
funzioni relative alla memorizzazione del pin per la firma
dei documenti e la precompilazione delle schede in bianco
per la microraccolta.
Nella sezione manuali e guide sono
stati pubblicati gli aggiornamenti dei documenti relativi ai
trasportatori, ai produttori, ai recuperatori-smaltitori,
agli intermediari, alla regione Campania e microraccolta. Il
tutto è contenuto nel sito del ministero dell'ambiente
www.sistri.it. e aggiornato al 9 maggio scorso. La nuova
funzionalità «memorizzazione del pin per la firma dei
documenti» permette all'utente, previa esplicita
accettazione, di memorizzare lo stesso, digitandolo una sola
volta all'avvio di ogni sessione operativa, senza doverlo
nuovamente inserire in occasione della firma di ogni scheda
o registrazione.
Per poter utilizzare la soluzione l'utente
deve provvedere all'aggiornamento del dispositivo Usb.
L'altra applicazione rubricata «schede in bianco per la microraccolta»
consente di pre-compilare e stampare schede in bianco
inserendo le informazioni desiderate nella sezione
produttore (dati rifiuti, dati produttore, dati
trasportatore e dati destinatario) e/o nella sezione
trasportatore. Al momento della riconciliazione l'utente
potrà decidere se confermare le informazioni precedentemente
inserite o meno.
Inoltre sono stati effettuati interventi di ottimizzazione
delle ricerche in anagrafica sistri che consentono la
ricerca delle schede di movimentazione utilizzando come
chiave il codice fiscale e consentono la ricerca delle
registrazioni di carico e scarico collegate ad una scheda di
movimentazione utilizzando come chiave il codice della
scheda di movimentazione. La scheda sistri area
movimentazione è un documento informatico costituito da
varie sezioni che vanno compilate a cura dei soggetti che
intervengono nelle diverse fasi del ciclo di gestione dei
rifiuti.
È possibile vedere la scheda come costituita da tre distinte
sezioni: produttore, trasportatore e destinatario. La
sezione «produttore» contiene i dati anagrafici del
produttore, le informazioni qualitative e quantitative del
rifiuto e i dati identificativi di tutti gli altri soggetti
coinvolti. Quella del «trasportatore» contiene i dati
anagrafici di tutti i soggetti coinvolti nel trasporto del
rifiuto, le info identificative del mezzo e del percorso, le
date di presa in carico e consegna. Infine la sezione «destinatario»
contiene i dati anagrafici del destinatario e l'esito della
movimentazione con l'indicazione della quantità accettata
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2014). |
aggiornamento al
06.03.2014 |
|
TRIBUTI: Legge stabilità.
Rifiuti speciali, niente Tari.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in
cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione
della superficie tassabile, però, non si calcola quella
parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e
prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a
proprie spese i produttori.
È quanto prevede l'articolo 1,
comma 649, della legge di Stabilità (147/2013). La
formulazione di questa norma è tutt'altro che un esempio di
chiarezza, in quanto fa già discutere e può generare
contenzioso nella parte in cui richiede la produzione di
rifiuti speciali «in via continuativa e prevalente» al fine
di ottenere l'esonero dal prelievo.
Il dubbio che si pone è
se qualora sussista il requisito della continuità e
prevalenza non possono essere tassate integralmente le
superfici in cui si producono anche rifiuti speciali oppure
se il beneficio rimane sempre circoscritto alla parte della
superficie interessata e l'esonero è solo parziale.
Nonostante l'infelice formulazione della disposizione di
legge, si ritiene che l'agevolazione fiscale sia sempre
limitata alla parte dell'immobile interessata dalla
formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera
superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti
ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una
«parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a
condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti
continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa
condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a
provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione
dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo
nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro avvio al
recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa
incaricata del trattamento. Inoltre, spetta al contribuente
provare quale parte dell'immobile non sia soggetta alla
tassa. Peraltro il comma 682, lettera a), numero 5), della
legge di Stabilità attribuisce al comune la facoltà di
concedere con regolamento una riduzione tariffaria in caso
di autosmaltimento.
In particolare, l'amministrazione comunale può individuare
categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle
quali applicare riduzioni rispetto all'intera superficie su
cui l'attività viene svolta (articolo ItaliaOggi del
28.02.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Anticorruzione, le Faq Anac non derogano la legge.
Il dlgs n. 33/2013 contiene circa 270 obblighi informativi
che devono trovare adempimento presso migliaia di
amministrazioni pubbliche, enti pubblici e privati vigilati,
nonché presso le società controllate, non di rado di ridotte
dimensioni. L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha da
tempo evidenziato il rischio che questo assetto normativo
possa determinare un eccesso di rigidità e uniformità nel
sistema della trasparenza.
In tale contesto un numero
crescente di soggetti pubblici si è rivolto all'Anac per
ricevere indicazioni sulle modalità da seguire per assolvere
agli obblighi di trasparenza.
Questa attività consultiva
rappresenta il necessario corollario di due compiti
demandati espressamente dalla legge all'Autorità: a) emanare
linee guida volte ad assicurare un adeguato livello di
trasparenza di cui le amministrazioni pubbliche devono
tenere conto nell'elaborazione dei programmi triennali per
la trasparenza e l'integrità (dlgs n. 33, art. 10.1.a); b)
svolgere un'attività di vigilanza di cui devono essere
preventivamente esplicitati i criteri (dlgs n. 33, art. 45).
Per gestire con maggiore efficacia questo corposo flusso di
quesiti l'Autorità ha pubblicato più di 150 Faq che
dovrebbero offrire alle amministrazioni una risposta
immediata alle richieste di chiarimento più frequenti.
Questa scelta, che è stata accolta con notevole favore da
numerosi responsabili della trasparenza e dagli Organismi
indipendenti della valutazione, ha incontrato invece la
disapprovazione di Luigi Oliveri nel suo articolo su
ItaliaOggi del 21.02.2014. Vorremmo però rassicurare i
lettori sul fatto che le Faq dell'Anac non rappresentano in
alcun modo una deroga alla legge o ad eventuali pronunce
giurisprudenziali.
Sono un esempio di soft law, largamente
utilizzato da altre autorità indipendenti, che mira ad
indirizzare l'esercizio della discrezionalità da parte delle
amministrazioni. Le perplessità di Oliveri si soffermano,
peraltro, su una specifica Faq, quella in materia di accesso
civico. Nelle amministrazioni in cui è presente un unico
dirigente si è infatti posto il problema di identificare il
titolare del potere sostitutivo previsto dal dlgs n. 33,
art. 5.4 in caso di mancata o ritardata risposta del
responsabile della trasparenza.
È, infatti, naturale che,
come ammette anche Oliveri, questo potere sia esercitato da
un soggetto sovraordinato. Ma per assicurare che ciò avvenga
occorre che le amministrazioni, nell'esercizio dei margini
di autonomia organizzativa loro riconosciuto dalla norma,
affidino il compito di ricevere l'istanza di accesso civico
ad un soggetto che riveste una posizione gerarchica
inferiore a quella apicale. Altrimenti avremmo la soluzione
paradossale che un sottoposto dovrebbe sostituirsi al suo
superiore oppure che il responsabile della trasparenza di
livello apicale dovrebbe sostituire se stesso (articolo ItaliaOggi del
28.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuovi reati a difesa dell'ambiente.
Sanzionato anche chi impedisce i controlli - Più severità
contro le ecomafie.
Giustizia. La Camera ha approvato il disegno di legge, che
ora passa al Senato: entra nel Codice il delitto di disastro
ambientale.
Quattro nuovi
reati, tra cui il disastro ambientale e il traffico di
materiale radioattivo, e confisca obbligatoria del profitto
del reato. La Camera aggiorna il Codice penale introducendo
i delitti contro l'ambiente. Un pacchetto di norme che
prevede anche aggravanti per mafia e sconti di pena per chi
si ravvede, condanna al ripristino e raddoppio dei tempi di
prescrizione.
Il disegno di legge è stato approvato ieri e
passa ora all'esame del Senato.
Plaude il neo ministro della Giustizia, Andrea Orlando:
«L'approvazione del disegno di legge sui reati ambientali è
un passaggio importantissimo: se ne parla da 20 anni, ora
esiste finalmente un testo che rappresenta un riordino
complessivo e organico della materia e delle sanzioni,
predisposte secondo un sistema proporzionale e congruo.
Questo testo è il frutto del concorso di tutte le parti
politiche ed è stato approvato con una maggioranza più ampia
di quella che sostiene il governo. Ho due ragioni per
esserne soddisfatto: come neoministro della Giustizia e come
ex ministro dell'Ambiente».
Nel dettaglio, il nuovo delitto di disastro ambientale
punisce con il carcere da 5 a 15 anni chi altera gravemente
o irreversibilmente l'ecosistema o compromette la pubblica
incolumità. Per l'inquinamento ambientale è prevista la
reclusione da 2 a 6 anni (e la multa da 10mila e 100mila
euro). Se non c'è dolo, ma colpa, le pene sono diminuite da
un terzo alla metà. Scattano, invece, aumenti di pene per i
due delitti se commessi in aree vincolate o a danno di
specie protette.
Il traffico e abbandono di materiale di alta radioattività è
colpito con la pena del carcere da 2 a 6 anni (e multa da
10mila a 50mila euro) a danno di chi commercia e trasporta
materiale radioattivo o di chi se ne libera abusivamente.
Chi ostacola l'accesso o intralcia i controlli ambientali
rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni. In presenza di
associazioni mafiose finalizzate a commettere i delitti
contro l'ambiente o a controllare concessioni e appalti in
materia ambientale scattano le aggravanti.
Pene ridotte poi da metà a due terzi nel caso di
ravvedimento operoso: se l'imputato evita conseguenze
ulteriori, aiuta i magistrati a individuare colpevoli o
provvede alla bonifica e al ripristino delle condizioni
ambientali. Per i delitti ambientali i termini di
prescrizione raddoppiano. Se poi si interrompe il processo
per dar corso al ravvedimento operoso, la prescrizione è
sospesa. In caso di condanna o patteggiamento della pena è
sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il
prodotto o il profitto del reato e delle cose servite a
commetterlo o comunque di beni di valore equivalente nella
disponibilità (anche indiretta o per interposta persona) del
condannato.
Il giudice, in caso di condanna o patteggiamento della pena,
ordina il recupero e, dove tecnicamente possibile, il
ripristino dello stato dei luoghi a carico del condannato.
In assenza di danno o pericolo, nelle ipotesi
contravvenzionali previste dal Codice dell'ambiente, si
ricorre alla «giustizia riparativa» puntando alla
regolarizzazione attraverso l'adempimento a specifiche
prescrizioni. In caso di adempimento l'illecito si estingue.
Misure anche a carico delle imprese, allungando la lista dei
reati presupposto previsti dal decreto 231 del 2001.
Scatteranno pertanto sanzioni pecuniarie per l'inquinamento
ambientale (da 250 a 600 quote), per il disastro ambientale
(da 400 a 800 quote) e per l'associazione a delinquere
(comune e mafiosa) aggravata (da 300 a 1.000 quote). In caso
di delitto di inquinamento ambientale e di disastro
ambientale, via libera anche all'applicazione delle sanzioni
interdittive (interdizione dall'esercizio dell'attività;
sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o
concessioni; divieto di contrattare con la pubblica
anmministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti,
contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già
concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi) (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2014). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti, più vincoli per l'in house.
Direttive europee. Sono sempre soggette alle gare le
controllate con capitali anche privati.
L'affidamento
in house trova il suo quadro normativo nella nuova direttiva
comunitaria sugli appalti pubblici, che definisce anche
alcune importanti novità nel modello di gestione dei
servizi.
L'articolo 12 della direttiva appalti approvata dal
Parlamento europeo il 15 gennaio (e di prossima
pubblicazione nella Gazzetta ufficiale europea) per la prima
volta traduce in un dato normativo gli elementi di principio
dettati a suo tempo dalla sentenza Teckal e sviluppati dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia, fornendo elementi
specificativi dei requisiti di controllo analogo e
dell'attività prevalente a favore dell'ente affidante.
La disposizione stabilisce infatti che non rientra
nell'ambito di applicazione del nuovo corpus di regole per
gli appalti un affidamento di servizio tra
un'amministrazione aggiudicatrice e una persona giuridica di
diritto pubblico o di diritto privato quando la prima
eserciti sulla seconda proprio un controllo analogo a quello
da essa esercitato sui propri servizi.
Rispetto al secondo elemento costitutivo dell'in house, la
direttiva introduce la prima novità, stabilendo che
l'attività è prevalente quando oltre l'80% delle attività
della persona giuridica controllata sono effettuate nello
svolgimento dei compiti ad essa affidati
dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre
persone giuridiche controllate dall'amministrazione
aggiudicatrice di cui trattasi.
La seconda innovazione rispetto agli orientamenti
giurisprudenziali consolidati è data dalla previsione di un
terzo elemento necessario per la definizione del rapporto
interorganico, quale l'assenza nella persona giuridica
controllata di partecipazioni dirette di capitali privati,
ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati
che non comportino controllo o potere di veto, prescritte
dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei
Trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla
persona giuridica controllata.
La norma permette l'ingresso dei privati negli organismi
affidatari in house, a condizione che questi non possano
incidere sulle decisioni strategiche.
Proprio l'affermazione della sussistenza del controllo
analogo sulla persona giuridica affidataria da parte
dell'amministrazione quando essa esercita un'influenza
determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle
decisioni significative della persona giuridica controllata,
costituisce il fondamento anche per l'ulteriore grande
novità: il controllo tramite holding. La norma stabilisce
infatti che l'amministrazione può esercitare il controllo
sull'organismo affidatario per mezzo di una persona
giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo
dall'amministrazione aggiudicatrice.
La disciplina codifica anche la situazione in cui
l'organismo affidatario sia partecipato da più enti, anche
con quote minoritarie, determinando la sussistenza del
controllo analogo quando questo sia esercitato in forma
congiunta.
La situazione si concretizza quando gli organi decisionali
della persona giuridica controllata sono composti da
rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici
partecipanti. La direttiva definisce per la prima volta
anche i parametri per escludere dal suo ambito applicativo
le forme di cooperazione tra amministrazioni pubbliche,
quando il contratto definisce un rapporto collaborativo
finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono
tenute a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire
gli obiettivi che esse hanno in comune (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bonus antisismico con «titoli» pesanti.
Permesso di costruire o super-Dia per ottenere la detrazione
del 65% fino a 96mila euro.
Ristrutturazioni. L'incentivo maggiorato per la messa in
sicurezza statica riguarda le procedure autorizzatorie
attivate dopo il 04.08.2013.
La possibilità
di detrarre dall'imposta lorda il 36% delle spese per misure
antisismiche era già contemplata dall'articolo 16-bis del Tuir, inserito nel Testo unico dal Dl 201/2011.
Si tratta,
in particolare, degli interventi previsti dalla norma al
comma 1, lettera i), relativi all'esecuzione di opere per la
messa in sicurezza statica, sulle parti strutturali degli
edifici, per la redazione della documentazione obbligatoria
necessaria per comprovare la sicurezza statica del
patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli
interventi necessari al rilascio di questa documentazione.
Per questa tipologia di interventi l'articolo 16 del Dl
63/2013 –come modificato dalla legge di stabilità 147/2013– ha innalzato l'entità della detrazione al 65% fino a una
spesa massima di 96mila euro per unità immobiliare, per le
spese sostenute entro il 31 dicembre di quest'anno (per gli
anni a venire, si veda l'articolo in basso).
Dall'incrocio delle due previsioni il riconoscimento della
detrazione potenziata al 65% risulta assoggettato ad alcune
limitazioni.
Innanzitutto questo si riferisce ai soli interventi le cui
procedure autorizzatorie siano state attivate dopo il 04.08.2013, data di entrata in vigore della legge 90/2013
(di conversione del Dl 63).
In secondo luogo la disposizione del 2013 non trova
applicazione per l'intero territorio nazionale, poiché
riguarda solo le opere eseguite sugli edifici ricadenti
nelle zone sismiche a pericolosità alta o media (zone 1 e 2)
di cui all'ordinanza del presidente del Consiglio dei
ministri n. 3274 del 20.03.2003.
Inoltre, non ogni tipologia di lavori potrà fruire dei
benefici fiscali. L'articolo 16-bis, infatti, prende in
considerazione soltanto l'adozione di misure antisismiche e
l'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica da
realizzarsi «sulle parti strutturali degli edifici o
complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere
interi edifici».
Infine il beneficio è riconosciuto solo per gli interventi
riguardanti edifici destinati ad attività produttive o ad
abitazione principale del contribuente.
I titoli abilitativi ammessi
Dovendo riguardare le «parti strutturali», la tipologia
delle opere va a inquadrarsi tra gli «interventi di
ristrutturazione edilizia», (articolo 3, comma 1, lettera
d), Dpr 380/2001), il cui titolo abilitativo sarà il
permesso di costruire o, se prevista dalla normativa
regionale, una super-Dia.
Andrà quindi tendenzialmente escluso il riconoscimento del
beneficio per le opere riconducibili agli «interventi di
restauro e di risanamento conservativo» (articolo 3, comma
1, lettera c), Dpr 380/2001). D'altro canto è la stessa
rubrica dell'articolo 16 a fare esplicito riferimento alla
«ristrutturazione edilizia», contribuendo a chiarire
l'ambito di operatività della norma. Ulteriore aspetto
problematico è quello collegato al concreto avvio delle
procedure autorizzatorie e ai limiti temporali entro cui le
spese devono essere sostenute per fruire della maggiore
detrazione.
Interventi su interi edifici
La norma non consente di intervenire sulle parti strutturali
della singola unità immobiliare, che viene presa in
considerazione unicamente per determinare l'ammontare
massimo della detrazione, ma solo sull'intero edificio o su
complessi di edifici collegati. Pertanto, salvo i casi in
cui l'immobile appartenga a un unico soggetto, sarà
indispensabile il coinvolgimento dei vari comproprietari o
dei condomini che dovranno deliberare, con i quorum
costitutivi e deliberativi ex articolo 1136 Codice civile,
sull'esecuzione o meno dell'intervento, sull'eventuale
acquisizione di progetti di massima e preventivi da varie
imprese, sull'individuazione del professionista cui affidare
la progettazione e la direzione dei lavori, sulla
costituzione obbligatoria del fondo speciali previsto
dall'articolo 1135 Codice civile.
Non va poi trascurato che nell'ipotesi in cui gli edifici
ricadono nei centri storici (zone A), gli interventi
potranno essere soltanto realizzati «sulla base di progetti
unitari e non su singole unità immobiliari», il che lascia
intravvedere la necessità della preventiva predisposizione e
approvazione di un piano attuativo, con ulteriore
dilatazione dei tempi necessari al concreto avvio delle
opere (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Subappalti, pagamenti diretti.
Se l'appaltatore è in crisi, può provvedere l'appaltante.
DESTINAZIONE ITALIA/Le novità relative al settore
infrastrutture e opere pubbliche
Possibile il pagamento diretto dei subappaltatori da parte
della stazione appaltante se l'appaltatore è in crisi
finanziaria e ritarda i pagamenti oppure se si è in pendenza
di una procedura di concordato preventivo con continuità
aziendale; previsti indennizzi per le imprese che subiscono
danni nei cantieri delle opere infrastrutturali (con due
milioni per il 2014 e 5 per il 2015); al via l'anagrafe
delle risorse Cipe revocate.
Sono queste alcune delle previsioni contenute nell'articolo
13 del decreto-legge 145/2013 «Destinazione Italia»,
convertito nella legge n. 9/2014 (pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale n. 43 del 21/02/2014) relative al settore delle
infrastrutture e delle opere pubbliche.
Una delle norme di maggiore rilievo è quella che prevede
indennizzi in caso di danneggiamenti nei cantieri in cui si
realizzano opere infrastrutturali ricomprese nel programma
delle infrastrutture strategiche (Pis) della ex legge
Obiettivo.
Si tratta di una disposizione che ha subito modifiche nei
diversi passaggi parlamentari; in particolare, alla Camera è
stato previsto che l'indennizzo si possa disporre non in
automatico, ma attraverso un decreto ad hoc del ministero
delle infrastrutture. Si introduce quindi la possibilità di
assegnare un indennizzo alle imprese che subiscono danni ai
materiali, alle attrezzature e ai beni strumentali «come
conseguenza di delitti non colposi commessi al fine di
ostacolare o rallentare l'ordinaria esecuzione delle
attività di cantiere».
Dal momento che questi fatti finiscono per pregiudicare il
corretto adempimento delle obbligazioni assunte per la
realizzazione dell'opera, il legislatore dispone la
possibilità di indennizzo, ma ne subordina l'effettiva
operatività all'emanazione di un apposito decreto del
ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto
con il ministro dell'economia e delle finanze, con il quale
si disporrà l'indennizzo. Come vincolo si precisa che
l'indennizzo potrà essere concesso per una quota della parte
eccedente le somme liquidabili dall'assicurazione stipulata
dall'impresa o, se l'impresa non fosse assicurata, per una
quota del danno subito. Per la concreta applicazione della
norma si stanziano due milioni per il 2014 e cinque per il
2015.
Un'altra disposizione di particolare rilievo è prevista,
sempre all'articolo 13, per la disciplina del subappalto
(contenuta nell'articolo 118 del Codice dei contratti). In
particolare si consente alla stazione appaltante, in
particolari condizioni, anche in deroga alle previsioni del
bando di gara, di provvedere al pagamento diretto delle
prestazioni effettuate dal subappaltatore, dal cottimista
nonché dalle società, anche consortili, eventualmente
costituite per l'esecuzione unitaria dei lavori. Si tratta
in particolare dei casi in cui l'impresa titolare del
contratto principale versi in situazione di crisi di
liquidità finanziaria, comprovata da reiterati ritardi nei
pagamenti dei subappaltatori, o dei cottimisti e accertata
dalla stazione appaltante.
L'articolo 13 stabilisce inoltre,
nella pendenza di una procedura di concordato preventivo con
continuità aziendale, la possibilità per la stazione
appaltante, anche per i contratti di appalto in corso, di
provvedere ai pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite
dagli eventuali diversi soggetti che costituiscano
l'affidatario,quali le mandanti, e dalle società, anche
consortili, eventualmente costituite per l'esecuzione
unitaria dei lavori dai subappaltatori e dai cottimisti,
secondo le determinazioni del Tribunale competente per
l'ammissione alla procedura di concordato.
Viene poi estesa l'applicazione delle norme sullo svincolo
automatico delle garanzie di buona esecuzione relative alle
opere in esercizi a tutti i contratti aventi ad oggetto
opere pubbliche, anche se stipulati anteriormente
all'entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici. In
particolare la disposizione, che tende ad assicurare
uniformità di disciplina per tutte le opere pubbliche,
comprende nell'ambito di applicazione della disciplina sullo
svincolo delle cauzioni, anche i cosiddetti «settori
esclusi», o sarebbe meglio dire «speciali», cioè quelli
dell'acqua, dell'energia e dei trasporti che non applicano
integralmente le disposizioni del codice dei contratti
pubblici e del regolamento attuativo.
Infine si introduce l'anagrafe pubblica delle revoche dei
fondi Cipe, che dovranno essere pubblicate su un sito
internet del Cipe stesso con riferimento ai singoli
provvedimenti normativi con i quali, a partire dal
01.01.2010, sono state revocate le assegnazioni (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Rendita catastale non retroattiva.
Sentenza della Commissione tributaria Lazio.
La rendita catastale attribuita dall'ufficio può produrre
effetti nei confronti del contribuente solo dopo la
comunicazione al destinatario e pertanto non
retroattivamente.
Quanto precede è contenuto nella sentenza n.
664/2014 della Ctr di Roma da cui emerge che l'atto con
cui viene comunicata l'applicazione retroattiva della
rendita catastale è nullo, nel rispetto dei principi
contenuti nello Statuto del contribuente.
L'art. 74, comma 1, della legge
n. 342 del 2000 ha stabilito che la rendita attribuita
decorre dalla data di notificazione all'interessato e dalla
medesima data decorre anche il termine per l'impugnazione.
Pertanto n caso di attribuzione e conseguente notifica di
nuova rendita nasce la questione della sua decorrenza che ha
trovato soluzione con la predetta norma secondo cui non è
più sufficiente la comunicazione ma la sua notificazione:
dalla data di effettuazione della notifica decorre il
termine di 60 giorni per la proposizione del ricorso contro
l'attribuzione della rendita.
Nella fattispecie in esame il contribuente ha proposto
ricorso avverso l'accertamento in rettifica dell'Ici emesso
dal comune e la Ctp lo ha respinto. Lo stesso contribuente
ha proposto appello eccependo l'omessa notifica da parte
dell'ente locale del provvedimento di variazione della
rendita catastale e la non retroattività della rendita
attribuita.
I giudici della Ctr hanno accolto le doglianze del
contribuente affermando che la rendita catastale attribuita
dall'ufficio «può produrre effetti nei confronti del
contribuente solo successivamente alla sua comunicazione al
destinatario e, quindi, non retroattivamente».
Quanto sopra trova rispondenza nei principi sanciti dallo
Statuto del contribuente e nel principio generale secondo
cui deve riconoscersi al contribuente il diritto a conoscere
un atto che determina effetti nella propria sfera giuridica.
Pertanto l'atto di variazione della rendita catastale emesso
dal comune è stato ritenuto illegittimo in quanto prevedeva
l'applicazione retroattiva della rendita catastale
modificata dall'ufficio nel 1999 e notificata al
contribuente sette anni dopo, con richiesta di pagamento
della differenza di imposta accertata. Tale orientamento è
suffragato dalla Suprema corte secondo cui la modificazione
o attribuzione definitiva di rendita catastale è efficace
solo a partire dalla notificazione del relativo atto, con
conseguente nullità degli accertamenti e liquidazione
relativi a periodi di imposta anteriori alla notifica
dell'atto di modificazione della rendita (Cass. n.
3233/2005) (articolo ItaliaOggi del
22.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il ricambio aria finisce nell'Ape.
Nell'attestato anche il raffrescamento con pannelli solari.
Le
novità del decreto Destinazione Italia convertito in legge
su vendite immobiliari e affitti.
Nella redazione dell'attestato di prestazione energetica
bisognerà tener conto anche del raffrescamento derivante
dalle schermature solari mobili. Ai fini del rilascio
dell'Ape, si dovrà tenere conto del raffrescamento derivante
dalle prestazioni energetiche delle schermature solari
mobili, a condizione che la prestazione energetica delle
predette schermature sia di classe 2, come definita nella
norma europea EN 14501:2006, o superiore. Nei casi di omessa
dichiarazione o allegazione dell'Ape ai contratti di
compravendita o di locazione immobiliare in luogo della
nullità degli atti si applica la sanzione pecuniaria.
Restano esclusi dall'obbligo di allegare l'Ape i nuovi
contratti di locazione di singole unità immobiliari.
Queste
alcune delle novità contenuto nell'articolo 1, 7° comma e
seguenti, del destinazione Italia diventato legge. Nei
contratti di compravendita immobiliare, negli atti di
trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi
contratti di locazione di edifici o di singole unità
immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita
clausola con la quale l'acquirente o il conduttore
dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la
documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla
attestazione della prestazione energetica degli edifici.
La
copia dell'Ape deve essere altresì allegata al contratto,
tranne che nei casi di locazione di singole unità
immobiliari. In caso di omessa dichiarazione o allegazione,
se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e
in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da
3.000 a 18.000 euro. La sanzione è da 1.000 a 4.000 euro per
i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se
la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è
ridotta alla metà.
In sede di conversione è stato aggiunto
che il pagamento della sanzione amministrativa non esenta
comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la
copia dell'attestato di prestazione energetica entro
quarantacinque giorni. Un nuovo comma all'articolo 1 (comma
8-quater) stabilisce che gli annunci non devono riportare
gli indici di prestazione energetica, né la classe
energetica se riguardano la locazione di edifici
residenziali utilizzati meno di quattro mesi l'anno.
Per
essere abilitati alla redazione dell'Ape i certificatori
devono dimostrare di essere in possesso di un attestato di
frequenza, con superamento dell'esame finale dello specifico
corso di formazione per la certificazione energetica degli
edifici. La nuova durata del corso deve essere 80 ore e non
più di 64 ore. Per quanto concerne i requisiti per diventare
certificatori energetici, viene ampliata la platea dei
soggetti che possono redigere l'Ape senza frequentare lo
specifico corso di formazione di 80 ore.
L'obbligo del corso
è stato cancellato per i laureati in: ingegneria
aerospaziale e astronautica, biomedica, dell'automazione,
delle telecomunicazioni, elettronica, informatica e navale,
pianificazione territoriale urbanistica e ambientale,
scienze e tecnologie della chimica industriale. Mentre, tra
i diplomi che permettono di poter redigere la certificazione
energetica senza partecipare ai corsi di formazione, sono
stati inseriti anche quelli in aeronautica, energia
nucleare, metallurgia, navalmeccanica e metalmeccanica.
Qualora il tecnico abilitato sia dipendente e operi per
conto di enti pubblici ovvero di organismi di diritto
pubblico operanti nel settore dell'energia e dell'edilizia,
il requisito di indipendenza si intende superato dalle
finalità istituzionali di perseguimento di obiettivi di
interesse pubblico proprie di tali enti e organismi. Le
disposizioni dpr 16.04.2013, n. 75 si applicano anche ai
fini della redazione dell'attestazione di prestazione
energetica di cui alla direttiva 2010/31/UE del parlamento
europeo e del consiglio, del 19.05.2010 (articolo ItaliaOggi del
22.02.2014). |
SICUREZZA LAVORO: Testo unico sulla sicurezza anche per concerti e fiere.
Manifestazioni. Firmato il decreto che attua l'obbligo
introdotto l'anno scorso.
Completato il
quadro normativo per l'applicazione del testo unico sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro per l'attività di
allestimento di palchi per spettacoli e nelle manifestazioni
fieristiche.
L'articolo 32, comma, 1, lettera g-bis, del Dl 69/2013 aveva
esteso le disposizioni del titolo IV del testo unico agli
spettacoli musicali, cinematografici e teatrali nonché alle
manifestazioni fieristiche. Però l'estensione non poteva
essere applicata in attesa di un decreto ministeriale che
avrebbe dovuto individuare le particolari esigenze connesse
allo svolgimento di tali attività.
Il decreto firmato ieri dal ministro del Lavoro, di concerto
con quello della Salute, colma il vuoto normativo. Il testo,
che entrerà in vigore con la sua pubblicazione sul sito
internet del ministero del Lavoro e di cui sarà fornita
notizia sulla Gazzetta ufficiale, è diviso in due capi: nel
primo ci sono le disposizioni riguardanti gli spettacoli
musicali, cinematografici e teatrali, mentre nel secondo
quelle per le manifestazioni fieristiche.
Le disposizioni del capo I, in considerazione della
compresenza di più imprese esecutrici, di un elevato numero
di lavoratori, subordinati e non, anche di diverse
nazionalità, si applicano alle attività di montaggio e
smontaggio di opere temporanee, compreso il loro
allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e
scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali,
cinematografici teatrali e di intrattenimenti, con
esclusione, tra l'altro, del montaggio/smontaggio di pedane
di altezza fino a 2 metri rispetto al piano stabile, non
connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture.
Per tali attività, come per quelle fieristiche, ai fini
della sicurezza non trovano applicazione le disposizioni
relative al documento unico di regolarità contributiva (Durc).
Per quanto concerne le manifestazioni fieristiche, il
decreto fa rientrare nel campo di applicazione del testo
unico le attività di approntamento e smantellamento di
strutture allestitive o tensostrutture per manifestazioni
fieristiche con esclusione di quelle di altezza inferiore a
6 metri rispetto al piano stabile e di quelle biplanari con
superficie fino a 50 metri quadrati.
Nelle attività oggetto del decreto in esame, la copia del
piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del piano
operativo di sicurezza (Pos) devono essere messi a
disposizione dei rappresentanti della sicurezza prima
dell'inizio dei lavori. Gli allegati al decreto riguardano
le informazioni minime sul sito di installazione dell'opera
temporanea, il modello di dichiarazione di idoneità tecnico
professionale delle imprese straniere, i contenuti minimi
del Psc e del Pos, le informazioni minime sul quartiere
fieristico, i contenuti minimi del Duvri di cui all'articolo
26 del testo unico (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Anticorruzione, le Faq dell'Authority non risolvono ma
pongono problemi.
Tante Faq, molta confusione. L'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), subentrata alla Civit nel presidio
delle disposizioni contro la corruzione, ha pubblicato nei
giorni scorsi
decine di risposte a domande frequenti, poste
a orientare la corretta applicazione del dlgs 33/2013.
L'iniziativa suscita alcune perplessità tanto sul metodo
quanto, soprattutto, nel merito di alcune indicazioni
contenute.
Quanto al metodo, il rischio è che le risposte alle domande
frequenti assurgano al ruolo di interpretazione «ufficiale»
o «autentica» delle norme, proprio perché provenienti da
autorità preposte al ramo. Ma l'interpretazione autentica
spetta solo al legislatore, mentre l'interpretazione delle
norme in modo vincolante è funzione esclusiva della
giurisdizione. Nel merito le risposte dell'Anac non
convincono.
Ad esempio la Faq n. 2.5 risponde al quesito se il
responsabile della trasparenza competente per l'accesso
civico può essere anche titolare del potere sostitutivo a
intervenire sull'istanza del cittadino, se ad essa non sia
data risposta nei termini previsti dall'articolo 5, comma 4,
del dlgs 33/2013.
L'Anac sostiene che responsabile della trasparenza e
titolare del potere sostitutivo non possano coincidere, «in
quanto il soggetto titolare del potere sostitutivo non
dovrebbe rivestire una qualifica inferiore o equivalente
rispetto al soggetto sostituito». Come si nota, la Faq
intanto risulta perplessa, dal momento che utilizza il
condizionale. Per altro verso, nel prosieguo indica una
soluzione non contemplata dal dlgs 33/2013, tracimando da
funzione di interpretazione in vera e propria attività di
normazione.
Infatti, si afferma che «ai fini della migliore
tutela dell'esercizio dell'accesso civico soprattutto nei
casi in cui vi sia un unico dirigente a cui attribuire le
funzioni di responsabile della trasparenza e di prevenzione
della corruzione, le funzioni relative all'accesso civico di
cui all'art. 5, comma 2, del dlgs n. 33/2013 possono essere
delegate dal responsabile della trasparenza ad altro
dipendente, in modo che il potere sostitutivo possa rimanere
in capo al responsabile stesso. Questa soluzione è rimessa,
in ogni caso, all'autonomia organizzativa degli enti».
È una soluzione non condivisibile. Con la delega, infatti,
si modifica l'assetto delle competenze di organi o uffici.
Tale assetto, però, è oggetto di riserva di legge ad opera
dell'articolo 97, commi 1 e 2, della Costituzione. Dunque,
solo una legge può consentire che l'ordinamento da essa
fissato sia modificato con un atto amministrativo di
organizzazione, quale la delega.
La soluzione consigliata dalla Faq, dunque, si rivela
contraria all'assetto normativo. In particolare negli enti
locali, nei quali il responsabile della trasparenza coincide
ex lege col responsabile anticorruzione, il quale ex lege è
il segretario comunale. Solo il sindaco o il presidente
della provincia può modificare tale stato delle cose, con un
provvedimento espresso e motivato che assegni dette
competenze ad un soggetto diverso. Pertanto, se il
segretario comunale delegasse anche solo parte delle proprie
competenze con una propria delega, violerebbe un assetto di
funzioni disegnato dalla legge e del quale può disporre solo
l'organo monocratico di governo.
Nessuna norma, comunque, impone che il potere sostitutivo
sia adottato da un soggetto avente qualifica superiore al
titolare inerte. In generale, è vero, il potere sostitutivo
spetta nello Stato, ai dirigenti generali nei confronti dei
dirigenti di prima fascia, ed a questi nei confronti dei
funzionari. Ma se responsabile della trasparenza è un
dirigente al vertice, sarà impossibile ovviamente reperire
un titolare di potere sostitutivo di qualifica superiore.
Lo stesso vale per gli enti locali, nei quali il segretario
comunale è visto come soggetto apicale, al limite di
qualifica equivalente, se sono presenti dirigenti (articolo ItaliaOggi del
21.02.201). |
ENTI LOCALI: Multe autovelox, rendiconti fai-da-te.
I comuni devono rispettare i vincoli di destinazione dei
proventi delle multe anche se l'obbligo di rendicontazione
periodico previsto a maggio di ogni anno al momento resta
sospeso per mancanza del necessario supporto informatico.
Lo ha chiarito l'Anci con un parere divulgato il giorno di
San Valentino sul portale dell'associazione (si veda
ItaliaOggi del 15/02/2014).
La questione della ripartizione a metà delle multe autovelox
e della rendicontazione periodica sull'impiego del denaro
incassato da comuni e province nasce con la legge n.
120/2010 che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le
violazioni dei limiti di velocità i proventi devono essere
ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende
l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove disposizioni, secondo il primo parere diramato
dall'Anci il 05.06.2012, sarebbero divenute operative il 01.01.2013 a seguito alla conversione in legge del dl
n. 16/2012 che ha specificato che anche in mancanza del
necessario decreto attuativo le nuove regole entrano
comunque in vigore.
Ma non solo. Letteralmente l'art. 142, comma 12-quater, del
codice impone agli enti locali di trasmettere in via
informatica a Roma, entro il 31 maggio di ogni anno, una
composita relazione in cui sono indicati, con riferimento
all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di
propria spettanza con la specificazione degli oneri
sostenuti per ciascun intervento.
Ma in assenza del sistema informatico necessario a
rendicontare e di regole chiare su quanto e come dividere si
naviga a vista e si procede con grande approssimazione. Per
questo motivo l'Associazione dei comuni è intervenuta
nuovamente specificando che nella confusione normativa resta
in vigore il comma 3 dell'art. 25 della legge 120/2010 il
quale dispone l'applicabilità della novella a far data
dall'esercizio successivo a quello di emanazione del decreto
mancante «ed in ogni caso all'esercizio successivo a quello
in corso». In ogni caso anche per il 2014 l'Anci raccomanda
la massima attenzione circa l'obbligo di destinazione dei
proventi. In buona sostanza sarà necessario continuare a
tenere una contabilità separata tra i proventi autovelox e
tutti gli altri importi sanzionatori.
E anche accantonare le somme incassate in attesa che la
questione venga definitivamente risolta dal ministero. Del
resto nell'unico parere diramato sul complesso tema dal
ministero dell'interno il 24.12.2012 si specifica a
chiare lettere che «a fronte dell'asistematicità del dato
normativo, rimane ineludibile l'obbligo per gli enti locali
di destinare i proventi di cui in argomento secondo le
previsioni di legge».
In buona sostanza è meglio rispettare integralmente i
vincoli di destinazione degli importi delle multe
accantonando quanto incassato anche nel corso dell'esercizio
finanziario 2013 per conto di altri enti. Solo così si
potranno evitare responsabilità contabili all'arrivo del via
libera definitivo dall'impasse (articolo ItaliaOggi del
21.02.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., dirigenti fiduciari a rischio.
Incarichi in contrasto con le norme anticorruzione.
La legge 190/2012 richiede comunque l'attivazione di una
procedura selettiva.
La prassi degli incarichi dirigenziali intuitu personae è in
contrasto con la normativa anticorruzione.
L'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012
considera ex lege, tra gli altri, a particolare rischio di
corruzione i procedimenti di «concorsi e prove selettive per
l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui
all'articolo 24 del citato decreto legislativo n. 150 del
2009».
Apparentemente la norma non sembra riferirsi ad ipotesi come
l'assegnazione di incarichi dirigenziali o di vertice «a
contratto».
Soffermandosi, infatti, solo sul nomen iuris degli istituti
contemplati dalla norma (concorsi e progressioni di
carriera), sistemi di reclutamento come quelli di cui
all'articolo 110 del dlgs 267/2000 si potrebbero considerare
esclusi, perché non riferiti né a concorsi, né alle ex
progressioni verticali.
A ben vedere, al contrario, gli incarichi ai sensi
dell'articolo 110 citato, specie e soprattutto se assegnati
a dipendenti interni all'ente privi di qualifica
dirigenziale, rientrano in pieno nel campo di applicazione
della norma. Il legislatore anticorruzione, infatti, si
riferisce in termini generici a qualsiasi procedura volta a
reclutare personale, comprendendo anche la dirigenza. Oltre
tutto, appare piuttosto evidente che se rischi di corruzione
vi sono nell'ambito delle procedure di concorso, nonostante
queste siano regolate da molteplici norme poste ad evitare
inquinamenti procedurali, rischi molto maggiori albergano
laddove si tratti di procedure lasciate all'assoluta
discrezionalità, se non arbitrio, dell'organo di governo,
che sceglie ad personam il soggetto cui assegnare l'incarico
dirigenziale.
Comunque, il Piano nazionale anticorruzione, nel
disaggregare i «rischi specifici» connessi appunto con
l'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012,
segnala due ipotesi di esposizione alla corruzione
perfettamente pertinenti al caso: previsioni di requisiti di
accesso «personalizzati» ed insufficienza di meccanismi
oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei
requisiti attitudinali e professionali richiesti;
motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei
presupposti di legge per il conferimento di incarichi
professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari.
L'interpretazione costituzionalmente orientata (del resto
imposta dalle sentenze della Corte costituzionale a partire
dalla 103/2007) delle procedure di conferimento degli
incarichi dirigenziali esclude la fiduciarietà e l'intuitus
personae (salvo gli incarichi negli uffici di diretta
collaborazione dei ministri e dei massimi vertici
ministeriali, ove esistono influenze politiche nell'azione
dirigenziale): pertanto, qualsiasi altro incarico deve
necessariamente essere il frutto di procedure quanto meno
comparative.
Le quali costituiscono un presidio da scelte arbitrarie e
potenzialmente molto permeabili alla corruzione, quali
scelte legate alla fiduciarietà.
Dunque, anche nell'ambito del reclutamento dei dirigenti a
contratto «non è certamente ammissibile precostituire
requisiti di accesso tagliati su misura sul destinatario
dell'incarico, o attivare meccanismi di verifica dei
requisiti del tutto insufficienti e carenti di strumenti
oggettivi, elementi costitutivi del primo fattore di
«rischio specifico» di corruzione visto sopra; né è
possibile attribuire gli incarichi in assenza di una
motivazione profonda e chiara, che, per la verità, può
risultare davvero completa ed efficace solo in funzione
della sussistenza di criteri oggettivi di confronto
selettivo».
È di tutta evidenza che attribuendo incarichi solo per via
fiduciaria o intuitu personae, senza procedure selettive
oggettive e senza motivazioni che vadano oltre la
considerazione della persona e della fiducia in essa
riposta, i rischi di assegnazioni clientelari o solo di
fiducia mal riposta nelle capacità tecniche sono
elevatissimi.
Si deve tenere presente che una carenza nella capacità di
selezionare i soggetti meglio capaci di gestire le risorse
pubbliche e di perseguire le finalità dell'amministrazione,
non solo crea presupposti per azioni «interne»
viziate da corruzione amministrativa (quando non anche
penale); ma, soprattutto, incide negativamente su tutta la
comunità amministrata, che subisce le conseguenze di
un'amministrazione disattenta ai bisogni generali (articolo ItaliaOggi del
21.02.2014). |
APPALTI: Milleproroghe.
Centrale unica a rischio.
L'entrata in vigore dell'obbligatorietà della costituzione
della Centrale unica di committenza per i comuni con
popolazione inferiore a 5 mila abitanti è stata nuovamente
prorogata al 30.06.2014 da un emendamento approvato in
senato al decreto milleproroghe.
È bene ricordare che l'art.
33, comma 3-bis, del Codice unico degli appalti il stabilisce
l'obbligo per i comuni con popolazione non superiore a 5
mila abitanti (ricadenti nel territorio di ciascuna
provincia) di costituire un'unica centrale di committenza
per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture
nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32
del dlgs n. 267/2000 ovvero costituire un apposito accordo
consortile tra i comuni stessi.
La ratio della disposizione
risiede nella volontà del Legislatore di favorire la
gestione delle attività, delle funzioni e dei compiti in
forma associata, favorendo -nel contempo- un processo di
razionalizzazione della spesa, un più efficiente impiego
delle risorse umane e strumentali a disposizione ed una
maggiore efficacia dell'azione amministrativa.
Tuttavia,
tale proroga (introdotta anche su richiesta dell'Anci)
potrebbe non entrare in vigore definitivamente; infatti la
caduta del governo Letta a seguito delle dimissioni del
presidente del consiglio e la conseguente procedura di
nomina di un nuovo esecutivo e l'ottenimento della fiducia
da parte del parlamento possono mettere a repentaglio il
percorso del decreto Milleproroghe attualmente alla camere
il quale dovrà essere convertito definitivamente in legge
entro il prossimo 28 febbraio. In caso di mancata
conversione, gli enti locali dovranno provvedere
immediatamente alla costituzione della Centrale unica al
fine di ottemperare agli obblighi di legge.
Per quanto riguarda i bandi pubblicati dal 1° gennaio ad
oggi, si ritiene che, anche in caso di mancata conversione
del decreto, agli stessi possano essere applicate le norme
precedenti in quanto l'annullamento delle procedure per il
venir meno della proroga potrebbe comportare una lesione
dell'interesse pubblico generale sotteso all'azione
amministrativa (articolo ItaliaOggi del
21.02.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Fotovoltaico, obbligo di Catasto.
Al bivio fra iscrizione e revisione della rendita: in ogni
caso imposte più elevate.
Fisco e immobili. La circolare 36/E delle Entrate chiarisce
che occorre procedere all'operazione per le strutture più
grandi.
L'accatastamento
degli impianti fotovoltaici ha trovato forse la soluzione
definitiva con la
circolare 19.12.2013 n. 36/E delle
Entrate.
In particolare, per gli impianti fotovoltaici a terra,
considerati beni immobili, è previsto l'accatastamento nella
categoria D/1 "opifici". Se invece di impianti a sé stanti,
come nel primo caso, si tratta di strutture poste su
edifici, lastrici solari o su aree di pertinenza di altri
immobili, non si dovrà effettuare un autonomo
accatastamento, ma procedere alla rideterminazione della
rendita dell'immobile a cui i pannelli sono connessi. Se
questa aumenta di più del 15% rispetto al valore originario,
il proprietario è tenuto a comunicare la variazione
all'agenzia del Territorio (si veda l'altro articolo in
pagina).
Se l'impianto è costruito in forza di diritto di
superficie, va accatastato autonomamente e quindi dovrebbe
assumere la categoria di opificio; infatti nella fattispecie
il proprietario dell'impianto è diverso da quello
dell'immobile sottostante. In ultimo la circolare considera
in ogni caso come beni mobili, e dunque non meritevoli di
accatastamento, gli impianti di "modesta entità".
La circolare considera anche il caso di impianti
fotovoltaici "rurali", prevedendo il loro accatastamento
nella categoria D/10, a condizione che siano asserviti ad
una azienda agricola «esistente» con un terreno di
estensione non inferiore ai 10mila metri quadri e che la
potenza dell'impianto non risulti superiore ai 200 Kw. In
questi casi, l'impianto potrà essere censito come D/10
anziché D/1, purché alla dichiarazione di accatastamento si
alleghi l'autocertificazione dei requisiti di ruralità su
modello conforme.
Ai fini delle imposte ricomprese nella Imposta unica
comunale (Iuc), ovvero Imu, Tasi e Tari, il diverso
accatastamento ha notevoli ripercussioni.
Nel caso di immobili censiti autonomamente in categoria D/1,
si dovrà procedere al calcolo dell'Imu e delle altre imposte
gravanti sugli immobili in base al valore catastale
derivante dalla dichiarazione di accatastamento. Per Imu e
Tasi (tariffa sui servizi non divisibili), partendo dal
valore catastale dell'immobile, si dovrà procedere al
calcolo delle imposte, ricordando che la somma delle due
aliquote non dovrebbe poter superare il 10,6 per mille e
comunque l'aliquota Tasi dovrà essere compresa tra l'1 e il
2,5 per mille, ma si è in attesa di decreto. Per la Tari
(tariffa rifiuti) la base imponibile sarà ancora data dalla
superficie calpestabile e varranno specifiche aliquote
determinate dai Comuni in modo da garantire l'integrale
copertura dei costi sostenuti per la raccolta rifiuti;
pertanto non dovrebbe colpire gli impianti fotovoltaici.
Nel caso, invece, di immobile già censito per cui si renda
necessaria la variazione del valore catastale, si dovrà
procedere al ricalcolo dell'Imu rispetto a quello dell'anno
precedente. La variazione catastale determinerà, infatti, un
aumento proporzionale della base imponibile ai fini Imu e
Tasi.
Gli impianti fotovoltaici "rurali" censiti nella categoria
D/10 sono esenti da Imu come previsto dal comma 708 della
legge 147/2013 per gli immobili rurali strumentali, mentre ai
fini Tasi potranno essere soggetti al massimo all'aliquota
dell'1 per mille, con possibilità per i Comuni di prevedere
anche ulteriori riduzioni. Ovviamente la ruralità è
garantita qualora vengano rispettate le condizioni stabilite
dalla circolare dell'Agenzia 32/2009 e in particolare che il
fatturato della attività agricola sia superiore a quello
della produzione di energia elettrica, tariffa incentivante
esclusa, ovvero che il terreno coltivato anche in comuni non
confinanti sia pari ad almeno 10 ettari per 100 kw (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014
- tratto da www.centrostudi.it). |
ENTI
LOCALI: Unioni comunali, vincoli rinviati.
Patto di stabilità. Decorrenza dal terzo anno dopo la loro
istituzione.
La nuova
circolare sul patto di stabilità diramata ieri dalla
Ragioneria Generale dello Stato (n. 6/2014) spiega per la
prima volta le modalità applicative dell'assoggettamento al
patto, a partire dall'anno in corso, delle unioni costituite
dai comuni con popolazione fino a mille abitanti (comma 1,
articolo 16, Dl 138/2011). Le unioni in questione applicano la
disciplina prevista per i comuni aventi popolazione
corrispondente.
Pertanto, l'assoggettamento alle regole del
patto decorre –analogamente a quanto previsto per i comuni
di nuova istituzione– dal terzo anno successivo a quello
della loro istituzione; mentre la base di riferimento su cui
applicare la percentuale è data dalle risultanze dell'anno
successivo a quello della loro istituzione. La spesa
corrente da considerare è quella desunta dai certificati di
conto consuntivo.
Fra le novità targate 2014 che tutti gli enti devono tener
presente la circolare ricorda il "bonus" investimenti di 1
miliardo. Gli spazi finanziari che si liberano in
applicazione della norma vanno utilizzati esclusivamente per
pagamenti in conto capitale datati nel primo semestre del
2014 (per cui i pagamenti in conto capitale che avverranno
nel secondo semestre non potranno essere esclusi a valere
sui predetti spazi finanziari); il controllo sarà effettuato
con il monitoraggio semestrale.
La circolare si sofferma anche sul fondo svalutazione
crediti, in merito al quale conferma che i relativi
stanziamenti non rilevano ai fini del saldo finanziario di
competenza mista, poiché non sono oggetto di impegno, ma
confluiscono nel risultato di amministrazione vincolato. Sul
punto la Ragioneria generale precisa anche che tali voci non
rilevano fin dalle previsioni, superando in questo modo la
posizione più rigida della Corte dei conti (deliberazione
287/2012 della Toscana) che in passato era intervenuta sul
punto.
Anche se la Circolare nulla dice in proposito, è da
ritenere che analogo trattamento vada riservato al fondo
crediti di dubbia esigibilità che negli enti in
sperimentazione dell'armonizzazione contabile ha mandato in
soffitta il fondo svalutazione crediti.
Come ogni anno, le istruzioni della Ragioneria si confermano
un utile vademecum per applicare correttamente il patto,
particolarmente apprezzato dagli enti con meno di cinquemila
abitanti, costretti a fare i conti con questo vincolo da
poco più di un anno (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI: Fatturazione elettronica obbligata da giugno 2015.
Agenda digitale. Comuni, province e regioni hanno 16 mesi
per adeguarsi.
L'obbligo
della fatturazione elettronica per le amministrazioni locali
decorre dal 06.06.2015. Comuni, province e regioni
avranno dunque oltre 16 mesi per adeguarsi e cominciare a
far viaggiare le fatture sulle piattaforme informatiche
messe a punto da Entrate e Sogei per tutti i loro fornitori.
A fissare nero su bianco la data da cui decorrerà l'obbligo
previsto dalla Finanziaria 2008 sia per le amministrazioni
centrali sia per quelle locali, è ora un decreto attuativo
messo a punto dal ministro dell'Economia e da quello per la
Pubblica amministrazione e la Semplificazione e domani al
parere definitivo della conferenza unificata.
Poche righe ma che completano il quadro normativo per far
decollare una volta per tutte la "terza gamba" dell'Agenda
digitale italiana: quella della fatturazione elettronica
(Identità digitale e anagrafe nazionale della popolazione
residente sono le altre due). E su cui a scommetterci non è
solo la macchina amministrativa ma anche i privati. Tra
questi il Consorzio Cbi cui aderiscono 600 istituti
finanziari che offrono servizi a oltre 920mila imprese. In
un contesto in cui la priorità per recuperare risorse passa
per il taglio dei costi nella Pa, come ricorda il direttore
generale del Consorzio, Liliana Fratini Passi «con
l'introduzione della fatturazione elettronica verso la Pa si
possono ottenere risparmi diretti per oltre un miliardo di
euro l'anno (se si considerano solo gli impatti interni alle
Pa) e di circa 1,6 miliardi se si vogliono considerare anche
i potenziali effetti sui fornitori della Pa stessa».
C'è poi un risvolto difficile da quantificare ma che
potrebbe dare comunque risultati eclatanti: la trasparenza e
la tracciabilità dei pagamenti con la fatturazione
elettronica sono un'arma in più per il contrasto
all'evasione fiscale e al sommerso. Ma come sempre accade i
buoni propositi e le best practices in Italia non sempre
trovano riscontri immediati. Il Direttore generale del
Consorzio precisa che gli «enti che si sono dichiarati
disponibili alla ricezione di fatture elettroniche
attualmente sono al di sotto delle aspettative. Da una
verifica al 12 febbraio scorso le ammministrazioni
registrate ai servizi di fattura elettronica sono soltanto
50 e di queste solo 14 Pa centrali».
Eppure la macchina e gli istituti finanziari che aderiscono
al Consorzio sono pronti. Già dal 6 dicembre scorso,
conclude il Dg di Cbi, è disponibile la funzione «Fattura PA»
che consente a un consorziato di interfacciarsi con il
sistema di interscambio dell'agenzia delle Entrate gestito
da Sogei per l'invio delle fatture elettroniche per conto
dei propri clienti aziende creditrici, così come la
ricezione di fatture elettroniche per conto delle proprie
clienti pubbliche amministrazioni debitrici.
Tutto pronto dunque, ora tocca alla macchina statale e
locale mettersi in gioco (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rischio contenzioso per i produttori di rifiuti speciali
assimilati.
Rischio contenzioso sulla Tari per i produttori di rifiuti
speciali assimilati. Secondo il ministero dell'ambiente, a
tali soggetti spettano solo gli sconti sulla parte variabile
della tariffa eventualmente decisi dai comuni, in base
all'art. 1, comma 649, della legge 147/2013. Ma il
successivo comma 661 consente loro di pretendere l'esenzione
totale. Si tratta di due norme fra di loro chiaramente
contrastanti.
In base alla prima, «per i produttori di
rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella
determinazione della Tari, il comune, con proprio
regolamento, può prevedere riduzioni della parte variabile
proporzionali alle quantità che i produttori stessi
dimostrino di avere avviato al recupero». La seconda
disposizione, invece, dispone che la Tari non è dovuta «in
relazione alle quantità di rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero».
Con la
circolare 13.02.2014 n. 1/2014 il ministero dell'ambiente ha affermato
la prevalenza del comma 649 rispetto al successivo comma
661, lasciando, in pratica, il pallino degli sconti nelle
mani dei comuni.
Ciò sulla scorta di una duplice
argomentazione: sul piano formale, si evidenzia come sia la
seconda disposizione (già contenuta nell'originario ddl di
Stabilità) a non essere coordinata con la prima (inserita
durante l'iter parlamentare); sul piano sostanziale, si
afferma la necessità di conservare in capo agli enti locali
la flessibilità necessaria a conciliare la sostenibilità
finanziaria del ciclo integrato dei rifiuti con le politiche
di incentivo e stimolo per le buone pratiche in tema di
recupero.
Tuttavia, gli ordinari canoni interpretativi
dovrebbero suggerire di far prevalere la tesi più favorevole
ai contribuenti interessati, che certamente possono invocare
l'esenzione totale in base al comma 661. Di ciò pare essere
consapevole lo stesso estensore della circolare, allorché
evidenzia la necessità di un «chiarimento normativo», anche
al fine di «prevenire un prevedibile contenzioso, di durata
non determinabile, a scapito di operatori e aziende», oltre
che (si deve aggiungere) degli stessi comuni. Non a caso, lo
schema di decreto sulla casa predisposto dall'ex governo
Letta (e destinato a contenere anche i correttivi sulla Tasi
e sul fondo di solidarietà) sposava la tesi opposta a quella
fatta propria dal dicastero da ultimo guidato da Andrea
Orlando.
Una soluzione, quest'ultima, anch'essa
problematica, che scaricherebbe forti aumenti sulle utenze
domestiche. Anche il riferimento alla «parte variabile»
della tariffa come base di riferimento degli sconti decisi
dai sindaci è impreciso, dal momento che, da quest'anno, in
alternativa al metodo normalizzato, è possibile optare per
quello «semplificato», che non presuppone la distinzione fra
costi fissi e costi variabili. Peraltro, non si tratta
dell'unico problema posto dalla disciplina della Tari.
Un
altro dubbio interpretativo riguarda questa volta i
produttori di rifiuti speciali non assimilati agli urbani.
Qui il dubbio nasce dall'inciso «in via continuativa e
prevalente» che potrebbe giustificare la richiesta di
detassazione anche con riferimento ad aree con produzione
mista (articolo ItaliaOggi
del 18.02.2014). |
PATRIMONIO: Stadi, corsia veloce alla ristrutturazione ma senza
residenziale.
Progetti da approvare entro 180 giorni. Legge di stabilità. Le nuove norme per gli impianti sportivi.
Corsia
preferenziale per riqualificare gli stadi e gli impianti
sportivi o costruirne di nuovi. Dal 1° gennaio sono in
vigore le norme per il rilancio dell'impiantistica sportiva
dettate dall'articolo 1, commi 303-306, della legge di
Stabilità (n. 147/2013).
La cosiddetta legge stadi, pur se
con qualche limitazione, asseconda concretamente l'esigenza
di promuovere sia la costruzione di nuovi stadi, sia gli
interventi per l'ammodernamento degli impianti esistenti. La
procedura, che deve concludersi entro 120 giorni (180 in
caso di atti di competenza regionale quali solitamente le
varianti urbanistiche) dal suo avvio, è la seguente:
- il soggetto interessato presenta al Comune uno studio di
fattibilità corredato da un piano economico-finanziario e
dall'accordo con una o più associazioni o società sportive
utilizzatrici in via prevalente;
- il Comune, ove valuti positivamente il progetto in
conferenza di servizi istruttoria, lo dichiara entro 90
giorni di pubblico interesse;
- viene quindi presentato il progetto definitivo, sul quale
il Comune o la Regione -previa conferenza di servizi
decisoria cui partecipano i soggetti titolari di competenze
specifiche- delibera in via definitiva sul progetto,
eventualmente chiedendo le modifiche ritenute strettamente
necessarie.
È importante evidenziare che per legge:
- il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o
permesso comunque denominato necessario alla realizzazione
dell'opera e ne determina la dichiarazione di pubblica
utilità, indifferibilità e urgenza;
- in caso di superamento dei termini fissati dalla legge il
presidente del Consiglio dei ministri, su istanza del
proponente, assegna all'ente interessato 30 giorni per
adottare i provvedimenti necessari e, in difetto, la regione
ovvero lo stesso Presidente del Consiglio per gli impianti
più grandi (superiori ai 4mila posti al coperto e 20mila
allo scoperto) adotta i provvedimenti necessari entro il
termine di 60 giorni;
- in caso di interventi da realizzare su aree di proprietà
pubblica o su impianti pubblici esistenti, il progetto
approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza
pubblica (si veda l'articolo a fianco).
Così descritta la short-track di legge, occorre riferire
delle due disposizioni frutto della mediazione maturata
rispetto alle istanze di chi, per ragioni di tutela
ambientale, si era opposto all'approvazione della normativa
nella sua versione originale. Anzitutto, la norma precisa
che lo studio di fattibilità non può prevedere altri tipi di
intervento, salvo quelli strettamente funzionali alla
fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo
equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa e
concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini
sociali, occupazionali ed economici. È comunque esclusa la
realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale.
La disposizione tutela la posizione di chi teme che dietro
il rilancio dell'impiantistica sportiva si celi solo
l'interesse di ottenere varianti urbanistiche accelerate (se
non di favore) per rendere edificabili aree verdi
periferiche o per consentire la costruzione di nuove case di
alto valore, perché localizzate nelle zone centrali delle
città, ove spesso si collocano gli stadi italiani (da
rilocalizzare).
Può essere che la tutela sia giustificata dalla concreta
esperienza dell'urbanistica italiana, certo è che la nuova
norma avrebbe precluso la realizzazione dell'Emirates
Stadium di Londra. Il nuovo stadio dell'Arsenal (impianto
modernissimo e multifunzionale) è stato costruito su un'area
acquistata dal municipio e in precedenza destinata al
trattamento dei rifiuti, usando il denaro ottenuto con la
vendita degli appartamenti di lusso realizzati al posto
delle tribune del vecchio Highbury.
L'ultima cautela fissata dalla legge attiene al disfavore
per la realizzazione di nuovi stadi. Gli interventi
agevolati, infatti «laddove possibile, sono realizzati
prioritariamente mediante recupero di impianti esistenti o
relativamente a impianti localizzati in aree già edificate».
La norma appare pienamente giustificata, sia perché è
comunque doveroso dedicarsi alla riqualificazione del
patrimonio edilizio (anche sportivo) esistente prima di
consumare nuovo territorio, sia perché la legge non preclude
la realizzazione di nuovi impianti (comunque ammessi sui
cosiddetti brownfield), anche su aree non urbanizzate purché
la scelta sia assistita da idonea motivazione.
---------------
La procedura. Ogni decisione urbanistica viene presa dalla
conferenza dei servizi.
Il nodo delle varianti al Prg.
La prima
ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata
negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che
il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato
l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il
rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora
l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone
il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di
realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi
proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione
dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è
garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e
dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i
quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights
applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming
(commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori)
e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento
degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo
sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva,
quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia
attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo
studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche
altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali
alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del
complessivo equilibrio economico-finanziario
dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia
esclusa la residenza e richieda, in continuità con le
migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati
«concorrano alla valorizzazione del territorio in termini
sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la
nuova legge apre la via alla realizzazione di una
impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di
reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni
urbane pone ovviamente il problema di garantire la
conformità del progetto con le previsioni del piano
regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare
agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni
retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche
di governo del territorio e che notoriamente è complicato
dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali
e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva
prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali
attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali.
La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali
che prevedevano meccanismi accelerati di variante
urbanistica per favorire la riqualificazione urbana
(decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili
pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing
(decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente
veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che,
per esempio, non consentano la realizzazione di un centro
commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il
provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o
permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la
variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma
attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta
proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la
procedura di variante è dettata direttamente dalla norma
statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla
presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma
possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano
le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito
urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di
variante previste in sede locale, anche utilizzando la
disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il
regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa
vigente».
---------------
Il caso. Confronto concorrenziale aperto ad altri operatori.
Proprietà pubblica, scatta la gara.
Salve poche
eccezioni (Juventus e Mapei stadium, stadi di Udine, Teramo
e Olimpico di Roma, del Coni) tutti gli stadi italiani sono
di piena proprietà comunale. Secondo i principi comunitari
recepiti nell'ordinamento italiano, la loro cessione ai
privati a fini di lucro deve passare da una procedura di
evidenza pubblica, ovvero da una gara.
Le prime bozze della legge stadi erano lacunose sul punto,
prevedendo che qualsiasi società privata interessata a
costruire e gestire gli impianti, solo per aver trovato una
intesa con le associazioni fruitrici dell'impianto, avesse
titolo per presentare un progetto e attuarlo direttamente se
riconosciuto di interesse pubblico dal Comune.Le nuove disposizioni prescrivono ora una vera e propria
procedura di gara mutuata dal modello del project financing
del Codice dei contratti pubblici: «In caso di interventi da
realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti
pubblici esistenti –si legge nella norma– il progetto
approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza
pubblica, da concludersi comunque entro novanta giorni dalla
sua approvazione. Alla gara è invitato anche il soggetto
proponente, che assume la denominazione di promotore. Il
bando specifica che il promotore, nell'ipotesi in cui non
risulti aggiudicatario, può esercitare il diritto di
prelazione entro quindici giorni dall'aggiudicazione
definitiva e divenire aggiudicatario se dichiara di assumere
la migliore offerta presentata. Si applicano, in quanto
compatibili, le previsioni del codice di cui al decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di finanza di
progetto».
Se l'aggiudicatario è diverso dal proponente, è
tenuto a subentrare, alle stesse condizioni, negli accordi
proposti dallo stesso proponente
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Indennità senza doppioni alle posizioni organizzative.
Parere Aran. In mancanza di una disciplina contrattuale.
Le
amministrazioni locali possono disciplinare con una norma
regolamentare il trattamento economico accessorio da
corrispondere al responsabile di posizione organizzativa
assente. La disciplina deve essere ispirata al principio per
cui l'ente non deve corrispondere più di una indennità di
posizione.
Possono essere così riassunte le principali
indicazioni che sono state dettate dall'Aran con il parere
n. 654/2014. In tal modo viene indicata la soluzione a una
materia su cui manca una specifica disciplina contrattuale.
L'assegnazione alla regolamentazione della competenza a
dettare la «disciplina di dettaglio delle posizioni
organizzative» deriva dalla stretta attinenza di questa
materia con la definizione del modello di organizzazione, e
si deve ritenere ulteriormente rafforzata dalla limitazione
contenuta nel Dlgs 150/2009 degli spazi riservati alla
contrattazione collettiva. L'assenza di questa disciplina
determina una conseguenze certa: «In mancanza di una diversa
regolamentazione, il dipendente incaricato di una posizione
organizzativa ne conserva la titolarità anche nei casi di
assenza (pure di lunga durata) e, in relazione all'incarico
e alla sua durata, il corrispondente diritto a percepire la
retribuzione di posizione e di risultato».
Ma il parere
dell'Aran non si ferma qui: pone dei dubbi sulla «stessa
possibilità di conferire legittimamente l'incarico di una
posizione organizzativa ad altro soggetto in caso di assenza
o impedimento di quello che ne è l'effettivo titolare: una
medesima posizione organizzativa, secondo i principi di
correttezza e buona fede, non potrebbe essere formalmente e
contemporaneamente oggetto di due incarichi conferiti a
soggetti diversi».
Per l'indennità di risultato viene ricordato che questa
dipende dalla valutazione annuale del grado di
raggiungimento degli obiettivi assegnati: «È ragionevole
presumere che i periodi di assenza incidano negativamente,
determinando la conseguente riduzione del compenso da
corrispondere (fino ad annullarlo, quando i risultati
conseguiti .. non siano apprezzabili)».
Il parere pone dei limiti all'autonomia delle
amministrazioni nella determinazione con regolamento del
trattamento economico da corrispondere al dipendente che
sostituisce il titolare di posizione organizzativa assente
nel caso in cui egli non sia già titolare di un tale
incarico. Si deve pervenire a questa conclusione sulla base
della scelta legislativa che riserva alla contrattazione
collettiva nazionale la disciplina di tutte le scelte sul
trattamento economico.
In questo quadro gli enti possono
comunque erogare la indennità di posizione al sostituto nel
caso in cui ne abbiano sospesa la erogazione al responsabile
assente. E possono remunerare, in analogia a quanto previsto
per i dirigenti, il conferimento a interim dell'incarico a
un altro responsabile attraverso la maggiorazione della
indennità di risultato, che in ogni caso deve restare entro
il tetto massimo complessivo ed invalicabile del 25% della
retribuzione di posizione (articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Reflui, burocrazia più snella.
Non è più necessario l'ok per immissioni in atmosfera.
Alleggerito il regime autorizzatorio per i piccoli impianti
di trattamento delle acque.
Burocrazia ambientale più leggera per i piccoli impianti di
trattamento delle acque che utilizzano «linee di trattamento
fanghi», ossia strutture dedicate a processare i particolari
residui formatisi nel procedimento depurativo.
Grazie al
nuovo decreto del 15.01.2014 del Minambiente, i
titolari di alcuni impianti non saranno più obbligati a
chiedere, oltre all'autorizzazione per realizzazione ed
esercizio della struttura, quella relativa alle immissioni
in atmosfera. L'alleggerimento arriva mediante la
riformulazione diretta del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice
ambientale») operata dal nuovo regolamento del Dicastero
verde pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 10.02.2014 n. 33.
La novità. Il decreto riformula l'elenco (contenuto nella
Parte I dell'allegato IV alla Parte Quinta del dlgs
152/2006) degli impianti e delle attività potenzialmente
considerati a «emissioni scarsamente rilevanti» agli effetti
dell'inquinamento atmosferico dall'articolo 272 dello stesso
«Codice ambientale» e in virtù di ciò (ricorrendo le altre
condizioni più avanti esposte) esentati dalla relativa
autorizzazione ordinaria alle emissioni in aria imposta in
via generale dal precedente articolo 269 agli stabilimenti
che gettano inquinanti nell'aria.
In particolare, entrano a
far parte del novero degli stabilimenti astrattamente
ammessi alla deroga burocratica (fermo restando l'obbligo di
rispettare i limiti massimi di emissione in aria previsti
dallo stesso dlgs 152/2006) le linee di trattamento dei
fanghi che operano nell'ambito di impianti di depurazione
delle acque reflue con potenzialità inferiore: a 10 mila
abitanti per trattamenti di tipo biologico; a 10 m/h di
acque trattate per trattamenti di tipo chimico/fisico; a
entrambi i citati parametri per trattamenti sia biologici
che chimico/fisici.
Con il nuovo decreto il Minambiente
chiarisce invece che restano fuori dall'obbligo di
autorizzazione alle emissioni in atmosfera le linee di
trattamento dei fanghi che operano nell'ambito di impianti
di trattamento delle acque «a fini di potabilizzazione», le
quali non producono, per la natura stessa di tali attività,
emissioni in atmosfera.
Le conseguenze. L'inclusione dei primi citati stabilimenti
nell'elenco degli impianti «a basso impatto» atmosferico non
vale però a escluderne in assoluto l'assoggettabilità alle
procedure autorizzatorie di settore. E ciò in primo luogo
perché, per espressa disposizione del ricordato articolo 272
dello stesso «Codice ambientale», la deroga
all'autorizzazione ordinaria imposta dall'articolo 269
citato non vale per gli stabilimenti con emissioni di
sostanze cancerogene, tossiche per la riproduzione o
mutagene o di sostanze di tossicità e cumulabilità
particolarmente elevate (individuate dalla parte II
dell'allegato I alla Parte V del dlgs 152/2006) e per le
attività con utilizzo di sostanze o preparati classificati
come cancerogeni, mutageni o tossici per la riproduzione
(dal dlgs 52/1997).
In secondo luogo perché anche laddove
gli stabilimenti in parola siano effettivamente esentati
(ricorrendo le descritte condizioni) dall'autorizzazione
ordinaria citata, potrebbero comunque essere obbligati ad
aderire alle «autorizzazioni di carattere generale» che gli
enti territoriali competenti (regione, provincia autonoma o
diverse autorità da loro indicata) hanno facoltà di imporre
a determinate attività in forza dello stesso articolo 272, dlgs 152/2006, e ciò pretendendo anche il rispetto di
particolari valori limite di emissione e di regole su
costruzione, esercizio, campionamento e periodicità dei
controlli.
L'eventuale presenza di una «autorizzazione di
carattere generale», lo ricordiamo, fa altresì scattare per
il titolare dell'impianto l'obbligo di aderirvi tramite lo
«Sportello unico per le attività produttive». A imporre la
strada del c.d. «Suap» per l'adempimento in parola è il dpr
59/2013, il provvedimento che dallo scorso 13.06.2013
detta le regole procedurali (meglio note come
«autorizzazione unica ambientale») che le imprese a ridotto
impatto sull'ecosistema devono seguire per poter ottenere i
titoli abilitativi previsti dalla normativa ambientale.
Il
dpr 59/2013 lascia infatti alle imprese che devono
unicamente aderire ad una «autorizzazione di carattere
generale» alle emissioni in atmosfera libera scelta se
ricorrere o meno all'«Aua», ma le obbliga in ogni caso a
rivolgendosi al citato ufficio comunale competente per i
procedimenti amministrativi che riguardano avvio e modifiche
delle attività produttive.
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La Corte Ue: consegna dei rifiuti solo ad autorizzati.
La responsabilità dell'impresa produttrice di rifiuti per il
loro corretto trattamento tecnico cessa con il conferimento
dei residui ad altro soggetto di cui si sia preventivamente
verificata l'idoneità alla relativa gestione in ossequio
alle norme in materia di autorizzazione.
Questo il
chiarimento offerto dalla Corte Ue di giustizia con sentenza
03.10.2013 n. C-113/12 in merito al rispetto delle norme
sulle operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti lungo
la filiera dei rifiuti. Chiarimento relativo alle norme
comunitarie che deve, però, essere necessariamente letto
congiuntamente alle particolari regole nazionali sul
tracciamento dei rifiuti.
- La posizione della Corte Ue. Quella della Corte europea di
giustizia è una lettura fondata sulla direttiva madre in
materia di rifiuti che (con continuità normativa dalla
versione 75/442 all'ultima del 2008, la n. 98) da un lato
pone in capo al «detentore» la responsabilità della loro
corretta gestione e dall'altro (al fine di garantire la
massima tutela dell'ambiente) ne consente la cessione ad
altro soggetto per l'effettuazione delle operazioni
necessarie a patto che quest'ultimo sia in possesso
dell'abilitazione necessaria alle operazioni di trattamento.
Soddisfatta quest'ultima condizione, sottolinea la Corte, al
«cedente» che ha effettivamente controllato l'esistenza di
tale autorizzazione nessun rimprovero può muoversi per il
mancato effettivo rispetto delle norme tecniche di
trattamento.
- Le regole nazionali. Sul piano interno, a obbligare il
«cedente» alla verifica dell'autorizzazione in capo al
soggetto privato cui i rifiuti sono conferiti sono gli
articoli 178 e 188 del dlgs 152/2006 (laddove si impongono
sia il principio di precauzione che l'espressa prescrizione
di controllo sul detentore, che «consegna i rifiuti a un
raccoglitore autorizzato»). A queste vanno però aggiunte le
più particolari disposizioni relative al tracciamento dello
spostamento dei rifiuti, sia che avvenga tramite lo storico
regime cartaceo (formulario di trasporto dei rifiuti) che
attraverso il nuovo sistema di controllo telematico (il noto
Sistri, già in vigore dallo scorso 01.10.2013 per i
gestori).
In caso di utilizzo del primo sistema, il detentore che
consegna i rifiuti ad altro soggetto (autorizzato) è infatti
esonerato da responsabilità solo ove riceva il formulario
controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro 3
mesi dal conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero
ove alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a
dare comunicazione alla Provincia della mancata ricezione
del documento.
In caso di utilizzo del «Sistri» (dal prossimo 03.03.2014
obbligatorio anche per enti e imprese produttori iniziali di
rifiuti speciali pericolosi) la responsabilità del soggetto
che li conferisce è invece esclusa solo con il ricevimento,
tramite l'apposita casella di posta elettronica
attribuitagli dal sistema, della comunicazione di
accettazione dei rifiuti da parte dell'impianto di
trattamento o, in caso di mancato ricevimento della stessa
nei 30 giorni successivi al conferimento al trasportatore,
di una relativa segnalazione fatta sia al Sistri che alla
provincia competente.
Nel caso di tracciamento «ibrido», il soggetto
conferente che non opera in ambiente Sistri (come il
produttore di rifiuti speciali non pericolosi, per il quale
l'utilizzo del sistema telematico è mera facoltà) che
consegna i rifiuti a «soggetto Sistri» vede la sua
responsabilità venire meno solo con la ricezione, o denuncia
dei mancata ricezione, della copia cartacea della «scheda
Sistri-Area Movimentazione» che il gestore dell'impianto
di trattamento deve trasmettergli all'atto dell'accettazione
dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.02.2014). |
ENTI LOCALI: Multe, obblighi dal 2015.
Ma occorre tenere una contabilità separata.
Una nota dell'Anci sulla ripartizione dei proventi da
autovelox.
Nessun obbligo per i comuni di ripartizione dei proventi
delle multe stradali, almeno fino a quando non sarà emanato
il decreto interministeriale attuativo, atteso ormai da
oltre un anno. E anche quando arriverà il regolamento, gli
obblighi a carico dei municipi, di comunicare al ministero
delle infrastrutture e al ministero dell'interno gli
introiti delle violazioni dei limiti di velocità,
scatteranno solo dall'esercizio finanziario successivo «e in
ogni caso dall'esercizio finanziario successivo a quello in
corso».
Quindi dal 2015. Nel frattempo però i comuni dovranno fare
attenzione, tenendo una contabilità separata degli introiti
(quelli relativi alle multe per autovelox e quelli relativi
ad altre violazioni). Perché dal 2015 (se il dm arriverà
come si spera quest'anno) dovranno provvedere a versare
anche la quota di introiti relativa al 2014.
Con una nota
interpretativa, l'Anci interviene sulla annosa querelle che
da oltre un anno agita gli enti locali che non sanno come
dare applicazione alla legge n. 120/2010 la quale ha
riscritto l'art. 142 del codice della strada.
Ma vediamo di ripercorrere i termini del problema. La norma
prevede che, per tutte le violazioni dei limiti di velocità
accertate con autovelox, i proventi debbano essere ripartiti
tra enti proprietari delle strade ed enti accertatori delle
sanzioni. Le somme derivanti dalle multe dovranno poi essere
destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle
strade e al potenziamento dell'attività di controllo (spese
di personale comprese).
Ciascun ente locale è chiamato a trasmettere ai due
ministeri competenti entro il 31 maggio di ogni anno, una
relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno
precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria
spettanza, come risultante da rendiconto approvato nel
medesimo anno, e gli interventi realizzati a valere su tali
risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per
ciascun intervento. In caso di mancata trasmissione della
relazione (o di uso dei proventi in modo difforme da quanto
previsto) la legge del 2010 stabiliva che gli incassi delle
multe da autovelox venissero ridotti del 30%, percentuale
poi elevata al 90% dal dl 16/2012 che fa anche scattare
responsabilità disciplinare e per danno erariale (con tanto
di segnalazione alla Corte conti).
Peccato però che il
modello di relazione e le modalità di trasmissione
telematica dello stesso non siano mai stati approvati dato
che il decreto non ha mai visto la luce. Di qui il caos
generato tra gli enti che in attesa del regolamento navigano
a vista. L'Anci ha fatto chiarezza non solo sulla
ripartizione dei proventi, ma anche sulla modalità di
trasmissione. Come detto, la legge richiede espressamente un
supporto informatico che però non c'è. Vista l'«assenza di
specifiche comunicazioni da parte dei ministeri
interessati», secondo l'Anci, «l'incombenza potrà non essere
osservata» (articolo ItaliaOggi del
15.02.2014). |
APPALTI: Operativa la procedura per il rilascio.
Crediti p.a., parte il Durc.
Via libera alle richieste del Durc da parte delle imprese
creditrici nei confronti delle pa. Sul sito del ministero
dell'economia, dov'è operativa la piattaforma per la
certificazione dei crediti (cd sistema Pcc), è stata
attivata la nuova funzionalità che consente di produrre e
ottenere il codice attraverso il quale Inail, Inps ed
eventualmente casse edili (per le imprese di questo settore)
possono rilasciare il documento di regolarità contributiva.
Lo rende noto l'Inail nella
nota 13.02.2014 n. 1123 di prot. che
porta in allegato una guida predisposta dallo stesso
ministero dell'economia.
In pratica, le imprese interessate dovranno registrarsi sul
sistema Pcc ed effettuare la «Richiesta di rilascio del Durc»
nella piattaforma. Fatto ciò dovranno salvare la richiesta,
identificata da un numero di protocollo, su un dispositivo
elettronico, oppure stamparlo. All'interno della richiesta è
riportato il «codice di verifica» senza il quale Inps, Inail
e casse edili non possono effettuare la verifica della
sussistenza e dell'importo dei crediti certificati per
attestare la regolarità ai fini del rilascio del Durc.
A
questo punto, l'impresa può effettuare la richiesta del Durc
nella maniera tradizionale, cioè sul sito
www.sportellounicoprevidenziale.it e trasmettere a Inps,
Inail e cassa edile la «richiesta di emissione Durc»
effettuata nel sistema Pcc. Gli istituti avviano i
controlli; l'Inail, in particolare, esamina la situazione
dell'impresa richiedente e in presenza di titoli insoluti
quantifica l'ammontare dei debiti e comunica via Pec a Inps
e cassa edile l'importo dell'irregolarità. Lo stesso faranno
Inps e cassa edile. Una volta che è stato quantificato
l'ammontare complessivo dei debiti dell'impresa nei
confronti di Inail, Inps e cassa edile, scatterà la
«verifica capienza per l'emissione del Durc».
Se l'importo
dei crediti certificati è almeno pari all'importo
dell'irregolarità contributiva, la procedura terminerà con
l'emissione del Durc, altrimenti ci sarà l'emissione di un
Durc negativo. La stessa procedura, precisa infine l'Inail,
vale anche nel caso in cui il Durc venga richiesto da una
stazione appaltante o da un'amministrazione procedente
(acquisizioni d'ufficio) (articolo ItaliaOggi del
15.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Roghi illeciti, si rischia il carcere.
Pena aumentata per le imprese e per le operazioni nelle aree
in emergenza.
Giustizia. Pubblicata la legge di conversione del decreto
legge sulla Terra dei fuochi: nuovo reato nel Codice
ambientale.
Pugno di ferro
contro i roghi illeciti di rifiuti dopo il caso terra dei
fuochi, con il debutto di un reato che va a integrare il
Codice ambientale di una nuova fattispecie.
È approdata sulla «Gazzetta Ufficiale» dell'8 febbraio la
legge 06.02.2014, n. 6, la quale, con modifiche, ha
convertito il Dl 10.12.2013, n. 136, il cosiddetto
"decreto terra dei fuochi". Il provvedimento è entrato in
vigore il giorno successivo, e cioè lo scorso 9 febbraio.
L'articolo 3 del provvedimento è dedicato alla «combustione
illecita dei rifiuti», che ora diventa una nuova specifica
ipotesi di reato punita con la reclusione da tre a sei anni.
Un reato di pericolo che si aggiunge a quelli già previsti
in materia di rifiuti dal Codice ambientale (decreto
legislativo 152/2006), che ora si arricchisce con il nuovo
articolo 256-bis. La norma si applica su tutto il territorio
nazionale anche se prende spunto dai tragici roghi che, da
due decenni, offendono il territorio ricompreso tra Napoli e
Caserta.
A ben guardare, tuttavia, il nuovo articolo 256-bis aggiunto
al Codice ambientale introduce due ipotesi delittuose;
infatti, il comma 1 si applica a «chiunque appicca il fuoco
a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera
incontrollata». Invece, il comma 2 si applica a chi
(soggetto privato o impresa) deposita o abbandona rifiuti,
oppure li rende oggetto di un transito transfrontaliero
illecito in funzione della loro «successiva combustione
illecita».
Per le previsioni delittuose di entrambi i commi è prevista
la reclusione tra i 2 e i 5 anni per i rifiuti non
pericolosi, che aumenta da 3 a 6 se i rifiuti sono
pericolosi. L'entità della pena giustifica la custodia
cautelare in carcere. In sede di conversione, sono state
introdotte le aggravanti che aumentano la pena di un terzo
se il reato è commesso in un territorio il quale, all'atto
della condotta e «comunque nei cinque anni precedenti», era
in situazione di emergenza ai sensi della legge 225/1992.
Stesso aumento di pena se il delitto è commesso nell'ambito
dell'attività di un'impresa o di un'attività comunque
organizzata. Tutto questo, invece, non si applica alla
combustione dei «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi,
quali giardini, parchi e aree cimiteriali», a cui invece si
applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 3.000
euro (aumentata fino al doppio se i rifiuti sono
pericolosi). In ogni caso, e opportunamente, tutto questo
apparato sanzionatorio si applica «salvo che il fatto
costituisca più grave reato» (si pensi al disastro doloso
aggravato per il quale è prevista la reclusione da 3 a 12
anni).
Il comma 3 del nuovo articolo 256-bis pone la responsabilità
per «omessa vigilanza sull'operato degli autori materiali
del delitto» a carico del titolare dell'impresa o del
responsabile dell'attività organizzata anche non in forma di
impresa. Costoro saranno puniti anche con le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, del Dlgs 231/2001:
interdizione dall'esercizio dell'attività; sospensione o
revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali
alla commissione dell'illecito; divieto di contrattare con
la pubblica amministrazione (salvo per ottenere prestazioni
di pubblico servizio); esclusione da agevolazioni,
finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di
quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o
servizi.
I mezzi usati per il trasporto dei rifiuti bruciati saranno
confiscati a meno che il mezzo appartenga a persona estranea
alle condotte e questa non abbia operato in concorso con i
responsabili (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2014). |
PATRIMONIO: Dismissioni con iter alleggerito.
Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata -
Possibile sanare gli abusi edilizi.
Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo
le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una
sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e
Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi
incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi
quelli degli enti locali. Le novità sono contenute
nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per
la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il
ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto
l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i
beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni
nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei
beni pubblici:
- si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie
presenti nell'immobile alienato;
- si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che
possono essere oggetto di alienazione;
- si conferisce agli enti territoriali la possibilità di
accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei
beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo
11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa
privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il
ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali
irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In
particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e
precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato
acquirente di un immobile di presentare la domanda di
sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di
trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità
edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi
realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate
leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non
rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad
esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a
vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la
destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella
previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia
del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo».
Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni
interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con
destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con
locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con
destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi,
riformulando il precetto normativo con l'inserimento
dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno
essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del
Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo
appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso
non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione
del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie
dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova
procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà
degli enti territoriali. Comuni, Province, Città
metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le
Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e
affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa
autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa
privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
- gli enti territoriali dovranno individuare i beni che
intendono dismettere con propria delibera;
- la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà
mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo
l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
- il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti
territoriali nel proprio decreto dirigenziale di
autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
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Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.
La
valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso
della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro,
passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di
vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la
verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl
133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e
tre questi elementi per agevolare la dismissione del
patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che
già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte
dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che,
quindi, ora potranno conferire mandato al ministero
dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con
delibera dagli stessi enti nei propri decreti di
autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende
la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle
condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro
contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i
beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non
prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il
vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare
la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui
valorizzazione mediante dismissione richiede spesso
l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi
pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che
gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani
regolatori come immobili a servizio pubblico (standard
urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un
utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante
allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del
controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte
procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano
a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi
edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al
riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19
dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare
la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei
beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione
o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano
escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa
privata che ora viene così potenziata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati, parcelle senza segreti.
Il cliente deve conoscere tempi e costi della controversia.
Gli adempimenti previsti dal codice deontologico forense,
approvato dal Cnf.
Rapporti in chiaro tra avvocato e cliente. All'atto del
conferimento dell'incarico al legale, infatti, la parte
assistita deve contestualmente essere informata: della
complessità e delle ipotesi di soluzione della controversia,
della durata del processo e degli oneri preventivabili, che
il cliente può richiedere siano messi per iscritto. Da
controllare, anche, che l'avvocato renda noti gli estremi
della polizza assicurativa ed emetta fattura fiscale per
ogni pagamento avvenuto.
Sono alcune delle regole che
disciplinano il rapporto tra avvocato e cliente contenute
nel nuovo codice deontologico forense, approvato dal Cnf (si
veda ItaliaOggi del 5 febbraio scorso), che stringe anche le
maglie su adempimenti contributivi e pratiche scorrette per
attirare clienti.
Il rapporto avvocato-cliente. Una delle parti più importanti
del nuovo codice deontologico forense riguarda il rapporto
tra l'avvocato e il cliente, dove sono indicati quali sono i
diritti della parte assistita. Che deve essere informata,
all'atto dell'assunzione dell'incarico da parte
dell'avvocato, delle caratteristiche e dell'importanza della
controversia e delle attività da espletare, con precisazione
delle iniziative e delle ipotesi di soluzione.
L'avvocato
deve informare il cliente anche sulla prevedibile durata del
processo e sugli oneri ipotizzabili, e, su richiesta,
comunicare in forma scritta, a colui che conferisce
l'incarico professionale, il prevedibile costo della
prestazione. Deve poi mettere per iscritto la possibilità di
avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla
legge e, ove ne ricorrano le condizioni, all'atto del
conferimento dell'incarico, deve informare la parte
assistita della possibilità di avvalersi del patrocinio a
spese dello stato. Ancora, l'avvocato deve rendere noti al
cliente gli estremi della propria polizza assicurativa.
Ogni
volta ne venga richiesto, è anche tenuto a informare la
parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui
affidato, e deve fornire loro copia di tutti gli atti e
documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l'oggetto
del mandato e l'esecuzione dello stesso sia in sede
stragiudiziale che giudiziale. L'avvocato deve infine
comunicare al cliente la necessità del compimento di atti
necessari a evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti
pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso.
Adempimenti e paletti. Oltre ai numerosi obblighi
informativi dell'avvocato nei confronti del cliente, il
nuovo codice detta le regole per esercitare la professione
forense: dagli adempimenti fiscali, previdenziali,
assicurativi, contributivi. Ai divieti di stringere patti di
quota lite, di pubblicità comparativa, di siti web con
banner pubblicitari, di accaparrarsi la clientela o
esercitare la professione in luoghi pubblici. Stringendo
così il cerchio sui tanti avvocati che, complice la crisi e
la «proletarizzazione» della professione, non riescono a
pagare i contributi o le provano tutte pur di conquistare
qualche cliente in più.
La corretta informazione sulla
propria attività professionale consiste nel rispetto dei
doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e
riservatezza, con riferimenti alla natura e ai limiti
dell'obbligazione professionale. L'avvocato, inoltre, non
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corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o
suggestive e non comparative (articolo ItaliaOggi
Sette del 10.02.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Stretta sull’incendio dei rifiuti. Obbligo di
risarcimento del danno ambientale per tutti. Dalla Legge di
conversione del dl emergenze ambientali. Sanzioni 231 per le
aziende.
Sanzioni interdittive per le imprese
coinvolte nella combustione illecita di rifiuti e aumento
della pena detentiva per i relativi titolari cui il reato
sia riconducibile anche a mero titolo di omessa vigilanza. E
obbligo di risarcimento del danno ambientale per chiunque,
anche al di fuori di attività professionale, comprometta
l’ecosistema.
Esce così inasprito dall’ultimo e definitivo passaggio
parlamentare della relativa legge di conversione il nuovo
delitto di incendio non autorizzato di rifiuti introdotto
dal dl 136/2013 sulle «emergenze ambientali»
(altrimenti detto «decreto Terra dei fuochi»).
La legge di conversione approvata in via definitiva il
05.02.2014 dal senato conferma l’impianto dell’illecito
introdotto nel «Codice Ambientale» dall’originario
decreto legge allargandone al contempo sia il campo di
applicazione sia l’apparato sanzionatorio.
Condotta punibile più ampia.
Alla luce della legge di conversione del dl 136/2013 il
precetto del nuovo articolo 256-bis del dlgs 152/2006 (c.d.
«Codice ambientale») appare del seguente tenore: «Salvo
che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca
il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera
incontrollata è punito (…)».
Non è più dunque necessario che l’incendio sia effettuato in
«aree non autorizzate». Sparendo dalla disposizione
originaria tale riferimento, per l’integrazione del reato
dal punto di vista oggettivo è infatti sufficiente
appiccare ... (articolo
ItaliaOggi Sette del 10.02.2014). |
APPALTI:
Via libera al Durc per i creditori della p.a..
L'Inps ha spiegato le modalità per il rilascio del
documento.
Con la
circolare 30.01.2014 n. 164, sono state previste le
modalità per il rilascio del documento unico di regolarità
contributiva (c.d. Durc), che può essere consegnato al
richiedente in presenza di certificazione dei crediti certi,
liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle pubbliche
amministrazioni ed emessa tramite la «Piattaforma per la
certificazione dei crediti».
Come è noto, il problema della riscossione dei crediti che i
soggetti privati vantano nei confronti della pubblica
amministrazione, ha trovato la modalità di attuazione
dell'art. 13-bis, comma 5, del dl 07/05/2012, n. 52
convertito, con modificazioni, dalla legge 6/7/2012, n. 94.
Successivamente sono stati emanati alcuni decreti
ministeriali di attuazione per consentire l'ottenimento
della certificazione.
Il suddetto comma 5 prevede che il ... (articolo
ItaliaOggi del 07.02.2014 - tratto da
www.cenctrostudicni.it). |
aggiornamento al
21.01.2014 |
|
SICUREZZA LAVORO: Per il settore degli spettacoli le regole sui cantieri
mobili. Sicurezza. Un decreto ministeriale sarà emanato
entro il 31 dicembre.
Entro il
prossimo 31 dicembre il ministero del Lavoro dovrà emanare
un decreto che consentirà di estendere le regole in tema di
cantieri mobili previste dal Testo Unico sicurezza sul
lavoro ai palchi utilizzati negli spettacoli musicali e
negli eventi teatrali, cinematografici e fieristici.
Come noto, i palchi non sono ponteggi fissi e, per questo
motivo, non sono soggetti alle norme di sicurezza relative a
tali strutture. Prima che fosse approvato il cosiddetto
Decreto del fare (Dl 69/2013, convertito con la legge 98/2013),
anche le norme sui cantieri mobili e temporanei contenute
nel Testo Unico erano di dubbia applicazione. Tale
situazione si traduceva in procedure alquanto farraginose e
inefficaci: per montare un palco, erano sufficienti la
comunicazione al Comune di competenza e la predisposizione
di una relazione tecnica.
Il Decreto del fare ha sbloccato tale situazione, estendendo
anche gli eventi musicali, teatrali, cinematografici e
fieristici la normativa sui cantieri mobili, ma la novità
sarà operativa solo dopo l'emanazione del decreto
ministeriale sopra ricordato.
Tale decreto dovrà individuare quali delle attività connesse
al montaggio e allo smontaggio dei palchi saranno soggette
alle misure di sicurezza già operanti per i cantieri
temporanei e mobili. Secondo le prime indiscrezioni, il
decreto sembra destinato a non fare distinzioni tra attività
escluse ed attività incluse, optando quindi per un ambito di
applicazione molto ampio delle norme sui cantieri mobili.
A prescindere dai possibili contenuto del decreto, tuttavia,
il problema della sicurezza nello spettacolo richiede uno
sforzo che va oltre la semplice modifica delle regole. Come
è stato messo in evidenza ieri nel convegno promosso a
Trieste da una serie di enti pubblici (Comune di Trieste,
Regione Friuli Venezia Giulia, Inail, Ass Triestina, Inail)
e organizzato in memoria di Francesco Pinna, il giovane
morto a Trieste per il crollo del palco che stava
collaborando a costruire, la prevenzione dei rischi per i
lavoratori addetti al montaggio e allo smontaggio dei palchi
per gli spettacoli non è soltanto un problema normativo.
Diversi relatori intervenuti al convegno hanno sottolineato
la necessità di adottare modelli organizzativi e produttivi
meno frammentati di quelli attuali. Gli spettacoli musicali
sono oggi realizzati mediante la partecipazione di un numero
molto elevato di imprese; non è raro che nello stesso luogo
di lavoro siano compresenti decine e decine di datori di
lavoro diversi, con personale assunto mediante tipologie
contrattuali altrettanto differenti. Questa situazione non
aiuta la prevenzione dei rischi, in quanto rende difficile
il coordinamento delle misure e l'individuazione delle
responsabilità, spesso parcellizzate in un numero troppo
alto di soggetti
(articolo Il Sole 24 Ore del
14.12.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, debutta il fotovoltaico.
Rifiuti elettrici. Il Cdm ha varato ieri lo schema di
decreto legislativo.
Quasi pronto
il nuovo sistema legislativo per la gestione dei Raee
(rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche)
destinato a sostituire l'attuale Dlgs 151/2005.
Ieri,
infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima
lettura, lo schema di decreto legislativo per l'attuazione
della direttiva 2012/19/Ue. Ora il testo sarà sottoposto
all'esame della Conferenza unificata Stato-Regioni e delle
competenti commissioni parlamentari.
Il testo nazionale, al pari della direttiva, estende e
chiarisce il campo di applicazione; innalza gli obiettivi di
raccolta, recupero e riutilizzo; frena le spedizioni
all'estero. La qualificazione degli impianti di trattamento
resta, però, un punto delicato perché non sembra essere
compiutamente affrontato; infatti, pur richiedendo
l'iscrizione degli impianti al centro di coordinamento Raee,
il testo non riconosce a tale Centro adeguati poteri per la
verifica periodica né chiarisce quali siano i requisiti da
rispettare.
Fino al 14.08.2018 vige un periodo transitorio e il
decreto si applica alle apparecchiature elettriche ed
elettroniche (Aee) indicate nell'allegato I (si aggiungono,
tra poche altre, i pannelli fotovoltaici, ma restano molto
simili a quelle finora previste dal Dlgs 151/2005), con
alcune esclusioni (per esempio il materiale bellico e le
lampade a incandescenza). Dal 15.08.2018, invece, il
campo di applicazione si apre e la disciplina si applica a
tutte le Aee (classificate in sei categorie nell'allegato
III), con poche esclusioni (per esempio i dispositivi medici
se infetti). Il campo di applicazione potrebbe cambiare
ancora perché entro il 14.08.2015, la Commissione Ue lo
riesaminerà.
La raccolta prevede almeno 4 chili/abitante fino al 31.12.2015 ed entro il
01.01.2019 dovrà raggiungere
il 65%/anno delle Aee immesse sul mercato nei tre anni
precedenti oppure l'85% dei Raee prodotti in Italia. Per
recupero, riciclaggio e preparazione per il riutilizzo gli
obiettivi variano in base alle categorie di Raee e ai
periodi (transitorio e a regime) e sono compresi tra il 50 e
l'85%.
Per ridurre al minimo lo smaltimento dei Raee misti con
altri rifiuti nei cassonetti, i centri di raccolta comunale
accettano gratuitamente i Raee portati dai cittadini, dai
distributori e dai gestori dei centri di assistenza tecnica,
purché prodotti nel territorio ove è ubicato il centro di
raccolta, a meno di apposita convenzione con il Comune. Per
i punti vendita di grande superficie (di almeno 400 mq),
all'obbligo di ritiro del Raee nel caso di acquisto di un'Aee
nuova, si aggiunge quello di ritiro di Raee di piccolissime
dimensioni, anche senza acquisto del nuovo ("uno contro
zero"). Si tratta di Raee con dimensioni esterne non
superiori a 25 cm.
Per arginare la piaga delle esportazioni nei Paesi in via di
sviluppo di Raee "mascherati" da Aee usate, l'allegato VI
reca i requisiti minimi che il possessore deve dimostrare;
in difetto, si presume che si tratti di un tentativo di
esportazione illegale di Raee (si deroga in caso di accordo
di trasferimento tra imprese di Aee difettose da restituire
o riparare). Le spese per analisi, ispezioni e deposito di
Aee usate sospettate di essere Raee possono essere poste a
carico dei produttori, dei Sistemi collettivi o di chi
organizza la spedizione (articolo Il Sole 24 Ore del
14.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Subappaltatori pagati da chi fa l'appalto.
Una norma del decreto sviluppo
sblocca i cantieri. Expo: riassegnazioni di fondi per 165 mln.
Per non bloccare i cantieri, negli appalti pubblici i
subappaltatori potranno essere pagati direttamente dalla
stazione appaltante in caso di particolare urgenza e in
pendenza di una procedura di concordato preventivo; per
l'Expo 2015 previste revoche e riassegnazioni per 165
milioni; niente Iva sui project della Tem e della
Pedemontana.
Sono questi alcuni dei punti più rilevanti del
decreto-legge «Destinazione Italia», approvato ieri dal
Consiglio dei ministri, relativi agli appalti pubblici e
all'Expo 2015.
Prosecuzione degli appalti e pagamento subappaltatori. Lo
schema di decreto-legge affronta le problematiche derivanti
dalle crisi aziendali che toccano sempre più imprese di
costruzioni e le inevitabili conseguenze rispetto alla
prosecuzione degli appalti in corso. In particolare, per
consentire il completamento dell'esecuzione del contratto di
appalto e per condizioni di particolare urgenza, viene
stabilito che la stazione appaltante –anche in deroga al
bando di gara– possa procedere al pagamento diretto dei
corrispettivi ai subappaltatori e ai cottimisti per quanto
da essi eseguito.
Inoltre si prevede che nella pendenza di
una procedura di concordato preventivo, la stazione
appaltante possa pagare distintamente l'appaltatore
principale e i subappaltatori, secondo le istruzioni
impartite dal Tribunale competente, in modo da salvaguardare
sia la parità di condizione tra i creditori dell'appaltatore
in crisi aziendale, sia la prosecuzione dell'appalto. Ciò,
ovviamente, laddove il bando non abbia già previsto il
pagamento diretto dei subappaltatori o dei cottimisti. Si
estende, infine, il regime di svicolo delle garanzie di
buona esecuzione previsto dall'articolo 237-bis del codice
degli appalti anche ai settori «speciali» (acqua, energia e
trasporti) e anche per i contratti in essere.
Expo 2015. Il provvedimento interviene prevedendo meccanismi
di revoca e rassegnazione di fondi per ottimizzare l'impiego
delle risorse disponibili. Per quel che riguarda le somme
oggetto della revoca delle assegnazioni disposte dal Cipe,
complessivamente pari a 165,390 milioni, vengono destinate
prioritariamente, per 53,2 milioni, a opere di connessione
indispensabili per lo svolgimento dell'Expo 2015, al cui
finanziamento vengono anche destinati ulteriori 42,8 milioni
per l'anno 2013 (per un ammontare complessivo di 96 milioni)
a valere sul fondo di cui all'articolo 18, comma 1, del
decreto legge n. 69/2013, già assegnati dal Cipe con
delibera del 09.11.2013 alla linea M4 della
metropolitana di Milano e ritenuti non necessari
nell'immediato.
A quest'ultimo intervento vengono
contestualmente destinati 42,8 milioni a valere sulle
risorse derivanti dalle revoche, al fine di mantenere
inalterato l'ammontare complessivo del contributo assegnato
dal Cipe in attuazione dell'articolo 18, comma 3, del
decreto legge n. 69/2013. Quarantacinque milioni vengono
indirizzati ad interventi per l'accessibilità ferroviaria
dell'aeroporto di Malpensa. Infine si prevede che le risorse
residuali derivanti dalle revoche siano destinate a
interventi immediatamente cantierabili finalizzati al
miglioramento della competitività dei porti italiani e al
trasferimento ferroviario e modale all'interno dei sistemi
portuali. Molto importante, in prospettiva, è l'estensione
(dal 2008 al 2010) dell'arco temporale del termine entro il
quale deve essere avvenuta l'assegnazione delle risorse da
parte del Cipe, con ciò amplia il plafond delle risorse che
possono essere revocate e riutilizzate per opere
immediatamente cantierabili.
Una norma specifica riguarda
poi la chiusura del closing finanziario e la prosecuzione
dei lavori in corso relativi alla Tangenziale esterna est di
Milano e alla Pedemontana Veneta. La norma chiarisce infatti
che i contributi di 330 milioni e di 370 milioni stanziati
per le due opere, strettamente necessari per garantire
l'equilibrio economico-finanziario e la prosecuzione dei
cantieri dei due progetti, non siano assoggettabili a Iva,
come previsto dai piani economico-finanziari
(articolo ItaliaOggi del
14.12.2013). |
INCARICHI PROGETTUALI: Appalti, arrivano i parametri.
Fissati i corrispettivi a base di gara dei servizi
professionali. Via libera della
Corte dei conti al decreto. Torna la liquidazione
forfettaria delle spese.
Via libera della Corte dei conti ai nuovi parametri per i
servizi professionali di ingegneria e architettura. Dal
prossimo anno quindi si cambia e le stazioni appaltanti
finalmente avranno riferimenti certi per determinare
l'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti
pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Dopo la
registrazione della Corte dei conti che ne ha accertato la
sostenibilità dal punto finanziario, infatti, il decreto
ministeriale (giustizia di concerto con infrastrutture) che
determina «i corrispettivi a base di gara per gli
affidamenti di contratti di servizi attinenti
all'architettura e all'ingegneria» è pronto per essere
pubblicato a giorni in Gazzetta Ufficiale. Si tratta di un
provvedimento dall'elaborazione complessa ma necessario,
dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/2012)
aveva cancellato ogni riferimento tariffario, privando le
stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e
per stimare, di conseguenza, l'importo economicamente più
corretto per le procedure di affidamento professionale.
Proprio per sanare tale criticità il governo era intervenuto
con un ulteriore decreto stabilendo che per determinare i
corrispettivi da porre a base di gara si sarebbero applicati
i parametri individuati appunto con un decreto che avrebbe
definito anche «le classificazioni delle prestazioni
professionali relative ai predetti servizi». Il
provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto
stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali
(140/2012) prevedendo anche la classificazione dei servizi
professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e
del grado di complessità. Il compenso sarà infatti
determinato dalla somma dei prodotti tra il costo delle
singole categorie che compongono l'opera, la sua specificità
e la complessità delle prestazioni.
Torna poi la
liquidazione forfettaria delle spese che secondo il
provvedimento è determinato secondo percentuali standard
degli oneri sostenuti dal professionista. Tra le modifiche
introdotte dopo l'approvazione del Consiglio di stato quella
che specifica che «il corrispettivo non deve» (e non più
«non può») determinare un importo a base di gara superiore a
quello derivante dall'applicazione delle tariffe
professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del
medesimo decreto-legge. Nulla viene detto, invece, su chi
deve controllare che il corrispettivo non determini importi
a base d'asta superiori a quello derivanti dall'applicazione
del vecchie tariffe (dm 04/04/2001 e legge 143/1949).
Il Cds
infatti (condividendo la richiesta del Consiglio superiore
dei lavori pubblici e dell'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici) aveva chiesto al ministero della
giustizia di inserire un passaggio per affermare la
competenza della stazione appaltante sulla verifica del
rispetto del vincolo tariffario. Ma questo secondo i piani
alti di Via Arenula avrebbe rappresentato un'inutile
complicazione burocratica, con un aggravio di costi
(articolo ItaliaOggi del
14.12.2013). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pos obbligatorio. Anzi no.
Necessario un decreto attuativo, che non c'è.
Da Bankitalia i chiarimenti sull'adempimento in
vigore fra pochi giorni.
Anche se arrivasse l'apposito decreto con le disposizioni
attuative entro il 01.01.2014, i professionisti
potranno tranquillamente continuare a incassare i compensi
tramite bonifico bancario in base a un accordo con il
cliente. L'articolo 15 del decreto legge 179/2012, infatti,
non introduce a partire dal prossimo anno un obbligo di
utilizzo di strumenti di pagamento elettronico a carico del
pagatore, bensì solo un obbligo di accettazione della carta
di debito a carico del venditore di beni e servizi.
È quanto
chiarisce Banca d'Italia in risposta alla lettera di Federarchitetti inviata qualche settimana fa.
In questi ultimi mesi, molte sono state le iniziative contro
la norma varata dall'allora Governo Monti: dalla Fondazione
studi dei consulenti del lavoro che per prima ha messo in
luce l'inapplicabilità dell'obbligo senza il decreto del
ministero dello sviluppo economico a Inarsind (altro
sindacato di architetti e ingegneri) che ha invitato i suoi
iscritti a non dotarsi di Pos in studio, passando per la
protesta telematica di un gruppo di professionisti che su
Facebook sta riscuotendo molti consensi.
Tutti d'accordo che si tratta di un regalo alle banche,
considerando la commissione da pagare su ogni transazione e
il canone per l'utilizzo dello strumento di pagamento
elettronico. Premette Bankitalia che «la finalità della
norma è quella di favorire una più efficace azione di
contrasto a fenomeni di illecito in campo finanziario e
fiscale». Quanto ai costi dell'operazione, la Banca centrale
cerca di smorzare le polemiche di questi mesi spiegando che
«il mercato delle soluzioni Pos offre prodotti sempre più
avanzati e diversificati sotto il profilo sia tecnologico
sia tariffario. Soluzioni innovative sono disponibili per
l'accettazione di pagamenti anche al di fuori dei
tradizionali punti vendita, ad esempio attraverso l'utilizzo
di dispositivi mobili collegabili a computer, smartphone o
tablet, con formule tariffarie spesso a misura delle diverse
categorie di clientela».
Tuttavia resta fondamentale l'emanazione del provvedimento
attuativo dell'articolo 15 del dl 179/2012 di cui al momento
non c'è traccia. «Abbiamo una produzione normativa
ballerina», denuncia il presidente di Federarchitetti
Paolo Grassi, «che ci fa perdere solo del tempo. Si
poteva già chiarire tutto nella norma primaria, invece no.
Così oggi ci ritroviamo un obbligo che è semplicemente un
intralcio inutile». «Il problema non è la
tracciabilità dei pagamenti», aggiunge Rosario De Luca,
presidente del centro studi dei consulenti del lavoro, «bensì
il fatto che si impone ai professionisti di fare un regalo
alle banche di circa due miliardi di euro. Se lo Stato
ritiene necessario questo adempimento noi siamo disponibili
a farlo, purché sia per noi a costo zero»
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Housing sociale, largo agli aumenti di cubatura
Possibile un incremento di cubatura del 20% delle superfici
per interventi edilizi di housing sociale; previsti anche
cambi di destinazione d'uso e deroghe urbanistiche anche su
interventi in corso.
E' quanto prevede la norma che il
Ministero delle infrastrutture ha aggiunto al decreto-legge
sull'housing sociale (vedi Italia Oggi del 05.12.2013),
che dovrebbe essere portato all'esame del Consiglio dei
Ministri del 20 dicembre, dopo un passaggio in Conferenza
Unificata. Le novità dell'articolo aggiuntivo hanno lo scopo
in primo luogo di ridurre il disagio abitativo di cui
soffrono molti nuclei familiari svantaggiati, ma anche di
favorire l'aumento dell'offerta di immobili in locazione a
canone sociale, il contenimento del consumo del suolo, il
risparmio energetico e le politiche urbane di rigenerazione
delle aree per il tramite dello sviluppo dell'housing
sociale.
Proprio la nozione di alloggio sociale, aggiornata rispetto
a quella attuale, è centrale nella nuova norma, che
definisce tale l'immobile di edilizia residenziale sociale o
di edilizia residenziale pubblica sociale, da affittare in
via permanente a soggetti appartenenti a categorie
svantaggiate; l'alloggio destinato alla locazione a fini
sociali per almeno 15 anni, all'edilizia universitaria
convenzionata, alla locazione con patto di futura vendita
(ma la locazione deve essere di almeno otto anni), nonché
alla proprietà. Le norme contenute nell'articolo aggiuntivo
predisposto dal Ministero delle infrastrutture costituiranno
principi fondamentali di riferimento per il legislatore
regionale che entro novanta giorni dovranno a loro volta
definire i requisiti di accesso negli immobili e i parametri
di riferimento dei canoni.
Fra gli interventi attuabili in base alla norma vengono
espressamente citati: la ristrutturazione edilizia, il
restauro o risanamento conservativo, la manutenzione
straordinaria; la sostituzione del patrimonio edilizio e la
totale demolizione e la ricostruzione con modifica di sagoma
nei limiti previsti dall'articolo 30 della legge 98/2013;
l'ampliamento della superficie complessiva in misura non
superiore al 20% di quella esistente o assentita con
incremento graduato in relazione agli obiettivi di
contenimento energetico e ad altri parametri che saranno le
amministrazioni comunali a definire (sostenibilità
ambientale e sociale).
Fra gli interventi figurano anche le variazioni di
destinazione d'uso anche senza opere e la creazione di
servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza,
al commercio di prossimità, sempre nel limite del 20% della
superficie complessiva comunque ammessa. Dovranno essere
effettuate verifiche di sostenibilità economica dei progetti
di recupero, riuso o sostituzione edilizia e le superfici in
incremento potranno essere cedute o trasferite su altre aree
di proprietà pubblica o privata.
Le operazioni previste dalla norma si attueranno sul
patrimonio edilizio esistente, compresi gli immobili “non
ultimati” e sugli interventi “non ancora avviati ma
provvisti di titolo abilitativo rilasciati entro il
31.10.2013, o regolati da convenzioni urbanistiche stipulate
entro la stessa data e vigenti al momento di entrata in
vigore del decreto-legge". Sono esclusi gli interventi
su edifici abusivi, o ubicati nei centri storici o in aree
di in edificabilità assoluta. Tutti questi interventi
potranno essere effettuati in 14 città metropolitane:
Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma,
Bari, Napoli, Trieste, Cagliari, Catania, Messina e Palermo
e tutti i comuni inclusi nelle rispettive province
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
SEGRETARI COMUNALI: Province, segretari in bilico.
Assieme ai dg cesseranno dagli incarichi il 30 settembre.
Un emendamento al ddl Delrio contraddice l'intesa con i
sindacati sui posti di lavoro.
Sono dei segretari comunali e dei direttori generali delle
province assorbite dalle città metropolitane le prime teste
che salteranno.
La commissione affari costituzionali della camera ha
presentato un emendamento che va in direzione fortemente
contraria alle garanzie sul rapporto di lavoro del personale
provinciale, sulle quali si era sperticato il ministro
Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati,
caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato
escludendo proprio l'Upi, cioè le province.
E gli effetti cominciano a vedersi.
L'emendamento all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl
Delrio prevede che «il segretario provinciale e il direttore
della provincia, in carica alla data di entrata in vigore
della presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi
incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari non si tratta necessariamente della perdita
del posto di lavoro, ma si apre la possibilità di una loro
messa a disposizione della struttura operante presso il
Viminale e dell'apertura di un percorso, comunque
complicato, di ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti
negli enti locali non mancano, ma il rischio di un «passo
indietro» per i segretari è evidente.
Per quanto concerne i direttori generali, si tratta di
incarichi necessariamente a tempo determinato, sicché la
scadenza è in qualche modo connaturata alla tipologia stessa
del lavoro svolto. Di certo, tuttavia, la legge interviene
nel troncare quei rapporti che si sarebbero potuti
prolungare anche fino al 2015.
Ma anche per il restante personale provinciale non ci sono
buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti della
provincia soppressa mantiene la posizione giuridica ed
economica in godimento all'atto del trasferimento alla città
metropolitana, con riferimento alle voci fisse e
continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile,
legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva
preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla.
L'emendamento impone alle città metropolitane di
riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del
personale, modificando il trattamento accessorio «in
relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita non poche perplessità, in quanto la città
metropolitana ha ben poco da riorganizzare, visto che
subentra in tutto e per tutto nelle funzioni provinciali,
sicché gli assetti organizzativi non possono cambiare di
molto.
Sembra chiaro il messaggio: acclarato, come ha spiegato la
Corte dei conti, che in effetti dal riordino delle province
non deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di
contenere la spesa è agire sul costo del personale.
La revisione organizzativa è il presupposto per consentire
alle città metropolitane di agire esattamente su questa
leva, contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà
il sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere
particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al
trattamento del personale provinciale che sarà trasferito
dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali
potranno ancora a maggior ragione incidere negativamente sul
trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali,
dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il
contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non
riesce a garantire
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Sospensione del Durc quando scade il «vecchio».
La certificazione può sopravvivere all'accertamento degli
illeciti. Lavoro. I chiarimenti del
ministero in risposta a un quesito dei consulenti.
L'eventuale
sospensione del documento unico di regolarità contributiva (Durc)
e quindi dei benefici normativi ed economici in forza di una
causa ostativa al suo rilascio, opererà necessariamente a
far data dalla scadenza di un eventuale Durc (della durata
di 120 giorni) rilasciato in precedenza per la stessa
finalità.
È quanto afferma il ministero del Lavoro con l'interpello
11.12.2013 n. 33/2013 in risposta alla richiesta di chiarimenti
formulata dall'Ordine dei consulenti del lavoro circa la
corretta individuazione dell'arco temporale di riferimento
di non rilascio del Durc in presenza delle cause ostative
indicate nell'allegato A del decreto del ministero del
Lavoro del 24.10.2007.
L'articolo 9 del decreto stabilisce che la violazione, da
parte del datore di lavoro o del dirigente delle
disposizioni penali e amministrative in materia di tutela
delle condizioni di lavoro indicate nell'allegato A al
decreto, accertata con provvedimenti amministrativi o
giurisdizionali definitivi, è causa ostativa al rilascio del
Durc per i periodi indicati. La richiamata causa ostativa
non sussiste, invece, qualora il procedimento penale sia
estinto a seguito di prescrizione obbligatoria ai sensi
degli articoli 20 e seguenti del Dlgs n. 758/1994 e
dall'articolo 15 del Dlgs n. 124/2004 ovvero di oblazione
(articoli 162 e 162-bis C.p.).
L'allegato A, nell'individuare le violazioni che determinano
il mancato rilascio del Durc, stabilisce anche i rispettivi
periodi di non rilascio del documento. Tali periodi variano
da un minimo 3 mesi per le violazioni in materia di riposi
giornalieri e settimanali, a un massimo di 24 mesi per le
omissioni dolose delle misure di sicurezza.
Una volta esaurito il periodo di «non rilascio del Durc»,
l'impresa potrà evidentemente tornare a godere dei benefici
normativi e contributivi, ivi compresi quei benefici di cui
è ancora è ancora possibile fruire in quanto non legati a
particolari vincoli temporali.
Così ad esempio sarà possibile usufruire di eventuali
benefici legati alla corresponsione di premi di risultato,
il cui termine per l'effettiva erogazione sia liberamente
scelto dal datore e, quindi, non soggetto a decadenze,
ricada in un periodo di assenza di una causa ostativa al
rilascio del Durc.
Non sarà invece possibile fruire per tutto il periodo di non
rilascio del Durc di benefici concernenti, ad esempio,
l'abbattimento degli oneri contributivi nei confronti
dell'Inps nel caso in cui gli stessi vengano assolti in base
a scadenze legali mensili. In tal caso la regolarità
contributiva deve sussistere con riferimento al mese di
erogazione ovvero al periodo temporale all'interno del quale
si colloca l'erogazione prevista dalla normativa di
riferimento che, per ciascun periodo, legittima il datore a
fruire dell'agevolazione (articolo Il Sole 24 Ore del
12.12.2013). |
TRIBUTI: Imprese edili, Imu più leggera.
Esenzione anche per i fabbricati sottoposti a recupero.
Risoluzione delle Finanze sull'agevolazione
riconosciuta al cosiddetto magazzino.
L'esenzione dall'Imu per il c.d. «magazzino» delle imprese
edili, in vigore dal 01.01.2014, si applica anche per i
l fabbricati acquistati dall'impresa costruttrice sul quale
la stessa procede a interventi di incisivo recupero.
A stabilirlo è la
risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF
della Direzione legislazione tributaria e federalismo
fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero
dell'economia e delle finanze che interviene per la prima
volta sulla nuova fattispecie di esenzione dall'imposta
municipale propria introdotta l'art. 2, comma 2, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.10.2013, n. 124.
Questa norma ha disposto infatti l'esenzione dal tributo
comunale a decorrere dal 01.01.2014 per «i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita». Detta esenzione vale fintanto che permanga tale
destinazione e purché non siano in ogni caso locati.
La questione sottoposta all'esame dei tecnici del ministero
è se nel concetto «fabbricati costruiti» possa farsi
rientrare anche il fabbricato acquistato dall'impresa
costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di
incisivo recupero, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettere
c), d) e f), del dpr 6 giugno 2001, n. 380. Non si tratta,
dunque, di semplici opere di manutenzione ordinaria degli
edifici, in quanto detto articolo del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, nell'elencare le varie tipologie di interventi
edilizi, individua in via generale:
• alla lettera c) gli «interventi di restauro e di
risanamento conservativo», gli interventi edilizi rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che ne
consentano destinazioni d'uso con essi compatibili;
• alla lettera d) gli «interventi di ristrutturazione
edilizia», rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente;
• alla lettera f) gli «interventi di ristrutturazione
urbanistica», rivolti a sostituire l'esistente tessuto
urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un
insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la
modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della
rete stradale.
La risposta positiva prende le mosse dalla considerazione
che, ai fini Imu, l'art. 5, comma 6, del dlgs 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, in caso di utilizzazione
edificatoria dell'area, di demolizione del fabbricato, di
interventi di recupero a norma dell'art. 3, comma 1, lett.
c), d) e f), del dpr n. 380 del 2001, la base imponibile è
costituita dal valore dell'area, la quale è considerata
fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2
del dlgs n. 504 del 1992, senza computare il valore del
fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione
dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione
ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato
costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque
utilizzato.
Da quanto esposto si può dedurre che il
legislatore ha effettuato una sorta di equiparazione tra i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero e i
fabbricati in corso di costruzione, che sono stati entrambi
considerati, ai fini della determinazione della base
imponibile Imu, come area fabbricabile fino all'ultimazione
dei lavori. Naturalmente, precisa la risoluzione, i
fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero
rientrano nel campo di applicazione dell'esenzione
introdotta dal citato art. 2 del dl n. 102 del 2013, solo a
partire dalla data di ultimazione dei lavori di
ristrutturazione.
Si deve, infine, annotare che il comma 1 dell'art. 2, comma
2, del dl n. 102 del 2013 ha stabilito che per l'anno 2013
non è dovuta la seconda rata dell'Imu relativa ai fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano
in ogni caso locati, mentre l'Imu resta dovuta fino al 30
giugno
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2013). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Durc negato, c'è la franchigia.
Durante lo stop fino a scadenza vale il vecchio documento.
Il ministero del lavoro chiarisce in
un interpello gli effetti delle cause ostative al rilascio.
Stop al Durc, ma con franchigia. In caso di violazioni che
comportano la pena del mancato rilascio del Durc per un
determinato periodo di tempo (variabile dai 3 ai 24 mesi),
l'impresa non può per tutto questo periodo fruire dei
benefici normativi e contributivi (per esempio, sgravi su
assunzioni incentivate).
Tuttavia, se l'impresa è già in possesso di un Durc, lo stop
dei benefici opererà dalla scadenza del periodo di validità
del predetto Durc (120 giorni dal rilascio).
Lo precisa, tra
l'altro, il ministero del lavoro nell'interpello
11.12.2013 n. 33/2013.
Durc e cause ostative. I chiarimenti sono stati chiesti dal
Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro
che ha presentato istanza per sapere la corretta
interpretazione del dm 24.10.2007 (disciplina del Durc)
in merito all'individuazione dell'arco temporale di
riferimento di non rilascio del Durc in presenza delle cause
ostative, elencate nella tabella A allegato al predetto
decreto.
La predetta tabella contiene la previsione di una serie di
violazioni (sicurezza lavoro, orario lavoro, omicidio,
lesioni colpose ecc.) in presenza delle quali il datore di
lavoro che le ha commesse è punito con il divieto del
rilascio del Durc al fine di godere dei benefici «normativi
e contributivi» per un determinato periodo di tempo, che va
dal minimo di 3 al massimo di 24 mesi.
Tali periodi di
«pena», spiega il ministero, decorrono dal momento in cui
gli illeciti che ne costituiscono il presupposto sono
definitivamente accertati. Ossia quando le violazioni sono
state accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con
ordinanza ingiunzione non impugnata. Invece non c'è pena
perché non si perfeziona il presupposto della causa
ostativa, qualora intervenga l'estinzione delle violazioni
attraverso la procedura della prescrizione obbligatoria
ovvero, per il caso di violazioni amministrative, attraverso
il pagamento in misura ridotta (ex art. 16 della legge). Il
datore di lavoro che sia destinatario di tale pena potrà
riprendere a godere dei benefici solo una volta esaurito il
periodo di non rilascio del Durc.
La «franchigia» del decreto Fare. Il dl n. 69/2013
(convertito dalla legge n. 98/2013) stabilisce che «ai fini
della fruizione dei benefici normativi e contributivi in
materia di lavoro e legislazione sociale e per finanziamenti
e sovvenzioni previsti dalla normativa dell'Unione europea,
statale e regionale, il documento unico di regolarità
contributiva (Durc) ha validità di 120 giorni dalla data del
rilascio».
La nuova disposizione, secondo il ministero,
comporta che l'eventuale sospensione del Durc e, quindi, dei
benefici «normativi e contributivi» in forza di una causa
ostativa al suo rilascio, opera necessariamente a far data
dalla scadenza dei 120 giorni di un eventuale documento
unico rilasciato in precedenza ovviamente per la stessa
finalità (franchigia).
Controlli a campione nelle p.a. Infine, il ministero precisa
che la disciplina delle cause ostative al rilascio del Durc
si applica anche per i documenti acquisiti d'ufficio dalle
pubbliche amministrazioni procedenti le quali, «ai fini
dell'ammissione delle imprese di tutti i settori ad
agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo finalizzate
alla realizzazione di investimenti produttivi, (...) anche
per il tramite di eventuali gestori pubblici o privati
dell'intervento interessato sono tenute a verificare, in
sede di concessione delle agevolazioni, la regolarità
contributiva del beneficiario, acquisendo d'ufficio il Durc».
In tal caso, aggiunge il ministero, le predette
amministrazioni dovrebbero attivare i controlli,
eventualmente a campione, in merito alla presentazione alle
competenti direzioni territoriali del lavoro (dtl) delle
autocertificazioni relative alla non commissione degli
illeciti ostativi al rilascio del Durc
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori specialistici a rischio contenzioso.
Subito il decreto.
Risolvere con un decreto legge, da varare già nel prossimo
Consiglio dei ministri, il nodo della qualificazione
obbligatoria nelle categorie specialistiche, cancellata dal
parere del Consiglio di Stato reso operativo dal Dpr
30.10.2013.
Al ministero delle Infrastrutture premono per una soluzione
immediata, capace di sterilizzare da subito gli effetti del
decreto andato in Gazzetta lo scorso 29 novembre. Il
provvedimento autorizza le imprese qualificate a eseguire le
attività di maggior valore all'interno di un'opera pubblica
a realizzare direttamente tutti gli altri lavori
accessori anche in assenza di una specifica competenza. Una
sorta di impresa «factotum». ... (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Le province si trasformano in città metropolitane.
Le province uscite dalla porta, rientrano dalla finestra
sotto la veste di città metropolitane.
L'aula della camera
ha approvato ieri un emendamento al ddl Delrio proposto
dalla commissione affari costituzionali, che fa proliferare
di improvviso il numero delle città metropolitane. Si
prevede, infatti, che nelle province che sulla base
dell'ultimo censimento, hanno una popolazione residente
superiore a un milione di abitanti, possono essere
costituite ulteriori città metropolitane. Al momento le
province interessate sarebbero Bergamo, Brescia e Salerno.
Ma ce ne sono altre, la cui popolazione è vicina al limite
del milione di abitanti, che potrebbero presto essere
coinvolte, come Padova, Verona e Caserta. La condizione è
che l'iniziativa sia assunta dal comune capoluogo della
provincia e da altri comuni che complessivamente
rappresentino almeno 500 mila abitanti della provincia
medesima. Dette città metropolitane subentrano alle province
esistenti.
Altra disposizione, non ancora approvata ma in
dirittura, è quella per cui saranno dei segretari comunali e
dei direttori generali delle province assorbite dalle città
metropolitane le prime teste che salteranno. La commissione
affari costituzionali ha presentato un altro emendamento che
va in direzione fortemente contraria alle garanzie sul
rapporto di lavoro del personale provinciale, sulle quali si
era sperticato il ministro per gli affari regionali Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati,
caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato
escludendo proprio l'Upi, cioè le province. L'emendamento
all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl Delrio prevede
che «il segretario provinciale e il direttore della
provincia, in carica alla data di entrata in vigore della
presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi
incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari
non si tratta necessariamente della perdita del posto di
lavoro, ma si apre la possibilità di una loro messa a
disposizione della struttura operante presso il Viminale e
dell'apertura di un percorso, comunque complicato, di
ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti negli enti
locali non mancano, ma il rischio di un «passo indietro» per
i segretari è evidente. Per quanto concerne i direttori
generali, si tratta di incarichi necessariamente a tempo
determinato, sicché la scadenza è in qualche modo
connaturata alla tipologia stessa del lavoro svolto. Di
certo, tuttavia, la legge interviene nel troncare quei
rapporti che si sarebbero potuti prolungare anche fino al
2015. Ma anche per il restante personale provinciale non ci
sono buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti
della provincia soppressa mantengono la posizione giuridica
ed economica in godimento all'atto del trasferimento alla
città metropolitana, con riferimento alle voci fisse e
continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile,
legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva
preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla.
L'emendamento impone alle città metropolitane di
riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del
personale, modificando il trattamento accessorio «in
relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita
non poche perplessità, in quanto la città metropolitana ha
ben poco da riorganizzare, visto che subentra in tutto e per
tutto nelle funzioni provinciali, sicché gli assetti
organizzativi non possono cambiare di molto. Sembra chiaro
il messaggio: acclarato, come ha spiegato la Corte dei
conti, che in effetti dal riordino delle province non
deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di
contenere la spesa è agire sul costo del personale. La
revisione organizzativa è il presupposto per consentire alle
città metropolitane di agire esattamente su questa leva,
contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà il
sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere
particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al
trattamento del personale provinciale che sarà trasferito
dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali potranno
ancora a maggior ragione incidere negativamente sul
trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali,
dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il
contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non
riesce a garantire
(articolo ItaliaOggi dell'11.12.2013
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Mediazione, mai senza legale.
Avvocato obbligatorio anche quando è facoltativa.
I chiarimenti in una circolare del Cnf: procedimenti ammessi
al gratuito patrocinio.
È sempre obbligatoria l'assistenza dell'avvocato in
mediazione. Sia nei casi in cui il procedimento è condizione
di procedibilità, sia quando la mediazione è facoltativa. E
non ci sono ostacoli per l'ammissione dei procedimenti al
patrocinio a spese dello stato.
Lo afferma il Consiglio
nazionale forense, che ha inviato venerdì scorso agli
organismi di mediazione istituiti presso gli ordini forensi,
una circolare (n. 25-C-2013) con alcuni chiarimenti sulla
procedura di mediazione alla luce delle nuove norme
introdotte con il decreto del Fare (decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito dalla legge
09.08.2013, n. 98).
Adottando quindi, sull'assistenza tecnica degli avvocati,
un'interpretazione diversa rispetto al ministero della
giustizia, che nella circolare diramata settimana scorsa (si
veda ItaliaOggi del 3 dicembre scorso) afferma esattamente
l'opposto. E cioè che «l'assistenza dell'avvocato è
obbligatoria esclusivamente nelle ipotesi di mediazione
obbligatoria (ivi compresa quella disposta dal giudice ex
art. 5, comma 2), ma non anche nelle ipotesi di mediazione
facoltativa». Ma entriamo nel dettaglio.
L'assistenza tecnica. Il Consiglio nazionale forense ha
inviato ai 122 organismi di mediazione istituiti presso gli
ordini forensi una circolare con una serie di faq sulla
nuova mediazione obbligatoria. Affrontando, tra l'altro, il
tema dell'assistenza tecnica dell'avvocato.
Sul punto, il Cnf afferma che «il tenore letterale dell'art. 5, comma 1-bis, dlgs 28/2010 introdotto dal dl 69/2013, conv. con
modif. in l. 98/2013, stabilisce un obbligo di assistenza
tecnica della parte in mediazione, dalla cui inosservanza
deriverebbe l'impossibilità di considerare espletata la
condizione di procedibilità di cui al comma 1-bis dell'art.
5 dlgs 28». Tale obbligo, sempre secondo il Cnf, «sembra
riguardare ogni “modello” di mediazione, atteso che il testo
normativo non fa distinzioni al riguardo».
In questo senso,
il Consiglio nazionale richiama l'art. 8, 1° comma,
modificato dall'intervento normativo del 2013, dove è
disposto che: «al primo incontro e agli incontri successivi,
fino al termine della procedura, le parti devono partecipare
con l'assistenza dell'avvocato. Durante il primo incontro il
mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di
svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello
stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati
a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di
mediazione e, nel caso positivo, procede con lo
svolgimento».
Viceversa, per il ministero della giustizia,
l'assistenza dell'avvocato non è obbligatoria nelle ipotesi
di mediazione facoltativa perché «il nuovo testo dell'art.
12, comma 1, espressamente configura l'assistenza legale
delle parti in mediazione come meramente eventuale (“ove
tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da
un avvocato_”)».
Gli altri chiarimenti. Le faq, inoltre, sciolgono i dubbi
sul gratuito patrocinio, affermando che «nessun ostacolo
dovrebbe sussistere nell'ammettere la possibilità di
accedere ai benefici previsti dalla disciplina relativa al
patrocinio a spese dello stato per i non abbienti,
indipendentemente dal quanto disposto dal nuovo art. 17,
comma 5-bis», ma in piena corrispondenza «alla direttiva Legal aid che ammette al beneficio anche le spese legali
sostenute nel corso di procedure stragiudiziali».
Chiarimenti, da parte del Cnf, anche in merito «alla
individuazione dell'organismo di mediazione territorialmente
competente e alle conseguenze di una eventuale incompetenza,
che sarà comunque sempre sanata se le parti hanno raggiunto
l'accordo conciliativo».
Molta attenzione è posta inoltre al primo incontro, ritenuto
un passaggio importante da curare nei particolari. Così le
faq suggeriscono agli organismi di conciliazione «di inviare
alle parti una lettera di convocazione che chiarisca
l'importanza della partecipazione personale delle parti e le
conseguenze legislative nel caso di assenza senza
giustificato motivo e quali siano le spese dovute (quelle di
avvio e quelle vive documentate); specifichi che il primo
incontro può essere svolto on-line ove il regolamento
dell'Organismo lo preveda». Dal punto di vista operativo si
segnala l'opportunità di stilare un verbale all'esito del
primo incontro, sia che esso sia positivo che negativo. Nel
secondo caso, infatti, avverte la faq, il verbale costituirà
titolo per dimostrare l'assolvimento della condizione di
procedibilità.
Le faq, infine, trattano della novità introdotta dal decreto
del fare, relativa all'accordo conciliativo in cui le parti
danno atto che si è verificata l'usucapione di un immobile.
Esso può essere trascritto dopo l'autentica del notaio ma
gli avvocati devono attestare che l'accordo non sia
contrario all'ordine pubblico e norme imperative. Tale
attestazione è necessaria per dotare l'accordo di efficacia
esecutiva
(articolo ItaliaOggi del
10.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La mediazione si paga sempre. Spese di avvio
dovute anche in caso di mancato accordo.
Gli effetti delle indicazioni del Mingiustizia sull'istituto
rinnovato. Quota da dividere.
Costi calmierati per la mediazione obbligatoria e anche per
quella disposta dal giudice in corso di causa. Ma sono
sempre dovute le spese di avvio del procedimento, anche
quando si conclude con un nulla di fatto al primo incontro;
in questo caso sono abbuonati solo i compensi del mediatore.
Sono queste alcune delle risposte del ministero della
giustizia, fornite con la circolare 27.11.2013 n. 168322
di prot., che illustra le novità in materia di
mediazione apportate dal decreto legge 69/2013 ... (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
straordinario a 360°. Platea di beneficiari fino al terzo
grado di parentela. Come cambia la
disciplina dopo la sentenza della Consulta che amplia gli
aventi diritto.
Più ampia la platea di beneficiari del congedo
straordinario. Comprende infatti i parenti e gli affini
entro il terzo grado conviventi della persona con grave
disabilità.
La novità, stabilità dalla sentenza n. 203/2013 della Corte
costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità dell'art.
42, comma 5, del dlgs n. 151/2001 (T.u. maternità), è stata
spiegata dall'Inps (circolare n. 159/2013) che, peraltro, ha
avvitato il riesame delle richieste di permesso presentate e
rigettate in virtù del precedente divieto entro il termine
di prescrizione della relativa indennità (vale a dire entro
un anno dal giorno dopo la fine del periodo indennizzabile).
Il congedo straordinario.
Il congedo straordinario, disciplinato dal citato art. 42
del T.u. maternità, spetta per un massimo di due anni
nell'arco della vita lavorativa per ciascun soggetto
disabile da assistere. Quest'ultimo, in particolare, deve
essere «soggetto con handicap in situazione di gravità»,
ossia deve trattarsi di un familiare portatore di handicap
(è tale colui che presenta una minorazione fisica, psichica
o sensoriale, stabilizzata o progressiva, causa di
difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio
sociale o di emarginazione) e l'handicap deve essere «grave»
(l'handicap assume connotazione di gravità se la
minorazione, singola o plurima, ha ridotto l'autonomia
personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario
un intervento assistenziale permanente, continuativo e
globale nella sfera individuale o in quella di relazione).
Durante tutto il periodo di fruizione del congedo il
lavoratore ha diritto all'indennità pari all'ultima
retribuzione e il periodo è coperto da contribuzione
figurativa. Indennità e contribuzione figurativa spettano
però fino a un importo massimo di euro 46.836 per il congedo
di durata annuale (valore per l'anno 2013). Il tetto in
particolare rappresenta il limite massimo complessivo annuo
dell'onere relativo al beneficio di tutto il congedo
straordinario, ripartito cioè fra l'indennità economica e
l'accredito figurativo. Nello specifico il tetto massimo
annuo, pari a 46.835,93 euro, riguarda un importo massimo
annuo di indennità di 35.215,00 euro e un importo massimo
giornaliero dell'indennità di euro 96,48. La misura della
retribuzione figurativa massima di riferimento è pari alla
stessa indennità (cioè 35.215,00 euro) con valore
settimanale massimo di euro 677,21 e una retribuzione
figurativa massima giornaliera di 96,48 euro (Inps circolare
n. 59/2013).
Soggetti aventi diritto.
Il congedo spetta ai lavoratori dipendenti anche se a tempo
determinato (tali lavoratori possono essere anche stranieri,
apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel
territorio nazionale). Qui è però intervenuta la Corte
costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 42 nella parte in cui, in assenza
di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona
disabile in situazione di gravità, non include nel novero
dei soggetti legittimati a fruire del congedo il parente o
l'affine entro il terzo grado convivente della persona
disabile grave. Alla luce della sentenza, l'Inps ha spiegato
che il congedo è riconosciuto a seguenti familiari ovvero
affini entro il terzo grado convivente del disabile grave,
secondo il seguente ordine di priorità:
1. coniuge convivente del disabile;
2. padre o madre, anche adottivi o affidatari, del disabile,
in caso di mancanza, decesso o in invalidità del coniuge
convivente;
3. uno dei figli conviventi del disabile, nel caso in cui il
coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano
mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
4. uno dei fratelli o sorelle conviventi del disabile nel
caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori e
figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o
invalidi;
5. un parente o affine di terzo grado convivente del
disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i
genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle
conviventi siano mancanti, deceduti o invalidi.
Quando il congedo non spetta.
Il congedo straordinario non spetta ai lavoratori addetti ai
servizi domestici e familiari; ai lavoratori a domicilio; ai
lavoratori agricoli giornalieri; in caso di contratto di
lavoro part-time verticale, durante le pause contrattuali;
quando la persona handicappata da assistere sia ricoverata a
tempo pieno (fino al 10.08.2011; dal giorno seguente,
invece, per garantire un'assistenza reale, il congedo può
essere fruito anche se la persona disabile è ricoverata a
tempo pieno e qualora i sanitari della struttura ne
attestino l'esigenza); nelle stesse giornate di fruizione
dei permessi retribuiti ex articolo 33 della legge n.
104/1992.
I requisiti.
Ai fini della sussistenza del diritto al congedo
straordinario deve essere accertata la presenza dei seguenti
requisiti: situazione di handicap grave; rapporto di lavoro
in essere; mancanza di ricovero a tempo pieno.
La situazione di gravità dell'handicap (primo requisito) è
accertata dalla competente Asl (ai sensi dell'art. 3, commi
1 e 3, della legge n. 104/1992), mediante le commissioni
mediche. Qualora tale commissione non si pronunci entro 90
giorni dalla presentazione della domanda, gli accertamenti
possono essere effettuati, in via provvisoria, da un medico
specialista nella patologia denunciata, in servizio presso
l'unità sanitaria locale da cui è assistito l'interessato.
L'accertamento provvisorio produce effetto fino
all'emissione dell'accertamento definitivo da parte della
commissione.
Il congedo straordinario spetta a chi abbia un rapporto di
lavoro in essere, con prestazione di attività lavorativa
(secondo requisito). Durante la fruizione del congedo poi
vige il divieto di svolgere alcun tipo di attività
lavorativa. Lo spirito e la finalità della legge escludono
che il beneficio possa essere riconosciuto se la persona da
assistere presti, a sua volta, attività lavorativa nel
periodo di fruizione del congedo da parte degli aventi
diritto. Ciò va inteso nel senso che il disabile può essere
titolare di rapporto di lavoro, tuttavia non deve prestare
concretamente l'attività lavorativa nel periodo di fruizione
del congedo da parte degli aventi diritto.
Terzo requisito per il diritto al congedo è la circostanza
che l'assistito non sia ricoverato a tempo pieno. Per
ricovero a tempo pieno s'intende quello, per le intere 24
ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o
private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
L'Inps ha precisato che le fanno eccezione: l'interruzione
del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in
situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura
che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente
certificate; il ricovero a tempo pieno di un disabile in
situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o
con prognosi infausta a breve termine; il ricovero a tempo
pieno di un minore con disabilità in situazione di gravità
per il quale risulti documentato dai sanitari della
struttura ospedaliera il bisogno di assistenza da parte di
un genitore o di un familiare, ipotesi già prevista per i
bambini fino a tre anni di età.
Infine, quarto requisito è della convivenza previsto come
necessario qualora a richiedere il congedo è il coniuge, i
fratelli/sorelle o il figlio del disabile grave. Per
convivenza si deve fare riferimento, in via esclusiva, alla
residenza, luogo in cui la persona ha la dimora abituale,
non potendo ritenersi conciliabile con la predetta necessità
la condizione di domicilio né la mera elezione di domicilio
speciale (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.12.2013). |
aggiornamento al
15.01.2014 |
|
EDILIZIA PRIVATA:
Immobili. Le leggi e le circolari dell'Agenzia non prevedono
limitazioni al residenziale
Bonus del 65% disponibile per tutti gli edifici esistenti.
Lo sconto per il risparmio energetico anche per i capannoni.
Gli interventi
finalizzati al risparmio energetico che attribuiscono, ai
fini dell'imposta sul reddito, il diritto alla detrazione
del 55% (65% per le spese sostenute dal 6 giugno scorso) non
valgono solo per gli immobili residenziali.
Inoltre, almeno per quanto concerne le persone fisiche, non
vi è alcun vincolo all'utilizzo diretto dell'unità
immobiliare su cui sono effettuati i lavori.
Nonostante la guida «Le agevolazioni fiscali per il
risparmio energetico» disponibile sul sito dell'agenzia
delle Entrate possa ingenerare più di un dubbio tra i
contribuenti, su queste due conclusioni non si possono
nutrire perplessità.
A pagina 6 della guida si legge che la «condizione
indispensabile per fruire della detrazione è che gli
interventi siano eseguiti su unità immobiliari e su edifici
(o su parti di edifici) residenziali esistenti, di qualunque
categoria catastale, anche se rurali, compresi quelli
strumentali (per l'attività d'impresa o professionale)».
Ciò che stona è l'aggettivo residenziale, che non è presente
in nessuno dei provvedimenti normativi che ha disciplinato
l'agevolazione per risparmio energetico, né negli interventi
di prassi dell'agenzia.
A esempio, secondo la circolare 36/E/2007 «l'agevolazione in
esame, a differenza di quanto previsto per la detrazione
relativa agli interventi di ristrutturazione edilizia, che è
espressamente riservata ai soli edifici residenziali,
interessa i fabbricati appartenenti a qualsiasi categoria
catastale (anche rurale) compresi, quindi, quelli
strumentali», i quali, ordinariamente, non sono affatto
residenziali.
Da notare che la circolare distingue l'agevolazione del 55%
da quella del 36%, all'epoca disciplinata dall'articolo 1
della legge 449/1997, che prevedeva interventi solo su
«singole unità immobiliari residenziali». Attualmente, anche
questa affermazione deve essere rivista, poiché l'articolo
16-bis del Tuir richiede che l'immobile abbia natura
residenziale solo su alcuni e non su tutti gli interventi
agevolabili.
A ogni modo si ritiene che il testo della guida contenga un
mero refuso, che sarebbe opportuno eliminare per evitare
dubbi nei contribuenti (e magari qualche rilievo non
corretto da parte degli Uffici).
A pagina 7 della medesima guida si trova il seguente
periodo: «In ogni caso, i benefici per la riqualificazione
energetica degli immobili spettano solo a chi li utilizza.
Per esempio, una società non può fruire della detrazione per
le spese relative a immobili locati».
La prima parte della frase, limitando per ora l'attenzione
ai soggetti non imprenditori, è sicuramente errata. Anche in
questo caso la condizione citata non è presente in nessun
punto della disciplina né è mai stata richiesta
dall'Agenzia. Nessuno vieta al proprietario di detrarre
l'Irpef sui lavori effettuati in un immobile da locare,
anche nel caso limite in cui la locazione sia già in corso
all'atto dell'esecuzione dei lavori. Il fatto che le spese
agevolabili possano essere sostenute dagli inquilini o dai
comodatari, non toglie certo al proprietario la facoltà di
essere lui il soggetto che realizza (e si detrae)
l'intervento.
Qualche problema in più sorge per gli immobili posseduti in
regime d'impresa, in considerazione del fatto che l'agenzia
delle Entrate, con le risoluzioni 303/E/2008 e 340/E/2008,
ha negato l'agevolazione sia agli immobili posseduti (e
locati) dalle immobiliari di locazione che agli «immobili
merce» delle immobiliari di costruzione o di compravendita,
sostenendo che, in entrambi i casi, non si tratterebbe di
beni strumentali utilizzati direttamente dall'impresa.
Anche su questa impostazione si nutrono forti dubbi di
legittimità (si veda la norma di comportamento
dell'Associazione italiana dei dottori commercialisti
184/2012), rafforzati dal fatto che la giurisprudenza di
merito sembra piuttosto contraria a imporre esclusivamente
per via interpretativa simili limitazioni (si veda «Il
Sole-24 Ore» del 05.10.2013 e le sentenze commissioni
tributarie provinciali di Varese 21.06.2013, n. 94,
Lecco 26.03.2013, n. 54 e Como 02.07.2012, n. 109).
Comunque, quando l'immobile è del privato, non imprenditore,
non ci devono essere questioni di sorta (soprattutto dopo
sette anni di applicazione della norma) (articolo Il Sole 24 Ore del
07.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie a esaurimento.
Obbligo (non facoltà) di pescare dagli elenchi vigenti.
Così la circolare della Funzione pubblica sulle
norme di contrasto al precariato.
È un obbligo e non una mera facoltà assumere dipendenti a
tempo determinato, utilizzando le graduatorie vigenti
riferite a bandi di concorso per assunzioni a tempo
indeterminato.
Lo chiarisce la
circolare 21.11.2013 n. 5/2013 del Dipartimento della
funzione pubblica, in relazione al dl 101/2013, convertito
in legge 125/2013 (si veda ItaliaOggi di ieri).
Per effetto della novellazione dell'articolo 36, comma 2,
del dlgs 165/2001, tale disposizione prevede che «per
prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni
pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente
articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie categorie vigenti per i
concorsi pubblici a tempo indeterminato.»
Lo scopo è chiaro: evitare il proliferare di contratti a
termine con soggetti che potrebbero poi trovarsi «precarizzati»
e formare una massa critica tale da indurre, in futuro, a
nuove ondate di stabilizzazioni. Assumendo con contratti a
tempo determinato vincitori di concorsi per posti a tempo
indeterminato evita di creare i presupposti del precariato.
Come spiega la circolare, il lavoratore chiamato a lavorare
con contratto a termine potrà poi «essere assunto con
rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di
altre procedure», una volta verificate le condizioni per
l'assunzione definitiva in ruolo.
Palazzo Vidoni spiega che la norma è «immediatamente
operativa ed efficace sulle graduatorie già in essere, anche
se la previsione non era inserita nel bando di concorso»: si
tratta, dunque, di un'ipotesi di eterointegrazione dei bandi
operante direttamente in forza di legge, che impone alle
amministrazioni di non indire concorsi per rapporti di
lavoro a tempo determinato, ovviamente per quelle categorie
e profili indicati nelle graduatorie vigenti.
La norma, aggiunge la circolare, dispone nei confronti delle
amministrazioni un vero e proprio obbligo: le
amministrazioni «piuttosto che indire procedure concorsuali
a tempo determinato, devono attingere, nel rispetto,
ovviamente, dell'ordine di posizione, alle loro graduatorie
vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
La configurazione come obbligo dell'utilizzo delle
graduatorie come fonte delle assunzioni a tempo determinato,
priva le amministrazioni di discrezionalità nella scelta.
La circolare non si spinge ad affermare che l'obbligo si
estende anche all'utilizzo delle graduatorie di altre
amministrazioni, consentito dall'ultimo periodo aggiunto
all'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, da parte del dl
101/2013, ma risulta comunque evidente che laddove
un'amministrazione non disponga di una graduatoria a tempo
indeterminato alla quale attingere per assunzioni con
contratto a termine, risulti largamente opportuno avvalersi
della possibilità espressamente consentita dalla norma.
La circolare precisa che i vincitori dei concorsi a tempo
indeterminato non hanno l'obbligo di accettare l'assunzione
a termine propostagli dall'ente. In questo caso resta,
infatti, comunque salvaguardata la loro posizione nella
graduatoria, per la futura assunzione a tempo indeterminato.
Un punto non toccato dalla circolare riguarda l'eventuale
applicabilità dell'obbligo di utilizzare le graduatorie
vigenti anche per le assunzioni di dirigenti a contratto, ai
sensi del combinato disposto degli articoli 19, comma 6, del
dlgs 165/2001 e dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 per gli
enti locali. Non sembra che la previsione dell'articolo 36,
comma 2, novellato, riguardi la fattispecie delle assunzioni
dei dirigenti assunti a tempo determinato per due ragioni.
In primo luogo, l'intera disciplina del dl 101/2013 non è
rivolta alle qualifiche dirigenziali, come chiarito
espressamente dall'articolo 4, comma 6. In secondo luogo, lo
scopo dell'utilizzo delle graduatorie a tempo indeterminato
per assunzioni a termine, come visto sopra, è la prevenzione
di fenomeni di precariato: ma, le assunzioni dei dirigenti a
contratto non portano mai all'insorgere di contratti
precari, come spiega la circolare stessa quando chiarisce
che gli incarichi a contratto sono disciplinati da una
normativa peculiare, tale da non creare nemmeno aspettative
di stabilizzazione in capo agli interessati.
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La mobilità prevale sulle stabilizzazioni.
La mobilità per la salvaguardia dei lavoratori pubblici in
disponibilità prevale sulle stabilizzazioni.
La circolare 5/2013 della Funzione Pubblica, che contiene
indicazioni interpretative ed operative riguardanti il dl
101/2013, convertito in legge 125/2013, interviene su un
punto estremamente delicato del sistema delle
«stabilizzazioni».
Si afferma, al punto 3.5, che «prima di avviare le procedure
di reclutamento, tanto ordinario, quanto speciale (sia a
regime, sia transitorio) e prima delle assunzioni a tempo
indeterminato, con esclusione delle procedure e delle
assunzioni relative alle categorie protette, sono
obbligatori gli adempimenti previsti dall'articolo 34-bis
del dlgs n. 165 del 2001». Al contrario, «gli adempimenti
previsti dall'articolo 30 dello stesso dlgs n. 165 del 2001
sono obbligatori solo prima di avviare le procedure di
reclutamento ordinario».
Le procedure di reclutamento «speciale», sono le
stabilizzazioni disciplinate dall'articolo 4, comma 6 e
seguenti, del dl 101/2013, mentre quelle ordinarie trovano la
propria regolamentazione nell'articolo 35, e, in
particolare, nel comma 3-bis, del dlgs 165/2001.
Il messaggio della circolare è chiaro: l'opportunità
concessa alle amministrazioni di percorrere strade
privilegiate per assumere a tempo indeterminato lavoratori
precari in possesso dei requisiti fissati dalla norma, non
può comprimere le misure di salvaguardia dalla
disoccupazione vigenti.
Le procedure di stabilizzazione consistono pur sempre in
assunzioni a tempo indeterminato. Per quanto specificamente
«finalizzate» a superare situazioni di precariato, occorre
necessariamente far precedere i bandi delle prove selettive
previste dall'articolo 4, comma 6, del dl 101, e
dall'articolo 35, comma 3-bis, del dlgs 165/2001, dalla
procedura di mobilità «obbligatoria», delineata
dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, per effetto del
quale le amministrazioni che intendono assumere debbono
verificare con i centri per l'impiego delle province e con
la Funzione pubblica se vi siano dipendenti inseriti nelle
liste di disponibilità, aventi qualifica e mansione
corrispondenti alle assunzioni da effettuare.
Palazzo Vidoni conferma che risulta prevalente la tutela dei
lavoratori in esubero e a rischio di licenziamento, rispetto
alle opportunità di inserimento in pianta stabile dei
precari nei ruoli delle pubbliche amministrazioni.
Non è, invece, necessaria la mobilità «volontaria», regolata
dall'articolo 30 del dlgs 165/2001, per le procedure di
stabilizzazione «speciali». Del resto, la mobilità
volontaria confligge con lo scopo dichiarato del dl
101/2013, che è quello di valorizzare le professionalità
acquisite dai lavoratori assunti impropriamente con
contratti a tempo determinato, per regolarizzare la loro
posizione: se si facessero precedere le procedure di
stabilizzazione dalla mobilità volontaria, si vanificherebbe
totalmente l'intento di stabilizzare il precariato (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
ENTI LOCALI: Proventi autovelox, enti nel caos.
Comuni in difficoltà nella ripartizione delle multe.
In assenza del decreto attuativo le
amministrazioni non sanno come procedere.
Siamo quasi a fine anno ma gli enti locali non sanno ancora
come dovranno ripartire i proventi incassati grazie
all'utilizzo dei sistemi autovelox. E in assenza del
necessario decreto ministeriale saranno guai grossi a
primavera anche per rendicontare al ministero come sono
stati spesi i soldi delle multe.
Sono queste le due emergenze formali per la polizia locale
che derivano dalla totale assenza di indicazioni in materia.
La questione nasce dalla legge n. 120 del 29.07.2010 che
ha riscritto l'art. 142 cds prevedendo che per tutte le
violazioni dei limiti di velocità accertate mediante
l'impiego di autovelox i relativi proventi devono essere
ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende
l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada
restando comunque escluse le strade in concessione.
Le somme derivanti dall'attribuzione delle quote dei
proventi ripartiti devono essere destinate alla manutenzione
e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e al
potenziamento delle attività di controllo e accertamento
delle violazioni in materia di circolazione stradale,
comprese le spese relative al personale.
Le nuove disposizioni, a parere dell'Anci, sono divenute
operative il 01.01.2013 in seguito alla conversione in
legge, con modifiche, del dl n. 16 del 02.03.2012. L'art.
142, comma 12-quater del codice impone agli enti locali di
trasmettere in via informatica a Roma entro il 31 maggio di
ogni anno una relazione in cui sono indicati, con
riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei
proventi di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1,
e all'art. 142, comma 12-bis, e gli interventi realizzati a
valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri
sostenuti per ciascun intervento.
Se la relazione non viene
inviata oppure i proventi sono utilizzati in modo difforme
da quanto imposto, la percentuale dei proventi spettanti è
ridotta, con contestuale responsabilità disciplinare e per
danno erariale. Ma in assenza del tanto atteso decreto
ministeriale attuativo, si naviga a vista e si procede con
grande approssimazione. Utili riferimenti in tal senso
possono ricavarsi dalla bozza non ufficiale del decreto
ministeriale, il cui testo era stato anticipato in via
informale l'anno scorso.
Questa bozza prevede che la relazione relativa al periodo
intercorrente tra il 1° gennaio e il 31 dicembre dell'anno
precedente va suddivisa su tre sezioni, indicando le
informazioni generali, i proventi delle sanzioni
amministrative pecuniarie di propria spettanza di cui
all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, del
codice della strada e le informazioni relative alla
destinazione dei proventi stessi.
La stessa bozza di dm prevede che sia tenuta una contabilità
separata fra i proventi in generale e quelli derivanti da
accertamenti delle violazioni dei limiti massimi di
velocità. In particolare, occorre che risulti la distinzione
a seconda che i proventi siano di intera spettanza dell'ente
locale, oppure siano soggetti a ripartizione al 50% con
l'ente proprietario della strada, oppure derivino dagli
accertamenti eseguiti da organi accertatori di altri enti.
Ma le problematiche più rilevanti sembrano porsi per la
ripartizione che deve essere fatta fra l'ente da cui dipende
l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
L'art. 142, comma 12-bis del codice dispone che la
suddivisione di quanto incassato con autovelox e telelaser
non si applica alle strade in concessione; sul punto, il
ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con un
parere dell'08.05.2013, ha chiarito che l'esclusione
riguarda in particolare le strade statali a eccezione di
quelle relative alle regioni a statuto speciale e alle
province autonome. Tecnicamente, gli enti locali potrebbero
decidere di concordare autonomamente con gli altri enti le
modalità di versamento dei proventi oggetto della
suddivisione, mediante accordi o convenzioni.
Ma su questo aspetto, l'attesa che venga emanato il decreto
con le norme di dettaglio è tanto più forte in
considerazione delle rilevanti questioni di natura contabile (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuove regole sul conto termico.
Cambiano procedure e modulistica per gli enti locali.
Il Gse ha aggiornato i requisiti per gli incentivi alla
produzione di energia rinnovabile.
A pochi mesi dall'apertura dell'incentivo del conto termico,
introdotto per permettere agli enti locali di avere un
sostegno per gli interventi di riqualificazione energetica,
il Gse ritocca procedure e modulistica. Sono state infatti
aggiornate il 4 dicembre scorso le «regole applicative del
dm 28.12.2012» afferenti all'incentivazione della
produzione di energia termica da fonti rinnovabili e degli
interventi di piccole dimensioni.
Gli enti locali
interessati ad accedere al conto termico devono quindi
prendere nuovamente visione delle regole applicative e
adeguare la modulistica se non già inoltrata. Il conto
termico finanzia interventi di incremento dell'efficienza
energetica in edifici esistenti, parti degli stessi o unità
immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale,
dotati di impianto di climatizzazione. Gli interventi per i
quali è previsto un contributo sono l'isolamento termico di
superfici opache delimitanti il volume climatizzato e la
sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi
delimitanti il volume climatizzato.
Sono, anche,
finanziabili la sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale esistenti, con impianti di climatizzazione
invernale utilizzanti generatori di calore a condensazione,
nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o
ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al
sole, fissi o mobili, non trasportabili. Gli enti locali
possono usufruire del conto termico anche per interventi di
piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti
rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza. Il contributo
viene concesso a fronte di sostituzione di impianti di
climatizzazione invernale esistenti con impianti di
climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore
elettriche o a gas, anche geotermiche.
È ammissibile la sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale o di riscaldamento delle serre esistenti, con
impianti di climatizzazione invernale dotati di generatore
di calore alimentato da biomassa. L'incentivo spetta anche
per l'installazione di collettori solari termici. Gli enti
locali possono ottenere un contributo a fondo perduto
erogato tramite bonifico in due o in cinque anni, variabile
in base alla tipologia di investimento. In caso di incentivo
fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata.
L'entità dell'incentivo è variabile in base al progetto (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
ENTI LOCALI: Non si paga l'Iva sui contributi erogati dalla p.a..
Con la recente circolare ministeriale n. 34/E del 21
novembre scorso, l'Agenzia delle entrate ha voluto fare
chiarezza sull'imponibilità ai fini dell'imposta sul valore
aggiunto delle somme erogate, a titolo di contributo, dalla
pubblica amministrazione.
Così l'Agenzia ha ribadito che in
particolare, dal punto di vista del trattamento tributario
ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, le erogazioni
qualificabili come contributi, in quanto mere movimentazioni
di denaro, saranno escluse dall'imposta, mentre quelle
configurabili come corrispettivi per prestazioni di servizi
o cessioni di beni rilevanti saranno assoggettate ai fini
dell'imposta in esame. In sostanza, rifacendosi ai concetti
espressi più volte dalla Corte di giustizia europea, ha
ritenuto che qualora il contributo segni la prestazione
monetaria effettuata in conseguenza del controvalore di un
servizio prestato alla controparte del rapporto giuridico,
esso ricade nella fattispecie imponibile Iva, mentre
diversamente non afferisce la sfera dell'imposta suddetta.
In sostanza, il presupposto oggettivo di applicazione
dell'Iva può essere escluso, ai sensi della normativa
comunitaria, solo qualora non si ravvisi alcuna correlazione
tra l'attività finanziata e le elargizioni di denaro. Del
resto l'Amministrazione finanziaria aveva più volte
sottolineato nelle proprie circolari, che un contributo
assume rilevanza ai fini Iva se erogato a fronte di
un'obbligazione di dare, fare, non fare o permettere, ossia
quando si è in presenza di un rapporto obbligatorio a
prestazioni corrispettive. In altri termini, il contributo
assume natura onerosa e configura un'operazione rilevante
agli effetti dell'Iva quando tra le parti intercorre un
rapporto giuridico sinallagmatico, nel quale il contributo
ricevuto dal beneficiario costituisce il compenso (cioè il
corrispettivo) per il servizio effettuato o per il bene
ceduto. La circolare nota pertanto che al fine di accertare
se i contributi di cui trattasi costituiscano nella sostanza
corrispettivi per prestazioni di servizi, ovvero si
configurino come mere elargizioni di somme di denaro per il
perseguimento di obiettivi di carattere generale, occorre
fare riferimento al concreto assetto degli interessi delle
parti.
La conclusione ai fini dell'imponibilità o meno del
contributo, deve quindi passare per un'analisi puntuale del
rapporto giuridico e degli atti intercorsi fra il soggetto
pubblico e il soggetto privato.
Allo scopo di indicare delle «linee guida» sulla
problematica, la circolare in commento passa in rassegna le
varie ipotesi, fornendo una panoramica abbastanza ampia sui
contributi in esame. Innanzitutto, ricorda la circolare n.
34/E, la qualificazione di una erogazione quale
corrispettivo ovvero quale contributo deve essere
individuata innanzi tutto in base a norme di legge, siano
esse specifiche o generali, nonché a norme di rango
comunitario.
Si distinguono i seguenti casi di contributi:
a) può affermarsi che l'amministrazione non operi
all'interno di un rapporto contrattuale quando le erogazioni
sono effettuate in esecuzione di norme che prevedono
l'erogazione di benefici al verificarsi di presupposti
predefiniti, come ad esempio nel caso degli aiuti di stato
automatici, ovvero in favore di particolari categorie di
soggetti (enti religiosi, associazioni ecc.);
b) è altresì agevole individuare la natura di contributo
delle erogazioni nei casi in cui l'amministrazione agisca
con riferimento all'art. 12 della legge 07/08/1990, n. 241,
contenente la disciplina dei provvedimenti amministrativi
attributivi di vantaggi economici.
Ciò avviene quando sia approvato un regolamento a contenuto
generale in relazione alla concessione dei contributi oppure
quando esista un bando per la presentazione di istanze per
la concessione dei medesimi.
La forma del procedimento amministrativo richiamato dalla
legge 241, garantisce il rispetto di regole di trasparenza e
di imparzialità;
c) altre volte, il procedimento per la erogazione di somme
risulta definito a livello comunitario ed attuato
nell'ordinamento domestico attraverso bandi o delibere di
organi pubblici (per es: il Cipe);
d) le somme erogate dai soci –ivi incluso, ovviamente, il
socio avente soggettività di diritto pubblico– in base alle
norme del codice civile, a titolo di apporti di capitale,
esposti in bilancio all'interno del patrimonio netto, non
possono essere considerate corrispettivi di prestazioni di
servizi in quanto si inseriscono nell'ambito del rapporto
associativo e pertanto non appaiono collegate ad alcuna
controprestazione da parte del beneficiario (apporti di
capitale e coperture di perdite). Sono invece contributi
inquadrabili come corrispettivi (e dunque imponibili Iva),
quando la p.a., effettui erogazioni conseguenti alla stipula
di contratti in base al codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi
del 06.12.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni, concorsi al bando.
La p.a. deve attingere alle graduatorie preesistenti.
Circolare della Funzione pubblica dà le prime
istruzioni sul dl antiprecariato.
Utilizzo delle graduatorie vigenti per concorsi pubblici a
tempo indeterminato anche per fare assunzioni a tempo
determinato. Le assunzioni delle categorie protette, nel
limite della quota d'obbligo, non sono da computare nel
budget assunzionale. Le province possono prorogare fino al
31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo determinato
per assicurare i servizi.
Sono alcune delle indicazioni contenute nella corposa
circolare 21.11.2013 n. 5/2013 della Funzione pubblica diffusa ieri e
avente a oggetto «Indirizzi volti a favorire il superamento
del precariato. Reclutamento speciale per il personale in
possesso dei requisiti normativi. Proroghe dei contratti.
Articolo 4 del decreto legge 31.08.2013, n. 101,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013,
n. 125, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento
di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche
amministrazioni» e articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165».
La circolare firmata dal ministro
Gianpiero D'Alia punta a dettare indirizzi applicativi
univoci per un'applicazione uniforme del decreto legge in
materia di superamento del fenomeno del precariato,
rimandando a documenti di prassi successivi l'analisi di
dettaglio delle singole novità introdotte dal dl.
Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo
determinato, ferme restando le esigenze di carattere
esclusivamente temporaneo o eccezionale, piuttosto che
indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono
dunque attingere alle loro graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato. In mancanza, possono
attingere a graduatorie di altre amministrazioni mediante
accordo, purché riguardino concorsi banditi per la copertura
di posti inerenti allo stesso profilo e categoria
professionale del soggetto da assumere. Le graduatorie
vigenti possono essere utilizzate solo a favore dei
vincitori, escluso dunque lo scorrimento per gli idonei.
Il decreto legge interviene, poi, prevedendo procedure di
reclutamento speciale transitorie volte al superamento del
fenomeno del precariato e alla riduzione dei contratti a
tempo determinato. Esse sono consentite dal 01.09.2013 al 31.12.2016, e vi si può ricorrere utilizzando
una misura non superiore al 50% delle risorse finanziarie
disponibili, a normativa vigente, per assunzioni a tempo
indeterminato. Le amministrazioni che hanno le condizioni
per operare reclutamento speciale ma non lo avviano non
possono prorogare i rapporti di lavoro del personale a tempo
determinato. L'utilizzo delle graduatorie relative ai
passaggi di area banditi anteriormente al 01.01.2010,
in applicazione della previgente disciplina normativa, è
consentito al solo fine di assumere i candidati vincitori e
non anche gli idonei della procedura selettiva. Si
sottolinea l'esclusione delle graduatorie relative a
concorsi non pubblici.
Le assunzioni delle categorie protette, nel limite della
quota d'obbligo, non sono da computare nel budget
assunzionale e vanno garantite sia in presenza di posti
vacanti, sia in caso di soprannumerarietà.
L'avvio del reclutamento speciale, come del resto l'avvio
del reclutamento ordinario, è subordinato tra l'altro alla
disponibilità di posti in dotazione organica, all'effettiva
capacità assunzionale delle amministrazioni secondo il
relativo regime, tenuto anche conto dei vincoli di spesa e
delle situazioni di bilancio e all'effettivo fabbisogno. In
assenza, scatta un impedimento. È peraltro senz'altro
esclusa, sottolinea la circolare, la configurabilità di un
diritto soggettivo, in capo agli eventuali interessati,
all'avvio del reclutamento speciale.
In merito alle categorie di personale interessate al
reclutamento, ordinario e speciale, il documento di prassi
rimarca l'esclusione del comparto scuola e di quello delle
istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica
e musicale per i quali trova applicazione la disciplina
specifica di settore.
Poiché il ricorso alle procedure speciali di reclutamento
non può prescindere dall'adeguato accesso dall'esterno, le
amministrazioni non possono destinare più del 50% del loro
budget assunzionale per il reclutamento speciale. Prima
delle procedure di reclutamento, con esclusione delle
procedure e delle assunzioni relative alle categorie
protette, bisogna comunque avviare le procedure di mobilità.
Per meglio realizzare le finalità di superamento del
precariato e di riduzione dei contratti di lavoro a tempo
determinato, nel reclutamento speciale sono di norma
adottati bandi per assunzioni a tempo indeterminato con
contratti di lavoro a tempo parziale. I bandi dovranno
indicare la percentuale di prestazione lavorativa prevista
per l'assunzione a tempo indeterminato rispettando,
comunque, il valore minimo di part-time previsto dai
contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto.
E
sempre a proposito del reclutamento speciale, la circolare
specifica che esso non si applica al personale dirigenziale
assunto con rapporto di lavoro a tempo determinato in virtù
di disposizioni speciali che tengono conto della specifica
ed elevata professionalità di tali soggetti e di un
contingente limitato di posti. Inoltre, non si può
considerare utile, ai fini della maturazione del requisito
richiesto per partecipare alle procedure di reclutamento
speciale transitorie, l'anzianità maturata con contratti di
lavoro a tempo determinato negli uffici di diretta
collaborazione. E non possono essere considerati, ai fini
del reclutamento, i rapporti di lavoro relativi al personale
proveniente dalla gestione di appalti o di processi di
esternalizzazione della p.a.
Tra le altre prescrizioni illustrate, quella che impone la
pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche
amministrazioni, delle informazioni relative alle procedure
avviate, secondo criteri di facile accessibilità,
completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto
delle disposizioni in materia di protezione dei dati
personali.
Infine gli enti locali, relativamente ai quali è di
interesse il chiarimento secondo cui le province possono
prorogare fino al 31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo
determinato per le strette necessità connesse alle esigenze
di continuità dei servizi e nel rispetto dei vincoli
finanziari, del patto di stabilità interno e della normativa
di contenimento della spesa complessiva di personale (articolo ItaliaOggi
del 05.12.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Protocollo informatico adeguato alla Pec.
Protocollo informatico adeguato alla posta certificata.
Grazie a una modifica al dpcm 31.10.2000 per tenere
conto del nuovo contesto normativo, che prevede la
trasmissione dei documenti non solo mediante l'utilizzo
della posta elettronica, ma appunto anche attraverso la Pec
o in cooperazione applicativa basata sul Sistema pubblico di
connettività e sul Sistema pubblico di cooperazione.
Il ministro per la pubblica amministrazione e la
semplificazione Giampiero D'Alia ha firmato ieri due decreti
adottati in attuazione di alcune disposizioni del Codice
dell'amministrazione digitale, in materia di protocollazione
e conservazione dei documenti informatici.
I due decreti, spiega una nota, da tempo attesi dagli
operatori, forniscono un supporto alla digitalizzazione
dell'amministrazione pubblica che, pur adottando da tempo
gli strumenti informatici, non ha ancora adeguato i suoi
processi a modelli in grado di sfruttare in pieno le
potenzialità dei nuovi mezzi.
«Gli schemi innovano e rendono più ampio il quadro delle
regole tecniche vigenti in materia, aggiornando quelle sul
protocollo informatico e la conservazione dei documenti
elettronici, la cui introduzione risale, rispettivamente,
all'ottobre del 2000 e al febbraio 2004», si legge nella
nota.
Apportando modifiche alla deliberazione Cnipa n. 11/2004 è
stato inoltre introdotto il concetto di «sistema di
conservazione», che assicura la conservazione a norma dei
documenti elettronici e la disponibilità dei fascicoli
informatici, stabilendo le regole, le procedure, le
tecnologie e i modelli organizzativi da adottare per la
gestione di questi processi (articolo
ItaliaOggi del 04.12.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Scarti da galera.
Bruciare i rifiuti ora è un reato.
Il Cdm vara il decreto legge per la Terra dei fuochi.
Fotografia e mappatura con conseguente blocco della
produzione agroalimentare sui terreni campani inquinati e
definizione, accanto a quelli che possono essere destinati
esclusivamente a colture diverse, dei fondi da destinare
solo a produzioni agroalimentari determinate. Introduzione
del reato di combustione illecita dei rifiuti, con pesanti
sanzioni penali a carico dei colpevoli di roghi di rifiuti
con danni all'ambiente e alla salute umana e confisca del
veicolo utilizzato per il trasporto.
Obbligo informativo da parte dell'autorità giudiziaria
nell'ambito delle indagini verso i ministeri competenti a
adottare i provvedimenti ritenuti opportuni e necessari per
la tutela dell'ambiente, della salute e della qualità della
produzione agroalimentare. Costituzione di un comitato
interministeriale prima e di una commissione poi avente il
compito di individuare e potenziare azioni e interventi di
monitoraggio e tutela nella «Terra dei fuochi».
Sono le
disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e
delle produzioni agroalimentari approvate, ieri dal
Consiglio dei ministri, nel decreto legge «Terra dei fuochi»
(si veda ItaliaOggi di ieri).
Per l'attuazione degli
interventi disciplinati nel dl sono previsti 100.000 euro
per il 2013 e 2.900.000 euro per il 2014; fondi reperiti dal
programma operativo regionale Campania 2007/13, dal piano di
azione e coesione e all'interno di misure da adottare nella
programmazione dei fondi Ue.
Entro 30 giorni dall'entrata in
vigore del decreto, Mipaaf e ministero dell'ambiente
definiranno, d'intesa col presidente della regione Campania,
le priorità di mappatura, tramite indagini tecniche e
strumenti di telerilevamento, delle aree destinate
all'agricoltura, interessate dagli effetti contaminanti di
sversamenti e smaltimenti abusivi, anche mediante
combustione.
I risultati delle indagini e i possibili
interventi di bonifica sui terreni prioritari, dovranno
essere presentati entro 90 giorni. Nei successivi 30 saranno
indicati, con decreto i terreni che non possono essere
destinati alla produzione agroalimentare ma solo a colture
diverse e i terreni destinati a colture speciali.
Le pene previste per il nuovo reato di combustione illecita
di rifiuti (art. 256-bis dlgs 152/2006):
• Reclusione da 2 a 5 anni per chi appicca il fuoco a
rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato in
aree non autorizzate, salvo che il fatto costituisca più
grave reato.
• Reclusione da 3 a 6 anni se viene appiccato il fuoco a
rifiuti pericolosi.
• Stesse pene per chi abbandona o deposita rifiuti in
funzione del successivo abbruciamento.
• Aumento di un terzo della pena se i delitti sono commessi
nell'ambito di attività di impresa o attività organizzata.
• Pena aumentata se la combustione illecita di rifiuti
avviene in territori che al momento della condotta e nei 5
anni precedenti siano o siano stati interessati da
dichiarazioni di stato di emergenza rifiuti.
• Confisca del mezzo di trasporto utilizzato per la
commissione del reato, salvo che il veicolo appartenga a
persona estranea al reato che provi la buona fede e
l'utilizzo a sua insaputa del bene.
• Confisca dell'area su cui è commesso il reato a seguito di
sentenza di condanna se di proprietà dell'autore o del
compartecipe del reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica
e ripristino dello stato dei luoghi.
• Se la combustione riguarda rifiuti vegetali provenienti da
aree verdi si applicano le sanzioni dell'art. 255 dlgs
152/2006 (articolo ItaliaOggi
del 04.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Più poteri alle grandi imprese. Strada aperta ad
aziende "factotum" anche per lavori specializzati.
Varato il Dpr che accoglie il parere del Consiglio di Stato
- Specialisti e Anie in rivolta.
Cantieri in fibrillazione dopo la pubblicazione del Dpr che
di fatto permette alle imprese generali di eseguire le
lavorazioni specialistiche, anche in assenza di
qualificazione. ... (articolo Il Sole 24 Ore del
04.12.2013
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Mini-enti, scatta l'ora della verità.
Sta per scattare l'ora della verità sulle gestioni associate
dei comuni. Oltre all'attuale legge elettorale (il
cosiddetto Porcellum), oggi la Corte costituzionale si
pronuncerà sui ricorsi delle regioni contro le norme che
hanno imposto il modello dell'unione per l'esercizio delle
funzioni fondamentali a tutti i comuni fino a 1.000
abitanti.
Si tratta dell'art. 16 del dl 138/2011 contro cui
si sono levate ben dieci regioni (Toscana, Lazio, Puglia,
Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia
e Sardegna), mentre altri cinque ricorsi (presentati da
Sardegna, Puglia, Lazio, Veneto e Campania) hanno preso di
mira l'art. 19 della spending review di Mario Monti (dl
95/2012) che ha riscritto l'art. 14 del dl 78/2010 fissando
la data del 01.01.2014 quale dead-line per l'esercizio
in forma associata di nove funzioni fondamentali su dieci
(tramite unione o convenzione). Nel frattempo, un
emendamento alla legge di stabilità, patrocinato dall'Anpci
(Associazione nazionale piccoli comuni) e presentato dai
senatori Pd Patrizia Manassero e Stefano Vaccari ha rinviato
l'appuntamento al 1° luglio, mentre nel ddl Delrio
(cosiddetto svuota province) è spuntata una proposta che
disegna una marcia di avvicinamento graduale
all'associazionismo con un primo pacchetto di funzioni da
mettere insieme entro fine giugno e altre sei entro la fine
del 2014.
Le speranze dei mini-enti di vedere le norme
sull'associazionismo obbligatorio spazzate via dalla Corte
costituzionale non sono poche. In materia c'è infatti un
precedente importante, quello sulle comunità montane salvate
dall'abrogazione nel 2009 in quanto considerate alla stregua
di enti «sub-regionali» e quindi rientranti nella competenza
residuale delle regioni.
Un intervento statale, sostengono i
ricorrenti, sarebbe dunque illegittimo perché, come
affermato dalla Consulta, la competenza esclusiva statale in
materia di legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali va riferita solo agli enti
tassativamente elencati nell'art. 114 Cost. (comuni,
province, regioni e città metropolitane) e non a enti
diversi come le unioni (articolo ItaliaOggi del
03.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Rischi di contenzioso sugli appalti pubblici.
Appalti di lavori pubblici a rischio caos e contenzioso dopo
l'annullamento delle norme del regolamento del Codice dei
contratti pubblici sulla qualificazione delle imprese
generali, oggi libere dai vincoli sul subappalto e sui
raggruppamenti obbligatori con gli specialisti; a breve è
atteso un decreto con nuove regole sulla qualificazione.
È
questo l'effetto della pubblicazione del dpr 30 ottobre
sulla gazzetta ufficiale n. 280 del 29.11.2013, che ha
accolto il ricorso promosso dall'Agi (Associazione imprese
generali), dopo che il Consiglio di Stato con parere n. 3014
del 26.06.2013 si era espresso per l'annullamento di
alcune norme del dpr 207/2010.
Oggetto del ricorso erano le regole per qualificarsi a
eseguire lavorazioni specialistiche che sono state annullate
ed espunte dal regolamento del codice dei contratti pubblici
(sembrerebbe con decorrenza 30 novembre visto che il dpr non
dispone diversamente, cioè per una entrata in vigore
differita di 15 giorni): l'articolo 109, comma 2 (per quanto
attiene all'allegato A del dpr 207/2010) e l'articolo 107,
comma 2. L'effetto dell'annullamento, semplificando
questioni interpretative anche complesse, è che le imprese
generali potranno eseguire le lavorazioni specialistiche a
qualificazione obbligatoria anche se non possiedono
l'attestato di qualificazione per tali lavorazioni.
Fino al 29 novembre, invece, avevano l'obbligo di
subappaltare i lavori, oppure di associare imprese in
possesso della qualificazione per le opere specialistiche
che avrebbero svolto quelle determinate lavorazioni. È stata
cancellata anche la norma del regolamento del codice (art.
85, comma 1) sulla utilizzabilità dei lavori subappaltati
dall'impresa generale all'impresa specialistica, in
percentuali diverse a seconda della tipologia di lavorazione
(prevalente o scorporabile) e della qualificazione richiesta
(obbligatoria o no).
Questa disposizione era stata dichiarata «irragionevole» dal
Consiglio di stato, anche in relazione al suo meccanismo
applicativo non lineare; adesso, determinandosi un
sostanziale ritorno alle regole dell'abrogato dpr 34/2000,
l'impresa potrà utilizzare senza limiti quanto subappaltato
all'impresa specialistica (nella misura in cui riterrà di
avvalersi del subappalto). I problemi, adesso, si spostano
sulle stazioni appaltanti che dovranno tenere conto di
questa situazione, senza però avere riferimenti certi e,
quindi, con il rischio di determinare involontariamente un
contenzioso.
Per evitare tutto ciò da tempo i tecnici del ministero delle
infrastrutture stanno lavorando ad un nuovo dpr «ponte» che
dia certezza alle amministrazioni e ottemperi alle
indicazioni del Consiglio di stato. Trattandosi però di un
intervento che ridefinisce implicitamente l'assetto del
mercato, è evidente come la soluzione da individuare non sia
così immediata (articolo
ItaliaOggi del 03.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Entro gennaio.
Negli uffici pubblici piani anti-corruzione.
Entro la fine
di gennaio le pubbliche amministrazioni dovranno avere
concluso il lavoro di redazione dei piani anticorruzione
come richiesto dalla legge n. 190 del 20102.
Lo ha
sottolineato il ministro della Pubblica amministrazione
Gianpiero D'Alia intervenendo al convegno milanese su «Le
strategie anticorruzione tra risposta pubblica ed esperienza
privata» organizzato da Aodv (Associazione dei componenti
degli organismi di vigilanza ex decreto legislativo 231/2001).
Il ministro tuttavia ha tenuto anche a spiegare come ogni
spinta al cambiamento non sia facile in un settore pubblico
dove solo il 10% dei dipendenti ha meno di 35 anni.
Per D'Alia, inoltre, l'attivazione di un'agenda digitale
costituisce l'80% dell'effettiva attuazione della legge 190:
«si tratta di un percorso di medio periodo, fondamentale
nella lotta alla corruzione perché ci permetterebbe tre
passi in avanti importanti: controllare in tempo reale le
amministrazioni, conoscere i bisogni delle comunità e, in
generale, essere più rapidi e concreti». «Non c'è bisogno di
nuove leggi o riforme –ha aggiunto il ministro– se ne sono
fatte tantissime. Ciò che è mancato è l'attuazione, il
riscontro concreto di ciò che si è fatto. Attualmente il
nemico più grosso è costituito dalla cosiddetta opacità
pubblica amministrativà».
Il pubblico ministero, sostituto alla Procura di Milano,
Roberto Pellicano, ha, a sua volta, messo nel mirino alcuni
aspetti critici della distinzione tra corruzione pubblica e
privata, con un'attenzione particolare per il ruolo delle
banche, imprese la cui attività ha tali ricadute su
cittadini e imprese da rendere auspicabili regole di
trasparenza ancora più stringenti delle attuali. Per
Pellicano ancora, un filo rosso con il decreto 231 va
trovato nelle necessità di tutelare il mercato
dall'inquinamento di pratiche corruttive ancora troppo
diffuse (articolo Il Sole 24 Ore del
03.12.2013). |
aggiornamento al
02.01.2014 |
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EDILIZIA PRIVATA: Cambio di sagoma senza «Scia». Se la ricostruzione modifica
la facciata serve il permesso di costruire o la «Dia».
Ristrutturazioni. La semplificazione voluta dal decreto «del
fare» contrasta con l'obbligo di rispettare i prospetti
dell'edificio
Anche dopo gli
interventi di semplificazione del legislatore, la
ristrutturazione senza rispetto della sagoma resta un
intervento edilizio ancora incerto, almeno sotto il profilo
delle autorizzazioni necessarie.
Il decreto del fare (Dl 69/2013), infatti, ha introdotto
rilevanti modifiche in relazione agli interventi di
ristrutturazione edilizia, con demolizione e ricostruzione
senza rispetto della sagoma.
Innanzitutto il decreto ha rivisto la stessa definizione
generale di ristrutturazione edilizia, contenuta
all'articolo 3 del Testo unico in materia edilizia (Dpr
380/2001), eliminando il riferimento all'identità di sagoma,
con l'effetto che, oggi, gli interventi consistenti nella
demolizione e ricostruzione dei fabbricati (non vincolati ai
sensi del Dlgs 42/2004), con la stessa volumetria di quello
preesistente, seppure con sagoma differente, costituiscono a
tutti gli effetti «ristrutturazione edilizia» e non più
nuova costruzione.
Il decreto ha poi introdotto ulteriori rilevanti modifiche.
Il legislatore ha infatti modificato anche l'articolo 10,
comma 1, lettera c) del Testo unico, cioè la norma che
individua gli interventi di ristrutturazione edilizia
cosiddetta pesante, ossia quelle ristrutturazioni attuabili
previo rilascio del permesso di costruire (ovvero mediante
Dia alternativa) e non mediante semplice Scia (segnalazione
certificata di inizio attività). Anche qui il decreto ha
eliminato –in relazione agli edifici non vincolati– il
riferimento alla sagoma, prima contenuto nella disposizione.
La correzione sembra, quindi, essere stata volta a
consentire l'assoggettamento a semplice Scia anche di quelle
ristrutturazioni che prevedano alterazioni della sagoma
dell'edificio. Ma il legislatore potrebbe aver mancato
l'obiettivo.
Le difficoltà
La nuova nozione di ristrutturazione edilizia pesante,
infatti, continua a richiamare i prospetti dell'edificio e,
pertanto, un parametro tecnico che varia, o quantomeno può
variare, al variare della sagoma.
Ad oggi, costituiscono ristrutturazione edilizia pesante,
soggetta a permesso di costruire o, in alternativa a Dia,
quegli interventi di ristrutturazione che portino a «un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
Ebbene, poiché la giurisprudenza ha chiarito che si ha
ristrutturazione edilizia "pesante" tutte le volte in cui
venga alterato anche solamente uno dei parametri elencati
nella norma (aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume o modifiche di prospetti o superfici; si veda
Cassazione penale, Sezione terza, sentenza 01.03.2007, n.
8669), è corretto ritenere che una ristrutturazione che
porti a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente, con modifica della sagoma e –al tempo
stesso– con modifica dei prospetti (pur senza aumento di
unità immobiliari, modifiche del volume o delle superfici)
continui a costituire una ristrutturazione edilizia
"pesante", soggetta a permesso di costruire o a Dia.
È chiaro che questa conclusione rappresenta una forte
limitazione per la recente semplificazione, la cui sfera di
applicazione viene notevolmente ridotta. Del resto,
ipotizzare un intervento di ristrutturazione che implichi
una modifica della sagoma, ma che al tempo stesso non
comporti modifiche ai prospetti dell'edificio si rivela
piuttosto arduo.
Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che la sagoma di un
edificio è la «conformazione planovolumetrica della
costruzione ed il suo perimetro considerato in senso
verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad
assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti» (Tar Lombardia-Milano, sezione
II, sentenza n. 1441/2012).
Per prospetti (o alzati) si intendono, invece, gli sviluppi
in verticale di un edificio e, dunque, le facciate di un
fabbricato (Tar Lazio Roma, sentenza n. 8380/2009). Ebbene,
è evidente che le soluzioni progettuali che consentano la
modifica della sagoma di un edificio senza alterare le
facciate del fabbricato sono piuttosto ridotte.
Per conseguire pienamente l'obiettivo di semplificazione
legato alla modifica del decreto fare e, quindi, per
completare il percorso di riforma intrapreso, potrebbe
quindi essere opportuno che il legislatore metta nuovamente
mano al Testo unico, stralciando il riferimento ai
"prospetti", tuttora presente all'articolo 10.
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Titoli abilitativi strutturati su quattro livelli.
Sono numerosi gli interventi, le modifiche e le riscritture
intervenute nella materia dei titoli abilitativi in edilizia
dal 2010 a oggi.
Tra le modifiche al Testo unico (Dpr 380/2001) più
rilevanti, occorre richiamare quelle introdotte dal Dl
40/2010, che ha ampliato le fattispecie di attività edilizia
libera, distinguendo tra attività totalmente libere ed
attività soggette a preventiva «Comunicazione di inizio
lavori» (Cil, ma a Milano e in altri Comuni è definita
Comunicazione di inizio attività libera, Cial). E ancora: le
modifiche di cui al Dl 78/2010 che è intervenuto
sul'articolo 19 della legge 241/1990 prevedendo la
«Segnalazione certificata di inizio attività» (Scia) in
luogo della Denuncia di inizio attività (Dia), in precedenza
disciplinato dalla stessa norma.
Infine, le correzioni apportate con i decreti legge n.
70/2011 e n. 83/2012, con i quali, tra l'altro, è stato
introdotto il silenzio assenso per il rilascio del permesso
di costruire e, in generale, sono stati modificati i
procedimenti volti al rilascio dei distinti titoli edilizi.
A seguito di queste riforme l'ambito di applicazione della
Dia si è notevolmente ridotto in favore della Scia. Ma il
modello procedimentale della Dia è ancora attuale. E
infatti, come chiarito all'articolo 5, comma 2, lettera c)
del Dl 70/2011, le disposizioni sulla Scia si applicano alle
Dia in materia edilizia disciplinate dal Testo unico, ma con
esclusione di tutti i casi in cui le denunce stesse, in base
alla normativa statale o regionale, siano alternative o
sostitutive del permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno,dunque, delineato un sistema
composto da quattro principali modelli abilitativi, ciascuno
corrispondente a determinate categorie di interventi
edilizi:
- l'attività soggetta a Cil, realizzabile immediatamente
previa comunicazione all'amministrazione;
- l'attività soggetta a Segnalazione certificata di inizio
attività (Scia), anch'essa eseguibile contestualmente alla
presentazione della prevista documentazione;
- l'attività soggetta a denuncia di inizio attività (Dia),
realizzabile decorsi 30 giorni dalla presentazione del
relativo modello;
- le opere subordinate a rilascio di permesso di costruire,
espresso o ottenuto mediante silenzio-assenso.
Dopo queste riforme, il modello procedimentale della Dia
risulta, dunque, ancora applicabile a una serie di
importanti fattispecie. La denuncia potrà infatti essere
utilizzata rispetto agli interventi di ristrutturazione
edilizia "pesante", la cui definizione –contenuta
all'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico– è
stata recentemente modificata dal decreto "del fare" (si
veda l'articolo a fianco), riguardo agli interventi di nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati
da piani attuativi che contengano precise disposizioni
plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive e,
infine, in merito agli interventi di nuova costruzione,
qualora questi siano in diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche.
Inoltre, rimangono soggetti a Dia gli interventi per i quali
le Regioni abbiano indicato la possibilità di ricorso a
questo modello abilitativo in alternativa o in sostituzione
al permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno, dunque, certamente semplificato e
snellito le procedure per conseguire i titoli abilitativi.
Ma nell'apprestare i progetti gli operatori devono comunque
porre particolare attenzione alla classificazione delle
opere alla luce delle disposizioni del Testo unico e alla
identificazione del conseguente modello abilitativo edilizio
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.12.2013). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori pubblici. Il sistema informatico Avcpass.
Appalti, la verifica dei requisiti attende istruzioni.
Manca solo un mese all'operatività del sistema Avcpass per
la verifica dei requisiti degli operatori economici
partecipanti alle gare di appalto da parte delle
amministrazioni pubbliche, ma emergono criticità che devono
essere risolte e le stazioni appaltanti non dispongono di
una versione dimostrativa per esercitarsi.
Il particolare percorso procedurale gestito in modo
totalmente informatizzato è disciplinato dalla deliberazione
dell'Avcp n. 111/2012, che fa riferimento all'articolo 6-bis
del Codice dei contratti. Dal 01.01.2014 le amministrazioni
aggiudicatrici potranno verificare i requisiti di ordine
generale e di capacità solo mediante tale sistema, che
consente l'accesso ai documenti depositati nella banca dati
nazionale dei contratti pubblici.
L'impostazione dell'Avcpass desumibile dai tutorial e dai
materiali formativi messi a disposizione dall'Autorità
prefigura il suo utilizzo per la verifica in corso di gara
sia dei requisiti di capacità (economico-finanziaria e
tecnico-profesisonale), in base all'articolo 48 del Codice,
sia di quelli di ordine generale, riferiti alle
dichiarazioni sostitutive rese in ordine alle varie
fattispecie previste dall'articolo 38, quindi secondo i
criteri stabiliti per il riscontro della veridicità delle
autocertificazioni.
Tuttavia i diagrammi di flusso proposti sembrano concentrare
le verifiche sull'aggiudicatario e sul secondo classificato
subito dopo la formazione della graduatoria di merito (dopo
la valutazione delle offerte e l'eventuale verifica di
quelle anomale), ma prima di pervenire all'aggiudicazione
provvisoria, non sembrando utilizzabile per i controlli in
sede di aggiudicazione definitiva e di stipulazione del
contratto.
Un aspetto di ulteriore criticità si rileva in ordine alle
ipotesi nelle quali la gara sia gestita da una centrale di
committenza o da una stazione unica appaltante: in tal caso,
infatti, la creazione della gara avviene da parte di un
responsabile del procedimento (quello dell'amministrazione
che approva il progetto e avvia la procedura) diverso da
quello che dovrà gestire l'accesso all'Avcpass, con
conseguente necessità di permettere a quest'ultimo la
gestione del Cig per l'effettuazione delle varie operazioni
nel sistema, in quanto deve registrarsi come soggetto tenuto
alla verifica dei requisiti.
Il sistema presenta alcune criticità anche per gli operatori
economici, i quali, comunque, dispongono nel sito
dell'Autorità di una specifica versione dimostrativa.
Secondo la deliberazione n. 111/2012 le imprese che
intendono concorrere a una gara devono inserire nel sistema
solo alcune tipologie di documenti inerenti i requisiti di
capacità economico-finanziaria (ad esempio le attestazioni
bancarie) e di capacità tecnico-professionale (ad esempio i
contratti e le fatture comprovanti i servizi o le forniture
precedentemente svolti a favore di amministrazioni
pubbliche), mentre i documenti inerenti i requisiti di
ordine generale sono acquisiti dall'Avcpass mediante
rapporto diretto con gli enti certificanti.
Tuttavia la simulazione dimostrativa evidenzia nella
libreria (la repository dove l'operatore economico può
inserire i file firmati digitalmente) e nella funzionalità
di associazione dei documenti al «PassOe» numerose sezioni
riferite al caricamento di documenti inerenti requisiti di
ordine generale, che devono essere acquisiti d'ufficio dalla
stazione appaltante, come il Durc relativo alla regolarità
contributiva.
L'inserimento dei documenti relativi ai requisiti di ordine
generale (collegati alle dichiarazioni sostitutive rese in
sede di partecipazione alla gara) non è peraltro possibile
per l'operatore economico, in quanto, in molti casi, si
tratta di certificati, i quali, in base alle norme sulla
decertificazione, non possono essere utilizzati nei rapporti
con le amministrazioni pubbliche
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
AVVOCATI/ Un parere del Cnf dopo due sentenze emanate dal
Tribunale di Verona.
Parcelle vidimate dall'Ordine.
Strada obbligata per l'emissione di decreti ingiuntivi.
Il recupero del compenso dell'avvocato passa ancora
dall'ordine forense di appartenenza.
Il Consiglio nazionale
forense fa chiarezza in merito all'iter procedurale volto a
recuperare onorari e spese impagati dei legali, ribadendo la
sussistenza del potere di «opinamento» delle parcelle in
capo agli Ordini forensi (parere del 23.10.2013 in
risposta al quesito n. 330, Unione Triveneta, Rel. Cons.
Perfetti).
La pronuncia del Cnf nasce da due recenti sentenze del
Tribunale di Verona, secondo le quali l'art. 9 del cd.
decreto legge n. 1/2012 (cd. «Cresci-Italia»), che ha mandato
in soffitta le tariffe forensi, avrebbe tacitamente abrogato
anche gli articoli 633, comma 1 n. 2 e 3, e 636 del Codice
procedura civile, facendo così venire meno la necessità di
rivolgersi al competente ordine professionale per il
prescritto parere sul quantum richiesto.
Le conseguenze pratiche delle pronunce sono evidenti: per
ottenere un decreto ingiuntivo i professionisti avrebbero
dovuto allegare al ricorso il contratto sottoscritto dal
cliente, con l'indicazione analitica del compenso pattuiti.
Secondo questo orientamento, insomma, i legali, per
avvalersi dello strumento più veloce e snello del
procedimento monitorio, avrebbero dovuto fornire la prova
scritta dell'accordo con il cliente, come previsto dal primo
comma n. 1 dell'art. 633 cpc.
La mancanza del contratto sarebbe stata supplita dalla
liquidazione del giudice, operata sulla scorta dei parametri
stabiliti con decreto dal ministero della giustizia.
Divenuta superflua la vidimazione della parcella, per
effetto delle pronunce in questione, il Coa scaligero ha
invitato i propri iscritti ad astenersi dal richiedere
pareri di congruità delle parcelle. Da qui il quesito che la
presidenza dell'Unione Triveneta ha posto al Consiglio
nazionale forense e il conseguente parere reso dagli esperti
romani lo scorso 23 ottobre. Per il vertice istituzionale
delle toghe, l'interpretazione che i giudici di merito
veneti hanno dato alla norma non può essere condivisa. «La
portata abrogativa della norma», chiarisce il Cnf, «riguarda
le tariffe come criterio di determinazione del compenso, e
dunque incide sui criteri attraverso cui è esercitato il
potere di opinamento, e non investe la sua persistenza in
capo al Consiglio dell'Ordine forense». Dunque, gli avvocati
che intendono chiedere l'emissione di un decreto ingiuntivo
devono continuare a munire le proprie parcelle
dell'obbligatorio parere di conformità dei consigli
dell'ordine.
Qualche problema in più sorge nel caso in cui il credito
fatto valere del professionista sia contestato. In caso di
opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal legale,
questi dovrà provare in giudizio, non solo il conferimento
dell'incarico, ma anche l'attività effettivamente svolta. È
quanto ha affermato la Suprema corte (Corte di cassazione,
sentenza n. 2456831 del 31.10.2013), in merito al credito di
un professionista la cui attività, limitatasi alla fase
stragiudiziale, non era stata adeguatamente documentata e
provata in giudizio (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.12.2013 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
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