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81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
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90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
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92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
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ANNO 2023

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ANNO 2023
aggiornamento al 19.07.2023

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi per funzioni tecniche, nuova disciplina applicabile solo alle procedure avviate dal 1° luglio.
Rebus progettazioni interne svolte entro il 30.06.2023, in caso di gare o affidamenti avviati a far data dal 01.07.2023.

L'efficacia del nuovo Codice dei contratti a partire dal 01.07.2023 segna l'avvio anche della nuova disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche contenuta nell'articolo 45 del Dlgs 36/2023.
Tra le tante novità che dovranno essere tenute in considerazione dalle stazioni appaltanti, segnaliamo: la reintroduzione tra le attività incentivate della progettazione, uscita di scena con il Dlgs 50/2016; l'applicazione del fondo a tutti i tipi di procedure, non solo gli appalti ma anche alle concessioni e, più in generale, ai partenariati pubblico privati; il superamento della gara quale condizione per remunerare le prestazioni svolte dai dipendenti interni.
Oggi accedono agli incentivi anche le procedure negoziate (con e senza bando) e gli affidamenti diretti (con e senza procedura comparativa), secondo criteri e importi da definire nel regolamento. Del resto, l'innalzamento delle soglie per gli affidamenti diretti aveva già portato la Corte dei conti ad estendere gli incentivi alle procedure che prevedono lo svolgimento di indagini di mercato e la comparazione concorrenziale tra più soluzioni negoziali disposta attraverso la valutazione tra diverse offerte secondo canoni predeterminati, a contenuto più o meno complesso (Corte dei conti Marche, parere 10.05.2023 n. 106; Corte dei conti Toscana,
parere 02.12.2022 n. 234); l'innalzamento del limite rispetto al trattamento economico annuo lordo dal 50% al 100%, elevabile al 115% in caso di procedure digitali. 
La disciplina transitoria
Uno dei tanti aspetti da prendere in considerazione riguarda la disciplina transitoria: da quando deve trovare applicazione l'articolo 45 del Dlgs 36/2023?
Come sappiamo dalla data di efficacia del nuovo Codice (01.07.2023) è stato abrogato il decreto legislativo 50 del 2016 (articolo 226, comma 1, del Dlgs 36/2023).
Ciononostante, la vecchia disciplina continua a essere applicata a tutti i procedimenti in corso alla data del 01.07.2023, intendendosi per tali (comma 2 del citato articolo 226):
   a) le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima della data in cui il codice acquista efficacia;
   b) in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, le procedure e i contratti in relazione ai quali, alla data in cui il codice acquista efficacia, siano stati già inviati gli avvisi a presentare le offerte.
Ciò significa che gli enti dovranno seguire un doppio binario: la disciplina ex articolo 113 del Dlgs 50/2016, per tutte le procedure avviate entro il 30.06.2023 ai sensi del medesimo decreto 50/2016.
Per questi incentivi gli enti continueranno ad applicare il regolamento già approvato, con le regole ivi contenute, fino a quando non saranno chiusi gli interventi oggetto di incentivazione; la disciplina ex articolo 45 del Dlgs 36/2023, per tutte le procedure avviate a partire dal 01.07.2023.
C'è da chiedersi come dovranno essere gestite le progettazioni interne svolte entro il 30.06.2023, nel caso di procedure di gara o affidamenti che saranno avviati a far data dal 01.07.2023.
Sul punto, mutuando il principio del "tempus regit actum" elaborato dalla Corte dei conti in tema di incentivazioni del personale (Corte dei conti Sezione autonomie,
deliberazione 08.05.2009 n. 7 e deliberazione 24.03.2015 n. 11), l'ANAC (comunicato del Presidente 06.09.2017) aveva già avuto modo di esprimersi in ordine al passaggio dal Dlgs 163/2016 al Dlgs 50/2016, precisando come «ciò che rileva ai fini dell'individuazione della disciplina normativa applicabile e il compimento delle attività oggetto di incentivazione. Ne consegue che le disposizioni di cui all'art. 113 del nuovo codice dei contratti si applicano alle attività incentivate svolte successivamente all'entrata in vigore del Codice».
Analogamente il Dlgs 36/2023, che è tornato ad incentivare la progettazione, troverà applicazione unicamente per le attività di progettazione che saranno svolte a far data dal 01.07.2023 in avanti, anche in considerazione della semplificazione dei livelli di progettazione, passati da tre a due.
Il regolamento
Ovviamente per poter riconoscere i nuovi incentivi sarà necessario approvare il regolamento, atto necessario in quanto la destinazione delle risorse al fondo per le funzioni tecniche rappresenta un obbligo per le stazioni appaltanti e gli enti concedenti. Il termine -fissato dall'articolo 45- è scaduto al 30.04.2023. 
Tuttavia, ciò non fa venir meno l'obbligo di provvedere con celerità, tenuto conto che l'inerzia espone l'ente ad azioni di responsabilità da parte dei dipendenti per perdita di «chance».
Che fare nelle more dell'approvazione del regolamento?
In passato, in vigenza del Dlgs 50/2016, si era aperto il tema legato alla possibilità di liquidare, dopo l'approvazione del regolamento, gli incentivi per attività svolte prima della sua approvazione, attribuendo allo stesso una sorta di effetto retroattivo.
La Corte dei conti Sezione Autonomie (
deliberazione 26.10.2021 n. 16) si è dichiarata favorevole a questa soluzione, a condizione che: le risorse siano state precedentemente previste nel QTE ed accantonate la liquidazione avvenga solo dopo approvazione del regolamento (non viene quindi riconosciuto effetto sanante alle liquidazioni disposte prima).
Fino a quando non verrà approvato il regolamento, gli enti sono invitati a prevedere nei quadri economici degli interventi le risorse da destinare al fondo per le funzioni tecniche, mutuando i criteri già approvati con il vecchio regolamento, accantonando le relative risorse. Resta il nodo delle nuove procedure prima non ammesse al beneficio, per le quali mancano riferimenti utili per la quantificazione delle risorse (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.07.2023).

aggiornamento all'11.07.2023

ATTI AMMINISTRATIVILe notifiche p.a. arrivano on-line. Al via l’Indice nazionale dei domicili digitali. Serve la Pec. Multe, cartelle, accertamenti, detrazioni, rimborsi direttamente sulla posta elettronica.
Da ieri 6 luglio, il sistema di comunicazione con la p.a. diventa a tutti gli effetti digitalizzato, in quanto si avvia l'Inad (Indice azionale dei domicili digitali) che consente di eleggere il proprio domicilio digitale tramite l'indicazione di un indirizzo posta elettronica certificata. Ne consegue che tutti i cittadini saranno invitati a dotarsi della Pec che consente la ricezione di atti con un sistema equiparato alla raccomandata, consentendo l'opponibilità a terzi dell'avvenuta consegna.
Con la creazione dell'Inad, ogni indirizzo Pec viene registrato nell'indice nazionale, consentendo la più rapida ricezione di multe, cartelle di pagamento, accertamenti, detrazioni e rimborsi fiscali. Già da tempo la Pec è obbligatoria per aziende, professionisti e pubbliche amministrazioni.
La previsione trova la sua ratio nella necessità di rendere il rapporto tra cittadino e p.a. più efficiente e celere, in conformità alle ultime riforme attuate con il dl Semplificazioni, che è intervenuto anche in materia di accesso e trasparenza garantendo il rispetto del principio di buon andamento ed efficienza dell'amministrazione (art. 97 Cost.).
Si ricorda che già con la legge 15/2005 è stato inserito l'art. 3-bis nella legge 241/1990, statuendo che “per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati”.
Attraverso l'utilizzo della Pec, oltre a garantire l'efficienza del sistema, la riforma ha volutamente posto in luce la necessità di garantire la certezza del diritto e del dialogo con la p.a., posto che lo strumento in questione è volto a conservare l'autenticità delle comunicazioni, dato il valore legale della Pec assimilabile a una raccomandata con ricevuta di ritorno.
Entro il 6 luglio la p.a. è tenuta a verificare la presenza dei cittadini nel sistema digitalizzato: qualora non risultino iscritti nel registro Inad, potranno ricevere le comunicazioni tramite il vecchio sistema cartaceo fino al 30/11/2023. I cittadini che ne siano in possesso sono pertanto tenuti
(1) a registrare la propria Pec su https://domiciliodigitale.gov.it, con l'obbligo di verificare la propria identità tramite Spid, Cie o Cns.
Non è ancora chiaro cosa accadrà dopo il 30 novembre per quei cittadini che non siano dotati di alcun sistema digitale. Nel decreto p.a. si legge che “al fine di garantire la piena inclusione dei soggetti in divario digitale, fino al 30.11.2023, il gestore della piattaforma per la notificazione digitale degli atti della pubblica amministrazione invia al destinatario sprovvisto di domicilio digitale che non abbia già perfezionato la notifica tramite accesso alla piattaforma l'avviso di avvenuta ricezione in formato cartaceo”.
Pertanto al momento si desume che l'acquisizione di una Pec non è obbligatoria per tutti i cittadini, quanto piuttosto consigliata, essendo posta a garanzia dell'efficienza del sistema amministrativo.
Il sistema Pec, infatti, è in linea anche con l'economicità del sistema della p.a. (art. 1 L. 291/1990). Già dal 06/06/2023, in attuazione dell'art. 6-quater, c. 2 del Cad, tutte le Pec dei professionisti presenti in Ini-Pec (l'Indice nazionale degli Indirizzi Pec di società, imprese individuali e professionisti iscritti a un Ordine professionale) sono stati importati automaticamente anche su Inad, in qualità di domicili digitali di persone fisiche. I professionisti hanno facoltà di modificare il domicilio su Inad, indicando un'altra Pec diversa da quella presente in Ini-Pec.
Dal 6 luglio, pertanto, sarà possibile la consultazione di tutti i domicili eletti o modificati pubblicati in Inad, inserendo il codice fiscale della persona di cui si vuole conoscere il domicilio digitale.
La novità non riguarda solo avvisi di accertamento o richieste impositive, ma ogni tipo di comunicazione con la p.a.. Ne deriva un chiaro vantaggio per il cittadino che sarà destinatario di comunicazioni notificate in tempi più ristretti e in modo automatico, con notevoli risparmi legati al minore utilizzo della carta e all'azzeramento dei costi di postalizzazione. In merito alla disciplina inerente alla notifica di atti, enunciata nell'art. 60 del dpr 600/1973, si desume che il contribuente ha la “facoltà” di eleggere domicilio per la notifica degli atti che lo riguardano.
Nel silenzio dell'odierna riforma, stante l'incertezza legislativa e il mancato intervento circa le conseguenze dell'inottemperanza alle nuove modalità di notifica digitale, non sembrano venire in rilievo profili di nullità dell'eventuale notifica attuata tramite le modalità ordinarie in forma cartacea.
Pertanto, si ritiene che in difetto di notifica a mezzo Pec nei confronti di un cittadino regolarmente iscritto nell'Inad, potrebbe venir in rilievo una mera irregolarità se si considera che le forme di nullità devono essere previste ex lege.
In tal senso, potrebbe riscontrarsi una forma di responsabilità della p.a. per violazione delle regole di correttezza e buona fede, previste dall'art. 1, co. 2-bis, legge 241/1990. Diversamente, qualora si facesse leva sul carattere imperativo che rivestono le norme di diritto amministrativo, il mancato rispetto delle nuove normative potrebbe dar seguito a una forma di “nullità virtuale per violazione di norme imperative”.
Appare preferibile, tuttavia, la conclusione secondo cui, in attesa di un riscontro legislativo più chiaro, la notifica attuata tramite raccomandata -nonostante l'avvenuta iscrizione del cittadino nel registro Inad– è in ogni caso valida, dal momento che la novità del decreto p.a. prevede una mera facoltà di iscrizione della Pec e non un obbligo, almeno fino al 30/11/2023, data in cui si auspica una precisazione da parte del legislatore.
Si ricorda, da ultimo, che il dm Economia e Finanze del 14/04/2023 ha disposto all'art. 2, tra l'altro, che il costo della notifica “è fissato nella misura unitaria di euro 7,83 per le notifiche effettuate mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, di euro 6,51 per le raccomandate semplici, di euro 2 per le notifiche effettuate mediante l'invio a mezzo posta elettronica certificata (…)". Pertanto, è evidente come il costo della Pec sia maggiormente conveniente rispetto alle notifiche attuate tramite raccomandata.
Quanto detto è in linea con la riforma in esame, che consente di ottemperare a esigenze di efficienza e celerità -anche in termini di costi– che verrebbero soddisfatte dall'attuazione di notifiche a mezzo Pec anche nei confronti dei singoli cittadini, oltre che degli enti come già previsto (articolo ItaliaOggi del 07.07.2023).
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(1) Parrebbe che, al contrario, ad oggi non sussista l'obbligo normativo di registrarsi all'INAD: in merito si legga qui

ATTI AMMINISTRATIVIDomicili digitali persone fisiche, da domani via all'Indice (Inad). A segnalarlo è il Consiglio nazionale forense.
Da domani via libera all'Inad, l'indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti non ordinisti e degli enti di diritto privato non tenuti all'iscrizione nell'Ini-Pec: saranno consultabili gli indirizzi Pec eletti (o modificati) dove ricevere tutte le comunicazioni ufficiali della pubblica amministrazione come rimborsi fiscali, accertamenti e verbali di sanzioni.

A segnalarlo è il Consiglio nazionale forense con la nota 28.06.2023 agli Ordini territoriali: i domicili digitali eletti nell'Inad, infatti, sono validi per effettuare notifiche e comunicazioni. E per gli avvocati l'indirizzo Pec presente in Ini-Pec è inserito di default nell'Inad.
Elezione volontaria. I domicili digitali presenti nell'Inad (https://domiciliodigitale.gov.it), ricorda il Cnf, valgono ai fini delle notificazioni e delle comunicazioni degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale. Idem vale per le notifiche eseguite in proprio degli avvocati tramite posta elettronica certificata.
La riforma Cartabia del processo civile ha reso obbligatoria per l'avvocato la modalità telematica quando i destinatari sono avvocati, altri professionisti iscritti in albi o elenchi, imprese individuali e collettive, pubbliche amministrazioni, gestori di servizi pubblici, società a controllo pubblico oppure soggetti che, pur non essendo obbligati, hanno eletto domicilio digitale proprio iscrivendosi all'Inad.
Gestione e modifica. Per gli avvocati il domicilio digitale personale predefinito nell'Inad è l'indirizzo Pec presente nel registro Ini-Pec (www.inipec.gov.it/cerca-pec) che risulta importato in automatico: il professionista può tuttavia eleggerne uno differente come domicilio digitale delle persone fisiche.
Anche i cittadini possono modificare e gestire il proprio domicilio elettronico personale, grazie alle funzioni del portale Inad e in seguito anche tramite il portale dell'Anpr, l'anagrafe nazionale della popolazione residente, indicando un account di Pec diverso da quello presente in Ini-Pec.
E possono scegliere di cessare dal domicilio digitale senza doverne indicare uno nuovo, facoltà che invece non è riconosciuta ai professionisti iscritti all'Inad.
Magnifici sette. Con l'avvento di quest'ultimo diventano sette gli elenchi pubblici in cui si possono reperire indirizzi Pec per le comunicazioni elettroniche a valore legale in base al codice dell'amministrazione digitale. Gli altri sono:
   - Ini-Pec, l'indice nazionale della posta elettronica certificata gestito dal ministero dello Sviluppo economico;
   - Anpr, l'anagrafe nazionale della popolazione residente;
   - registro Pa, formato dal ministero della Giustizia e consultabile solo da uffici giudiziari, uffici notifiche, esecuzione e protesti oltre che dagli avvocati;
   - registro imprese delle Camere di commercio;
   - Reginde, gestito anch'esso da via Arenula, con le Pec di avvocati, notai, avvocati dello Stato e degli enti e ausiliari del giudice;
   - Ipa, l'indice dei domicili digitali della p.a. e dei gestori di pubblici servizi, gestito dall'Agid, Agenzia per l'Italia digitale
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2023).

ANNO 2022
aggiornamento al 05.12.2022

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nessun obbligo di rimborso a carico della Pa per la tassa di iscrizione all'albo professionale di architetti e ingegneri.
È quanto chiarito dal Dipartimento della Funzione pubblica, con un parere reso al Maeci e al Mef.
Impossibilità per architetti e ingegneri di chiedere alla Pubblica amministrazione con la quale intrattengono un rapporto di lavoro il rimborso dell'onere sostenuto per il versamento della tassa d'iscrizione al relativo albo professionale.
È quanto chiarito dal Dipartimento della Funzione pubblica, col parere 24.11.2021 n. 48721 di prot.  reso al Maeci e al Mef, nel presupposto che tale versamento sia da considerarsi di carattere strettamente personale anche quando l'iscrizione risulti necessaria per lo svolgimento dell'attività nei confronti dell'Amministrazione di dipendenza.
L'iscrizione all'albo, infatti, è prevista dalle leggi professionali in via generale e astratta, quale condizione per l'esercizio di attività professionali regolamentate dalla legge cui il professionista aderisce in virtù di una scelta individuale, per garantirsi la possibilità di svolgere professionalmente un'attività lavorativa di tipo intellettuale anche nei confronti della pubblica amministrazione.
Si chiude, almeno per ora, la querelle sorta per effetto di diverse interpretazioni nel tempo formatesi riguardo il soggetto tenuto a farsi carico del costo.
A iniziare con la Corte di Cassazione (Sez. Lavoro, sentenza 20.02.2007 n. 3928) che in relazione alla vertenza instaurata da un avvocato dipendente di un ente pubblico, ha ritenuto che rientrino nell'interesse del privato le spese relative agli studi universitari e all'acquisizione dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, mentre quelle relative al mantenimento dei requisiti per l'espletamento della professione siano a carico del datore essendo lo svolgimento della stessa effettuato nell'interesse esclusivo del datore di lavoro.
Di contro, la Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo per la Puglia, che con il parere 01.10.2008 n. 29 ha stabilito che il medesimo versamento sia da considerarsi esclusivamente nell'interesse dell'avvocato che ne chiede il rimborso, posto che in mancanza dell'annuale versamento (cui consegue la cancellazione) egli non sarebbe più posto in condizione di svolgere l'attività professionale dedotta nel contratto di lavoro con l'ente pubblico.
Il parere della Funzione Pubblica trae inoltre spunto dalla considerazione che per le professioni in esame non è neanche prevista una disciplina dell'esclusività della prestazione professionale, analoga a quella prevista per gli avvocati iscritti all'elenco speciale, non potendo ritenersi esclusa in astratto la possibilità dello svolgimento di attività professionale in regime di part-time al 50% ovvero previa autorizzazione resa in osservanza della disciplina stabilita dall'articolo 53 del Dlgs n. 165/2001.
Conclude il parere ribadendo che osta al riconoscimento dell'onere di rimborso della tassa di iscrizione l'articolo 2, comma 3, del Dlgs 165/2001, salvo specifiche eccezioni/deroghe previste dagli stessi contratti collettivi.
Sovviene, ad esempio, l'articolo 84 del contratto Area Funzioni Centrali 09.03.2018 triennio 2016-2018 che nel disciplinare le materie oggetto di contrattazione integrativa, individua, tra l'altro, i criteri generali per la destinazione di risorse stabili del fondo per il trattamento accessorio dei professionisti al rimborso della quota annuale di iscrizione agli albi professionali, secondo la disciplina del successivo articolo 106 (Iscrizione agli albi professionali) e ai sensi del quale, nei casi in cui l'iscrizione negli elenchi speciali di determinati albi professionali sia richiesta come requisito per l'esercizio delle attività del professionista, questi cura tutti gli adempimenti necessari per il periodico rinnovo dell'iscrizione stessa, assumendosi anche il pagamento della quota annuale a tal fine prevista.
In tali situazione, continua l'articolo 106, la contrattazione integrativa può prevedere la rimborsabilità della quota annuale di iscrizione agli albi professionali con oneri a carico delle risorse del fondo per il trattamento accessorio dei professionisti (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 01.12.2021).
---------------
Dipartimento della Funzione Pubblica, parere 24.11.2021 n. 48721 di prot..
...
   Si fa seguito alla propria nota n. 7509 del 07.02.2020, inviata al Ministero dell’economia e delle finanze e per conoscenza a codesto Ministero, per illustrare la posizione sul tema oggetto di quesito condivisa con il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato all’esito dell’incontro tecnico del 3 novembre u.s. presso questo Dipartimento.
   Preliminarmente, pare utile ribadire che il dovere di esclusività della prestazione di lavoro dei dipendenti pubblici, sancito dall’articolo 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, costituisce un principio cardine del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione e, pertanto, l’obbligata cornice entro cui svolgere le presenti considerazioni.
   È, quindi, necessario che le particolari previsioni degli ordinamenti professionali di provenienza in materia di iscrizione ai relativi albi debbano trovare esplicazione, nella disciplina del rapporto di lavoro dei professionisti della pubblica amministrazione, compatibilmente con l’osservanza del sopra richiamato dovere di esclusività e del conseguente divieto di esercizio dell’attività professionale posto dal citato art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, fatte salve le deroghe espresse previste dall’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e dalla legge in materia di lavoro a tempo parziale di cui all’articolo 1, comma 56 e seguenti, della legge n. 662 del 1996.
   In buona sostanza, la circostanza che la prestazione lavorativa di natura professionale -per il cui svolgimento la legge professionale richiede l’iscrizione all’albo- sia svolta in regime di lavoro subordinato con la pubblica amministrazione deve comportare per il professionista dipendente l’osservanza del citato dovere di esclusività, fatte salve le eccezioni legislativamente previste.
   Con particolare riguardo alla professione di avvocato, tali profili sono affrontati, come noto, nella sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Corte di Cassazione, le cui conclusioni sono da riferire alla peculiare disciplina professionale degli avvocati dell’INPS iscritti all’elenco speciale annesso all’albo, fermo restando il divieto di estensione del giudicato.
   Ciò premesso, per ragionare in un’ottica di sistema, occorre evidenziare che l’iscrizione all’albo è prevista dalle leggi professionali in via generale ed astratta, quale condizione per l’esercizio di attività professionali regolamentate dalla legge cui il professionista aderisce in virtù di una scelta individuale, per garantirsi la possibilità di svolgere professionalmente un’attività lavorativa di tipo intellettuale.
   Tale condizione sussiste anche quando la prestazione di natura professionale sia richiesta in regime di lavoro subordinato con la pubblica amministrazione configurandosi, come nel caso di specie, quale requisito di accesso al lavoro alle dipendenze del datore di lavoro pubblico. Conseguentemente, come osservato dalla magistratura contabile
[1], la tassa di iscrizione all’albo professionale assicura anche in tal caso -non diversamente dallo svolgimento in autonomia- benefici diretti nella sfera dell’iscritto che, pertanto, sarebbe comunque tenuto a sopportarne il costo.
   In linea con tale chiave di lettura, si ritiene, pertanto, che il versamento della tassa d’iscrizione all’albo professionale degli architetti o ingegneri sia da considerare di carattere strettamente personale anche quando tale iscrizione risulti necessaria per lo svolgimento dell’attività nei confronti dell’amministrazione. Tale conclusione pare avvalorata laddove si consideri che per le professioni in esame non è neanche prevista una disciplina dell’esclusività della prestazione professionale, analoga a quella prevista per gli avvocati iscritti all’elenco speciale, non potendo, pertanto, ritenersi esclusa in astratto la possibilità 3 AM/cc dello svolgimento di attività professionale in regime di part-time al 50 per cento ovvero previa autorizzazione resa in osservanza della disciplina di cui al citato art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.
   In ogni caso, corre l’obbligo di rammentare che, secondo quanto previsto dall’articolo 2, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e, alle condizioni previste, mediante contratto individuale: di conseguenza, in assenza di previsioni che riconoscano ai professionisti dipendenti della pubblica amministrazione -e quindi anche ai funzionari architetti e ingegneri dipendenti del Maeci- il diritto al rimborso della tassa d’iscrizione all’albo, non pare vi siano margini per riconoscere il beneficio in parola, non potendosi dar corso alla corresponsione di emolumenti in via interpretativa. Appare significativo, a tal proposito, il fatto che gli strumenti di contrattazione collettiva -fatte salve isolate eccezioni
[2]
- non abbiano previsto alcun specifico onere a carico dell’amministrazione.
   Ciò posto, tenuto conto che la materia in argomento rinviene deve tenere conto anche della disciplina primaria rimessa all’autonomia regolamentare degli ordini, come espressa attraverso le rispettive leggi professionali, eventuali previsioni da parte della contrattazione collettiva non possono che inscriversi nella cornice dei contratti nazionali o di comparto, con contestuale onere, a carico degli stessi, di reperire le relative risorse, nell'ambito di quelle deputate a finanziare i trattamenti accessori, per lo svolgimento di prestazioni connotate da particolare qualificazione professionale.
---------------
   [1] Secondo Corte Conti, sez. reg. Puglia,
parere 01.10.2008 n. 29 “..nell’ipotesi in cui l’iscrizione all’Albo si ponga per il dipendente pubblico come facoltativa, nulla quaestio nel sostenere che l’iscrizione medesima, costituendo scelta individuale, non possa che ricadere sul professionista; nel caso in cui invece un dipendente risulti obbligatoriamente iscritto ad un Albo quale ineludibile requisito per svolgere la propria attività, si ritiene comunque che debba essere cura del soggetto assunto nella compagine dell’ente pubblico per svolgere quella determinata professione farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito (o è divenuto in seguito) condicio sine qua non della sua assunzione o dello svolgimento della relativa professione”.
   [2] V. art. 84 e 106 CCNL Area Funzioni Centrali 09.03.2018 triennio 2016-2018 e art. 13 CCNL Area VI 21.07.2010-biennio economico 2008-2009.

ANNO 2021
aggiornamento al 31.12.2021 (ore 23,59)

EDILIZIA PRIVATATitoli edilizi, illegittima la proroga automatica decisa dalla Lombardia per il Covid.
La Regione Lombardia non può prorogare la validità dei titoli edilizi rilasciati durante l'emergenza Covid 2019 oltre il termine previsto dalla normativa nazionale in quanto il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente "governo del territorio" rimesso alla potestà legislativa dello Stato ex articolo 117, comma terzo, della Costituzione.

Lo ha stabilito la Consulta con la
sentenza 21.12.2021 n. 245, che, su ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ha dichiarato incostituzionale l'articolo 28, comma 1, lettera a), della legge regionale 07.08.2020 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali) che proroga automaticamente di tre anni «la validità di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, fino al 31.12.2021».
Norma che il Giudice delle leggi ha ritenuto in contrasto con:
   - l'articolo 103, comma 2, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 "Misure connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" secondo cui tutti i titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e la dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza (ad oggi fissata al 31.03.2022) conservano la loro efficacia sino ai novanta giorni successivi a tale dichiarazione;
   - l'articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 76 del 2020 "Misure urgenti per la semplificazione", nuovamente intervenuto in materia, di emergenza Covid- 19, che stabilisce che, «[p]er effetto della comunicazione del soggetto interessato di volersi avvalere del presente comma, sono prorogati di tre anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15, come indicati nei permessi di costruire rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati»;
   - gli articoli 12 e 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, recanti rispettivamente la disciplina in tema di presupposti per il rilascio del permesso di costruire e di efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire.
La sentenza
L'Avvocatura generale dello Stato aveva impugnato la norma regionale evidenziando che:
   1) il legislatore statale era intervenuto in materia con interventi graduali, proporzionati alla situazione emergenziale, subordinando la proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei permessi di costruire alla comunicazione dell'interessato e alla perdurante conformità del titolo agli strumenti urbanistici approvati o adottati, mentre la Regione Lombardia aveva introdotto una proroga automatica e di maggiore ampiezza al punto di rendere «variabile lo ius aedificandi»;
   2) la norma regionale si sarebbe discostata dalla disciplina statale che subordina la proroga alla compatibilità del titolo abilitativo con gli strumenti urbanistici «anche meramente adottati», in applicazione dell'articolo 12, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 («In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda»).
Argomentazioni che ha la Corte costituzionale ha condiviso («Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l'introduzione di un regime regionale difforme»).
L'Alta Corte ha confermato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui le norme che disciplinano i titoli abilitativi sono riconducibili al rango di principi fondamentali della materia "governo del territorio" (ex plurimis, sentenza n. 125 del 2017, n. 49 del 2016 e n. 309 del 2011: «La Corte ritiene principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali».
Orientamento che l'Alta Corte ha più volte ribadito. Basta citare la sentenza n. 2 del 2021 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune norme della legge della Regione Toscana 22.11.2019, n. 69 (Disposizioni in materia di governo del territorio) affermando che l'obbligo di non iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla segnalazione, stabilito dall'articolo 23, comma 1, del testo unico edilizia, «concorre a caratterizzare indefettibilmente il regime del titolo abilitativo della "superScia", e costituisce anch'esso principio fondamentale della materia "governo del territorio"» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.12.2021).

EDILIZIA PRIVATA: Titoli edilizi ed emergenza Covid: incostituzionale la proroga della Lombardia. La Corte Costituzionale ha confermato il contrasto con quanto disposto dallo Stato a seguito dell'emergenza sanitaria.
Scadenza termini titoli abilitativi ed emergenza COVID-19: la proroga disposta dalla regione Lombardia (legge 18/2020) è incostituzionale.
Proroga termini titoli abilitativi: la sentenza della Corte Costituzionale
Così ha disposto la Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245, per avere agito in difformità da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge n. 18/2020 e n. 76/2020.
Nella fattispecie, il giudizio ha riguardato la legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
Tale norma prevedeva:
   ● la proroga di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza;
  
la proroga delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza.
Secondo il Governo, la disposizione regionale impugnata ha dettato una disciplina difforme da quella statale, contenuta nell’art. 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 (c.d. Decreto “Cura Italia”), convertito, con modificazioni, in legge 24.04.2020, n. 27, e nel successivo, integrativo art. 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) convertito, con modificazioni, in legge 11.09.2020, n. 120.
In particolare, viene sottolineata:
  
la maggiore ampiezza della proroga disposta in ambito regionale, che ha prolungato di tre anni la validità dei permessi di costruire in scadenza fino al 31.12.2021;
  
l’automatismo che la connota, laddove il legislatore statale ha proceduto con interventi graduali, proporzionati alla situazione emergenziale, subordinando la proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei permessi di costruire alla comunicazione dell’interessato, nonché alla perdurante conformità del titolo agli strumenti urbanistici approvati o adottati: in particolare l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 ne subordina l’efficacia alla richiesta dell’interessato e alla perdurante compatibilità del titolo oggetto della richiesta di proroga con gli strumenti urbanistici, generali o particolareggiati, nel frattempo adottati.
Inoltre la norma impugnata:
  
sarebbe costituzionalmente illegittima anche sotto il profilo della violazione del principio di necessaria unitarietà della proroga, tanto dei termini di validità dei titoli, quanto dei termini di inizio e ultimazione dei lavori;
  
contrasterebbe con la legislazione statale prima richiamata anche con riferimento alla causale dell’emergenza su cui esplicitamente si fonda, poiché vengono meno i principi di proporzionalità e limitatezza temporale. La proroga disposta dal legislatore regionale, riferita ai titoli abilitativi in scadenza fino al 31.12.2021, violerebbe palesemente tali principi.
Emergenza Covid-19 e proroga titoli edilizi: il quadro normativo di riferimento
Nel giudicare il caso, la Corte Costituzionale ha preliminarmente fatto un excursus delle norme di riferimento:
  
con l’art. 103, comma 1, del d.l. n. 18 del 17.03.2020 (cosiddetto Decreto cura Italia), il legislatore ha approntato il primo intervento urgente: la paralisi dell’attività amministrativa e l’esigenza di garantire la protezione della salute e gli interessi collegati all’azione della pubblica amministrazione, hanno indotto a prevedere la sospensione dei termini di tutti i procedimenti amministrativi;
  
in sede di conversione in legge, si è stabilito che gli atti e i titoli in scadenza tra il 31 gennaio e il 31.07.2020 conservano «validità» per i novanta giorni successivi alla data della dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza, con previsione espressamente estesa ai termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R., n. 380/2001, alle segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA), alle segnalazioni di agibilità, alle autorizzazioni paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali, comunque denominate;
  
nel luglio 2020, nel permanere dell’emergenza, il legislatore è tornato a occuparsi di alcuni provvedimenti specifici –i permessi di costruire– per ricalibrare la proroga automatica e generalizzata inizialmente disposta con l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020: ecco quindi l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 (cosiddetto Decreto semplificazioni), come convertito nella legge n. 120 del 2020, che ha previsto che i termini di inizio e ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, come indicati nei permessi di costruire formatisi fino al 31.12.2020, sono prorogati, se l’interessato comunica di volersi avvalere di tale proroga. Al momento della comunicazione i termini non devono essere già decorsi e il titolo deve risultare conforme agli strumenti urbanistici approvati o adottati. Questa disciplina è stata espressamente estesa alle segnalazioni di inizio attività presentate entro lo stesso termine (31.12.2020).
  
a causa del protrarsi dell’emergenza epidemiologica, il legislatore è nuovamente intervenuto: l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 125 del 2020, come convertito, ha modificato l’art. 103, comma 2, sostituendo la data del «31.07.2020» con «la data della dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza», così prorogando la validità di tutti gli atti e titoli in scadenza nell’intero periodo emergenziale, a partire dal 31.01.2020;
  
l’art. 3-bis, comma 1, lettera b), dello stesso d.l. n. 125 del 2020, ha introdotto nell’art. 103 il comma 2-sexies, in cui si prevede che tutti gli atti e provvedimenti indicati al comma 2 dell’art. 103 «scaduti» tra il 01.08.2020 e la data di entrata in vigore della legge di conversione n. 159 del 2020 (27.11.2020), e non rinnovati, «si intendono validi e sono soggetti alla disciplina di cui al medesimo comma 2». In questo modo, è stata recuperata la validità degli atti in scadenza nel periodo successivo al 31.07.2020, non compresi nella prima proroga. La disciplina dettata dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 è riferita solo ai permessi di costruire e alla SCIA, mentre gli altri titoli abilitativi sono assoggettati alla previsione dell’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, come modificato.
Infine, con il decreto-legge 23.07.2021, n. 105, convertito, con modificazioni, in legge 16.09.2021, n. 126, l’emergenza da COVID-19 è stata prorogata fino al 31.12.2021.
Proroga automatica contrasta con le norme statali
La Corte Costituzionale quindi ha evidenziato che l’art. 28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt. 103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in collisione con un principio fondamentale.
Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia in riferimento a:
  
tipologia dei titoli abilitativi;
  
durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza;
  
art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina specifica della proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori indicati nei permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, eliminando l’automatismo e subordinando la concessione della proroga alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante compatibilità del titolo oggetto di proroga con gli strumenti urbanistici approvati o adottati.
Inoltre, nel testo che risulta a seguito della legge di conversione, è previsto un termine differenziato di proroga dei suddetti termini, rispettivamente di un anno e di tre anni.
La disciplina regionale è, pertanto, completamente differente rispetto a quella statale.
Il Collegio ha quindi ricordato che la durata dei titoli abilitativi rappresenta un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di trasformazione del territorio compatibili con la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore statale, secondo il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
La disciplina statale riguarda tutto il territorio nazionale
In una situazione inusuale di emergenza epidemiologica come quella da COVID-19, l’intervento del legislatore è consistito nel prorogare i titoli abilitativi in termini omogenei su tutto il territorio nazionale: "incidendo sulla durata, le norme statali interposte partecipano della natura di “principio fondamentale” che connota la disciplina dei titoli abilitativi, con l’effetto di vincolare le Regioni. Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme”.
Con le norme emanate, lo Stato ha disposto la proroga generalizzata dei titoli abilitativi, seguendo lo sviluppo dell’emergenza epidemiologica e delle sue ricadute, nel bilanciamento di interessi potenzialmente confliggenti che connotano gli interventi sul territorio: da un lato, l’interesse dei beneficiari dei titoli abilitativi a esercitare i propri diritti, e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo eccessivo, dall’altro. L’intervento statale ha inteso rispondere a esigenze che riguardano l’intero territorio nazionale, colpito dalla pandemia, con effetti drammatici che hanno inciso il tessuto sociale ed economico.
L’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18, è stato quindi giudicato illegittimo, ad esclusione della parte in cui, nel testo antecedente all’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 22 del 2020, prevedeva la proroga delle autorizzazioni paesaggistiche (23.12.2021 - tratto da e link a www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa proroga dei titoli abilitativi edilizi è riservata allo Stato.
La Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245, ha dichiarato illegittima la disposizione della Regione Lombardia di proroga dei termini dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione, impugnata dal Governo perché in contrasto con la disciplina statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio. “Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali). In particolare la disposizione regionale impugnata, prevedeva che in considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle costruzioni, derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, “fosse prorogata la validità:
   a) di tutti certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza;
   b) delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza
".
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione regionale violi il riparto di competenze in quanto proroga la validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione. Infatti la normativa in esame è riconducibile alla materia «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente, e che, all’interno di tale ambito materiale, la disciplina dei titoli edilizi e paesaggistici assurga al rango di principio fondamentale, anche con riferimento alla durata.
La disposizione regionale, con l’introdurre una disciplina sostitutiva di quella statale sulla proroga dei titoli, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., per il tramite del parametro interposto costituito dalle norme statali richiamate, che esprimono principi fondamentali della materia.
Sentenza della Corte
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 245/2021 del 21.12.2021, ha dichiarato incostituzionale la proroga dei termini dei titoli abilitativi disposta durante l’emergenza COVID-19 dalla regione Lombardia (legge 18/2020) in modo difforme da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge 18 e 76 del 2020.
‘‘Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’. La Corte ha inoltre osservato che, nel seguire lo sviluppo dell’emergenza COVID-19 e delle sue drammatiche ricadute, il legislatore statale ha inteso bilanciare l’interesse dei beneficiari dei titoli a conservare i rispettivi diritti e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo eccessivo. Di qui la proroga generalizzata dei titoli abilitativi su tutto il territorio nazionale, fino al novantesimo giorno successivo alla cessazione dello stato di emergenza (21.12.2021 - tratto da www.ipsoa.it).

aggiornamento al 29.11.2021

TRIBUTI: Incentivo per il recupero dell'evasione IMU, il vincolo dell'approvazione del bilancio frena gli Enti.
Neanche la pandemia Convid-19 riesce a scalfire la rigida interpretazione fornita da alcune Corti dei conti in tema di incentivo per il recupero dell'evasione Imu.
Si ricorderà che la normativa Ici prevedeva la possibilità per i Comuni di destinare parte del gettito da recupero dell'evasione all'incentivazione del personale. Questa possibilità non era stata replicata all'inizio nell'Imu, ma è stata successivamente introdotta con l'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018 (legge di bilancio 2019).
Occorre premettere che uno dei mali peggiori che affligge gli enti locali è la difficoltà di accertare l'evasione e di riscuotere le proprie entrate. La Corte dei conti ripete sistematicamente che una delle principali cause di dissesto dei Comuni va proprio ricercata nella diffusa inefficienza della capacità di riscossione delle proprie entrate, a iniziare da quelle tributarie.
Negli ultimi anni il legislatore ha finalmente fornito strumenti più efficaci per incrementare il tasso di riscossione. Da ultimo, con l'accertamento esecutivo e con le nuove regole sulla riscossione coattiva, che sono intervenute risolvendo annose problematiche, come quelle relative alla figura del funzionario responsabile della riscossione e agli oneri ripetibili dal debitore.
Ma per incrementare il recupero dell'evasione, che in Italia raggiunge livelli elevatissimi anche nell'ambito dei tributi comunali, occorrono non solo norme chiare ma anche personale.
Dall'analisi sul patrimonio immobiliare in Italia del Mef e dell'agenzia dell'Entrate, si stima solo per l'Imu un'evasione annuale di 5,2 miliardi, con un percentuale media di evasione del 27%, con punte del 45% nel meridione e tassi che non scendono comunque sotto il 10% neanche al Nord.
Conti alla mano, quindi, i Comuni hanno un bacino di recupero nei cinque anni accertabili di ben 26 miliardi di euro. E allora si comprende l'esigenza del legislatore di dare una sferzata anche agli uffici tributi del Comune, ugualmente a quanto avviene per i dipendenti dell'agenzia dell'Entrate, destinatari anche loro di Incentivi sul recupero dell'evasione.
Ma la scrittura del comma 1091 è risultata criptica in più punti. Uno di questi attiene al vincolo dell'approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico, ovvero 31 dicembre e 30 aprile.
Ma se il termine del 31 dicembre viene prorogato, come poi è sempre avvenuto, l'approvazione entro il nuovo termine è tardiva? Approvare il bilancio di previsione entro il 31.07.2020 vuol dire approvare il bilancio entro i termini stabiliti dal Tuel?
La risposta è ovviamente sì. Le proroghe non vengono disposte così, ma sempre in conseguenza di modifiche normative che richiedono un recepimento nell'ordinamento comunale. Non approvare il bilancio entro il 31 dicembre perché la legge di bilancio ha stravolto il quadro normativo di riferimento non è sintomo di inefficienza, come pure qualche Corte ha sostenuto.
Nel 2020 praticamente l'incentivo spetterà solo a qualche isolato Comune, che è riuscito ad approvare il bilancio preventivo a dicembre e il rendiconto entro il 30 aprile, nonostante la pandemia.
Ma ci si chiede, qual è la correlazione logica che esiste tra incentivo al recupero dell'evasione dei tributi e termine di approvazione del bilancio: nessuna.
Peraltro, nell'organizzazione comunale questi sono adempimenti posti a capo di uffici diversi. il personale del servizio tributi deve subire le conseguenze delle attività svolte dal personale del servizio ragioneria? Sarebbe totalmente illogico.
L'incentivo del comma 1091 mira a potenziare l'attività di recupero dell'evasione e della riscossione dei tributi comunali, non mira a far rispettare i termini di approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi.
A questo punto non resta che sperare nel buon senso di una modifica normativa (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.06.2020).

TRIBUTIIncentivi per il recupero delle entrate comunali. Interessate anche poste non tributarie, precisa Ifel. Le premialità introdotte dall’ultima manovra possono remunerare anche obiettivi afferenti a poste non tributarie. Per la relativa quantificazione, occorre adottare un criterio di cassa, senza necessità di confronti intertemporali.
Incentivi a tutto campo per il recupero delle entrate comunali: le premialità introdotte dall'ultima manovra possono remunerare anche obiettivi afferenti a poste non tributarie. Per la relativa quantificazione, occorre adottare un criterio di cassa, senza necessità di confronti intertemporali.
Sono alcune delle precisazioni contenute nella nota predisposta dall'Ifel per illustrare la disciplina dettata dal comma 1091 della legge 145/2018.
In base a tale disposizione, i comuni che approvano il bilancio e il rendiconto entro i termini previsti dal Tuel possono, con proprio regolamento, stabilire che il maggior gettito accertato e riscosso relativamente all'Imu e alla Tari nell'esercizio fiscale precedente sia destinato, nella misura massima del 5%, al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici competenti, nonché al trattamento accessorio del personale ad essi preposto, anche in deroga al tetto imposto dall'art. 23 del dlgs 75/2017.
Secondo Ifel, potranno essere premiate tutte le risorse umane impegnate a stanare gli evasori, non solo, quindi, quelle direttamente adibite all'ufficio tributi, ma anche il personale degli altri uffici che in vario modo concorrono al raggiungimento degli obiettivi del «settore entrate».
Il documento (corredato da uno schema di regolamento e di delibera di approvazione) si sofferma diffusamente anche sui meccanismi di alimentazione del fondo incentivante, precisando che la nozione di «maggior gettito» non può che riferirsi al gettito aggiuntivo rispetto a quello che risulta ordinariamente acquisito sui due tributi menzionati, nelle forme proprie di ciascuno: l'autoliquidazione a scadenze predeterminate dalla legge, nel caso dell'Imu, la richiesta comunale o del diverso soggetto preposto, generalmente mediante avviso bonario, nel caso della Tari.
Pertanto, non c'è alcun confronto intertemporale da effettuare, bensì dovranno essere considerate tutte le riscossioni diverse da quelle ordinarie, generate da attività di verifica e controllo poste in essere dal comune. A monte, però, deve esserci atto di accertamento emesso dall'ente, anche se poi l'incasso è stato operato da terzi. Inoltre, quello che rileva è quanto riscosso in un determinato anno, indipendentemente dal periodo di emissione dell'atto.
Infine, Ifel conferma che la condizione di applicabilità legata alla tempistica di approvazione dei documenti contabili è da intendersi realizzata purché l'ente rispetti i termini di legge, anche se eventualmente prorogati. Il meccanismo è attivabile fin dal corrente anno avendo riguardo alle riscossioni realizzate nel 2018; l'erogazione dell'incentivo avverrà nel 2020, nella misura in cui saranno stati realizzati gli obiettivi di recupero (articolo ItaliaOggi del 02.03.2019).

aggiornamento al 11.09.2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischi penali per le pause caffè senza timbrare. Solo episodi singoli possono evitare la maxi-sanzione grazie alla «lieve tenuità».
La «lieve tenuità» può evitare le sanzioni penali, ma le indicazioni offerte dalla sentenza 29.07.2021 n. 29674 della Cassazione (Sole 24 Ore del 26 agosto) dettano principi piuttosto rigidi sull’applicazione delle norme anti-assenteismo. L’allontanamento dall’ufficio per la pausa caffè senza la timbratura dell’uscita integra per i giudici il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per contestare l’aggravante dell’essere pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza non strettamente collegata all’esercizio delle attività; la condotta determina la maturazione del danno all’immagine.
La Corte dà inoltre conto del fatto che vi sono letture contrastanti sulla scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del danno, posto che in caso di risposta positiva va dimostrato che il dipendente è nelle condizioni economiche di poter dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida e figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano disservizi e danneggiano la credibilità delle Pa, ma che il tutto va ricondotto ai principi generali dell’ordinamento penale.
La prima indicazione netta è che non è necessario, per irrogare la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall’articolo 55-quinquies del Dlgs 165/2001 (reclusione da uno a cinque anni e sanzione da 400 a 1.600 euro), dimostrare che la condotta è stata caratterizzata da continuità, abitualità o reiterazione. Anche un singolo episodio integra gli estremi del reato. Che matura per la semplice mancata timbratura dell’uscita e non sono necessari l’alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il fatto che il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non è registrata.
Un’altra indicazione rigida deriva dalla scelta legislativa: è sufficiente a integrare il reato il dolo generico e non serve la dimostrazione di una volontà specifica. I dipendenti vanno sanzionati se conoscono l’esistenza di un vincolo all’uso del badge e non ci sono giustificazioni convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l’aggravante dell’essere un pubblico ufficiale: la norma non richiede «un nesso funzionale tra tali poteri o doveri e il compimento del reato». Il fatto di essere un dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la norma prevede il risarcimento da parte del dipendente del danno provocato all’ente, sia di natura patrimoniale per la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia all’immagine, con quantificazione della misura minima. In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente dell’articolo 131-bis del Codice penale, matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una sola, che abbia determinato effetti di lieve entità e che le modalità della condotta consentano questo giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischi penali per le pause caffè senza timbrare.
L'allontanamento dall'ufficio per la cosiddetta pausa caffè senza la timbratura dell'uscita integra il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza della esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per contestare l'aggravante dell'essere pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza che non è strettamente collegata all'esercizio delle attività; tale condotta determina la maturazione del danno all'immagine.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella sentenza 29.07.2021 n. 29674 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
La stessa dà inoltre conto del fatto che ci sono letture contrastanti sulla scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del danno, posto che in caso di risposta positiva sull'utilizzazione di questa possibilità occorre dimostrare che il dipendente è nelle condizioni economiche di potere dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida e sia figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano disservizi e determinano danni rilevanti alla credibilità delle Pa, ma che il dettato legislativo deve essere comunque ricondotto nel rispetto dei principi di carattere generale dettati dall'ordinamento penale.
La prima indicazione molto netta è che non è necessario, per potere irrogare la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall'articolo 55-quinquies del Dlgs 165/2001 dimostrare che la condotta del dipendente è stata caratterizzata dalla continuità o dalla abitualità o dalla reiterazione. Di conseguenza, anche un singolo episodio integra gli estremi per la maturazione del reato. Intimamente connessa a tale principio è la considerazione che il reato matura per la semplice mancata timbratura della uscita e non sono necessari l'alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il semplice fatto che il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non risulta registrata dal sistema di rilevazione delle presenze.
Un'altra indicazione che possiamo definire come rigida e che deriva direttamente dalla scelta legislativa è la seguente: è sufficiente a integrare il reato il dolo generico e non è necessaria la dimostrazione di una volontà specifica. Quindi, i dipendenti vanno sanzionati se sono a conoscenza della esistenza di un vincolo alla utilizzazione del badge e se non vi sono elementi di giustificazione convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l'elemento per cui si deve contestare la circostanza aggravante dell'essere il dipendente un pubblico ufficiale: il dettato legislativo non richiede che vi sia «un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato». In altri termini, il semplice fatto di essere un dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la disposizione prevede che il dipendente debba risarcire il danno che ha provocato all'ente, sia di natura patrimoniale per la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia alla immagine della Pa, con la quantificazione della misura minima.
In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente dell'articolo 131-bis del codice penale, matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una sola, che essa abbia determinato degli effetti di lieve entità e che le modalità della condotta consentano la maturazione di tale giudizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La Cassazione chiude un occhio sulla fuga per la pausa caffè. Resta reato ma punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante per la Pa. I dipendenti non timbravano il badge e confidavano su prassi e tolleranza.
I futili motivi che inducono i furbetti del cartellino a uscire per la pausa caffè e le sigarette non bastano a escludere la non punibilità, per la particolare tenuità del fatto. Per negare il beneficio, previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale serve, infatti, la prova dell’abitualità del comportamento e del danno rilevante per la pubblica amministrazione. Due elementi che la Corte d’appello, disattesa dalla Cassazione (sentenza 29.07.2021 n. 29674), aveva rilevato.
Per la Corte territoriale erano punibili due impiegati del Comune, finiti nelle maglie della giustizia, perché assenti ingiustificati durante un controllo dei Carabinieri. Un’uscita, senza timbrare il badge, per comprare le sigarette e andare al bar. In realtà a metterli davvero nei guai erano state le loro giustificazioni. Il bevitore di caffè aveva parlato di necessità, non essendoci in ufficio un distributore e di prassi seguita in tutti i luoghi di lavoro. Il dipendente che era andato dal tabaccaio, aveva maledetto la cattiva sorte, perché in 36 anni di servizio non gli era mai capitata una cosa del genere.
Frasi che, per la Corte territoriale, provavano l’abitualità dei comportamenti. Dello stesso parere il Pubblico ministero, secondo il quale il beneficio era stato giustamente negato, anche ai fini delle attenuanti generiche, perché era stato violato il principale dovere di un lavoratore: la presenza sul posto di lavoro. Gli imputati avevano agito con noncuranza verso l’utenza tendendo a sminuire l’azione commessa.
Sulla stessa linea sia il Tribunale sia la corte d’Appello, che avevano messo l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite, e sulla gravità dell’allontanamento non registrato. Una condotta idonea «ad incrementare un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare un danno all’immagine della casa Comunale». E questo per assecondare «bisogni della vita del tutto accessori».
In più, dalle dichiarazioni degli imputati, risultava che l’allontanamento non era occasionale, anzi , una prassi «una consuetudine mattutina, radicata e addirittura abituale».
Diversa la lettura della Suprema corte, secondo la quale le affermazioni, «incriminate» dai giudici di merito, non provavano affatto l’abitualità. E i giudici di legittimità richiamano alla necessità di stare ai fatti.
I due ricorrenti non avevano timbrato il badge in uscita e dunque, in base all’orario di entrata, potevano essere stati via dai cinque minuti a un’ora. Né è corretta l’affermazione sull’ostacolo al beneficio dato dalla futilità dei motivi.
Una causa ostativa che la Corte di merito ha tratto dal comma 2 dell’articolo 131-bis, in base al quale l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità se l’autore ha agito per motivi abietti o futili. Nel caso specifico, però, ad avviso della Cassazione, l’errore non nasce da un istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella tolleranza dei superiori. Detto questo, i giudici di legittimità confermano il reato, previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo 55-quinquies). Una norma, rivista dal Dlgs 116/2016, secondo la quale la falsa attestazione scatta qualunque modalità venga usata per far risultare in servizio chi è assente.
Viene dunque confermata anche la condanna a risarcire il danno alla Pa. Ma la Corte d’Appello è invitata a rivedere il no alla non punibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIAGOIl badge anche per la pausa caffè. Non sufficiente l’autorizzazione orale del capo ufficio. La Corte di cassazione ha confermato il reato di attestazione fraudolenta della presenza.
L'allontanamento dal posto di lavoro, per fruire della pausa caffè, deve essere accertato dal sistema di rilevazione delle presenze, anche in presenza dell'autorizzazione orale del capo ufficio. In questo caso, infatti, il dipendente incorre nel reato falsa attestazione della presenza, essendo sufficiente che, ai fini dell'integrazione del reato, la situazione di fatto (presenza in ufficio) sia diversa da quella reale (allontanamento al bar).
Con queste indicazioni la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 29.07.2021 n. 29674) ha, da un lato, confermato la fattispecie del reato ma, dall'altro lato, ha accolto il ricorso dei ricorrenti sulla possibile applicazione della particolare tenuità del reato, anche in caso di reiterazione, rinviando al giudice di merito la relativa decisione.
La vicenda. Il Tribunale di primo grado e la Corte di appello hanno confermato il reato, di attestazione fraudolenta della presenza, di due dipendenti che, a seguito del riscontro effettuato dalle forze dell'ordine, si erano allontananti dall'ufficio, il primo per una pausa caffè ed il secondo per recarsi al tabaccaio.
Trattandosi di pochi minuti di allontanamento, tra la fase di uscita, in assenza della timbratura al cartellino marcatempo, e quella in entrata, i convenuti hanno, tra l'altro evidenziato la particolare tenuità del fatto. Uno dei ricorrenti ha, inoltre, precisato che l'allontanamento dall'ufficio, per pochi minuti, era stato in ogni caso preventivamente autorizzato dal capo ufficio, in assenza del distributore automatico di bevande.
Le indicazioni della Cassazione. Il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma, a dire dei giudici di legittimità, con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che, consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che, il reato in questione concorre con la truffa aggravata, in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all'amministrazione (decreto legislativo n. 165/200).
Ricorda la Cassazione che, il nuovo testo dell'art. 55-quater riguardante il licenziamento disciplinare, ha precisato al comma 1-bis, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
Nel caso di specie, il delitto si consuma con la realizzazione, da parte dei pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio.
Pertanto, nessun rilievo può assumere la circostanza sollevata, in ordine alla "pausa caffè", considerato che la stessa non integra uno stato di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa o permesso implicano necessariamente che, l'allontanamento non solo deve essere autorizzato, ma deve trovare traccia nell'utilizzo del badge che segna l'uscita del dipendente. È stata, invece, accolta l'eccezione della difesa sulla particolare tenuità del fatto.
Infatti, anche in presenza di ipotesi di reiterazioni, l'applicabilità dell'art. 131 c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione, nell'articolo citato, dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In altri termini, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti. Spetterà al giudice di appello, cui la causa è rinviata, verificare se gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali, durata temporale della violazione, numero delle leggi violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2021).
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SENTENZA
4. Entrambi i motivi sono infondati.
4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre individuare il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall'art. 55-quinquies, D.Lgs. n. 165/2001. La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in particolare, l'ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei profili di concorrenza con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall'altro, delle conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le violazioni non siano state reiterate e ripetute ma limitate. Al riguardo, la norma evidenzia in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non richiede continuità o abitualità.
In generale, il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata dall'art. 640, co. 2, n. 1, c.p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all'Amministrazione poiché al primo comma del citato art. 55-quinquies è espressamente previsto "fermo quanto previsto dal Codice penale" (Sez. III, n. 45698 del 27/10/ 2015).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha rigettato le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di essersi allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all'uscita, non sarebbero riconducibili all'art. 55- quinquies citato, non essendovi stata un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze e non essendo riconnprese nelle altre modalità fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere interpretate restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di registrazione.
Ed infatti, la condotta contemplata dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta falsamente la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a priori predeterminate dal legislatore.  Non sussiste alcun contrasto con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all'art. 25 Cost., in quanto l'enunciazione della condotta del reato, pur descritta genericamente, consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato delle parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non specifiche, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa.
Né è legittimo fare ricorso all'interpretazione analogica con le modalità indicate da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di interpretazione letterale per attribuire alla norma un significato univoco.
4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell'art. 55-quater che tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1-bis, con una integrazione effettuata con D.lgs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
La fattispecie disciplinare di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l'intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.
Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di legittimità in sede civile (Sez. lav., n. 24574 del 01/12/2016) precisando che a prescindere dall'intervento riformatore dell'art. 55-quater cit., la ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione intesa come manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n. 17637/2016, 17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n. 257508 del 14/12/2016).
Pertanto, la formulazione del Dlgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1, lett. a), ed anche la sua "ratto" (potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo), inducono ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.
Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto dall'art. 55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici dipendenti di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato di cui all'art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art. 55-quinquies (sul rapporto tra l'art. 640 cpv. c.p. e il D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55- quinquies: Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del 27/10/2015; Id., n. 45947 del 10/10/2019).
In sintesi, è stato sottolineato che l'illecito descritto al D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies, diversamente dalla truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente pubblico della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze. Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di prevenire o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio pubblico, le condotte assenteistiche.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità amministrativa e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche il danno non patrimoniale (ad es. quello all'immagine subito dall'amministrazione stessa).
Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale si sia concretizzato nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, possa costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa. Il legislatore quindi pone l'attenzione sulle modalità esplicative del comportamento illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia l'induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito dall'agente i quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 55-quinquies prefato.
...
10. Vanno trattati congiuntamente anche il secondo motivo del Ca. e il secondo motivo del Se., in quanto entrambi afferiscono al tema del mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., motivi, come anticipato, da ritenersi invece fondati.
10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.
È stato affermato che la clausola generale di "non punibilità per particolare tenuità del fatto" prevista dall'art. 131-bis c.p. è applicabile solamente nei casi nei quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia stata del tutto episodica e, comunque, l'offesa sia di particolare tenuità (Sez. II, n. 38997 del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o reiterazione del comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di non punibilità.
In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è possibile applicare l'esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve entità, è configurabile e sanzionabile la condotta con l'applicazione della pena prevista per il delitto di "false attestazioni o certificazioni".
Si rammenta poi che l'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Sul punto, deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reiterazione della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 05/04/2017), in quanto viene a configurarsi una ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di reiterazione non sono mancate decisioni nelle quali l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate.
Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell'articolo summenzionato dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis c.p. ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/06/2018; Sez. VI, n. 55107 del 08/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).
...
12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell'interesse del Ca..
12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.
Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del Ca., ovvero l'allontanarsi dal luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita, integra la violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 03/06/2005; Sez. II, n. 22972 del 16/02/2018).
Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla citata pronuncia n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di servizio, agisce come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente esercitata. Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di ciascun dipendente, non ha fatto venir meno l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con finalità fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro in realtà inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione, risulta essere stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in "palese violazione di precise direttive superiori".
La medesima condotta ha comunque integrato la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico servizio, la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.
Del resto, si è affermato che l'aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013) e non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n. 20870 del 30/04/2009; Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013; Id. n. 13057 del 28/10/2015; Sez. III, n. 24979 del 22/12/2017; Sez. V, n. 9102 del 16/10/2019; Sez. III, n. 17386 del 28/01/2021).
Inoltre, tra le circostanze concernenti le "qualità personali" del colpevole rientra certamente quella dell'aver commesso il fatto con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all'art. 61 c.p., n. 9, che é di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico ufficiale, ma perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità dell'azione, con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai sensi dell'art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53687 del 25/11/2014).
12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo commesso attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale ha abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante rapporto pubblicistico: si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.
In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal Caterino non risulta essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la doglianza, non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità.
...
13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche significativi riflessi patrimoniali.
Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni indebitamente erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte fraudolente di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano all'Amministrazione un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che investe l'autorevolezza e la credibilità dell'Amministrazione Pubblica, in generale, e dell'Ente interessato. Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che l'attestazione falsa di presenza in servizio lede l'immagine dell'Amministrazione ed ha determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla gravità o dalla reiterazione della condotta.
La giurisprudenza contabile ha rilevato che l'art. 55-quinquies, D.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di danno all'immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale diretta a determinare l'importo della lesione erariale, consistente nella condotta del dipendente pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l'interruzione della prestazione attraverso il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in servizio (Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 06/03/2019; Corte dei conti, Sez. giurisd. Abruzzo, n. 110 del 06/09/2018).
Si è precisato che il legislatore ha inteso prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno dell'assenteismo pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette assenteistiche sono causa di lesione all'immagine" (Corte dei conti, n. 163 del 17/05/2018).
In proposito, la nozione di danno all'immagine deve essere considerata unitaria e, in ogni caso, espressiva di un'effettiva compromissione della reputazione dell'Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione dei consociati in merito alla correttezza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni.
Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento nell'art. 55-quinquies, comma 2 sopra citato, in forza del quale "Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno d'immagine di cui all'art. 55-quater, comma 3-quater".
Avendo il ricorrente commesso l'illecito di cui all'art. 55-quinquies, il medesimo è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2021 n. 29674).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTroppe pause caffè? È truffa continuata ma il reato è impunito se il danno alla Pa è lieve.
Particolare tenuità del fatto applicabile anche al reato continuato, se il pregiudizio, da calcolare in base allo stipendio, non è rilevante e manca una propensione al crimine da parte degli amanti del break al bar.

Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione, habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine.
Nel caso esaminato il reato era prescritto, ma la Cassazione (
Sez. II penale, sentenza 31.12.2020 n. 37913) analizza comunque la condotta prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Le violazioni ripetute
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro, calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza passare il badge. Per la Suprema corte la sentenza della Corte d’Appello era contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non punibilità.
L’apprezzabilità del danno
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio, la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis. Secondo la giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile.
Il giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette. Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato.
Anche nella sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei patiti della moka non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno un stipendio più pesante (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.01.2021).

aggiornamento al 24.08.2021

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Funzioni tecniche, incentivi solo con regolamento, contratto e verifica. Le istruzioni della Corte dei conti.
Gli enti devono inserire gli incentivi per le funzioni tecniche nel quadro economico, ma la loro concreta erogazione è subordinata alla adozione del regolamento e alla contrattazione, oltre che all'accertamento delle attività effettivamente svolte dai singoli dipendenti.
Questi incentivi possono essere erogati anche nel caso di appalti con affidamento diretto se si è dato corso alla utilizzazione di procedure comparative, mentre non possono essere erogati nel caso di affidamenti diretti, quali ad esempio i cottimi.
Nel caso di appalti di servizi e forniture possono essere erogati non solo per quelli di importo superiore a 500.000 euro, ma anche per cifre inferiori a condizione che sussistano le condizioni che impongono la distinzione di compiti tra il Rup ed il direttore dell'esecuzione e possono essere erogati anche nel caso di adesione ad una convenzione quadro.
Questi oneri non vanno compresi nella spesa del personale per gli appalti avviati a partire dal 01.01.2018. Il coordinatore della sicurezza può essere remunerato solamente per i compiti svolti come direttore dei lavori, se vi è coincidenza tra queste figure, o come collaboratore dello stesso e non già in modo autonomo.

Sono queste alcune tra le indicazioni fornite dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti sulla erogazione degli incentivi delle funzioni tecniche. Tali pareri risultano assai utili sul versante dei suggerimenti operativi e sembrano essere complessivamente ispirate da una particolare attenzione al rispetto dei vincoli, anche formali, dettati dal legislatore.
Segnaliamo, in particolare, le deliberazioni di questo anno della sezione regionale di controllo della magistratura contabile dell'Emilia Romagna e, segnatamente,
parere 04.02.2021 n. 7 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del 17 febbraio), parere 08.04.2021 n. 43 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del 19 aprile) e parere 120, della Liguria parere 12.04.2021 n. 59, della Lombardia parere 07.05.2021 n. 73 e della Campania parere 18.02.2021 n. 14.
L'adozione del regolamento è condizione per la erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche; per potere dare corso alla loro liquidazione occorre che le risorse finanziarie del fondo siano ripartite per singolo appalto con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione integrativa decentrata, che l'impegno di spesa sia assunto a valere sulle risorse già accantonate nel quadro economico dell'appalto e che la liquidazione dell'incentivo sia preceduta dall'accertamento delle specifiche attività svolte dal dipendente.
L'incentivo per le funzioni tecniche richiede, come condizione essenziale, che si sia dato corso a un appalto. Per la magistratura contabile in tale ambito vanno comprese le procedure negoziate senza bando (art. 63 del Dlgs n. 50 del 2016, temporaneamente estese dall'articolo 1 del decreto legge 76/2020) e gli affidamenti diretti dove mediati dalla previa richiesta di preventivi (sul modello previsto dall'articolo 36, comma 2, lett. b), del Dlgs n. 50 del 2016). Nella stessa direzione vanno anche le indicazioni per cui le acquisizioni effettuate attraverso l'amministrazione diretta, ivi compreso il cottimo fiduciario, non consentono la erogazione del compenso.
Per gli appalti di servizi e forniture di importo inferiore a 500.000 euro questi compensi possono essere erogati se sussistano le condizioni di complessità che impongono la differenziazione tra il direttore dell'esecuzione ed il Rup.
Gli oneri per gli incentivi di funzioni tecniche non sono da comprendere nella spesa del personale, anche ai fini della determinazione del rapporto con le entrate correnti per la fissazione delle capacità assunzionali.
Questi compensi possono essere riconosciuti al personale che ha svolto funzioni tecniche nella fase di esecuzione di un appalto di servizi concluso mediante adesione a convenzione quadro stipulata da un soggetto aggregatore, ovviamente tranne che il bando sia stato pubblicato prima dell'entrata in vigore del Dlgs 50/2016 (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 25.05.2021).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi tecnici nelle partecipate fra aperture normative ed esigenze di controllo.
Il Dl 90 del 2014 nella sua originaria formulazione aveva del tutto abolito il compenso incentivante per i progettisti pubblici dipendenti (e suoi collaboratori) di un'opera pubblica, previsto inizialmente dall'articolo 18 della legge 109 del 1994 e ribadito dal Dlgs 163 del 2006.
In sede di conversione, all'abrogazione si è aggiunta, con l'introduzione dell'articolo 13-bis alla legge 114/2014, una norma che da un lato conferma l'esistenza del compenso nella misura del 2%, sebbene con alcuni distinguo rispetto alla versione precedente; dall'altro lato apre la possibilità a una contrattazione decentrata sulla stessa materia anche per gli uffici tecnici degli organismi di diritto pubblico, con un significativo impatto sulle spese di personale e con l'aggiunta di un altro tassello al mosaico della equiparazione tra rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni e rapporto di lavoro alle dipendenze di società partecipate da pubbliche amministrazioni.
Pertanto, le amministrazioni aggiudicatrici che non sono pubbliche amministrazioni in senso soggettivo e che, però, soggiacciono a medesimi limiti (per esempio assunzionali) possono prevedere un compenso per prestazioni di progettazione interna analogamente agli uffici tecnici dei soci controllanti.
La norma del precedente Codice dei contratti pubblici risulta ancora di più confermata nel successivo art. 113 del Dlgs 50/2016, poiché il comma 2 prevede che «a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano». La differenza terminologica con il precedente dato è fondamentale. Fino al 2016 le Pa costituivano il fondo per il compenso incentivante e le amministrazioni aggiudicatrici (quindi gli organismi di diritto pubblico) potevano costituire un fondo analogo.
La prospettiva del legislatore del 2016 è completamente diversa. Non si effettua una classificazione e differenziazione tra pubbliche amministrazioni e organismi di diritto pubblico; si parla in senso ampio di amministrazioni aggiudicatrici, intendendosi, in base alla tassonomia dell'articolo 3 del codice, sia le Pa in senso soggettivo sia gli organismi che fanno riferimento alle prime.
Resta da verificare come si atteggeranno i comportamenti degli enti soci, che in base all'articolo 19 del Testo unico sulle partecipate devono dare indicazioni alle società partecipate anche ai fini del contenimento delle spese di personale (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 09.10.2020).

aggiornamento al 31.05.2021

EDILIZIA PRIVATA: Case ante 1945, cappotti con permessi paesaggistici. Anche senza un vincolo specifico occorre il sì della Sovrintendenza. Gli architetti preoccupati: «Possiamo valutare noi l'impatto reale del lavoro».
Case antiche, moderne, vecchie, belle o brutte, basta la data fatale: 1945, forse perché dal momento della ricostruzione sono stati commessi i peggiori obbrobri architettonici, che in qualche caso è meglio coprire con un bel cappotto termico. Ma vai a capire.
La circolare 04.03.2021 n. 4 del Mibact (si veda il sole 24 Ore di ieri) precisa comunque che agli immobili «di edilizia storica», edificati in Italia prima del 1945, non può essere automaticamente applicata l’esenzione dall’autorizzazione paesaggistica semplificata (punto B3 dell’allegato B al Dpr 31/2017).
Le conseguenze
La conseguenza pratica è che il 17,3% della popolazione italiana, che vive in immobili precedenti al 1945 (dati Istat) si troverà per forza a confrontarsi con l’autorizzazione paesaggistica (al cui interno esistono diversi tipi di vincoli) nel caso intendesse percorrere l’accidentata strada del superbonus.
Naturalmente la questione riguarda anche gli immobili costruiti successivamente, se «alterino l’aspetto esteriore anche in termini di finiture». Ma colpisce che nell’obbligo sparisca la distinzione tra tutela diretta e indiretta, dato che i beni possono anche trovarsi distanti dai primi, visto che l’unico criterio è la data di costruzione.
La pratica
In cosa consiste la «autorizzazione semplificata»? Occorre presentare allo Sportello unico edilizia dell’ente locale una serie di documenti. Lo Sportello attiva la conferenza di servizi semplificata inviando tutto alla sovrintendenza, che ha 20 giorni per rispondere (se non risponde scatta il «silenzio provvedimentale», qualcosa più del silenzio-assenso). Il procedimento autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Fabrizio Pistolesi, (Segretario del Consiglio nazionale degli arcitetti - coordinatore Dipartimento semplificazione), esprime «La grande preoccupazione che abbiamo riguardo a ciò che occorre fare per il 110%. La burocrazia sta ostacolando molto la partenza del superbonus, su 1,2 milioni di condomìni sono partiti in meno di 500. Mentre occorre efficientare il nostro datato patrimonio edilizio, dal punto di vista energetico ma anche e soprattutto sismico. Qualsiasi ulteriore adempimento è un vero problema. E la semplificazione sulla Cila che sarà contenuta nel Dl Semplificazioni è stata studiata da noi per sgravare gli Sportelli unici dalla massa di richieste di accesso agli atti per la conformità edilizia. I tempi sono infatti strettissimi, anche se si parla di proroghe».
Una proposta operativa
Pistolesi propone un’idea di razionalizzazione: «In quel contesto ci sono sicuramente edifici degli degni di tutela, diciamo il 2-3%, ma anche tantissima edilizia che non ha nessuna prerogativa per essere tutelata. Quello che auspichiamo è che gli Ordini possano lavorare con le Soprintendenze realizzando schede metodologiche di questi immobili (come è avvenuto per il sisma nelle Marche) e in base a queste analisi il professionista si assume la responsabilità di procedere, salvo controlli successivi. Per tutti gli immobili ante 1945 potremmo così non gravare le sovrintendenze di una massa di carta
» (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.04.2021).

EDILIZIA PRIVATASuperbonus, edifici ante 1945: stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza. Stabilito in 20 giorni il termine per esprimere l'autorizzazione semplificata.
Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945.

Secondo la circolare 04.03.2021 n. 4, del Ministero della Cultura, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall’intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifìci» come stabilito dall’articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia storica così come definiti nella circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere “contemporaneo” del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura anch’essa diffusa, quale “patrimonio del secondo Novecento”): ciò sulla base della considerazione dell’indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data suddetta».
In breve
La circolare Mic 4/2021 stabilisce in venti giorni il termine per esprimere l’autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell’Allegato B del Dpr 31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici all’attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 42/2017, la sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a “cappotto” (con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l’aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il
27 febbraio, recte nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l’applicazione di “cappotti” o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi per i quali potrà essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.03.2021).

EDILIZIA PRIVATA: Le sovrintendenze: edifici ante 1945 sotto esame prima dl cappotto. Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945. Stabilito in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione paesaggistica.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4 dei Beni culturali, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall'intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l'edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici» come stabilito dall'articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi
obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia storica così come definiti nella circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere "contemporaneo" del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura anch'essa diffusa, quale "patrimonio del secondo Novecento"): ciò sulla base della considerazione dell'indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data suddetta».
La circolare 4/2021 Mibact stabilisce in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell'Allegato B del Dpr 31/2017. E la circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici all'attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla-osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 21.07.2017 n. 42, la sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a "cappotto" (con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l'aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il 27 febbraio, recte nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l'applicazione di "cappotti" o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi peri quali potrà essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità»
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2021).

ANNO 2020
aggiornamento al 29.02.2020

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate senza comunicazione alle Entrate. È stato superato l'avviso al Centro operativo di Pescara.
Anche per il bonus facciate, come per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, non è necessario, alla fine dei lavori, inviare al Centro operativo di Pescara, la «dichiarazione di esecuzione» degli stessi, se questi sono di importo superiore a 5.645,69 euro. La norma istitutiva della nuova detrazione Irpef e Ires del 90% a sulle facciate esterne degli edifici prevede che si applichino le disposizioni del decreto del ministro delle Finanze 41/1998.
Pertanto, tutti i contribuenti (anche se imprese) devono indicare nella propria dichiarazione (730 o Redditi) i dati catastali dell'immobile e gli eventuali estremi di registrazione dell'atto di detenzione (locazione o comodato). Questo adempimento ha sostituito dal 14.05.2011 la comunicazione che doveva essere effettuata al Centro di Pescara, prima dell'inizio degli interventi di recupero del patrimonio edilizio (articolo 7, comma 2, lettera q, decreto legge 70/2011); in ogni caso, i dati catastali non vanno riportati se gli interventi sono influenti dal punto di vista termico o interessano oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda dell'edificio (circolare 2/E/2020).
Ancora oggi l'articolo 1, comma 1, lettera d), del decreto 41/1998 prevede che, per gli interventi oltre 51.645,69 euro, si debba inviare al Centro di Pescara, al termine dei lavori, una dichiarazione di esecuzione lavori, sottoscritta da un soggetto iscritto all'albo ingegneri, architetti e geometri o altro soggetto abilitato all'esecuzione degli stessi. Anche per il bonus facciate, però, dovrebbe valere il chiarimento della circolare 13/E/2013, secondo la quale, dall'01.01.2012, questa dichiarazione non è più necessaria ai fini dei controlli, considerando che il provvedimento delle Entrate 149646/2011, relativo ai documenti da conservare, dall'01.01.2012, ai fini della detrazione per gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio non ha citato questa comunicazione.
Una conferma di ciò deriva anche dal silenzio su questo adempimento da parte della circolare del 2/E/2020.
Anche per il bonus facciate, invece, i contribuenti devono conservare ed esibire, in caso di controllo, i documenti indicati nel citato provvedimento del 02.11.2011:
   • le abilitazioni amministrative richieste (Scia, Cila o altro) o l'autocertificazione relativa al non obbligo di alcun titolo abilitativo (come per la manutenzione ordinaria) e della data di inizio lavori;
   • l'eventuale accatastamento per gli immobili non censiti;
   • le ricevute di pagamento dell'Imu, se dovuta;
   • le ricevute di pagamento degli altri «tributi locali sugli immobili» (adempimento aggiunto dalla circolare 2/E/2020);
   • l'eventuale delibera di approvazione di esecuzione lavori per parti comuni e tabella millesimale;
   • l'eventuale dichiarazione di consenso del possessore all'esecuzione dei lavori, se gli stessi sono effettuati dal detentore del bene che non è un convivente;
   • l'eventuale comunicazione preventiva all'Asl, se prevista dall'articolo 99, comma 1, Dlgs 81/2008;
   • fatture e ricevute fiscali della spesa e ricevute dei bonifici «parlanti».
La mancata effettuazione dei predetti adempimenti non consente la fruizione del bonus facciate (articolo Il Sole 24 Ore 29.02.2020 - tratto da www.fondazionecni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus Facciate: il MEF risponde a una interrogazione sulle zone A e B.
L’emanazione di tavole di raccordo finalizzate ad individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle competenze dell’Amministrazione finanziaria. Sarà cura dell’Amministrazione finanziaria valutare la spettanza dell’agevolazione in argomento sulla base delle peculiarità del caso concreto”.
Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-03670 - risposta 26.02.2020 in Commissione VI (Finanze) Camera dei Deputati (On. Gian Mario Fragomeli).
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INTERROGAZIONE
Per sapere –premesso che:
   - l'articolo 1, commi da 219 a 224, della legge 27.12.2019, n. 160, recante la legge di bilancio 2020, ha introdotto l'agevolazione fiscale per gli interventi finalizzati al recupero o al restauro degli edifici esistenti che, nello specifico, consente una detrazione dall'imposta lorda pari al 90 per cento delle spese sostenute per gli interventi finalizzati al recupero o al restauro della facciata esterna degli edifici esistenti ubicati in zona A o B, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, cosiddetto «bonus facciate»;
   - in particolare, la parte corrispondente alla zona A è spesso identificata con l'ambito storico del comune e la parte corrispondente alla zona B è associata agli ambiti residenziali; la legge esclude invece dall'agevolazione i proprietari di immobili situati nelle Zona C, le cosiddette «aree di espansione urbanistica»;
   - la guida dell'Agenzia delle entrate afferma che è possibile riferirsi a zone assimilabili alle categorie A o B, specificando che: «L'assimilazione alle zone A o B della zona territoriale nella quale ricade l'edificio oggetto dell'intervento dovrà risultare dalle certificazioni urbanistiche rilasciate dagli enti competenti»;
   - in alcuni piani urbanistici predisposti dalle amministrazioni comunali non vi è alcun riferimento alle zone A o B sostituite, invece, da altre sigle;
   - nella regione Lombardia, ad esempio, i piani delle regole (Pdr) più recenti, utilizzano il concetto di tessuto urbano consolidato (Tuc) del territorio che ha sostituito il lessico originario della zonizzazione; in questo caso si parla di aree P1, considerate non completate e quindi escluse dal «bonus facciate» e di aree P2 coincidenti con le zone che in altre regioni danno diritto al bonus;
   - è necessario, al fine di applicare il «bonus facciate» in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, predisporre una ricognizione urbanistica per individuare in maniera ufficiale le equipollenze–:
se non ritenga necessario assumere le iniziative di competenza per definire quanto prima, le tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di ricognizione urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad individuare in maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente sono individuate in maniera differente ma che risultano comunque compatibili, al fine di applicare il «bonus facciate» in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale.
RISPOSTA
Con il documento in esame gli Onorevoli interroganti fanno riferimento all'agevolazione fiscale introdotta dall'articolo 1, commi da 219 a 224, della legge n. 160 del 2019, per gli interventi finalizzati al recupero o restauro degli edifici esistenti ubicati nelle zone A o B ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (c.d. bonus facciate).
In relazione a detta agevolazione la Guida predisposta dall'Agenzia delle entrate afferma che è possibile riferirsi a zone assimilabili alle categorie A o B in base alle risultanze delle certificazioni urbanistiche rilasciate dagli enti competenti.
Gli Onorevoli interroganti, evidenziano tuttavia che «in alcuni piani urbanistici predisposti dalle amministrazioni comunali non vi è alcun riferimento alle zone A o B sostituite invece da altre sigle», e, pertanto, chiedono di sapere se non si ritiene necessario «emanare quanto prima le tavole di raccordo, anche a seguito di un intervento di ricognizione urbanistica, in particolare nella regione Lombardia, volte ad individuare in maniera ufficiale le equipollenze delle zone che attualmente sono individuate in maniera differente ma che risultano comunque compatibili al fine di applicare il bonus facciate in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale».
Al riguardo, si precisa che l'emanazione di tavole di raccordo finalizzate ad individuare le equipollenze delle zone A e B a quelle attualmente classificate con sigle differenti da parte degli enti locali esula dalle competenze dell'Amministrazione finanziaria.
Sarà cura dell'Amministrazione finanziaria valutare la spettanza dell'agevolazione in argomento sulla base delle peculiarità del caso concreto.

EDILIZIA PRIVATAFacciate, agevolazione estesa ai titolari di reddito d’impresa. I chiarimenti delle Entrate sulla detrazione per la riqualificazione esterna degli edifici.
Detrazione del 90% in dieci quote annuali costanti per chi, nel 2020, decida di riqualificare la facciata esterna del proprio edificio. Platea ampia inoltre tra i soggetti beneficiari dell'agevolazione vista l'estensione, oltre che alle persone fisiche e ai lavoratori autonomi, anche al mondo delle imprese. Agevolabili infine non solo la semplice pulitura o tinteggiatura della facciata ma anche interventi su balconi, su grondaie, sui cornicioni nonché sui cappotti termici.

Sono questi i principali aspetti presenti nella
circolare 14.02.2020 n. 2/E dell'Agenzia delle entrate.
L'agevolazione. Pubblicate le istruzioni dell'Agenzia delle entrate per usufruire del cosiddetto bonus facciate. La detrazione, da ripartire in dieci quote annuali costanti, è pari al 90% della spesa sostenuta senza limiti di tetto massimo detraibile e di spesa ammissibile. Gli edifici sui quali si eseguiranno interventi finalizzati al recupero della struttura opaca del perimetro esterno (vale a dire tutti gli elementi che compongono l'involucro esterno dell'edificio esclusi infissi e vetrate) dovranno però interessare gli immobili (di qualsiasi categoria catastale) che si trovino nelle zone A e B del decreto ministeriale 1444/1968.
L'art. 2 di tale decreto definisce la zona A come quella parte del territorio interessata da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale. La zona B invece comprende le parti del territorio urbano edificato ove la superficie coperta dagli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% della superficie fondiaria della zona. Ciò detto, sarà comunque fondamentale farsi rilasciare un certificato da parte del comune competente che attesti la localizzazione dell'immobile in una delle due zone descritte.
Veniamo ora alle modalità di fruizione: a differenza se i beneficiari siano persone fisiche (o esercenti arti e professioni) o titolari di reddito d'impresa (imprese individuali, società di persone, società di capitali o enti commerciali) il criterio da seguire varierà. Nel primo caso infatti varrà il principio di cassa: si terrà dunque conto della data dell'effettivo pagamento a prescindere da quando siano effettivamente iniziati gli interventi cui i pagamenti si riferiscono: l'intervento per esempio iniziato nel 2019 ma con pagamenti nel 2020 beneficerà pienamente del bonus.
Viceversa, pagamenti avvenuti in parte nel 2019 e in parte nel 2020, renderanno ammissibile il bonus facciate solo rispetto a questi ultimi. Discorso ben diverso va fatto rispetto ai titolari di reddito di impresa per cui varrà il principio di competenza: il riferimento è ai lavori effettuati durante l'arco 2020 a prescindere dalla data dei pagamenti e dalla data di avvio degli interventi.
I beneficiari e i titoli abilitativi. La platea, rispetto alle altre agevolazioni fiscali, è estremamente amplia coinvolgendo tutti i contribuenti residenti e non che sostengono spese per l'esecuzione degli interventi agevolati a prescindere dalla tipologia di reddito di cui sono titolari. Gli unici esclusi sono i redditi assoggettati a tassazione separata o a imposta sostitutiva (come per esempio le attività che aderiscono al regime forfettario) a meno che gli stessi non posseggano altri redditi che concorrano alla formazione del reddito complessivo.
Volendo dare un elenco esaustivo, rientrano nell'agevolazione le persone fisiche (includendo tra queste gli esercenti arti e professioni), gli enti pubblici e privati che non svolgono attività commerciale, le società semplici, le associazioni tra professionisti e i soggetti che conseguono reddito d'impresa (includiamo in tale categoria le ditte individuali, gli enti commerciali, le società di persone e le società di capitali). Il bonus spetta infine ai possessori o ai detentori dell'immobile in base a un titolo idoneo al momento dell'avvio dei lavori o al sostenimento della spesa se antecedente l'avvio.
Ai fini del possesso, varrà la qualifica di proprietario, di nudo proprietario o di titolare di diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o superficie). Nel caso di detenzione invece, bisognerà disporre di regolare contratto di affitto o di comodato registrato oltre ad avere il consenso all'esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
I lavori agevolabili. La ratio dell'agevolazione è quella di incentivare interventi che vadano a migliorare il decoro urbano pur conservando l'organismo edilizio nel rispetto della forma e della struttura. Oltre dunque al classico intervento di pulitura e tinteggiatura esterna sulle strutture opache della facciata, la circolare ha chiarito che vi rientrano anche quelli su balconi, ornamenti e fregi.
Ancora, sono agevolabili lavori riferiti alle grondaie, ai pluviali, ai parapetti, ai cornicioni e alla sistemazione di tutte le parti impiantistiche che insistono sulla parte opaca della facciata oltre all'acquisto di materiali (utile nel caso di lavori in economia o di utilizzo di sola manodopera). Vi sono inoltre una serie di spese «collaterali» che beneficiano comunque del 90% come per esempio la progettazione e le prestazioni professionali connesse, l'effettuazione di perizie e il rilascio di eventuali attestati di prestazione energetica, l'installazione di ponteggi, lo smaltimento di materiali rimossi e l'Iva qualora non vi siano le condizioni per poterla detrarre.
In ultimo (si veda l'approfondimento nella pagina seguente), accedono al beneficio del 90% anche gli interventi sulla facciata influenti da un punto di vista termico (i cosiddetti cappotti termici) o che interessino oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio.
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Per le società vale la competenza.
La grande novità del bonus facciate riguarda il diverso principio applicativo nel caso di ristrutturazione della facciata esterna da parte di persone fisiche e in quello di reddito d'impresa. Mentre per le prime varrà, come siamo abituati oramai anche per gli altri bonus casa, il principio di cassa, per le società bisognerà invece guardare alla competenza economica.
Ciò sarà valido, non solo per le società in contabilità ordinaria ma, in generale, per tutti i soggetti titolari di reddito d'impresa (non vien fatta eccezione per i soggetti che applichino il principio di cassa pura né per quelli che applichino il principio di cassa con presunzione di incassi e pagamenti delle fatture registrate): la circolare, prevede infatti che la competenza si applichi «a prescindere dalla circostanza che il soggetto beneficiario applichi tale regola per la determinazione del proprio reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito».
Diverrà dunque fondamentale la data di ultimazione lavori: trattandosi infatti di servizi, in base all'art. 109 del Tuir, comma 2, lett. b), la spesa si intenderà sostenuta alla data di ultimazione della prestazione. Soprattutto nelle ipotesi di chiusura lavori a cavallo tra due esercizi dunque, il suggerimento, onde evitare che venga disconosciuto il primo decimo di detrazione, sarà proprio quello di ultimare i lavori entro il 31/12 (questo anche da un punto di vista formale mediante le relative comunicazioni da fare ai competenti enti).
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L’iter per non fare passi falsi. Fondamentali alcuni adempimenti per evitare il futuro disconoscimento del bonus.
Pagamenti mediante bonifico dal quale risultino causale, codice fiscale del beneficiario e numero di partita Iva del fornitore, indicazione in dichiarazione dei redditi dei dati catastali identificativi dell'immobile oggetto dell'agevolazione, conservazione delle ricevute di pagamento dei tributi locali sugli immobili e copia della delibera assembleare qualora gli interventi riguardino parti comuni di edifici residenziali.
Sono questi, in breve, alcuni degli adempimenti da porre in essere per evitare un possibile disconoscimento del bonus facciate da parte del fisco.
Adempimenti delle persone fisiche. Le persone fisiche (compresi gli esercenti arti e professioni) sono chiamate a porre estrema attenzione nelle procedure da seguire per ottenere il riconoscimento fiscale. Innanzitutto le modalità di pagamento: come per l'ecobonus e per il bonus casa è previsto, anche in questo caso, il cosiddetto bonifico parlante (cui la banca applicherà la ritenuta di acconto dell'8%).
La circolare prevede espressamente che il bonifico, bancario o postale, debba contenere la causale del versamento, il codice fiscale del beneficiario e il numero di partita Iva del soggetto a favore del quale è effettuato. Considerando che la modulistica non è ancora adeguata con la nuova causale relativa al «bonus facciate», sarà comunque possibile utilizzare i bonifici parlanti utilizzati per l'ecobonus o per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio.
Altro aspetto formale su cui bisogna porre attenzione è la compilazione del modello unico. Andranno infatti indicati non solo i dati catastali identificativi dell'immobile ma anche, qualora i lavori fossero eseguiti dal detentore, gli estremi di registrazione dell'atto che ne costituisce titolo. Ancora, andrà comunicato da un lato alla Asl competente, in maniera preventiva, l'inizio lavori qualora tale comunicazione sia obbligatoria in base alle disposizioni in materia di sicurezza dei cantieri e, dall'altro, andranno richieste (sempre prima dell'inizio lavori) al comune le abilitazioni necessarie sulla base della tipologia dei lavori da realizzare.
Infine, in caso di lavori effettuati dal detentore dell'immobile, sarà necessaria una dichiarazione di consenso del proprietario all'esecuzione dei lavori. Veniamo ora alla documentazione che va conservata e, se del caso, esibita in seguito a controlli. Innanzitutto andranno conservate tutte le fatture e le relative ricevute del bonifico di pagamento (bonifici eseguiti con le modalità descritte sopra).
Nel caso in cui l'agevolazione si riferisca ad immobili non ancora censiti, andrà conservata copia della domanda di accatastamento. Qualora invece oggetto del bonus facciate sia una parte comune di edifici residenziali, andrà conservata copia della delibera assembleare di approvazione dell'esecuzione dei lavori e tabella millesimale di ripartizione delle spese valida in quel momento. Infine, la circolare precisa espressamente che andranno conservate le ricevute di pagamento dei tributi locali sugli immobili qualora dovute.
Adempimenti in caso di interventi di efficienza energetica. Nel caso in cui l'intervento sulla facciata esterna sia influente da un punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco, oltre agli adempimenti sopra descritti se ne aggiungeranno degli altri tipici della riqualificazione energetica. Stiamo parlando, nello specifico, di due ulteriori adempimenti e di una comunicazione.
Il primo adempimento si riferisce all'acquisizione e alla conservazione dell'asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi la corrispondenza degli interventi effettuati rispetto ai requisiti tecnici richiesti. Tale asseverazione può anche essere sostituita con quella resa dal direttore lavori sulla conformità al progetto.
Il secondo riguarda invece l'attestato di prestazione energetica (Ape) che dovrà essere redatto da un tecnico non coinvolto nei lavori e per ogni singola unità immobiliare per cui si richiedono le detrazioni fiscali. Per quanto riguarda invece la comunicazione, così come previsto per gli interventi da ecobonus, dovrà essere inviata all'Enea, entro i successivi 90 giorni dall'ultimazione dei lavori, la scheda descrittiva relativa agli interventi realizzati.
Adempimenti dei titolari di reddito d'impresa. Tutti gli adempimenti previsti per le persone fisiche e tutta la documentazione da conservare sono validi anche per i titolari di reddito d'impresa con un'unica differenza: non è obbligatorio il pagamento mediante bonifico in quanto il momento dell'effettivo pagamento è irrilevante valendo, per tale categoria di contribuenti, il principio di competenza economica e non quello di cassa. Andranno inoltre rispettati gli ulteriori adempimenti descritti nel precedente paragrafo qualora l'intervento sia influente da un punto di vista termico o interessi più del 10% dell'intonaco del bene.
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Anche il cappotto termico è agevolabile.
Gli interventi di efficienza energetica sulla facciata esterna dell'edificio seguono il bonus del 90%. Da un lato il cappotto termico, dall'altro tutti gli interventi che interessano oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio sono infatti agevolabili con il vantaggioso bonus facciate invece del 65%.
È quanto chiarito dalle Entrate sia nella guida fiscale sia nella circolare 14.02.2020 n. 2/E, emanate la scorsa settimana.
Affinché ciò sia dunque possibile, occorre che i suddetti lavori soddisfino contemporaneamente due requisiti: da un lato i requisiti indicati dal Mise nel decreto del 26.06.2015 e dall'altro i valori limite di trasmittanza termica delle strutture componenti l'involucro edilizio. Gli unici immobili esclusi da tale agevolazione sarebbero quelli di notevole interesse pubblico quando, il rispetto delle suddette prescrizioni, implichi un'alterazione sostanziale del loro carattere o aspetto (si pensi ai profili storici, artistici o paesaggistici).
Viene chiarito inoltre come approcciare al calcolo del 10% dell'intonaco: in sostanza l'intervento dovrà interessare l'intonaco per oltre il 10% della superficie lorda complessiva disperdente (pareti verticali, pavimenti, tetti, infissi) confinanti con l'esterno, vani freddi o terreno. Se l'intervento dovesse riferirsi ad una facciata rivestita di piastrelle o altri materiali che impossibilitano interventi termicamente influenti (se non mutando l'aspetto dell'edificio), il limite del 10% andrà calcolato rapportando la superficie della facciata interessata dall'intervento e la superficie totale della superficie disperdente.
La circolare ricorda infine che per gli interventi di efficienza energetica sulle facciate, ai fini delle verifiche e dei controlli, si applicano le stesse procedure previste per la riqualificazione energetica degli edifici
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2020).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate, cosa fare se si pensa che il Comune sbagli. Esistono tre strade.
Sul bonus facciate c’è ancora da chiarire. Ovviamente non per chi è palesemente in zona A e B e quindi ha accesso al bonus del 90 per cento. Stiamo parlando invece di chi va in Comune e gli viene detto che l’immobile è in zona è C e quindi escluso dall’agevolazione. Ma se il cittadino non fosse pienamente convinto?
Il quesito
Il tema odierno è quindi il seguente: se un privato cittadino/amministratore di condominio si reca all’ufficio tecnico del Comune A dove un geometra gli fa vedere la planimetria dove sorge l’edificio dicendo: «Guardi, essendo la sua area classificata “Ambito urbano consolidato (R1)“ per quanto mi riguarda è zona C. Quindi non ha diritto all’esenzione» cosa può fare se non è convinto?
La dicitura "ambito urbano consolidato" gli sembra lessicalmente idonea per avere il bonus del 90% ma di fronte alla sicurezza del dipendente comunale non gli resta che incassare e informarsi per vedere se tante le volte il giudizio del Comune è in qualche modo modificabile.
Anche un professore universitario, interpellato, ha espresso perplessità sulla risposta del tecnico comunale.
E anche un collega del geometra del Comune A gli dice che è probabile che si stia sbagliando. Quindi? Mettiamo i primi punti fermi.
La certificazione ai fini del bonus
L’agenzia delle Entrate la considera obbligatoria mentre il ministero no. Comunque sia, questo il contenuto della mail dell’ufficio tecnico del Comune B.
«Le certificazioni di ordine urbanistico emesse da questo ufficio, assimilabili a quella indicata nella circolare che cita (la
circolare 14.02.2020 n. 2/E), genericamente riportano la zona urbanistica in cui ricade il mappale di cui si richiede, appunto, la certificazione oltre ogni altro vincolo posto all’attività edilizia.
Di norma nella certificazione non riportiamo gli indicatori planivolumetrici previsti dal piano urbanistico (indici di fabbricazione, rapporto di copertura e così via), perché riportati nelle norme tecniche, tra l’altro non utili per la finalità fiscale di cui chiede; ciò non toglie che se ne avesse bisogno, basterà specificarlo nella domanda di certificato di destinazione urbanistica e l’ufficio li espliciterà nel testo del provvedimento.
Debbo però rammentarle che questo ufficio non si occupa di incentivi e di sgravi fiscali applicabili alle opere edilizie, quindi per ogni approfondimento in merito le converrà sentire dei commercialisti o fiscalisti
».
Prima presunta certezza
Per avere nel certificato gli indicatori planivolumetrici -cioè per verificare se la superficie coperta dall’edificio sia superiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore a 1,5 m3/m2- bisogna chiederli appositamente.
Zone A, B e C a macchia di leopardo
Con il Comune B c’è stata anche una conversazione telefonica al termine della quale si è saputo che:
   1) ci sono Comuni della Lombardia dove i documenti urbanistici fanno ancora riferimento alle zone A, B e C;
   2) che nel caso di specie è possibile che il Comune A, in cui è utilizzato un piano del governo del territorio con la nuova terminologia (R1, R2 e così via), per sapere se l’edificio dove si trova l’edificio vada a vedere il vecchio piano regolatore, per esempio degli anni 80, e dica cosa risulta lì. «Ma -sempre per il Comune B- sarebbe sbagliato fare così perché la zonizzazione degli anni ’80 va sostituita con quella attuale tramite un’interpretazione e un’attualizzazione della norma».
Cosa fare/1
Bisogna cercare sul sito del Comune A il piano delle regole e vedere cosa dice la relazione illustrativa a proposito della zonizzazione dell’edificio. Nel caso in questione l’“Ambito consolidato urbano” R1 viene definitivo «la categoria caratterizzata da un’edificazione con tipologia edilizia mista. Tale ambito connota la gran parte del terreno edificato e rappresenta la crescita storica e recente del paese nella sua complessità».
Poi va preso il decreto 1444/1968 in cui come zona B viene definita quella «composta dalle parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A, cioè quella a carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi».
Sempre nel decreto 1444/1968 si definiscono parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore a 1,5 mc/mq;
In conclusione
Il Comune B -che peraltro come detto ha ancora planimetrie indicanti le zone A, B e C- suggerisce di convincere il Comune A che bisogna andare al di là degli indicatori planivolumetrici ma non è così facile. Ecco l’ultima risposta:
«Purtroppo il nostro mandato è fornire un supporto nell’interpretazione delle norme urbanistiche vigenti nel nostro comune, mentre lei necessita di un professionista di parte che analizzi il suo caso e controbatta l’interpretazione del collega del lecchese.
Potrebbe
   1) contattare l’estensore del Piano per chiedergli un’interpretazione univoca della corrispondenza fra azzonamento vigente e zone ex Dm 1444/1968, oltre
   2) a sollecitare un confronto con il tecnico comunale -il tema, del resto, non interessa solo lei, ma tutti i cittadini nella stessa condizione.
Detto questo, le rammento comunque che:
a) le Zone C sono di espansione, qui ciò che è già costruito all’approvazione del piano dovrebbe essere o B o A;
b) se si prendessero a riferimento solo i parametri urbanistici per definire le zone di appartenenza,
   3) basta verificare se le zone edificate classificate come R1 e simili hanno residui volumetrici oppure no; nel secondo caso, indipendentemente dai parametri stabiliti dal Dm, i lotti saranno da considerarsi “saturi” (cioè senza ulteriore possibilità di ampliarsi) e conseguentemente non posso essere classificati come zone C (zone di espansione
)
».
Il problema è che un amministratore di condominio non ha tempo per aspettare la risposta (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate, il Mibact «corregge» le Entrate sulle zone. Il documento servirebbe solo se il Comune non ha mai applicato il Dm 1444/1968.
La nebbia si va diradando sulla questione delle zone A e B, nelle quali deve trovarsi l’edificio per beneficiare del bonus facciate con la detrazione del 90% delle spese.
Mentre passano i giorni (i pagamenti devono essere effettuati nel 2020) la circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate ha già chiarito molti aspetti importanti (si veda il Sole 24 Ore del 15 e 16 febbraio) ma rimane un aspetto centrale, legato all’ubicazione degli edifici su cui effettuare i lavori. La legge 160/2019 parla infatti delle sole zone A e B indicate nel Dm 1444/1968.
Nel concreto, l’individuazione delle zone non sembra semplice, perché nei Piani di governo del territorio o nei Prgc (ma si tratta solo di due sigle tra molte) le denominazioni A e B non esistono più, sostituite a volte da “R” o “AC-R” o altre ancora, dove la lettera R di solito indica la destinazione residenziale di un'area o una zona di riqualificazione. Insomma, a poco a che fare con le zone da A a F indicate nel decreto del 1968 e avere un piano regolatore con la zonizzazione da A a F, a quanto risulta al Sole 24 Ore, sembra piuttosto raro.
Il Mibact, con la lettera del Capo di gabinetto Lorenzo Casini (nota 19.02.2020 n. 4961 di prot.) inviata a una serie di sindaci piemontesi, ha però spiegato che il decreto 1444/1968 non imponeva ai Comuni «di applicare meccanicamente la suddivisione in zone e la conseguente denominazione ivi previste. Il decreto, invece, identifica zone omogenee al fine di stabilire le dotazioni urbanistiche, i limiti di densità edilizia, le altezze e le distanze tra gli edifici».
Per ottenere il beneficio, quindi, basta «che gli edifici si trovino in aree che, indipendentemente dalla loro denominazione, siano riconducibili o comunque equipollenti a quelle A o B descritte dal Dm 1444/1968: un’informazione ricavabile proprio come quando le amministrazioni debbono applicare i limiti di densità edilizia (...)».
Quindi, prosegue il Mibact, «è evidente che nella maggior parte dei centri abitati per i cittadini non sarà necessario rivolgersi all’amministrazione locale per sapere in quale zone si trova l’immobile, potendo ricavare agevolmente tale informazione dagli strumenti urbanistici ed edilizi comunali».
Anzi, il Mibact si spinge anche più in là, affermando che la certificazione urbanistica, che per la guida delle Entrate (e per la circolare 14.02.2020 n. 2/E, pagina 7) è indispensabile per l’assimilazione alle zone A e B della zone in cui sorge l’edificio, va richiesta solo nei casi «verosimilmente limitati, in cui un Comune mai ha adottato un qualsiasi atto che abbia implicato l’applicazione del Dm 1444/1968 nel proprio territorio. In tutte le altre ipotesi, infatti, la stessa guida non richiede specifici adempimenti e la ubicazione dell’immobile in area A o B, o equipollente in base agli strumenti urbanistici ed edilizi del Comune, può facilmente essere accertata dai soggetti interessati».
Ogni comune interessato, su richiesta dei cittadini e dei condomìni, dovrà quindi fare una ricognizione sul proprio territorio e individuare le «equipollenze» ed eventualmente rilasciare la certificazione urbanistica indicata dalle Entrate (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate, cappotto termico limitato da piastrelle e rivestimenti. Se la copertura è integrale non scatta l’obbligo dei lavori «termici». In caso di interventi solo su una parte «trasmittanza» calcolata in proporzione.
Poche righe in una circolare di venti pagine, ed ecco il risparmio energetico previsto nel bonus facciate molto ridimensionato. Nonostante le battaglie di chi, in fase di predisposizione della norma, aveva chiesto di incentivare in maniera robusta, oltre al decoro urbano, anche la realizzazione dei cappotti termici.
La circolare 14.02.2020 n. 2/E delle Entrate, dedicata al bonus facciate, afferma infatti che, a differenza di quanto indicato nella legge 160/2019 (dove di fatto si rende obbligatorio il cappotto termico per gli edifici quando si rifanno gli intonaci per oltre il 10% della superficie opaca), quando le facciate sono rivestite in piastrelle o con altri materiali «che non rendono possibile realizzare interventi influenti dal punto di vista termico se non mutando completamente l’aspetto dell’edificio», bisogna fare un conto diverso.
È necessario, cioè, eseguire «il rapporto tra la restante superficie della facciata interessata dall’intervento e la superficie totale lorda complessiva della superficie disperdente». Quindi, se la superficie opaca della facciata è di mille metri quadrati, ma di questi sono coperti di piastrelle (in genere il “klinker”), il 20% risulta essere la parte da considerare.
Ma se le piastrelle ricoprono tutto l’edificio, allora non c’è alcun obbligo di fare lavori per il risparmio energetico. In pratica, i lavori di rifacimento delle parti ammalorate beneficeranno della detrazione del 90% senza investimenti ulteriori.
In questo modo, allora, si limitano moltissimo i casi nei quali sarà obbligatorio investire in un cappotto termico.
Per non parlare degli edifici dove siano presenti anche gli «altri materiali» di cui parla la circolare delle Entrate. Si tratta di una definizione parecchio ampia che include praticamente tutti gli edifici di un certo pregio realizzati tra l’inizio del Novecento e gli anni Venti: in tutti questi casi, niente lavori di risparmio energetico.
C’è poi da considerare che tutte queste esclusioni avranno un impatto molto significativo sul calcolo dell’efficienza energetica dell’edificio.
Sarà, cioè, molto frequente il caso di facciate nelle quali alcune parti non saranno considerate nella misurazione di quella che tecnicamente viene definita “trasmittanza”.
Un vero e proprio slalom per i tecnici, che dovranno capire come verificare il rispetto dei parametri fissati dal ministero dello Sviluppo economico e richiamati dalla circolare dell’agenzia delle Entrate.
Per Diego Zoppi, consigliere nazionale degli architetti, la soluzione è semplice: «La trasmittanza si misura su singole sezioni murarie omogenee e si moltiplica per la superficie di riferimento. Cioè, ogni volta che c’è un certo tipo di muro si calcola la trasmittanza e poi si applica quel valore all’area della parete verticale». In base a questo principio è allora possibile misurare la trasmittanza anche su superfici disomogenee.
All’atto pratico, per Zoppi, questo calcolo «non dovrebbe creare problemi». Nel caso di chi interviene su facciate storiche o che comunque non possono essere modificate, sarà però possibile -conclude Zoppi- usufruire «delle agevolazioni anche non soddisfacendo i parametri di legge sul risparmio energetico».
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IN SINTESI
   1. Le piastrelle - Se la facciata è ricoperta da piastrelle o altri materiali per cui gli interventi “termici” non si potrebbero realizzare senza cambiare l’aspetto dell’edificio, scompare l’obbligo di effettuare questi interventi, che negli altri casi scatta quando i lavori sulle parti ammalorate superano il 10% delle superfici opache
   2. La trasmittanza - Anche quando si interviene solo su una parte della facciata, quella priva di piastrelle o di materiali particolari, il rispetto dei requisiti di trasmittanza per i lavori termici (qualora obbligatori) è possibile perché il calcolo verrà fatto sulla parte interessata
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2020).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate, Italia divisa in due sulle aree ammesse al credito d’imposta. Alcune Regioni (come la Lombardia) nelle planimetrie non usano la divisione in zone A, B e C. Serve una tabella di corrispondenza tra le definizioni.
Il bonus facciate presenta un punto critico in merito all’ubicazione dell’edificio ammesso al credito d’imposta del 90% delle spese sostenute. Una problematica che accomuna le facciate esterne tanto degli edifici condominiali quanto di quelli con un unico proprietario. I riferimenti generali sono la legge di Bilancio 2020, la circolare 14.02.2020 n. 2/E e il decreto ministeriale 1444/1968.
Il problema si pone perché in regioni come, per esempio, la Lombardia e la Liguria ci sono Comuni che non usano più, nei propri strumenti urbanistici, le definizioni zona A, B e C come invece, a titolo esemplificativo fanno ancora oggi la Puglia e la Sicilia, ma utilizzano nuovi termini. Come ambito storico, ambiti residenziali -con sigle da R1 a R4- e ambiti di trasformazione .
Un problema di «traduzione»
Definizioni su cui si è cimentato un cattedratico di urbanistica da noi sentito per il quale -anche se guardando solo una legenda e non la relativa planimetria di un Comune lombardo- «è sicuramente zona omogenea A l’ambito storico ed è quasi sicuramente zona omogenea B l’ambito residenziale consolidato mentre non si evince se gli altri ambiti residenziali R2 e R3 e soprattutto gli ambiti di trasformazione abbiano i requisiti previsti dal Dm 1444/1968 per essere considerati zona omogenea B oppure zona omogenea C».
Questa l’opinione di Roberto Mascarucci, professore ordinario di urbanistica all’università d’Annunzio di Chieti-Pescara e presidente dell'Inu (Istituto nazionale di urbanistica), sezione Abruzzo e Molise.
Invece, a detta dell’ufficio tecnico del Comune in oggetto, all’interno dell’ambito residenziale, quello consolidato (R1) è invece assimilato all’area C e quindi escluso dal bonus. Dietro al parere del Comune -l’ente competente citato dalle Entrate per il rilascio della certificazione- non c’è una delibera in cui ogni nuova definizione è stata ricondotta alle zone A, B e C ma il rinvio al vecchio piano regolatore che andrebbe però interpretato e attualizzato.
Altra cosa è farsi domande sulla praticabilità di un’istanza di un cittadino che, a seguito di una relazione tecnica, riuscisse a provare al Comune che nella planimetria c’è un errore e che il proprio immobile soddisfa i requisiti dell’area B e ha diritto alla certificazione (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2020).

EDILIZIA PRIVATABonus facciate 2020 escluso per i cortili chiusi. Detrazione del 90% anche sui cappotti termici. Sono inclusi i costi dei progetti, dei ponteggi, dei balconi e delle grondaie.
Sono state pubblicate le indicazioni dell’agenzia delle Entrate per usufruire del «bonus facciate», la detrazione fiscale del 90% delle spese sostenute per gli interventi di recupero o restauro della facciata esterna degli edifici esistenti, prevista dalla legge di Bilancio 2020.
Nel testo si ricorda che la super detrazione fiscale si recupera in dieci rate annuali di pari importo e che è esclusa la formula della cessione del credito/sconto in fattura prevista per gli ecobonus.
Solo sul perimetro esterno
La circolare 14.02.2020 n. 2/E spiega che l’agevolazione riguarda gli interventi effettuati sull’involucro esterno visibile dell’edificio, vale a dire sia sulla parte anteriore, frontale e principale dell’edificio, sia sugli altri lati dello stabile (intero perimetro esterno).
Tra i lavori agevolabili rientrano quelli per il rinnovo e consolidamento della facciata esterna dell’edificio, inclusa la mera tinteggiatura o pulitura della superficie, e lo stesso vale per i balconi o per eventuali fregi esterni. E ancora, lavori sulle grondaie, sui pluviali, sui parapetti, sui cornicioni e su tutte le parti impiantistiche coinvolte perché parte della facciata dell’edificio.
  
Il cappotto in facciata è al 90%
Anche le spese per perizie, sopralluoghi, progettazione dei lavori, installazioni di ponteggi sono comprese nell’agevolazione. Inoltre anche gli interventi influenti dal punto di vista termico, o che interessino oltre il 10% dell'intonaco della superficie disperdente lorda complessiva dell'edificio, rientrano nel campo del bonus facciate.
Inquilini tra i beneficiari
I soggetti beneficiari devono possedere o detenere l’immobile oggetto dell’intervento in qualità di proprietario, nudo proprietario o di titolare di altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione o superficie) oppure detenere l’immobile in base a un contratto di locazione, anche finanziaria, o di comodato, regolarmente registrato, ed essere in possesso del consenso all’esecuzione dei lavori da parte del proprietario.
Per i privati bonifici entro il 2020
Per il calcolo del «bonus facciate», per le persone fisiche, compresi gli esercenti arti e professioni, e per gli enti non commerciali, si deve far riferimento al criterio di cassa, ovvero, alla data dell’effettivo pagamento, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi. Ad esempio, un intervento ammissibile iniziato a luglio 2019, ma con pagamenti effettuati sia nel 2019 che nel 2020, consentirà sì la fruizione del “bonus facciate” ma solo con riferimento alle spese sostenute nel 2020.
   
Per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, si guarderà al “criterio di competenza” e, quindi, alle spese da imputare al periodo di imposta in corso al 31.12.2020, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi cui le spese si riferiscono e indipendentemente dalla data dei pagamenti (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2020).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus facciate in stand-by. Cosa fare senza istruzioni.
Lo sconto fiscale c'è, le istruzioni no. Il bonus facciate del 90% è in vigore dallo scorso 1° gennaio. Ma il ritardo del Fisco nel fornire le indicazioni applicative -unito a un testo di legge poco comprensibile- sta bloccando molti cantieri. Partendo dalle istruzioni emanate dalle Entrate in oltre 20 anni di bonus casa, comunque, si può tentare di mettere qualche punto fermo. (...continua) (articolo Il Sole 24 Ore 10.02.2020 - tratto da www.fondazionecni.it).

ANNO 2019
aggiornamento al 06.11.2019

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAEdilizia popolare, le modalità di calcolo del corrispettivo di svincolo competono al Ministero.
La possibilità di affrancamento dei soggetti contraenti convenzioni di edilizia popolare dal vincolo del prezzo massimo di cessione è disciplinata dalla legge e può essere autorizzata solo nel rispetto delle competenze, delle modalità e delle forme di garanzia disciplinate.

Con il parere 25.09.2019 n. 368, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia ha chiarito che la competenza alla definizione della percentuale necessaria al calcolo del corrispettivo dovuto è sottratta alla potestà decisionale dei Comuni e ritorna a essere a tutti gli effetti di natura ministeriale.
Il nuovo assetto regolatorio della materia attribuisce a un decreto attuativo del ministero dell'Economia e delle Finanze il compito di individuare le modalità che dovranno seguire i Comuni per concedere le dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento e le eventuali forme di garanzia concesse.
La competenza sulle modalità di calcolo del corrispettivo di svincolo
Già l'articolo 5, comma 3-bis, della legge 106/2011 prevedeva una specifica e definita procedura di affrancamento dai vincoli in questione, finalizzata ad agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari con riguardo all'edilizia convenzionata. Secondo questa impostazione, per l'applicazione della procedura di svincolo il venditore era tenuto a corrispondere al Comune un corrispettivo da calcolarsi sulla base dell'individuazione di parametri che dovevano essere stabiliti a livello ministeriale, tramite un decreto attuativo del ministero dell'Economia e delle Finanze.
Con la legge 14/2012 (articolo 29, comma 16-undecies) la competenza è temporaneamente attribuita ai Comuni, fino all'emanazione di una ulteriore modifica all'articolo 31 della legge 448/1998 che, riprendendo e correggendo la formulazione originaria, riassegna al ministero dell'Economia e delle Finanze la competenza in materia di individuazione delle percentuali di calcolo del corrispettivo di svincolo.
Le regole sullo svincolo
Secondo le vigenti disposizioni, i vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze, nonché del canone massimo di locazione, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con atto pubblico o scrittura privata autenticata.
La stipula dell'atto è effettuata a richiesta delle persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile ed è prevista la trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari. Il corrispettivo da pagare deve essere proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, e può prevedere eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata.
Il decreto individua altresì i criteri e le modalità per la concessione da parte dei Comuni di dilazioni di pagamento del corrispettivo di affrancamento dal vincolo. In pendenza della rimozione dei vincoli, il contratto di trasferimento dell'immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.10.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Doppio giro contabile per gli incentivi tecnici.
Doppio giro contabile per l'incentivo relativo alle funzioni tecniche (articolo 113) per garantire il «passaggio» nel fondo incentivante del personale e la conseguente iscrizione nell'ambito della parte corrente del bilancio. La spesa iscritta nella specifica voce di spesa (corrente o in conto capitale) deve trovare una contropartita di entrata nella parte corrente destinata proprio a finanziare la spesa di personale legata all'incentivo.
È quanto prevede il decreto del 01.08.2019 di aggiornamento del Principio contabile applicato n. 4/2 valorizzando una specifica previsione normativa contenuta nell'articolo 1, comma 526, della legge 205/2017 secondo la quale questi incentivi «fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Partendo da questo presupposto il principio ora chiarisce che «gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture».
Conto capitale e parte corrente
Di conseguenza, in funzione della previsione normativa, vige una regola di sostanziale accessorietà, in forza della quale l'incentivo deve essere imputato agli stanziamenti concernenti le corrispondenti spese a cui si riferiscono, seguendone anche la collocazione tanto se in conto capitale quanto se di parte corrente.
L'impegno, più specificamente, è registrato con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio e è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti Nac», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
Infatti, non va dimenticato, che trattandosi di incentivi specifici per il personale devono «transitare» nell'ambito del fondo del comparto, con la conseguenza che il finanziamento dell'erogazione deve, comunque, avvenire nell'ambito della parte corrente del bilancio, anche laddove si tratti di un incentivo correlato a un'opera pubblica con finanziamento, pertanto, nell'ambito della gestione in conto capitale.
Ecco perché è richiesto, proprio dal principio, di impegnare la spesa riguardante gli incentivi tecnici anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale (anche in termini di maturazione della condizione di esigibilità).
Il finanziamento di questa spesa è rappresentato proprio dall'accertamento di entrata assunto in corrispondenza e in contropartita dell'impegno/pagamento effettuato sullo stanziamento relativo alla singola tipologia di spesa (servizio, fornitura o lavori), con una soluzione che consente, altresì e congiuntamente, di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Fondo innovazione
Le medesime modalità di registrazione sono adottate anche per la quota del 20 percento, sempre prevista dal comma 4 dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (cosiddetto fondo innovazione) destinata all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento, che, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Anche in questo caso, infatti, la spesa è impegnata a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti Nac».
La quota del 20 percento è, infatti, impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria, con copertura costituita, ancora, proprio dall'indicato accertamento di entrata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.09.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEDefiniti gli step per incentivi tecnici e fondo innovazione.
Chiarite le modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche e delle spese finanziate dal fondo innovazione.
L'undicesimo decreto correttivo al Dlgs 118/2011, il decreto 01.08.2019 pubblicato con i suoi allegati sulla Gazzetta Ufficiale del 22.08.2019 n. 196, ha definito i passaggi contabili finalizzati alla corretta rappresentazione nel bilancio finanziario dell'ente del pagamento delle somme incentivanti al personale interno e delle spese finanziate con il fondo innovazione.
Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche (articolo 113 del Dlgs 50/2016), compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, devono essere assunti a carico degli stanziamenti riguardanti i lavori, servizi e forniture cui si riferiscono. La registrazione dunque è effettuata al titolo II della spesa ove si tratti di opere o lavori pubblici e al titolo I, nel caso di servizi e forniture, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio.
Tempestivamente deve essere emesso l'ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre entrate correnti, categoria 3059900 Altre entrate correnti n.a.c., voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (articolo 113 del Dlgs 50/2016).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici deve poi essere impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura della spesa è costituita dall'accertamento di entrata, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione contabile. Gli accertamenti alla voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001 e la liquidazione degli impegni correlati non generano formazione di ricavi o costi.
Analoghe modalità di registrazione sono previste per la quota del 20 per cento destinata all'acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, nonché al finanziamento di tirocini formativi e di orientamento.
Anche le somme del fondo innovazione devono infatti essere impegnate a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i lavori, servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, e deve essere tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 Rimborsi e altre entrate correnti, categoria 3059900 Altre entrate correnti n.a.c.
La quota è poi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria. La copertura è costituita dall'accertamento di entrata, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.08.2019).

aggiornamento al 30.09.2019

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Tripla incognita sugli incentivi tecnici. Il nuovo regolamento inciampa su corruzione, rotazione e fondo.
È «uno dei primi casi applicativi dell’articolo 113 del Codice dei contratti pubblici del 2016».
Così si è espresso il Consiglio di Stato (Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, parere 09.09.2019 n. 2368) sulla bozza di regolamento degli incentivi per le funzioni tecniche predisposto dal Mit. Sono trascorsi tre anni dal Dlgs 50/2016 e un anno dall’accordo con i sindacati. Ma l’iter è tutt’altro che terminato.
I giudici rinviano il parere in quanto la bozza non è corredata di documenti indispensabili per la valutazione come la relazione tecnica, e il testo non è bollinato dalla Rgs. Eppure il Mef dovrebbe percepire come prioritaria una nuova disciplina di questi compensi: la precedente regolamentazione si riferiva al Dlgs 163/2006 col d.m. 17.03.2008 n. 84, con buona pace delle modifiche intervenute nel frattempo.
Tre sono i punti qualificanti del regolamento.
Il primo affronta il nodo della corruzione. Nella bozza si legge che va garantita l’equa ripartizione degli incarichi. Sulla carta sembra semplice, ma concretamente non ci sono previsioni sulle modalità attuative. Ancora, si deve assicurare il principio di rotazione, anche qui di difficile realizzazione considerato che gli incarichi possono interessare anche dipendenti di altre Pa. Più facile la verifica dell’assenza di condanne penali per reati di natura corruttiva.
Viene previsto però che non possono essere conferiti incarichi ai dipendenti condannati in base all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Richiamo normativo fuori luogo considerato che quella legge ha due articoli. Infine, sembra rimessa ai sindacati la vigilanza. Si prevede che il dirigente responsabile della stazione appaltante comunichi semestralmente a loro gli incarichi per il monitoraggio sul «rispetto dei principi di trasparenza e rotazione».
Il secondo punto rilevante si preoccupa di garantire il conferimenti degli incarichi a soggetti qualificati. Nei requisiti vengono elencate le esperienze professionali e l’espletamento di attività simili con risultati positivi. In assenza di questi, l’incarico può essere affidato solo se sia stato frequentato un corso di qualificazione professionale o un affiancamento.
Un terzo aspetto riguarda la costituzione del fondo. Viene specificato che non può superare il 2% dell’importo a base di gara. La percentuale effettiva viene individuata con la costituzione del fondo nel momento in cui è determinata la previsione di spesa all’interno di ogni quadro economico. Si stabilisce che non formano base su cui quantificare l’incentivo le somme per accantonamenti, imprevisti, acquisizione ed espropri di immobili e l’Iva. L’80% del fondo che va ai dipendenti comprende gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, ma nulla si dice sull’Irap, lasciando aperta la partita a ricorsi. Non sono a carico del fondo le spese per trasferte o missioni.
Poca attenzione sembra rilevarsi, sul rispetto dei tempi di realizzazione. Il regolamento impone, nell’atto di conferimento dell’incarico, l’individuazione dei termini entro i quali deve essere espletato, ma molto contenute sono le sanzioni per chi sfora: il compenso viene ridotto dell’1% per ogni settimana di ritardo, ma la riduzione non può andare oltre il 10%.
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I tre nodi irrisolti
1. ANTICORRUZIONE
Nella bozza di regolamento preparata dal Mit si prevede una serie di divieti al conferimento di incarichi, per esempio ai soggetti condannati in base all’articolo 35-bis della legge 190/2012. Ma l’articolo 35-bis non esiste
2. ROTAZIONE
Si chiede di garantire l’equa ripartizione degli incarichi, ma non si dice nulla su come attuare questo principio. La vigilanza viene affidata ai sindacati
3. IL FONDO
Nulla si dice sulla contabilizzazione dell’Irap (articolo Il Sole 24 Ore del 30.09.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, arriva il regolamento del Mit.
È proprio il caso di dire: cantieri aperti in tema di regolamento dei compensi per le funzioni tecniche. Il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che, per sua natura, è molto interessato all'argomento, aggiorna la disciplina di questi incentivi, a tre anni di distanza dall'approvazione del codice degli appalti.
La bozza
La bozza di nuovo regolamento risulta dall'applicazione dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016 e, ovviamente, è attanagliato alle specificità di un ministero: detta norme sulla possibilità di ricorrere a dipendenti di altri ministeri o di altre amministrazioni in generale, disciplina i movimenti che devono attuarsi nella contabilità dello Stato per il pagamento ai dipendenti interessati e richiama i pareri del ministero dell'Economia e delle finanze e del Consiglio di Stato.
Alcune indicazioni, però, hanno valenza generale. I soggetti che svolgono le funzioni incentivate, ben specificate, devono essere individuati con formale provvedimento, che, nel caso, assume la veste di decreto direttoriale. Nello stesso atto sono indicati non solo i tecnici ma anche i dipendenti con funzioni amministrative ai quali deve essere riconosciuto il compenso.
Per l'individuazione di tali soggetti, il regolamento elenca una serie di criteri: l'integrazione tra diverse competenze professionali, le esperienze passate, l'autonomia e la responsabilità dimostrate, la capacità di collaborare con i colleghi. Ma prima di tutto deve essere garantita la rotazione e l'equa ripartizione degli incarichi. Sono, in ogni caso, esclusi i dipendenti con carichi pendenti di natura corruttiva.
Nelle modalità di ripartizione del fondo distingue i lavori, dove risultano maggiormente premiati il Rup e il direttore lavori, dai servizi e forniture, dove la parte del leone la fanno il Rup e il direttore dell'esecuzione, unitamente ai rispettivi collaboratori. Per la maggior parte degli stessi viene individuata una fascia, rimettendo alla contrattazione integrativa territoriale la fissazione della percentuale puntuale.
Il parere
Molto interessante il relativo parere 09.09.2019 n. 2368 del Consiglio di Stato. Tra l'altro si legge come la normativa, nelle finalità e nelle linee portanti, non risulti radicalmente mutata e, pertanto, sia opportuno un paragone fra il vecchio e il nuovo.
Da questo emerge un'interessante indicazione, vale a dire l'inversione nell'ordine dei lavori. In altre parole, mentre nel regime precedente, il regolamento era posteriore alla contrattazione decentrata, dovendone recepire i contenuti, nella nuova disciplina, il regolamento rappresenta il presupposto da cui devono prendere il via le relazioni sindacali.
Il Consiglio di Stato suggerisce di non riportare nei regolamenti quelle norme che non fanno altro che ripetere pedissequamente il dettato legislativo, sostituendolo con un richiamo allo stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.09.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi, non in ordine sparso. Serve un coordinamento per evitare difformità applicative. Parere del Cds sullo schema di regolamento per la ripartizione ai tecnici della p.a..
È necessario un incisivo coordinamento sull'attuazione delle norme sugli incentivi ai tecnici delle amministrazioni previsti dal codice appalti per evitare difformità applicative, oltre ad un attento confronto con la disciplina previgente; necessaria anche l'integrazione con l'analisi di impatto sulla regolazione e con la bollinatura.

È quanto ha precisato il Consiglio di stato nel parere 09.09.2019 n. 2368 della sezione consultiva per gli atti normativi emesso sullo schema di regolamento recante «Norme per la ripartizione dell'incentivo per le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50», trasmesso dal ministero delle infrastrutture al Consiglio di stato il 05.07.2019.
Si tratta di uno dei primi casi applicativi dell'art. 113 del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, come modificato nel 2017 e poi integrato nel dalla legge di bilancio 2018. Lo schema è stato predisposto sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti e dal Mef, oltre che dalla contrattazione con i sindacati.
I giudici della sezione consultiva hanno premesso che si tratta di una bozza di provvedimento che «riveste indubbiamente un considerevole rilievo, in primo luogo per la specialissima importanza e il predominante peso che il Mit riveste nel campo dei lavori pubblici e inoltre perché esso dovrebbe costituire un essenziale parametro in vista della prossima adozione di analoghi atti da parte degli altri ministeri e delle altre amministrazioni aggiudicatrici».
In relazione al fatto che l'art. 113 del Codice determinerà l'emanazione di un numero prevedibilmente elevato di regolamenti da parte delle numerose amministrazioni pubbliche aggiudicatrici di lavori, servizi e forniture, il parere evidenzia in primo luogo «la necessità dell'esercizio di un incisivo ruolo di coordinamento di tali regolamenti da parte della presidenza del consiglio e in particolare del suo Dagl, onde evitare che le singole amministrazioni affrontino la tematica in esame, per così dire, in ordine sparso».
Nel merito dei contenuti i giudici hanno rilevato «la mancanza di relazione tecnica, ovvero di bollinatura da parte della Ragioneria generale dello Stato, ovvero della attestazione della mancanza di oneri derivanti dalla sua applicazione». E sì vero che vi è un parere espresso dall'Ufficio legislativo del ministero dell'economia e delle finanze, cui peraltro nella sostanza lo schema in esame si attiene, ma le mancanze «devono essere sanate». Questo, si legge nel parere, assume rilievo soprattutto per quanto riguarda la mancanza della relazione di Air: «l'analisi di impatto della regolazione avrebbe potuto fornire utili elementi ai fini della valutazione della congruità della disciplina sottoposta, tanto più ove fosse stato operato un opportuno confronto con gli effetti prodotti finora dalla disciplina che il testo in esame mira ad abrogare (
d.m. 17.03.2008, n. 84)». Visto che la materia è poco mutata, per i giudici «resta utile un attento raffronto tra il regime anteriore e quello che viene introdotto con il nuovo regolamento».
Non risulta poi conforme alla norma la procedura adottata per la redazione dello schema visto che, si legge, «dall'esame degli atti, pare doversi desumere che nel caso in esame la contrattazione abbia preceduto la predisposizione dello schema di regolamento, e che quest'ultimo si sia limitato a recepirne i contenuti». Di fatto si ricomincia da capo (articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncaricati senza libertà d’orario. Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici. Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni organizzative sarebbe nullo.
Gli incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39, comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita, invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto, incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59, comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e comma 3-quinquies»
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

aggiornamento all'11.09.2019

LAVORI PUBBLICILavori di somma urgenza, è sempre obbligatorio il riconoscimento come debiti fuori bilancio.
Sempre obbligatorio riconoscere come debito fuori bilancio i lavori di somma urgenza per i quali non è stato rispettato l'iter del procedimento di spesa.

Con l'introduzione dell'articolo 65-bis al disegno di legge di bilancio 2019 viene abrogato, all'interno del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel, il riferimento all'insufficienza delle risorse finanziarie per giustificare l'avvio delle procedure di riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti dai lavori pubblici di somma urgenza, causati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile.
La giunta, secondo la nuova versione della norma, sarà pertanto tenuta a sottoporre al consiglio dell'ente, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel.
Il provvedimento di riconoscimento
In altre parole, sarà necessario precedere al riconoscimento consiliare delle spese derivanti dalla acquisizione di beni e servizi, effettuate in violazione degli obblighi dell'articolo 191 del Tuel, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità e arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
Contestualmente, deve essere prevista la relativa copertura finanziaria nei limiti delle necessità accertate per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento deve essere adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte dell'organo esecutivo, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
Le indicazioni dei giudici contabili
La modifica in questione determina un cambiamento di rotta nell'interpretazione del terzo comma dell'articolo 191 del Tuel. Già con il parere 18.03.2013 n. 12 ed il parere 10.05.2013 n. 22, la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria aveva espresso il proprio parere in merito, specificando come il riferimento alla carenza dei fondi a bilancio costituisse una deroga alla disciplina ordinaria, una sorta di “autorizzazione” da parte del legislatore a derogare in presenza di situazioni che richiedono un intervento immediato (somma urgenza) a tutela di interessi primari.
A parere dei magistrati liguri, la vigente versione dell'articolo 191, terzo comma, del Tuel consentirebbe di interpretare chiaramente la volontà del legislatore, che sarebbe quella di consentire una deroga alla procedura ordinaria non solo in presenza di lavori di somma urgenza ma anche quando i fondi a questo fine stanziati non risultino sufficienti. La carenza di fondi, difatti, rende impossibile l'assunzione dell'impegno di spesa sul competente capitolo o intervento di bilancio.
Diversamente, la presenza di fondi destinati o, in altre parole, quando l'ente può attivare l'ordinaria procedura d'impegno, non risulta necessario ricorrere alla disciplina derogatoria e attivare la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2018).

aggiornamento al 20.05.2019

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONEAppalti, niente gare fino a 1 mln. Estese le procedure negoziate. Stop incentivi ai progettisti. A un convegno Ance, il relatore del dl Sblocca cantieri Santillo annuncia le novità.
Alzare a un milione la soglia per la procedura negoziata, limitare la responsabilità per danno erariale dei funzionari pubblici; ripristinare il tetto per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa; portare al 40% il limite del subappalto; togliere l'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni per la fase progettuale; norma «salva imprese» legata al ribasso ma inserita nelle somme a disposizione della stazione appaltante.
Sono questi i punti sui quali, Agostino Santillo, relatore del disegno di legge di conversione del decreto Sblocca cantieri (dl 32/2019) ha anticipato che si interverrà con emendamenti ad hoc in commissione, per arrivare all'esame in aula martedì 28 maggio, quindi dopo le votazioni per le elezioni europee di domenica 26.
L'annuncio è stato dato durante il convegno organizzato ieri dall'Ance, l'Associazione nazionale costruttori edili, dal titolo «Sblocca cantieri: quali risorse e quali regole» cui hanno partecipato, fra gli altri, oltre al presidente dei costruttori Gabriele Buia e al vice presidente Edoardo Bianchi, anche il vice ministro per l'economia Laura Castelli.
Dopo avere precisato che, con il decreto 32 «si è inteso toccare le corde giuste per riavviare le procedure e in particolare l'affidamento dei lavori perché è li che bisogna intervenire immediatamente con un cambio di paradigma», è proprio sulla parte procedurale, oggetto di serrato confronto con la Lega, che il relatore ha annunciato una prima modifica. «Ci sono tante proposte che condividiamo perché la nostra posizione non è rigida e possiamo ragionare su alcuni temi con le altre forze politiche», ha osservato Santillo. Un passaggio apprezzato anche dal capogruppo Pd in commissione, Salvatore Margiotta, che ha poi posto l'accento sulla necessità di una accurata disciplina della fase transitoria del provvedimento.
Fra le novità annunciate da Santillo, in primo luogo è stata richiamata la revisione della soglie per le procedure negoziate (nel decreto 32 ammessa fino a 200 mila, mentre oltre tale importo scatta la procedura aperta). In questo caso la soglia può essere rivisitata verso l'alto, a un milione (si veda ItaliaOggi del 10 maggio) purché dalla soglia massima fino a 5,2 milioni la procedura sia sempre aperta con esclusione automatica delle offerte anomale. «Poi vedremo se l'esperienza ci darà ragione e vedremo sarà il caso di alzare il tetto oltre la soglia di un milione», ha aggiunto.
Un secondo punto sul quale viene recepita l'esigenza di intervenire è quella della responsabilità per danno erariale in capo ai funzionari pubblici, su cui, ha anticipato il senatore M5S, «stiamo preparando un emendamento in commissione».
Altro punto oggetto di intervento, è quello relativo alla la soglia del subappalto, portata nel testo dal 30% al 50%; in particolare la nuova soglia, ha spiegato, «potrebbe essere spostata verso il basso, ad esempio al 40%», così come proposto in un emendamento presentato dei Cinquestelle, «ma in ogni caso dobbiamo evitare che facciano lavori soggetti che non hanno la formazione adatta come imprese di costruzioni».
Sulla norma che ripristina l'incentivo del 2% a favore dei tecnici della p.a. per la progettazione, Santillo ha annunciato di raccogliere «l'appello che è stato formulato per non fare rientrare nell'incentivo del 2% anche la progettazione perché questo secondo noi non aiuta la specializzazione progettuale del mercato esterno alla p.a. e soprattutto fa sì che chi progetta debba anche controllare l'esecuzione di quanto progettato e questo potrebbe determinare un agevole conflitto di interessi».
Sull'appalto integrato il relatore ha precisato che si sta «ragionando anche sulla possibilità o meno di estendere l'utilizzo dell'appalto integrato fino al 2020 che a volte può essere la manna scesa dal cielo ma altre volte ne farei a meno». Ad essere modificate, secondo Santillo, sarà inoltre la norma che esclude le imprese per irregolarità fiscale e contributiva non ancora accertata. Il comma, ha spiegato, sarà eliminato.
Si stanno infine «facendo dei ragionamenti sul ripristino della soglia del 30% per il prezzo nell'offerta economicamente più vantaggiosa». «Noi siamo a favore», ha spiegato. Sulla norma «salva pmi» in caso di fallimento dell'impresa, Santillo ha concluso che il governo «non vuole che questi costi ricadano sull'appaltatore e quindi la quota percentuale sarà legata al ribasso dell'aggiudicatario, ma sarà fatta ricadere nel quadro economico come somma a disposizione della stazione appaltante e non dell'impresa aggiudicataria» (articolo ItaliaOggi del 15.05.2019).

INCARICHI PROGETTUALI - INCENTIVO PROGETTAZIONECompenso anticipato per i professionisti
Anticipazione del 20% del valore del contratto anche per i professionisti e le società che operano nell'ambito degli appalti di servizi e di forniture; pagamento diretto del progettista negli appalti integrati; reintroduzione dell'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni.

Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse per professionisti, studi e società che operano nell'ambito dei servizi tecnici legati alla realizzazione di opere pubbliche, contenuti nel
D.L. 18.04.2019 n. 32.
In primo luogo si interviene sul contenuto dei livelli di progettazione con il rinvio al regolamento unico della disciplina dei contenuti della progettazione nei tre livelli progettuali (in luogo di uno specifico decreto ministeriale previsto dal testo previgente), nonché del contenuto minimo del quadro esigenziale che devono predisporre le stazioni appaltanti.
Viene eliminato anche il rinvio a un regolamento ministeriale per la cosiddetta progettazione semplificata prevista fino a 2,5 milioni: adesso è una norma ad hoc e stabile che si prescinde dalla redazione del progetto esecutiva per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che non prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle opere o degli impianti. Si potranno quindi affidare i contratti sulla base del progetto definitivo, a condizione che lo stesso abbia un contenuto informativo minimo, indicato dalla norma, consentendo quindi di eseguire i lavori senza redigere e/o approvare il progetto esecutivo.
Di immediato interesse per tutti gli operatori economici dei servizi e delle forniture è poi l'introduzione dell'anticipazione contrattuale del 20% sul valore del contratto (oggi contemplata soltanto per i lavori). Nell'ambito della riapertura della «finestra» per potere affidare appalti integrati (possibili bandi fino al 2021 per progetti approvati entro fine 2020), rappresentano comunque un elemento positivo due disposizioni di interesse per i progettisti: la prima è l'obbligo per le stazioni appaltanti di indicare le modalità per il pagamento diretto del progettista di cui si avvale l'impresa che partecipa ad una gara per l'affidamento di un appalto integrato.
La seconda riguarda la previsione della dimostrazione, da parte delle imprese di costruzione, dei requisiti progettuali per partecipare ad appalti integrati e, in assenza di tale dimostrazione, l'obbligo di avvalersi o di associare un progettista che ne sia in possesso.
Potrebbe invece risultare negativo sotto il profilo di una possibile riduzione della domanda di ingegneria la reintroduzione dell'incentivo del 2% a favore dei tecnici delle amministrazioni per la fase di progettazione, eliminato per questa attività dal 2016. Viene inoltre prevista la possibilità per gli affidatari di incarichi di progettazione, per progetti posti a base di gara di concessioni, di essere anche affidatari della concessione di lavori pubblici a condizione che il concedente adotti misure adeguate per garantire che la concorrenza non sia falsata dalla loro partecipazione.
Di interesse per i progettisti anche l'eliminazione dell'obbligo di indicare la terna dei subappaltatori, un onere eccessivo per l'entità degli incarichi e per la presenza di una disciplina già molto stringente per il subappalto di progettazione (articolo ItaliaOggi Sette del 06.05.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGiro contabile per incentivi e fondo innovazione.
Incentivi tecnici e fondo innovazione con giro contabile. È questa la soluzione al rebus sulla corretta registrazione a bilancio delle due voci incentivanti individuata dalla Commissione Arconet.

L'organismo che sovrintende all'applicazione del nuovo ordinamento contabile degli enti territoriali ha affrontato la questione nella riunione del 20 marzo scorso, il cui resoconto è stato appena pubblicato. Sugli incentivi tecnici, la Commissione recepisce e integra quanto già previsto dall'art. 113, comma 5-bis, del dlgs 50/2016, ai sensi del quale le relative spese vanno imputate al medesimo capitolo previsto per l'appalto. Quest'ultimo andrà collocato nel titolo II, ove si tratti di opere, o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture.
L'impegno è registrato, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00 Fondi incentivanti il personale (legge Merloni).
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita dall'accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Ricordiamo che, in base alla deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione autonomie, gli incentivi non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dall'art. 23, comma 2, del dlgs 75/2017. Le stesse modalità di registrazione sono adottate anche per la quota del 20% prevista dal comma 4 dell'art. 113 (c.d. «fondo innovazione») destinata all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento.
Tale quota è quindi impegnata anche tra le spese correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria (articolo ItaliaOggi del 04.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl 21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.

L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14 del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018: «negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel: norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato. Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001 (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione». L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018 introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare, permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È, inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci, il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà (soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni, ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.05.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEArconet, incentivi tecnici e fondo innovazione sempre in parte corrente.
Gli incentivi tecnici e il fondo innovazione devono sempre essere contabilizzati nella parte corrente del bilancio.

Il tema, molto attuale per gli enti locali in un periodo di espansione degli investimenti, spunta nelle carte di lavoro appena pubblicate della Commissione Arconet (resoconto della riunione del 20 marzo scorso) che approva la modifica dei principi contabili finalizzata a chiarire le modalità di registrazione degli incentivi tecnici sia nella contabilità finanziaria (paragrafo 5.2), sia in quella economico-patrimoniale (paragrafo 3).
Gli incentivi tecnici
Gli impegni riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche previsti dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (compresi i relativi oneri contributivi ed erariali) devono essere assunti all'interno degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono.
Sono dunque contabilizzati nel titolo II della spesa per le opere pubbliche o nel titolo I per servizi e forniture. L'impegno è registrato, con imputazione all'esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.», voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.00 Fondi incentivanti il personale.
La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita dall'accertamento di entrata di cui sopra, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando effetti di duplicazione della spesa.
Il fondo innovazione
Tali modalità di registrazione si applicano anche per la quota del 20% prevista dal comma 4 dell'articolo 113 («fondo innovazione») destinata all'acquisto beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti d'innovazione, nonché per l'attivazione di tirocini formativi e di orientamento.
A seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell'articolo 113, comma 2 e seguenti, la spesa è impegnata a carico degli stanziamenti di uscita riguardanti i lavori, servizi e forniture con imputazione all'esercizio in corso di gestione, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 «Rimborsi e altre entrate correnti», categoria 3059900 «Altre entrate correnti n.a.c.». Tale quota del 20% è poi impegnata anche tra le poste correnti o di investimento in base alla natura economica della spesa, nel rispetto del principio contabile della competenza finanziaria.
La copertura finanziaria è costituita dall'accertamento di entrata di cui sopra, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.
Risvolti economico-patrimoniali
È puntualizzato, poi, che in contabilità economico-patrimoniale gli accertamenti effettuati a valere della voce del piano finanziario E.3.05.99.02.001 «Fondi incentivanti il personale (legge Merloni)» non determinano la formazione di ricavi. La liquidazione degli impegni correlati a tali entrate, assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti gli incentivi tecnici e il fondo risorse finanziarie previsti dall'articolo 113, comma 2, del Dlgs n. 50/2016 non determina la formazione di costi.
Fra le novità, infine, la ridenominazione della voce del piano dei conti 3.05.99.02.00, dove viene inserito il riferimento all'articolo 113 del Dlgs 50/2016 (al posto del richiamo della legge Merloni) e la conseguente modifica del glossario SIOPE (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).

INCENTIVO PROGETTAZIONESBLOCCA-CANTIERI/ Ancora una volta indefinita la decorrenza dei nuovi incentivi.
Per i premi ai tecnici da rifare integrativo e regolamento.

Dal 19 aprile i tecnici pubblici festeggiano il ritorno dei "loro" incentivi. Con l'entrata in vigore del decreto sblocca-cantieri è stato rimodificato il Codice degli appalti, inserendo nuovamente i progettisti fra i destinatari dei premi collegati alle funzioni tecniche.
La telenovela dei compensi registra un'altra puntata. Come si ricorderà, con l'approvazione del Dlgs 50/2016 erano stati messi alla porta una serie di soggetti che, storicamente, annoveravano nella loro busta paga compensi i quali, nel corso del tempo, hanno modificato la loro denominazione (incentivi Merloni, «per la progettazione»), ma non la loro sostanza: ai dipendenti pubblici che progettavano spettava anche una quota di retribuzione legata all' opera da realizzare. Con il nuovo Codice degli appalti si sposta l'attenzione sulle fasi di programmazione e controllo della spesa e, quindi, anche gli incentivi vanno a premiare i soggetti che gestiscono queste funzioni.
Ovviamente i tecnici mal digeriscono il cambio di rotta e, alla prima occasione utile, con un colpo di coda, spazzano via i supervisori di budget e consuntivi e li sostituiscono con i progettisti.
Fin qui la storia. Ma ora, in pratica, cosa succede? Sicuramente i tecnici non possono presentarsi alla cassa per la riscossione già da domani. Lo stesso Dlgs 50/2016 disegna un iter ben preciso che gli enti devono rispettare per poter liquidare i compensi. Innanzitutto devono riprendere in mano i propri regolamenti e adeguarli alla nuova norma. L' operazione deve però essere preceduta da una sessione di contrattazione decentrata integrativa, dove vanno stabiliti le modalità e i criteri di ripartizione degli incentivi. Al regolamento, oltre a recepire quanto deciso nell'integrativo, spetta una funzione importante: decidere la percentuale da applicare all' importo dei lavori, servizi e forniture posti a base di gara per ottenere il fondo che va a finanziare, per l'80%, i compensi in questione. Percentuale che non può essere superiore al 2%.
E come tutte le modifiche che si rispettino, l'intervento normativo non è accompagnato da una norma transitoria, che regolamenti il passaggio dalla vecchia disciplina a quella nuova. Quindi? Sicuramente basta attendere qualche mese e potremmo trovare fiumi di pareri da parte delle sezioni regionali della Corte dei Conti le quali, chiamate a rispondere ai quesiti delle amministrazioni, forniscono indirizzi purtroppo non sempre univoci. Come spartiacque si può infatti pensare all' espletamento delle gare di appalto, considerato che sono il perno su cui poggia l'incentivo, oppure al momento in cui viene svolta l'attività compensata dall' incentivo. Anche a questo proposito, nel tempo, i magistrati contabili hanno abbracciato tesi differenziate.
Su una linea sembrano ormai concordi i vari interpreti istituzionali: la liquidazione degli incentivi non può avvenire in assenza del regolamento; ma, una volta approvato l' atto, si può procedere al pagamento anche di quelle somme accantonate in precedenza, in quanto si riferiscono a gare o attività svolte dopo l' entrata in vigore della norma e prima dell'approvazione del regolamento (articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2019).

INCENTIVO PROGETTAZIONEProgettazione, torna l' incentivo per i tecnici Pa. Architetti e ingegneri: forte impatto sul mercato dei bandi per i progettisti.
Ripristinato l'incentivo per le attività legate alla progettazione, svolte dai dipendenti della pubblica amministrazione.

Il decreto 32/2019, lo sblocca cantieri, abbandona la filosofia del Codice appalti in vigore, che riservava ai tecnici della Pa, nella sostanza, solo compiti di programmazione e controllo delle opere pubbliche. Tornando a dargli un ruolo primario anche sul fronte della redazione degli elaborati.
La novità, di grande impatto per il mercato, ritocca l'articolo 113 del Codice appalti, riportando in vita l'accantonamento «in misura non superiore al 2 per cento» (modulato sugli importi stanziati per lavori, servizi e forniture) per le attività «di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione». Questo denaro viene ripartito tra i soggetti che svolgono funzioni tecniche nelle diverse amministrazioni.
Nella precedente versione l'incentivo esisteva, in misura esattamente identica, ma era riservato ad altri compiti: programmazione della spesa per investimenti, controllo delle procedure di gara, esecuzione dei contratti. In sostanza, la nuova versione spinge gli uffici pubblici ad utilizzare in misura maggiore le proprie strutture per la progettazione, anziché bandire gare per coinvolgere professionisti esterni.
Evidente, allora, che la novità non piaccia a tutte quelle categorie abituate a partecipare agli appalti pubblici per la progettazione. Lo spiega Rino La Mendola, vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti: «Siamo perplessi per questa modifica. Pensiamo che sia i dipendenti pubblici che i liberi professionisti debbano essere valorizzati nel loro ruolo, riservando ai dipendenti pubblici soprattutto l'attività di controllo. E c' è anche da considerare che questo intervento fa il paio con le novità sulla centrale di progettazione: c' è una chiara volontà da parte del Governo di statalizzare la progettazione».
Una posizione condivisa in pieno da Michele Lapenna, componente del Consiglio nazionale degli ingegneri: «Sarebbe stato meglio tenere una distinzione netta tra uffici tecnici e progettisti privati. Detto questo, comunque, per noi è fondamentale tutelare la qualità della progettazione. Per questo chiederemo che i tecnici interni dimostrino gli stessi requisiti che vengono richiesti oggi ai professionisti». Probabile, sul fronte del mercato, che queste novità abbiano un forte impatto, limitando le risorse che vengono messe a disposizione dei progettisti esterni: «È evidente -conclude Lapenna- che si tratta di un rischio molto concreto» (articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAttivo l'indice dei domicili digitali, Pubbliche Amministrazioni sempre più trasparenti.
La transizione al digitale della pubblica amministrazione fa un altro passo avanti con l'entrata in vigore (da ieri) dell'indice dei domicili digitali delle Pa e dei gestori di pubblici servizi.

Gestito dall'Agid, che guida l'innovazione nella Pa secondo un cronoprogramma definito, l'Ipa è in sostanza un elenco pubblico nel quale sono registrati i domicili digitali che amministrazioni, gestori di servizi pubblici e privati devono utilizzare per inviare comunicazioni e scambiarsi informazioni e documenti tutto in maniera legale.
I domicili digitali, come intuibile, sono gli indirizzi elettronici associati agli enti e alle relative articolazioni organizzative.
L'Ipa e le linee guida
L'indice è stato sviluppato seguendo il percorso tracciato dall'Agid nelle relative linee guida adottate, in base all'articolo 71 del Cad, con la determinazione 04.04.2019 n. 97/2019 (e relative "LINEE GUIDA DELL’INDICE DEI DOMICILI DIGITALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E DEI GESTORI DI PUBBLICI SERVIZI - Versione 1.0 del 27.02.2019") e messa in rete lunedì scorso nel sito dell'Agenzia.
Devono iscriversi le Pa e i gestori di pubblici servizi, tutti i soggetti inclusi nell'elenco Istat articolo 1 della 196/2009, cioè rientranti nell'«armonizzazione contabile», e che non sono compresi tra le Pa articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, cioè il raggruppamento di enti cui fa riferimento la legislazione sul pubblico impiego.
L'iscrizione va ottenuta con un'istanza di accreditamento, al buon esito della quale segue l'assegnazione del codice Ipa da parte del gestore (l'Agid), che non è modificabile.
I domicili digitali vanno costantemente aggiornati se cambiano informazioni e dati che lo formano e cioé quelli che caratterizzano l'ente, quelli relativi al registro di protocollo e infine quelli relativi ai diversi uffici. L'istanza di cancellazione dall'elenco dovrà essere presentata dai soggetti che non hanno più titolo per essere inlusi in esso.
La fatturazione elettronica
Una delle funzioni più delicate cui deve assolvere l'Ipa è quella di archivio nel quale cercare per individuare i codici degli uffici di fatturazione elettronica delle amministrazioni e delle società in conto economico consolidato (Scec).
Su www.indicepa.gov.it si trovano tutti i dati e le informazioni necessari, che nell'ottica della trasparenza possono essere consultati e riutilizzati in formato «open data» tramite interfaccia web, nonché, registrandosi al portale, anche tramite interfaccia applicativa o protocollo LDAP.
Tre sono macrolivelli nei quali sono strutturati i contenuti dell'Ipa:
   1) informazioni di sintesi sull'ente (denominazione, uguale a quella registrata nell'Anagrafe tributaria, associata al codice fiscale indicato, codice fiscale, indirizzo della sede principale, nome del rappresentante legale e nome del referente Ipa e relativo codice fiscale, indirizzo pec primario;
   2) informazioni dettagliate sulla struttura organizzativa e gerarchica e sui singoli uffici - unità organizzative (denominazione, indirizzo, codice identificativo, nominativo del responsabile, data di istituzione e di eventuale cessazione);
   3) informazioni sugli uffici di protocollo - aree organizzative omogenee (codice ufficio, che è definito dall'ente, codice univoco ufficio, assegnato dal sistema e univoco in Ipa, denominazione, Aoo di riferimento, che è unica tranne che per gli Scec, nome del responsabile, l’indirizzo, relazione gerarchica con altra unità organizzativa.
La verifica dei dati
Ogni ente accreditato è responsabile della veridicità e della completezza dei dati presenti in Ipa. L'Agid effettua il monitoraggio della qualità dei dati con controlli sistematici e a campione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e criteri per graduare le aree.

Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel nuovo Quaderno sul tema, propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai 9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata all’interno del decentrato (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuovi incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera. Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i sindacati.

Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un nuovo Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo indipendente di valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncentivi, le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl 01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata, sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che, tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno; l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
   1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli, analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto decentrato;
   2. risorse previste nel bilancio annuale;
   3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati del progetto
”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5, del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità, tra le quali:
   1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione della gestione;
   2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto, diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
   3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale coinvolto;
   4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
   5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento, possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento, continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario, se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran, pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs 150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con la performance organizzativa, con il piano della performance e con la relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative, che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una rilevanza strategica” (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIl regolamento sugli incentivi tecnici assorbe il passato con la retroattività «debole»
Il principio della cosiddetta retroattività «debole» rende legittima la disciplina del regolamento degli incentivi tecnici che disponga il pagamento, oltre che per il futuro, anche per le attività svolte prima della sua approvazione. L'inclusione o esclusione dal fondo delle risorse decentrate di questi incentivi (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), tuttavia, dovrà confrontarsi con la normativa vigente all'epoca delle attività espletate divenute remunerabili solo a regolamento approvato.

Queste sono le indicazioni della Corte dei conti della Liguria (parere 03.04.2019 n. 31).
Il principio della retroattività «debole»
I giudici contabili liguri danno risposta positiva alla possibilità, da parte del regolamento dell'ente, di poter attrarre quali attività incentivabili anche quelle espletate prima della sua approvazione. Questo è possibile grazie al principio della cosiddetta retroattività «debole» che produce i suoi effetti dalla data di approvazione anche sulla base di una fattispecie realizzatasi nel passato, a differenza della retroattività «forte» che riguarda una espressa previsione della norma intesa a comprendere, dalla sua entrata in vigore, anche le fattispecie e gli effetti avvenuti nel passato.
La retroattività «debole» vale anche per gli incentivi tecnici i cui effetti sono validi per il futuro ma che possono attrarre anche gli accantonamenti ai fondi destinati agli incentivi effettuati prima della disciplina regolamentare. Al medesimo ragionamento, secondo il collegio contabile ligure, si giunge anche per altra via. Infatti, ove la legge disciplina per il passato anche l'eventuale fonte regolamentare potrebbe disciplinare ora per allora situazioni pregresse.
Nel caso degli incentivi tecnici, infatti, le disposizioni del Dlgs 50/2016 disciplinano situazioni del passato in due commi dell'articolo 216. Al comma 1 dove la nuova disciplina «si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla sua data di entrata in vigore nonché, in caso di pubblicazione di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare offerte». Al comma 3 quando si precisa che «Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all'articolo 21, comma 8, si applicano gli atti di programmazione già adottati ed efficaci …».
Le regole da rispettare
Per i giudici contabili liguri una cosa sono gli effetti retroattivi del regolamento, altra cosa è la legge applicabile alla distribuzione degli incentivi che non può che essere quella vigente al momento delle attività espletate dai dipendenti (nel caso di specie il precedente codice dei contratti Dlgs 163/2006). Le medesime regole troveranno applicazione anche alle nuove disposizioni della legge di bilancio 2018 che, inserendo all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, il comma 5-bis, ha posto gli incentivi fuori dai limiti e vincoli del salario accessorio (articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017).
Alle medesime conclusioni giunge anche la Corte dell'Umbria (parere 28.03.2019 n. 56) che, dopo aver condiviso la possibilità che i regolamenti possono attrarre anche accantonamenti già effettuati, precisano che l'impegno di spesa sugli incentivi tecnici potrà essere assunto solo a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento, con la sola precisazione che gli incentivi prima del 2018 dovranno essere considerati quali spese del personale (soggetti ai vincoli del fondo) mentre quelli successivi a questa data dovranno essere afferenti al medesimo capitolo degli appalti, servizi o forniture (fuori dai limiti del fondo) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2019).

INCENTIVI PROGETTAZIONE: Tornano gli incentivi per la progettazione.
Il decreto sblocca-cantieri si traduce anche nel provvedimento sblocca-incentivi per i dipendenti pubblici, mandando in soffitta i compensi per le funzioni tecniche per fare largo ai vecchi e, forse, mai tramontati incentivi per la progettazione.
La lista dei beneficiari
Con un colpo di mano quasi preannunciato, viste le pressioni della categoria per riprendersi il maltolto, la norma modifica il comma 2 dell'articolo 113 del codice degli appalti, andando a riscrivere parte dell'elenco dei beneficiari dei compensi per le funzioni tecniche.
Al posto dei dipendenti che svolgono le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, sono inseriti i lavoratori ai quali è affidata l'attività di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, di verifica preventiva della progettazione. Sono salvi, in continuità con il passato, il Rup, la direzione dei lavori, la direzione dell'esecuzione, il collaudo tecnico amministrativo, la verifica di conformità e il collaudo statico.
Si tratta, come detto, di una marcia indietro rispetto alla novità introdotta con il Dlgs 50/2016, dove l'obiettivo era quello di compensare i soggetti che avevano il compito di tenere sotto controllo la spesa, facendo rientrare nell'alveo sia la fase di programmazione che quella di scelta del contraente. Sostanzialmente, vengono, di nuovo, esclusi dagli incentivi quei dipendenti che non sono tecnici e che svolgono le attività amministrative strettamente connesse ai lavori, ai servizi e alle forniture.
Rientrano in gioco gli architetti, gli ingegneri e i geometri delle pubbliche amministrazioni a cui saranno affidate le progettazioni, con la fine di discussioni spesso spiacevoli per l'attribuzione di compiti non più, a loro dire, equamente remunerati.
Problemi applicativi
Come ogni modifica che si rispetti, anche in questo caso ripartiranno i problemi applicativi. In primis, in mancanza di una norma transitoria, dovrà essere chiarito quando applicare la vecchia disposizione e quando la nuova previsione. Si farà riferimento all'espletamento dell'attività compensata oppure al bando di gara? E per le attività ovvero le procedure attualmente in corso?
E ancora. Per poter applicare la norma appena approvata è necessario che le amministrazioni provvedano a definire le modalità e i criteri di riparto delle risorse a disposizione in sede di contrattazione decentrata e ad adottare il regolamento. Percorso alquanto impegnativo se si pensa che, a oggi, alcune amministrazioni non hanno ancora regolamenti adeguati alla prima versione del Dlgs 50/2016.
Concludendo, possiamo dire che, per il momento, nella partita fra tecnici e amministrativi, si affermano i primi, i quali, però, dovranno pazientare un po' per godere dei frutti della vittoria in quanto, prima, vanno sistemate le carte (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019).

INCARICHI PROGETTUALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEProgettazione, la modifica al principio chiarisce la contabilizzazione.
La modifica al principio applicato della contabilità finanziaria decisa da Arconet nella seduta del 09.01.2019 e destinata a dare attuazione a quanto previsto dalla legge 145/2018 (articolo 1, comma 910) in materia di costituzione del fondo pluriennale vincolato in relazione alla gestione degli investimenti, ha il merito di chiarire anche il trattamento contabile delle progettazioni.
In proposito, si manifestano alcune incertezze, anche in funzione delle casistiche che la prassi propone, in ordine alla collocazione contabile delle spese tra parte corrente e parte conto capitale, con i conseguenti effetti e impatti in termini di modalità di finanziamento e di risorse concretamente utilizzabili.
Progettazione interna o esterna
È così chiarito, ora, che la spesa riguardante il livello minimo di progettazione richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è, ovviamente, registrata nel bilancio di previsione prima dello stanziamento per l'opera.
In questo caso, nondimeno, l'iscrizione della spesa nella parte investimenti (conto capitale) è condizionata all'individuazione, da parte dei documenti di programmazione dell'ente concernenti la realizzazione delle opere pubbliche (Dup), in modo specifico, dell'investimento da eseguire con le correlate modalità di copertura finanziaria. Questa indicazione vale naturalmente per la spesa che riguarda la progettazione esterna la cui contabilizzazione avverrà mediante l'utilizzo della voce U.2.02.03.05.001 concernente «Incarichi professionali per la realizzazione di investimenti».
Nel caso di progettazione interna, invece, la contabilizzazione seguirà la natura economica dei fattori, con la conseguenza che la spesa di personale sarà classificata nell'ambito della parte corrente, mentre eventuali attrezzature saranno classificate nell'ambito delle spese in capitale. Fermo restando questo trattamento nel quadro della contabilità finanziaria, è comunque necessario procedere, nella contabilità economico-patrimoniale, alla capitalizzazione dei costi mediante apposita registrazione in fase di scrittura di assestamento.
Il finanziamento in attesa della contribuzione
È anche da segnalare che è pure chiarito, opportunamente, che, nel caso in cui la copertura dell'intervento sia costituita da un contributo per il finanziamento dell'opera (comprensivo della spesa di progettazione) concesso nell'esercizio successivo a quello in cui è stata impegnata la spesa concernente la progettazione, la quota riguardante la progettazione deve essere gestita quale entrata libera, considerando che il vincolo è già stato rispettato.
Si tratta del caso, piuttosto frequente, nel quale l'ente finanzia autonomamente (con risorse proprie) la progettazione in attesa della contribuzione (la cui richiesta implica, ad esempio, la partecipazione ad un apposito bando) e che comporta, successivamente, l'esigenza di ripristinare la disponibilità delle risorse medio-tempore impiegate con la medesima natura (libera o vincolata).
I piccoli importi
Peraltro, la modifica al principio si occupa anche del trattamento degli interventi di importo inferiore a 100.000 euro che non implicano la preventiva attività di programmazione dei lavori pubblici, con la conseguenza che lo stanziamento a bilancio può avvenire pure in caso di mancato inserimento nel programma triennale.
In questa fattispecie, la spesa di progettazione è registrata nel Titolo II della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna, sulla base dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016.
Quest'ultimo, in particolare, prevede che «gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti».
Anche in questa ipotesi, nondimeno, seguendo la natura economica, gli stipendi del personale dell'ente incaricato della progettazione devono essere classificati tra le spese di personale, con la conseguente capitalizzazione nell'ambito della contabilità economico-patrimoniale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.03.2019).

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESpesa di personale, revisori obbligati ai controlli anche sugli incentivi per funzioni tecniche.
La verifica del rispetto delle disposizioni in materia di personale è sempre stato un tema molto sentito dagli organi di revisione economico finanziaria, anche per la complessità della normativa.
Il documento n. 6 (Controlli sui vincoli di assunzione e sulle spese di personale) dei principi di revisione approvati dal Cndcec (e si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 febbraio, del 1° marzo e del 4 marzo) ricorda in proposito che «L'obiettivo di contenimento delle spese di personale è un punto fermo della disciplina vincolistica ispirata al riequilibrio della finanza pubblica ed è annoverato tra gli obiettivi prioritari di intervento anche per il quadro sanzionatorio da cui è assistito».
Per questo motivo gli organi di revisione sono tenuti a verificare:
   • il rispetto del limite di spesa di personale in base ai commi 557 e 562 della legge 296/2006, mediante confronto di serie storiche omogenee. In particolare, la verifica dovrà riguardare:
      1. in sede di bilancio di previsione, il rispetto programmatico del vincolo di contenimento delle spese di personale oltre che il rispetto tendenziale del limite nell'esercizio precedente, dandone atto nell'ambito del parere richiesto dall'articolo 239 del Tuel;
      2. durante la gestione, il permanere del rispetto programmatico del vincolo di contenimento delle spese di personale, soprattutto in relazione ai provvedimenti (come le variazioni di bilancio) che sono destinati a produrre un impatto su queste ultime anche in modo prospettico;
      3. in sede di rendiconto, l'effettivo rispetto del vincolo di contenimento delle spese di personale, dandone atto nell'ambito della relazione al rendiconto prevista dall'articolo 239 del Tuel;
      4. nell'esercizio successivo a quello di mancato rispetto del vincolo di contenimento delle spese di personale, l'effettiva applicazione dei meccanismi sanzionatori previsti.
   • il rispetto del limite di spesa per lavoro flessibile, secondo la disciplina contenuta nell'articolo 9, comma 28, del decreto legge 78/2010, che abbraccia tutte le forme contrattuali (tempi determinati, Co.co.co., somministrazione, convenzioni o comandi, contratti di formazione e lavoro o tirocini formativi);
   • il rispetto del limite di spesa delle risorse destinate al salario accessorio del personale fissato dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 nell'ammontare corrisposto per l'anno 2016 e la conformità delle clausole dei contratti decentrati integrativi (normativi ed economici) alla disciplina sovraordinata. L'organo di revisione dovrà in particolare verificare la corretta applicazione degli istituti previsti dalla contrattazione nazionale, la compatibilità dei costi della contrattazione decentrata con gli stanziamenti del bilancio di previsione, la conformità delle risorse riportate nel fondo per il trattamento accessorio (distintamente per la dirigenza e per il comparto) con le disposizioni che ne disciplinano la costituzione, la sussistenza delle condizioni che legittimano l'inserimento di risorse aggiuntive. Il parere dovrà essere reso sulla base della relazione illustrativa e tecnico finanziaria, presupposti imprescindibili per l'attività di controllo;
   • il rispetto dei vincoli in materia di turn-over, determinati in funzione delle caratteristiche dell'ente locale, dell'evoluzione normativa e di alcuni elementi di premialità.
Gli incentivi per funzioni tecniche
Sebbene rubricati in documento diverso da quello dedicato alle spese di personale [documento n. 2 (pag. 84) - Funzioni dell’Organo di revisione: attività di collaborazione, pareri obbligatori e vigilanza], i principi demandano all'organo di revisione anche il controllo e la vigilanza in materia di incentivi per funzioni tecniche. Il fatto che questi incentivi non siano più considerati spesa di personale e assoggettati ai limiti delle risorse destinate al salario accessorio non fa spegnere i riflettori su questa delicata materia.
Più che al rilascio del parere sul regolamento di disciplina degli incentivi, da approvare previa stipula di un accordo di contrattazione decentrata (parere non esplicitamente previsto né dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016 né tanto meno dai principi di revisione), il controllo verte piuttosto –secondo un approccio sostanzialistico- sulla verifica della corretta gestione del ciclo degli incentivi.
L'organo di revisione deve infatti accertare:
   • in sede di quantificazione:
      1. che sia stata calcolata e finanziata la percentuale degli incentivi da accantonare nel fondo in coerenza con i tempi di esecuzione del contratto, riportati nel cronoprogramma di attività e di spesa;
      2. che l'accantonamento venga riportato nello stesso capitolo di spesa delle altre voci del quadro economico previsto;
      3. che sia stato costituito il gruppo di lavoro.
   • in fase di liquidazione, se:
      1. è stato adempiuto l'onere della preventiva fissazione dei criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad esso specificamente "destinate" in sede di contrattazione collettiva decentrata;
      2. l'ente abbia disciplinato e modulato (comma 2 dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016) con apposito regolamento la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche con l'obiettivo di premiare i dipendenti che concretizzano l'esecuzione dell'opera, del servizio o della fornitura nel rispetto di importi e tempi programmati;
      3. la determina di approvazione del dirigente/responsabile del servizio documenti il completamento delle attività e le persone impegnate nello svolgimento dell'attività;
      4. i singoli importi per gli incentivi rispettino i limiti fissati nel regolamento approvato dalla giunta;
      5. le somme complessivamente erogate al personale rispettino i due limiti finanziari di contenimento: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell'importo posto a base di gara, senza considerare eventuali ribassi) e l'altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente);
      6. gli incentivi sono destinati solo ai componenti del gruppo di lavoro, gia formalmente individuato a monte dal dirigente o dal responsabile del servizio su proposta del responsabile unico del procedimento, tenendo presente le attività realmente svolte, la spesa sostenuta rispetto a quella prevista, nonché i tempi di realizzazione rispetto a quelli previsti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORelazioni sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione organizzativa.
Due nodi assai intricati nella disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli. Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente, sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al 25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999, era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che hanno una dimensione maggiore (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale: la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
   a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative che presentino particolare complessità;
   b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art. 13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs 267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109, comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo 107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016 e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione, l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega, quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e manageriale del dirigente medesimo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.

La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio, cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018, determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro. Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in 16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale (articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa, dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013 (comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno 2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000 euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C), rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Ok dalla sezione Autonomie agli incentivi tecnici anche per le manutenzioni ordinarie e straordinarie «complesse».
In modo simile all'estensione degli incentivi agli appalti di servizi e forniture, che la legge limita alla sola presenza del direttore dell'esecuzione e per importi non inferiori ai 500mila euro o di particolare complessità, anche le manutenzioni ordinarie e straordinarie possono essere oggetto di incentivazione, a patto che siano di particolare complessità.
Sono queste le indicazioni della Corte dei conti, sezione delle Autonomie, nella deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Il contrasto tra le sezioni regionali
La Sezione di controllo per l'Umbria ha rimesso la questione di massima alla Sezione delle Autonomie, per capire se, nel nuovo quadro legislativo, rientrassero o meno gli incentivi tecnici legati ad attività di manutenzioni ordinarie e straordinarie (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 16 ottobre) in considerazione del contrasto di soluzioni tra Sezioni di controllo.
Si ricorda come il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia (parere 16.03.2018 n. 121) ne aveva delimitato il possibile ambito di applicazione alle sole manutenzioni straordinarie, escludendo quelle ordinarie.
Il percorso logico della Sezione Autonomie
Secondo la Sezione delle Autonomie, il legislatore, con le nuove disposizioni del Dlgs 50/2016 (articolo 113), ha ritenuto incentivabili le attività compiute, dai diversi profili tecnici e amministrativi, del personale pubblico coinvolto nelle fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all'esecuzione del contratto, consentendo l'erogazione degli incentivi anche per gli appalti di servizi e forniture e non più, come in passato, per i soli appalti di lavori.
Tuttavia, per evitare una erogazione indiscriminata per gli appalti di servizi e forniture, ha stabilito che questi ultimi potranno essere oggetto di incentivazione solo in presenza della nomina del direttore dell'esecuzione, obbligatoria per appalti di importo superiore a 500.000 euro ovvero qualora di particolare complessità.
Sicuramente la manutenzione straordinaria presenta caratteristiche particolari potendo rientrare nel novero delle attività complesse, tali da richiedere, da parte del personale tecnico-amministrativo, un'attività di programmazione della spesa, di valutazione del progetto o di controllo delle procedure di gara e dell'esecuzione del contratto rispetto ai termini del documento di gara, esattamente come qualunque altro appalto di lavori, servizi o forniture.
A differenza delle manutenzioni straordinarie, quelle ordinarie possono essere di semplice realizzazione, in quanto spesso prive di un progetto da attuare o perché l'amministrazione procede all'affidamento con modalità diverse dalla gara che costituisce presupposto indefettibile della norma ai fini della determinazione del fondo vincolato.
Conclusioni
In definitiva per la Sezione delle Autonomie anche le attività di manutenzione straordinaria o ordinaria potrebbero rientrare, a pieno titolo, tra le funzioni incentivabili purché caratterizzate da problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all'amministrazione affinché il procedimento, che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali, si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto, nonché dei tempi e dei costi programmati, aumentando, in tal modo, l'efficienza e l'efficacia della spesa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.01.2019).

ENTI  LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORevoca quasi impossibile per il ragioniere capo.
I nuovi principi contabili hanno inciso in modo significativo sul ruolo del responsabile dei servizi finanziari, tanto che l'Osservatorio sulla finanza locale e la contabilità degli enti locali, ha emanato l'atto di orientamento 26.10.2018 teso a evitare strumentali rotazioni degli incarichi o revoche anticipate in considerazione del delicato ruolo attribuitogli dall'ordinamento.
Le indicazioni del decreto del 2012
Si ricorda come le iniziali indicazioni del Dl 174/2012 prevedevano che «L'incarico di responsabile del servizio finanziario di cui all'articolo 153, comma 4, può essere revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità riscontrate nell'esercizio delle funzioni assegnate. La revoca é disposta con Ordinanza del legale rappresentante dell'Ente, previo parere obbligatorio del Ministero dell'interno e del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato».
La norma, tuttavia, è stata successivamente espunta in sede di conversione dalla legge 213/2012, mentre sono restate intatte le ulteriori funzioni che attribuiscono al responsabile finanziario il controllo sugli equilibri di bilancio e dei vincoli di finanza pubblica, disponendo, altresì, che nell'esercizio di queste funzioni il responsabile del servizio finanziario agisce «in autonomia», segnalando, fra l'altro, eventuali squilibri anche alla Corte dei conti.
Precisa l'Osservatorio come, la Consulta (sentenza n. 184/2016) abbia avuto modo di esaltare la regola che la copertura economica di spese ed equilibri di bilancio sono due facce della stessa medaglia dal momento che l'equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla previa individuazione delle risorse.
Pertanto, nel ruolo affidato al responsabile del servizio finanziario è di primaria importanza la realizzazione di questi obiettivi con la conseguenza della tendenziale stabilità nel tempo della figura del responsabile finanziario.
Sulla rotazione degli incarichi
Una volta chiarita la necessaria stabilità del ruolo del responsabile dei servizi finanziari è necessario trovare un coordinamento con le disposizioni dei piani anticorruzione che indicano come necessaria la rotazione degli incarichi dirigenziali. In questo caso una rotazione del ruolo del responsabile finanziario non potrà che essere attentamente valutata dall'ente tenendo conto obbligatoriamente dell'infungibilità di questa figura dirigenziale, con alcune precisazioni.
La prima precisazione riguarda la verifica che la rotazione non comprometta il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa e cioè che non siano in alcun modo compromesse le funzioni di conservazione e salvaguardia degli equilibri di bilancio. In altri termini le motivazioni di una rotazione dell'incarico dovranno essere indirizzate sulle necessarie competenze professionali del nuovo responsabile necessarie per lo svolgimento delle attribuzioni del servizio finanziario.
La seconda precisazione riguarda la sostanziale infungibilità della posizione del responsabile finanziario con obbligo di soprassedere dall'attuare la misura di prevenzione della corruzione qualora non sia in grado di garantire il conferimento dell'incarico a soggetti dotati delle competenze necessarie per assicurare la continuità dell'azione amministrativa.
Sulla revoca degli incarichi
Al fine di stabilire ed evitare che l'ente possa attuare forme discriminatorie di risoluzione anticipata degli incarichi dei responsabili degli uffici finanziari, l'Osservatorio fa proprie le prime indicazioni del Dl 174/2012 ma, in considerazione della sua espunzione in sede di conversione in legge, mediante specifico inserimento nel regolamento di contabilità.
In altri termini, il regolamento di contabilità potrà prevedere che la revoca sindacale dell'incarico di responsabile finanziario, attesa l'assoluta prevalenza delle sue attribuzioni alla tutela di profili ordinamentali, potrà essere limitata ai casi di gravi e riscontrate irregolarità contabili e subordinata all'acquisizione di un parere obbligatorio e vincolante del Consiglio dell'ente, da comunicare entro 30 giorni dall'adozione alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti locali, ragionieri stabili. Rotazione e revoca solo in caso di gravi irregolarità. L’Osservatorio per la finanza e la contabilità: valutare attentamente l’avvicendamento.
Rotazione e revoca cum grano salis per i ragionieri di comuni, province e città metropolitane. Le due misure, che di fatto determinano (sia pure per ragioni diverse) la sostituzione del responsabile del servizio finanziario, devono essere attentamente soppesate e motivate al fine di non pregiudicare il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa.
Possono essere sintetizzate in questi termini le indicazioni 26.10.2018 fornite dall'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, che ha dedicato all'argomento un atto di orientamento finalizzato a incentivare comportamenti omogenei nell'adozione di provvedimenti organizzativi che incidano su tale cruciale figura. Quest'ultima svolge, infatti, funzioni di primaria importanza ai fini della salvaguardia degli equilibri finanziari e contabili delle amministrazioni, sia per i compiti di verifica della veridicità delle previsioni, sia per quelli di vigilanza sulla legittimità degli atti di gestione.
Logico corollario di tale specifica responsabilità non può che essere, in via di principio, la tendenziale stabilità nel tempo della stessa figura. Basti pensare che il dl 174/2012 aveva subordinato la revoca del ragioniere al parere obbligatorio del ministero dell'interno e della Ragioneria generale dello stato. Tale norma è stata poi stralciata, ma l'esigenza rimane ferma.
L'Osservatorio, quindi, suggerisce di disciplinare a livello regolamentare il procedimento, consentendone l'avvio solo per «casi di gravi e riscontrate irregolarità contabili» e prevedendo l'acquisizione di un parere obbligatorio e vincolante del consiglio dell'ente, da comunicare entro 30 giorni alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Analogamente, la rotazione per finalità di prevenzione della corruzione dovrà essere disposta solo in modo da non compromettere il regolare svolgimento delle suddette funzioni.
Tale garanzia non dovrà esaurirsi in una mera clausola di stile motivazionale, ma dovrà indicare le concrete misure che la inverano, tra le quali, di primaria importanza, la sussistenza reale delle competenze professionali del nuovo responsabile. In mancanza, gli enti potranno soprassedere e optare per misure anticorruttive alternative
(articolo ItaliaOggi del 14.11.2018).

ANNO 2018
aggiornamento al 19.02.2018
VARIShopper da casa al supermercato. Via libera dallo Sviluppo economico.
Salvo diverso avviso del ministero della Salute, nei reparti di vendita di alimenti organizzati a libero servizio, la clientela può utilizzare gli shopper già in suo possesso.
Gli enti del Terzo settore, invece, in occasione di particolari eventi o manifestazioni, possono, per il periodo del loro svolgimento, somministrare alimenti e bevande, previa segnalazione di inizio attività e comunicazione, in deroga al possesso dei requisiti professionali (articolo 71 del dlgs 26.03.2010, n. 59) e di onorabilità (commi 1 e 2 del medesimo articolo 71).

Queste novità sono contenute negli ultimi pareri (risoluzione 07.02.2018 n. 537605 e risoluzione 26.09.2017 n. 398528) emessi dal Ministero dello sviluppo economico, in materia di esercizio della somministrare alimenti e bevande da parte dei nuovi enti del terzo settore (dlgs 03.07.2017, n. 11) e l'applicabilità della normativa in materia di sottocosto agli shoppers ultraleggeri commercializzati (articolo ItaliaOggi del 17.02.2018).
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 – Chiarimenti PCM – Ufficio per la semplificazione e la sburocratizzazione su SCIA di agibilità (Ministero dello Sviluppo Economico - Direzione Generale per il Mercato, la Concorrenza, il Consumatore, la Vigilanza e la Normativa Tecnica - Divisione IV - Promozione della concorrenza e semplificazioni per le imprese, risoluzione 14.09.2017 n. 375622).
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Scia di agibilità. «Le modifiche recate al Testo unico edilizia dal d.lgs. n. 69 del 2013 hanno esteso la facoltà prevista per l'edilizia produttiva di presentare la dichiarazione o attestazione di agibilità da parte del direttore dei lavori o dal professionista abilitato (articolo 10, dpr n. 160 del 2010) in alternativa al certificato di agibilità (articolo 25 del T.u. edilizia), all'edilizia residenziale (articolo 25, comma 5-bis, dpr n. 380 del 2001).
In attuazione della delega di cui all'articolo 5 del d.lgs. n. 124/2015, l'articolo del d.lgs. n. 222/2016 e la tabella allegata hanno individuato un unico regime amministrativo per l'agibilità.
Infatti, è stato abrogato l'articolo 25 e sostituito l'articolo 24 del dpr n. 380 del 2001 introducendo la segnalazione certificata di inizio di attività ai fini dell'agibilità.
Tale nuovo regime, che supera quello previgente (ivi compreso quello di cui all'art. 10 del dpr n. 160 del 2010) si applica, in tutti i casi, sia all'edilizia produttiva che all'edilizia residenziale
».
Questo è quanto si legge nella risoluzione 14.09.2017 n. 375622 del Ministero dello Sviluppo economico in merito alle disposizioni in materia di Scia di agibilità (articolo ItaliaOggi del 17.02.2018).
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Contrordine dei giudici contabili, gli incentivi tecnici non sono esclusi dal fondo del salario accessorio.
Dopo che la Corte dei conti umbra (sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 7 febbraio) e la Corte friulana (sul Quotidiano degli enti locali e della Pa dell’8 febbraio) avevano dato speranza di vedere esclusi dal salario accessorio gli incentivi per funzioni tecniche, arriva la doccia fredda della Sezione della Puglia (deliberazione 09.02.2018 n. 9) che va in senso opposto tanto da rimettere la questione di massima nuovamente alla Sezione delle Autonomie.
Le tesi sul superamento delle deliberazioni della Sezione Autonomie
Rispetto alle conclusioni della Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24), è nuovamente intervenuto il legislatore con l'articolo 1, comma 526, della legge di bilancio 2018, prevedendo l'allocazione della spesa per incentivi per funzioni tecniche nei capitoli di spesa destinati alle opere pubbliche; determinandone, di fatto, l'allocazione nell'ambito della spesa per investimenti.
La novità è stata oggetto di interpretazione da parte della magistratura contabile secondo cui gli incentivi tecnici non rientrerebbero nei capitoli della spesa del personale, ma dovrebbero essere ricompresi nel costo complessivo dell'opera (sezione di controllo della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, parere 02.02.2018 n. 6).
A rafforzare l'esclusione di questi incentivi dal limite di crescita dei fondi decentrati previsti dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 si è anche schierata la sezione dell'Umbria, con il
parere 05.02.2018 n. 14. Secondo questa delibera l'individuazione dei soggetti che hanno diritto all'incentivo avviene tenendo conto delle funzioni “tecniche” garantendo il bonus ai dipendenti pubblici che le espletano. Non si registra un ampliamento indeterminato della spesa in quanto lo stesso sistema normativo contiene regole che consentono di determinare e contenere la spesa del personale, evitando che la stessa assuma un carattere incontrollato.
La posizione della Corte pugliese
La posizione assunta dalle Corti regionali non convince i giudici contabili pugliesi per le seguenti motivazioni:
   • l'appostazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell'ambito del «medesimo capitolo di spesa» previsto per i singoli lavori, servizi o forniture non potrebbe mutarne la natura di spesa corrente trattandosi, in ogni caso, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale;
   • secondo il glossario Siope «le entrate riguardanti i compensi erogati al personale concernenti la realizzazione di attività di progettazione finalizzate ad un investimento diretto, registrate sia tra gli investimenti diretti sia tra le spese di personale, devono essere oggetto di regolazione contabile con gli incentivi di progettazione impegnati tra gli investimenti diretti, in modo da consentire l'effettivo pagamento della spesa sui capitoli del bilancio relativi alla spesa del personale»;
   • qualora si considerassero spese di investimento e non di personale, si potrebbe configurare una violazione della disciplina di cui all'articolo 3, comma 18, della legge n. 350/2003, che ha stabilito ipotesi tipizzate di spese di investimento;
   • infine, il finanziamento di questa spesa non potrebbe comunque avvenire mediante ricorso all'indebitamento stante il disposto dell'articolo 119, ultimo comma, della Costituzione.
In considerazione del contrasto tra Sezione regionali sulla corretta imputazione degli incentivi per funzioni tecniche, la Sezione pugliese rimette nuovamente al questione di massima alla sezione delle Autonomie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2018).
APPALTIStazioni appaltanti certificate. Contratti pubblici/il dpcm attuativo del codice.
Presenza di un sistema di qualità certificato, basso livello di soccombenza nel contenzioso, laureati in economia per affidare gare di concessione o Ppp (Partenariato pubblico privato).

Sono questi alcuni dei requisiti previsti per qualificare le stazioni appaltanti contenuti nell'atteso dpcm (ex art. 38 del codice dei contratti pubblici) che si applicherà agli appalti di servizi e forniture oltre 40 mila e di lavori oltre i 150 mila euro e consentirà anche di ridurne il numero in attuazione dei principi della legge delega 1/2016.
Si tratta però di un provvedimento che, come altri previsti nel codice, ha una applicazione alquanto lenta: una volta approvato il dpcm –e per arrivarci bisognerà acquisire il parere dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), del Consiglio di stato e della Conferenza unificata- serviranno ancora altri due provvedimenti: uno dell'Anac finalizzato a definire (ex art. 38, comma 6 del codice dei contratti) le «modalità attuative del sistema di qualificazione» prevedendo anche «un congruo termine per dotarsi dei requisiti necessari alla qualificazione».
Una volta approvato questo atto, nei 90 giorni successivi il sistema entrerà a regime. Quindi senza queste indicazioni tutta la macchina rimarrà bloccata. Nel frattempo dovrà essere adottato un secondo provvedimento (entro 90 giorni dall'entrata in vigore del dpcm) che rimane in capo al ministero dell'economia e servirà a mettere a punto «apposite linee guida esplicative» dei criteri adottati per la verifica degli adempimenti organizzativi.
Assai articolata è anche la disciplina transitoria delineata nel testo che, come detto, presuppone che Anac emani l'atto di sua competenza. Si lasciano infatti 18 mesi alle stazioni appaltanti che hanno fatto domanda per attrezzarsi, quindi per un anno e mezzo potranno conservare «la capacità di espletare la propria attività, e di acquisire il codice identificativo di gara (Cig)».
Nel merito il testo uscito da Palazzo Chigi, trasmesso a regioni e comuni per acquisire l'intesa in sede di conferenza unificata, prevede requisiti di qualificazione minimi che le amministrazioni dovranno soddisfare, legati a tre ambiti operativi: programmazione e progettazione; gestione e controllo della fase di affidamento; gestione e controllo di esecuzione, collaudo e messa in opera. Le stazioni appaltanti saranno qualificate in quattro fasce di importo e in relazione alla stabilità dell'organizzazione deputata a gestire le gare in un determinato ambito territoriale (ad esempio è rilevante la presenza di sedi decentrate). Per quel che concerne le qualifiche del personale, ad esempio, viene prevista l'obbligatoria presenza di un laureato in scienze economiche per gestire affidamenti in concessione o in Ppp.
Per i lavori il personale dovrà assicurare l'utilizzo di proprio personale nell'esecuzione e nel collaudo dei lavori Per quel che riguarda il sistema di formazione interno alla stazione appaltante si fa riferimento anche alle conoscenze in materia di anticorruzione e trasparenza. Vengono previsti anche dei requisiti premianti legati alla presenza di sistemi di gestione della qualità ISO 9001 certificati da organismi accreditati, dall'utilizzo di metodi e strumenti elettronici (esempio il Bim, Building information modelling), alla valutazione da parte di Anac sull'adozione di misure di prevenzione dei rischi di corruzione e promozione della legalità.
Sarà valutato anche il livello di soccombenza nel contenzioso negli ultimi tre anni (non più del 30%). Le amministrazioni senza requisiti potranno scegliere se dotarsi di quanto previsto nel decreto o delegare una stazione appaltante qualificata (articolo ItaliaOggi del 13.02.2018).

VARITelemarketing, si azzera tutto. Revocati i precedenti consensi a ricevere le telefonate. Gli effetti della l. 5/2018 sul Registro delle opposizioni: scelta mirata e sempre revocabile.
I numeri telefonici non passano più da una lista all'altra: stop alle telefonate moleste anche sui telefonini. L'interessato ha il diritto di scegliersi da chi ricevere proposte telefoniche di acquisto di beni e prodotti. E chi chiama non può nascondersi: si deve capire subito se è una telefonata di marketing diretto.

Sono questi gli effetti attesi della legge 5/2018 (nuove disposizioni in materia di iscrizione e funzionamento del registro delle opposizioni e istituzione di prefissi nazionali per le chiamate telefoniche a scopo statistico, promozionale e di ricerche di mercato) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 28 del 03.02.2018). Nell'attesa del regolamento attuativo, ecco un vademecum per orientarsi nel nuovo registro delle opposizioni.
Le novità riguardano, infatti, proprio il registro delle opposizioni. È un elenco per evitare di ricevere le chiamate telefoniche indesiderate. È operativo dal 31.012011. Da quella data gli abbonati agli elenchi telefonici pubblici che non vogliono più ricevere chiamate dagli operatori di telemarketing per attività commerciali, promozionali o per il compimento di ricerche di mercato tramite l'uso del telefono, possono opporsi alle telefonate indesiderate iscrivendosi al registro pubblico delle opposizioni. Quel sistema ha manifestato negli anni aspetti di strutturale ineffettività e l'abbonato si è trovato esposto a telefonate promozionale senza un solido argine.
Il problema è rappresentato anche e soprattutto dalla regola della prevalenza del consenso rilasciato a un singolo operatore. Quel consenso non era superato dall'iscrizione nel registro. Se si unisce questa regola al fatto che il consenso può avere a oggetto la comunicazione a terzi dei dati per finalità di marketing di terzi, ciò aumentava a dismisura la possibilità di chiamate di marketing diretto.
Non a caso sul sito del registro (www.registrodelleopposizioni.it) si spiega che evidenzia la novità dell'annullamento dei consensi precedentemente prestati dai cittadini per finalità pubblicitarie (articolo 23 del Codice della privacy) nel momento in cui diventerà effettiva l'iscrizione nel registro. Tale previsione punta a permettere ai cittadini di liberarsi da tutte quelle chiamate commerciali per cui il consenso è stato dato con leggerezza, magari per avere una tessera sconti o la carta fedeltà del supermercato. In questo scenario compare la nuova legge 5/2018, che cambia un po' di cose. Vediamo di costruire una lista di domande e risposte per illustrare il contenuto della novella.
Da quando hanno effetto le novità?
La legge 5/2018 è in vigore formalmente dal 04.02.2018, ma sarà operativa dopo l'emanazione del regolamento attuativo (che aggiorna il regolamento originario e cioè il dpr n. 178/2010), in cui saranno definite le modalità tecniche di iscrizione degli abbonati al nuovo registro e gli obblighi di consultazione degli operatori di telemarketing.
Questo significa che, per esempio, il diritto di opposizione alle chiamate pubblicitarie indesiderate verso i cellulari e i numeri fissi non presenti negli elenchi telefonici pubblici (queste alcune delle novità) verosimilmente nel secondo semestre 2018.
Chi può iscriversi nel registro delle opposizioni ed evitare chiamate moleste?
Possono iscriversi, tutti gli interessati che vogliano opporsi al trattamento delle proprie numerazioni telefoniche effettuato mediante operatore con l'impiego del telefono per fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta, o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
L'iscrizione non è automatica, ma ci vuole una specifica richiesta, anche contemporaneamente per tutte le utenze telefoniche, fisse e mobili, loro intestate.
A contrario le utenze non iscritte possono essere utilizzate per chiamate commerciali, senza il consenso dell'interessato e fatta sempre salva la possibile opposizione.
Per le chiamate automatizzate ci vuole, invece, sempre il consenso preventivo.
Non ci vuole la specifica richiesta di iscrizione, in quanto iscritte d'ufficio, per le numerazioni fisse non pubblicate negli elenchi di abbonati.
Posso scegliere da chi ricevere telefonate?
Certo, gli interessati iscritti al registro possono revocare, anche per periodi di tempo definiti, la propria opposizione nei confronti di uno o più soggetti. Si tratta di scelte mirate a ricevere proposte telefoniche commerciali.
Inoltre rimane la possibilità di dare il consenso al trattamento dei dati personali prestato dall'interessato, ai titolari da questo indicati, successivamente all'iscrizione nel registro.
L'iscrizione al registro cancella i consensi individuali a ricevere telefonate rilasciati a singoli operatori?
Sì, è questa una delle novità più importanti.
Con l'iscrizione al registro, dice la legge, si intendono revocati tutti i consensi precedentemente espressi per ricevere pubblicità telefonica.
Inoltre con l'iscrizione al registro (altra novità) sarà precluso, per le medesime finalità, l'uso delle numerazioni telefoniche cedute a terzi dal titolare del trattamento sulla base dei consensi precedentemente rilasciati.
Attenzione, però, all'eccezione: sono fatti salvi i consensi prestati nell'ambito di specifici rapporti contrattuali in essere, o cessati da non più di 30 giorni, aventi a oggetto la fornitura di beni o servizi, per i quali è comunque assicurata, con procedure semplificate, la facoltà di revoca.
Vedremo come le autorità interpreteranno questa eccezione. C'è una lettura più garantista per l'abbonato e cioè le telefonate si possono ricevere solo per un mese a fine di un contratto e ciò per dare la possibilità all'imprenditore di recuperare il cliente; c'è poi una lettura più estensiva e cioè se c'è stato un contratto con una raccolta di un consenso in precedenza all'entrata in vigore della legge questo rimane sempre valido (sono fatti salvi i consensi forniti «nell'ambito» di contratti).
Il mio numero di telefono può passare di mano in mano?
No, a decorrere dal 04.02.2018 sono vietati, con qualsiasi forma o mezzo, la comunicazione a terzi, il trasferimento e la diffusione di dati personali degli interessati iscritti al registro, per fini di pubblicità o di vendita o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale non riferibili alle attività, ai prodotti o ai servizi offerti dal titolare del trattamento.
Quindi abbiamo una possibilità limitata di circolazione dei numeri telefonici, anche se il divieto non è assoluto (l'eccezione non è soggettiva, ma riguarda prodotti e servizi).
Posso sapere a chi sono stati trasferiti i miei dati?
Sì, in caso di cessione a terzi di dati relativi alle numerazioni telefoniche, il titolare del trattamento è tenuto a comunicare agli interessati gli estremi identificativi del soggetto a cui i medesimi dati sono trasferiti.
Se c'è una violazione chi ne risponde?
Il titolare del trattamento dei dati personali, dice la legge, è responsabile in solido delle violazioni delle disposizioni della presente legge anche nel caso di affidamento a terzi di attività di call center per l'effettuazione delle chiamate telefoniche.
L'operatore commerciale, che si affida a un call center, rimane il responsabile
Cosa cambia per gli operatori che utilizzano i sistemi di pubblicità telefonica?
Viene istituito l'obbligo di consultare mensilmente, e comunque precedentemente all'inizio di ogni campagna promozionale, il registro pubblico delle opposizioni e di provvedere all'aggiornamento delle proprie liste. Sono previste agevolazioni tariffarie e modalità semplificate di consultazione del registro.
Si possono usare compositori telefonici?
No i call center non potranno usare compositori telefonici per la ricerca automatica di numeri telefonici.
Si può mascherare l'identificazione della linea?
No, tutti i call center devono garantire la piena attuazione dell'obbligo di presentazione dell'identificazione della linea chiamante.
Si dovranno usare due codici o prefissi specifici, atti a identificare e distinguere in modo univoco le chiamate telefoniche finalizzate ad attività statistiche da quelle finalizzate al compimento di ricerche di mercato e ad attività di pubblicità, vendita e comunicazione commerciale.
Quindi i call center devono dotarsi di questi numeri (si devono attendere i provvedimenti attuativi dell'Agcom). Ma c'è un'eccezione anche qui: ci si può limitare a presentare l'identità della linea a cui possono essere contattati (articolo ItaliaOggi Sette del 12.02.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Comuni, illegittimo porre a carico del contribuente spese indebite.
È ingiustificato che un Comune possa addebitare oltre alle proprie spettanze relative alle entrate patrimoniali e tributarie, anche costi che non trovano nessun addentellato nella normativa, come la famigerata voce per «ricerca eredi».
Il caso
Un Comune in un'intimazione riguardante il pagamento di alcune spettanze per soli 26 euro ha addebitato al contribuente la voce «ricerca eredi» pari a 75 euro. Tuttavia, in nessuna parte della normativa è consentito all'ente locale di poter caricare sul contribuente voci o poste, in assenza di copertura legislativa.
La Pubblica amministrazione, difatti, è chiamata a dare applicazione alla norma e non a gravare il contribuente di costose e inutili ricerche.
Rimane da capire ancora in cosa consistano queste ricerche che sicuramente presuppongono l'utilizzo di banche dati e come si sia potuto arrivare a una cifra del genere anche in rapporto alla pretesa.
La notifica agli eredi del contribuente
Sì, perché la voce per «ricerca eredi», non ha alcun ragione giuridica, difatti, gli uffici tributi sono ampiamente garantiti dall'articolo 65, comma 4, del Dpr n. 600 del 1973 in cui è stabilito che la notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione. Quest'ultima consiste nell'informazione con cui gli eredi del dante causa, comunicano le loro generalità e il loro domicilio fiscale. Questo significa che l'ente non avrebbe certamente dovuto perdere tempo e denaro per concentrarsi su ricerche del tutto inutili, in considerazione di quanto prevede la norma.
In mancanza della comunicazione, il Comune procede con la notificazione degli atti agli eredi presso l'ultimo domicilio del dante causa.
L'ente locale grazie al meccanismo legislativo è posto in grado di notificare senza dover procedere con ricerche, che comunque non potrebbero essere poste a carico del destinatario. Viceversa, qualora, la comunicazione sia stata eseguita, occorrerà una notifica personale agli eredi, all'indirizzo dagli stessi indicato.
In conclusione
Gli enti locali non sono tutti uguali, alcuni perseguono il loro compito nel pieno rispetto della normativa, con un'organizzazione da far invidia a una qualsiasi società efficiente.
Lo sforzo di questi Comuni, di investire sulla formazione del personale degli uffici tributi, è ripagato in termini di qualità dei servizi erogati e di recupero delle entrate patrimoniali e tributarie.
In contrasto con queste realtà, si collocano però tutti quegli enti, che non formano o non tengono aggiornato il loro personale, con conseguenze nefaste sui loro bilanci, ciò a seguito dei ricorsi volti a chiedere l'annullamento degli atti, colmi di clamorosi svarioni ed errori.
Da tutto ciò deriva per il contribuente, anche fuori dal caso preso in esame, che si veda addebitare costi avulsi dal quadro normativo, di poter adire l'autorità giudiziaria, con ripercussioni sulle casse pubbliche dell'ente locale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.02.2018).
ANNO 2017
aggiornamento al 28.12.2017
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEFunzioni tecniche, premi a parte. Incentivi fuori dal tetto per la contrattazione decentrata.
Gli incentivi ai tecnici debbono essere considerati fuori dal tetto del fondo per la contrattazione decentrata.

È stato approvato l'emendamento 49.22 (di iniziativa della I Commissione) e l'emendamento 49.19 (di iniziativa dell'On. Fabbri, sottoscritto anche dall'On. Fragomeli) alla legge di Bilancio (Atto Camera n. 4768), presentato anche su iniziativa dell'Unitel (Unione nazionale italiana tecnici enti locali) finalizzato a risolvere il garbuglio della composizione delle risorse decentrate, derivante dalla
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione Autonomie della Corte dei conti.
Come è noto, la Sezione ha enunciato il principio di diritto secondo il quale «Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113, comma 2, dlgs n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all'articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)».
Le indicazioni della Sezione, peraltro non condivise dalla Sezione Liguria, e comunque riconfermate dalla
deliberazione 10.10.2017 n. 24, hanno letteralmente gettato nel panico le amministrazioni, perché improvvisamente il fondo della contrattazione decentrata si è visto dover finanziare gli incentivi per i servizi tecnici previsti dal codice, che invece erano sempre state considerate spese finanziate al di fuori del fondo.
Si è immediatamente creata una situazione di stallo nelle trattative, di per sé già molto complesse, per la destinazione dei fondi. Infatti, l'interpretazione data dalla Sezione Autonomie finisce per erodere i fondi, dai quali sottrarre le risorse per gli incentivi tecnici, visto che non sono nemmeno possibili incrementi della parte variabile che vadano oltre il tetto del 2016, imposto dalla riforma Madia all'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017.
La chiave di lettura offerta dalla Sezione Autonomie non ha né convinto sul piano giuridico operatori ed enti, né ha trovato accoglienza favorevole sul piano politico e sindacale.
Da qui, la necessità di fare chiarezza, mediante l'emendamento il cui testo prevede modifica l'articolo 113 del dlgs 50/2016 (il codice dei contratti), inserendo il seguente nuovo comma 5-bis: «Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
L'emendamento (cfr. il testo approvato il 21.12.2017 dalla V Commissione permanente Bilancio, tesoro e programmazione della Camera dei Deputati) smentisce la ricostruzione della Corte dei conti e chiarisce che il finanziamento degli incentivi deriva da fonti esterne al bilancio, così da poter consentire l'incremento dei fondi per la contrattazione decentrata.
Occorrerà verificare se la magistratura contabile si farà convincere che la modifica normativa risolve i problemi creati con le interpretazioni restrittive fin qui espresse. Di certo, si deve osservare che non è la prima volta che letture rigorose e comunque non allineate con le esigenze gestionali degli enti da parte della Corte dei conti inducono il legislatore a correzioni di rotta mediante interventi normativi.
Era avvenuto qualcosa di simile anche relativamente al tema del computo delle assunzioni dei dirigenti a contratto ai sensi dell'articolo 110 del Tuel: la magistratura contabile riteneva prima che la spesa non rientrasse nel tetto di spesa dell'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, per poi cambiare idea; il legislatore ha stabilito che detta spesa non rientra nel tetto, ma la Corte dei conti con delibere successive ha confermato che, invece, la spesa per i dirigenti a contratto comunque sta nel tetto di spesa dei contratti flessibili.
È evidente che simili rimpalli di interpretazioni e rincorse a chiarire significati di norme, molte volte poco esplicite ma altre volte non così oscure e contraddittorie, finisce solo per creare grande disorientamento tra gli operatori, con comprensibili svantaggi di molti generi nell'attività gestionale (articolo ItaliaOggi del 20.12.2017).
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Al riguardo, si leggano anche i seguenti ulteriori documenti:
   ● Le modifiche approvate dalla Camera dei Deputati (Senato della Repubblica, dossier dicembre 2017);
   ● Sintesi degli emendamenti approvati dalla V Commissione Bilancio della Camera dei Deputati (Senato della Repubblica, dossier dicembre 2017).
Il Senato della Repubblica, il 23.12.2013, ha approvato il seguente disegno di legge d’iniziativa del Governo (Atto Senato n. 2960-B), già approvato dal Senato e modificato dalla Camera dei deputati: Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020 (in attesa di pubblicazione sulla G.U.R.I.).
Per quanto qui interessa, l'art. 1, comma 526, così dispone:
526. All’articolo 113 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma:
   «5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi ai tecnici solo se c’è il direttore dell’esecuzione.
Gli incentivi per forniture e servizi possono essere assegnati solo quando risulti obbligatorio incaricare un direttore dell’esecuzione diverso dal responsabile unico del procedimento.

Non può che essere letta in questo modo la previsione dell’articolo 113, comma 2, ultimo periodo, del dlgs 50/2016 come modificata dal decreto «correttivo», ai sensi del quale «la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione».
La previsione introdotta dal dlgs 56/2017 ha lo scopo chiarissimo di limitare quanto più possibile la spesa per incentivazione delle attività tecniche connesse agli appalti per l’acquisizione di beni e servizi, per evitare una crescita incontrollabile della spesa del personale. Sarebbe fin troppo facile eludere la norma, nominando sempre espressamente un direttore dell’esecuzione per ciascuna fornitura e ciascun servizio: significherebbe vanificare totalmente lo scopo della riforma.
Pare necessario, allora, leggere la previsione dell’articolo 113, comma 2, del codice dei contratti in stretta connessione con il punto 10 delle Linee Guida Anac 3/2016, dedicate al Rup di servizi e forniture.
Tale punto 10 evidenzia cinque casi nei quali il responsabile unico del procedimento non può coincidere col direttore dell’esecuzione:
   a) quando si tratta prestazioni di importo superiore a 500 mila euro;
   b) per interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico;
   c) per prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico);
   d) se si tratta di interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità;
   e) per ragioni concernente l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento.
Solo quando ricorrono queste ipotesi, da specificare e motivare in profondità nei provvedimenti con cui si incarica un direttore dell’esecuzione diverso dal responsabile unico del procedimento, appare possibile innescare l’incentivo. Ovviamente, nulla esclude che anche non ricorrendo le 5 ipotesi previste dal codice ciascuna amministrazione per fare fronte a particolari proprie esigenze organizzative disponga comunque di non far coincidere l’incarico di Rup con quello di direttore dell’esecuzione.
Il regolamento sull’assegnazione degli incentivi, allora, in questo caso dovrà essere estremamente chiaro nell’escludere che spetti la ripartizione degli incentivi (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).
aggiornamento al 31.07.2017
EDILIZIA PRIVATARecupero sottotetti, Scia o Pc. Lombardia.
Recupero abitativo dei sottotetti in Lombardia: regime giuridico da individuare di volta per volta sulla base degli elementi progettuali. In quanto essendo considerata «ristrutturazione edilizia», la disciplina applicabile non è più quello della denuncia di inizio attività. Potrà essere una Scia o un permesso di costruire per la ristrutturazione c.d. «leggera» e permesso di costruire o Scia alternativa per la ristrutturazione c.d. «pesante».

Questi i chiarimenti contenuti nella
circolare 20.07.2017 n. 10
della Regione Lombardia.
Le novità introdotte dai decreti legislativi n. 126 e n. 222 del 2016 -ricorda la circolare- hanno reso necessario l'adeguamento della modulistica per i titoli edilizi (si veda ItaliaOggi del 17.05.2017). Tutti i nuovi moduli edilizi unificati e standardizzati, approvati il 4 maggio e il 6 luglio scorsi in conferenza unificata, con accordo tra il governo, le regioni e gli enti locali, sono stati adeguati alle normative regionali e approvati, in un unico provvedimento, con la deliberazione della Giunta regionale Lombarda del 17.07.2017, n. 6894.
Nelle more di un aggiornamento e riallineamento della normativa regionale, i tecnici lombardi forniscono alcune considerazioni in merito ad aspetti della disciplina edilizia di più frequente ricorrenza: come noto, infatti, il dpr 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell'edilizia) è stato interessato negli ultimi tempi da ripetuti interventi di modifica. I funzionari Lombardi inoltre sottolineano che a fronte di una giurisprudenza costituzionale consolidata in questi anni, si è affermato espressamente che «la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato».
Pertanto la disciplina degli interventi edilizi dettata all'articolo 27 della legge regionale n. 12/2005 è da considerarsi superata, dovendosi ormai fare riferimento alle definizioni di cui all'articolo 3 del dpr 380/2001, in quanto disposizioni espressamente qualificate dalla corte costituzionale come «principi fondamentali della materia» (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).
ENTI LOCALI - VARI: Autovelox: addio cartelli con l’avviso se non c’è alcun controllo. Fuorilegge i cartelli che avvisano della presenza di un autovelox che poi non c’è o se il box ai margini della strada è vuoto.
Da oggi in poi, se troveremo un cartello con su scritto «controllo elettronico della velocità» vorrà dire che, molto probabilmente, l’autovelox c’è davvero. Non potranno più esistere –e se ci sono andranno rimossi– gli avvisi posti in quei luoghi ove la polizia non fa più le multe con i dispositivi di controllo a distanza come tutor, autovelox e telelaser.
A stabilirlo è il Ministero degli Interni che, due giorni fa, ha diramato una importante direttiva (direttiva 21.07.2017 n. 300/A/5620/17/144/5/20/3 di prot.  - che probabilmente, da oggi in poi, sarà meglio nota come circolare Minniti) e che aggiorna le regole stabilite dalla altrettanto famosa direttiva Maroni del 2009 in tema di prevenzione degli incidenti stradali e di contrasto alle violazioni del codice della strada. Tra i tanti aspetti trattati dal documento ministeriale vi è la messa la bando dei segnali permanenti che evidenziano l’accertamento elettronico della velocità se il tratto stradale non viene utilizzato sistematicamente per l’attività di controllo.
Addio quindi a tutta quell’infinita serie di segnali di avviso di controllo elettronico della velocità, disseminati qua e là sulle nostre autostrade, figli di epoche in cui l’utilizzo degli autovelox era selvaggio e massiccio.
Dopo i numerosi ricorsi da parte degli automobilisti, i Comuni hanno compreso che non basta più mettere un cartello con scritto «controllo elettronico della velocità» per poter fotografare un automobilista e poi inviargli la multa a casa. Ci sono distanze da rispettare, autorizzazioni Prefettizie da chiedere e segnaletiche da apporre. In tutto questo, anche se l’uso degli autovelox continua ad essere il principale spauracchio per molti automobilisti, di certo la tecnica del tranello si è dovuta raffinare rispettando le numerose (e spesso confuse) regole.
Ora, dopo otto anni dalla famosa circolare Maroni che aveva tentato di disciplinare l’utilizzo degli autovelox, la circolare Minniti chiede quantomeno un po’ di ordine: che si tolgano dai lati delle strade gli avvisi di controllo della velocità che non fanno altro che rallentare il traffico sul più bello anche laddove non ve n’è bisogno.
Diventano così fuori legge i segnali che avvertono della presenza di un controllore elettronico senza alcuna strumentazione nei paraggi.
Riportiamo il testo della circolare che qui interessa di più: «Per le postazioni temporanee possono essere utilizzati segnali collocati in modo permanente sulla strada solo quando la posizione dei dispositivi di rilevamento sia stata oggetto di preventiva pianificazione coordinata ed i loro impiego in quel tratto di strada non sia occasionale, ma, per la frequenza dei controlli, assuma il carattere di sistematicità.
Per «pianificazione del servizio di attività di controllo con misuratori di velocità» si intende quella possibilmente definita in seno alla conferenza provinciale permanente.
L’attività pianificata, se programmata con carattere sistematico, dovrà necessariamente assumere una natura non occasionale (esempio almeno X giorni la settimana per X mesi o con altra cadenza) assumendo a tal fine importanza prioritaria non tanto la determinazione di un numero X di controlli, ma la indicazione dell’intervallo temporale in cui viene effettuata l’attività di controllo stesso. Pertanto l’effettuazione di un numero X di periodi di controlli ripetuti, in un arco temporale definito, fa assumere all’attività di controllo il carattere di sistematicità. Ovvio che più è frequente l’attività meglio credibile risulta anche il segnalamento.
Salvo i caso sopracitati, infatti, l’utilizzazione di segnaletica permanente per segnalare postazioni temporanee, se pur non vietate dalle disposizioni vigenti, risulta non coerente con la tipologia utilizzata e con l’esigenza di credibilità che il messaggio segnaletico deve fornire. Pertanto, salvo i casi sopraindicati, le postazioni temporanee dovrebbero essere segnalate con segnali stradali temporanei
» (23.07.2017 - link a www.laleggepertutti.it).
ANNO 2016
aggiornamento al 09.12.2016
INCARICHI PROFESSIONALICodice appalti, due strade per i servizi degli avvocati. Alcuni dicono che serve una mini gara, altri sostengono l'affidamento diretto dell'incarico.
La nuova disciplina dei contratti pubblici sulla rappresentanza e difesa in giudizio della p.a..

Pasticciaccio sugli incarichi agli avvocati da parte delle p.a. dopo il nuovo codice degli appalti. C'è chi dice che bisogna fare una mini gara perché sono contratti di appalto, anche se si escludono le procedure più pesanti (gara pubblica) e c'è chi dice che è un contratto d'opera, assolutamente estraneo al campo di applicazione del codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).
Tutto sta nel fatto che proprio il nuovo codice dei contratti pubblici indica la rappresentanza e difesa in giudizio come «servizio escluso». Con questa classificazione, però, si apre la strada alla applicazione delle mini gare: se siamo di fronte a un contratto escluso dall'applicazione dei procedimenti ordinari, è pur vero che questo presupporrebbe che siamo nel campo della normativa sui contratto di appalto. Per stare al di fuori di questa logica, bisogna qualificare il contratto con l'avvocato incaricato della difesa in giudizio non come contratto di appalto di servizi, ma come contratto d'opera intellettuale.
Ma analizziamo le due impostazioni, mentre le p.a. vanno a tentoni e aspettano un chiarimento dalla giurisprudenza.
Appalto. Una tesi sostiene che gli incarichi ad avvocati sono appalto di servizio, per cui è escluso l'affidamento diretto su basi fiduciarie (in latino «intuitu personae»).
Questa tesi si appoggia sull'art. 17 del codice dei contratti, che inserisce, tra i contratti cosiddetti esclusi, i servizi legali, anche quelli concernenti la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato in un arbitrato o conciliazione, nei procedimenti giudiziari.
Secondo questa impostazione l'esclusione non significa che le amministrazioni hanno mano libera. Anzi è nuova la classificazione di queste attività come servizi ed è quindi preclusa la strada dell'affidamento dell'incarico ai sensi del codice civile, che vale solo per i committenti privati. Il risultato di questa impostazione è che bisogna applicare i principi generali degli appalti, tra cui l'economicità, la trasparenza, la par condicio tra i concorrenti.
Ci vorrebbe un avviso pubblico, precisando le caratteristiche del servizio, magari richiedendo particolari esperienze o specializzazioni. Si può acquisire le manifestazioni di interesse e poi passare a un confronto concorrenziale. Non si esclude la possibilità di una scelta diretta, ma solo se motivata da urgenza delle procedure.
Opera intellettuale. La tesi diametralmente opposta fa leva sull'articolo 4 del codice degli appalti. Questo articolo definisce l'ambito di applicazione dei dlgs 50/2016 ai soli contratti di appalto, tra cui non può essere inserito il mandato difensivo. L'appalto, infatti, è un contratto con cui l'appaltatore si assume il rischio connesso al compimento dell'opera o del servizio; nel mandato difensivo manca questa caratteristica, anzi l'articolo 2230 del codice civile esprime una regola del tutto diversa (tanto che si parla di obbligazione di mezzi e non di risultato).
Peraltro sarebbe opinabile una norma che impedisse a un soggetto giuridico di scegliersi il difensore, prerogativa certamente connaturata al diritto di difesa costituzionalmente garantito.
E non si potrebbe dire che il codice dei contratti del 2016 abbia abrogato implicitamente le disposizioni del codice civile sull'attività professionale. Infine viene ricordata la giurisprudenza del consiglio di stato che si era pronunciata nel senso di escludere le gare per gli affidamenti ai legali in vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006).
Secondo il Consiglio di stato, Sez. V, 11.05.2012 n. 2730 la scelta dell'avvocato per la difesa in giudizio dell'amministrazione costituisce prestazione intellettuale, estranea all'applicazione dell'obbligo di gara per i servizi legali.
Da ultimo ci si chiede come si possa fare a imbastire le procedure di mini gara quando scadono i termini processuali e si rischia di incaricare l'avvocato a ridosso delle scadenze. Ci si chiede altresì come possa sostenersi la necessità di rispettare il principio di economicità (prendere l'avvocato che offre il prezzo più basso) quando in giudizio vale la regola dell'accollo delle spese in base alla soccombenza in giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
aggiornamento al 31.10.2016
EDILIZIA PRIVATAIntesa sul regolamento edilizio unico. Entro sei mesi il recepimento delle Regioni, poi altri sei mesi per l’adozione nei Comuni.
Semplificazioni. Ieri la firma fra Infrastrutture, governatori e sindaci - In arrivo 42 definizioni standard valide per tutti gli enti locali

Accordo fatto sullo schema di regolamento edilizio nazionale, la principale riforma promessa dal governo Renzi in materia di semplificazione e vero “pezzo forte” dell’agenda sulle semplificazioni edilizie.
Il traguardo –storico– è stato raggiunto ieri in conferenza unificata, dopo una lunga e non facile discussione avviata a maggio del 2015 al tavolo presso il ministero guidato da Graziano Delrio con i rappresentanti di Comuni e Regioni.
A partire da oggi le Regioni hanno sei mesi di tempo per recepire lo schema di regolamento con un proprio provvedimento (legge o delibera). A partire dal recepimento regionale, gli enti locali avranno altri sei mesi per adottarlo. In altre parole –se tutto fila liscio e al limite massimo dei tempi fissati– in un anno il regolamento edilizio standard si trasformerà in realtà nei vari municipi d’Italia. C’è comunque da ricordare che l’impegno sottoscritto ieri riguarda in prima battuta le Regioni a statuto ordinario, ed è opzionale per quelle a statuto speciale.
Lo schema di regolamento edilizio approvato ieri si compone di tre parti: lo schema guida per la redazione del regolamento più due allegati.
Il cuore innovativo del regolamento sta negli allegati. L’allegato “a” elenca le 42 definizioni standard «uniformi» valide per tutti gli enti locali. È la prima volta che ci si mette d’accordo su un vocabolario unico per definire, per esempio, la «superficie netta», la «superficie utile» oppure anche solo l’«altezza dell’edificio».
Altrettanto rivoluzionario l’allegato “b” che elenca 118 norme statali che hanno un impatto sull’edilizia. L’aspetto innovativo sta nel fatto che, nel nuovo regolamento comunale, qualsiasi norma statale viene richiamata esclusivamente attraverso il rinvio all’allegato “b”. In questo modo si mette fine alla prassi che ha finora visto i Comuni accogliere e fissare nei loro regolamenti norme statali –o anche solo pezzi di norme nazionali– che magari venivano poi modificate dal legislatore statale.
In altre parole il regolamento unico spazza via l’attuale babele che si è creata negli anni a causa della “personalizzazione” municipale. Infine c’è lo schema unico, che rappresenta una guida per la redazione, e ha la forma di un indice, che spetta al Comune riempire di contenuti.
Fin qui lo schema generale. C’è da dire che il regolamento unico in realtà non sarà unico. Ciascuna regione può infatti aggiungere proprie norme che hanno incidenza sull’attività edilizia, e di cui il comune dovrà tenere conto. Non solo. Le regioni potranno, in via transitoria, modificare «le definizioni (uniformi) aventi incidenza sulle previsioni dimensionali» dei piani regolatori. La formula, spiegano i tecnici, è stata concessa per consentire a un ristretto numero di regioni (e solo in via transitoria) di non impattare sulle volumetrie previste dagli strumenti urbanistici.
Questo obiettivo, spiegano sempre i tecnici, può essere conseguito con limitati interventi sulla definizione di «superficie accessoria». L’accordo impegna tuttavia le Regioni a ritornare alla versione originale della definizione «nei propri provvedimenti legislativi e regolamentari, che saranno adottati» dopo l’accordo firmato ieri.
Poi ci sono gli Enti locali, che a loro volta potranno integrare lo schema con proprie misure che vanno oltre le regole comuni, per esempio in materia di performance energetiche o materiali “bio”.
Se le Regioni recepiscono lo schema di regolamento, il comune è anch’esso obbligato ad adottarlo; e se non lo fa, scaduti i sei mesi, le definizioni uniformi e le norme sovraordinate (statali e regionali) «trovano diretta applicazione». Se invece le Regioni non si adeguano entro la loro scadenza –ovviamente non sono previste sanzioni– il comune può recepire il regolamento ma non è obbligato a farlo
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
EDILIZIA PRIVATAUna lingua comune in edilizia. Regolamento tipo con 42 definizioni standardizzate. La Conferenza unificata ha sancito l'intesa sul decreto del ministero delle infrastrutture.
Via libera definitiva dalla Conferenza unificata al regolamento edilizio tipo. Sarà costituito da un unico glossario per l'intero Paese e un elenco di titoli che saranno il corpo dei regolamenti edilizi in tutti i comuni. Le 42 definizioni allegate allo schema di regolamento rappresentano una sorta di mini vocabolario per cui termini come porticato, tettoia o veranda avranno lo stesso significato in tutta la Penisola.
Suddiviso in due parti conterrà: un capitolo dedicato ai princìpi generali e un secondo alle disposizioni regolamentali comunali.
La Conferenza unificata del 20.10.2016 ha espresso parere positivo allo schema di decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Graziano Delrio, sul regolamento edilizio tipo che contiene al suo interno le 42 definizioni standardizzate adottate già all'inizio dell'anno.
Dal momento dell'accordo (tra regioni, governo e comuni raggiunto il 20.10.2016), le regioni avranno 180 giorni di tempo per recepire il regolamento edilizio tipo e stabiliranno le scadenze a cui i comuni si dovranno attenere per uniformarsi. Per favorire la conoscibilità della disciplina generale dell'attività edilizia avente diretta e uniforme applicazione, i comuni provvederanno alla pubblicazione del link nel proprio sito istituzionale.
Doppia suddivisione del regolamento. Il regolamento edilizio tipo si dividerà in due diversi parti. Nella prima rubricata «principi generali e disciplina generale in materia edilizia» è richiamata e non riprodotta la disciplina generale dell'attività edilizia operante in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e regionale. Nella seconda denominata «disposizioni regolamentari comunali in materia edilizia» è raccolta la disciplina regolamentare in materia edilizia di competenza comunale, la quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il territorio statale. I requisiti tecnici integrativi devono essere espressi attraverso norme prestazionali, che fissino risultati da perseguirsi nelle trasformazioni edilizie.
Le prestazioni da raggiungere potranno essere prescritte in forma quantitativa, ossia attraverso l'enunciazione di azioni da praticarsi affinché l'intervento persegua l'esito atteso.
Prima parte regolamenti edilizi. Nella prima parte dei regolamenti edilizi, al fine di evitare inutili duplicazioni delle disposizioni nazionali e regionali, basterà richiamare con apposita formula di rinvio, la disciplina relativa alle materia di seguito elencate, la quale opererà direttamente senza la necessità di un atto di recepimento nei regolamenti edilizi:
- definizioni uniformi dei parametri urbanistici e edilizi;
- definizioni degli interventi edilizi e delle destinazioni d'uso;
- procedimento per il rilascio e la presentazione dei titoli abilitativi edilizi e le modalità di controllo degli stessi;
- modulistica unificata edilizia, gli elaborati e la documentazione da allegare alla stessa;
- requisiti generali edilizi (ad esempio servitù militari, accessi stradali e siti contaminati);
- disciplina relativa agli immobili soggetti a vincoli e tutele di ordine paesaggistico, ambientale , storico culturale e territoriale;
- discipline settoriali aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia, tra cui la normativa sui requisiti tecnici delle opere edilizie e le prescrizioni specifiche stabilite dalla normativa statale e regionale per alcuni insediamenti e impianti.
Seconda parte regolamenti edilizi. La seconda parte dei regolamenti edilizi, avrà per oggetto le norme comunali che attengono all'organizzazione e alle procedure interne dell'ente nonché alla qualità, sicurezza, sostenibilità delle opere edilizie realizzate, dei cantieri e dell'ambiente urbano, anche attraverso l'individuazione dei requisiti tecnici e integrativi complementari, rispetto alla normativa uniforme richiamata nella prima parte del regolamento edilizio (articolo ItaliaOggi del 21.10.2016).
PUBBLICO IMPIEGO"Nove anni di mobbing per le mie segnalazioni".
Una strada di 423 metri diventò magicamente di 1,7 chilometri. Non potevo restarmene zitto.

«Alla fine, dopo aver girato per mezza Italia, l'Inail mi ha riconosciuto la malattia professionale per mobbing».
L'ingegnere civile Vito Sabato sa bene qual è il prezzo da pagare per chi denuncia le corruttele.
«Inizia tutto nel 2006 -racconta- quando feci una prima segnalazione al Comune di Pavia perché venivano truccate le gare dei lavori stradali: pagavamo fino a tre volte lo stesso committente. In un altro caso abbiamo sborsato soldi senza che fosse eseguita la prestazione». Degli illeciti continui, ai limiti dell'immaginazione.
«Una strada di 423 metri diventò magicamente di un chilometro e sette». E poi, come se non bastasse, nuove segnalazioni sulle irregolarità nelle modalità di assunzione dei dirigenti comunali. Con concorsi banditi e poi revocati «per favoritismi clientelari».
L'ingegnere Sabato ha denunciato, salvo pagarne il conto in termine di carriera e salute. «Siamo al paradosso: mi hanno messo in un settore che non è il mio. E mi sono ritrovato a fare fax e poco altro», racconta Sabato. Una situazione paradossale: «Pensi che il Comune è arrivato a chiedere a me, che sono ancora un suo dipendente, una consulenza su un parcheggio sotterraneo».
L'anno scorso Sabato ha anche ricevuto un simbolico premio produzione, poco meno di 200 euro: lui ha pubblicato copia del bonifico su Facebook e l'ha restituito. Perché sostiene di essere stato messo da parte dal 2007, ormai nove anni fa.
«Cosa vuole che le dica? Io ci ho solo rimesso, anche di salute. Ho subito delle violenze psicologiche aggravate e continuate che hanno influito sulla mia vita privata», racconta il 58enne. «Adesso ho la malattia professionale, ma se tornassi indietro lo rifarei. Non è cambiato nulla ma non potevo scendere a compromessi con la mia coscienza. Forse -conclude Sabato- se la gente si comportasse così in Italia avremmo un po' meno corruzione»
(articolo La Stampa del 12.10.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
aggiornamento al 14.06.2016
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Strade, reti e servizi: il Codice appalti riscrive le procedure. Realizzabili senza gara gli interventi extra-standard.
Opere di urbanizzazione. Regole diverse per i lavori a scomputo.

La nuova disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs 50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i costruttori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.
Il vecchio sistema
Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a 5.225.000 euro per gli appalti di lavori).
In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con valore superiore alla soglia seguiva una procedura a evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara –aperta o ristretta– previsto dal vecchio Codice. Mentre l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito rivolto ad almeno cinque soggetti idonei (articolo 122, comma 8, Dlgs 163/2006).
In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001 (introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria -sempreché funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica- potevano invece essere realizzate a cura del titolare del permesso di costruire (ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata prevista all’articolo 122, comma 8.
Il nuovo sistema
Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal nuovo Codice. Così come, per le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista dal comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara (articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).
Le opere non a scomputo
Altra novità rilevante, ma all’insegna della semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai costruttori.
A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare le procedure a evidenza pubblica viene normalmente riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione. E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo (ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).
In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a realizzarle.
L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando un’amministrazione stipula una convenzione con cui un soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune, un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.
In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione svolga una funzione di controllo preventivo: prima della stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di inadempimento.
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Per importi elevati si applica ancora l’iter ordinario. Valori rilevanti. Confermata la prassi del Dlgs 163/2006.
Il quadro dei procedimenti previsti per realizzare le opere di urbanizzazione a scomputo è stato parzialmente rivisto.
Pur continuando a differenziare, a livello nominale, tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di valore superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria, il Dlgs 50/2016 mantiene solo alcune delle distinzioni del precedente assetto normativo (Dlgs 163/2006).
Per quanto concerne le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia di rilevanza comunitaria, la scelta del soggetto a cui affidare i lavori è rinviata dal nuovo Codice –così come dal previgente– alle ordinarie procedure di gara, aperte o ristrette, previa pubblicazione di un bando o un avviso (si veda l’articolo a lato).
In caso di procedura aperta, qualsiasi operatore economico interessato potrà dunque presentare un’offerta in risposta all’avviso di gara. Mentre nelle procedure ristrette si dovrà presentare una specifica «domanda di partecipazione», e solo gli operatori economici espressamente invitati –dopo l’opportuna valutazione– potranno presentare un’offerta.
Diversamente da quanto previsto in passato, per effetto dell’articolo 36, comma 3, del Dlgs 50/2016, le procedure ordinarie sono oggi applicabili anche per l’affidamento dei lavori per le opere di urbanizzazione primaria, non funzionali all’intervento, e secondaria a scomputo, anche se di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Nel quadro complessivo relativo alla realizzazione delle opere di urbanizzazione permane, in ogni caso, un’eccezione.
Il nuovo Codice appalti fa infatti salvo quanto previsto dal comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001 secondo cui, nell’ambito degli strumenti attuativi, nonché degli interventi in attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia -se funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio- è a carico del titolare del permesso di costruire, e non si applicano le disposizioni in materia di contratti pubblici.
In tali fattispecie, la realizzazione delle opere potrà dunque avvenire prescindendo dalle regole per la selezione a evidenza pubblica dell’appaltatore previste dal nuovo Codice. Come rilevato dall’Autorità nazionale anticorruzione (nella deliberazione 46 del 03.05.2012), con la norma in esame «il legislatore ha di fatto estromesso detta tipologia di lavori dalla categoria delle opere pubbliche».
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La convenzione già stipulata segue la vecchia normativa. Entrata in vigore. Fuori dal DLgs 50/2016 gli accordi aggiudicati prima del 20 aprile.
Il Codice degli appalti «entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» e «si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore».
Così è scritto nel Dlgs 50/2016, che è stato pubblicato online sulla Gazzetta Ufficiale (n. 91) il 19 aprile scorso, ma dopo le 22. Tale circostanza –come ha spiegato l’Anac con nota del 3 maggio scorso– impone che, in base all’articolo 11 delle preleggi al Codice civile e «all’esigenza di tutela della buona fede delle stazioni appaltanti», le disposizioni del decreto si applichino a bandi e avvisi pubblicati a decorrere dal 20.04.2016.
La stessa Autorità anticorruzione, pochi giorni dopo quella nota, ha però dovuto chiarire a quali ulteriori casi specifici –oltre quelli enunciati dalla norma– continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti. Con un comunicato del presidente Raffaele Cantone, l’11 maggio è stato dunque precisato che le norme del “vecchio” Dlgs 163/2006 valgono anche per gli «affidamenti diretti o procedure negoziate in attuazione di accordi quadro aggiudicati prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice» e per le «adesioni a convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice».
Il chiarimento dell’Anac sembra fondarsi sulla necessità di garantire l’affidamento generato dalle convenzioni stipulate con l’amministrazione, che prevedano l’applicazione di determinate procedure, nonché sulla necessità di salvaguardare le attività già avviate ai fini delle procedure stesse: ciò anche in conformità ai principi di efficacia ed efficienza della Pa enunciati all’articolo 97 della Costituzione.
Ma il chiarimento può avere notevole incidenza sulle opere di urbanizzazione a scomputo previste nell’ambito delle convenzioni urbanistiche, per le quali è mutato il regime di scelta dell’appaltatore (si vedano l’articolo e lo schema in pagina). Il richiamo alle «convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice» sembra infatti riferibile anche a tale specifica tipologia di accordi: in particolare, a tutti i casi in cui la convenzione urbanistica disciplini le modalità per la selezione dell’impresa o comunque contenga previsioni tali da generare un affidamento sul soggetto attuatore.
Al contrario, alle convenzioni urbanistiche che non dispongono sulle procedure per realizzare le opere di urbanizzazione, e per le quali non siano comunque stati pubblicati i relativi bandi o avvisi, dovrebbe applicarsi il regime del nuovo Codice, con conseguenze di forte apertura (si pensi alle opere extra-oneri ora tendenzialmente liberalizzate) o di appesantimento procedurale (come nel caso delle opere secondarie sotto soglia ora soggette alle procedure a evidenza pubblica ordinarie).
Ad ogni modo, il tema potrà essere ulteriormente declinato grazie alle linee giuda che l’Anac è impegnata ad adottare entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Dlgs 50/2016, per offrire indicazioni interpretative e attuative agli operatori del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
aggiornamento al 31.03.2016
APPALTI: Convenzioni Consip optional. Nessun obbligo per gli enti. Acquisti extra senza nulla osta. Lo conferma il Mef con la circolare sul contenimento delle spese dei conti pubblici.
Gli enti locali hanno la facoltà e non un obbligo di aderire alle convenzioni-quadro della Consip o degli altri soggetti aggregatori.

Lo conferma la circolare 23.03.2016 n. 12 del Mef, in tema di misure di contenimento delle spese dei bilanci pubblici. Indirettamente, quindi, la circolare conferma che agli enti locali non si applicano (se non in parte) le disposizioni contenute nell'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015.
Come è noto, la disposizione da ultimo citata ha suscitato una serie di problemi applicativi, perché subordina la possibilità delle amministrazioni di effettuare acquisizioni di beni e servizi al di fuori delle convenzioni quadro solo previa autorizzazione specificamente motivata resa da un non meglio identificato «organo di vertice amministrativo».
Nell'ambito degli enti locali si è immediatamente posto il problema di identificare tale organo. Le tesi in campo sono due. Secondo una prima tesi, non essendo l'autorizzazione un atto inerente la gestione ma la programmazione e il controllo, la competenza è della giunta. Secondo la seconda tesi, al contrario, spetta al segretario comunale emanare l'autorizzazione.
In questo secondo filone interpretativo si è inserita la Corte dei conti, sezione Liguria, con la deliberazione 24.02.2016 n. 14. Una decisione che, tuttavia, ha destato parecchie perplessità, perché ha considerato l'autorizzazione alla stregua di un atto gestionale ed ha, inoltre, considerato come già vigente negli enti locali il «dirigente apicale», che invece è solo oggetto di una futura attuazione della legge 124/2015.
Non si è trattato degli unici elementi critici della deliberazione della sezione Liguria. Tra essi, ha spiccato proprio l'assenza dell'analisi in merito all'obbligatorietà dell'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015 per gli enti locali. La sezione lo ha dato per scontato.
Tuttavia, si tratta di un'omissione di analisi piuttosto rilevante. Infatti, l'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015 impone l'autorizzazione preventiva per effettuare acquisizioni fuori convenzioni solo alle «amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip spa, ovvero dalle centrali di committenza regionali».
Ma, come spiega la circolare 12/2016 alle convenzioni-quadro «le amministrazioni pubbliche, diverse dalle amministrazioni statali centrali e periferiche, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità indipendenti, hanno facoltà di ricorrere ai sensi dell'articolo 1, comma 449, della legge 27.12.2006, n. 296, e fermo restando l'obbligo, in caso di mancato ricorso, dell'utilizzo dei relativi parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti». E gli enti locali rientrano tra le amministrazioni diverse da quelle statali centrali e periferiche.
Non essendovi, dunque, per i comuni e le province, l'obbligo di utilizzare le convenzioni-quadro, non c'è nemmeno l'obbligo di far precedere le acquisizioni extra convenzioni da alcuna autorizzazione, né di trasmettere l'autorizzazione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
L'autorizzazione, invece, appare necessaria ai sensi dell'articolo 1, comma 516, della legge 208/2015, ai fini dell'acquisizione di beni e servizi informatici. Allo stesso modo, l'autorizzazione è da ritenere necessaria per l'acquisizione dei beni e dei servizi previsti dal dpcm 24.12.2015 di attuazione dell'articolo 9, comma 3, del dl 66/2014, convertito in legge 89/2014.
In questi casi, resta ancora aperto il problema dell'individuazione dell'organo di vertice amministrativo competente negli enti locali (articolo ItaliaOggi del 30.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
LAVORI PUBBLICI: Per i piccoli lavori ridotte pubblicità e trasparenza. Codice appalti. Sotto il milione inviti a meno imprese.
Paletti più laschi sull’assegnazione degli appalti sotto al milione di euro. È lo scenario che si verificherà senza una correzione di rotta prima dell’approvazione finale del nuovo codice dei contratti pubblici.
Un paradosso clamoroso, considerando lo spirito della legge delega approvata in Parlamento, mirata a garantire massima trasparenza e rigore nella lotta alla corruzione, dopo le inchieste sulle gare truccate messe in moto dalle procure di mezza Italia.

Gli appalti sotto al milione rappresentano il cuore delle opere pubbliche: circa l’80% delle gare (12.754 su 15.870, secondo i dati Cresme 2015) riguardano interventi sotto questa soglia. E proprio in questa fascia, dove si annida la “zona grigia” degli appalti, il nuovo codice rischia di alleggerire obblighi di pubblicità e concorrenza. Vincoli, già tutt'altro che a a prova di bomba, considerata anche la scelta di far cadere gli obblighi di pubblicità sui giornali, per tutti gli appalti, dall’anno prossimo.
Nulla cambia per i piccoli contratti (sotto i 40 mila euro) dove sia ora che in futuro rimane l’affidamento diretto a imprese di fiducia della stazione appaltante. Per il resto, non si può fare a meno di notare che viene anzitutto confermata la scelta compiuta nel 2011 dal governo Berlusconi di mantenere la soglia, raddoppiata allora da 500mila euro a un milione, per la procedura negoziata basata su indagini di mercato.
Resta, così, la possibilità di assegnare sostanzialmente senza gara un’ampia quota di lavori. Anche con il nuovo codice, per i lavori sotto al milione, le Pa non dovranno pubblicare alcun vero bando sull’intenzione di assegnare una commessa, se si eccettua un semplice avviso pubblicato sul proprio sito, per un periodo minimo di 15 giorni, con l’indicazione dei requisiti necessari a svolgere il compito.
Più nel dettaglio, per i lavori fino a 150 mila euro, in futuro si potranno invitare solo tre imprese invece che cinque. Ma è soprattutto negli appalti tra 500mila euro e un milione che avverrà la “semplificazione” maggiore. Mentre ora servono almeno 10 inviti, in futuro ne basteranno cinque. Addio poi alla pubblicità post-aggiudicazione di valore più “formale”. Mentre ora bisogna pubblicare la notizia dell’aggiudicazione e la lista degli invitati sulla Gazzetta Ufficiale e su almeno due quotidiani (uno a tiratura nazionale, l’altro locale, oltre che sui siti istituzionali), il nuovo codice mantiene solo un generico richiamo all’obbligo di pubblicità successiva. Non solo.
Insieme ai lavori, va segnalato anche che con il nuovo codice raddoppia da centomila a 209mila euro le soglie per gli affidamenti a “trattativa privata” degli incarichi di progettazione.
Insomma, nessun faro acceso su i “piccoli” appalti. A meno di un futuro intervento dell’Anac di Cantone, cui toccherà il compito di «migliorare la qualità delle procedure» per assegnare i tantissimi micro-cantieri, che già oggi viaggiano all’ombra
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTINiente accatastamento per le reti di Tlc. Infrastrutture. Il chiarimento è fornito dal decreto attuativo della direttiva 2014/61.
Il decreto attuativo della direttiva 2014/61 fa chiarezza: le infrastrutture di reti di comunicazione elettronica non vanno accatastate. Le infrastrutture di telecomunicazione non sono unità immobiliari e, come tali, non vanno iscritte in catasto e non soggiacciono alla fiscalità conseguente.
È d’impatto l’intervento del legislatore che, nell’ambito del decreto legislativo 33/2016 attuativo della direttiva 2014/61/Ue sulla riduzione dei costi delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità, ha deciso di dare una svolta all’annosa questione dell’accatastamento delle infrastrutture Tlc. Si tratta dei tralicci, ripetitori, stazioni radio base, antenne -oltre alle opere per l'installazione della rete- ancorati a muri o altri supporti oppure impiantati dentro aree recintate.
In passato sia l’agenzia del Territorio (circolare 4/2006, 6/2012) sia la giurisprudenza si sono occupate del trattamento catastale: la prima per affermarne l’obbligo di accatastamento (in forma autonoma o come variazioni di preesistenti unità immobiliari); la seconda talvolta si è adeguata alla posizione dell’Agenzia, più spesso ha invece accolto i ricorsi che ne sostenevano l’irrilevanza sul piano catastale, specie in virtù dell’assimilazione alle «opere di urbanizzazione primaria» (articolo 86, comma 3, del Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con il decreto legge Sblocca Italia del 2014 sembrava che la questione fosse risolta a favore di questa seconda interpretazione, essendo stabilito che le infrastrutture Tlc costituiscono opere di urbanizzazione primaria.
La Corte di Cassazione però con la sentenza 24026/2015 in materia di Ici (si veda «Il Sole 24 Ore» del 26.11.2015) ha di recente sposato la tesi del Fisco. Invero, la Suprema corte non ha minimamente affrontato il punto che il decreto legge Sblocca Italia mirava a risolvere e, con scarna motivazione, ha deciso per l’accatastamento dei ripetitori di telefonia mobile nella categoria D.
L’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 33/2016 rimette ordine: non solo le reti ad alta velocità in fibra ottica, ma tutte le infrastrutture comprese negli articoli 87-88 Cce, da chiunque possedute, sono da considerarsi beni diversi dalle unità immobiliari in base al Dm 28/1998 e per questo esclusi dall’accatastamento e dai tributi che ne conseguono (Imu, Tasi, Ici a suo tempo).
Ciò che rileva, infatti, non è tanto l’autonomia funzionale e reddituale di queste infrastrutture -e neppure la destinazione a interesse collettivo per cui in passato sono state talvolta classificate nella categoria E/3- ma il fatto che il legislatore ne riconosca una «pubblica utilità», analoga per esempio a quella delle fognature o della rete idrica. La norma, peraltro, dovrebbe avere portata interpretativa, visto che, secondo la relazione illustrativa, rappresenta un «chiarimento» volto a esplicitare quanto già previsto dal Cce.
Natura questa confermata dalla sua collocazione sistematica, nell’articolo 12 tra le «disposizioni di coordinamento», dove al comma 1 si ribadisce che in caso di discordanze prevalgono le norme del Cce.
Per effetto, il Fisco e gli enti locali non solo dovranno escludere dall’accatastamento le nuove infrastrutture di telecomunicazione, ma anche rinunciare alle pretese di accatastamento già avanzate
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
APPALTI: Giro di vite sugli appalti illeciti. Con la depenalizzazione sanzioni fino a 50 mila euro. I rischi per le aziende a seguito dell'entrata in vigore il 6 febbraio scorso del dlgs 8/2016.
Arriva la depenalizzazione in materia di appalti illeciti, ma per le aziende, forse, c'è poco di cui rallegrarsi. Infatti, ciò non significherà meno «punizioni». Anzi. Dal 6 febbraio gli ispettori del lavoro sono in agguato per contestare «in proprio» anche gli (ex) reati commessi nel passato e non ancora prescritti. Per gli illeciti aumentano anche le sanzioni, ora tra gli 5.000 e gli 50.000.

A partire dal 6 febbraio il dlgs n. 8/2016 ha reso illeciti amministrativi molte fattispecie di reato di natura contravvenzionale, punite per lo più con la sola ammenda (ossia la minore pena pecuniaria). Tra di essi vi sono anche i reati previsti dall'art. 18, dlgs 276/2003, quelli attinenti la somministrazione illecita di manodopera, come pure il distacco di personale e i pseudo appalti di servizi labour intensive.
Insomma, il classico caso della cooperativa di lavoro che, fingendo di appaltare un servizio, in realtà «impresta» personale. Sul punto nei giorni scorsi si è espressa la Corte di cassazione, con la sent. 10484/2016, ribadendo, come anche lo stesso ministero del lavoro con la circolare n. 6/2016, che fornire manodopera da parte di soggetti non autorizzati (cioè, non agenzie per il lavoro), continua ad essere vietato dall'ordinamento.
Ciò che oggi cambia, sono le sanzioni, non più penali, dunque, e naturalmente, per così dire, l'approccio repressivo. Che peggiora senz'altro. Va detto che fino a oggi tutto il meccanismo punitivo era basato, in linea di massima, sulla difficile sincronia tra l'azione degli ispettori del Ministero del lavoro e quella delle procure della repubblica. Soprattutto a causa del fatto che le contestazioni in materia di somministrazione di lavoro era poco «trattata degli uffici giudiziari» (dati i sovente notevoli carichi di lavoro che li faceva propendere per fattispecie di ben altra gravità penale e di ritenuto maggiore disvalore sociale), gli stessi uffici del lavoro sono apparsi non di rado in difficoltà nel reprimere situazioni, talvolta, dubbie.
A disincentivare un'eccessiva attenzione su tali divieti si aggiungeva la circostanza di un sistema repressivo che, quantunque penalistico nominalmente, in realtà si era negli anni già sostanzialmente depenalizzato. Senz'altro in forme di maggiore favore rispetto alle quelle oggi previste dal dlgs 8/2016. Infatti, grazie alla possibilità di regolarizzare il reato, estinguendolo, con il pagamento di una somma in via amministrativa (ex dlgs 758/1994), bastavano spesso pochissimi euro per mettere le cose a posto. Per esempio, nel caso di somministrazione illecita di un lavoratore per dieci giorni, erano sufficienti 125 (ossia un quarto dell'ammenda giornaliera, 50, come previsto per legge) a definire il reato.
Oggi, ex art. 1, comma 6, dlgs 8/2016, la stessa somma in via amministrativa «non può, in ogni caso, essere inferiore a 5.000». In definitiva, chi non ha sanato entro il 6 febbraio, si trova ora in questa esatta condizione. Così oggi, tolte di mezzo per legge le Procure e chiamate in causa le direzioni territoriali del ministero del lavoro (e presto le sedi territoriali del nuovo Ispettorato nazionale del lavoro), c'è da aspettarsi che la gestione in proprio, con contestazioni da parte degli ispettori e azioni di recupero pecuniario per mezzo delle ingiunzioni degli uffici, creerà, rispetto al passato, una ben diversa pressione e conseguente contenzioso.
Del resto, che quello della contestazione di appalti e distacchi illeciti rischi di diventare un leitmotiv ispettivo della seconda parte del 2016, sembra una non difficile previsione, dato che il dlgs 8/2016 ha previsto l'obbligo per le procure della repubblica di trasmettere entro 90 giorni alle direzione del ministero del lavoro i fascicoli in loro possesso.
Gli ispettori saranno poi chiamati per legge alle contestazioni nei successivi 90 giorni. Come a dire che, se tutto «fila liscio» (cioè nei tempi di legge), entro agosto, alle aziende di cui sono stati rilevati reati gli anni scorsi, dovrebbe essere richiesto il pagamento delle nuove sanzioni amministrative (articolo ItaliaOggi del 29.03.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
aggiornamento al 09.03.2016
APPALTI: Centralizzazione degli acquisti, per le deroghe serve il via libera del «vertice amministrativo» (nei Comuni è il segretario).
Gli acquisti di beni e servizi in deroga agli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori regionali devono essere autorizzati dagli organi amministrativi di vertice delle pubbliche amministrazioni e sono assoggettati a specifiche comunicazioni.
L'intervento della manovra
La legge n. 208/2015 ha definito norme molto rigorose sul possibile approvvigionamento autonomo da parte delle amministrazioni, quando il prodotto o il servizio disponibile con le convenzioni centralizzate non sia idoneo al soddisfacimento del loro specifico fabbisogno per mancanza di caratteristiche essenziali.
La regolamentazione della deroga è prevista sia in termini generali (comma 510) sia con riferimento specifico a beni e servizi informatici (comma 516), ma le disposizioni della legge di stabilità 2016 devono essere connesse con l'articolato quadro normativo vigente in tema di razionalizzazione degli acquisti per individuare i presupposti applicativi, soprattutto con riguardo agli enti locali.
Il quadro delle regole
Gli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori regionali in base all'art. 26 della legge n. 488/1999 sono definiti:
• dall'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, che prevede un obbligo assoluto per le amministrazioni statali e per gli enti del servizio sanitario nazionale, nonché una facoltà di utilizzo da parte delle altre amministrazioni, tuttavia con obbligo relativo di fare riferimento ai parametri qualità-prezzo per gli acquisti gestiti in autonomia;
• dall'articolo 1, comma 7, del Dl 95/2012 convertito nella legge 135/2012, che stabilisce l'obbligo di ricorso alle convenzioni stipulate da Consip e dai soggetti aggregatori regionali per alcune categorie merceologiche di beni e servizi (telefonia, energia elettrica, gas, carburanti, eccetera), riferendolo a tutte le pubbliche amministrazioni;
• dall'articolo 9, comma 3, del Dl 66/2014 convertito nella legge 89/2014, il quale prevede l'obbligo di utilizzo delle convenzioni stipulate dai soggetti aggregatori (Consip e centrali di committenza regionali) per alcune tipologie di beni e servizi di valore superiore a una determinata macro-soglia.
La previsione del decreto "spending review" del 2012 è stata peraltro recentemente modificata dall'articolo 1, comma 494 nella parte in cui consente alle amministrazioni di procedere autonomamente, a condizione di sviluppare procedure a evidenza pubblica e con una base d'asta inferiore del 3 o del 10 per cento ai valori delle convenzioni.
Rispetto a questo quadro, il comma 510 della legge di stabilità 2016 ha stabilito una regola generale per disciplinare le eventuali procedure autonome di approvvigionamento da parte delle amministrazioni pubbliche assoggettate agli obblighi di utilizzo delle convenzioni stipulate da Consip o dai soggetti aggregatori.
Le condizioni
Il presupposto oggettivo in base al quale può essere esperita questa possibilità si determina quando il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali.
La procedura autonoma di acquisto, però, è sviluppabile esclusivamente a seguito di autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti (la sezione regionale di controllo, deputata a queste attività di verifica anche da altre disposizioni di legge). L'eccezionalità del processo di acquisto autonomo rispetto all'obbligo di utilizzo delle convenzioni centralizzate (su base nazionale o regionale) è sottoposta al vaglio autorizzativo dell'organo di vertice amministrativo.
Questa definizione esclude gli organi politici (in altre disposizioni, il legislatore ha specificato il riferimento all'organo di indirizzo politico-amministrativo) e risulta assimilabile a quella di contenuto analogo, esplicitata nell'articolo 1, comma 2, lettera i), del Dlgs 39/2013 con riferimento agli incarichi amministrativi di vertice, intesi come gli incarichi di livello apicale, quali quelli di segretario generale, direttore generale o posizioni assimilate nelle pubbliche amministrazioni conferiti a soggetti interni o esterni all'amministrazione o all'ente che conferisce l'incarico, che non comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione.
I compiti del segretario
Nei comuni, ad esempio, l'organo di vertice amministrativo è individuabile, secondo questo schema comparativo, nel segretario generale e sembra connettersi ai ruolo dallo stesso svolti come figura di riferimento del sistema dei controlli interni e come responsabile della prevenzione della corruzione, in una prospettiva di verifica a spettro ampio su scelte di acquisto derogatorie, quindi rischiose sia sotto il profilo legittimistico sia, potenzialmente, sotto quello dei possibili fenomeni corruttivi.
Lo schema autorizzativo in capo all'organo di vertice amministrativo è replicato dal comma 516 della legge 208/2015, che lo prevede per approvvigionamenti di beni e servizi informatici al di fuori dell'obbligo di ricorso a Consip e ai soggetti aggregatori, sempre sulla base del presupposto oggettivo di inidoneità del bene o servizio disponibile in convenzione rispetto agli specifici fabbisogni dell'amministrazione.
La disposizione, tuttavia, prevede un ulteriore presupposto oggettivo che può permettere l'esperimento della procedura autonoma, rilevabile nei casi di necessità e urgenza, quando gli acquisti siano funzionali ad assicurare la continuità della gestione amministrativa. La decisione di acquisto in autonomia per i beni e i servizi informatici deve essere comunicata all'Anac e all'Agid.
In entrambe i casi (la disposizione generale del comma 510 e quella specifica del comma 516) l'autorizzazione al processo di acquisizione deve essere specificamente motivata, quindi con una dettagliata analisi della sussistenza dei presupposti oggettivi, supportata da un confronto sulle specifiche tecniche tale da consentire l'evidenziazione della radicale difformità rispetto al fabbisogno dell'amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.01.2016 - tratto da www.elenafissore.it).
APPALTI: Per tutti i comuni acquisti in autonomia sotto i 40 mila euro.
Facoltà per tutti i comuni di procedere in autonomia sotto la soglia dei 40.000 euro. Facoltà di derogare alle convenzioni Consip o delle centrali di committenza regionali quando il bene, o il servizio, offerto non sia idoneo a soddisfare i fabbisogni dell'amministrazione. Facoltà di bypassare il MePa fino a 1.000 euro.

Sono queste le principali novità in materia di acquisti degli enti locali previste dalla legge di stabilità 2016 (legge 208/2015). Tutte, pur confermando la generale tendenza alla centralizzazione, puntano a rendere l'obbligo meno rigido per le commesse di importo modesto o quando vi siano esigenze particolari non standardizzabili.
In questa direzione si muove innanzitutto il comma 501, che estende a tutti i comuni la possibilità di effettuare acquisti in via autonoma sotto la soglia dei 40.000 euro. In precedenza, la deroga era consentita ai soli municipi con popolazione superiore a 10.000 abitanti.
Restano ferme, peraltro, le norme che impongono di fare ricorso alle convenzioni Consip e a quelle stipulate dalla centrali di committenza regionali. Per quanto riguarda gli enti locali, tuttavia, tale obbligo riguarda solo le fattispecie previste dall'art. 9, comma 3, del dl 66/2014 (che prevede l'individuazione ogni anno di categorie di beni e servizi e relative soglie di valore al superamento delle quali è comunque obbligatorio ricorrere a Consip o ad altri soggetti aggregatori), dall'art. 1, comma 512, della stessa legge 208 (per i beni e servizi informatici) e dall'art. 1, comma 7, del dl 95/2012 (per le categorie merceologiche energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile).
Rispetto a quest'ultima norma, peraltro, sempre la legge 208 ha previsto, al comma 494, la possibilità di derogare alle convenzioni se si spuntano corrispettivi inferiori almeno del 10% per telefonia fissa e mobile e del 3% per carburanti extra rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento. I contratti stipulati in deroga devono essere inviati all'Anac.
Inoltre, il comma 510 ha previsto un'altra possibilità di dribblare le convenzioni, allorché il bene, o il servizio, da esse offerto non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali. A tal fine, occorre un'apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo (non è chiaro se ci si riferisca al segretario o direttore generale, ovvero, secondo altre letture, alla giunta) e trasmessa alla Corte dei conti.
Si può ritenere, tuttavia, che l'autorizzazione non sia necessaria se l'acquisto riguarda categorie merceologiche che non sono presenti nelle convenzioni. Negli altri casi, occorrerà motivare il provvedimento confrontando in modo tecnicamente rigoroso le caratteristiche essenziali dei beni o servizi oggetto della convenzione e le caratteristiche essenziali dei beni, o servizi, necessari per soddisfare il fabbisogno dell'ente.
Infine, ricordiamo che il comma 450 della legge 296/2006 impone di fare ricorso al MePa, ma a seguito della modifica introdotta dal comma 502 della legge 208 solo per acquisti sopra i 1.000 euro. Trattandosi di un acquisto autonomo, anche in tal caso sembra necessaria l'autorizzazione, salvo il caso di assenza di convenzioni idonee (articolo ItaliaOggi del 15.01.2016).
ANNO 2015
aggiornamento al 06.11.2015

SICUREZZA LAVORO: Delega di funzioni, il lavoratore può dire di no. Sicurezza. Chiarimento ministeriale.
Non esiste alcun obbligo di accettazione della delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro da parte del soggetto delegato individuato dal datore di lavoro: il lavoratore interessato, infatti, può rifiutare tale delega.
Il chiarimento è stato fornito dalla Commissione per gli interpelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, istituita presso il Ministero del Lavoro, con l’interpello 02.11.2015 n. 7/2015.
La questione è stata sempre dibattuta a causa delle varie soluzioni sinora fornite al quesito sia nel settore pubblico, sia in quello privato, influenzate da problematiche di ordine burocratico o gerarchico, ossia se la delega di funzioni rientrasse nella discrezionalità del datore di lavoro o del dirigente (nel settore pubblico), di definire l’assetto dell’organizzazione del lavoro fino ad individuare inderogabilmente il soggetto a cui conferire la delega stessa.
L’interpello riporta all’articolo 16 del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), nel cui comma 1 viene stabilito che la delega delle funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa a condizione che risulti da atto scritto con data certa; il delegato sia in possesso di tutti i requisiti professionali e d’esperienza richiesti dalla natura delle funzioni delegate; con essa vengano attribuiti al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; con essa venga attribuita al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento della funzione oggetto di delega; la delega sia accettata dal delegato.
Perché dunque la delega sia efficace occorre che si verifichino tutte le caratteristiche di cui si è fatto cenno, preordinate all’accettazione, in forma scritta, da parte del delegato. Del resto, spesso la non accettazione è motivata dal riconoscimento da parte del soggetto individuato dal datore di lavoro o dirigente di non possedere i requisiti professionali per il corretto e completo svolgimento della funzione, la quale è quasi sempre accompagnata da provvedimenti sanzionatori penali in caso di inosservanze, ovvero di non riconoscere sufficientemente l’organizzazione del lavoro a cui è preposto, oppure, il più delle volte, dalla mancanza delle risorse economiche per far fronte alle varie e mutevoli esigenze che caratterizzano la funzione.
Va osservato, infatti, che fatta salva l’esclusione della nomina del responsabile del servizio di prevenzione protezione, la valutazione dei rischi e la redazione del documento della sicurezza, tutte le altre funzioni elencate nell’articolo 18 del Testo unico sono delegabili e tutte richiedono professionalità specifica, potere di organizzazione e di spesa che se non coperte o previste possono costituire un valido motivo di non accettazione del soggetto individuato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 04.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La stretta sul personale minaccia i mini enti.
Pericolo stretta sulla spesa di personale dei mini-enti. Dal 2016, infatti, i comuni sotto i 1.000 abitanti rischiano di essere attratti dal regime più rigido finora applicato solo a quelli più grandi.

È uno dei possibili effetti collaterali dell'addio al Patto sancito dal disegno di legge di stabilità 2016 e che rischia di presentare un conto salato alle amministrazioni di minori dimensioni.
In base al ddl, dal prossimo anno, il Patto verrà disapplicato e sostituito dall'obbligo del pareggio di bilancio. Nel nuovo regime, tuttavia, viene meno l'esclusione dai vincoli finora sempre riconosciuta favore dei comuni (circa 2000 in tutta Italia) che non raggiungono il migliaio di residenti (si veda ItaliaOggi del 20/10/2015). Ma non si tratta dell'unica controindicazione.
Il nuovo regime, infatti, rischia di assoggettare i piccoli comuni alla più rigorosa normativa sul personale prevista per quelli medi e grandi. Finora, infatti, la disciplina della materia è sempre stata differenziata, rispettivamente, per gli enti soggetti e per quelli non soggetti al Patto. Ai primi, si applica il comma 557, mentre ai secondi il successivo comma 562 della l 296/2006. Il comma 557 prevede che ogni ente soggetto al Patto debba ridurre la spesa di personale rispetto alla media del triennio 2011-2013, fissando un tetto più severo di quello previsto dal comma 562, che impone agli enti di fuori Patto di non superare il più generoso limite rappresentato dalla spesa 2008.
Inoltre, dove si applica il Patto il turn-over è sempre stato più ridotto, in quanto quantificato in percentuale rispetto alla spesa dei dipendenti cessati dal servizio nell'anno precedente, mentre negli altri casi vale la regola «per teste» (una nuova assunzione per ogni cessazione).
Infine, il comma 557, come recentemente interpretato dalla Sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione n. 27/2014) impone agli enti soggetti al Patto anche di ridurre il rapporto spesa di personale/spesa corrente, mentre il comma 562 non prevede tale obbligo. Cosa accadrà ora?
Al riguardo, sono possibili due letture. Da un lato, la disapplicazione del Patto dovrebbe portare ad applicare a tutti gli enti le stesse regole, che ovviamente non potrebbero che essere quelle più restrittive finora riservate agli enti soggetti al Patto (in caso contrario, si avrebbe un intesso incremento della spesa di personale).
Ma ciò rischia di complicare ulteriormente la vita alle amministrazioni più piccole, spesso già alle prese con organici risicati e con la conseguente difficoltà di sostituire i cessati. In alternativa, si potrebbe sostenere che nulla cambi rispetto al personale, malgrado l'assoggettamento anche dei mini enti all'obbligo del pareggio.
Tale tesi emerge anche dalla relazione al ddl, che continua a richiamare la distinzione fra enti soggetti e non al Patto in merito alla disposizione (art. 18) che riduce al 25% il turn-over per gli anni 2016-2018 e che viene collegata solo ai primi (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015).

SICUREZZA LAVORO: Controlli sanitari previsti per tutti. INTERPELLO/2 - Medico competente.
Tutti i lavoratori hanno diritto a richiedere la visita presso il medico competente (se nominato in azienda).

Lo precisa, tra l'altro, la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 02.11.2015 n. 8/2015 a risposta dei quesiti della Cisl.
Due, in particolare, le richieste formulate dal sindacato:
a) se la visita medica possa essere richiesta esclusivamente dai lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria ovvero da tutti i lavoratori;
b) se il medico competente, nel visitare gli ambienti di lavoro almeno una volta all'anno, sia tenuto a recarsi in ogni ambiente di lavoro nel quale si svolge l'attività o se debba limitarsi a fare i sopralluoghi soltanto nelle postazioni dove sono occupati i lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria.
A risposta del primo quesito, la commissione precisa che «la richiesta di essere sottoposto a visita media da parte del medico competenze, ove nominato, può essere avanzata da qualsiasi lavoratore, indipendentemente dal fatto che lo stesso sia o meno già sottoposto a sorveglianza sanitaria, con l'unico limite che il medico competente la ritenga accoglibile in quanto correlata a rischi lavorativi».
In merito al secondo quesito, relativo all'obbligo per il medico competente di visitare i luoghi di lavoro, la commissione, considerato che l'obbligo è strettamente correlato alla valutazione dei rischi, ritiene che la visita agli ambienti di lavoro debba essere estesa a tutti quei luoghi che possano avere rilevanza per la prevista collaborazione con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione «alla valutazione dei rischi anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione dell'attuazione delle misure per la tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dei lavoratori, all'attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e all'organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro» (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015).

SICUREZZA LAVOROSicurezza, la delega deve essere accettata. INTERPELLO/1 - Possibile il rifiuto del destinatario.
La delega di funzioni sulla sicurezza del lavoro deve essere accettata dal delegato, altrimenti non è valida. A differenza del conferimento d'incarico che implica l'impossibilità del rifiuto, infatti, la delega presuppone la possibilità della non accettazione da parte del destinatario.

Lo precisa la commissione per gli interpelli sulla sicurezza del lavoro nell'interpello 02.11.2015 n. 7/2015.
La questione. La precisazione arriva a risposta di un quesito formulato dall'unione sindacale di base vigili del fuoco, in merito all'istituto della «delega di funzioni» disciplinato dall'art. 16 del dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Tale articolo, in particolare, prevede che la delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:
a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
In relazione all'ultimo requisito, l'unione sindacale ha chiesto di sapere «se esiste l'obbligo di accettazione della delega da parte del soggetto delegato individuato dal datore di lavoro e se il soggetto delegato può rifiutare tale delegata».
Ammesso il rifiuto di delega. Il ministero spiega, innanzitutto, che la disposizione (citato art. 16 del T.u. sicurezza) prevede, per il datore di lavoro, la possibilità di delegare i propri obblighi a eccezione della valutazione dei rischi e relativo documento e la designazione del responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp) ad altro soggetto dotato dei requisiti di professionalità ed esperienze che sono richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate.
Poi spiega che, affinché la delega sia efficace, è necessario che abbia «tutte» le caratteristiche previste dalla norma (art. 16), quali la forma scritta, la certezza della data, il possesso da parte del delegato di tutti gli elementi di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate e, infine, la possibilità da parte dello stesso delegato di disporre di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni a lui delegate. In conclusione, a risposta del quesito, precisa che la delega deve essere accettata dal delegato per iscritto.
Infatti, aggiunge, «tra le caratteristiche indicate nell'art. 16, comma 1, il legislatore ha espressamente previsto, alla lettera e) del decreto, che la delega «sia accettata dal delegato per iscritto», elemento che la distingue dal conferimento di incarico, il che implica la possibilità di una non accettazione della stessa» (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo a ore, cumulo ridotto. Permessi incompatibili con i riposi per allattamento. L'Inps chiarisce il regime introdotto dal dlgs 80/2015: decide la contrattazione collettiva.
Chi fruisce del congedo parentale a ore non può fruire, nella stessa giornata, di altri permessi per maternità neanche se riferiti ad altri figli. Deroghe a tale principio possono essere previste dalla contrattazione collettiva.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 03.11.2015 n. 6704 emesso ieri, integrando le prime istruzioni della circolare n. 152/2015. L'Inps aggiunge, inoltre, che il congedo a ore è invece compatibile con eventuali permessi per assistenza a disabili (ex legge n. 104/1992).
Congedo parentale a ore. La possibilità di fruire a ore il congedo parentale è operativa dal 25 giugno in seguito al dlgs n. 80/2015. La facoltà, in via di principio, è subordinata alla preventiva previsione da parte della contrattazione collettiva di settore di tale modalità di fruizione, compresi i criteri di calcolo. In caso di mancata regolamentazione, la fruizione oraria è consentita a ciascun genitore per la metà dell'orario medio giornaliero di lavoro.
L'incumulabilità. Nel fornire le prime indicazioni operative (circolare n. 152/2015 su ItaliaOggi del 19 agosto), l'Inps spiegava che il congedo era incumulabile con altri permessi o riposi disciplinati dal T.u. maternità/paternità (dlgs n. 151/2001). Tale incumulabilità, spiega adesso l'Inps, risponde all'esigenza di conciliare al meglio i tempi di vita e di lavoro utilizzando il congedo in modalità oraria essenzialmente nei casi in cui il lavoratore intenda assicurare, nella medesima giornata, una (parziale) prestazione lavorativa.
Alla luce di questo principio, integrando le precedenti istruzioni, l'Inps spiega che il genitore lavoratore dipendente che si astiene dal lavoro per congedo parentale a ore «non può usufruire nella medesima giornata né di congedo parentale a ore per altro figlio, né dei riposi orari per allattamento (ex artt. 39 e 40 del T.u.), anche se richiesti per bambini differenti».
Allo stesso modo, aggiunge l'istituto di previdenza, il congedo parentale fruito in modalità oraria «non è cumulabile con i riposi orari giornalieri di cui al combinato disposto degli artt. 33, comma 2, e 42, comma 1, del T.u., previsti per i figli disabili gravi in alternativa al prolungamento del congedo parentale (art. 33 c. 1, T.u. maternità), anche se richiesti per bambini differenti».
La cumulabilità. Diversamente invece, risulta compatibile la fruizione del congedo parentale su base oraria con permessi o riposi disciplinati da disposizioni normative diverse dal T.u. maternità/paternità, quali ad esempio i permessi per assistenza a disabili (di cui all'art. 33, commi 3 e 6, della legge n. 104/1992), quando fruiti in modalità oraria.
Parola alla contrattazione. Infine, l'Inps precisa che le predette ipotesi di incumulabilità trovano applicazione nei casi di mancata regolamentazione, da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria.
Di conseguenza, pertanto, la contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, nel definire le modalità di fruizione del congedo parentale, può prevedere criteri di cumulabilità differenti rispetto a quelli illustrati dall'Inps che fanno riferimento, pertanto, al caso in cui la fruizione oraria sia concesso su base normativa (per il 50% dell'orario di lavoro) (articolo ItaliaOggi del 04.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici storici, termotecnici da Belle arti.
La diagnosi energetica è uno dei processi fondamentali della riqualificazione energetica degli edifici storici. Ne deriva che il progettista termotecnico che si trovi a dover intervenire su un edificio storico, soprattutto se vincolato secondo il dlgs n. 42/2004, è spesso tenuto ad acquisire la documentazione necessaria alla conoscenza del fabbricato non solo per gli aspetti tecnici di sua competenza, ma anche per quelli relativi al ruolo che quell'edifico svolge nella storia dell'uomo e all'interno del contesto urbano e paesaggistico in cui è inserito.

Questo è quanto si legge nelle linee guida (28.10.2015) sull'efficienza energetica degli edifici storici redatte dal Ministero dei beni culturali .
Per quanto riguarda specificatamente gli edifici storici, il miglioramento della prestazione energetica richiede talvolta modifiche dell'organismo architettonico che, se non accuratamente progettate sulla base di una corretta diagnosi energetica, possono comportare problemi che vanno dal pregiudicare il valore monumentale e/o documentale del manufatto al mettere in discussione la sicurezza statica dell'edificio.
Lo scopo principale della diagnosi energetica è la valutazione dei consumi energetici dell'edificio al fine di ridurli, nel rispetto delle condizioni di qualità dell'ambiente interno che sono descritte in precedenza. Per far ciò è necessario identificare innanzitutto le funzioni che i sistemi architettonici e tecnologici devono soddisfare, che possono andare dalla semplice climatizzazione se l'edificio è destinato a usi residenziali o terziari al controllo del microclima se nell'edificio sono ospitate collezioni, al controllo dell'umidità da risalita in presenza di falde acquifere o acque disperse nel sottosuolo.
Poi devono essere identificati i vettori energetici utilizzati da ogni servizio e i flussi di energia associati a ciascun vettore. A questo punto è possibile valutare l'efficienza energetica di ogni servizio e identificare le opportunità di risparmio energetico ed economico che possono essere proposte per l'edificio in esame (articolo ItaliaOggi del 03.11.2015).

INCARICHI PROFESSIONALIRicorso bocciato, sì al taglio dell’onorario del legale d’ufficio. Difesa in giudizio. Il carattere pubblico dell’importo lascia ampia discrezionalità al magistrato.
Il compenso del difensore d’ufficio, nominato al fine di fornire assistenza tecnica a un contribuente ammesso ai benefici del patrocinio gratuito, può essere legittimamente ridotto dal giudice tributario. La liquidazione degli onorari costituisce, infatti, espressione di un potere discrezionale.
È quanto emerge dalla sentenza 23.09.2015 n. 7543/1/15 della Ctp di Milano (giudice Paolo Roggero), con la quale è stato rigettato il ricorso presentato dal difensore d’ufficio del contribuente contro il provvedimento con il quale altro collegio giudicante, con precedente sentenza, aveva liquidato compensi inferiori a quelli da lui richiesti.
Il legale rappresentante di una Srl aveva ottenuto dalla commissione per l’assistenza tecnica a spese dello Stato l’ammissione ai benefici del patrocinio gratuito in quanto, seppur priva di mezzi, aveva la necessità di difendersi in giudizio dagli avvisi di accertamento emessi dall’ufficio per anni dal 2005 al 2008.
Il patrocinio veniva assunto da un avvocato che redigeva il ricorso, dichiarato poi inammissibile dai giudici di primo grado in quanto tardivo.
Il difensore d’ufficio della ricorrente presentava, così, la nota spese con la quale chiedeva, a titolo di compenso per la prestazione svolta, la liquidazione dell’importo complessivo di 5.124,6 euro, oltre agli oneri accessori. Il collegio adito, con provvedimento del 06.02.2015, liquidava al difensore 1.800 euro.
Il difensore presentava ricorso contro il decreto di pagamento (in base agli articoli 84 e 170, legge 115/2002), eccependo che la sua nota spesa rispettava i parametri ministeriali, già abbattuti del 50% ai sensi dell’articolo 130 del Testo unico sulle spese di giustizia. Lamentava altresì il fatto che il collegio avesse provveduto a ridimensionare fortemente il proprio compenso, senza tuttavia motivare al riguardo e violando, in ogni caso, la tariffa regolamentata dalla vigente normativa.
Il ministero dell’Economia e delle finanze si costituiva in giudizio, resistendo al ricorso. In conclusione, la Ctp di Milano respingeva l’atto impugnato dal difensore d’ufficio.
Pur rilevando come lo stesso legale avesse depositato una nota spese rispettosa dei parametri ministeriali (abbattuti del 50%), la liquidazione poteva dar luogo a un importo inferiore, tenuto conto del caso concreto e non dovendosi comunque fare esclusivo riferimento alla media delle tariffe. Infatti, il carattere pubblico del compenso e il fatto che l’importo gravasse, di fatto, sull’intera collettività, consentivano un’ampia discrezionalità al giudice. L’obiettivo è assicurare che l’onorario sia effettivamente commisurato all’importanza e alla qualità della prestazione professionale svolta, nonché ai risultati ottenuti.
Sulla base di tali principi, la Ctp ha ritenuto corretta la liquidazione effettuata dal collegio giudicante di primo grado, in quanto basata su ragioni valide quali l’operato del difensore e sul fatto che il ricorso fosse stato dichiarato inammissibile
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

VARIAll’acquirente l’onere di provare la vendita a prezzo «inferiore». Imposte indirette. La regolare contabilità e la natura del compratore giustificano la valutazione.
Spetta al contribuente dimostrare che il prezzo al quale ha venduto un immobile è inferiore a quello definito dall’acquirente ai fini dell’imposta di registro. La lieve differenza tra i due valori, la particolare natura giuridica del soggetto acquirente e la regolare tenuta della contabilità soddisfano tale onere.
Ad affermarlo è la sentenza 09.07.2015 n. 804/1/2015 della Ctr Liguria (presidente Soave, relatore Venturini).
La vicenda scaturisce dagli avvisi di accertamento emessi dall’agenzia delle Entrate nei confronti di una società di persone e dei relativi soci. A seguito della cessione di due immobili, l’ufficio ha rideterminato, ai fini del reddito di impresa, la plusvalenza realizzata considerando come prezzo di cessione il maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro dall’acquirente. L’ufficio per la prima vendita considera un prezzo di cessione di 252mila euro anziché 240mila; per la seconda 126mila euro anziché 120mila. I soci e la società ricorrono in Ctp.
I contribuenti evidenziano che, ai fini delle imposte dirette, rileva il prezzo di cessione indicato nell’atto di compravendita e non quello definito ai fini del registro. Inoltre, la definizione del valore ai fini del registro era stata effettuata per sola volontà della parte acquirente, che non aveva interesse a impostare un contenzioso considerata la modesta differenza tra i due valori. Difficilmente, infine, le cessioni potevano prestarsi a importi non dichiarati considerato che l’acquirente degli immobili era un istituto di credito.
I giudici di primo gado respingono il ricorso. I contribuenti, allora, propongono appello alla Ctr della Liguria che lo accoglie. Innanzitutto la commissione osserva che, ai sensi dell’articolo 86 del Dpr 917/1986, la plusvalenza da assoggettare a tassazione va calcolata in relazione al corrispettivo effettivamente percepito e non in base al prezzo teorico del bene determinato ai fini dell’imposta di registro. Tuttavia, puntualizza il collegio, secondo l’orientamento della Cassazione, l’ufficio è legittimato a procedere in via induttiva all’accertamento della plusvalenza sulla base del valore definito ai fini dell’imposta di registro. Spetta, poi, al contribuente superare tale presunzione dimostrando di avere, in concreto, venduto a un prezzo inferiore.
Nel caso specifico, rileva il collegio:
l’istituto di credito acquirente aveva deciso di accettare ai fini del registro la definizione di un prezzo leggermente superiore rispetto a quello dichiarato nell’atto di compravendita;
la contabilità aziendale non è stata contestata dall’ufficio;
il fatto che fosse un istituto di credito va valutato come elemento indiziario della circostanza (difficilmente, per un tale soggetto, è possibile accedere ad acquisti parzialmente in nero);
appare difficile credere in un’operazione fraudolenta per una differenza di valori di così bassa entità.
In base a questi elementi risulta attendibile che il prezzo reale di vendita sia stato inferiore a quello determinato ai fini dell’imposta di registro, alla luce anche dell’attuale stagnazione del mercato immobiliare
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, tre strade per la bonifica. Il materiale può essere incapsulato, confinato o rimosso da ditte iscritte all’Albo gestori.
Sicurezza. Obbligatorio comunicare alla Asl il piano di lavoro, che si intende approvato dopo 30 giorni con il silenzio-assenso.

Nelle abitazioni sono diversi i casi in cui ci si può imbattere nell'amianto: pannelli, pavimenti, rivestimenti di camini, tubazioni, lastre di copertura, canne fumarie, serbatoi idrici, guarnizioni stufe, intonaco.
Come afferma l’allegato sulla valutazione del rischio al Dm 06.09.1994, la presenza di materiali che contengono amianto in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti: «Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto». Lo stesso allegato indica norme e metodologie tecniche di applicazione della legge 257/1992 che ha messo al bando questo materiale.
Le indicazioni del decreto si applicano a tutte le strutture edilizie: ad uso civile, commerciale o industriale.
Il proprietario dell’immobile -l’amministratore di condominio per le parti comuni, o il gestore dell’attività- deve sempre designare una figura responsabile del rischio amianto, con compiti di controllo e coordinamento dell’attività manutentiva, da cui passa la valutazione dell'eventuale bonifica. Il proprietario deve anche tenere i documenti relativi all’ubicazione dell’amianto, predisporre la segnaletica e le misure di sicurezza, fornire una corretta informazione agli occupanti dell’edificio sui rischi potenziali e i comportamenti da adottare.
A seconda del tipo di matrice, si predispone quindi un controllo visivo e strumentale periodico. «Il responsabile deve individuare la ditta qualificata e abilitata ad eseguire i lavori: cioè un’impresa iscritta all’Albo nazionale gestori ambientali, in categoria 10, con coordinatore e operai specificamente formati», aggiunge Erminio Barbati, vicepresidente Aibam (Associazione imprese bonificatori amianto).
La ditta deve redigere un “piano di lavoro” da presentare all'Asl competente per territorio -tranne casi di urgenza- almeno 30 giorni prima dell’inizio dei lavori. Dopo 30 giorni scatta il silenzio-assenso.
A seconda delle caratteristiche di installazione e dello stato di conservazione, la bonifica può esser fatta tramite incapsulamento (trattare con vernice che ricostruisce la superficie e impedisce la fuga del materiale), confinamento (“chiusura” dietro murature) o rimozione del materiale. Non sempre è possibile rimuovere il materiale, a causa di impedimenti strutturali dell’edificio. In ogni caso, una volta accertata la presenza dell’amianto, è necessario stilare almeno un programma di controllo e manutenzione, per prevenire il rilascio e la dispersione di fibre, e nel caso intervenire per rimuovere o mettere in sicurezza.
«Il rischio è rappresentato dalla friabilità dei materiali e dalla loro esposizione. L’amianto in matrice compatta, comunemente conosciuto come cemento-amianto (fibrocemento, o eternit, dal nome del più diffuso prodotto commerciale), è meno pericoloso di quello in matrice friabile, che ha fibre libere o debolmente legate. Ma va sottoposto alla valutazione periodica dell’indice di degrado», spiega Nicola Giovanni Grillo, presidente di Aibam. In ogni caso, i lavori non si effettuano mai in presenza di abitanti.
«Quanto alle autorizzazioni edilizie -aggiunge Grillo- dipendono dal tipo di intervento collegato: se rimuovo soltanto una parte, non necessito di alcun particolare documento; se tolgo il cemento-amianto e rimetto un’altra copertura, coibentata, dovrò fare una comunicazione di inizio lavori».
Una volta completata l’opera, il materiale rimosso va portato in un centro di stoccaggio o direttamente in discarica. «A farlo può essere la stessa ditta che ha eseguito i lavori, ma per il trasporto deve esser comunque iscritta all’Albo in categoria 5: tutto è indicato nel piano di lavoro inviato all’Asl, anche il tragitto compiuto per lo smaltimento», dice il presidente di Assoamianto, Sergio Clarelli.
«Al proprietario deve poi tornare entro 90 giorni una copia del Fir (formulario di identificazione rifiuti), che attesta il conferimento presso una discarica autorizzata. Questo documento si aggiunge al certificato di fine lavori, e all’eventuale copia del campionamento dell’aria successivo all’intervento».
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PERMESSI E NULLA OSTA
Il piano di lavoro predisposto dalla ditta abilitata alla bonifica va inviato alla Asl del proprio territorio 30 giorni prima dell’inizio delle opere. Se entro 30 giorni l’Asl non richiede integrazioni o modifiche, né dà prescrizioni, la ditta può eseguire le opere.
Le autorizzazioni edilizie dipendono dal tipo di intervento e dalle norme regionali o locali. In generale, in caso di sola rimozione di una parte di amianto, non serve alcun titolo abilitativo; se, ad esempio, si sostituisce una copertura in eternit con un altro manto coibentato, ci sarà bisogno di una Cila.
L’IMPRESA
L’impresa che effettua i lavori deve essere iscritta all'Albo nazionale gestori ambientali, in categoria 10: categoria 10A e/o 10B, a seconda che sia abilitata al trattamento dei soli materiali compatti (di solito cemento-amianto, eternit) o a tutti i tipi di bonifica.
La ditta deve avere dipendenti provvisti di patentino di abilitazione per coordinatore e operatori addetti alla bonifica. L’impresa che trasporta i materiali alla discarica –può essere anche la stessa che ha eseguito la rimozione– deve essere iscritta all’Albo in categoria 5.
AGEVOLAZIONI PER PERSONE FISICHE
Anche per le spese di rimozione dell’amianto su abitazioni e pertinenze (box, cantina, soffitta) si applica la detrazione Ipref del 50%, entro il limite di 96mila euro (articolo 16-bis del Dpr 917/1986). Per accedere ai benefici basta pagare le fatture con bonifico bancario o postale.
Se la rimozione dell’amianto è intervento di carattere condominiale sarà l’amministratore a provvedere al pagamento con bonifico in cui oltre alla partiva Iva dell’impresa esecutrice dei lavori indicherà anche il codice fiscale del condominio.
AGEVOLAZIONI PER LE SOCIETÀ
La detrazione del 50% non è applicabile per gli immobili posseduti da imprese e società nell’esercizio dell’attività commerciale. Ma le spese di rimozione amianto rientrano tra quelle detraibili quando si effettuano contestualmente gli interventi di risparmio energetico cui si applica la detrazione del 65 per cento.
Oltre agli edifici abitativi anche tutti gli edifici non residenziali e quelli a destinazione produttiva fruiscono di questa detrazione, se dotati di impianto di riscaldamento preesistente.
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Bonus del 50% anche per il 2016.
Persone fisiche. La detrazione confermata per gli immobili abitativi con il disegno di legge di Stabilità - In arrivo un credito di imposta per beni e strutture produttive.

Anche la leva fiscale può essere utilizzata per la rimozione di amianto/eternit presente nel patrimonio edilizio esistente in modo da ridurre significativamente i costi di questa operazione.
Gli sconti fiscali applicabili attualmente per le persone fisiche consentono la detrazione del 50% e, in taluni casi, del 65% per i contestuali interventi di risparmio energetico (si veda articolo in basso).
Si tratta di un’ottima opportunità di risparmio per chi vuole smaltire l’amianto. Ma come funziona l’incentivo? L’articolo 16-bis, comma 1, lettera l) del Dpr 917/1986, prevede espressamente, per gli interventi eseguiti su immobili abitativi e relative pertinenze (box, cantina, soffitta), la detraibilità dall’Irpef del 50% delle spese sostenute, entro il limite massimo di 96mila euro per gli interventi di bonifica dall’amianto.
La formulazione testuale della norma lascerebbe pensare che i benefici fiscali si possano applicare anche agli interventi eseguiti su immobili non abitativi, anche non pertinenziali, sempreché posseduti da persone fisiche, tenuto conto del carattere oggettivo della normativa che non limita espressamente alle abitazioni questa tipologia specifica di intervento. In pratica, se posseduto da una persona fisica l’edificio non residenziale (ufficio, negozio, capannone, ma anche tettoie, pollai e ricoveri di materiali), fruirebbe del bonus del 50% previsto per le abitazioni. Ma sul punto non sono mai arrivate conferme ufficiali.
Sino al 31.12.2015 (per ora ma la proroga al dicembre 2016 è contenuta nella legge di stabilità) l’importo della detrazione è pari al 50% delle spese sostenute sino a un ammontare massimo di 96mila euro, cioè 48mila euro da ripartirsi in dieci rate annuali fino a 4.800 euro ciascuna da recuperare con la presentazione della dichiarazione dei redditi. Perciò, chi spende 20mila euro per la bonifica dall’amianto potrà recuperare 10 mila euro in 10 quote annuali da mille euro.
A regime, invece, la detrazione sarà pari al 36% delle spese sostenute fino a un ammontare massimo di 48mila euro, cioè 17.280 euro da ripartirsi in dieci quote.
Per accedere ai benefici basta pagare le fatture con bonifico bancario o postale.
Nella maggior parte dei casi la rimozione dell’amianto è un intervento che interessa i condomini: in questo caso sarà l’amministratore a provvedere al pagamento con bonifico, in cui oltre alla partiva Iva dell’impresa esecutrice dei lavori indicherà anche il codice fiscale del condominio. Lo stesso amministratore poi rilascerà ai singoli condomini un’attestazione degli importi da ciascuno dei condomini detraibili sulla base della tabella millesimale.
Da ultimo nel Ddl «Collegato ambientale« (atto Senato 1676), è stato approvato un emendamento presentato dal Governo che prevede un credito di imposta del 50% delle spese sostenute nel 2016 per interventi di bonifica dell’amianto anche su beni e strutture produttive (con fondi pari a 5,6 milioni di euro per il triennio 2017-2019).
Il credito di imposta -quando entrerà in vigore- non si applicherà per investimenti di importo unitario inferiore a 20mila euro.
L’importo del credito sarà ripartito in tre quote di pari importo da recuperare in sede di dichiarazione dei redditi. Il credito non concorre alla determinazione del reddito né dell’imponibile Irap. Modalità e termini di applicazione del beneficio saranno rimesse a uno specifico decreto del Mef.
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Per le società abbinamento con il risparmio energetico
Persone giuridiche. Recuperabili al 65% i lavori connessi all’isolamento termico.

Per gli immobili posseduti da imprese e società nell’esercizio dell’attività commerciale la detrazione Irpef del 50% non è applicabile. Tuttavia, le spese di rimozione dell’amianto rientrano tra quelle detraibili quando si effettuano contestualmente gli interventi di risparmio energetico cui si applica la detrazione Irpef/Ires del 65% (prorogata al 2016 secondo il Ddl di stabilità).
In sostanza se l’intervento di rimozione dell’eternit è collegato a interventi sui serramenti, all’implementazione di un cappotto termico, all’installazione di pannelli solari termici, o caldaie a condensazione, all’aggiunta di un camino solare, o pompe di calore, allora la detrazione è pari al 65% della spesa sostenuta sino a un importo massimo di detrazione pari a 100mila euro per gli interventi di riqualificazione globale, ovvero 60mila per gli interventi sulle strutture opache orizzontali o verticali (cappotto, finestre o solai) o 30mila per gli interventi di sostituzione degli impianti termici.
Il perimetro
In pratica, mentre la detrazione del 65% non si applica di per sé alla sola rimozione dell’amianto, le spese complessive di riqualificazione energetica con contestuale rimozione dell’amianto, se non separatamente fatturate (altrimenti si perde il diritto al beneficio), fruiscono anche di questa maggiore detrazione.
Trattandosi di intervento di risparmio energetico non sussistono i limiti oggettivi previsti per la detrazione del 50%: quindi l’agevolazione vale sia per le abitazioni sia per tutti gli edifici non residenziali e quelli a destinazione produttiva. L’importante è che gli stessi siano accatastati prima dell’inizio dell’intervento e siano dotati di impianto di riscaldamento preesistente.
Anche sotto il profilo soggettivo, la detrazione del 65% non subisce i limiti previsto per il bonus fiscale per le ristrutturazioni edilizie e, quindi, si applica oltre che ai soggetti Irpef anche a imprese e società (soggetti Ires). In entrambi i casi, trattandosi di una detrazione è necessario che il soggetto che sostiene le spese abbia capienza di imposta, cioè Irpef o Ires da versare nell’anno di imposta da cui poter scomputare l’importo detraibile.
Facciamo un esempio: una società vuole rimuovere l’amianto e, contestualmente, coibentare il tetto per migliorare l’isolamento termico dell’edificio. Nell’ipotesi in cui al termine dei lavori di rifacimento del tetto si conseguano i prescritti valori di trasmittanza termica, tutte le spese sostenute, anche per la rimozione dell’amianto nel tetto, fruiscono dei benefici fiscali.
Se si tratta di intervento di risparmio energetico eseguito su immobile strumentale, la detrazione si applica senza problemi a prescindere dal fatto che le spese sostenute sono già elemento di costo nella determinazione del reddito di impresa o arti e professione (es. maggiore ammortamento per capitalizzazione dell’investimento ovvero abbattimento dal reddito imponibile). In sostanza, la spesa sostenuta rileva, sia nella determinazione del reddito che come detrazione dalle imposte sul reddito dovute sull’utile (Irpef o Ires). Fanno eccezione gli immobili non abitativi locati per i quali l’agenzia delle Entrate ha posto dei limiti all’applicazione del 65 per cento.
Per i titolari di reddito d’impresa (ditte individuali, società di persone o di capitali), infatti, la detrazione del 65% spetta solo se gli interventi di riqualificazione energetica sono eseguiti su fabbricati strumentali (per natura o destinazione) utilizzati nell’esercizio dell’attività imprenditoriale. Sono pertanto esclusi gli immobili locati a terzi (risoluzione n. 340/E/2008) e gli altri immobili posseduti dalle imprese o società. Tuttavia, i più recenti orientamenti giurisprudenziali di merito non riconoscono legittima questa interpretazione (si veda Il Sole 24 Ore del 29 giugno scorso).
La procedura
Il contribuente deve, in primo luogo, acquisire l’asseverazione di un tecnico abilitato che certifichi il rispetto dei requisiti di trasmittanza termica. È necessario acquisire anche l’attestato di prestazione energetica dell’edificio e la scheda informativa dei lavori secondo lo schema contenuto nel Dm 19.02.2007.
Una volta ottenuta l’asseverazione, l’Ape e la scheda informativa, il contribuente deve inviarli all’Enea (tramite il programma informatico disponibile sul sito internet www.acs.enea.it) entro i 90 giorni successivi alla fine dell’intervento
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, turn-over ancora vincolato agli ex provinciali. Personale/1. La mobilità «copre» tutti gli spazi.
La disposizione contenuta nel disegno di legge di Stabilità 2016, che impone la riduzione del turn-over al 25%, non modifica il fatto che gli spazi assunzionali restano integralmente vincolati al riassorbimento dei dipendenti soprannumerari, mentre il 2017 e il 2018 sembrano essere orizzonti temporalmente troppo lontani per essere preoccupati ora per allora, considerata la “velocità” delle modifiche legislative.
L’ultimo intervento normativo in materia è rappresentato dall’articolo 3, comma 5, del Dl 90/2014, il quale stabilisce che gli enti locali possono assumere nel 2015 nel limite del 60% della spesa relativa alle cessazioni dell’anno precedente, nel 2016 e nel 2017 l’aliquota è fissata all’80% per salire al 100% dal 2018. Su questo impianto legislativo interviene il comma 424 della legge di stabilità di quest’anno, che impone di destinare le facoltà 2015 e 2016 all’assunzione dei vincitori di concorso relativi a graduatorie in vigore e approvate al 01.01.2015 e alla ricollocazione dei dipendenti in esubero degli enti di area vasta.
Considerato che, negli enti locali, è poca diffusa la situazione nella quale si hanno graduatorie approvate in assenza della nomina dei vincitori ovvero i pochi casi presenti si esauriranno con le facoltà 2015, nella sostanza tutto il budget 2016 a disposizione delle assunzioni vanno a favore dei soprannumerari degli enti di area vasta. Ma la disposizione prima richiamata impone agli enti locali di destinare anche la restante percentuale per arrivare al turn-over pieno alla sola ricollocazione del personale soprannumerario.
Riassumendo, per il 2016, l’80% delle cessazioni verificatesi nel 2015 è destinato ai vincitori di concorso, che, nei Comuni, saranno, presumibilmente, pari a zero, e agli ex provinciali, mentre il restante 20% è riservato ai soli soprannumerari. In pratica, quindi, tutta la spesa 2016 pari alle cessazioni 2015 è da destinare al riassorbimento del personale degli enti di area vasta in esubero.
In questo contesto, a cosa serve ridurre le facoltà assunzionali dall’80% al 25%? In costanza della previsione normativa attuale, l’80% delle cessazioni 2015 va a favore dei vincitori di concorso (che saranno assenti) e agli esuberi e il restante 20% ai soli soprannumerari. Con la nuova previsione contenuta nel disegno di legge di Stabilità per il 2016 si dovrebbe riservare il 25% alla prima fattispecie e l’ulteriore 75% alla seconda ipotesi. Ma in entrambi i casi, il totale (100%) sono destinati agli ex provinciali. E, quindi, quale è l’utilità o l’obiettivo della nuova disposizione? Le risposte sono del tutto ignote.
E se questo non fosse sufficiente, la legge di Stabilità 2016 aggiunge che «al solo fine di definire il processo di mobilità del personale degli enti di area vasta destinato a funzioni non fondamentali…. restano ferme le percentuali stabilite dall’articolo 3, comma 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90….».
Quindi, con riferimento al 2016, resta ferma la percentuale dell’80% al solo fine dei riassorbire i provinciali. Se non si comprende quale sia la portata del primo periodo del comma in questione, ancora più perplessi lascia questa seconda parte. A cosa serve specificare che il turn-over resta all’80%? E quale destinazione possono avere queste facoltà assunzionali se non a favore degli ex provinciali?
La previsione della legge di stabilità 2016 potrebbe acquisire un significato solo nel caso in cui il percorso di riassorbimento dei dipendenti soprannumerari degli enti di area vasta si concludesse secondo le previsioni contenute nel decreto del ministero per la Semplificazione e per la pubblica amministrazione 14.09.2015, vale a dire entro la fine del marzo 2016, con la completa ricollocazione di tutti gli esuberi.
Ipotesi alla quale sembra non credere nemmeno il legislatore tanto che prevede, nella stessa legge di Stabilità, il commissariamento delle Regioni che, alla data del 30.01.2016, risultino ancora inadempienti rispetto alla scadenza, oggi fissata al 31.10.2015
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl rinnovo dei contratti dribbla i tetti di spesa. Personale/2. I costi sono a carico dei bilanci locali ma non entrano negli indicatori.
Sono passati più di sei anni dall’ultimo contratto nazionale. Talmente tanto che gli enti locali si trovano quasi disorientati di fronte alle percentuali e agli importi che circolano in questi giorni sui futuri incrementi stipendiali.
C’è bisogno di ripercorrere le regole vigenti, anche se, il mutato contesto normativo, potrebbe portare anche a soluzioni interpretative diverse.
Il tutto prende il via dall’articolo 48 del Dlgs 165/2001 che prevede che per le Regioni e gli enti locali le risorse per gli incrementi retributivi per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali sono definite dal Governo, nel rispetto dei vincoli di bilancio, del patto di stabilità e di analoghi strumenti di contenimento della spesa, previa consultazione con le rispettive rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie.
Lo stesso articolo, afferma, inequivocabilmente, che gli oneri di tale contrattazione sono determinati a carico dei rispettivi bilanci. Ciascun ente, quindi, dovrà prevedere in sede di bilancio, le somme per l’erogazione dei benefici a favore dei propri dipendenti.
Il contratto nazionale, poi, spalmerà gli importi a disposizione sulle varie categorie e posizioni economiche del comparto, prevedendo le somme da inserire in busta paga.
Ai fini del calcolo della spesa di personale, le somme riferite ai rinnovi contrattuali vanno escluse dalla base di calcolo. Infatti, ai sensi dell’articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 (finanziaria 2007) tali costi sono da neutralizzare per il monitoraggio nel tempo dell’obbligo di contenimento della spesa di personale, che, ai sensi del comma 557-quater della medesima disposizione, dovrà avvenire rispetto alla media del triennio 2011/2013. Per gli enti non soggetti a patto di stabilità, il riferimento, invece, è la spesa di competenza dell’anno 2008.
Su tale aspetto non debbono esserci dubbi. Oltre al chiaro disposto letterale della norma, la Corte dei conti, sezione autonomie, con la deliberazione 27/2011 ne ha individuato la ratio: da un lato operando il confronto tra esercizi escludendo in entrambi gli effetti dei rinnovi contrattuali si eliminano turbative all’andamento della serie, dall’altro i contratti nazionali hanno copertura predeterminata e comportano decisioni di spesa assunte aliunde e non di dominio immediato dell’ente.
I magistrati, però, ricordano che tali esclusioni non si possono applicare agli incrementi delle somme a favore della contrattazione integrativa decentrata.
La deliberazione, prende in esame, però, anche un’altra questione, ovvero quali voci siano da includere o da escludere al momento del calcolo del rapporto tra spese di personale e spese correnti, che, come stabilito dalla deliberazione 27/2015 della medesima sezione autonomie, riveste carattere cogente.
Al fine di verificare il rispetto dei parametri d’incidenza tra le spese di personale e la spesa corrente, l’aggregato spese di personale può essere direttamente riferito a quello già impiegato per l’applicazione del comma 557, ma è necessario operare un correttivo, per ristabilire l’equilibrio del confronto con l’insieme della spesa corrente. In tale prospettiva vanno, quindi, incluse nell’aggregato “spesa del personale” le voci escluse ai fini dell’applicazione del comma 557.
Al numeratore, quindi, va sempre indicata una spesa di personale “lorda
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.11.2015).

APPALTI: Enti pubblici al test riciclaggio. Sotto la lente appalti, sanità, rifiuti, energie rinnovabili. Riorganizzazione delle amministrazioni richiesta dagli adempimenti di segnalazione.
Appalti, sanità, produzione di energie rinnovabili, raccolta e smaltimento dei rifiuti sono le attività che presentano i maggiori rischi di riciclaggio, nonché i settori economici interessati dall'erogazione di fondi pubblici, anche di fonte comunitaria.

Sono questi, quindi, gli ambiti che devono essere monitorati con particolare attenzione dagli operatori di enti locali, istituti, scuole, aziende sanitarie e amministrazioni della p.a., secondo il
decreto 25.09.2015 del Ministero dell'interno, ai fini della segnalazione delle operazioni sospette di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.
Ciò comporta una sostanziale opera di riorganizzazione degli uffici pubblici che dovranno concretamente attrezzarsi per verificare la sussistenza delle fattispecie previste negli indicatori previsti dal decreto, per scovare il possibile coinvolgimento dell'imprenditore, che entri in contatto con l'amministrazione, in situazioni di riciclaggio o finanziamento del terrorismo.
La collaborazione attiva delle pubbliche amministrazioni. Non più solo i professionisti e gli intermediari finanziari devono preoccuparsi, da un punto di vista operativo, di provvedere alle segnalazioni di operazioni sospette e agli obblighi antiriciclaggio.
Con il decreto del 25/09/2015, infatti, anche tutta la pubblica amministrazione deve concretamente attivarsi al fine di agevolare l'individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo (si veda ItaliaOggi del 09/10/2015). In effetti, ricordiamo che gli uffici della pubblica amministrazione rientrano fra i destinatari della normativa antiriciclaggio fin dalla legge 197/1991. Il dlgs 231/2007 conferma tale scelta all'art. 10, comma 2, prevedendo per detti uffici esclusivamente il rispetto degli obblighi di segnalazione di operazioni sospette.
Nonostante il dato normativo, tuttavia, afferma l'Uif nel suo rapporto annuale per il 2014: «Finora la pubblica amministrazione non ha dimostrato di avere, in generale, consapevolezza del proprio ruolo nell'ambito della collaborazione attiva». In proposito, il National Risk Assessment rileva che si tratta di una «vulnerabilità non di poco conto se si pensa alla rilevanza del fenomeno della corruzione ovvero alla presenza di ambiti fortemente appetibili per la criminalità come il settore degli appalti pubblici o dei finanziamenti comunitari».
Proprio al fine di sensibilizzare la p.a. sugli obblighi di collaborazione attiva, la Uif, unitamente al ministero dell'interno, ha provveduto a definire gli specifici indicatori di anomalia in commento che, in accordo al principio di proporzionalità e secondo un approccio basato sul rischio, tengono conto dei settori pubblici maggiormente esposti al rischio di riciclaggio. In proposito, gli ambiti di attività più colpiti risultano quelli interessati dalla movimentazione di elevati flussi finanziari, anche di natura pubblica, quali il settore fiscale, gli appalti e i finanziamenti pubblici.
Sul tema, comunque si tiene a precisare che la via intrapresa dall'Italia, non trova corrispondenza con la normativa europea in quanto la Direttiva 2005/60/Ce (c.d. III Direttiva), così come la Direttiva 2015/849 del 20.05.2015 (c.d. IV Direttiva), pubblicata in Guue del 05.06.2015 e da recepire negli ordinamenti nazionali entro la data del 26.06.2017 (si veda ItaliaOggi Sette del 05/10/2015), non contengono riferimenti a obblighi di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo a carico della p.a..
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Massima allerta sui comportamenti sotto la lente.
Non basta la verifica formale della documentazione fornita dalle imprese che chiedono di partecipare agli appalti o di ricevere dei fondi pubblici, piuttosto serve un controllo sostanziale dei comportamenti attuati dai richiedenti per individuare possibili fattispecie tipizzate negli indicatori previsti dal decreto con conseguente responsabilità sui responsabili dei procedimenti e sui dirigenti delle strutture pubbliche.
Si tratta di controlli di non semplice realizzazione pratica anche considerando che il decreto tiene a precisare la non esaustività dell'elencazione delle anomalie e inoltre che l'impossibilità di ricondurre operazioni o comportamenti a uno o più degli indicatori previsti nell'allegato del decreto non è sufficiente a escludere che l'operazione sia sospetta.
Gli operatori devono, pertanto, valutare con la massima attenzione ulteriori comportamenti e caratteristiche dell'operazione che, sebbene non descritti negli indicatori, siano egualmente sintomatici di profili di sospetto. Per quanto riguarda, poi, il sospetto di operazioni riconducibili al finanziamento del terrorismo, il decreto puntualizza che lo stesso può essere desunto anche dal riscontro di un nominativo e dei relativi dati anagrafici nelle liste pubbliche consultabili sul sito della Uif.
A riguardo, si chiarisce comunque che, ai fini della segnalazione, non è sufficiente la mera omonimia, qualora il segnalante possa escludere, sulla base di tutti gli elementi disponibili, che uno o più dei dati identificativi siano effettivamente gli stessi indicati nelle liste, intendendo per dati identificativi le cariche, le qualifiche e ogni altro dato riferito nelle liste che risulti incompatibile con il profilo economico-finanziario e con le caratteristiche oggettive e soggettive del nominativo.
Nell'ottica operativa, infine, il decreto richiede che gli operatori della p.a. adottino in base alla propria autonomia organizzativa, procedure interne di valutazione che culminano con la trasmissione delle informazioni relative all'operazione sospetta a un soggetto denominato «gestore».
Quest'ultimo può coincidere con il responsabile della prevenzione della corruzione previsto dall'art. 1, comma 7, legge 190/2012. Negli enti locali con popolazione inferiore a 15 mila abitanti può essere individuato un gestore comune ai fini dell'adempimento dell'obbligo di segnalazione delle operazioni sospette (articolo ItaliaOggi Sette del 02.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestioni associate verso lo stop. Nei correttivi incentivi reali e la cancellazione delle rigidità del meccanismo.
L’assemblea dell’Anci. Comuni fino a 5mila abitanti: il Governo apre alla sospensione degli obblighi previsti dal 01.01.2016.

Dal governo arriva, all’assemblea dell’Anci, un sostanziale via libera alla sospensione degli obblighi di gestione associata per i quasi 6mila piccoli Comuni, che dovrebbe partire dal 1° gennaio senza che però siano stati affrontati i problemi alla base della pioggia di proroghe di questi anni.
«Avviamo subito il confronto con i sindaci sulla via da imboccare -apre il sottosegretario di Palazzo Chigi, Claudio De Vincenti, che segue i dossier della manovra sugli enti locali- tenendo fisso l’obiettivo di una crescita dimensionale delle amministrazioni per aumentare la capacità di garantire servizi». L’obiettivo, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, è condiviso, ma finora gli obblighi di gestione associata hanno prodotto più rinvii che riorganizzazioni amministrative per gestire insieme servizi sociali, sicurezza, asili nido, protezione civile e così via.
La storia di questi obblighi data infatti dal 2010, e prevedeva un calendario progressivo con l’associazione di tre funzioni fondamentali all’anno: il fallimento di queste tappe ha portato al termine unico del 1° gennaio prossimo, ma le indagini avviate nelle scorse settimane dal Viminale hanno certificato che la situazione è ferma. Di qui l’idea della nuova sospensione, che potrebbe arrivare con gli emendamenti alla manovra o in un altro provvedimento se sarà considerata misura troppo “ordinamentale” per finire nella legge di stabilità.
Gli ostacoli lamentati dai Comuni sono due: l’assenza di incentivi reali alle associazioni e soprattutto l’eccessiva rigidità del meccanismo, che impone a tutti i Comuni sotto i 5mila abitanti (3mila in montagna) di costruire associazioni che amministrino almeno 10mila abitanti.
Densità demografiche e articolazioni dei servizi cambiano però da territorio a territorio, e lo stesso target di 10mila abitanti può rivelarsi facilissimo da raggiungere in alcune aree e praticamente impossibile in altre. Le Regioni avrebbero potuto ritoccare questi parametri, ma poche l’hanno fatto a conferma di una scarsa attenzione collettiva sulla traduzione degli obblighi in realtà.
Una nuova sospensione non basterebbe ovviamente a risolvere i problemi, ma l’idea è di utilizzare il nuovo tempo supplementare per ripensare integralmente le regole. «Bisogna cancellare il criterio legato al numero di abitanti -rilancia Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente Anci- e cominciare a ragionare per bacini omogenei di aggregazione, dentro cui sviluppare unioni decise dagli stessi Comuni. In sei mesi si può fare».
Nell’agenda dei piccoli Comuni c’è però anche un’altra scadenza, ancora più ravvicinata e intricata nella gestione. Dal 1° novembre i sindaci fino a 10mila abitanti non potranno più ottenere il via libera per nessun acquisto che non passi dalle centrali uniche, mentre la manovra ridisegna tutto il sistema dal 1° gennaio prossimo, estendendo ai piccoli Comuni la deroga per i mini-acquisti (fino a 40mila euro) già prevista per gli altri.
Senza un intervento, si rischia un blocco bimestrale degli appalti provocato da una norma che di fatto è stata accantonata dallo stesso governo: per rimediare, però, è indispensabile un correttivo da far entrare in vigore subito. La sede potrebbe essere il decreto con il salva-Regioni che nel prossimo Consiglio dei ministri fisserà le regole per consentire il ripiano in 30 anni dei disavanzi creati dall’errata gestione delle anticipazioni di liquidità prodotte dai provvedimenti del 2013 che hanno sbloccato i pagamenti alle imprese.
In discussione, in vista di quel provvedimento, c’è anche l’ipotesi di sanatoria per le delibere con gli aumenti fiscali approvate dai Comuni dopo il termine per i bilanci preventivi scaduto il 30 luglio scorso (il problema non riguarda la Sicilia, dov’era arrivata la proroga fino al 30 settembre).
Il problema riguarda circa mille Comuni, molto spesso per la revisione dei parametri della Tari (la tariffa rifiuti era stata oggetto di sanatoria ex post anche nel 2014), la pressione per un intervento è forte ma si scontra con la contrarietà di Palazzo Chigi (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), perché permettere di applicare le aliquote approvate fino al 30 settembre significherebbe nei fatti annullare l’effetto più importante del «no» a nuove proroghe dei preventivi imposto a luglio dal Governo. Non solo: l’annuncio dell’addio alla Tasi sull’abitazione principale è stato dato dal premier Matteo Renzi il 18 luglio, e c’è il timore di possibili aumenti “strumentali” con il solo obiettivo di far crescere i rimborsi per il mancato gettito dei prossimi anni (come accaduto sulla mini-Imu due anni fa).
Intanto l’Economia, che nelle settimane scorse aveva invitato i sindaci ad annullare le delibere in autotutela, ha avviato i ricorsi contro i Comuni che stanno provando ad applicarle comunque, chiedendo al Tar la sospensione per evitare problemi nel saldo di dicembre
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.10.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Associazionismo forzoso flop. Meglio forme di aggregazione spontanee e omogenee. ASSEMBLEA ANCI/ La tesi dei comuni piace al governo. L'obbligo verso il rinvio.
L'associazionismo comunale forzoso è fallito. L'obbligo per i piccoli comuni di mettere insieme le funzioni su base demografica, imposto dal decreto legge n. 78/2010, va messo definitivamente da parte, per ripartire invece da forme di aggregazione spontanea, dal basso, sulla base di bacini omogenei per territorio.
Ecco perché l'appuntamento con l'obbligo di gestione associata delle funzioni, previsto per il 01.01.2016, va nuovamente spostato in avanti. Ma questa volta non dovrà trattarsi di una semplice proroga, bensì di un ripensamento globale di un modello che «ha fallito» (come certificato anche dal ministero dell'interno e dalla Corte dei conti, si veda ItaliaOggi del 04/09/2015).

Lo chiedono i comuni e lo pensa anche il governo che su questo punto ha promesso «non il solito emendamento di proroga per risolvere una situazione emergenziale, ma un intervento di ampio respiro per realizzare processi aggregativi senza forzature».
Il sottosegretario al ministero dell'interno, Gianpiero Bocci, intervenendo a Torino all'assemblea dell'Anci, ha risposto così alle sollecitazioni dei sindaci dei piccoli comuni, i primi interessati a uscire da una situazione di stallo che sta penalizzando anche le unioni. «
L'obbligatorietà delle funzioni sta creando un clima di sfiducia», ha osservato Dimitri Tasso, coordinatore della Conferenza nazionale Unioni di comuni e associazionismo dell'Anci, «perché la normativa non chiarisce bene quali siano le funzioni da mettere insieme, mentre invece associare i servizi non crea alcun problema. Ecco perché occorre una sospensiva, per riscrivere velocemente le regole. Sei mesi potrebbero bastare per individuare i bacini omogenei».
Parole che suonano come musica per le orecchie di chi come Franca Biglio, presidente dell'Anpci, l'associazione nazionale dei piccoli comuni, si è sempre pervicacemente opposto all'associazionismo calato dall'alto, propugnando invece un modello di aggregazione basato sulla condivisione dei servizi. «Finalmente l'Anci ha capito quello che noi diciamo da sempre: l'associazionismo forzoso avrebbe distrutto i piccoli comuni e il paese». «Ora però», ha messo in guardia il sindaco di Marsaglia (Cn), «non vorremmo che si cadesse dalla padella alla brace. I bacini ottimali devono essere decisi dal basso, ma non dalle province, come invece sostiene l'Anci (lo ha ribadito ieri in assemblea il sindaco di Pesaro Matteo Ricci ndr) perché questo significherebbe far prevalere nuovamente le decisioni dei grandi comuni favoriti dal meccanismo del voto ponderato».
I piccoli comuni saranno dunque al centro delle interlocuzione tra sindaci e governo nei prossimi mesi. E per questo la platea dell'Anci ha accolto con favore l'annuncio del ministro dell'interno, Angelino Alfano, di dedicare una delle prossime riunioni della Conferenza stato-città esclusivamente alle problematiche dei mini enti che spesso lamentano di essere dimenticati dal governo nonostante costituiscano il 70% dei municipi italiani e il 54% del territorio.
«I piccoli comuni rappresentano solo l'1% della spesa pubblica ma in questi anni sono stati colpiti da politiche restrittive che ne hanno solo incrementato la crisi e lo spopolamento», precisa Massimo Castelli, sindaco di Cerignale (Pc) e coordinatore nazionale Anci piccoli comuni, «bisogna quanto prima invertire la rotta favorendone il ripopolamento con incentivi e semplificazioni».
La legge di stabilità, tuttavia, nella parte in cui riduce il turnover al 25%, rendendo di fatto impossibile rimpiazzare il personale cessato nei mini enti, sembra andare in direzione opposta.
Il tema delle riforme si lega, infatti, a doppio filo al cantiere della manovra che in linea di massima piace all'Anci.
I sindaci apprezzano il superamento del patto di stabilità, sostituito con il pareggio di bilancio light (entrate finali e spese finali di competenza), lo sblocco degli avanzi di amministrazione per realizzare gli investimenti (anche se sul punto, a causa anche della scarsa chiarezza del ddl, permangono forti dubbi, come ha osservato Pier Sandro Scano, sindaco di Villamar (Vs) e presidente di Anci Sardegna), la maggiore spinta su fabbisogni standard e capacità fiscale per l'attribuzione delle risorse e la compensazione integrale del gettito Imu-Tasi mancante dopo l'abolizione delle tasse sulla prima casa. Ma ci sono ancora alcuni importanti nodi da sciogliere. In primis i 500 milioni di tagli alle province che renderebbero impossibile agli enti di area vasta la gestione delle funzioni fondamentali.
Sul punto, però, è arrivata un'apertura dal sottosegretario alla presidenza del consiglio, Claudio De Vincenti che ha promesso alle province l'impegno del governo a «garantire le risorse necessarie a svolgere la loro missione istituzionale in attesa che si compia il processo di riforma». Un impegno apprezzato dal presidente dell'Upi e sindaco di Vicenza, Achille Variati.
«È un segnale positivo che va nella direzione giusta, per arrivare a modificare il taglio agli enti di area vasta, partendo da dati certi», ha commentato. De Vincenti, infine, ha difeso il contestato tetto del turnover, precisando come non sia in contraddizione col decreto Madia del 2014, ma vada invece inquadrato proprio nell'ottica della riforma della p.a. recentemente approvata dal parlamento (legge n. 124/2015). Il tetto in ogni caso non impatterà negativamente sul ricollocamento del personale provinciale (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGOIl trattamento accessorio ancorato ai soldi del 2015.
Dal 2016, l'ammontare delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale pubblico non potrà superare l'importo del 2015 e dovrà essere progressivamente ridotto in proporzione alle cessazioni dal servizio.

Il ddl di stabilità 2016 torna all'antico e, dopo la breve pausa del 2015, rimette la sordina alla contrattazione decentrata.
È solo da quest'anno, infatti, che è venuto meno il tetto previsto dall'art. 9, c. 2-bis, del dl 78/2010, che fino al 2014 prevedeva un meccanismo analogo di contenimento, calibrato però sul 2010 come anno di riferimento. La nuova norma, peraltro, presenta una formulazione leggermente diversa da quella contenuta nelle prime bozze. Da un lato, il limite viene esplicitamente previsto solo «nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17» della Legge Madia.
Dall'altro lato, fermo restando che il tetto al fondo è rappresentato, come detto, dall'importo del 2015, non si prevede più che esso debba essere «determinato ( ) ai sensi dell'art. 9, c. 2-bis, secondo periodo» del dl 78/2010. Tale inciso sembrava implicare che eventuali incrementi, pur possibili nel 2015, dovessero essere recuperati dal 2016. Inoltre, a differenza di quanto accadeva in passato, è stato inserito un nuovo riferimento al «personale assumibile» per calcolare l'entità del taglio.
Restano comunque possibili le progressioni economiche orizzontali. Ovviamente, come evidenzia la relazione al testo, a essere cambiato è soprattutto il contesto generale, in quanto si è riattivato il meccanismo degli scatti stipendiali. In questo contesto, è chiaro che gli enti hanno ora convenienza ad aumentare il più possibile il fondo 2015, sia per ripararsi dai futuri tagli, sia per incrementare il proprio monte salari in vista di un eventuale ulteriore incremento del contratto collettivo nazionale.
Di regola, infatti, la quota di incremento del Ccnl legato alla produttività, e dunque attribuito al fondo, è espresso come una percentuale del monte salari di ciascun ente. Sui contratti, c'è da notare che i 300 milioni valgono lo 0,3% dato dall'inflazione prevista nel 2015. Non si parla più dell'indice Ipca che in base alla riforma Brunetta doveva sostituire il vecchio sistema proprio da questa tornata contrattuale e che è molto superiore: 1,5 nel 2015 (articolo ItaliaOggi del 30.10.2015).

TRIBUTI: Online il nuovo portale della giustizia tributaria.
Dal calcolo del contributo unificato dovuto sul ricorso alla prenotazione degli appuntamenti con la commissione tributaria, dalla modulistica per richiedere copia delle sentenze o il certificato di pendenza all'elenco dei soggetti autorizzati alla difesa del contribuente presso Ctp e Ctr.

È online il nuovo portale della giustizia tributaria, realizzato dal Dipartimento delle finanze del Mef. Il sito, i cui contenuti e l'erogazione dei servizi sono curati dalla Direzione giustizia tributaria, svolgerà anche la funzione di punto unico di accesso al processo tributario telematico, in partenza dal prossimo 1° dicembre in via sperimentale nelle commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Attraverso l'indirizzo web http://giustiziatributaria.gov.it contribuenti ed enti impositori potranno effettuare online il deposito dei ricorsi e degli atti processuali, come pure accedere al fascicolo informatico del processo e consultare tutti gli atti e i provvedimenti emanati dal giudice. Strumenti necessari per poter fruire dei servizi del processo tributario telematico sono il possesso di una casella di posta elettronica certificata e di una firma digitale valida.
Il sito contiene anche una sezione specifica dedicata alla rassegna di giurisprudenza tributaria. Ed è proprio su questo tema che, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, a poche ore dal «lancio» del portale alcuni giudici hanno sollevato qualche perplessità, relativa ai criteri di selezione delle sentenze da parte del Mef.
Come spiegato dalla Direzione giustizia tributaria sul sito, tuttavia, la panoramica sulle massime «si propone di offrire risalto ad alcune delle più interessanti pronunce segnalate dalle commissioni tributarie», senza quindi privilegiare né quelle pro-fisco né quelle pro-contribuente e in maniera più tempestiva che in passato (l'aggiornamento avverrà ogni 15 giorni).
Il portale sarà utilizzabile anche dai magistrati tributari, che potranno fruire di diversi servizi personalizzati accessibili dalla «scrivania del giudice», tra cui la ricerca delle sentenze delle commissioni tributarie e la consultazione del fascicolo processuale telematico (articolo ItaliaOggi del 29.10.2015).

APPALTIComuni, gli appalti a rischio. Il sistema non è pronto: Cantone sollecita una soluzione al Governo.
Spending review. Dal primo novembre scatta l’obbligo di aggregare le gare per le città non capoluogo.

Appalti dei Comuni a rischio blocco dal primo novembre. Dopo sei proroghe consecutive entra in vigore la norma che impone a tutte le città non capoluogo di aggregare le gare, attraverso consorzi e unioni di comuni oppure passando dagli uffici di una provincia o da un soggetto aggregatore.
Dalla prossima settimana solo i grandi comuni potranno continuare a bandire le gare in autonomia. Per tutti gli enti non capoluogo scatta invece la tagliola prevista dalla spending review inaugurata dal Governo Monti nel 2012: per risparmiare e permettere di controllare meglio la spesa le gare vanno aggregate. Un principio che vale per beni e servizi, ma anche per i lavori pubblici.
A meno di proroghe dell’ultim’ora non c’è possibilità di aggirare i vincoli. Chi non si adegua non potrà neppure avviare l’iter di gara. La norma del codice appalti che impone l’aggregazione, e che finora è rimasta congelata a suon di proroghe (articolo 33, comma 3-bis), vieta infatti all’Autorità Anticorruzione di rilasciare il codice che identifica la procedura (il cosiddetto codice Cig) la cui richiesta è propedeutica alla pubblicazione dei bandi di gara.
Uno spauracchio che non è bastato. Nel Paese degli 8mila campanili finora poco o nulla si è mosso sul fronte della centralizzazione degli appalti. Anche il sistema dei 35 soggetti aggregatori è in via di formazione. Qualche Regione è pronta a partire, altre sono indietro. In alcune aree del paese i sindaci non saprebbero a chi rivolgersi per bandire le loro gare. Dunque è più che concreto il pericolo di mandare in stallo gli appalti dei comuni: il principale tra i motori che in questi ultimi mesi hanno tenuto faticosamente a galla i lavori pubblici.
Se ne rende conto anche l’Anac di Raffaele Cantone. Che non a caso in queste ore sta lavorando a un documento da inviare a Governo e Parlamento per segnalare l’urgenza di una soluzione. Il problema si era già posto, negli stessi termini, a luglio 2014, alla scadenza di una delle tante proroghe concesse ai Comuni in ritardo sugli obblighi di aggregazione degli acquisti. Allora l'impasse fu superata con l'inserimento di una nuova proroga nel Dl 90/2014 e la decisione di Cantone di sbloccare il rilascio dei codici di gara (Cig) in anticipo sulla conversione del decreto. Uno scenario che potrebbe replicarsi anche ora.
Ad aggravare la situazione e c'è il fatto che l'entrata in vigore dal primo novembre porterebbe due mesi di caos totale per i Comuni più piccoli. Con le regole in vigore, infatti, quelli sotto i 10mila abitanti non possono bandire gare in autonomia, neppure sotto la soglia di 40mila euro. Dal primo gennaio, però, in base alla legge di Stabilità potranno farlo. C'è da scommettere che in questi 60 giorni la maggioranza dei sindaci tirerà i remi in barca, aspettando il 2016 per ricominciare a gestire gli appalti in maniera ordinata.
Per questo è allo studio un emendamento al Dl sulla finanza locale (promosso dai Comuni, ma non ancora presentato), per collegare l’entrata in vigore dei vincoli di aggregazione alla partenza del nuovo Codice appalti. Una riforma che peraltro continua a slittare in Parlamento.
L’esame della delega al governo per riscrivere il sistema dei contratti pubblici, calendarizzato per ieri, è stato rinviato alla prossima settimana su richiesta del Governo. Motivazione ufficiale: la necessità di riesaminare il testo varato dalla Commissione Lavori pubblici guidata da Ermete Realacci per blindarlo rispetto a ipotesi di ulteriori modifiche al Senato. Ma forse pesa anche l’assenza del premier Matteo Renzi , impegnato nel viaggio istituzionale in Sud America, alla vigilia dell’approvazione di una riforma decisiva per il settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2015).

VARIPrestito vitalizio ipotecario, pronto lo schema di offerta. Accesso al credito. Parere favorevole del Consiglio di Stato al regolamento.
Il prestito vitalizio ipotecario è quasi pronto per il debutto, in conseguenza del parere favorevole espresso dal Consiglio di Stato (parere 16.10.2015 n. 2791) sullo schema di regolamento attuativo, previsto dall'articolo 1, legge 02.04.2015, numero 44 (che ha sostituito il comma 12 dell'articolo 11-quaterdecies del decreto legge 203/2005): la nuova norma ha rivisitato, un istituto finora assai poco diffuso, finalizzato a consentire l'accesso al credito al proprietario di età superiore a 60 anni di un immobile
In poche parole, si consente alla persona avanti con gli anni di acquisire liquidità senza dover vendere la piena o la nuda proprietà dell'immobile; e ciò mediante la stipula di un mutuo a garanzia del quale viene iscritta un'ipoteca sull'immobile di sua titolarità.
In caso di decesso del mutuatario, i suoi eredi hanno l'alternativa di “recuperare” l'immobile libero da ipoteche, corrispondendo alla banca quanto le è dovuto, oppure di vendere il bene e soddisfare il credito della banca, in tutto o in parte, con quanto ricavato dalla cessione; infine, qualora entro dodici mesi dall'apertura della successione il credito della banca non risulti soddisfatto, la banca potrà vendere l'immobile in base al valore del bene determinato in una perizia predisposta da un perito indipendente (con la facoltà di trattenere la parte del prezzo occorrente per soddisfare il suo credito e riversando il resto agli eredi).
La nuova normativa dunque imponeva al ministro dello Sviluppo economico (Mise) di emanare, entro tre mesi dalla sua data di entrata in vigore (06.05.2015), una disciplina regolamentare sentite l'associazione bancaria italiana (Abi) e le associazioni dei consumatori: nel regolamento il Mise avrebbe dovuto fissare le regole cui il soggetto finanziatore si deve attenere nell'offerta al pubblico e nella diffusione sul mercato del prestito vitalizio ipotecario, nell'ottica di garantire trasparenza e certezza in merito all'importo oggetto del finanziamento, ai termini di pagamento, alla corresponsione degli interessi e a ogni altro costo dovuto dal cliente.
Dallo schema di decreto si evince che, a tutela del soggetto finanziato, il soggetto finanziatore dovrà sottoporre al richiedente due prospetti informativi, esemplificativi del piano di ammortamento, al fine di palesare il possibile andamento del debito nel tempo; e pure dovrà produrre la relativa documentazione precontrattuale e le informazioni minime circa l'operazione. È disposto inoltre che il soggetto finanziato potrà stipulare la polizza assicurativa inerente l'immobile concesso in garanzia anche presso un soggetto differente da quello finanziatore; e che egli avrà, in ogni caso, il diritto di ricevere un resoconto della propria posizione debitoria.
Viene anche previsto che, qualora il soggetto finanziato non intenda addivenire alla stipula del prestito vitalizio ipotecario, pur avendo egli attivato la fase pre-contrattuale, sarà vietato all'istituto finanziatore di esigere il pagamento delle spese sostenute dal finanziatore.
Il Consiglio di Stato, pur avendo espresso il proprio parere favorevole allo schema di decreto di regolamento, ha tuttavia invitato il Mise ad apportarvi taluni emendamenti al fine di fornire maggiori tutela e informazione al soggetto finanziato.
In particolare sono state richieste modifiche alle modalità di revoca integrale del finanziamento qualora l'immobile concesso in garanzia subisca procedimenti conservativi o esecutivi di importo pari o superiore a una data percentuale del valore del finanziamento o del valore dell'immobile concesso in garanzia, nonché, agli effetti dell'eventuale anticipata estinzione del finanziamento nei confronti degli eredi
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGOIl legale non paga per l’Albo. Dipendenti pubblici. Due le condizioni: elenco speciale e rapporto subordinato.
La Ragioneria generale dello Stato ha emesso un parere sulla competenza a pagare l'iscrizione dei dipendenti pubblici agli albi professionali.
Dopo la sentenza della Corte di Cassazione 7776/2015, e dopo che alcune sezioni regionali della Corte dei conti hanno ritenuto di non entrare nel merito, con la nota 19.10.2015 n. 79309 di prot. in risposta a una specifica richiesta di un comune, vengono forniti i chiarimenti operativi per gli enti locali.
Affinché i costi della tassa di iscrizione all'albo degli avvocati possano gravare sull'ente pubblico (e quindi essere rimborsati costituendo peraltro spese di personale), sono necessarie due contemporanee condizioni. Innanzitutto deve esistere carattere obbligatorio dell'iscrizione nell'elenco speciale annesso all'albo ai fini dell'espletamento dell'attività del professionista.
In secondo luogo vi deve essere il carattere esclusivo dell'esercizio dell'attività professionale in regime di subordinazione, in cui l'ente locale è l'unico soggetto beneficiario dei risultati di detta attività.
Il parere si occupa anche di altre categorie di dipendenti: ingegneri, architetti, geometri, assistenti sociali. In questi casi l'iscrizione al relativo albo professionale non assume, in via generale, carattere obbligatorio ai fini dell'espletamento delle attività cui soni preposti i lavoratori, né sussistono, elenchi speciali sul modello dell'albo degli avvocati. Quindi, viene a mancare la prima condizione sopra elencata e l'ente locale non può rimborsare la tassa di iscrizione all'albo professionale.
La Rgs, spiega, altresì che per i responsabili degli uffici tecnici non è richiesta l'iscrizione all'albo per la redazione di progetti a favore dell'amministrazione da cui dipendono e questo in virtù dell'articolo 90, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 163/2006, in quanto è sufficiente il rapporto di servizio esistente e la conseguente incardinazione nella struttura dell'ente
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti elettrici più facili da smaltire.
Semplificato lo svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di piccolissime dimensioni. Tale semplificazione si applica ai distributori obbligati a effettuare il ritiro secondo il criterio dell'uno contro zero, ma anche a quei distributori che, pur non essendo obbligati a farlo (perché la loro superficie di vendita è inferiore a 400 mq o perché effettuano solo vendite a distanza) decidano spontaneamente di adottare tale criterio di ritiro gratuito.

Il consiglio di stato con il parere 06.10.2015 n. 2750 ha dato l'ok allo schema di decreto ministeriale recante «Modalità semplificate per lo svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di piccolissime dimensioni, nonché requisiti tecnici per lo svolgimento del deposito preliminare alla raccolta».
Viene ribadito, inoltre, che il ritiro secondo il criterio dell'uno contro zero ha a oggetto soltanto Raee di piccolissime dimensioni provenienti dai nuclei domestici, conformemente a quanto previsto dall'articolo 11 del dlgs n. 49 del 2014.
L'art. 4 del dm prevede due principi fondamentali in materia di ritiro secondo il criterio dell'uno contro zero: la gratuità e l'informazione all'utilizzatore finale. I distributori devono garantire il rispetto di tali principi, e in particolare, con riferimento al secondo, hanno l'obbligo di informare gli utilizzatori finali della gratuità del ritiro, e promuovere campagne informative al fine di incentivarlo.
Vengono definite le procedure per il conferimento dei Raee di piccolissime dimensioni da parte degli utilizzatori finali e disciplina i requisiti tecnici per allestire il luogo di ritiro all'interno dei locali del punto vendita del distributore o in prossimità immediata di essi, determinandone in maniera precisa le caratteristiche.
Si tratta di uno o più contenitori che il distributore mette a disposizione dell'utilizzatore finale, e che sono facilmente accessibili e individuabili, riparati da agenti atmosferici, tali da tutelare la salute e la sicurezza di colui che conferisce i Raee e impedire che soggetti terzi possano asportare quanto conferito.
Conformemente a quanto previsto dall'articolo 11, comma 3, dlgs n. 49 del 2014 (che aveva riguardo solo al regime transitorio) si prevede una raccolta separata dei Raee d'illuminazione e di quelli pericolosi dagli altri Raee conferiti (articolo ItaliaOggi del 28.10.2015).

CONDOMINIOLe «varie ed eventuali» non ammettono delibere. Prevale l’obbligo di preventiva informazione.
Assemblee. Vademecum sull’uso dello spazio aperto nell’ordine del giorno.

A fine assemblea, l’ultimo punto dell’ordine del giorno presenta invariabilmente la dicitura “varie ed eventuali”. Ma cosa può concretamente significare? E cosa si può decidere davvero?
I giuristi che hanno indagato la formula sono concordi nel ritenere che la voce in esame sia volta a individuare:
1) comunicazioni rese dall’amministratore o dai condomini senza l’impegno di spesa, salvo il caso di minimi esborsi;
2) suggerimenti e raccomandazioni rivolte dai condomini alla persona dell’amministratore;
3) richieste di chiarimenti allo stesso amministratore al fine di ottenere indicazioni operative in ordine a particolari condotte o prassi applicative;
4) richieste di inserimento di una determinata questione o argomento all’ordine del giorno di una prossima assemblea;
5) relazioni di aggiornamento su questioni già oggetto di precedente discussione all’esito di mandati esplorativi o di attività di scrutinio e selezione di preventivi di spesa;
6) argomenti di secondaria importanza e di minimo rilievo pratico e comunque tali da non richiedere una specifica menzione nell’ordine del giorno e di essere oggetto di una deliberazione assembleare.
Ma quali criticità può sollevare l’eventuale inserimento di questa voce, apparentemente innocente, nell’ordine del giorno?
La questione principale è data dalle conseguenze che possono determinarsi a fronte di una eventuale discussione e deliberazione da parte dell’organo assembleare. Infatti, le delibere assunte sotto la voce in esame, potendo violare l’obbligo di preventiva informazione dei condomini convocati in assemblea, si prestano a essere impugnate al fine di farne accertare la loro invalidità.
Tale voce, infatti «non può tradursi in un contenitore eterogeneo, da cui far scaturire argomenti a sorpresa per gli ignari condomini» (così afferma il Tribunale di Roma, sentenza del 19.06.2012, n. 12684). Ciò ha condotto parte della dottrina e della giurisprudenza a orientarsi per una tesi decisamente restrittiva, la quale ritiene che, pur consentendo tale voce la discussione in sede assembleare di qualsiasi argomento, ancorché lo stesso non figuri espressamente nell’ordine del giorno, nessuna deliberazione, a pena di annullabilità, può invece essere assunta all’esito della discussione medesima.
Ne consegue che se, a seguito dell’informazione e della relativa discussione sul punto, emerga la necessità di adottare una decisione in merito a qualche argomento ritenuto particolarmente rilevante e bisognoso di una più approfondita valutazione, la delibera dovrà necessariamente essere rimandata a una successiva riunione, nella quale sarà inserito tale argomento nell’ordine del giorno con una voce specifica.
La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha segnato i limiti di impiego della formula di stile offrendo un ventaglio di fattispecie concrete senza dubbio idonee a orientare la condotta dell’amministratore e della stessa assemblea dei condòmini.
In particolare, tra le deliberazioni assunte dall’assemblea che risultano non idonee a essere inserite sotto la dizione “varie ed eventuali” si segnalano:
1) l’esecuzione di lavori di rifacimento della facciata dell’edificio condominiale, precisandosi, al riguardo, che il relativo argomento debba al contrario essere specificamente inserito nell’avviso di convocazione dell’assemblea, in quanto attinente alla materia dell’amministrazione straordinaria del bene comune;
2) la diffida assembleare alla rimozione di piante posizionate sul balcone di un condomino;
3) la costituzione di un fondo speciale finalizzato a fronteggiare spese condominiali urgenti;
4) il pagamento del compenso a un professionista il quale abbia prestato la propria opera a vantaggio del condominio, laddove tale spesa non sia contemplata nell’ordine del giorno e ove non sia raggiunta la prova circa il conferimento dell’incarico stesso;
5) la decisione di abbattimento di un albero proposta dal condomino quale utilizzatore esclusivo di un giardinetto condominiale;
6) la decisione di stipulare un contratto di assicurazione contro gli incendi;
7) l’autorizzazione concessa a un condomino per la realizzazione di una pensilina;
8) la decisione di diniego all’installazione da parte di un condomino di una canna fumaria sul muro perimetrale dello stabile condominiale
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALibertà di parabola, limiti all’installazione. Tlc. Sul tetto solo se non c’è spazio nei locali privati.
L’installazione di una parabola o antenna sul terrazzo condominiale può essere effettuata dal condòmino non arbitrariamente, ma tenendo conto del libero uso della proprietà comune da parte degli altri condòmini, nel rispetto del decoro architettonico e se non c’è la possibilità di utilizzare spazi propri.
L’applicazione di tali regole, fissate dall’articolo 1122-bis del Codice civile, sono state ribadite dal TRIBUNALE di Roma con la sentenza n. 9279/2015.
A fronteggiarsi sono un condominio e una società conduttrice di un ampio locale commerciale all’interno del fabbricato. La società chiede all’amministratore una copia delle chiavi di accesso al terrazzo condominiale, per poter installare un’antenna parabolica per la ricezione del segnale satellitare, utile per lo svolgimento della propria attività lavorativa, comprendente gestione di attività di front e back office, recapito corrispondenza e sorveglianza non armata. L’amministratore si rifiuta di consegnare le chiavi, negando il diritto all’uso del bene comune.
La disputa, dopo l’esito negativo della procedura di mediazione, arriva in Tribunale dove la società ribadisce il suo diritto all’installazione della parabola, che le avrebbe fatto risparmiare anche 84 euro al mese rispetto all’abbonamento Adsl che aveva in essere. Il condominio, dal canto suo, sostiene che il diritto vantato dalla società non sia assoluto, ma che deve invece «considerarsi subordinato alla condizione della impossibilità di utilizzare spazi propri»: condizione che nel caso non sussisteva, potendo la società «installare l’antenna sulle mura del fabbricato da essa condotto in locazione».
Il Tribunale ha rigettato la richiesta della società, alla luce del costante indirizzo giurisprudenziale che riconosce l’esistenza del diritto a installare parabole e antenne sul terrazzo condominiale, prevedendo però alcuni limiti: l’impianto non deve impedire il libero uso della proprietà comune da parte degli altri condomini; non deve recar danno alla proprietà comune, specie sotto il profilo del decoro architettonico; e deve risultare l’impossibilità per il condomino di utilizzare spazi propri.
E in riferimento a tale ultimo limite, la non adeguatezza degli spazi propri deve essere provata. Nel caso di specie, la società non solo non ha fornito la prova della impossibilità di installare l’impianto sull’immobile da essa condotto in locazione, ma la parabola, come affermato dalla Ctu, avrebbe potuto effettivamente essere installata sulla porzione di fabbricato della stessa società
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.10.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Ingegneri, niente albo se lavorano per la p.a..
Non è automatico il diritto al rimborso della tassa di iscrizione all'albo per gli ingegneri dipendenti per cui è previsto il solo obbligo di abilitazione professionale. Gli ingegneri dipendenti pubblici e appartenenti agli uffici tecnici delle stazioni appaltanti possono espletare attività di progettazione per conto della p.a. con il requisito della (mera) abilitazione, senza necessità di iscrizione all'albo.
Perciò in questo caso, a differenza degli avvocati, non si può affermare che l'iscrizione all'albo è presupposto indispensabile per svolgere l'attività a favore dell'ente di appartenenza.

Questa è quanto si legge nella circolare 21.10.2015 n. 615 del Consiglio nazionale ingegneri in merito alla sentenza n. 7776 del 2015 con cui la Corte di cassazione (in una vertenza tra l'Inps ed un avvocato dipendente pubblico) ha stabilito che il rimborso della tassa annuale di iscrizione all'albo degli avvocati dovesse essere corrisposto dall'ente pubblico datore di lavoro.
Ne deriva che viene meno la condizione per esigere il rimborso della quota di iscrizione eventualmente pagata dall'interessato. Inoltre, a parere del Consiglio nazionale degli ingegneri, «qualora la normativa preveda l'obbligatorietà dell'iscrizione all'albo per il dipendente ingegnere, il pagamento della relativa tassa annuale di iscrizione (facendo applicazione dei principi fissati dalla giurisprudenza del Consiglio di stato e della Corte di cassazione) sarà a carico dell'ente datore di lavoro e, se il versamento è stato anticipato dal dipendente, deve essergli rimborsato».
Concludendo il Consiglio nazionale sottolinea «il carattere eccezionale della previsione dettata dalla normativa sugli appalti pubblici, ovvero la sussistenza di una disposizione espressa che richiede la sola abilitazione per svolgere attività professionale. Tale disposizione va intesa come eccezione alla regola generale della necessaria iscrizione all'albo e non può quindi trovare applicazione al di fuori dei casi legislativamente previsti (articolo 90, dlgs n. 163/2006, e articolo 9, dpr n. 207/2010), nemmeno per effetto di una interpretazione estensiva o analogica» (articolo ItaliaOggi del 27.10.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARILunga vita alle detrazioni casa. Agevolazioni de 65 e 50% prorogate per il 2016. LEGGE DI STABILITÀ/Incentivi per ristrutturazioni e riqualificazioni energetiche.
Ecobonus, ristrutturazioni edilizie e bonus mobili confermati anche per l'anno prossimo. In base a quanto previsto dalla legge di Stabilità 2016, la proroga delle detrazioni fiscali del 65% per il risparmio energetico e del 50% per le ristrutturazioni abitative semplici si allunga così di un anno. Mantenuta in vita per un altro anno anche la detrazione del 65% per gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche su costruzioni che si trovano in zone ad alta pericolosità, se adibite ad abitazione principale o ad attività produttive.

Tra le novità del testo della manovra, il bonus mobili allargato alle coppie under 35 e l'ecobonus esteso agli immobili ex Iacp.
Detrazioni fiscale ristrutturazione. La proroga al 2016 riguarda la detrazione del 50% per gli interventi edilizi. Confermato anche il limite massimo di spesa di 96 mila euro per unità immobiliare.
Danno diritto alla detrazione gli interventi di:
- manutenzione ordinaria, effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale;
- manutenzione straordinaria effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale e su singole unità immobiliari residenziali;
- restauro e di risanamento conservativo, effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale e su singole unità immobiliari residenziali;
- ristrutturazione edilizia, effettuati sulle parti comuni di edificio residenziale e su singole unità immobiliari residenziali;
- ricostruzione o ripristino dell'immobile danneggiato a seguito di eventi calamitosi, anche se non rientranti nelle categorie elencati nei punti precedenti, sempreché sia stato dichiarato lo stato di emergenza;
- restauro, risanamento conservativo, e ristrutturazione edilizia, riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare e da cooperative edilizie, che provvedano entro 18 mesi dal termine dei lavori alla successiva alienazione o assegnazione dell'immobile.
Nel bonus ristrutturazioni rientrano non solo gli interventi effettuati sulle unità immobiliari di tipo abitativo, ma eventualmente anche quelli riguardanti le relative pertinenze. In particolare, si ha diritto alla detrazione per la realizzazione o l'acquisto di autorimesse e posti auto pertinenziali, pure se a proprietà comune.
Detrazione per riqualificazione energetica. Anche per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici è stata prorogata fino al 31.12.2016 la misura maggiorata al 65%. A usufruire del bonus sono tutti i contribuenti, anche i titolari di reddito d'impresa, possessori dell'immobile. Per il 2016, la legge di Stabilità ha esteso gli incentivi agli immobili ex Iacp (istituti autonomi case popolari).
Sono ammesse alla detrazione del 65% le spese sostenute su edifici di qualsiasi categoria catastale per:
- interventi di riqualificazione energetica di interi edifici per l'abbattimento dell'indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale (detrazione massima 100 mila euro);
- interventi sugli involucri di edifici per la riduzione della trasmittanza termica delle pareti opache orizzontali o verticali, compresa la sostituzione di vetri e/o infissi (detrazione massima 60 mila euro);
- installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda (detrazione massima 60 mila euro);
- sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale (detrazione massima 30 mila euro);
- acquisto e posa in opera di schermature solari con le caratteristiche previste dall'allegato M al dlgs 311/2006: tende esterne da sole con marchiatura obbligatoria Ce e certificate UNI EN 13561; chiusure oscuranti con marchiatura obbligatoria CE e certificate UNI EN 13659; i dispositivi di protezione solare, anche in combinazione con vetrate, di cui alle norme armonizzate europee UNI EN 14501, 13363.01, 13363.02 (detrazione massima 60 mila euro);
- acquisto e posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse (detrazione massima 30 mila euro).
Si può usufruire dell'ecobonus sia per gli interventi di riqualificazione dei singoli appartamenti che delle parti comuni dei condomini. La detrazione non è cumulabile a quella per il bonus ristrutturazioni.
Bonus lavori adeguamento antisismico. È stata ugualmente confermata a tutto il 2016 la detrazione del 65% per lavori di adeguamento antisismico per la messa in sicurezza degli edifici esistenti.
La detrazione deve essere calcolata su un importo massimo di 96 mila euro per unità immobiliare (da ripartire in dieci quote annuali di pari importo) e beneficiari sono i soggetti passivi Irpef e Ires (quindi sia persone fisiche che imprese) a condizione che le spese siano rimaste a loro carico e che possiedano o detengano l'immobile in base a un titolo idoneo (diritto di proprietà o altro diritto reale, contratto di locazione, o altro diritto personale di godimento).
Il bonus antisismico può essere richiesto se l'intervento è effettuato su costruzioni adibite ad abitazione principale o anche ad attività produttive (unità immobiliari in cui si svolgono attività agricole, professionali, produttive di beni e servizi, commerciali o non commerciali) e sempre l'immobile si trova in zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2), i cui criteri di identificazione sono stati fissati con l'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003 (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARaee, semplificazioni allargate. Corsia preferenziale per imprese già abilitate al trasporto. Dall'Albo gestori i criteri per estendere l'attività al ritiro alleggerito dei tecno-rifiuti.
Accesso agevolato per le imprese già autorizzate dall'Albo gestori ambientali a raccolta e trasporto professionale di rifiuti alle analoghe attività di gestione semplificata dei Raee provenienti da circuiti di vendita e riparazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (c.d. Aee).

La novità arriva con la deliberazione 16.09.2015 n. 2 di prot. del Comitato nazionale dell'Albo (integrata con deliberazione 15.10.2015 n. 3 di prot.) che detta i criteri operativi per estendere, tramite richiesta alla Sezione regionale o provinciale di competenza, le proprie autorizzazioni ex categoria 4 (raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi) e 5 (speciali pericolosi) del dm 120/2014 a quella ex 3-bis (Raee ritirati da distributori di nuove Aee, installatori, e centri di assistenza), la quale consente una tenuta semplificata dei documenti di tracciamento dei rifiuti.
Le novità dall'Albo gestori ambientali. Alla base della nuova deliberazione del Comitato nazionale dell'Albo due disposizioni, ossia: l'articolo 212, comma 7, del dlgs 152/2006 per il quale enti e imprese già autorizzate a raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi sono esonerate (a condizione di immutata classe di appartenenza) dall'obbligo di iscrizione per le analoghe attività sui non pericolosi; l'articolo 8, comma 2, del dm Ambiente 120/2014 (il nuovo regolamento dell'Albo), per il quale le iscrizioni nelle citate categorie 4 e 5 consentono (sempre a immutate condizioni) sia l'esercizio delle attività di cui alla categoria 2-bis (auto-trasporto dei propri rifiuti) sia quelle ex 3-bis.
A chiarimento della prima disposizione e in attuazione della seconda intervengono le nuove regole dell'Albo. Due le novità di rilevo: l'iscrizione alla categoria 4 (rifiuti non pericolosi) che consente, tra le altre (previa compatibilità tecnica e richiesta di estensione alla 2-bis), il trasporto anche dei rifiuti pericolosi di propria produzione iniziale in quantità non eccedenti 30 chilogrammi o 30 litri al giorno (ex art. 212, comma 8, dlgs 152/2006); l'iscrizione a una delle due categorie 4 e 5 che consente (previa richiesta di estensione alla categoria 3-bis) anche il trasporto in regime semplificato dei Raee (pericolosi e non pericolosi) ritirati dal circuito Aee nel rispetto delle regole (e dei limiti) stabiliti dal dm 65/2010.
L'allargamento dell'autorizzazione alla gestione semplificata Raee, precisa la nuova delibera dell'Albo, è consentita nei seguenti termini: le imprese abilitate al trasporto rifiuti per conto terzi possono svolgere le analoghe attività in nome e per conto dei distributori di Aee; le imprese munite di soli veicoli per uso proprio possono invece essere abilitate al trasporto semplificato dei Raee di cui esse stesse risultino essere detentrici in quanto distributori, installatori o gestori di centri di assistenza Aee.
Alle imprese già iscritte nelle citate categorie 4 e 5 in linea con i parametri richiesti dall'Albo è consentito fin da subito richiedere l'allargamento (sia alla 2-bis che alla 3-bis) utilizzando il modello «b» allegato alla nuova delibera.
Il regime semplificato per i Raee. Il dm 65/2010 richiamato dalla delibera 2/2015 prevede (in attuazione del dlgs 151/2005) per distributori, installatori, gestori di centri di assistenza Aee (e trasportatori terzi dei rifiuti, di cui i primi eventualmente si avvalgono) di utilizzare, nel rispetto di determinate condizioni tecniche, un regime burocratico light per condurre le (rispettive) attività di raccolta e trasporto Raee (sia domestici che professionali) di cui hanno la detenzione in ragione della propria attività.
Regime che consiste in: iscrizione semplificata all'Albo gestori (tramite mera comunicazione e senza obbligo di presentare garanzie finanziarie); tenuta di uno «schedario di carico e scarico» e di un «documento di trasporto» (in luogo dei più onerosi registri e formulario ex dlgs 152/2006). Successivamente al dm 65/2010, è bene ricordarlo, è intervenuto il dlgs 49/2014 di riformulazione della speciale disciplina sulla gestione dei Raee.
Nel sostituire pressoché integralmente il dlgs 151/2005, il dlgs 49/2014 ha da un lato confermato alcune disposizioni dell'uscente regime (come l'obbligo per i distributori di ritiro gratuito «uno contro uno» delle Aee conferite dai consumatori all'acquisto di equivalenti beni e la possibilità di gestione semplificata ex dm 65/2010) e dall'altro introdotto rilevanti novità che incidono sugli adempimenti cui sono chiamati gli stessi operatori del settore.
In base al riformulato quadro normativo, sono infatti inquadrati come «distributori» (con i sottesi e citati obblighi): tutti coloro che rendono disponibili sul mercato e per qualsiasi uso delle Aee (dunque, anche gli installatori e gestori di centri di assistenza che nell'ambito della propria attività forniscono tali beni, per esempio come ricambi); tutti i soggetti che forniscono Aee utilizzando tecniche di vendita a distanza tramite internet (c.d. «e-commerce»).
Appare da ultimo utile ricordare come i distributori di Aee che importano o immettono comunque dall'estero nuovi beni sul mercato nazionale rientrano, ai sensi del citato dlgs 49/2014, nella più gravosa categoria di «produttori», con i conseguenti e più ampi oneri (previsti dallo stesso provvedimento) di istituzione e finanziamento del sistema di gestione dei relativi Raee.
Alla luce di tale rinnovato orizzonte, i criteri dell'Albo che consentono di allargare la portata dei titoli autorizzativi alle attività di gestione semplificata dei Raee appaiono dunque essere di rilevante interesse sia per le imprese di trasporto rifiuti sia per gli stessi distributori di nuove Aee, laddove per i primi potrebbero prospettarsi nuovi mercati, per i secondi un incremento (con i benefici economici dati dalla concorrenza) del novero di aziende cui rivolgersi per la gestione dei Raee.
Ritiro Raee nell'e-commerce. In relazione ai distributori di Aee, alcune criticità sono tuttavia state rilevate in relazione agli operatori del settore «e-commerce», come risulta da un'indagine presentata lo scorso 14.10.2015 da Remedia (fra i principali sistemi collettivi italiani non profit per la gestione ecosostenibile anche dei tecno-rifiuti) e Netcomm (il consorzio del commercio elettronico italiano).
 Oltre a evidenziare una carenza sotto il profilo dell'obbligo di informativa all'utenza del sistema di ritiro «one on one» (si veda ItaliaOggi Sette del 19/10/2015), lo studio mette in luce alcuni nodi della filiera (rappresentante il 13% del mercato online nazionale di Aee) proprio nel ritiro e trasporto dei Raee. Per adempiere agli obblighi del «one on one» i distributori online di Aee possono ricorrere sia a un sistema auto-organizzato (c.d. «make», gestendo a tutto tondo ritiro, raggruppamento e successivo trasporto dei Raee a centri di trattamento), sia affidarsi (totalmente o parzialmente) a soggetti esterni.
In tale contesto, le prime problematiche riguardano le modalità di ritiro dei Raee presso l'utenza, laddove nell'opzione di consegna a domicilio delle nuove Aee occorre necessariamente prevedere la presa in carico di quelle usate da parte trasportatori autorizzati nei termini più sopra citati (condizione che spesso può rendere necessario l'intervento successivo e differito di un soggetto diverso dall'ordinario corriere che ha effettuato la consegna del nuovo bene).
Criticità possono altresì presentare le differenti modalità di consegna del nuovo e ritiro del vecchio presso luoghi presidiati, come uffici postali e negozi convenzionati, in vista del successivo e necessario trasporto (autorizzato) verso gli impianti di trattamento; in tale ambito le soluzioni preferibili appaino essere quelle di ricorrere a punti «pick and pay» gestiti direttamente dagli stessi distributori (in regola con i sottesi e citati adempimenti) o ricorrere alla convenzione con supermercati, nella maggior parte dei casi già forniti di un proprio sistema di prima gestione Raee (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

TRIBUTI: Baratto amministrativo soltanto con l'inerenza.
Deliberazioni di riduzione o di esenzione di tributi «inerenti il tipo di attività posta in essere». In cambio di lavori fatti in tali ambiti di attività.

Con nota di approfondimento del 16.10.2015 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre scorso), l'Ifel fornisce chiarimenti per il corretto inquadramento del baratto amministrativo e per la sua applicazione ai tributi locali. Beneficiari del baratto amministrativo potranno essere individuati in cittadini singoli o associati. Si privilegeranno le «Comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute».
L'Istituto per la finanza e l'economia locale ritiene che la riduzione o l'esenzione potrà essere concessa con riguardo alle obbligazioni tributarie di cui è soggetto passivo l'associazione stessa. Altro aspetto delicato afferisce il perimetro d'intervento.
A parere dell'Ifel, l'intervento dei cittadini dovrà riguardare un territorio da qualificare ed essere alternativo e sostitutivo rispetto a quello del comune. A fronte dell'intervento dei cittadini, il comune potrà disporre deliberazioni di riduzione o esenzione di tributi «inerenti al tipo di attività posta in essere».
La ratio sottesa alla norma consente di collegare la delibera di agevolazione al tributo di riferimento anche se in apparenza non direttamente ricollegabile al tipo di attività posta in essere. Il concetto di «inerenza» del tributo per cui si prevede l'agevolazione all'attività svolta dai cittadini (singoli o associati), dovrà essere valutato in sede di predisposizione della delibera di agevolazione ed ispirato a criteri di ragionevolezza e corrispondenza tra beneficio reso ed agevolazione concessa.
L'Ifel ritiene opportuno basare la quantificazione economica dell'agevolazione secondo politiche ispirate a responsabilità e ragionevolezza del trattamento agevolativo, specificando che il riconoscimento dell'agevolazione non deve essere solo «legittimo» ma anche «controllabile».
Da ultimo, l'Istituto tiene a precisare che non appare coerente con la ratio della norma la possibilità di prevedere riduzioni o esenzioni anche con riferimento ad eventuali debiti tributari del contribuente. La ragione è da ritrovare nei principi di indisponibilità ed irrinunciabilità al credito tributario cui soggiacciono tutte le entrate tributarie comunali (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

VARI: Box occupato, l'invalido sosta gratis.
Il titolare del contrassegno invalidi che trova il box riservato occupato può parcheggiare nelle zone a pagamento gratuitamente. Purché l'ente locale abbia deciso di ammettere questa facoltà dandone informazione agli utenti.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 04.09.2015 n. 4341 di prot..
Il riformulato articolo 381 del regolamento stradale specifica che il comune ora può potenziare il numero dei parcheggi riservati agli invalidi anche nelle zone a pagamento. Ma l'ente locale può anche prevedere la sosta gratuita agli invalidi sulle strisce blu quando i box riservati ai titolari dei contrassegni risultino già occupati o indisponibili.
A parere della Cassazione però senza il nulla osta del comune non è automatico poter parcheggiare gratuitamente i veicoli muniti di contrassegno invalidi nelle zone a pagamento.
Specifica infatti il parere centrale che con la sentenza n. 21271 del 05.10.2009 la II sezione civile della Corte di cassazione ha bocciato il via libera generico alla gratuità della sosta degli invalidi in zone blu, confermando le recenti indicazioni normative che richiedono una determinazione comunale in tal senso (articolo ItaliaOggi Sette del 26.10.2015).

aggiornamento al 18.09.2015

APPALTI: Riforma appalti, niente regolamento. Edilizia. Delrio conferma la semplificazione.
Via al recepimento tramite il Codice, senza transitare dal regolamento. E più poteri alle linee guida dell’Anac di Raffaele Cantone, che saranno però sottoposte a un parere (non vincolante) del Parlamento.
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio ieri in commissione Ambiente alla Camera si è per la prima volta pronunciato sulle modifiche che il Governo ha intenzione di portare al Ddl delega di recepimento delle direttive appalti
(Atto Camera n. 3194).
Tutto ruota attorno a un emendamento che cancellerà il regolamento dai radar della riforma e che sarà presentato all’inizio della prossima settimana. Anche se non è il solo intervento in preventivo: qualcosa cambierà sul fronte dei lavori in house delle concessionarie.
Il presidente dell’ottava commissione, Ermete Realacci fa il punto sul calendario. «È evidente che non possiamo far proseguire i lavori senza la proposta di modifica del Governo». Il riferimento è all’emendamento annunciato ieri formalmente da Delrio: cancellazione del regolamento di attuazione del Codice, con un ruolo più pesante per le linee guida dell’Anac. A monitorare il lavoro dell’Autorità ci sarà il Parlamento. Alcuni dettagli dell’intervento, però, sono oggetto di limature. In attesa di questi aggiustamenti, la commissione starà ferma. «Tra lunedì e martedì -prosegue Realacci- aspettiamo le proposte del Governo. Le votazioni partiranno lunedì 28 settembre». Sul piatto non c’è solo il tema del regolamento. Dal Governo è attesa una proposta anche sul tema dei lavori in house delle concessionarie.
A completare il quadro ci saranno alcune proposte della maggioranza e della relatrice, Raffaella Mariani. Che ieri in una giornata di studi sugli appalti, organizzata da Tor Vergata e ospitata dall’Antitrust, ha confermato anche la scelta di spostare sui controlli il bonus del 2% riconosciuto ai progettisti della Pa. Norme più stringenti arriveranno anche per facilitare l’accesso agli appalti da parte delle Pmi, come chiesto ieri dal presidente della Piccola Industria di Unindustria Angelo Camilli.
Dall’Antitrust sono arrivate la proposta di una patente a punti per valutare la reputazione delle imprese e la richiesta di stringere le maglie sugli appalti in house, limitando questa possibilità alle società a capitale interamente pubblico. Vero che le direttive su questo punto aprono alla presenza di privati. «Ma si tratta di una norma a recepimento volontario», ha chiarito Valentina Guidi, dirigente del dipartimento Politiche europee di palazzo Chigi
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Sono ancora fuorilegge i semafori troppo moderni.
Devono ancora restare spenti i diffusi semafori laser in grado di attivarsi all'arrivo di veicoli troppo veloci. E non possono neanche essere posizionati regolarmente i tabelloni luminosi che evidenziano all'utente il tempo residuo di accensione delle lanterne semaforiche.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere n. 3805/2015.
Un comune friulano ha richiesto indicazioni sulle nuove opportunità tecnologiche introdotte dall'art. 60 della legge 120/2010, ovvero sulla possibilità di installare ai semafori sistemi avanzati in grado di misurare la velocità dei veicoli e variare conseguentemente il ciclo delle lanterne. Oppure semplicemente posizionare tabelloni luminosi agli incroci per evidenziare agli utenti in transito la durata residua dei cicli semaforici.
Al momento resta tutto invariato ovvero vietato, ha specificato il ministero. L'art. 60 della legge di riforma stradale dell'agosto 2010 rinvia infatti ad un decreto ministeriale la definizione delle caratteristiche per l'omologazione e per l'installazione di questi ingegnosi dispositivi.
Questo decreto, anche se in fase di completamento, non è però ancora stato emanato, specifica il parere centrale, e peraltro diventerà efficace solo dopo 6 mesi dalla sua emanazione. I dispositivi di count down, specifica la nota, non dovranno interferire con alcun sistema di controllo del traffico e nemmeno con il ciclo semaforico.
Inoltre secondo il ministero non sarà possibile installare dispositivi che variano il ciclo delle lanterne in relazione alla velocità dei veicoli, nonostante le diverse indicazioni della legge 120/2010. Sul territorio nazionale sono state effettuate sperimentazioni ma ancora nessun congegno è stato omologato e può essere utilizzato. In pratica allo stato attuale i semafori più o meno intelligenti restano fuori legge.
L'unica funzione ammessa dalla normativa per gli impianti semaforici è ancora quella prevista dall'art. 158 del regolamento stradale, ovvero regolare i flussi del traffico senza interferenze tecnologicamente troppo sviluppate. Tutte le postazioni attive e troppo creative non sono pertanto conformi alla normativa stradale e vanno spente (articolo ItaliaOggi del 17.09.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: Diplomati tecnici in forse. Accesso al tirocinio a misura di professione. Le posizioni delle categorie in attesa di chiarimenti di Miur e Giustizia.
Nuovi diplomati tecnici appesi a un filo. O meglio, in balia dei ministeri della giustizia e dell'istruzione.
Dopo la circolare con cui il Miur ha fissato nel IV livello di qualifica europeo (Eqf) le competenze rilasciate dal nuovo titolo di istruzione tecnica, i ragazzi che a luglio scorso sono entrati in possesso del diploma stanno andando incontro a sorti differenti (si veda ItaliaOggi del 28.08.2015).
A seconda della categorie interessate (periti industriali, geometri, periti agrari e agrotecnici) le soluzioni proposte per le iscrizioni ai tirocini cambiano. Almeno per ora. Il 22 settembre prossimo, infatti, presso il Miur è in programma un incontro interlocutorio tra i presidenti delle categorie e i funzionari che si stanno occupando della vicenda nella speranza che anche il dicastero del ministro Andrea Orlando si faccia sentire. In attesa, però, che la politica faccia il suo corso le categorie hanno dovuto scegliere quale strada percorre.
Divisi tra coloro che ritengono che il contenuto della circolare non imponga alcun tipo di restrizione e coloro che invece ritengono che la circolare metta un punto ad una questione su cui il Miur aveva sempre taciuto, in ballo c'è il futuro di migliaia di ragazzi in fila per le iscrizioni. E se i neodiplomati in questione sono aspiranti periti agrari la risposta che si sentiranno dare è un «forse».
Come, infatti, ha sottolineato il presidente del Centro studi Aspera (Associazione periti agrari) Andrea Bottaro, «è necessario che i ragazzi abbiano pazienza. Posto che secondo noi i neodiplomati non hanno effettivamente i requisiti per l'accesso al tirocinio in quanto, di fatto, non in possesso del titolo di periti agrari perché il nuovo diploma non lo prevede, stiamo mettendo in piedi una confronto con il ministero della giustizia affinché questi giovani possano usufruire dell'equivalenza del titolo», ha spiegato Bottaro, «così facendo, in un secondo momento potremo, prima farli iscrivere al tirocinio e, successivamente, fare arrivare i ragazzi ad un livello di preparazione tale da permettergli di fare l'esame finale». Per ora, quindi, tutti in fila in attesa. Situazione diversa, invece, quella dei periti industriali che ritengono che la circolare non lascia dubbi di sorta circa l'impossibilità di far accedere i ragazzi al tirocinio.
«Al momento abbiamo dato l'input ai nostri uffici di non accettare le iscrizioni dei neodiplomati», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale dei periti industriali e dei periti industriali Laureati, Giampiero Giovannetti, «fino a che non arriveranno chiarimenti dai ministeri le porte sono chiuse. Non possiamo, infatti, correre il rischio di far iscrivere dei ragazzi e poi dover dire loro a percorso iniziato che non possono più avere accesso all'esame perché privi dei requisiti necessari».
Strade percorribili, quindi, o l'iscrizione all'università o un percorso presso gli istituti tecnici superiori, con tutte le conseguenze del caso. Ipotesi diametralmente opposta, quella di geometri e agrotecnici. Per entrambi, infatti, se pur con motivazioni differenti non sussistono dubbi di sorta circa la possibilità di fare iscrivere i ragazzi neodiplomati.
«Per quanto riguarda la nostra categoria», ha spiegato a ItaliaOggi il presidente del Consiglio nazionale geometri e geometri laureati Maurizio Savoncelli, «i riferimenti normativi sono chiari ( dpr 328/2010 e legge 75/1985) e ci danno la possibilità di far iscrivere senza nessun problema i ragazzi al praticantato. Esiste, infatti, raccordo normativo tra il vecchio e il nuovo diploma». Per gli aspiranti geometri, quindi, nessun problema e iscrizioni aperte. Stessa sorte, infine, anche per gli aspiranti agrotecnici (articolo ItaliaOggi del 17.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Riforma appalti, progetti della Pa senza bonus 2%. Delrio in commissione per sciogliere il nodo regolamento.
Contratti pubblici. Semplificazioni sul subappalto tra gli emendamenti della relatrice Mariani.

Sarà Graziano Delrio oggi in commissione Ambiente della Camera a sciogliere gli ultimi nodi sulla riforma degli appalti (Atto Camera n. 3194). Primo fra tutti quello della normativa secondaria che dovrà attuare il nuovo codice degli appalti: il ministro delle Infrastrutture confermerà la sua posizione, che si può fare a meno del regolamento generale, per fare posto a una soft law guidata dall'Anac di Raffaele Cantone.
Il ministro dovrà anche spiegare che tipo di soft law ha in mente e dovrà in sostanza anticipare i contenuti dell'emendamento che i suoi uffici stanno ancora predisponendo e che dovrebbe essere presentato fra domani e l'inizio della prossima settimana.
Intanto la relatrice del disegno di legge in commissione, Raffaella Mariani (Pd), ha pronti alcuni emendamenti che dovrebbero riformulare parzialmente alcuni dei criteri di delega contenuti nel testo approvato a Palazzo Madama.
Sul subappalto, per esempio, Mariani è orientata a semplificare la procedura di gara spostando l'obbligo di presentazione della terna di subappaltatori per ogni tipologia di lavorazione (prevista dalla lettera LLL) dal momento della presentazione dell'offerta in gara a quello dell'aggiudicazione.
L'altra questione che si dovrebbe risolvere, con un emendamento della relatrice, è l'incentivo del 2% dato ai dipendenti pubblici o alle strutture della PA che effettuano progettazioni. Una vecchia questione fortemente distorsiva del mercato della progettazione in termini di concorrenza e di qualità del risultato finale. L'emendamento Mariani dovrebbe lasciare l'incentivo del 2% alle strutture interne delle amministrazioni, ma dovrebbe essere sposato su attività che la Pa svolge effettivamente in esclusiva, come la programmazione o l'esecuzione contrattuale.
Quella dell'eliminazione del regolamento e del tipo di soft law che dovrebbe sostituirlo è l'ultima grande questione aperta del nuovo codice appalti, ma non è affatto secondaria. Non a caso sta bloccando i lavori della commissione Ambiente che ha sul tavolo già dai primi di agosto gli emendamenti dei gruppi.
«Non ha senso riprendere i lavori per affrontare aspetti marginali quando abbiamo davanti questa questione fondamentale da affrontare», dice il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci. «La correttezza e la trasparenza del passaggio parlamentare -aggiunge- richiede questa condizione. C'è accordo con il ministro che la discussione debba riprendere da questo emendamento, anche perché i gruppi e i relatori avranno poi la possibilità di presentare subemendamenti».
Il primo obiettivo che l'abolizione del regolamento vuole ottenere è una grande semplificazione della struttura normativa che governa il settore. Il secondo, non meno importante nella decisione iniziale di procedere su questa strada, è consentire realisticamente il recepimento delle direttive europee 23, 24 e 25 del 2014 entro il termine del 18 aprile con l'approvazione del solo codice senza dover approvare contemporaneamente anche il regolamento, come aveva previsto il testo del Senato (ma non quello originario del Governo).
L'altro aspetto per cui si attende da Delrio un'indicazione è come debba essere prodotta la «soft law», a quale condizione essa possa procedere senza trovare ostacoli di legittimità generale e come possa essere ricondotta a coerenza l'enorme mole di poteri affidati all'Autorità nazionale anticorruzione, che, dopo i poteri di vigilanza, acquisirà quelli fondamentali di regolazione del settore e ora anche di regolamentazione.
La scuola di pensiero che oggi sembra prevalere è che il regolamento dovrebbe essere sostituito da una o più linee guida generali dell'Anac, approvate subito dopo l'entrata in vigore del codice. Una sorta di regolamento semplificato e flessibile che poi sarebbe a sua volta attuato con linee-guida di settore.
Non è escluso che i tempi lunghi dell'emendamento governativo siano dati anche dalla necessità di stabilire un coordinamento con l'Autorità Anticorruzione che ha fatto già sapere di essere in grado di far fronte al nuovo compito, ma ha bisogno di conoscere anche le modalità in cui esso sarà esercitato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Verbali stradali, salgono le spese. Notifiche, da oggi via agli aumenti.
Da oggi, le spese di accertamento e notifica sui verbali di violazione al codice della strada, accertate dalla Polizia Stradale, passano a 15,23 euro. Somme che, a seguito di intervenute modifiche normative o sulla base di maggiori o minori costi di accertamento, potranno essere rideterminate con successivi provvedimenti.

È quanto si prevede nel testo del dm Interno 08.07.2015 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 214 di ieri con cui si determinano i nuovi importi a carico dei trasgressori di norme del Codice della strada, quando tali violazioni sono accertate dal personale della Polizia di stato.
Pertanto, a partire dal 16.09.2015, i verbali di accertamento conteranno, oltre all'importo della sanzione amministrativa, anche la somma di 15,23 euro quale spesa di notifica, i cui costi sono anticipati da Poste Italiane. Il dm specifica, altresì, che entro il 30 novembre e il 31 maggio di ogni anno il Servizio Polizia Stradale provvede a verificare le spese di accertamento e di notifica dei verbali di contestazione dovute a Poste, così da assicurare l'idonea copertura economica delle suddette attività.
Con tali somme, si leggo e nel decreto, si rimborsa la società Poste Italiane per la fornitura degli adeguamenti dei software, già nella disponibilità della Polizia Stradale, nonché per i costi relativi all'hardware e al software di base necessari a supportare tali applicativi.
Sotto questo profilo, il dm in osservazione, prevede inoltre che i vertici della Polstrada potranno segnalare una rideterminazione degli importi dovuti a titolo di spese di notifica, alla luce di intervenute modifiche normative, ovvero sulla base dei maggiori o minori costi di accertamento per il responsabile del pagamento, derivanti dalle innovazioni tecnologiche e dall'applicazione di nuove soluzioni informatiche ai servizi resi da Poste Italiane alla stessa Polizia Stradale (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Disabili, nuovi contrassegni. Niente sanzioni.
Da ieri non si possono più utilizzare i vecchi contrassegni arancioni che agevolano la circolazione e la sosta delle persone invalide. Ma i comuni che non hanno ancora adeguato la segnaletica stradale con i nuovi simboli blu europei non rischiano sanzioni. Purché gli impianti siano ancora dignitosi e comprensibili.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere n. 3630/2015.
Il dpr 151/2012 ha introdotto novità per i veicoli al servizio di persone invalide, apportando modifiche all'art. 381 del regolamento stradale. Il nuovo contrassegno, di colore blu, deve essere esposto sempre in originale nella parte anteriore del veicolo in modo chiaramente visibile per consentire i controlli.
È stata poi introdotta un'importante condizione per l'assegnazione a titolo gratuito di uno spazio di sosta nei casi di particolare invalidità, nelle zone ad alta densità di traffico. Infatti, non occorre più che il titolare del contrassegno sia abilitato alla guida e disponga di un autoveicolo, ma è necessario che l'interessato dimostri di non avere la disponibilità di uno spazio di sosta privato accessibile e fruibile.
Il comune poi potrà prevedere la gratuità della sosta per gli invalidi nei parcheggi a pagamento, qualora risultino già occupati o indisponibili gli stalli a loro riservati. L'ente locale potrà inoltre stabilire, anche nelle aree a pagamento gestite in concessione, un numero di posti destinati alla sosta gratuita degli invalidi muniti di contrassegno superiore al limite minimo di un posto ogni cinquanta o frazione di cinquanta posti disponibili.
Per quanto riguarda la segnaletica orizzontale, le strisce che delimitano lo stallo di sosta restano gialle, ma il simbolo della carrozzella diventa blu. La sostituzione del vecchio contrassegno e l'adeguamento della segnaletica dovevano però completarsi entro il 14.09.2015. Per questo motivo un comune ritardatario ha richiesto chiarimenti al ministero.
A parere dell'organo centrale è consentito mantenere in opera, temporaneamente, anche la segnaletica obsoleta purché ancora comprensibile. In buona sostanza il comune non rischia multe (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, Madia firma il decreto sulla mobilità. Ora il testo andrà alla corte conti e poi in g.u..
Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ha firmato il decreto ministeriale sulla mobilità del personale delle province. Il provvedimento sarà quindi inviato alla Corte dei conti per poi essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale. E a quel punto scatterà il cronoprogramma, fissato dal provvedimento, che porterà i 18 mila dipendenti provinciali in sovrannumero ad accasarsi presso altri enti (in primis regioni e comuni, ma anche enti del Servizio sanitario nazionale, mentre per quanto riguarda le amministrazioni statali il principale ricettore dei dipendenti provinciali sarà il ministero della giustizia).
Entro 20 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, le province dovranno inserire nel portale «Mobilità.gov» gli elenchi dei dipendenti in sovrannumero. Entro 40 giorni dalla pubblicazione, regioni, enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e gli enti del Ssn, inseriranno i posti disponibili, in modo che entro 60 giorni, sempre decorrenti dalla pubblicazione in G.U., palazzo Vidoni possa rendere pubbliche le dotazioni disponibili.
A questo punto i dipendenti in sovrannumero (compreso il personale di polizia provinciale e i dipendenti della Croce rossa italiana) avranno 30 giorni di tempo per presentare le istanze di mobilità in relazione all'offerta di posti, compilando il modulo disponibile sul portale «Mobilità.gov». Al fine di favorire l'incontro tra domanda e offerta, lo schema di decreto prevede una serie di criteri.
I dipendenti in comando o fuori ruolo verranno prioritariamente assegnati alle amministrazioni in cui prestano servizio. Analogamente, la polizia provinciale verrà prioritariamente destinata ai comuni con funzione di polizia locale, mentre al ministero delle infrastrutture andranno coloro che nelle province si occupavano della gestione degli albi provinciali degli autotrasportatori.
A parte questi criteri particolari, regola generale sarà l'assegnazione dei dipendenti in sovrannumero alle regioni e agli enti locali, inclusi gli enti pubblici non economici e quelli del Ssn. Per i lavoratori della Croce rossa, la mobilità sarà verso le amministrazioni statali con priorità per il ministero della giustizia. Sul piano individuale sarà favorito chi gode dei benefici della legge 104/1992 e chi ha figli fino a tre anni di età.
Sul provvedimento, come si ricorderà, non è stata raggiunta l'intesa in Conferenza unificata. Ma ciononostante il 4 settembre scorso il consiglio dei ministri ha deciso di «autorizzare» ugualmente il ministro Madia «a dare corso alla definizione dei criteri per la mobilità del personale dipendente a tempo indeterminato degli enti di area vasta dichiarati in sovrannumero» (articolo ItaliaOggi del 16.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARIAccensione caldaie per zone. Deroghe con i contabilizzatori che consentono di regolare la temperatura.
Impianti. Entro poche settimane in funzione in buona parte d’Italia con vincoli di orari giornalieri.

Tra un mese, in buona parte d’Italia, si accenderanno le caldaie nei condomìni con impianto centralizzato. Un appuntamento fondamentale per l’economia, dato che uno studio della Ue sul piano di efficienza energetica 2011 ha sottolineato che gli immobili rappresentano il 40% del consumo finale di energia dell’Unione. Inoltre, gli edifici sono stati ritenuti fondamentali per conseguire l'obiettivo dell’Unione di ridurre dell’80-95% le emissioni di gas serra entro il 2050 rispetto al 1990.
Presso ogni impianto termico centralizzato, che serva quindi almeno due unità immobiliari residenziali e assimilate, il proprietario o l'amministratore devono esporre una tabella contenente:
- l’indicazione del periodo annuale di esercizio dell'impianto termico e dell'orario di attivazione giornaliera prescelto;
- le generalità e il recapito del responsabile dell'impianto termico;
- il codice dell’impianto assegnato dal Catasto territoriale degli impianti termici istituito dalla Regione o Provincia autonoma.
Non in tutta Italia è possibile mettere in funzione l'impianto di riscaldamento nello stesso giorno. Il legislatore ha infatti suddiviso l’Italia in sei zone climatiche (si veda la scheda qui a lato). E per ciascuna di esse è stata stabilita la durata giornaliera di accensione. La maggioranza del territorio ricade, nel Centro-Nord, in zona E o D, mentre al Sud in zona B e C; in zona F è l’arco alpino e in zona A pochi Comuni delle isole meridionali.
Al di fuori di tali periodi, gli impianti termici possono essere attivati solo in presenza di situazioni climatiche che ne giustifichino l'esercizio e, comunque, con una durata giornaliera non superiore alla metà di quella consentita in via ordinaria. I sindaci, con propria ordinanza, possono ampliare o ridurre, a fronte di comprovate esigenze, i periodi annuali di esercizio e la durata giornaliera di attivazione, nonché stabilire riduzioni di temperatura ambiente massima consentita sia nei centri abitati sia nei singoli immobili.
Nell’arco temporale indicato, i condomìni possono scegliere gli orari di funzionamento purché lo stesso sia compreso tra le ore 5 e le ore 23.
È però consigliabile non interrompere il funzionamento. Il maggior dispendio di energia (e quindi il maggior costo) si ha infatti con l’accensione per portare l'acqua alla temperatura utile. Per il resto della giornata vi è dunque solo la necessità di mantenere tale temperatura. Lo spegnimento della caldaia durante il giorno per alcune ore non porta quindi a un risparmio ma a un maggior costo.
Negli edifici a uso residenziale, sono però ammesse deroghe al funzionamento dell’impianto di riscaldamento per quanto riguarda la durata giornaliera. Tra le principali vengono indicate le seguenti:
se il calore proviene da centrali di cogenerazione oppure se vi siano pannelli radianti incassati nell'opera muraria;
se vi è un gruppo termoregolatore pilotato da una sonda di rilevamento della temperatura esterna con programmatore che consenta la regolazione almeno su due livelli della temperatura ambiente nell'arco delle 24 ore; la temperatura negli ambienti deve essere pari a 16°C + 2°C di tolleranza nelle ore al di fuori della durata giornaliera;
se in ogni unità immobiliare sia installato un sistema di contabilizzazione del calore e un sistema di termoregolazione della temperatura con un programmatore che consenta la regolazione almeno su due livelli della temperatura nell'arco delle 24 ore;
se l’impianto termico è condotto mediante “contratto di servizio energia” purché la temperatura negli ambienti, durante le ore al di fuori della durata di legge, non siano superiori ai 16°C + 2°C di tolleranza.
Si consideri, infine, che entro il 31.12.2016 tutti gli edifici nei quali vi è un impianto centralizzato, ove tecnicamente possibile e se vi sia un buon rapporto costi/benefici, dovranno essere dotati di sistemi di contabilizzazione e termoregolazione.
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Non si possono superare i 22 gradi. Comfort. Nulle le delibere in contrasto.
Negli edifici a carattere residenziale, durante il funzionamento dell'impianto di riscaldamento (prodotto da impianti sia centralizzati sia autonomi), la media delle temperature dell'aria, misurate nei singoli ambienti riscaldati di ciascuna unità immobiliare, non deve superare i 20°C + 2°C di tolleranza (si veda la scheda nella pagina).
È nulla (quindi impugnabile in ogni tempo) la delibera condominiale che dovesse decidere di tenere una temperatura più elevata.
L’impianto termico condominiale, quindi, deve essere in grado di erogare tale calore. In caso contrario, il condòmino che non riuscisse ad avere la temperatura di legge nella propria unità immobiliare, può provocare una delibera attinente agli eventuali interventi necessari per la piena funzionalità dell’impianto. Nel caso in cui l’assemblea non deliberasse le opere necessarie, può rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento che obblighi il condominio ad adottare quanto necessario per sopperire guasti o deficienze dell’impianto ed eventualmente, ove ne ricorrono i presupposti, richiedere il risarcimento del danno.
Nel frattempo, però, non può sospendere il pagamento degli oneri condominiali lamentando il disservizio. Il condominio, d’altro canto, non può pretendere che per ovviare al malfunzionamento il condomino stesso sia tenuto ad effettuare interventi a proprie spese nella suo appartamento (Cassazione sentenza 19616/2012).
La norma, però, non va intesa nel senso che anche i condòmini siano costretti a tenere questa temperatura nelle proprie unità immobiliari. Le leggi in materia di contenimento dei consumi energetici e di riduzione dello scarico in atmosfera dei prodotti della combustione (gas ad effetto serra) incentivano la riduzione della temperatura negli ambienti.
Il Dlgs 04.07.2014 n. 102, all’articolo 9, comma 5, prevede che ciascuno sia tenuto a contribuire ai costi per il riscaldamento solo per il calore che effettivamente ha prelevato dai termosifoni (oltre a una quota fissa riferita alle dispersioni e alle spese generali per la manutenzione dell’impianto). Ne consegue che per risparmiare danari o perché l’alloggio non è abitato, i condomini potranno tenere le valvole termostatiche parzialmente o totalmente chiuse, con conseguente minore temperatura nell’appartamento.
I condomini confinanti che devono prelevare maggior calore dai propri termosifoni per compensare quel calore che viene ceduto agli alloggi freddi, non possono pretendere nulla né dal vicino né nei confronti del condominio in sede di ripartizione della spesa complessiva del riscaldamento mediante l’adozione dei cosiddetti coefficienti correttivi. Questi, infatti, sono vietati dalla legge, anche per quegli appartamenti posti all’ultimo piano o a Nord.
Nemmeno un regolamento avente natura contrattuale (allegato al primo atto di vendita e richiamato per accettazione in tutti i successivi) potrà prevedere “compensazioni” o obblighi di tenere una determinata temperatura negli alloggi. Lo stesso, infatti, sarebbe contrario a norme imperative.
Nel caso in cui in un’unità immobiliare dovessero passare le tubazioni della rete di distribuzione che porta il calore negli altri alloggi, non potrà essere richiesto alcun pagamento al condomino. Infatti, l’attraversamento della proprietà individuale non determina alcuna appartenenza, ma semmai implica una servitù a carico dell’appartamento interessato (Tribunale Milano, sezione XIII, sentenza del 26.01.2012)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Nuova «pagella verde» per gli immobili. Dal primo ottobre cambiano calcoli e documenti per misurare i consumi.
Efficienza energetica. Ape obbligatorio per affittare o vendere l’immobile ma i vecchi certificati sono validi se non si eseguono lavori.

Dopo tre mesi di rodaggio, per adeguarsi al sistema, il nuovo modello di attestato energetico per gli immobili è pronto a entrare in vigore: dal 1° ottobre cambiano le modalità per la compilazione dell’attestato di prestazione energetica (o Ape) degli edifici e delle unità immobiliari.
La normativa di riferimento, che modifica il Dlgs 192/2005 e attua in Italia la direttiva europea 2010/31/Ue, è contenuta nelle linee guida emanate dal ministero dello Sviluppo economico lo scorso 26 giugno (pubblicate sulla Gazzetta n. 162/2015). Il nuovo «certificato» che attesta i consumi energetici dell’immobile è composto da cinque pagine, suddivise in due parti: una prima più generica, di facile comprensione per tutti, dove viene indicata la classe energetica dell’immobile, l’indice di prestazione energetica globale (da energia non rinnovabile e rinnovabile) e dove sono riportate le raccomandazioni per migliorare l’efficienza dell’edificio attraverso gli interventi più significativi ed economicamente convenienti. Nella seconda parte si trovano informazioni più di dettaglio e di maggior contenuto tecnico, utili agli addetti al lavori per una conoscenza più approfondita dell’edificio o dell’appartamento.
Cosa cambia
Anche se nella denominazione l’attestato di prestazione energetica ha sostituito ormai da due anni il vecchio attestato di certificazione energetica (Ace) fino ad oggi, di fatto, le modalità di compilazione erano rimaste ferme al passato. Ora si cambia. Innanzitutto, aumenta il numero dei servizi energetici presenti in casa che vengono presi in considerazione ai fini dell’esame di efficienza: oltre alla climatizzazione invernale e alla produzione di acqua calda sanitaria, vengono esaminati –se presenti– la climatizzazione estiva e la ventilazione meccanica.
Per gli edifici terziari si tiene conto anche dell’illuminazione e dei servizi di trasporto a persone o cose (ascensori e montacarichi). Non solo. Dal 1° ottobre, la performance del fabbricato o dell’alloggio è ricavata confrontando l’unità con il cosiddetto edificio standard, un fabbricato “ombra” in tutto e per tutto analogo al progetto reale, ma progettato in condizioni ottimali. Come in passato, il giudizio finale è espresso in classi di merito identificate da lettere, dalla A (la più virtuosa) alla G.
I livelli complessivi sono 10 (prima erano sette): i primi quattro fanno tutti riferimento alla lettera A, con quattro gradazioni, da A4 (il più efficiente) ad A1.
Ultima novità di rilievo è che decadono i sistemi regionali per il calcolo delle prestazioni dell’edificio. Pregio della nuova norma, infatti, è essere riuscita infatti a far dialogare le Regioni, riportando la metodologia di esame delle prestazioni a un unico sistema nazionale, con poche eccezioni.
Per chi è obbligatorio
La nuova targa energetica è composta secondo le nuove regole in tutti i casi di nuova costruzione o risanamento di uno stabile già esistente. Nei casi di vendita o affitto dell’unità immobiliare l’attestato è prodotto secondo il nuovo modello solo se non è già presente un vecchio Ape o Ace ancora in corso di validità (il documento ha una vita di 10 anni, salvo lavori di ristrutturazione tali da modificare le prestazioni energetiche del fabbricato).
Per chi dovrà rifare l’Ape (non a fronte di lavori di recupero, ma per naturale scadenza), uno dei risvolti (forse non graditi) nel passaggio dal sistema regionale a quello unico nazionale sarà la possibilità che si verifichino “declassamenti”. In pratica, la casa, che magari era stata venduta come performante e in classe A secondo la scala adottata dal territorio di riferimento, potrebbe finire bruscamente in classe B.
Le sanzioni
Se in passato la verifica sugli attestati è sempre stata blanda, dal prossimo mese i controlli scatteranno d’obbligo da parte delle Regioni almeno sul 2% degli Ape, a partire da quelli che dichiarano classi più efficienti. Se manca l’attestato per gli edifici di nuova costruzione e per quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il costruttore o il proprietario sono puniti con una sanzione amministrativa che parte da un minimo di tremila euro, ma può arrivare fino a 18mila.
Se manca l’Ape in un atto di compravendita o locazione il venditore o il proprietario incorrono in multe fra i 3mila e i 18mila euro nel primo caso e fra i 300 e 1.800 nel secondo. Rispetto al passato, non è però più prevista la nullità dell’atto di trasferimento dell’immobile o del contratto di affitto.
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L’attestato trova lo standard unico. L’iter. Stop ai diversi sistemi regionali.
Una delle principali novità che scatteranno con l’entrata in vigore del nuovo attestato di prestazione energetica sarà il ritorno a un sistema di calcolo unico, nazionale, per arrivare alla definizione delle performance energetiche dell’edificio e dunque all’attribuzione delle classi di merito.
Il lavoro per il ritorno all’omogeneità, anche dove erano stati sviluppati negli anni passati sistemi regionali di certificazione, è partito da settimane: la prospettiva è una semplificazione per i cittadini che devono far redigere la targa energetica.
Dal 1° ottobre, ad esempio, il modello di Ape sarà conforme a quello nazionale anche in Lombardia, la Regione che più di altre aveva tenuto in passato una linea autonoma. A stabilirlo è una delibera, la n. 3868 del 16.07.2015. L’attestato –che in questa Regione è necessario anche per gli immobili senza impianti– sarà ritenuto valido tuttavia solo se prodotto attraverso l’utilizzo del software Cened+2.0 (la versione beta è già disponibile online) o di un software commerciale che però abbia ricevuto il via libera da parte di Infrastrutture Lombarde (la società che gestisce l’accreditamento locale). Ogni targa energetica continuerà, inoltre, a prevedere un costo di emissione di 50 euro. Infine, sul territorio amministrato dalla Giunta Maroni, continueranno a poter rilasciare gli Ape solo le persone fisiche e non le società.
Nessuna differenza fra il sistema nazionale e quello regionale, invece, in Emilia Romagna, dove la Regione ha recepito in estate le linee guida con la Dgr 967 del 20.07.2015. Stessa linea quella che dovrebbe essere adottata dal Piemonte, dove da qualche tempo è stata abrogata la legge 13/2007, che dettava la metodologia per la certificazione energetica degli edifici e dove sta per uscire una delibera di recepimento del Decreto del 26 giugno scorso.
L’unica eccezione a un quadro di generale uniformità arriva dalle Province autonome. La Provincia di Bolzano, che con il sistema Casaclima ha dimostrato da tempo di aver recepito interamente la direttiva comunitaria 2010/31/Ue, potrà mantenere attivo (come prescrive lo stesso decreto di giugno) un proprio sistema, che pur deve essere il più possibile reso vicino a quello statale. Ciò significa che, in Alto Adige, gli Ape continueranno a seguire il sistema locale, che già tiene conto per il residenziale delle performance dell’edificio per la climatizzazione estiva dell’immobile e della ventilazione meccanica dello stesso.
In Provincia di Trento, dove il metodo di calcolo da sempre è quello nazionale della norma Uni, è infine in corso una verifica per capire se sia possibile o meno mantenere un sistema peculiare di attribuzione delle classi, che (come già in passato) si basa sul consumo effettivo di energia, anziché sul raffronto con l’edificio tipo. «Una riflessione –spiegano dagli uffici tecnici– che è in corso e che presto definiremo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, sul personale niente risparmi nel 2015. Senza la ridefinizione delle funzioni in tutte le Regioni non partono gli elenchi nominativi degli «esuberi».
Riforma Delrio. Gli enti che hanno stanziato solo parte delle risorse in previsione dei trasferimenti devono rivedere i conti per garantire gli stipendi.

Quali speranze hanno i dipendenti della provincia di vedere la conclusione della loro vicenda? Potranno trovarsi, un giorno, tranquilli, anche se presso un diverso datore di lavoro?
I dubbi sono oggi più che legittimi in quanto, rispetto alla tabella di marcia disegnata dal Governo, i tempi si stanno allungando parecchio. Uno dei primi passi per poter dar corso all’incontro fra domanda e offerta di lavoro prospettato dalla Funzione pubblica è rappresentato dall’atto, adottato dalle amministrazioni provinciali, con il quale vengono individuati nominativamente i dipendenti da considerare in soprannumero. Ma quale è il dirigente che si prende la responsabilità, oggi, di adottare questa determina?
Tuttora, ci sono elementi che incidono su questa scelta e che non risultano delineati. Per poter procedere alla compilazione dell’elenco nominativo è necessario che vengano individuate le funzioni che restano in capo agli enti di area vasta, siano esse fondamentali oppure delegate dalle regioni. In sostanza, serve la legge regionale con la quale si individuano i compiti che le stesse amministrazioni si riservano di svolgere direttamente e quelle che invece scelgono di ri-delegare agli enti di area vasta. In questo modo, sono quantificati i dipendenti che vengono trasferiti e quelli che restano nei ruoli delle ex Province.
Molte regioni non hanno ancora provveduto in tal senso, e per questa ragione il processo è bloccato. Anche nell’ipotesi in cui questa fase dovesse subire un’improvvisa accelerazione, magari per effetto delle sanzioni introdotte dal decreto enti locali per le Regioni che non chiuderanno la procedura entro fine ottobre, lo stop verrebbe dalla mancanza dei criteri sulla mobilità, previsti dal comma 423 della legge di stabilità 2015. Infatti, mentre è stato approvato il decreto con il quale sono fissate le tabelle di equiparazione fra le categorie dei diversi comparti pubblici, il provvedimento sui criteri è stato esaminato in sede di conferenza unificata (e anticipato sul Sole 24 Ore del 15 luglio), ma non ha ancora visto il varo definitivo. È evidente che, in assenza di regole, la procedura non può essere portata a termine.
Ne consegue che il calendario delle operazioni inevitabilmente slitta. Ma questo procrastinarsi non è del tutto indolore. Sorge, innanzitutto, il problema di dare certezza allo stipendio dei dipendenti ex provinciali. Le norme garantiscono loro, in caso di mobilità, il trattamento fondamentale e il salario accessorio, limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa. Stante l’assenza di una definizione, a livello sia normativo sia contrattuale, di tali caratteristiche, la battaglia sarà inevitabile. Ancora, questo salario accessorio non ha trovato, ad oggi, un suo pacifico e condiviso finanziamento, a causa delle incertezze che le norme di riferimento hanno creato sul tema.
Superate anche queste perplessità, la bozza di provvedimento sui criteri della mobilità disegna un cronoprogramma che, nella migliore delle ipotesi, di pubblicazione del decreto nei prossimi giorni, vede la conclusione del processo alla fine dell’anno, bruciando, di fatto, la prima annualità del biennio 2015-2016 a disposizione. Questo significa che, per l’anno corrente, gli stipendi di tutti i dipendenti delle ex Province, compresi quelli dichiarati in soprannumero, devono trovare spazio nei bilanci degli enti di area vasta.
E non è così scontato che questi bilanci reggano. Gli input che provenivano dalla Funzione pubblica a inizio anno avevano fatto ipotizzare che i trasferimenti del personale in esubero potessero avvenire attorno alla fine del primo semestre 2015 o, al massimo, in autunno. L’aver previsto la spesa solo per una parte dell’anno, magari per poter far quadrare un bilancio che sopportava tagli non indifferenti, mette a rischio le casse degli enti di area vasta.
Inevitabili sono, quindi, interventi che, da un lato, aumentino gli stanziamenti di bilancio per gli stipendi dei dipendenti e dall’altro, allarghino l’arco temporale dal biennio al triennio, includendo anche il 2017. Forse non a caso, la scorsa primavera, la Funzione pubblica ha chiesto alle singole amministrazione anche le cessazioni dal servizio del 2016.
Una cosa è certa: la storia insegna che, spesso, le proroghe sono state il viatico per far naufragare ovvero posticipare sine die intere operazioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’impasse blocca anche i Comuni. Effetto domino. Le conseguenze dell’obbligo di riservare gli spazi assunzionali agli ex provinciali.
I Comuni e le Regioni possono effettuare pochissime assunzioni a tempo indeterminato nel 2015; ciò sta determinando problemi assai pesanti in numerosi municipi di piccola e media dimensione dove si sono avute cessazioni di personale che occupava posizioni strategiche (quali ad esempio i responsabili dei settori finanziari, dei lavori pubblici, dei servizi sociali) e che non possono rimpiazzarli se non a tempo determinato.
Le assunzioni del 2015 e del 2016 sono dalla legge di stabilità 2015 riservate al personale degli enti di area vasta collocati in sovrannumero. Ma sono pochissime le realtà in cui queste dichiarazioni sono state rese.

Lo schema di Dpcm sui criteri dei trasferimenti che doveva essere approvato entro la scorsa primavera è stato adottato nei giorni scorsi dal Governo.
Ma ciononostante ci vuole del tempo alle Province delle regioni che legifereranno (forse, visto che la norma statale solleva dubbi di legittimità costituzionale) nelle prossime settimane, per individuare il personale in eccedenza.
E dal momento in cui il Dpcm sui trasferimenti sarà pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» ci vogliono almeno quattro mesi perché il personale in sovrannumero degli enti di area vasta possa essere effettivamente trasferito ai Comuni oppure alle Regioni.
Con il Dl 78/2015 le assunzioni a tempo indeterminato di vigili urbani sono bloccate in attesa della messa in disponibilità di quelli provinciali.
È in discussione che si possano effettuare assunzioni in mobilità, anche di personale delle Province. Per la Funzione Pubblica e gli Affari Regionali (circolare n. 1/2015) le mobilità volontarie possono essere effettuate, fino a che non sarà stata attivata l’apposita piattaforma telematica, purché riservate al personale degli enti di area vasta.
Ma la successiva deliberazione n. 19/2015 della sezione Autonomie della Corte dei Conti ha limitato questa possibilità solamente al personale degli enti di area vasta collocato in esubero. Il che produce, in pratica, l’effetto che questo strumento può essere utilizzato in misura molto limitata.
Lo strumento di maggiore rilievo che rimane ai Comuni è l’utilizzazione per assunzioni con procedure ordinarie dei risparmi derivanti dalle cessazioni degli anni dal 2011 al 2014 che non sono stati già spesi per finanziare nuove assunzioni.
Questa possibilità si può considerare acquisita sulla base delle indicazioni del Dl 78/2015 e del parere della sezione Autonomie della Corte dei Conti n. 26/2015, ma produce effetti solamente per un numero ridotto di amministrazioni locali.
I Comuni possono inoltre dare corso ad assunzioni di personale in possesso di specifici titoli abilitanti da destinare ai servizi educativi e scolastici, per profili non esistenti tra quelli degli enti di area vasta. Questa possibilità si può, sulla base del parere della sezione autonomie della Corte dei Conti n. 19/2015, estendere a tutti i profili che non esistono negli enti di area vasta.
Le ultime possibilità di assunzione che restano ai Comuni e alle Regioni sono le seguenti due.
In primo luogo, l’assunzione di personale appartenente alle categorie protette per coprire le quote minime obbligatorie.
E infine, possibilità ammessa implicitamente dal parere n. 26/2015 della sezione autonomie della Corte dei Conti, di trasformazione a tempo pieno del personale assunto su posti in part-time. Cioè, tutto sommato, assunzioni in misura assai ridotta
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per la polizia trasferimenti automatici in deroga ai vincoli su spese e ingressi. Decreto enti locali. Da rispettare i limiti di fabbisogno e organici.
La mobilità dei dipendenti degli enti territoriali è ormai un concetto estremamente flessibile. Se fino a qualche mese fa i casi si potevano ricondurre al massimo a tre fattispecie, l’obbligo di riassorbimento dei dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta ha mescolato le carte e gli enti si trovano in un vero e proprio labirinto.
Alla luce delle diverse interpretazioni, come la circolare n. 1/2015 della Funzione pubblica o le deliberazioni n. 19 e 26 della Corte dei conti Sezione Autonomie, non si riesce, ad esempio, a conciliare il concetto di «nuova assunzione» con il principio di «neutralità» da sempre posto in capo alle procedure di mobilità. Ma non solo. L’evoluzione dell’istituto transita anche da trasferimenti forzati come nel caso della polizia locale, destinate ad accogliere obbligatoriamente i dipendenti della polizia provinciale.
Entro il 31 ottobre prossimo, infatti, le Province hanno l’obbligo di individuare quali lavoratori appartenenti al corpo rimarranno a propria disposizione per altre attività; dopo questo termine i dipendenti in soprannumero o non individuati transiteranno presso gli enti locali, all’interno delle funzioni di polizia locale. Si tratta, di un’ulteriore complicazione rispetto alla già difficile partita da giocarsi sull’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.
Questa disposizione chiede ai Comuni di vincolare la capacità assunzionale per gli anni 2015 e 2016 a favore dei dipendenti degli enti di area vasta. Prima di attivare le procedure concorsuali o di scorrere le graduatorie per assumere gli idonei, è necessario utilizzare il turn-over per il riassorbimento dei lavoratori di Province e Città metropolitane.
Per la polizia locale, però, la questione si fa più drastica. Infatti, fino a quando non vi sarà il totale passaggio dei dipendenti della polizia provinciale, è fatto divieto agli enti locali di procedere ad assunzione di qualsiasi tipo per la medesima funzione, fatta eccezione per le esigenze di stagionalità valutata per un massimo di cinque mesi per anno solare. Con un’aggravante: per la polizia locale non sarà neppure possibile attingere ai “resti” della capacità assunzionale degli anni precedenti, che la Corte dei Conti Sezione Autonomie, con la deliberazione n. 26/2015 ha sdoganato rendendoli liberi da ogni vincolo.
Siamo così di fronte all’ennesimo trasferimento di mobilità imposto dal legislatore. Per la polizia locale, questa procedura potrà avvenire nel rispetto della dotazione organica e del fabbisogno di personale, ma in deroga alle disposizioni in materia di limitazioni alle spese e alle assunzioni di personale.
Riassumendo: le procedure di mobilità volontaria possono essere attivate in tutti i settori dell’ente (polizia locale esclusa), esclusivamente nei confronti dei dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta erodendo, a questo punto, capacità assunzionale; è possibile, come indicato dalla nota 20506/2015 della Funzione pubblica, la mobilità per interscambio e questa dovrebbe rimanere «neutra»; i dipendenti della polizia provinciale in soprannumero transiteranno obbligatoriamente negli enti locali in barba ad ogni regola su spese e assunzioni.
Il nodo mobilità, quindi, non è per niente risolto e neppure il decreto con le tabelle di equiparazione viene in aiuto. I tempi, peraltro si allungano, ed è difficile credere che le cose si sistemeranno entro il 2016 come prevede la normativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.09.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ciascun rifiuto ha una gestione. Focus su toner, Raee, pile, parti di veicoli e vegetali. Precisazioni da Minambiente, Arpa e Corte di cassazione su regole per specifici residui.
Dalla gestione dei toner aziendali esauriti alla raccolta in aree urbane di residui vegetali, passando per il commercio di oggetti in disuso ad alto potenziale d'impatto ambientale.

Arrivano da Ministero dell'ambiente, Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana e Corte di cassazione gli ultimi chiarimenti in merito alle norme che disciplinano particolari categorie di rifiuti.
Toner esauriti. Affinché un'azienda sia esonerata dagli oneri imposti dal Codice ambientale per la gestione dei toner esauriti delle proprie stampanti occorre che essa affidi a terzi tramite regolare contratto l'intero ciclo della manutenzione delle apparecchiature, dalla sostituzione delle cartucce al loro ritiro e trasporto, senza procedere a deposito in loco. Diversamente, essa azienda soggiace agli obblighi formali e sostanziali previsti dal dlgs 152/2006 in funzione delle attività poste in essere su tali rifiuti speciali e alla natura pericolosa o meno degli stessi, obblighi che possono andare dal tracciamento dei residui tramite scritture ambientali al rispetto delle regole sul loro deposito (anche se effettuato con i noti «ecobox»).
È quanto si evince dalla nota 30.06.2015 n. 7692 di prot. elaborata dal Minambiente in risposta a un quesito sulla portata dell'articolo 266, comma 4, del citato decreto, a mente del quale: «I rifiuti provenienti da attività di manutenzione ( ) si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività», norma che consente dunque in via di principio al titolare delle apparecchiature da cui detti rifiuti derivano di spostare su terzi i citati oneri ambientali.
Al riguardo il dicastero indica come le condizioni per invocare l'applicazione della norma siano: l'esistenza di un valido contratto stipulato tra committente e terzo manutentore; l'essere l'attività commissionata svolta esclusivamente e interamente dai tecnici dall'impresa di manutenzione; il comprendere tale attività sia il mantenimento delle stampanti (sostituzione delle cartucce compresa) che il contestuale trasporto dei rifiuti coincidenti con i toner esauriti verso la destinazione di trattamento. Rispettate tali condizioni, chiarisce il dicastero, nella documentazione per il trasporto dei rifiuti dovrà dunque essere indicato quale produttore l'impresa di manutenzione, evidenziando nelle note il luogo in cui si è svolta fisicamente l'attività.
È utile in tale contesto ricordare come alla luce della riformulata definizione di «produttore di rifiuto» ex dlgs 152/2006 in vigore dallo scorso luglio (e in base alla quale è tale anche «il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione») sia altresì diventata condizione necessaria per evitare di concorrere nell'eventuale reato di gestione illecita di rifiuti posta in essere dal soggetto affidatario della manutenzione la verifica da parte dell'azienda committente sia sulla sussistenza in capo a quest'ultimo delle necessarie autorizzazioni ambientali che sul buon fine della destinazione finale dei residui.
Commercio ambulante. Batterie usate, apparecchiature elettriche ed elettroniche non funzionanti, parti meccaniche di veicoli così come oggetti in disuso anche presumibilmente contenenti sostanze pericolose non possono essere raccolti e trasportati dai cosiddetti «robivecchi» senza onorare gli obblighi previsti dal Codice ambientale.
Con la sentenza 17.08.2015 n. 34917 la Corte di Cassazione, Sez. III penale ha, infatti, precisato come per tali materiali non valga il regime derogatorio previsto dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, in base al quale: «Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 (obblighi di denuncia annuale rifiuti, tenuta dei registri di carico/scarico, formulario di trasporto, iscrizione all'Albo gestori ambientali, ndr) non si applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio».
Il giudice di legittimità ha sottolineato come tale deroga sia infatti giustificata dalla valutazione di minor pericolosità per la salute e per l'ambiente operata dal legislatore in relazione alle attività in parola e non può dunque essere applicata alla gestione di materiali (come i citati) oggetto di puntuale disciplina. Per questi, specifica la Corte, non solo vanno osservate le regole direttamente richiamate dall'articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006, ma anche tutte le altre disposizioni dettate dalle speciali norme di settore (come il dlgs 49/2014 sui Raee, il dlgs 188/2008 sulle pile, quelle dello stesso Codice ambientale sui rifiuti pericolosi e quelle sui veicoli fuori uso previste dal dlgs 152/2006 unitamente al dlgs 209/2003). Dalla sentenza della Suprema corte appare altresì evincibile come tali oggetti non possano dunque essere eventualmente offerti in vendita tal quali dagli stessi soggetti tramite bancarelle o banchi dei propri negozi.
L'abilitazione di cui parla il citato articolo 266, comma 5, del dlgs 152/2006 è, infatti, quella prevista dal dlgs 114/1998 che ammette il commercio ambulante esclusivamente nell'ambito del commercio al dettaglio, ossia indirizzato ai consumatori, i quali (essendo diversi dai professionisti) non dispongono della necessaria autorizzazione al trattamento dei rifiuti.
Residui naturali da eventi atmosferici. Nelle aree urbane, sia pubbliche che private, è possibile gestire fuori dal regime dei rifiuti la raccolta di legno e altri residui naturali generati da particolari eventi di origine non antropica.
È l'Agenzia regionale per protezione ambientale della Toscana con un comunicato pubblicato il 27.08.2015 sul proprio portale internet a dare alcuni utili chiarimenti sul regime di favore introdotto nel 2014 nell'articolo 183, comma 1, lettera n), del Codice ambientale, nel tenore del quale «Non costituiscono attività di gestione dei rifiuti le operazioni di prelievo, raggruppamento, cernita e deposito preliminari alla raccolta di materiali o sostanze naturali derivanti da eventi atmosferici o meteorici, ivi incluse mareggiate e piene, anche ove frammisti ad altri materiali di origine antropica effettuate, nel tempo tecnico strettamente necessario, presso il medesimo sito nel quale detti eventi li hanno depositati».
L'Arpa ha individuato quali condizioni per l'applicazione dell'istituto in parola le seguenti: deposito mono-materiale dei residui naturali identificati tramite la preliminare cernita (separato dunque da quello degli eventuali materiali di origine antropica, che restano rifiuti, e identificabile quale deposito temporaneo ex dlgs 152/2006); rispetto della tempistica prevista dal Codice ambientale, eventualmente declinata dagli Enti pubblici di competenza per determinate fattispecie (come l'organizzazione per la rimozione dei materiali depositatisi su spiagge a causa di mareggiate o prima dell'inizio della stagione balneare). Non è contemplata, ricorda infine l'Arpa, la possibilità di abbruciamento di tali residui legnosi in situ.
Ciò evidentemente, in quanto le descritte disposizioni derogatorie ex articolo 183, comma 1, lettera n) del Codice ambientale si pongono come regime fondato su presupposti (si pensi alla possibile presenza di materiale antropico nei residui) e scopi (di ripristino dei luoghi interessati dai fenomeni atmosferici) diversi rispetto a quelli sottesi alle apparentemente analoghe regole di favore per gli scarti vegetali previste dalle altre disposizioni del dlgs 152/2006.
Le ipotesi di deroga previste dall'articolo 185 del dlgs 152/2006 per la gestione dei residui verdi da aree agricole e forestali, così come quelle per la combustione degli analoghi scarti vegetali ex articoli 182, comma 6-bis, e 256-bis dello stesso Codice sono infatti giustificate dalla natura a monte esclusivamente naturale dei materiali e dalla finalità del loro riutilizzo nello stesso ambito produttivo (articolo ItaliaOggi Sette del 14.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, a fine anno le liste per la mobilità. Enti locali. Pronto il decreto sui passaggi da una Pa all’altra.
Entro l’anno il ministero della Pubblica amministrazione elaborerà gli elenchi del personale delle Province in esubero e le liste dei posti liberi nelle altre Pa, a partire da Regioni e Comuni.
A prevederlo è la bozza del decreto sui criteri per la mobilità negli enti di area vasta (su cui si veda Il Sole 24 Ore del 15 luglio) che sta ancora aspettando la registrazione della Corte dei conti e che verrà emanato nonostante il mancato accordo in conferenza unificata.
Al momento la prima scadenza è fissata per il 31 ottobre quando le Province dovranno fornire i dati sui dipendenti in soprannumero. Entro la stessa data infatti le Regioni dovranno avere definito le leggi con cui decidono le funzioni, e quindi i dipendenti, delle Province da assorbire in attuazione della riforma Delrio. Quanti non hanno trovato una collocazione nel passaggio devono essere quindi inseriti in elenchi ad hoc, da spedire al portale dedicato alla mobilità (www.mobilità.gov.it).
A quel punto tutte le altre Pa, centrali e locali, avranno tempo fino a fine novembre per indicare quanti e quali posti mettono a disposizione. Serviranno infine altri 30 giorni, e arriviamo così a fine 2015, al ministero della Pubblica amministrazione per pubblicare i posti a disposizione e l’elenco nominativo del personale in soprannumero. Personale che dovrà esprimere le sue preferenze entro fine gennaio. Altrimenti la Funzione pubblica a procedere unilateralmente
 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2015).

LAVORI PUBBLICI: Le proteste giustificano il blocco dell’opera. Tar Lazio. Per i giudici le manifestazioni legittimano la marcia indietro dei Comuni.
L’effetto Nimby entra nella giurisprudenza. La rivolta popolare può, infatti, legittimare la revoca della decisione di un comune.
L’indicazione arriva da una sentenza del Tar del Lazio, chiamato a pronunciarsi su un impianto per servizi alla popolazione. È un principio consolidato, a livello normativo e giurisprudenziale, quello per cui alla Pa è consentito revocare i propri provvedimenti per effetto di una nuova (cioè rinnovata) valutazione dell’interesse pubblico. Così come è pacifico che, nell’esercizio di questo potere di ripensamento, l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità.
Ora, con la
sentenza 08.09.2015 n. 11098 del TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, viene chiarito che «deve ritenersi che la manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera e l’interesse primario, dunque, a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione, costituiscano espressione di una nuova valutazione dell’interesse pubblico. Tenuto che nell’esercizio del cosiddetto jus poenitendi l’Amministrazione gode di ampia discrezionalità, deve ritenersi che la motivazione posta a fondamento della revoca non sia affetta da vizi di legittimità». Se il principio di fondo non è nuovo, fortemente innovativo è invece il riferimento espresso alla contrarietà della popolazione locale come fattore di legittimazione della revoca.
La decisione spinge a due considerazioni. La prima è che la sentenza è sul piano formale da ritenere corretta (anche nella parte in cui nega l’indennizzo richiesto dal proponente riguardo al project financing rimasto, per effetto del «legittimo» ripensamento, solo a metà del guado). La seconda considerazione è che, tuttavia, nel momento in cui si ammette la legittimità della revoca dei provvedimenti (nel caso di specie, di quelli intermedi nell’ambito dell’iter di realizzazione dell’opera pubblica) in nome, apertamente, della «manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera», assumendo che essa fonda «l’interesse primario ... a rispondere ai bisogni manifestati dalla stessa popolazione», ciò fa riesplodere l’irrisolto problema dell’effetto Nimby e della sua incidenza come freno a crescita e sviluppo.
Tema spinoso e difficile, schiacciato com’è fra spinte contrapposte: crisi di credibilità delle istituzioni rappresentative (per colpe oggettive e antipolitica), evidente insufficienza strutturale dello strumento asettico del procedimento amministrativo a comporre conflitti, diffidenze e incomprensioni fra opposti punti di vista (specie su questioni e aspetti a forte connotazione tecnica), carenze di completezza e obiettività delle fonti di informazione e dei processi di comunicazione utilizzati dall’apparato burocratico.
Per uscirne, appare essenziale cambiare metodo, sul piano legislativo. Per evitare questi conflitti a posteriori che disseminano il Paese di opere iniziate e non finite (con corredo di onerosi indennizzi dovuti ai privati delusi nei loro legittimi affidamenti, in molti casi) occorre istituire la verifica “a monte”, prima ancora di fare il progetto preliminare, della reale “fattibilità di contesto” di un’opera di livello medio/grande.
Confrontando (e se necessario, opponendo) argomenti tecnici, economici e sociali a controargomenti della stessa natura, nel contraddittorio –ove occorra– fra esperti di parte.
È lo schema del debat public alla francese, all’attenzione del Senato (AS 980, 1724 e 1845), che prova a conciliare il dovere di non prendere decisioni contro la volontà popolare con la necessità di evitare che un territorio resti ostaggio di minoranze ben organizzate
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.09.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, esuberi ancora al palo.
I trasferimenti dei dipendenti in sovrannumero delle province restano ancora al palo.

Il dpcm 26.06.2015, contenente la «Definizione delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale» registrato dalla Corte dei conti e ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, non è in grado di risolvere i problemi posti dalla riforma delle province, che restano tutti sul tappeto e, anzi, si aggravano.
Mobilità al palo. Il Dpcm che tra breve entrerà in vigore da molti è considerato la chiave per aprire le procedure di mobilità intercompartimentale e sbloccare, quindi, la situazione dei circa 20 mila dipendenti provinciali in sovrannumero. Le cose non stanno così. Il Dpcm è utile solo per le tabelle di equiparazione nel caso di trasferimenti tra diversi comparti della p.a., ma di per sé non fornisce alcuna spinta al complicatissimo processo di ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero.
Del resto, in attesa che si avvii la piattaforma telematica per gestire la mobilità prevista da un altro Dpcm ancora fermo per l'opposizione delle regioni, i dipendenti provinciali avrebbero potuto senza alcuna necessità di tabelle di equiparazione passare a comuni e regioni, che fanno parte del medesimo comparto. Le mobilità tra province e altri enti locali, invece, ci sono state col contagocce, anche perché la gran parte delle province non ha formalmente approvato liste nominative dei propri dipendenti in sovrannumero.
Trattamento economico. Il Dpcm sulle tabelle di equiparazione garantisce ai dipendenti che passino da un'amministrazione all'altra «il trattamento economico fondamentale e accessorio ove più favorevole - limitatamente alle voci con carattere di generalità e natura fissa e continuativa».
Non si rispetta, per quanto riguarda i provinciali, la previsione di cui all'articolo 1, comma 96, lettera a), della legge 56/2014, che invece garantisce ai dipendenti provinciali l'intero trattamento economico, ponendone il finanziamento a carico delle province. Il governo ha inserito questa clausola che modifica l'assetto normativo consapevole che la legge 190/2014, avendo imposto un prelievo forzoso di 3 miliardi a regime alle province non consente di prelevare da esse le risorse per finanziare anche integralmente il personale da trasferire (la cifra si aggira intorno agli 840 milioni).
Tuttavia, è evidente che non essendo stato abolito l'articolo 1, comma 96, della legge Delrio ciascun dipendente ha un diritto fondato dalla legge a non vedersi decurtato lo stipendio e potrebbe rivolgersi giudizialmente avverso la provincia, per ottenere da questa il trasferimento delle risorse che finanziano il trattamento economico verso l'ente di destinazione. Anche in questo caso il rischio di un contenzioso incontrollabile è enorme e altrettanto grande è la probabilità di un salasso per le province.
Bandi in corso. C'è poi il problema dei bandi di mobilità in corso, quelli che ai sensi della circolare 1/2015 della Funzione pubblica si sono considerati legittimi se riservati ai dipendenti provinciali in sovrannumero.
Di particolare delicatezza è quello per 1031 posti presso il ministero della giustizia, la cui procedura si avvicina verso i colloqui selettivi. Oltre a non essere stato interamente riservato ai dipendenti provinciali, il bando e la connessa procedura sono particolarmente delicati perché hanno partecipato moltissimi dipendenti provinciali e di città metropolitane non formalmente inseriti nelle liste dei soprannumerari (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2015).

ANNO 2014
aggiornamento al 17.11.2014

ENTI LOCALI: Gestioni associate e basta. Niente proroga ai comuni sotto 5 mila abitanti. Il chiarimento del ministero degli affari regionali a un convegno.
Nessuna ulteriore proroga sulle gestioni associate dei piccoli comuni.

Questa è la posizione del governo, stando a quanto dichiarato dal capo della segreteria tecnica del ministero degli affari regionali, Francesco Zito, in un convegno svoltosi ieri presso la Scuola umbra di amministrazione pubblica.
L'obbligo è stato previsto dall'art. 14 del dl 78/2010 e interessa tutti i comuni inferiori a 5.000 abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate come fondamentali dalla legge statale: al momento, il relativo elenco è dettato dall'art. 14, comma 27, del dl 78, come sostituito dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe: al momento, tre funzioni sono state associate entro il 31.12.2012, altre tre avrebbero dovuto esserlo entro il 30 settembre, mentre per le restanti la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però, stanno venendo al pettine solo ora, dato che funzioni già devolute a livello sovracomunale o erano già gestite in forma associata (per esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (per esempio, protezione civile o catasto). Il vero core business include le funzioni «pesanti» (come, per esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto da trasferire. Così come le procedure di acquisto, che tutti i comuni non capoluogo (anche se con più di 5.000 abitanti) devono centralizzare sempre entro fine anno per i beni e i servizi, entro il 30.06.2015 per i lavori.
Questa è la tempistica, ha detto Zito. Ma sul territorio è alta l'attesa per un nuovo rinvio. Opzione che, però, al momento non è sul tavolo dell'esecutivo.
Naturalmente, non è escluso che il correttivo possa arrivare dal parlamento, magari in sede di approvazione del ddl stabilità 2015.
Il problema, puntualmente evidenziato da Zito, è che le sanzioni per gli enti inadempienti sono di dubbia efficacia. In teoria, passata inutilmente la scadenza, il prefetto dovrebbe fissare un termine perentorio e quindi nominare un commissario ad acta. Ma quest'ultimo (ammesso che sia individuato) non potrà far altro che svolgere una funzione di stimolo. Servirebbero sanzioni più forti, accompagnate anche da incentivi reali per chi si aggrega (articolo ItaliaOggi del 12.11.2014).

aggiornamento al 19.06.2014

EDILIZIA PRIVATA: C'è semplificazione in edilizia. Modelli Scia e permesso di costruire validi ovunque. Il via libera dal ministero ai moduli unificati. Stop alle richieste di documenti.
Un unico modello, valido per tutto il territorio nazionale, di Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) e permesso di costruire.

A diffonderli è stato ieri il ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione che li ha adottati in forza dell'accordo Italia Semplice siglato il 12.06.2014 tra governo, regioni ed enti locali. In sostanza dunque, spiega una nota ministeriale, invece degli oltre 8 mila moduli, sinora in uso, ci sarà un solo modulo che, dove necessario, potrà essere adeguato alle specificità della normativa regionale.
Tra le altre novità previste, lo stop alla richiesta di documentazione che l'amministrazione ha già in possesso. Basterà una semplice autocertificazione o l'indicazione degli elementi che consentono all'amministrazione di reperire la documentazione.
Le due versioni dei moduli unificati per la Scia e il permesso di costruire prevedono tutta la casistica degli adempimenti connessi ai due adempimenti su tutto il territorio nazionale.
Adesso, spiegano dal dicastero, le prossime tappe saranno la verifica dell'effettiva diffusione del modulo (il risultato non è raggiunto fino a quando non è percepito da imprese e cittadini), adottare gli altri moduli per l'edilizia, l'ambiente e l'avvio delle attività produttive, proseguire infine con la semplificazione delle procedure connesse alle attività edilizie.
Intanto, i modelli unificati diffusi ieri puntano ad agevolare l'informatizzazione delle procedure e la trasparenza per cittadini e imprese. L'accordo Italia Semplice lancia un'alleanza istituzionale per riformare la pubblica amministrazione, attraverso la condivisione tra governo e autonomie di punti e obiettivi da raggiungere insieme nei vari livelli e organismi dello stato. L'intesa prevede il ripensamento dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni territoriali e nazionali sul territorio e la valorizzazione del capitale umano quale elemento vitale della capacità della p.a. di dare risposte certe in tempi rapidi.
Tra le priorità vi sono: la mobilità intercompartimentale, la staffetta generazionale, pochi parametri e limiti alla spesa per il personale, l'adozione di un sistema di regole per il personale che coinvolga anche le società partecipate, la realizzazione di un «mercato» organico della dirigenza su base territoriale, che implichi anche un intervento sulla disciplina dei segretari comunali e provinciali, il ripensamento del sistema di accesso e norme tendenzialmente uniformi per tutti i soggetti che compongono la p.a. nel suo complesso, la semplificazione per crescere, ridefinire e rendere semplici le procedure, la digitalizzazione come unica forma di dialogo fra p.a., cittadini e imprese, l'Open data e la trasparenza come elementi centrali dell'azione amministrativa.
A molte di queste esigenze provano a dare risposta i provvedimenti (un decreto legge e un ddl) approvati venerdì scorso dal consiglio dei ministri (articolo ItaliaOggi del 18.06.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: «Mobilità obbligatoria anche negli enti locali». Rughetti: dal decreto Pa risparmi per oltre mezzo miliardo.
La forza della riforma della Pa non sta solo nell'attuazione in tempi certi e brevi del decreto ma anche negli accordi che dovranno esser siglati in Conferenza unificata per far camminare le nuove misure anche nelle autonomie. A partire dalla mobilità obbligatoria, prevista entro una distanza massima di 50 chilometri per le amministrazioni centrali dello Stato.

«Noi punteremo a confermare quel limite geografico anche per la mobilità obbligatoria tra Comuni o Regioni diverse -spiega Angelo Rughetti, sottosegretario alle Semplificazioni e la Pa- anche perché questa riforma dovrà essere attuata in parallelo al riordino delle Province previsto dalla legge 56».
La legge Delrio (56/2014) prevede il varo entro l'8 luglio del Dpcm che fisserà i criteri generali per l'individuazione delle risorse umane e i dei beni strumentali che dovranno esser trasferiti dalla Province a Regioni, Comuni, Città metropolitano o Unioni di Comuni.
Un decreto che dovrà essere adottato d'intesa con la Conferenza unificata: «Questo passaggio è cruciale e lo utilizzeremo per definire un modello di quella che dovrà essere la mobilità del personale tra gli enti locali -dice ancora Rughetti-. L'organicità della riforma che abbiamo messo a punto sta proprio qui: nella definizioni di piani industriali territoriali con cui andremo a ridefinire le articolazioni della Repubblica sui territori. E con gli accordi in Conferenza unificata definiremo i budget ottimali e fabbisogni del personale nelle singole amministrazioni».
Il decreto stanzia risorse per sostenere questo processo che, se non si realizzerà anche a livello territoriale dove è impiegato oltre il 40% dei dipendenti pubblici rischia di rimanere un esercizio limitato: «C'è la priorità dei settemila posti da coprire negli uffici giudiziari con personale delle Province -ricorda il sottosegretario- ma i casi di mobilità mancata da cui dobbiamo uscire sono tanti. Per esempio, nessun dipendente degli ospedali chiusi nel Lazio negli ultimi anni è ancora stato trasferito».
Da declinare con gli enti locali sarà, anche, la riforma della dirigenza. «In questa prospettiva -spiega Rughetti- la misura che prevede l'aumento dal 10 al 30% della possibilità di ricorrere a incarichi dirigenziali esterni e la loro durata va letta nella prospettiva della delega: per tutti i dirigenti interni e esterni, a regime, la durata sarà di tre anni più tre per lo stesso incarico».
Il decreto Pa è ancora all'esame della Ragioneria generale dello Stato per le verifiche tecniche, indispensabili per l'invio formale alla firma del Colle. La sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è attesa entro la fine della settimana. Dopo quel passaggio si conosceranno, con la relazione tecnica, le quantificazioni in termini di risparmio determinato per cittadini, imprese e casse dello Stato, visto che il decreto, come ha detto due giorni fa Pier Carlo Padoan, «deve essere letto come un'ulteriore attuazione della spending review».
Angelo Rughetti anticipa una cifra dei risparmi da cui si parte: «Siamo oltre il mezzo miliardo, ma si può anche salire». Il sottosegretario enumera le principali misure di minor spesa certa «in attesa della Bollinatura della Ragioneria». C'è il taglio del 50% dei diritti annuali dovuti dalle imprese alle Camere di Commercio, che vale da solo 400 milioni, il taglio degli onorari agli avvocati dello Stato, più di 60 milioni, il dimezzamento dei permessi e dei distacchi sindacali, altri 60 milioni, l'unificazione della scuole di formazione, che darà risparmi pari al 20% della spesa complessiva attuale (non meno di 8 milioni).
«L'elenco della misure che daranno risparmi continua e stiamo aspettando le quantificazioni -dice ancora Rughetti- basti ricordare la stretta sulle spese per attività strumentali delle Authority indipendenti, il taglio ai diritti di rogito dei segretari comunali, il taglio ulteriore del 10% alla consulenze»
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2014).

APPALTI: Appalti, autorità spacchettata. Piano Cantone, entro il 2014 competenze spartite tra Anac e Infrastrutture.
Non sarà una transizione né facile né breve quella che porterà a un riordino del sistema di vigilanza degli appalti targata Raffaele Cantone. Chi pensava che in quattro e quattr'otto si sarebbe chiusa l'attuale Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp) per trasferire con un colpo di bacchetta magica tutto nelle mani del neo presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) deve aver sottovalutato il groviglio di competenze che è necessario districare per dare un assetto razionale ai nuovi poteri.
Anche perché a giocare la partita sono in molti. A partire dalla vecchia Avcp, che non si rassegna a passare la mano completamente al ministero delle Infrastrutture, che da mesi ha messo nel mirino soprattutto le competenze sulla qualificazione. Senza dimenticare che anche la magistratura ha messo sotto inchiesta il sistema Soa (società organismo di attestazione) e in particolare le finte cessioni di ramo d'azienda con un'inchiesta che a marzo ha portato la Guardia di Finanza nelle sedi di tutte le 26 società attive in Italia.
Ecco allora che le ultime versioni del decreto legge, quelle in cui evidentemente è passata la mano esperta di Cantone, sembrano assumere una maggiore dose di realismo e delineare un percorso che può ridare razionalità al sistema. La bacchetta magica è sostituita da un piano che Cantone, in veste di commissario, dovrà mettere a punto entro il 31.12.2014 con l'ausilio di un vice-commissario.
Ad approvare il piano sarà il Consiglio dei ministri e solo in quel momento l'Avcp sarà soppressa. Oggi Cantone, che va in audizione alla commissione Lavori pubblici della Camera, comincerà forse a dire come la pensa. Il testo del decreto, che peraltro è ancora oggetto di messe a punto a Palazzo Chigi, comincia già ad abbozzare la spartizione delle future competenze, ma sarà necessario definire con precisione anche le categorie stesse che il provvedimento usa.
In particolare alle Infrastrutture andranno le attività di «precontenzioso» (cioè i pareri non vincolanti sulle gare in corso rilasciati su richiesta di imprese e Pa, con l'obiettivo di ridurre il ricorso ai giudici amministrativi) e di «attività consultiva», che al momento si sostanzia negli atti di segnalazione che Via Ripetta invia a Governo e Parlamento sulla normativa (necessità di modifiche o difficoltà di applicazione).
Un po' paradossale che sia il ministero a dare pareri a se stesso. Secondo l'ultima versione del testo, all'Anac andrebbero invece le «funzioni di vigilanza» sul mercato, le banche dati sui contratti pubblici e i «poteri sanzionatori». Sembrerebbe doversi desumere che sia il controllo sulle Soa e sui requisiti delle imprese, sia l'Avcpass, la banca dati dei requisiti delle imprese che partecipano alla gara (ancora largamente lacunosa), rientrino nelle competenze da trasferire all'Anac, anche se le categorie prescelte non danno certezze in questo senso. Così come non è chiaro a chi spettino altre attività, soprattutto di regolazione del mercato, decisive per l'efficientamento degli appalti: i costi standard, per esempio, o i bandi tipo che imprese e amministrazioni invocano da anni o i nuovi compiti in materia di trasparenza e controllo della spesa pubblica che la legge Severino e l'ultimo decreto Irpef assegnano proprio all'Authority in via di "soppressione".
Se per l'eredità dell'Avcp le ultime bozze fanno comunque pensare a un passo avanti, con la cancellazione subordinata a un piano di riordino, sembra tornare in alto mare il capitolo sulla riforma delle norme sugli appalti. Clamorosa sarebbe l'uscita dal testo dell'articolo forse più significativo, quello che prevedeva la stretta sulle varianti, con un obbligo di comunicazione proprio all'Anac. Ma nel lavoro di revisione delle ultime ore, che evidentemente tiene conto anche di eventuale obiezioni del Quirinale sulla eterogeneità del provvedimento, rischiano di saltare anche la cancellazione dell'incentivo del 2% per i progetti interni alla Pa e l'ammorbidimento dei requisiti per le gare di progettazione. Confermata la cancellazione della responsabilità solidale negli appalti. Scende all'1% la sanzione per le liti temerarie
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.06.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGODECRETO CRESCITA/ Spoils system a tutto spiano. Rafforzate le possibilità di nomine intuitu personae. Le disposizioni in materia di pubblica amministrazione.
Si scrive semplificazione del lavoro pubblico, si legge estensione senza limiti dello spoils system all'italiana.

Il pacchetto della riforma approvato dal governo il 13 giugno scorso contiene diverse norme io cui scopo non è tanto semplificare procedure o contenere costi, ma potenziare a dismisura il potere della politica sugli apparati amministrativi e dare un potere di nomina intuitu personae senza alcun vincolo o controllo.
Il disegno di legge delega nei fatti attribuisce alla politica poteri vastissimi sulla dirigenza, volti a creare, nella sostanza, una dirigenza se non «schierata» e colorata politicamente, molto saldamente imbrigliata dal potere del ministro di turno. Gli strumenti sono tre.
Il primo riguarderà gli incarichi dirigenziali di vertice. I dirigenti che vi aspirino, dovranno rispondere a «interpelli» e i loro curriculum, comprensivi delle valutazioni, saranno valutati da una Commissione per la dirigenza pubblica, che li selezionerà sulla base di criteri da definire. Ma, la Commissione si limiterà a sottoporre ai ministri una rosa di dirigenti; il disegno di legge prevede che la legge delegata consenta agli organi politici di individuare i dirigenti da incaricare sulla base di una successiva «scelta non motivata», introducendo per la prima volta il caso di un provvedimento amministrativo del quale il soggetto che lo adotta non debba dar conto delle ragioni che ne stanno alla base.
Insomma, al di là della procedura formale, sarà comunque la politica a scegliersi i dirigenti che più le piacciono. Il secondo strumento amplia ulteriormente la possibilità di scelta fiduciaria, consentendo agli organi politici di incaricare non i dirigenti di ruolo, ma di assumere a tempo determinato i dirigenti «a contratto» ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 «senza previa verifica della disponibilità di dirigenti di ruolo aventi corrispondenti caratteristiche». Insomma, anche in questo caso si intende sottrarre la politica dall'obbligo di spiegare come mai si assumano dirigenti esterni, sebbene nei ruoli siano presenti dirigenti, magari privi di incarico, che dispongano esattamente della professionalità necessaria ai fini dell'incarico che si intende assegnare (con maggiori oneri finanziari) a soggetti esterni.
Il terzo strumento consiste nella licenzi abilità dei dirigenti di ruolo privi di incarico. Per liberarsi dei dirigenti «scomodi» non sarà necessario utilizzare le complesse procedure finalizzate a rilevare il mancato conseguimento degli obiettivi e, dunque, il sistema di valutazione. Basterà, per esempio, attingere a piene mani proprio a dirigenti esterni ai ruoli e lasciare quelli di ruolo senza incarico, per ottenerne senza sforzo il licenziamento. Con un costo comunque non indifferente, perché per un certo lasso di tempo i dirigenti senza incarico percepiranno lo stesso uno stipendio, sebbene limitato al solo «tabellare», senza cioè la retribuzione di posizione, legata allo svolgimento di un incarico preciso, né la retribuzione di risultato, ovviamente connessa alla capacità di ottenere i risultati connessi a quell'incarico.
Un ulteriore omaggio allo spoils system, inizialmente previsto è invece saltato. Era la possibilità per i sindaci di attribuire al personale del proprio staff trattamenti economici da funzionari, se non da dirigenti, anche se i destinatari fossero privi dei titoli di studio e professionali necessari per accedere ai posti con concorsi pubblici (articolo ItaliaOggi del 17.06.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGOPiù mobilità per i pubblici. Senza il nulla-osta dell'ente passaggi volontari solo nei ministeri. Decreto Pa. Niente più consenso del dipendente per i trasferimenti nello stesso comune o entro i 50 chilometri.
Una spinta forte alla mobilità obbligatoria, mentre sulla volontaria le novità sembrano limitarsi a qualche piccola sperimentazione, un deciso accompagnamento all'uscita dei dipendenti vicini alla pensione, che rafforza comunque regole già presenti nell'ordinamento, e un taglio secco ai compensi aggiuntivi che fino a oggi hanno accompagnato mansioni "ordinarie".
Sul piano dell'attuazione concreta suona così la riforma della Pubblica amministrazione, almeno nelle bozze circolate fino a ieri sera in attesa del testo definitivo, per la parte che riguarda il pubblico impiego.
Sulla mobilità, la regola chiave è quella che considera unica «unità produttiva» tutti gli uffici collocati nello stesso Comune o comunque a 50 chilometri di distanza dalla sede di prima assegnazione del dipendente. Questo significa, Codice civile alla mano (articolo 2103), che gli spostamenti in questo raggio possono essere decisi dall'amministrazione senza il consenso del dipendente.
Il riferimento ai 50 chilometri interessa ovviamente in via quasi esclusiva le Pa centrali o regionali, ma attenzione: se il dipendente è già stato trasferito in passato (ma qui il testo della bozza zoppica parecchio), il nuovo spostamento deve avvenire in un raggio di cinque chilometri. Sulla mobilità volontaria, invece, l'addio al nulla osta dell'amministrazione cedente è per ora limitato, in via sperimentale, alle sedi centrali di ministeri, agenzie ed enti non economici: una questione solo romana, insomma, in attesa di sviluppi su un'ipotetica individuazione dei «fabbisogni standard di personale» delle Pa.
Decisamente più forti le regole accompagnate dalle tagliole per cancellare i compensi aggiuntivi di varie categorie di personale. Oltre ai 347 avvocati dello Stato e ai quasi 4mila segretari comunali, che perdono i «diritti di rogito» con cui la loro busta paga poteva crescere anche di un terzo (si veda Il Sole 24 Ore di sabato scorso),
una sforbiciata drastica arriva per i progettisti interni alle Pubbliche amministrazioni, che vedono sfumare gli «incentivi Merloni»: questi "premi", che riguardano decine di migliaia di persone in tutte le Pa centrali e locali, servivano a incentivare i progetti realizzati all'interno dell'amministrazione evitando di affidare consulenze esterne, potevano arrivare al 2% del valore dell'opera e avevano già subito un taglio allo 0,5%, poi cancellato. Solo il testo definitivo permetterà di capire se l'abolizione interverrà per «competenza», impedendo di fissare premi d'ora in poi, o per «cassa», cancellando anche gli incentivi già decisi ma non ancora pagati.
Più variegati, infine, sembrano gli effetti dell'addio tout court al possibile trattenimento biennale in servizio dopo il raggiungimento dei requisiti previdenziali, che in particolare negli enti territoriali era ormai poco usato perché veniva conteggiato come nuova assunzione nei vincoli al turn over
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVia libera alle assunzioni nelle società controllate. Enti locali. Saltano i limiti di spesa.
Liberi tutti nelle società controllate dagli enti locali, nelle aziende speciali e nelle istituzioni. Il decreto sulla Pa, almeno nelle bozze circolate finora, cambia ancora le regole sul personale e sui cda, e con gli emendamenti approvati al Senato al decreto Irpef riscrive in due mosse la disciplina di queste società.
L'apertura più importante arriva sulle assunzioni. Scompare il tetto che impone al "gruppo" costituito da ente locale e società controllate di non impegnare nelle spese di personale più del 50% delle uscite correnti: il limite, come accadeva nel 2008, torna a riferirsi al solo ente locale, che viene ora chiamato a «coordinare le politiche assunzionali» di società, aziende speciali e istituzioni per determinare «una graduale riduzione» dell'incidenza delle spese di personale sui loro conti. Il vincolo, come si vede, è molto più morbido, e fa il paio con la modifica appena intervenuta nel decreto Irpef, che cancella l'applicazione automatica alle società controllate dei limiti alle assunzioni previsti per gli enti proprietari.
Anche in questo caso una regola rigida viene sostituita da un'indicazione flessibile, con cui si spiega che queste partecipate «si attengono al principio di riduzione dei costi del personale». Queste novità rappresentano una buona notizia soprattutto per le aziende pubbliche con i conti più in difficoltà, gravate da spese di personale elevate in rapporto al loro bilancio, o possedute da enti nei quali lo sforamento del Patto di stabilità o dei limiti all'indebitamento hanno determinato il blocco delle assunzioni: blocco che, con le vecchie norme, si sarebbe esteso in automatico alle realtà controllate.
Queste novità intervengono proprio mentre il commissario alla spending review Carlo Cottarelli è stato incaricato (dallo stesso decreto Irpef, all'articolo 23) di scrivere «un programma di razionalizzazione delle aziende speciali, delle istituzioni e delle società direttamente o indirettamente controllate dagli enti locali»; anzi, il termine del 31 ottobre scritto nel decreto originario per il varo di questo piano è stato considerato troppo lungo, ed anticipato al 31 luglio da un emendamento approvato in Senato.
Ma nel decreto Pa c'è anche un cambio di rotta esplicito nei confronti della spending review di Monti e Bondi, con la cancellazione della regola che imponeva di far occupare da dipendenti dell'amministrazione controllante la maggioranza dei posti nei consigli di amministrazione (si veda il Sole 24 Ore di sabato). Nelle bozze si prevede ora che nei prossimi rinnovi la maggioranza dei consiglieri sia indicata «d'intesa» tra l'ente proprietario e quello «proprietario dei poteri di indirizzo e vigilanza»; difficile al momento prevederne le modalità applicative, ma resta il fatto che la nomina dei dipendenti, introdotta per esigenze di risparmio due anni fa (i dipendenti della Pa devono riversare i gettoni nelle casse dell'ente controllante), è saltata
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIALa legge «censisce» gli imballaggi. Ambiente e rifiuti. Dal 14 giugno i chiarimenti: fuori toner e custodie dei cd.
Si chiarisce il concetto di imballaggio. La puntualizzazione è contenuta nel Dm 22.04.2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 136 del 14 giugno e in vigore dalla medesima data.
I chiarimenti sono importanti soprattutto per quei prodotti che sfuggivano alla concezione classica e non legislativa di imballaggio o che, invece, apparentemente, vi rientravano. Ora, ad esempio, sono inequivocabilmente imballaggi: i pizzi per le torte (venduti con le torte); i rotoli, i tubi e i cilindri sui quali è avvolta la pellicola, il foglio di alluminio o la carta; le grucce per indumenti (vendute con l'indumento) e i vasi da fiori per la vendita e il trasporto di piante.
Sfuggono viceversa dal concetto legislativo di imballaggio (tra i molti) le cartucce per stampanti, le custodie per cd, i macinapepe ricaricabili; le bustine solubili per i detersivi e i vasi da fiori destinati a restare con la pianta per tutta la sua durata di vita. Mentre le etichette adesive apposte su un altro articolo di "packaging" sono considerate parti di imballaggio, quelle di identificazione a radiofrequenza (Rifid) non sono imballi.
Il nuovo decreto modifica l'allegato E alla parte quarta del Codice ambientale (Dlgs 152/2006) e attua la direttiva 2013/2/Ue che ha modificato l'allegato I alla direttiva "packaging" 94/62/Ce, recepita con il Dlgs 152/2006, parte quarta. Poiché si tratta di allegati, il recepimento della direttiva mediante Dm è legittimato dall'articolo 264, comma 2-bis, del "Codice" che vede nel Dm Ambiente, di concerto con Salute e Sviluppo economico, lo strumento per modificare gli allegati in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti contaminati.
Il chiarimento, in realtà, è riferito ai prodotti, ma quando questi concludono il loro ciclo di vita diventano rifiuti e precisamente rifiuti di imballaggio che vanno gestiti secondo le regole stabilite dalla parte quarta del Codice ambientale; pertanto, si è potuto procedere mediante decreto. Le nuove disposizioni integrano e modificano gli esempi posti alla base dei criteri interpretativi e già presenti al n. 2, allegato E, parte quarta, Dlgs 152/2006.
Il decreto e la direttiva hanno eliminato alcune incertezze e fatto chiarezza essendo i vari esempi molto più ampi e puntuali: così gli Stati membri sono più allineati nella identificazione degli imballaggi e dei rifiuti che derivano dal loro utilizzo per una migliore e paritetica applicazione della disciplina anche in materia di import-export dei rifiuti
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

CONDOMINIOParti comuni, cambi difficili. La convocazione deve arrivare per raccomandata o per mail certificata. I locali accessori. Per variare la destinazione l'avviso di assemblea va affisso almeno 30 giorni prima.
Maggioranza speciale e regole di convocazione dell'assemblea differenti rispetto a quelle ordinarie per il cambio di destinazione d'uso in condominio.

Con la riforma (la legge 11.12.2012, n. 220, entrata in vigore il 18.06.2013) è diventato più difficile che in passato variare la finalità a cui sono adibiti locali e porzioni di immobili comuni. Si pensi, ad esempio, al cambio di destinazione d'uso dei locali di portineria e alloggio del portiere, quando sia stato soppresso il servizio di portierato.
Partiamo dalle regole per approvare la variazione. Nel regime anteriore alla legge 220/2012, la modifica avveniva con la stessa maggioranza prevista dall'articolo 1136, quinto comma del Codice civile, per le innovazioni. Cioè la maggioranza dei condomini oltre ai due terzi dei millesimi. Da un anno il quadro è cambiato. L'articolo 1117-ter del Codice civile, introdotto dalla legge di riforma, stabilisce infatti che la destinazione d'uso delle parti comuni possa essere modificata «con un numero di voti che rappresenta i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio».
Pertanto è necessaria la maggioranza per i cambi di destinazione d'uso.
Anche la nuova norma, comunque, ribadisce comunque che il cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
Comunque si sia arrivati alla versione finale del testo dell'articolo 1136, il risultato è che oggi il riuso di spazi condominiali non più utilizzati è ostacolato, piuttosto che agevolato.
Oltre alle maggioranze, sono più stringenti rispetto alla situazione antecedente anche i termini di convocazione dell'assemblea.
L'avviso d'indizione deve essere affisso per non meno di 30 giorni consecutivi nei «locali di maggior uso comune o negli spazi a tale fine destinati».
La comunicazione ai singoli proprietari, invece, deve arrivare mediante lettera raccomandata o mezzi telematici equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo. Ciò significa che non dovrebbe essere ammesso un semplice fax o la consegna a mano.
Infine, all'interno della convocazione è necessario indicare quali siano le parti comuni oggetto della modificazione e quale la nuova destinazione d'uso proposta. Pena la nullità della convocazione.
Sulla conseguente e logica nullità anche della delibera (eventualmente approvata nel corso di una riunione nulla) non c'è, invece, ancora chiarezza. Ma quasi certamente toccherà alla magistratura offrire, di fronte al presentarsi di casi concreti, le prime indicazioni sul punto.
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Passo per passo
01|LA MAGGIORANZA
Per approvare un cambio di destinazioni d'uso, dopo la riforma, occorre il consenso dei quattro quinti dei partecipanti al condominio, che rappresenti almeno i quattro quinti dei millesimi
02|I LIMITI
Il cambio è permesso solo se non reca pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, al pari godimento di tutti i condomini e a patto che non ne alteri il decoro.
03|L'ASSEMBLEA
L'avviso di convocazione deve essere affisso per non meno di 30 giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tale fine destinati mentre la comunicazione ai singoli proprietari deve arrivare per raccomandata o mezzi telematici equipollenti con almeno 20 giorni di anticipo. Quindi risultano inammissibili il fax o la consegna a mano.
04|I CONTENUTI
Nella convocazione è necessario indicare quali siano le parti comuni oggetto della modificazione e quale la nuova destinazione d'uso proposta, pena la nullità della convocazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

CONDOMINIOL'antenna satellitare ammessa nel rispetto del decoro della casa.
Che cosa fare se un condomino ha installato un'antenna satellitare facendo passare i cavi in ogni dove e i suoi vicini se ne lamentano? In casi del genere, l'assemblea potrebbe risolvere il problema.

Nel marasma di «padelloni» che spesso infestano le facciate interne degli edifici, la lamentela principale ha riguardato l'alterazione del decoro. All'amministratore spetta la prima valutazione dello stato dei luoghi e un compito: spiegare ai condomini che il decoro architettonico cede il passo al diritto all'informazione. Non solo: è sempre utile ricordare che la valutazione della lesione del decoro architettonico dev'essere eseguita tenendo in considerazione la percezione comune di determinate opere ed installazioni (giudice di pace di Grosseto, sentenza 1038 del 19.08.2011); parabole, condizionatori e simili, dice la sentenza, sono percepiti come normali impianti che non sono in grado d'incidere oltremodo sull'aspetto del condominio.
Insomma considerare violazione del decoro l'installazione di un'antenna parabolica non è cosa così scontata.
In questo contesto la riforma del condominio ha previsto un rimedio, passato sotto silenzio: l'articolo 155-bis delle Disposizioni di attuazione del Codice civile. Partiamo dall'articolo 1122-bis del Codice. Tale norma riguarda gli impianti installati dopo il 18.06.2013 (entrata in vigore della legge 220/2012 di riforma del condominio). Per quelli installati prima di tale data, però, le norme codicistiche prevedono un rimedio specifico; è qui che assume rilievo l'articolo 155-bis delle Disposizioni.
La norma, infatti, consente all'assemblea di deliberare –con le maggioranze semplici previste per la prima e seconda convocazione– le prescrizioni necessarie a far sì che gli impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo (anche da satellite e via cavo) non rechino pregiudizio alla sicurezza, alla stabilità e al decoro dell'edificio. In sostanza, per tutti i casi analoghi, l'assemblea può imporre l'adozione di accorgimenti con spese a carico del condomino interessato. L'amministratore cui è stata segnalata una situazione simile, quindi, avrà il compito di convocare l'assise per le più opportune decisioni in merito.
Si badi che le prescrizioni assembleari devono attenere all'uso delle cose comuni sicuro e alla salvaguardia del decoro senza mai potersi spingere al dettato di accorgimenti che, di fatto, vanificherebbero il diritto d'uso del singolo. Quindi al condomino che ritiene le prescrizioni lesive dei propri diritti spetta sempre il rimedio dell'impugnazione della delibera assembleare.
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I punti chiave
01|I RISCHI
Le antenne televisive poste a servizio delle singole unità immobiliari sono in grado di alterare il decoro architettonico dell'edificio
02|IL RIMEDIO
Le norme permettono di ovviare al problema anche per gli impianti installati prima dell'entrata in vigore della riforma; l'amministratore convoca l'assemblea e la stessa, a maggioranza semplice, può deliberare l'adeguamento degli impianti
03|L'IMPUGNAZIONE
Il condomino cui sono rivolte le prescrizioni può contestarle in assemblea e comunque impugnare la deliberazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2014).

aggiornamento al 21.05.2014

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Niente stop agli incentivi se il Durc è negativo.
Il Durc dice addio alla carta. Il dl n. 34/2014, infatti, ha trasformato in versione telematica il documento unico di regolarità contributiva. Perciò, ferma restando la validità di quattro mesi, il documento unico di regolarità contributiva si potrà scaricare da internet tagliando in questo modo circa cinque milioni di certificazioni su carta. Altra novità interessante è il diritto, per le imprese prive di regolarità contributiva, di ricevere comunque le agevolazioni. Tuttavia, prima di finire nelle casse aziendali, gli incentivi salderanno le scoperture contributive.
Per regolarità contributiva s'intende la correttezza nei pagamenti e adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps e Inail, nonché casse edili nel caso di imprese di tale settore) con riferimento ai tutti gli obblighi ricadenti sull'intera situazione aziendale. Il Durc è un certificato che attesta tale regolarità per un'impresa. La regolarità contributiva (ossia il possesso del Durc da parte dell'azienda) è richiesta in diversi casi: appalti, lavori edili ecc. La Finanziaria 2007 (art. 1, comma 1175, della legge n. 296/2007) ha esteso tale vincolo anche ai benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale, fermo restando il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali.
La legge n. 98/2013 (conversione del dl n. 69/2013) ha previsto che alle erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, di qualunque genere, compresi quelli di cui all'art. 1, comma 553, della legge n. 266/2005 (cioè i benefici e le sovvenzioni comunitarie per la realizzazione d'investimenti), da parte di pubbliche amministrazioni, per le quali e «prevista» l'acquisizione del Durc, si applicano «in quanto compatibili» le previsione del comma 3 dell'art. 31 della stessa legge.
Quest'ultima norma disciplina il c.d. «intervento sostitutivo», vale a dire l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di trattenere dal pagamento da fare a un'impresa non in regolarità contributiva, l'importo corrispondente alle inadempienze evidenziate dal Durc. In pratica è previsto che in presenza di un Durc negativo con irregolarità nei versamenti dovuti a Inail, Inps o casse edili, le stazioni appaltanti si sostituiscano all'impresa debitrice (appaltatrice o subappaltatrice avente) e procedano a pagare, in tutto o in parte, il debito contributivo (a Inps, Inail o casse edili) trattenendo il relativo importo dal corrispettivo dovuto in forza dell'appalto.
La legge n. 98/2013, dunque, ha esteso l'utilizzo di questa disciplina (l'intervento sostitutivo) prevedendone l'applicazione «in quanto compatibile» anche alle amministrazioni pubbliche che erogano contributi, sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere per i quali sia «prevista» l'acquisizione d'ufficio del Durc.
Il dl n. 34/2014 interviene proprio su questa norma della legge n. 98/2013. Due le novità. La prima rende obbligatorio il Durc a tutte le erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziarie e vantaggi economici di qualunque genere, compresi benefici e sovvenzioni Ue per la realizzazione d'investimenti. La seconda rende obbligatoria negli stessi casi l'intervento sostitutivo. La conseguenza più interessante sembra quella a favore delle aziende. Fino al 21 marzo, infatti, era previsto che in caso di Durc negativo l'azienda non avesse diritto a incentivi per un mese ovvero, in caso di Durc positivo, ne avesse diritto per quattro mesi.
In altri casi, l'assenza di regolarità contributiva negava addirittura l'accesso a un bando di assegnazione di agevolazioni: è il caso, per esempio, dei finanziamenti Inail (Isi). In questi due esempi, allora, le modifiche del dl n. 34/2014 comportano che l'azienda è comunque e sempre ammessa agli incentivi, cioè anche se in possesso di Durc negativo. Però, con l'obbligatorietà dell'intervento sostitutivo, Inps o Inail prima di erogare materialmente gli incentivi, copriranno le scoperture contributive (articolo ItaliaOggi Sette del 19.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVia libera condizionato ai contratti decentrati. Gli integrativi irregolari possono ancora essere pagati. Pubblico impiego. La circolare del 12 maggio blocca le misure del Dl salva-Roma.
Il primo tentativo di risolvere le diffuse irregolarità dei fondi e dei contratti decentrati negli enti locali, contenuto nell'articolo 4 del Dl 16/2014, si scontra con un immediato stop da parte del Governo. I motivi –specificati nella circolare 12.05.2014 n. 60 di prot., firmata dai ministri per gli Affari regionali, Maria Carmela Lanzetta, per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, e dell'Economia, Pier Carlo Padoan– trovano origine nella «particolare complessità e stratificazione della disciplina», con la conseguente costituzione di un comitato temporaneo in Conferenza unificata che dovrà fornire indicazioni operative anche attraverso interventi normativi e direttive all'Aran.
Sembra evidente che il percorso prospettato richiederà molto tempo, tanto è vero che viene introdotto un periodo di sostanziale moratoria. Dietro al paravento della garanzia dei servizi, si è colta l'occasione per sdoganare (temporaneamente e salvo recupero) tutte le clausole contrattuali vigenti, anche se evidentemente viziate.
Si tratta quindi di una sanatoria ex ante di tutti i comportamenti adottati da oggi in poi e che trovano origine nei contratti decentrati firmati prima della circolare. A ben guardare, non si tratta di una semplice moratoria visto che rimane l'obbligo di recupero, ma di un sostanziale lasciapassare per i dirigenti che oggi sono chiamati ad applicare contratti decentrati di dubbia legittimità. L'obiettivo, neppure troppo velato, è quello di sollevare i responsabili del personale dal rischio di danno erariale derivante da colpa grave.
Perché proprio oggi è necessario garantire questa immunità? Perché cominciano a far sentire i loro effetti i verbali della Ragioneria dello Stato: è chiaro che un dirigente, a fronte di illegittimità rilevate in sede ispettiva, non può più far finta di niente e perpetrare comportamenti consolidati. In caso contrario ne risponderebbe in prima persona. Questo implica, quantomeno, la sospensione delle clausole contestate con la conseguente riduzione dello stipendio variabile per la generalità dei dipendenti.
Di cosa si tratta in pratica? Principalmente delle progressioni orizzontali stratificate nel tempo e riconosciute senza la necessaria selettività. Se a queste aggiungiamo i compensi che, seppure previsti nel contratto collettivo, sono stati male applicati (come rischio, disagio, responsabilità) e quelli nati dalla fervida fantasia che ha caratterizzato i tavoli della contrattazione decentrata (ad esempio, indennità di sportello, servizi aggiuntivi, indennità di chiamata, indennità di divisa) si può arrivare tranquillamente a una riduzione dello stipendio mensile del 20-30 per cento.
La situazione, già molto precaria, è stata ulteriormente aggravata dall'innesto della riforma Brunetta che imponeva la revisione dei contratti decentrati con l'obiettivo di enfatizzare gli istituti incentivanti legati alla performance. Riforma che, a distanza di anni e nonostante il riverbero mediatico, è inascoltata anche nelle realtà più grandi. L'inadempienza, troppo spesso sottovalutata, travolge, al contrario, l'intero contratto decentrato rendendo fin troppo facile la vita agli ispettori.
Ma per garantire tutto questo, è sufficiente una circolare, seppure a firma di tre ministri? Difficilmente il dirigente potrà soprassedere al testo normativo e ad anni di giurisprudenza e orientamenti consolidati.
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Caos recupero sugli stipendi. I limiti. Difficile rispettare la prescrizione di riprendere le somme versate in base a clausole di dubbia legittimità.
La circolare interministeriale 60 del 12 maggio autorizza il pagamento delle indennità previste nei contratti decentrati vigenti, anche di dubbia legittimità, ma necessarie per garantire i servizi indispensabili. A due condizioni:
1- in via temporanea
2- e salvo recupero.
Già sulla temporaneità si nutrono forti dubbi: il lavoro del comitato, che deve tendere a proporre soluzioni interpretative uniformi dell'articolo 4 del Dl 16/2014, appare alquanto arduo e, quindi, difficilmente risolvibile nel breve periodo. Sul recupero, le perplessità diventano quasi certezze in quanto sarà molto improbabile dar corso alla previsione della circolare. Le possibilità sono due: la riduzione del fondo per le risorse decentrate o la restituzione da parte dei dipendenti.
Per quanto riguarda i fondi, il Dl 16/2014 rappresenta una sorta di sanatoria per il passato, ma impone un comportamento irreprensibile per il futuro. Per questo il dirigente responsabile sarà obbligato a ricalcolare il suo ammontare per riportarlo a quell'importo che risulta dalla puntuale ricostruzione storica, sulla base di interpretazioni prudenziali delle previsioni contrattuali. L'operazione è tutt'altro che indolore: spesso vuol dire eliminare somme considerevoli e, quindi, anche il fondo risulta decurtato in modo sensibile.
Se sulla carta il sistema potrebbe anche funzionare, in pratica ci sono grossi problemi. In molti casi le risorse stabili del fondo sono appena sufficienti a garantire gli utilizzi stabili (progressioni, comparto e retribuzione di posizione), atteso che nei periodi di risorse abbondanti non si sono lesinati gli incentivi stabili a scapito di quelli variabili. Se a questi si aggiungono le risorse necessarie per il pagamento di turni e reperibilità, quello che rimane non è di certo sufficiente ad assorbire i recuperi. Ne consegue che l'operazione sui fondi teorizzata dal Dl salva-Roma potrebbe richiedere molti anni determinando l'azzeramento della produttività e il sostanziale fallimento del sistema.
L'alternativa potrebbe consistere nel recupero sugli stipendi dei dipendenti. Pur volendo prescindere dal dettato dello stesso Dl salva-Roma, l'esperienza insegna che politicamente è molto difficile, se non impossibile, ridurre sensibilmente e per lunghi periodi gli stipendi alla generalità dei dipendenti. Stipendi fermi dal 2010 a seguito del blocco dei contratti collettivi e che risentono del contenimento dei fondi
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIFine mandato, relazione alle sezioni regionali. Bilanci. Servono istruzioni dalla Corte.
Cambiano le regole sulla relazione di fine mandato dei sindaci: la legge 68/2014, di conversione del Dl salva-Roma ter, rivedendo la disciplina in materia, ha assegnato alla sezione regionale di controllo il ruolo di destinatario "giudicante".
Il maggior problema è rappresentato dalla mancata definizione del ruolo che andranno a svolgere in materia le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Un silenzio nei confronti del quale spetterà allo stesso giudice contabile rimediare. Ciò in quanto ogni sezione regionale dovrà necessariamente esprimersi, deliberando in proposito, quantomeno in termini di rispetto o meno dei tempi e delle procedure seguite dai Comuni.
Un dovere ineludibile, considerata la ratio legislativa intesa a riconoscere negli organi di giustizia erariale la migliore garanzia sull'operato finale dei sindaci. Un tale adempimento è peraltro dovuto, considerato lo stretto rapporto di analisi che lega i "saldi" giuridici ed economici, da rappresentare nel format ministeriale della relazione di fine mandato, con gli adempimenti routinari affidati alle sezioni regionali di controllo dall'articolo 148-bis del Tuel e dall'articolo 6, comma 2, del Dlgs n. 149/2011.
È necessario, quindi, che la sezione delle Autonomie approvi rapidamente linee guida ad hoc, per determinare comportamenti uniformi sul territorio nazionale.
Quanto auspicato è in linea con quanto sancito nell'articolo 6, comma 4, del Dl n. 174/2012 secondo cui «in presenza di interpretazioni discordanti delle norme rilevanti per l'attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la sezione delle Autonomie emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano».
Ci si augura, pertanto, un chiarimento "filo istruttorio" su questi punti: la definizione dei termini in relazione alla loro perentorietà o meno; il limite che separa la mancata presentazione dalla non conformità e/o dalla non esauriente redazione della relazione; la necessità di chiarire se l'obbligatorietà della sottoscrizione si estenda alla certificazione e/o alla trasmissione, o anche –in termini di sanzione economica– se questa vada posta a carico dei soggetti tenuti alla redazione della relazione nell'ipotesi di successiva mancata sottoscrizione della stessa da parte del sindaco
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASPECIALE JOBS ACT - PER I CONTRIBUTI L'OK ARRIVA ON-LINE - Cresce il plafond degli incentivi destinati ai contratti di solidarietà.
Tra le varie misure contenute nel decreto legge 34/2014 a vantaggio delle imprese, appaiono particolarmente interessanti i provvedimenti con cui si interviene sulla disciplina del documento unico di regolarità contributiva (Durc) e sull'impianto a sostegno degli incentivi connessi ai contratti di solidarietà (Cds).
Le due norme sono orientate da logiche ben chiare: semplificazione e trasformazione per il Durc, destinato a smaterializzarsi; rivisitazione della normativa riferita alle agevolazioni per i contratti di solidarietà, stanziamento di maggiori risorse per i relativi incentivi e uniformazione della misura.
La rivisitazione del Durc è disciplinata dall'articolo 4 del decreto, con cui il governo si prefigge di far rivivere un progetto non nuovo: convertire il documento unico di regolarità contributiva in una semplice interrogazione online che ognuno, compresa l'impresa interessata, potrà eseguire dal proprio computer.
La sua realizzazione passa, in pratica, attraverso l'apertura delle banche dati in cui sono memorizzate le informazioni che servono a controllare se un determinato soggetto è in regola con i vari versamenti. Sarà possibile verificare, in tempo reale, la posizione dei contribuenti nei riguardi di Inps e Inail nonché, per le imprese interessate, anche della Cassa edile. Al momento, in realtà, si tratta soltanto di una previsione: sarà, infatti, un decreto interministeriale (Lavoro-Economia) –la cui emanazione è prevista entro 60 giorni dall'entrata in vigore del Dl 34, avvenuta il 21.03.2014– a dettare le regole.
Una volta che l'impianto sarà funzionante, l'interessato potrà controllare online la regolarità. L'esito varrà 120 giorni e le sue risultanze sostituiranno a ogni effetto il Durc, in tutti i casi in cui lo stesso è previsto, ad eccezione delle ipotesi di esclusione individuate dal decreto. Saranno, altresì, eseguibili le verifiche disposte in materia dal codice dei contratti pubblici. In tale ambito è determinante acquisire informazioni relative ai soggetti coinvolti che, se hanno commesso violazioni gravi definitivamente accertate alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, potranno essere esclusi dalle gare di affidamento delle concessioni, degli appalti e dei subappalti.
La norma, inoltre, aggiunge che dalla data di entrata in vigore del decreto interministeriale di regolamentazione, ogni disposizione di legge incompatibile con le previsioni del decreto lavoro sarà abrogata.
Attualmente le stazioni appaltanti possono verificare online il possesso dei requisiti di capacità generale e tecnico-economica delle imprese. Il controllo si esegue accedendo alla Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp) operativa presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (Avcp). Per rendere possibile lo scambio di informazioni telematiche tra le stazioni appaltanti e le imprese che vogliono partecipare a pubbliche gare d'appalto di lavori, forniture e servizi, è stata realizzata una piattaforma telematica denominata Avcpass. Previa registrazione, il sistema permette alle stazioni appaltanti/enti aggiudicatori l'acquisizione della documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per l'affidamento dei contratti pubblici; consente, inoltre, agli operatori economici di inserire a sistema i documenti richiesti dalle procedure di affidamento.
Nella delibera 111/2012, l'Autorità ha, tra l'altro, affermato che nella documentazione comprovante il possesso dei requisiti generali (articoli 38 e 39 del codice) figura anche il Durc fornito dall'Inail. Stante, dunque, quanto previsto dal Dl 34/2014, quando sarà pronto il decreto di regolamentazione del Durc smaterializzato, il passaggio all'Avcpass non dovrebbe più essere obbligatorio in quanto sarà sufficiente l'interrogazione online.
Il decreto lavoro si interessa anche dei contratti di solidarietà accompagnati da Cigs. La crisi economica che ha coinvolto il nostro Paese in questi ultimi anni ha visto crescere in maniera esponenziale il ricorso all'istituto del contratto di solidarietà come possibile strumento per la salvaguardia occupazionale.
Preso atto di questa realtà, con le nuove disposizioni si prevede un piccolo ma interessante maquillage delle regole inerenti l'accesso alle agevolazioni contributive a supporto dei Cds, si aumenta (triplicandolo) il plafond per finanziare gli incentivi e, parallelamente, si prevede un'agevolazione con misura uniformata che non tiene più conto delle diverse percentuali di riduzione dell'orario contrattuale, né della collocazione territoriale delle imprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2014).

APPALTI: Nei comuni acquisti centralizzati. Causa mafia.
Scioglimento dei comuni per mafia, si cambia: per quelli «riabilitati» scatterà l'obbligo di realizzare centrali uniche per acquisti e appalti. E un salto di qualità lo faranno i segretari comunali, la cui figura (di controllo) avrà «un senso» nell'assicurare la correttezza delle procedure.

È Filippo Bubbico, viceministro all'interno, ad anticipare i contenuti di un provvedimento in tempi stretti all'esame del Cdm, nel corso di una visita effettuata ieri, a Reggio Calabria.
Non manca molto alla messa in opera del restyling sullo scioglimento delle giunte in cui le organizzazioni criminali hanno allungato i tentacoli, condizionandone l'andamento e i servizi, giacché, riferisce, «siamo nella fase conclusiva della concertazione», laddove il Viminale da un lato ed il dicastero della giustizia dall'altro «hanno già condiviso un testo. Ora aspettiamo il passaggio conclusivo del Mef per gli aspetti relativi alla copertura delle spese conseguenti, anche in relazione alle innovazioni introdotte», quali, appunto, il vincolo di canali unici per il controllo delle forniture, degli incarichi e l'assegnazione delle concessioni per effettuare i lavori pubblici.
Nuova vita, dunque, per gli enti su cui le mafie hanno avuto influenza (il cui numero aumenta, sottolinea nel capoluogo calabrese), mediante un iter di «riabilitazione democratica», esteso anche ad «organismi istituzionali e ai momenti decisionali propri delle amministrazioni locali, a partire dalla gestione degli appalti e dell'affidamento di commesse all'esterno».
Necessarie, secondo l'esponente governativo, «procedure di qualità, di verifica costante sulla correttezza dei procedimenti amministrativi, e occorre dare anche un senso al ruolo ed alla funzione dei segretari comunali e restituire anche momenti di controllo non sul merito delle decisioni, ma sulla legittimità degli atti e anche il controllo di natura contabile e di natura finanziaria».
E, all'orizzonte, c'è anche la Carta dei diritti dei testimoni di giustizia che, prosegue Bubbico, sarà stilata da una commissione composta da sociologi, avvocati, magistrati e funzionari del servizio centrale di Protezione, che nei prossimi sei mesi rivaluterà strumenti per garantire loro sicurezza e «risarcirli» per i disagi tollerati (articolo ItaliaOggi del 17.05.2014).

APPALTIFattura elettronica, il Senato chiede i codici solo dal 2015. Dl Irpef. Emendamenti bipartisan.
Lavori in corso per evitare che la partenza della fatturazione elettronica si trasformi in un boomerang per i fornitori della Pa. Una serie di emendamenti trasversali al decreto Irpef presentati al Senato punta a prorogare e correggere le norme che rischiano di bloccare i pagamenti nel caso in cui le nuove fatture telematiche non contengano il Codice identificativo di gara (Cig) e il Codice unico di progetto (Cup).
Come noto, il 6 giugno prossimo scatta l'obbligo dell'utilizzo della fattura nei rapporti con ministeri, agenzie fiscali ed enti di previdenza. Il Dl anticipa inoltre al 31.03.2015 (dal 06.06.2015) l'obbligo per forniture verso tutte le altre Pa. Ma un'altra delle novità introdotte dal decreto, cioè l'obbligo per i fornitori di inserire nelle fatture il Cig e il Cup, ha fatto scattare nelle ultime settimane l'allarme delle imprese, dai più piccoli ai più grandi fornitori della Pa.
Il problema è finito al centro di alcuni emendamenti che mirano in prima battuta a rinviare l'obbligo di riportare i codici dal 06.06.2014 al 31.03.2015 (in subordine, le imprese propongono di spostarlo fino a 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione). E, inoltre, secondo emendamenti analoghi presentati da Pd, Ncd, Forza Italia e gruppo Per l'Italia, in assenza di codici la Pa sono legittimate a non pagare solo se in precedenza avevano comunicato queste informazioni ai fornitori.
Su questi aspetti ci sono stati diversi incontri a livello tecnico, anche con Ragioneria dello Stato, Agenzia delle entrate, Agenzia per l'Italia digitale e con gli altri attori che partecipano al Forum italiano sulla fatturazione elettronica. Il decreto introduce l'obbligo di prevedere nei documenti digitali Cig e Cup con l'obiettivo, sollecitato dalla Ragioneria, di avere in automatico un continuo monitoraggio dell'avanzamento della spesa per singoli progetti e unità organizzative. Un fine condivisibile, secondo le stesse imprese, perché consentirebbe di avere finalmente un quadro certo dei pagamenti arretrati e di mettere fine al fenomeno dei debiti fuori bilancio.
Il problema è rappresentato dai tempi, estremamente stretti per chi ha già effettuato investimenti per adeguare i sistemi informatici, e soprattutto dalla previsione del divieto di pagamento da parte delle Pa in caso di mancato inserimento dei codici. I fornitori potrebbero in realtà non disporne, dal momento che la normativa di riferimento (relativa alla tracciabilità finanziaria) ne prevede solo l'inserimento nelle operazioni di pagamento da parte delle Pa ma non dispone un esplicito obbligo di comunicarli ai fornitori.
Insomma: in assenza di modifiche, da giugno le imprese potrebbero avere l'obbligo di mettere in fattura dati che non hanno mai ricevuto e che per altro sono in già possesso dei committenti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2014).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox, gli scatolotti sono ok.
Nessuna disposizione normativa impedisce ai comuni di installare gli armadietti porta autovelox dove meglio credono. Anche come semplici dissuasori. Purché ogni tanto venga effettivamente realizzato qualche controllo di polizia stradale ospitando un misuratore al loro interno. E nella segnaletica di preavviso non vengano impiegati marchi che trasformano il segnale in pubblicità.

Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con due distinti pareri nn. 1638 e 1870 rispettivamente dell'8 e 18.04.2014.
Nonostante le diverse indicazioni del ministro Lupi il suo dicastero continua a sostenere la legittimità di queste installazioni. Almeno fin tanto che non intervenga una possibile modifica normativa che potrebbe essere contenuta nell'imminente decreto interministeriale sulle multe all'esame in questi giorni della Conferenza stato-città. La questione dei finti autovelox si è infiammata dopo una trasmissione televisiva che ha evidenziato un impiego eccessivo di manufatti in materiale plastico realizzato in alcuni comuni.
Il ministro delle infrastrutture ha quindi preso posizione specificando sul suo blog il 26 marzo scorso che «gli autovelox finti non possono essere comprati e installati dai comuni. La limitazione alla velocità è prevista con appositi cartelli, previsti a livello europeo. Quei comuni che stanno utilizzando questi finti autovelox se ne assumono la responsabilità».
Con i due pareri in esame il suo dicastero contraddice questa posizione in linea con i precedenti orientamenti già espressi sul delicato tema negli ultimi anni. I manufatti porta autovelox non devono essere omologati o approvati e possono essere installati su qualsiasi tratto di strada, specifica il Mit, nel rispetto delle più elementari regole sulla sicurezza e dell'obbligo dell'eventuale presenza degli agenti in caso di strada non ammessa al controllo automatico.
Nessuna disposizione ne vieta l'uso anche come semplici dissuasori, prosegue il ministero, «a condizione che ospitino anche non continuativamente i dispositivi di controllo della velocità dei veicoli». Attenzione però ai segnali di avvertimento. L'uso di marchi registrati è vietato e trasforma il segnale in pubblicità (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOInput a forme associative da risorse per i dipendenti.
In caso di trasferimento di personale da un comune a un'unione di comuni, le risorse già quantificate sulla base degli accordi decentrati e destinate nel precedente anno a finanziare istituti contrattuali collettivi ulteriori rispetto al trattamento economico fondamentale confluiscono nelle corrispondenti risorse dell'unione.

Lo prevede l'art. 1, comma 114, della legge 56/2014 (c.d. legge Delrio), con l'evidente obiettivo di agevolare il percorso di costituzione delle forme associative che (insieme alla convenzioni) dovranno svolgere, entro fine anno, quasi tutte le funzioni fondamentali (restano fuori solo anagrafe, stato civile e servizi elettorali) spettanti ai piccoli comuni.
Per la verità, la norma non distingue e, quindi, si applica a tutte le unioni, comprese quelle di cui fanno o faranno parte comuni con popolazione superiore alle soglie demografiche sotto le quali scatta l'obbligo di gestione associata (5.000 abitanti in pianura, 3.000 per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane, salvo diversa decisione assunta dalle regioni).
Viene così introdotta una modifica alla disciplina contrattuale che regola il passaggio di personale dai comuni alle unioni: in particolare, ad essere superata è la disciplina di cui all'art. 13, comma 4, lett. a), del Ccnl del 22/1/2004, in base alla quale, in sede di prima applicazione, le unioni definiscono le risorse finanziarie destinate a compensare le prestazioni di lavoro straordinario e a sostenere le politiche di sviluppo delle risorse umane e della produttività, relativamente al personale assunto direttamente (anche per mobilità), sulla base di un valore medio pro capite ricavato dai valori vigenti presso gli enti aderenti per la quota di risorse aventi carattere di stabilità e di continuità.
Relativamente al personale temporaneamente messo a disposizione dai medesimi comuni, invece, il Ccnl prevede un trasferimento di risorse per il finanziamento degli istituti tipici del salario accessorio e con esclusione delle progressioni orizzontali, dagli stessi enti, in rapporto alla classificazione dei lavoratori interessati e alla durata temporale della stessa assegnazione; l'entità delle risorse viene periodicamente aggiornata in relazione alle variazioni intervenute nell'ente di provenienza a seguito dei successivi rinnovi contrattuali.
La novella legislativa è sicuramente migliorativa, ma non basta a risolvere tutte le problematiche che la costituzione delle unioni pone rispetto al passaggio delle risorse umane coinvolte nell'esercizio delle funzioni da trasferire. In molti casi, infatti, il fondo per la contrattazione decentrata delle costituende unioni rischia di non essere abbastanza capiente per coprire tutte le esigenze del nuovo ente e garantire l'ottimale riorganizzazione del personale. L'ostacolo principale deriva dai restrittivi vincoli di spesa previsti dalla legge statale, che al 31.12.2014 impone il blocco del fondo all'importo dell'anno 2010 (oltre all'automatica riduzione dello stesso in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio).
Per esemplificare quali criticità possano emergere nella pratica, si pensi al caso di tre comuni di 4.500, 1.000 e 800 abitanti che intendano mettere in gestione associata le funzioni relative alla polizia locale. Se l'ente più grande ha cinque vigili che lavorano per turni, percependo la relativa indennità, quest'ultima non potrà essere estesa anche agli agenti degli altri due comuni se essi hanno (come di norma accade nei piccoli comuni) un orario normale. Quindi, il servizio dovrà essere completamente riorganizzato, con non poche difficoltà (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014).

APPALTICodice degli appalti da abolire. Sufficiente applicare le direttive europee disponibili. Da Pinto (presidente Asmel) idea shock contro la corruzione e per rilanciare l'economia.
L'idea è stata lanciata dal presidente Asmel, Francesco Pinto, durante l'assemblea dell'associazione che raggruppa 1861 enti locali in tutt'Italia svoltasi presso la sede del Tar Campania e che ha visto la presenza attiva di oltre 400 comuni.
Nel corso della tavola rotonda su «Appalti e Legalità», cui hanno partecipato, tra gli altri, il presidente dell'Avcp Santoro e quello del Tar Campania Mastrocola, è stata proposta l'integrale e immediata abolizione del Codice degli appalti.
Una ragnatela di norme (vedi riquadro) che rendono la vita difficile, se non impossibile, alle stazioni appaltanti e che, anziché contrastare corruttela e malaffare di fatto li «coprono».
D'altra parte, l'integrale abolizione di questa giungla di disposizioni, non creerebbe un vuoto normativo. Le stazioni appaltanti sarebbero chiamate ad applicare le direttive sugli appalti appena entrate in vigore a livello europeo, di fatto già autoapplicative (cosiddette self-executive) senza attendere il loro recepimento nella legislazione italiana, previsto entro due anni. Si tratta di testi scritti in un italiano fluente e già tradotti in inglese con gran soddisfazione di operatori e investitori esteri che, come noto, si tengono alla larga dal mercato italiano, principalmente, a causa della farraginosità della nostra normativa. Una miriade di precetti bizantini e prescrittivi capaci di produrre solo deresponsabilizzazione e smarrimento negli uffici acquisti.
 La loro abolizione, assieme all'introduzione delle nuove norme sulla centralizzazione delle committenze, porterebbe gli uffici comunali, composti per la stragrande maggioranza da persone perbene e motivate, a impegnarsi solo sui risultati. In questo senso con Asmel la possibilità di costituire centrali di committenza tra comuni mediante «accordi consortili avvalendosi dei competenti uffici» viene declinata lasciando ampia autonomia agli stessi nei compiti da delegare alla centrale, che possono essere limitati a «pezzi» dell'attività o prevedere la delega completa. Esattamente come previsto dalle nuove direttive europee che lasciano libere le stazioni appaltanti di affidarsi alle centrali di committenza anche limitatamente a funzioni «ausiliarie».
Una simile proposta è in grado di ridurre drasticamente il contenzioso. Le statistiche dimostrano che esso è alimentato per la gran parte proprio dalle intricatissime norme che regolano le cosiddette «buste amministrative», e di dare una forte accelerazione agli investimenti pubblici e privati. Tenuto conto che il volume annuo degli appalti pubblici in Italia ammonta a circa 100 miliardi di euro, pari a circa l'8% del Pil, è sufficiente un'accelerazione della spesa nel settore pari al 15 per cento annuo per raddoppiare il tasso di crescita della nostra economia attualmente stimato per il 2015 nell'1,2%.
Di certo, una simile proposta andrà corredata dal rafforzamento del ruolo di vigilanza sull'attività delle Stazioni appaltanti già oggi svolto dall'Avcp in maniera incisiva, ma che, liberata dai vari orpelli, avrà maggiori poteri per perseguire i comportamenti dolosi. Nei comuni andrà rafforzato, invece, il ruolo dei segretari comunali, per affiancare gli uffici acquisti orfani della normativa di riferimento.
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Una ragnatela di norme.
Il Codice degli appalti è un testo di legge composto da 273 articoli, 1.560 commi e corredato da rinvii ad altre 148 norme di legge. Dal 2006, data di entrata in vigore, i suoi articoli hanno subito modifiche per 563 volte senza contare quelle entrate in vigore per un periodo limitato nei decreti legge che poi non hanno trovato conversione.
Per la sua corretta applicazione occorre far riferimento alle 6.155 pronunce dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e dei tribunali amministrativi, che fanno giurisprudenza e dunque obbligano di fatto le stazioni appalti ad uniformarsi. Per non parlare delle migliaia di pronunce emanate in «sede consultiva» dalle sezioni regionali della Corte dei conti, che, come tutti sanno, hanno un potere molto incisivo sull'azione dei pubblici funzionari. Non basta, al Codice va aggiunto il Regolamento attuativo, con i suoi 358 articoli e 1392 commi, e i Regolamenti regionali, anch'essi con valore di legge.
Infine, le stazioni appaltanti sono chiamate anche a uniformarsi alle intricate norme sulla privacy, sui «protocolli di integrità», «patti di legalità», e sul programma triennale anticorruzione, oltre a tutta la normativa sui procedimenti amministrativi (articolo ItaliaOggi del 16.05.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIIl bonus mobili torna «libero». Via libera agli incentivi agli acquisti anche di valore superiore alle ristrutturazioni. Dal Parlamento. Approvato al Senato il decreto casa - Sì alla cedolare secca nei Comuni interessati da stati di emergenza.
Il decreto casa (47/2014) rilancia il bonus mobili «libero», assegnato cioè a prescindere dal valore della ristrutturazione a cui è collegato, e allarga la cedolare secca ai Comuni che sono stati coinvolti in stati di emergenza negli ultimi cinque anni, promettendo anche entro un mese un nuovo elenco Cipe con i centri ad alta intensità abitativa in cui si possono scrivere contratti di locazione a canone concordato.
Si perde invece per strada, nonostante i molti tentativi, l'Imu al 4% sulle case affittate ad affitto calmierato, caldeggiata dallo stesso ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che rappresenta il "padre" del provvedimento, oltre all'intervento che avrebbe sbloccato stipendi dei dipendenti e premi dei dirigenti nel Comune di Milano. A Palazzo Marino, come nelle altre città, si dovranno accontentare della sanatoria sugli integrativi fuori norma (a Milano non sono arrivate ancora contestazioni, ma i problemi ci sono) scritta nella circolare «salva-Roma» quater diffusa mercoledì (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
Suona così il bilancio della legge di conversione del decreto «casa-Expo» dopo il primo passaggio parlamentare, che si è concluso ieri in Senato con l'approvazione, con 133 voti a favore e 99 contrari. Un bilancio che ha buone probabilità di essere quello definitivo, dal momento che i tempi per la conversione definitiva scadono il 28 maggio e non offrono troppi spazi per modifiche alla Camera da far ulteriormente ratificare da Palazzo Madama.
Le ultime novità sono state definite nelle sedute di martedì e di ieri, dove sono state disattese una serie di indicazioni della commissione Bilancio e sono stati ripescati anche molti emendamenti bocciati dalle commissioni riunite. Ecco le più rilevanti.
Anzitutto, la detrazione del 55% sugli acquisti di arredi perde il tetto di spesa legato a quanto si è pagato per i lavori di recupero edilizio. Resta quindi solo il tetto di spesa a 10mila euro. Poi c'è la sanatoria dei «mini-canoni» degli inquilini che hanno denunciato i proprietari per gli affitti in nero e hanno sfruttato i grossi sconti offerti dalla norma poi cancellata dalla sentenza 50/2014 della Corte costituzionale: gli «effetti prodotti» da quella regola vengono «fatti salvi fino al 31.12.2015», con un intervento non proprio esemplare dal punto di vista costituzionale.
Sul fronte affitti, il Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione e alla «morosità incolpevole» servirà anche a rinegoziare i canoni esistenti attraverso agenzie per l'affitto e ad aiutare anche chi è colpito da sfratto per finita locazione, e non solo per morosità.
Per liberare le case popolari dagli abusivi, il decreto mette in campo parecchie norme, alcune approvate in ultima battuta dall'Aula del Senato: quella che vieta gli allacci di acqua, luce e gas a chi occuperà abusivamente una casa, anche se vuota (viene cancellato il possibile effetto retroattivo del provvedimento originale), e il divieto, per almeno cinque anni, di iscriversi nella lista per le aggiudicazioni delle case popolari. Novità anche per il riscatto delle case ex Iacp: non sarà ammesso prima dei sette anni di locazione, sarà limitato solo a chi non possiede altro alloggio idoneo alla famiglia e non si potrà rivendere la casa prima di altri cinque anni. Inoltre, alloggi di housing sociale sono considerati tali anche quando vengono locati (oltre che a famiglie in stato di disagio sociale) a donne ospiti di centri anti violenza.
Infine, esce dal concetto di «nuova costruzione» (quindi non serve più il permesso edilizio) l'installazione di manufatti leggeri (prefabbricati, roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni usate come abitazioni o depositi) che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto. Sugli appalti è infine ampliato a cinque anni il periodo per dimostrare i requisiti per le attività di verifica dei progetti, sono fatti salvi quelli messi a rischio dalle contraddizioni normative sui lavori specialistici e viene eliminato il principio di corrispondenza tra quote di partecipazione alle Ati e percentuale di esecuzione dei lavori per i raggruppamenti di imprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, stipendi liberi a maggio e riforma in vista. Pa. Diffusa la circolare «salva-Roma» quater.
Gli stipendi di maggio nei Comuni sono salvi, e i dirigenti che danno il via libera sono al riparo da contestazioni di nuovo danno erariali.
A difenderli c'è la
circolare 12.05.2014 n. 60 di prot. tri-firmata (il ministro dell'Economia Padoan, la collega degli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta e la titolare della Pa Maria Anna Madia) anticipata dal Sole 24 Ore di ieri e diffusa dalla Funzione pubblica.
Con il «salva-Roma» quater, in verità un «salva-città», sono infatti impossibili nuove contestazioni per dolo o colpa grave a carico dei funzionari. L'applicazione degli integrativi fuori linea potrà avvenire se viene considerata inevitabile per «garantire la continuità dei servizi necessari e indispensabili» dei Comuni, ma di fatto questa condizione si può verificare sempre: basta guardare al caso-principe, quello di Roma, dove i sindacati avevano già programmato uno sciopero per lunedì prossimo e un blocco degli straordinari che avrebbe paralizzato il Campidoglio sotto elezioni.
Gli integrativi giudicati illegittimi dalla Ragioneria generale potranno sopravvivere «in via temporanea e salvo recupero», anche se proprio i recuperi sono uno dei nodi più intricati nella querelle sui contratti: chiedere ai dipendenti la restituzione di somme già erogate ovviamente fa esplodere il conflitto, ma anche i tagli compensativi ai fondi decentrati si traducono in molti casi nell'impossibilità di continuare a pagare gli stessi stipendi di prima, perché le risorse mancano.
Sul futuro immediato, del resto, le incognite rimangono superiori alle certezze. Un «comitato temporaneo» composto da Stato, Regioni e Comuni e insediato in Conferenza Unificata dovrà fare «indicazioni operative nel più breve tempo possibile» su come gestire la patata bollente dei contratti integrativi fuori norma. Per farlo, potrà proporre nuove «disposizioni normative» oppure indirizzi per «la redazione di direttive all'Aran»: su questa seconda strada gli ostacoli non sono pochi, anche perché la revisione dei comparti pubblici prevista dalla riforma Brunetta non è mai stata attuata, e quindi manca la cornice in cui avviare il lavoro sulle nuove regole.
La mancata applicazione della riforma Brunetta rappresenta più in generale uno degli inneschi che hanno fatto esplodere la mina contratti. Le contestazioni della Ragioneria si appuntano sulla distribuzione "a pioggia" delle voci che si aggiungono al tabellare e al mancato adeguamento alla riforma, che farebbe scattare la decadenza degli integrativi a partire dal 1° gennaio scorso. Questa seconda ragione ha prodotto contestazioni milionarie per danno erariale a carico di alcuni dirigenti del Comune di Roma, ma la situazione si ripresenta in molte altre città.
Per questa ragione Cgil, Cisl e Uil sostengono in una nota congiunta diffusa ieri che la circolare «non basta a risolvere una situazione potenzialmente esplosiva», perché «in Toscana come in Veneto e in Emilia Romagna, a Roma come a Parma e Salerno, si susseguono casi analoghi. Serve una soluzione vera», concludono i sindacati, che passa attraverso «il rilancio della contrattazione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2014).

APPALTIContratti pubblici. Al setaccio le gare bandite prima del 12 maggio.
Entro il mese di agosto le stazioni appaltanti dovranno verificare i dati delle gare bandite prima del 12 maggio 2014 e comunicare le informazioni alla banca dati delle amministrazioni pubbliche che il Mineconomia avvierà a ottobre; previste sanzioni disciplinari per i responsabili del procedimento.

È quanto prevede l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con il comunicato del Presidente 08.05.2014, Sergio Santoro, che detta nuove modalità operative di invio dei dati a carico delle stazioni appaltanti.
Si tratta dei dati che devono alimentare la Banca dati delle amministrazioni pubbliche (Bdap) istituita in seno al ministero dell'economia con la legge n. 196/2009. L'Autorità precisa che dal 12.05.2014 le amministrazioni dovranno obbligatoriamente indicare sul sistema Simog (Sistema informativo monitoraggio gare), in sede di creazione del Cig (codice identificativo gara), il Cup (codice unico progetto) identificativo del progetto nell'ambito del quale si colloca lo specifico appalto.
Inoltre si specifica che per tutti i contratti per i quali alla data del 12.05.2014 risultino già trasmesse le relative schede di aggiudicazione, il responsabile unico del procedimento dovrà verificare che per le fattispecie per le quali è necessaria l'acquisizione del Cup, quest'ultimo risulti associato al Cig cui si riferisce, nell'ambito del sistema Simog (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSalvagente all'integrativo. Verso una sanatoria dei contratti collettivi. Circolare interministeriale dà le prime indicazioni agli enti locali.
Verso una sanatoria dei contratti collettivi degli enti locali.

La
circolare 12.05.2014 n. 60 di prot. sottoscritta dai ministri Lanzetta, Madia e Padoan per fornire indicazioni sull'applicazione dell'articolo 4 del dl 16/2014, convertito in legge 68/2014 (decreto «salva Roma») lascia intuire che questo potrà essere lo sbocco per risolvere i problemi dei contratti decentrati di comuni, regioni e province.
Come è noto, comuni come Roma, Firenze, Vicenza e Reggio Calabria, per restare ai capoluoghi (ma moltissimi altri più piccoli sono coinvolti), sono stati interessati da ispezioni del Mef, che hanno riscontrato una serie di violazioni a vincoli normativi e finanziari posti alla contrattazione collettiva decentrata dalla legge e dai Ccnl.
Le relazioni degli ispettori impongono alle amministrazioni di agire per il recupero delle somme che sarebbero state spese oltre i limiti normativi.
Ma, le iniziative dei comuni stanno portando a reazioni fortissime dei sindacati e dei lavoratori, come gli scioperi che hanno paralizzato Roma in questi giorni.
La mini sanatoria contenuta nell'articolo 4 del dl 16/2014 si è rivelata inadeguata a risolvere i problemi della contrattazione. Essa, per un verso, consente di non chiedere indietro ai lavoratori degli enti locali le maggiori somme percepite. Ma, per altro verso, impone di ridurre drasticamente l'ammontare dei fondi destinati alla contrattazione in un arco di tempo che appare essere cinque anni. Troppo pochi: le decurtazioni ai fondi finirebbero, così, per intaccare parti fisse degli stipendi, come l'indennità di comparto o le progressioni verticali. Per questa ragione, le organizzazioni sindacali si oppongono all'applicazione dell'articolo 4, nonostante esso possa rappresentare una via d'uscita per evitare contenziosi e gli strali del Mef.
La circolare interministeriale prende atto della situazione, rilevando che, al di là delle violazioni riscontrate, esiste un problema posto «dalla particolare complessità e stratificazione» delle norme e dei contratti. Per altro aggravato, è da aggiungere, da un improprio esercizio di una funzione di «pareristica» da parte dell'Aran, che con gli anni ha attribuito alle disposizioni contrattuali significati non espressi chiaramente dalle clausole, però fatti propri dai servizi ispettivi.
I ministri, se da un lato annunciano la costituzione di un «comitato temporaneo» per fornire indicazioni applicative dell'articolo 4 del «salva Roma», dall'altro evidenziano indirettamente la sostanziale poca utilità della misura normativa applicata. Non a caso, la circolare 60/gab altro non è se non un'ulteriore sanatoria temporanea extra ordinem. Infatti, nelle more dei risultati dell'attività del comitato istituito e delle direttive Aran sull'applicazione delle norme e dei contratti, la circolare autorizza gli organi di governo di regioni ed enti locali ad applicare il citato articolo 4 del «salva Roma» solo parzialmente, nei limiti in cui sia accettabile da sindacati e lavoratori. Non solo: i ministri indicano agli organi di governo perfino di applicare, sia pure «in via temporanea» le clausole contrattuali integrative da ritenere in violazione dei vincoli normativi, la cui attuazione risulti tuttavia indispensabile per evitare scioperi e blocchi delle attività, salvo successivo recupero delle somme (illegittimamente) esborsate.
Risulta evidente che quella delineata dalla circolare è solo una soluzione di ripiego, per altro in gran parte contrastante con le previsioni dell'articolo 4 del «salva-Roma», finalizzata a stemperare le tensioni fortissime nei comuni interessati dalle ispezioni (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

PATRIMONIODecreto in G.U.. Immobili, p.a. riduca gli acquisti.
Da quest'anno, l'acquisto di immobili destinati ad attività istituzionali della pubblica amministrazione deve sottostare preventivamente alle principali regole di indispensabilità e indilazionabilità dell'operazione. In pratica, l'acquisto dell'immobile deve soddisfare il superiore interesse pubblico e non può essere «allungato» nel tempo se questa dilazione compromette eventuali obiettivi fissati dal vertice dell'amministrazione pubblica. In relazione al prezzo, poi, deve essere acquisito il parere di congruità rilasciato dall'Agenzia del demanio.

Lo prevede il dm Economia 14/02/2014, in G.U. del 12/05/2014, in relazione alle disposizioni contenute all'art. 12, c. 1-bis, del dl 98/2011.
Pertanto, nel caso in cui le amministrazioni pubbliche, tranne gli enti territoriali, previdenziali e quelli del Servizio sanitario nazionale, comunicano alla ragioneria generale dello stato il piano triennale di investimento, come prevede il decreto attuativo delle disposizioni sopra richiamate (il dm Economia 16/03/2012), il responsabile del procedimento di ogni p.a. richiedente dovrà contestualmente documentare l'indispensabilità e l'indilazionabilità dell'operazione di acquisto.
Il primo requisito, precisa il dm, attiene alla necessità di procedere in tal senso sia per un obbligo giuridico che incombe all'amministrazione per il perseguimento delle proprie finalità che per la tutela ed il soddisfacimento dei superiori interessi pubblici. Il secondo, attiene all'impossibilità di differire l'acquisto senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Entrambi tali requisiti si ritengono soddisfatti nel caso in cui l'acquisto comporti effetti finanziari ed economici positivi, così riscontrati dall'organo di controllo interno o dal competente ufficio della ragioneria.
Sull'iter di acquisto è necessario che si pronunci l'Agenzia del demanio con l'attestazione di congruità del prezzo. Documento, questo, che deve essere acquisito prima della definizione delle operazioni e che sarà rilasciato gratuitamente per le amministrazioni indicate all'articolo 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001, mentre le restanti amministrazioni dovranno provvedere al rimborso delle spese sostenute (articolo ItaliaOggi del 14.05.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, il Sistri cambia registro. Aggiornate le schede di movimentazione. Codice fiscale per la ricerca anagrafica.
Per il Sistri aggiornata l'applicazione della scheda «area movimentazione» e la sezione delle guide e dei documenti. Ottimizzate le ricerche in anagrafica Sistri utilizzando come chiave il codice fiscale per reperire la scheda movimentazione.

È stata rilasciata la nuova relase dell'applicazione movimentazione che rende disponibili le funzioni relative alla memorizzazione del pin per la firma dei documenti e la precompilazione delle schede in bianco per la microraccolta.
Nella sezione manuali e guide sono stati pubblicati gli aggiornamenti dei documenti relativi ai trasportatori, ai produttori, ai recuperatori-smaltitori, agli intermediari, alla regione Campania e microraccolta. Il tutto è contenuto nel sito del ministero dell'ambiente www.sistri.it. e aggiornato al 9 maggio scorso. La nuova funzionalità «memorizzazione del pin per la firma dei documenti» permette all'utente, previa esplicita accettazione, di memorizzare lo stesso, digitandolo una sola volta all'avvio di ogni sessione operativa, senza doverlo nuovamente inserire in occasione della firma di ogni scheda o registrazione.
Per poter utilizzare la soluzione l'utente deve provvedere all'aggiornamento del dispositivo Usb. L'altra applicazione rubricata «schede in bianco per la microraccolta» consente di pre-compilare e stampare schede in bianco inserendo le informazioni desiderate nella sezione produttore (dati rifiuti, dati produttore, dati trasportatore e dati destinatario) e/o nella sezione trasportatore. Al momento della riconciliazione l'utente potrà decidere se confermare le informazioni precedentemente inserite o meno.
Inoltre sono stati effettuati interventi di ottimizzazione delle ricerche in anagrafica sistri che consentono la ricerca delle schede di movimentazione utilizzando come chiave il codice fiscale e consentono la ricerca delle registrazioni di carico e scarico collegate ad una scheda di movimentazione utilizzando come chiave il codice della scheda di movimentazione. La scheda sistri area movimentazione è un documento informatico costituito da varie sezioni che vanno compilate a cura dei soggetti che intervengono nelle diverse fasi del ciclo di gestione dei rifiuti.
È possibile vedere la scheda come costituita da tre distinte sezioni: produttore, trasportatore e destinatario. La sezione «produttore» contiene i dati anagrafici del produttore, le informazioni qualitative e quantitative del rifiuto e i dati identificativi di tutti gli altri soggetti coinvolti. Quella del «trasportatore» contiene i dati anagrafici di tutti i soggetti coinvolti nel trasporto del rifiuto, le info identificative del mezzo e del percorso, le date di presa in carico e consegna. Infine la sezione «destinatario» contiene i dati anagrafici del destinatario e l'esito della movimentazione con l'indicazione della quantità accettata (articolo ItaliaOggi del 13.05.2014).

aggiornamento al 06.03.2014

TRIBUTILegge stabilità. Rifiuti speciali, niente Tari.
Non sono soggette al pagamento della Tari le superfici in cui vengono prodotti rifiuti speciali. Nella determinazione della superficie tassabile, però, non si calcola quella parte dove si formano questi rifiuti in modo continuativo e prevalente, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori.

È quanto prevede l'articolo 1, comma 649, della legge di Stabilità (147/2013). La formulazione di questa norma è tutt'altro che un esempio di chiarezza, in quanto fa già discutere e può generare contenzioso nella parte in cui richiede la produzione di rifiuti speciali «in via continuativa e prevalente» al fine di ottenere l'esonero dal prelievo.
Il dubbio che si pone è se qualora sussista il requisito della continuità e prevalenza non possono essere tassate integralmente le superfici in cui si producono anche rifiuti speciali oppure se il beneficio rimane sempre circoscritto alla parte della superficie interessata e l'esonero è solo parziale. Nonostante l'infelice formulazione della disposizione di legge, si ritiene che l'agevolazione fiscale sia sempre limitata alla parte dell'immobile interessata dalla formazione di questi rifiuti e non si estende all'intera superficie, vale a dire a quella in cui si producono rifiuti ordinari. La novità rispetto al passato, infatti, è che una «parte di essa» può essere esclusa dalla tassazione solo a condizione che la produzione di rifiuti speciali risulti continuativa e prevalente.
Nel caso in cui sussista questa condizione allo smaltimento dei rifiuti sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori. Ma l'esclusione dell'obbligo di conferirli al servizio pubblico si ha solo nei casi in cui sia fornita dimostrazione del loro avvio al recupero, con attestazione di ricevuta da parte dell'impresa incaricata del trattamento. Inoltre, spetta al contribuente provare quale parte dell'immobile non sia soggetta alla tassa. Peraltro il comma 682, lettera a), numero 5), della legge di Stabilità attribuisce al comune la facoltà di concedere con regolamento una riduzione tariffaria in caso di autosmaltimento.
In particolare, l'amministrazione comunale può individuare categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle quali applicare riduzioni rispetto all'intera superficie su cui l'attività viene svolta (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAnticorruzione, le Faq Anac non derogano la legge.
Il dlgs n. 33/2013 contiene circa 270 obblighi informativi che devono trovare adempimento presso migliaia di amministrazioni pubbliche, enti pubblici e privati vigilati, nonché presso le società controllate, non di rado di ridotte dimensioni. L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha da tempo evidenziato il rischio che questo assetto normativo possa determinare un eccesso di rigidità e uniformità nel sistema della trasparenza.
In tale contesto un numero crescente di soggetti pubblici si è rivolto all'Anac per ricevere indicazioni sulle modalità da seguire per assolvere agli obblighi di trasparenza.
Questa attività consultiva rappresenta il necessario corollario di due compiti demandati espressamente dalla legge all'Autorità: a) emanare linee guida volte ad assicurare un adeguato livello di trasparenza di cui le amministrazioni pubbliche devono tenere conto nell'elaborazione dei programmi triennali per la trasparenza e l'integrità (dlgs n. 33, art. 10.1.a); b) svolgere un'attività di vigilanza di cui devono essere preventivamente esplicitati i criteri (dlgs n. 33, art. 45).
Per gestire con maggiore efficacia questo corposo flusso di quesiti l'Autorità ha pubblicato più di 150 Faq che dovrebbero offrire alle amministrazioni una risposta immediata alle richieste di chiarimento più frequenti. Questa scelta, che è stata accolta con notevole favore da numerosi responsabili della trasparenza e dagli Organismi indipendenti della valutazione, ha incontrato invece la disapprovazione di Luigi Oliveri nel suo articolo su ItaliaOggi del 21.02.2014. Vorremmo però rassicurare i lettori sul fatto che le Faq dell'Anac non rappresentano in alcun modo una deroga alla legge o ad eventuali pronunce giurisprudenziali.
Sono un esempio di soft law, largamente utilizzato da altre autorità indipendenti, che mira ad indirizzare l'esercizio della discrezionalità da parte delle amministrazioni. Le perplessità di Oliveri si soffermano, peraltro, su una specifica Faq, quella in materia di accesso civico. Nelle amministrazioni in cui è presente un unico dirigente si è infatti posto il problema di identificare il titolare del potere sostitutivo previsto dal dlgs n. 33, art. 5.4 in caso di mancata o ritardata risposta del responsabile della trasparenza.
È, infatti, naturale che, come ammette anche Oliveri, questo potere sia esercitato da un soggetto sovraordinato. Ma per assicurare che ciò avvenga occorre che le amministrazioni, nell'esercizio dei margini di autonomia organizzativa loro riconosciuto dalla norma, affidino il compito di ricevere l'istanza di accesso civico ad un soggetto che riveste una posizione gerarchica inferiore a quella apicale. Altrimenti avremmo la soluzione paradossale che un sottoposto dovrebbe sostituirsi al suo superiore oppure che il responsabile della trasparenza di livello apicale dovrebbe sostituire se stesso (articolo ItaliaOggi del 28.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIANuovi reati a difesa dell'ambiente. Sanzionato anche chi impedisce i controlli - Più severità contro le ecomafie. Giustizia. La Camera ha approvato il disegno di legge, che ora passa al Senato: entra nel Codice il delitto di disastro ambientale.
Quattro nuovi reati, tra cui il disastro ambientale e il traffico di materiale radioattivo, e confisca obbligatoria del profitto del reato. La Camera aggiorna il Codice penale introducendo i delitti contro l'ambiente. Un pacchetto di norme che prevede anche aggravanti per mafia e sconti di pena per chi si ravvede, condanna al ripristino e raddoppio dei tempi di prescrizione.

Il disegno di legge è stato approvato ieri e passa ora all'esame del Senato.
Plaude il neo ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «L'approvazione del disegno di legge sui reati ambientali è un passaggio importantissimo: se ne parla da 20 anni, ora esiste finalmente un testo che rappresenta un riordino complessivo e organico della materia e delle sanzioni, predisposte secondo un sistema proporzionale e congruo. Questo testo è il frutto del concorso di tutte le parti politiche ed è stato approvato con una maggioranza più ampia di quella che sostiene il governo. Ho due ragioni per esserne soddisfatto: come neoministro della Giustizia e come ex ministro dell'Ambiente».
Nel dettaglio, il nuovo delitto di disastro ambientale punisce con il carcere da 5 a 15 anni chi altera gravemente o irreversibilmente l'ecosistema o compromette la pubblica incolumità. Per l'inquinamento ambientale è prevista la reclusione da 2 a 6 anni (e la multa da 10mila e 100mila euro). Se non c'è dolo, ma colpa, le pene sono diminuite da un terzo alla metà. Scattano, invece, aumenti di pene per i due delitti se commessi in aree vincolate o a danno di specie protette.
Il traffico e abbandono di materiale di alta radioattività è colpito con la pena del carcere da 2 a 6 anni (e multa da 10mila a 50mila euro) a danno di chi commercia e trasporta materiale radioattivo o di chi se ne libera abusivamente. Chi ostacola l'accesso o intralcia i controlli ambientali rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni. In presenza di associazioni mafiose finalizzate a commettere i delitti contro l'ambiente o a controllare concessioni e appalti in materia ambientale scattano le aggravanti.
Pene ridotte poi da metà a due terzi nel caso di ravvedimento operoso: se l'imputato evita conseguenze ulteriori, aiuta i magistrati a individuare colpevoli o provvede alla bonifica e al ripristino delle condizioni ambientali. Per i delitti ambientali i termini di prescrizione raddoppiano. Se poi si interrompe il processo per dar corso al ravvedimento operoso, la prescrizione è sospesa. In caso di condanna o patteggiamento della pena è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto del reato e delle cose servite a commetterlo o comunque di beni di valore equivalente nella disponibilità (anche indiretta o per interposta persona) del condannato.
Il giudice, in caso di condanna o patteggiamento della pena, ordina il recupero e, dove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a carico del condannato. In assenza di danno o pericolo, nelle ipotesi contravvenzionali previste dal Codice dell'ambiente, si ricorre alla «giustizia riparativa» puntando alla regolarizzazione attraverso l'adempimento a specifiche prescrizioni. In caso di adempimento l'illecito si estingue.
Misure anche a carico delle imprese, allungando la lista dei reati presupposto previsti dal decreto 231 del 2001. Scatteranno pertanto sanzioni pecuniarie per l'inquinamento ambientale (da 250 a 600 quote), per il disastro ambientale (da 400 a 800 quote) e per l'associazione a delinquere (comune e mafiosa) aggravata (da 300 a 1.000 quote). In caso di delitto di inquinamento ambientale e di disastro ambientale, via libera anche all'applicazione delle sanzioni interdittive (interdizione dall'esercizio dell'attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni; divieto di contrattare con la pubblica anmministrazione; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi)
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2014).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti, più vincoli per l'in house. Direttive europee. Sono sempre soggette alle gare le controllate con capitali anche privati.
L'affidamento in house trova il suo quadro normativo nella nuova direttiva comunitaria sugli appalti pubblici, che definisce anche alcune importanti novità nel modello di gestione dei servizi.

L'articolo 12 della direttiva appalti approvata dal Parlamento europeo il 15 gennaio (e di prossima pubblicazione nella Gazzetta ufficiale europea) per la prima volta traduce in un dato normativo gli elementi di principio dettati a suo tempo dalla sentenza Teckal e sviluppati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, fornendo elementi specificativi dei requisiti di controllo analogo e dell'attività prevalente a favore dell'ente affidante.
La disposizione stabilisce infatti che non rientra nell'ambito di applicazione del nuovo corpus di regole per gli appalti un affidamento di servizio tra un'amministrazione aggiudicatrice e una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato quando la prima eserciti sulla seconda proprio un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi.
Rispetto al secondo elemento costitutivo dell'in house, la direttiva introduce la prima novità, stabilendo che l'attività è prevalente quando oltre l'80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi.
La seconda innovazione rispetto agli orientamenti giurisprudenziali consolidati è data dalla previsione di un terzo elemento necessario per la definizione del rapporto interorganico, quale l'assenza nella persona giuridica controllata di partecipazioni dirette di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportino controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei Trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
La norma permette l'ingresso dei privati negli organismi affidatari in house, a condizione che questi non possano incidere sulle decisioni strategiche.
Proprio l'affermazione della sussistenza del controllo analogo sulla persona giuridica affidataria da parte dell'amministrazione quando essa esercita un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata, costituisce il fondamento anche per l'ulteriore grande novità: il controllo tramite holding. La norma stabilisce infatti che l'amministrazione può esercitare il controllo sull'organismo affidatario per mezzo di una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice.
La disciplina codifica anche la situazione in cui l'organismo affidatario sia partecipato da più enti, anche con quote minoritarie, determinando la sussistenza del controllo analogo quando questo sia esercitato in forma congiunta.
La situazione si concretizza quando gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti. La direttiva definisce per la prima volta anche i parametri per escludere dal suo ambito applicativo le forme di cooperazione tra amministrazioni pubbliche, quando il contratto definisce un rapporto collaborativo finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus antisismico con «titoli» pesanti. Permesso di costruire o super-Dia per ottenere la detrazione del 65% fino a 96mila euro. Ristrutturazioni. L'incentivo maggiorato per la messa in sicurezza statica riguarda le procedure autorizzatorie attivate dopo il 04.08.2013.
La possibilità di detrarre dall'imposta lorda il 36% delle spese per misure antisismiche era già contemplata dall'articolo 16-bis del Tuir, inserito nel Testo unico dal Dl 201/2011.
Si tratta, in particolare, degli interventi previsti dalla norma al comma 1, lettera i), relativi all'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica, sulle parti strutturali degli edifici, per la redazione della documentazione obbligatoria necessaria per comprovare la sicurezza statica del patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli interventi necessari al rilascio di questa documentazione.
Per questa tipologia di interventi l'articolo 16 del Dl 63/2013 –come modificato dalla legge di stabilità 147/2013– ha innalzato l'entità della detrazione al 65% fino a una spesa massima di 96mila euro per unità immobiliare, per le spese sostenute entro il 31 dicembre di quest'anno (per gli anni a venire, si veda l'articolo in basso).
Dall'incrocio delle due previsioni il riconoscimento della detrazione potenziata al 65% risulta assoggettato ad alcune limitazioni.
Innanzitutto questo si riferisce ai soli interventi le cui procedure autorizzatorie siano state attivate dopo il 04.08.2013, data di entrata in vigore della legge 90/2013 (di conversione del Dl 63).
In secondo luogo la disposizione del 2013 non trova applicazione per l'intero territorio nazionale, poiché riguarda solo le opere eseguite sugli edifici ricadenti nelle zone sismiche a pericolosità alta o media (zone 1 e 2) di cui all'ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n. 3274 del 20.03.2003.
Inoltre, non ogni tipologia di lavori potrà fruire dei benefici fiscali. L'articolo 16-bis, infatti, prende in considerazione soltanto l'adozione di misure antisismiche e l'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica da realizzarsi «sulle parti strutturali degli edifici o complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere interi edifici».
Infine il beneficio è riconosciuto solo per gli interventi riguardanti edifici destinati ad attività produttive o ad abitazione principale del contribuente.
I titoli abilitativi ammessi
Dovendo riguardare le «parti strutturali», la tipologia delle opere va a inquadrarsi tra gli «interventi di ristrutturazione edilizia», (articolo 3, comma 1, lettera d), Dpr 380/2001), il cui titolo abilitativo sarà il permesso di costruire o, se prevista dalla normativa regionale, una super-Dia.
Andrà quindi tendenzialmente escluso il riconoscimento del beneficio per le opere riconducibili agli «interventi di restauro e di risanamento conservativo» (articolo 3, comma 1, lettera c), Dpr 380/2001). D'altro canto è la stessa rubrica dell'articolo 16 a fare esplicito riferimento alla «ristrutturazione edilizia», contribuendo a chiarire l'ambito di operatività della norma. Ulteriore aspetto problematico è quello collegato al concreto avvio delle procedure autorizzatorie e ai limiti temporali entro cui le spese devono essere sostenute per fruire della maggiore detrazione.
Interventi su interi edifici
La norma non consente di intervenire sulle parti strutturali della singola unità immobiliare, che viene presa in considerazione unicamente per determinare l'ammontare massimo della detrazione, ma solo sull'intero edificio o su complessi di edifici collegati. Pertanto, salvo i casi in cui l'immobile appartenga a un unico soggetto, sarà indispensabile il coinvolgimento dei vari comproprietari o dei condomini che dovranno deliberare, con i quorum costitutivi e deliberativi ex articolo 1136 Codice civile, sull'esecuzione o meno dell'intervento, sull'eventuale acquisizione di progetti di massima e preventivi da varie imprese, sull'individuazione del professionista cui affidare la progettazione e la direzione dei lavori, sulla costituzione obbligatoria del fondo speciali previsto dall'articolo 1135 Codice civile.
Non va poi trascurato che nell'ipotesi in cui gli edifici ricadono nei centri storici (zone A), gli interventi potranno essere soltanto realizzati «sulla base di progetti unitari e non su singole unità immobiliari», il che lascia intravvedere la necessità della preventiva predisposizione e approvazione di un piano attuativo, con ulteriore dilatazione dei tempi necessari al concreto avvio delle opere
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISubappalti, pagamenti diretti. Se l'appaltatore è in crisi, può provvedere l'appaltante. DESTINAZIONE ITALIA/Le novità relative al settore infrastrutture e opere pubbliche
Possibile il pagamento diretto dei subappaltatori da parte della stazione appaltante se l'appaltatore è in crisi finanziaria e ritarda i pagamenti oppure se si è in pendenza di una procedura di concordato preventivo con continuità aziendale; previsti indennizzi per le imprese che subiscono danni nei cantieri delle opere infrastrutturali (con due milioni per il 2014 e 5 per il 2015); al via l'anagrafe delle risorse Cipe revocate.

Sono queste alcune delle previsioni contenute nell'articolo 13 del decreto-legge 145/2013 «Destinazione Italia», convertito nella legge n. 9/2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 43 del 21/02/2014) relative al settore delle infrastrutture e delle opere pubbliche.
Una delle norme di maggiore rilievo è quella che prevede indennizzi in caso di danneggiamenti nei cantieri in cui si realizzano opere infrastrutturali ricomprese nel programma delle infrastrutture strategiche (Pis) della ex legge Obiettivo.
Si tratta di una disposizione che ha subito modifiche nei diversi passaggi parlamentari; in particolare, alla Camera è stato previsto che l'indennizzo si possa disporre non in automatico, ma attraverso un decreto ad hoc del ministero delle infrastrutture. Si introduce quindi la possibilità di assegnare un indennizzo alle imprese che subiscono danni ai materiali, alle attrezzature e ai beni strumentali «come conseguenza di delitti non colposi commessi al fine di ostacolare o rallentare l'ordinaria esecuzione delle attività di cantiere».
Dal momento che questi fatti finiscono per pregiudicare il corretto adempimento delle obbligazioni assunte per la realizzazione dell'opera, il legislatore dispone la possibilità di indennizzo, ma ne subordina l'effettiva operatività all'emanazione di un apposito decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, con il quale si disporrà l'indennizzo. Come vincolo si precisa che l'indennizzo potrà essere concesso per una quota della parte eccedente le somme liquidabili dall'assicurazione stipulata dall'impresa o, se l'impresa non fosse assicurata, per una quota del danno subito. Per la concreta applicazione della norma si stanziano due milioni per il 2014 e cinque per il 2015.
Un'altra disposizione di particolare rilievo è prevista, sempre all'articolo 13, per la disciplina del subappalto (contenuta nell'articolo 118 del Codice dei contratti). In particolare si consente alla stazione appaltante, in particolari condizioni, anche in deroga alle previsioni del bando di gara, di provvedere al pagamento diretto delle prestazioni effettuate dal subappaltatore, dal cottimista nonché dalle società, anche consortili, eventualmente costituite per l'esecuzione unitaria dei lavori. Si tratta in particolare dei casi in cui l'impresa titolare del contratto principale versi in situazione di crisi di liquidità finanziaria, comprovata da reiterati ritardi nei pagamenti dei subappaltatori, o dei cottimisti e accertata dalla stazione appaltante.
L'articolo 13 stabilisce inoltre, nella pendenza di una procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, la possibilità per la stazione appaltante, anche per i contratti di appalto in corso, di provvedere ai pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite dagli eventuali diversi soggetti che costituiscano l'affidatario,quali le mandanti, e dalle società, anche consortili, eventualmente costituite per l'esecuzione unitaria dei lavori dai subappaltatori e dai cottimisti, secondo le determinazioni del Tribunale competente per l'ammissione alla procedura di concordato.
Viene poi estesa l'applicazione delle norme sullo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione relative alle opere in esercizi a tutti i contratti aventi ad oggetto opere pubbliche, anche se stipulati anteriormente all'entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici. In particolare la disposizione, che tende ad assicurare uniformità di disciplina per tutte le opere pubbliche, comprende nell'ambito di applicazione della disciplina sullo svincolo delle cauzioni, anche i cosiddetti «settori esclusi», o sarebbe meglio dire «speciali», cioè quelli dell'acqua, dell'energia e dei trasporti che non applicano integralmente le disposizioni del codice dei contratti pubblici e del regolamento attuativo.
Infine si introduce l'anagrafe pubblica delle revoche dei fondi Cipe, che dovranno essere pubblicate su un sito internet del Cipe stesso con riferimento ai singoli provvedimenti normativi con i quali, a partire dal 01.01.2010, sono state revocate le assegnazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 24.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIRendita catastale non retroattiva. Sentenza della Commissione tributaria Lazio.
La rendita catastale attribuita dall'ufficio può produrre effetti nei confronti del contribuente solo dopo la comunicazione al destinatario e pertanto non retroattivamente.

Quanto precede è contenuto nella sentenza n. 664/2014 della Ctr di Roma da cui emerge che l'atto con cui viene comunicata l'applicazione retroattiva della rendita catastale è nullo, nel rispetto dei principi contenuti nello Statuto del contribuente.
L'art. 74, comma 1, della legge n. 342 del 2000 ha stabilito che la rendita attribuita decorre dalla data di notificazione all'interessato e dalla medesima data decorre anche il termine per l'impugnazione. Pertanto n caso di attribuzione e conseguente notifica di nuova rendita nasce la questione della sua decorrenza che ha trovato soluzione con la predetta norma secondo cui non è più sufficiente la comunicazione ma la sua notificazione: dalla data di effettuazione della notifica decorre il termine di 60 giorni per la proposizione del ricorso contro l'attribuzione della rendita.
Nella fattispecie in esame il contribuente ha proposto ricorso avverso l'accertamento in rettifica dell'Ici emesso dal comune e la Ctp lo ha respinto. Lo stesso contribuente ha proposto appello eccependo l'omessa notifica da parte dell'ente locale del provvedimento di variazione della rendita catastale e la non retroattività della rendita attribuita.
I giudici della Ctr hanno accolto le doglianze del contribuente affermando che la rendita catastale attribuita dall'ufficio «può produrre effetti nei confronti del contribuente solo successivamente alla sua comunicazione al destinatario e, quindi, non retroattivamente».
Quanto sopra trova rispondenza nei principi sanciti dallo Statuto del contribuente e nel principio generale secondo cui deve riconoscersi al contribuente il diritto a conoscere un atto che determina effetti nella propria sfera giuridica.
Pertanto l'atto di variazione della rendita catastale emesso dal comune è stato ritenuto illegittimo in quanto prevedeva l'applicazione retroattiva della rendita catastale modificata dall'ufficio nel 1999 e notificata al contribuente sette anni dopo, con richiesta di pagamento della differenza di imposta accertata. Tale orientamento è suffragato dalla Suprema corte secondo cui la modificazione o attribuzione definitiva di rendita catastale è efficace solo a partire dalla notificazione del relativo atto, con conseguente nullità degli accertamenti e liquidazione relativi a periodi di imposta anteriori alla notifica dell'atto di modificazione della rendita (Cass. n. 3233/2005) (articolo ItaliaOggi del 22.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il ricambio aria finisce nell'Ape. Nell'attestato anche il raffrescamento con pannelli solari. Le novità del decreto Destinazione Italia convertito in legge su vendite immobiliari e affitti.
Nella redazione dell'attestato di prestazione energetica bisognerà tener conto anche del raffrescamento derivante dalle schermature solari mobili. Ai fini del rilascio dell'Ape, si dovrà tenere conto del raffrescamento derivante dalle prestazioni energetiche delle schermature solari mobili, a condizione che la prestazione energetica delle predette schermature sia di classe 2, come definita nella norma europea EN 14501:2006, o superiore. Nei casi di omessa dichiarazione o allegazione dell'Ape ai contratti di compravendita o di locazione immobiliare in luogo della nullità degli atti si applica la sanzione pecuniaria. Restano esclusi dall'obbligo di allegare l'Ape i nuovi contratti di locazione di singole unità immobiliari.

Queste alcune delle novità contenuto nell'articolo 1, 7° comma e seguenti, del destinazione Italia diventato legge. Nei contratti di compravendita immobiliare, negli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso e nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici.
La copia dell'Ape deve essere altresì allegata al contratto, tranne che nei casi di locazione di singole unità immobiliari. In caso di omessa dichiarazione o allegazione, se dovuta, le parti sono soggette al pagamento, in solido e in parti uguali, della sanzione amministrativa pecuniaria da 3.000 a 18.000 euro. La sanzione è da 1.000 a 4.000 euro per i contratti di locazione di singole unità immobiliari e, se la durata della locazione non eccede i tre anni, essa è ridotta alla metà.
In sede di conversione è stato aggiunto che il pagamento della sanzione amministrativa non esenta comunque dall'obbligo di presentare la dichiarazione o la copia dell'attestato di prestazione energetica entro quarantacinque giorni. Un nuovo comma all'articolo 1 (comma 8-quater) stabilisce che gli annunci non devono riportare gli indici di prestazione energetica, né la classe energetica se riguardano la locazione di edifici residenziali utilizzati meno di quattro mesi l'anno.
Per essere abilitati alla redazione dell'Ape i certificatori devono dimostrare di essere in possesso di un attestato di frequenza, con superamento dell'esame finale dello specifico corso di formazione per la certificazione energetica degli edifici. La nuova durata del corso deve essere 80 ore e non più di 64 ore. Per quanto concerne i requisiti per diventare certificatori energetici, viene ampliata la platea dei soggetti che possono redigere l'Ape senza frequentare lo specifico corso di formazione di 80 ore.
L'obbligo del corso è stato cancellato per i laureati in: ingegneria aerospaziale e astronautica, biomedica, dell'automazione, delle telecomunicazioni, elettronica, informatica e navale, pianificazione territoriale urbanistica e ambientale, scienze e tecnologie della chimica industriale. Mentre, tra i diplomi che permettono di poter redigere la certificazione energetica senza partecipare ai corsi di formazione, sono stati inseriti anche quelli in aeronautica, energia nucleare, metallurgia, navalmeccanica e metalmeccanica.
Qualora il tecnico abilitato sia dipendente e operi per conto di enti pubblici ovvero di organismi di diritto pubblico operanti nel settore dell'energia e dell'edilizia, il requisito di indipendenza si intende superato dalle finalità istituzionali di perseguimento di obiettivi di interesse pubblico proprie di tali enti e organismi. Le disposizioni dpr 16.04.2013, n. 75 si applicano anche ai fini della redazione dell'attestazione di prestazione energetica di cui alla direttiva 2010/31/UE del parlamento europeo e del consiglio, del 19.05.2010 (articolo ItaliaOggi del 22.02.2014).

SICUREZZA LAVOROTesto unico sulla sicurezza anche per concerti e fiere. Manifestazioni. Firmato il decreto che attua l'obbligo introdotto l'anno scorso.
Completato il quadro normativo per l'applicazione del testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro per l'attività di allestimento di palchi per spettacoli e nelle manifestazioni fieristiche.

L'articolo 32, comma, 1, lettera g-bis, del Dl 69/2013 aveva esteso le disposizioni del titolo IV del testo unico agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali nonché alle manifestazioni fieristiche. Però l'estensione non poteva essere applicata in attesa di un decreto ministeriale che avrebbe dovuto individuare le particolari esigenze connesse allo svolgimento di tali attività.
Il decreto firmato ieri dal ministro del Lavoro, di concerto con quello della Salute, colma il vuoto normativo. Il testo, che entrerà in vigore con la sua pubblicazione sul sito internet del ministero del Lavoro e di cui sarà fornita notizia sulla Gazzetta ufficiale, è diviso in due capi: nel primo ci sono le disposizioni riguardanti gli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali, mentre nel secondo quelle per le manifestazioni fieristiche.
Le disposizioni del capo I, in considerazione della compresenza di più imprese esecutrici, di un elevato numero di lavoratori, subordinati e non, anche di diverse nazionalità, si applicano alle attività di montaggio e smontaggio di opere temporanee, compreso il loro allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali, cinematografici teatrali e di intrattenimenti, con esclusione, tra l'altro, del montaggio/smontaggio di pedane di altezza fino a 2 metri rispetto al piano stabile, non connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture. Per tali attività, come per quelle fieristiche, ai fini della sicurezza non trovano applicazione le disposizioni relative al documento unico di regolarità contributiva (Durc).
Per quanto concerne le manifestazioni fieristiche, il decreto fa rientrare nel campo di applicazione del testo unico le attività di approntamento e smantellamento di strutture allestitive o tensostrutture per manifestazioni fieristiche con esclusione di quelle di altezza inferiore a 6 metri rispetto al piano stabile e di quelle biplanari con superficie fino a 50 metri quadrati.
Nelle attività oggetto del decreto in esame, la copia del piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) e del piano operativo di sicurezza (Pos) devono essere messi a disposizione dei rappresentanti della sicurezza prima dell'inizio dei lavori. Gli allegati al decreto riguardano le informazioni minime sul sito di installazione dell'opera temporanea, il modello di dichiarazione di idoneità tecnico professionale delle imprese straniere, i contenuti minimi del Psc e del Pos, le informazioni minime sul quartiere fieristico, i contenuti minimi del Duvri di cui all'articolo 26 del testo unico
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAnticorruzione, le Faq dell'Authority non risolvono ma pongono problemi.
Tante Faq, molta confusione. L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), subentrata alla Civit nel presidio delle disposizioni contro la corruzione, ha pubblicato nei giorni scorsi decine di risposte a domande frequenti, poste a orientare la corretta applicazione del dlgs 33/2013.
L'iniziativa suscita alcune perplessità tanto sul metodo quanto, soprattutto, nel merito di alcune indicazioni contenute.
Quanto al metodo, il rischio è che le risposte alle domande frequenti assurgano al ruolo di interpretazione «ufficiale» o «autentica» delle norme, proprio perché provenienti da autorità preposte al ramo. Ma l'interpretazione autentica spetta solo al legislatore, mentre l'interpretazione delle norme in modo vincolante è funzione esclusiva della giurisdizione. Nel merito le risposte dell'Anac non convincono.
Ad esempio la Faq n. 2.5 risponde al quesito se il responsabile della trasparenza competente per l'accesso civico può essere anche titolare del potere sostitutivo a intervenire sull'istanza del cittadino, se ad essa non sia data risposta nei termini previsti dall'articolo 5, comma 4, del dlgs 33/2013.
L'Anac sostiene che responsabile della trasparenza e titolare del potere sostitutivo non possano coincidere, «in quanto il soggetto titolare del potere sostitutivo non dovrebbe rivestire una qualifica inferiore o equivalente rispetto al soggetto sostituito». Come si nota, la Faq intanto risulta perplessa, dal momento che utilizza il condizionale. Per altro verso, nel prosieguo indica una soluzione non contemplata dal dlgs 33/2013, tracimando da funzione di interpretazione in vera e propria attività di normazione.
Infatti, si afferma che «ai fini della migliore tutela dell'esercizio dell'accesso civico soprattutto nei casi in cui vi sia un unico dirigente a cui attribuire le funzioni di responsabile della trasparenza e di prevenzione della corruzione, le funzioni relative all'accesso civico di cui all'art. 5, comma 2, del dlgs n. 33/2013 possono essere delegate dal responsabile della trasparenza ad altro dipendente, in modo che il potere sostitutivo possa rimanere in capo al responsabile stesso. Questa soluzione è rimessa, in ogni caso, all'autonomia organizzativa degli enti».
È una soluzione non condivisibile. Con la delega, infatti, si modifica l'assetto delle competenze di organi o uffici. Tale assetto, però, è oggetto di riserva di legge ad opera dell'articolo 97, commi 1 e 2, della Costituzione. Dunque, solo una legge può consentire che l'ordinamento da essa fissato sia modificato con un atto amministrativo di organizzazione, quale la delega.
La soluzione consigliata dalla Faq, dunque, si rivela contraria all'assetto normativo. In particolare negli enti locali, nei quali il responsabile della trasparenza coincide ex lege col responsabile anticorruzione, il quale ex lege è il segretario comunale. Solo il sindaco o il presidente della provincia può modificare tale stato delle cose, con un provvedimento espresso e motivato che assegni dette competenze ad un soggetto diverso. Pertanto, se il segretario comunale delegasse anche solo parte delle proprie competenze con una propria delega, violerebbe un assetto di funzioni disegnato dalla legge e del quale può disporre solo l'organo monocratico di governo.
Nessuna norma, comunque, impone che il potere sostitutivo sia adottato da un soggetto avente qualifica superiore al titolare inerte. In generale, è vero, il potere sostitutivo spetta nello Stato, ai dirigenti generali nei confronti dei dirigenti di prima fascia, ed a questi nei confronti dei funzionari. Ma se responsabile della trasparenza è un dirigente al vertice, sarà impossibile ovviamente reperire un titolare di potere sostitutivo di qualifica superiore.
Lo stesso vale per gli enti locali, nei quali il segretario comunale è visto come soggetto apicale, al limite di qualifica equivalente, se sono presenti dirigenti (articolo ItaliaOggi del 21.02.201).

ENTI LOCALIMulte autovelox, rendiconti fai-da-te.
I comuni devono rispettare i vincoli di destinazione dei proventi delle multe anche se l'obbligo di rendicontazione periodico previsto a maggio di ogni anno al momento resta sospeso per mancanza del necessario supporto informatico.

Lo ha chiarito l'Anci con un parere divulgato il giorno di San Valentino sul portale dell'associazione (si veda ItaliaOggi del 15/02/2014).
La questione della ripartizione a metà delle multe autovelox e della rendicontazione periodica sull'impiego del denaro incassato da comuni e province nasce con la legge n. 120/2010 che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le violazioni dei limiti di velocità i proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove disposizioni, secondo il primo parere diramato dall'Anci il 05.06.2012, sarebbero divenute operative il 01.01.2013 a seguito alla conversione in legge del dl n. 16/2012 che ha specificato che anche in mancanza del necessario decreto attuativo le nuove regole entrano comunque in vigore.
Ma non solo. Letteralmente l'art. 142, comma 12-quater, del codice impone agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma, entro il 31 maggio di ogni anno, una composita relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento.
Ma in assenza del sistema informatico necessario a rendicontare e di regole chiare su quanto e come dividere si naviga a vista e si procede con grande approssimazione. Per questo motivo l'Associazione dei comuni è intervenuta nuovamente specificando che nella confusione normativa resta in vigore il comma 3 dell'art. 25 della legge 120/2010 il quale dispone l'applicabilità della novella a far data dall'esercizio successivo a quello di emanazione del decreto mancante «ed in ogni caso all'esercizio successivo a quello in corso». In ogni caso anche per il 2014 l'Anci raccomanda la massima attenzione circa l'obbligo di destinazione dei proventi. In buona sostanza sarà necessario continuare a tenere una contabilità separata tra i proventi autovelox e tutti gli altri importi sanzionatori.
E anche accantonare le somme incassate in attesa che la questione venga definitivamente risolta dal ministero. Del resto nell'unico parere diramato sul complesso tema dal ministero dell'interno il 24.12.2012 si specifica a chiare lettere che «a fronte dell'asistematicità del dato normativo, rimane ineludibile l'obbligo per gli enti locali di destinare i proventi di cui in argomento secondo le previsioni di legge».
In buona sostanza è meglio rispettare integralmente i vincoli di destinazione degli importi delle multe accantonando quanto incassato anche nel corso dell'esercizio finanziario 2013 per conto di altri enti. Solo così si potranno evitare responsabilità contabili all'arrivo del via libera definitivo dall'impasse (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., dirigenti fiduciari a rischio. Incarichi in contrasto con le norme anticorruzione. La legge 190/2012 richiede comunque l'attivazione di una procedura selettiva.
La prassi degli incarichi dirigenziali intuitu personae è in contrasto con la normativa anticorruzione.

L'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012 considera ex lege, tra gli altri, a particolare rischio di corruzione i procedimenti di «concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del citato decreto legislativo n. 150 del 2009».
Apparentemente la norma non sembra riferirsi ad ipotesi come l'assegnazione di incarichi dirigenziali o di vertice «a contratto».
Soffermandosi, infatti, solo sul nomen iuris degli istituti contemplati dalla norma (concorsi e progressioni di carriera), sistemi di reclutamento come quelli di cui all'articolo 110 del dlgs 267/2000 si potrebbero considerare esclusi, perché non riferiti né a concorsi, né alle ex progressioni verticali.
A ben vedere, al contrario, gli incarichi ai sensi dell'articolo 110 citato, specie e soprattutto se assegnati a dipendenti interni all'ente privi di qualifica dirigenziale, rientrano in pieno nel campo di applicazione della norma. Il legislatore anticorruzione, infatti, si riferisce in termini generici a qualsiasi procedura volta a reclutare personale, comprendendo anche la dirigenza. Oltre tutto, appare piuttosto evidente che se rischi di corruzione vi sono nell'ambito delle procedure di concorso, nonostante queste siano regolate da molteplici norme poste ad evitare inquinamenti procedurali, rischi molto maggiori albergano laddove si tratti di procedure lasciate all'assoluta discrezionalità, se non arbitrio, dell'organo di governo, che sceglie ad personam il soggetto cui assegnare l'incarico dirigenziale.
Comunque, il Piano nazionale anticorruzione, nel disaggregare i «rischi specifici» connessi appunto con l'articolo 1, comma 16, lettera d), della legge 190/2012, segnala due ipotesi di esposizione alla corruzione perfettamente pertinenti al caso: previsioni di requisiti di accesso «personalizzati» ed insufficienza di meccanismi oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti; motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei presupposti di legge per il conferimento di incarichi professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari.
L'interpretazione costituzionalmente orientata (del resto imposta dalle sentenze della Corte costituzionale a partire dalla 103/2007) delle procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali esclude la fiduciarietà e l'intuitus personae (salvo gli incarichi negli uffici di diretta collaborazione dei ministri e dei massimi vertici ministeriali, ove esistono influenze politiche nell'azione dirigenziale): pertanto, qualsiasi altro incarico deve necessariamente essere il frutto di procedure quanto meno comparative.
Le quali costituiscono un presidio da scelte arbitrarie e potenzialmente molto permeabili alla corruzione, quali scelte legate alla fiduciarietà.
Dunque, anche nell'ambito del reclutamento dei dirigenti a contratto «non è certamente ammissibile precostituire requisiti di accesso tagliati su misura sul destinatario dell'incarico, o attivare meccanismi di verifica dei requisiti del tutto insufficienti e carenti di strumenti oggettivi, elementi costitutivi del primo fattore di «rischio specifico» di corruzione visto sopra; né è possibile attribuire gli incarichi in assenza di una motivazione profonda e chiara, che, per la verità, può risultare davvero completa ed efficace solo in funzione della sussistenza di criteri oggettivi di confronto selettivo».
È di tutta evidenza che attribuendo incarichi solo per via fiduciaria o intuitu personae, senza procedure selettive oggettive e senza motivazioni che vadano oltre la considerazione della persona e della fiducia in essa riposta, i rischi di assegnazioni clientelari o solo di fiducia mal riposta nelle capacità tecniche sono elevatissimi.
Si deve tenere presente che una carenza nella capacità di selezionare i soggetti meglio capaci di gestire le risorse pubbliche e di perseguire le finalità dell'amministrazione, non solo crea presupposti per azioni «interne» viziate da corruzione amministrativa (quando non anche penale); ma, soprattutto, incide negativamente su tutta la comunità amministrata, che subisce le conseguenze di un'amministrazione disattenta ai bisogni generali (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

APPALTIMilleproroghe. Centrale unica a rischio.
L'entrata in vigore dell'obbligatorietà della costituzione della Centrale unica di committenza per i comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti è stata nuovamente prorogata al 30.06.2014 da un emendamento approvato in senato al decreto milleproroghe.

È bene ricordare che l'art. 33, comma 3-bis, del Codice unico degli appalti il stabilisce l'obbligo per i comuni con popolazione non superiore a 5 mila abitanti (ricadenti nel territorio di ciascuna provincia) di costituire un'unica centrale di committenza per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del dlgs n. 267/2000 ovvero costituire un apposito accordo consortile tra i comuni stessi.
La ratio della disposizione risiede nella volontà del Legislatore di favorire la gestione delle attività, delle funzioni e dei compiti in forma associata, favorendo -nel contempo- un processo di razionalizzazione della spesa, un più efficiente impiego delle risorse umane e strumentali a disposizione ed una maggiore efficacia dell'azione amministrativa.
Tuttavia, tale proroga (introdotta anche su richiesta dell'Anci) potrebbe non entrare in vigore definitivamente; infatti la caduta del governo Letta a seguito delle dimissioni del presidente del consiglio e la conseguente procedura di nomina di un nuovo esecutivo e l'ottenimento della fiducia da parte del parlamento possono mettere a repentaglio il percorso del decreto Milleproroghe attualmente alla camere il quale dovrà essere convertito definitivamente in legge entro il prossimo 28 febbraio. In caso di mancata conversione, gli enti locali dovranno provvedere immediatamente alla costituzione della Centrale unica al fine di ottemperare agli obblighi di legge.
Per quanto riguarda i bandi pubblicati dal 1° gennaio ad oggi, si ritiene che, anche in caso di mancata conversione del decreto, agli stessi possano essere applicate le norme precedenti in quanto l'annullamento delle procedure per il venir meno della proroga potrebbe comportare una lesione dell'interesse pubblico generale sotteso all'azione amministrativa (articolo ItaliaOggi del 21.02.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIFotovoltaico, obbligo di Catasto. Al bivio fra iscrizione e revisione della rendita: in ogni caso imposte più elevate. Fisco e immobili. La circolare 36/E delle Entrate chiarisce che occorre procedere all'operazione per le strutture più grandi.
L'accatastamento degli impianti fotovoltaici ha trovato forse la soluzione definitiva con la circolare 19.12.2013 n. 36/E delle Entrate.
In particolare, per gli impianti fotovoltaici a terra, considerati beni immobili, è previsto l'accatastamento nella categoria D/1 "opifici". Se invece di impianti a sé stanti, come nel primo caso, si tratta di strutture poste su edifici, lastrici solari o su aree di pertinenza di altri immobili, non si dovrà effettuare un autonomo accatastamento, ma procedere alla rideterminazione della rendita dell'immobile a cui i pannelli sono connessi. Se questa aumenta di più del 15% rispetto al valore originario, il proprietario è tenuto a comunicare la variazione all'agenzia del Territorio (si veda l'altro articolo in pagina).
Se l'impianto è costruito in forza di diritto di superficie, va accatastato autonomamente e quindi dovrebbe assumere la categoria di opificio; infatti nella fattispecie il proprietario dell'impianto è diverso da quello dell'immobile sottostante. In ultimo la circolare considera in ogni caso come beni mobili, e dunque non meritevoli di accatastamento, gli impianti di "modesta entità".
La circolare considera anche il caso di impianti fotovoltaici "rurali", prevedendo il loro accatastamento nella categoria D/10, a condizione che siano asserviti ad una azienda agricola «esistente» con un terreno di estensione non inferiore ai 10mila metri quadri e che la potenza dell'impianto non risulti superiore ai 200 Kw. In questi casi, l'impianto potrà essere censito come D/10 anziché D/1, purché alla dichiarazione di accatastamento si alleghi l'autocertificazione dei requisiti di ruralità su modello conforme.
Ai fini delle imposte ricomprese nella Imposta unica comunale (Iuc), ovvero Imu, Tasi e Tari, il diverso accatastamento ha notevoli ripercussioni.
Nel caso di immobili censiti autonomamente in categoria D/1, si dovrà procedere al calcolo dell'Imu e delle altre imposte gravanti sugli immobili in base al valore catastale derivante dalla dichiarazione di accatastamento. Per Imu e Tasi (tariffa sui servizi non divisibili), partendo dal valore catastale dell'immobile, si dovrà procedere al calcolo delle imposte, ricordando che la somma delle due aliquote non dovrebbe poter superare il 10,6 per mille e comunque l'aliquota Tasi dovrà essere compresa tra l'1 e il 2,5 per mille, ma si è in attesa di decreto. Per la Tari (tariffa rifiuti) la base imponibile sarà ancora data dalla superficie calpestabile e varranno specifiche aliquote determinate dai Comuni in modo da garantire l'integrale copertura dei costi sostenuti per la raccolta rifiuti; pertanto non dovrebbe colpire gli impianti fotovoltaici.
Nel caso, invece, di immobile già censito per cui si renda necessaria la variazione del valore catastale, si dovrà procedere al ricalcolo dell'Imu rispetto a quello dell'anno precedente. La variazione catastale determinerà, infatti, un aumento proporzionale della base imponibile ai fini Imu e Tasi.
Gli impianti fotovoltaici "rurali" censiti nella categoria D/10 sono esenti da Imu come previsto dal comma 708 della legge 147/2013 per gli immobili rurali strumentali, mentre ai fini Tasi potranno essere soggetti al massimo all'aliquota dell'1 per mille, con possibilità per i Comuni di prevedere anche ulteriori riduzioni. Ovviamente la ruralità è garantita qualora vengano rispettate le condizioni stabilite dalla circolare dell'Agenzia 32/2009 e in particolare che il fatturato della attività agricola sia superiore a quello della produzione di energia elettrica, tariffa incentivante esclusa, ovvero che il terreno coltivato anche in comuni non confinanti sia pari ad almeno 10 ettari per 100 kw
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014 - tratto da www.centrostudi.it).

ENTI LOCALIUnioni comunali, vincoli rinviati. Patto di stabilità. Decorrenza dal terzo anno dopo la loro istituzione.
La nuova circolare sul patto di stabilità diramata ieri dalla Ragioneria Generale dello Stato (n. 6/2014) spiega per la prima volta le modalità applicative dell'assoggettamento al patto, a partire dall'anno in corso, delle unioni costituite dai comuni con popolazione fino a mille abitanti (comma 1, articolo 16, Dl 138/2011). Le unioni in questione applicano la disciplina prevista per i comuni aventi popolazione corrispondente.
Pertanto, l'assoggettamento alle regole del patto decorre –analogamente a quanto previsto per i comuni di nuova istituzione– dal terzo anno successivo a quello della loro istituzione; mentre la base di riferimento su cui applicare la percentuale è data dalle risultanze dell'anno successivo a quello della loro istituzione. La spesa corrente da considerare è quella desunta dai certificati di conto consuntivo.
Fra le novità targate 2014 che tutti gli enti devono tener presente la circolare ricorda il "bonus" investimenti di 1 miliardo. Gli spazi finanziari che si liberano in applicazione della norma vanno utilizzati esclusivamente per pagamenti in conto capitale datati nel primo semestre del 2014 (per cui i pagamenti in conto capitale che avverranno nel secondo semestre non potranno essere esclusi a valere sui predetti spazi finanziari); il controllo sarà effettuato con il monitoraggio semestrale.
La circolare si sofferma anche sul fondo svalutazione crediti, in merito al quale conferma che i relativi stanziamenti non rilevano ai fini del saldo finanziario di competenza mista, poiché non sono oggetto di impegno, ma confluiscono nel risultato di amministrazione vincolato. Sul punto la Ragioneria generale precisa anche che tali voci non rilevano fin dalle previsioni, superando in questo modo la posizione più rigida della Corte dei conti (deliberazione 287/2012 della Toscana) che in passato era intervenuta sul punto.
Anche se la Circolare nulla dice in proposito, è da ritenere che analogo trattamento vada riservato al fondo crediti di dubbia esigibilità che negli enti in sperimentazione dell'armonizzazione contabile ha mandato in soffitta il fondo svalutazione crediti.
Come ogni anno, le istruzioni della Ragioneria si confermano un utile vademecum per applicare correttamente il patto, particolarmente apprezzato dagli enti con meno di cinquemila abitanti, costretti a fare i conti con questo vincolo da poco più di un anno
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIFatturazione elettronica obbligata da giugno 2015. Agenda digitale. Comuni, province e regioni hanno 16 mesi per adeguarsi.
L'obbligo della fatturazione elettronica per le amministrazioni locali decorre dal 06.06.2015. Comuni, province e regioni avranno dunque oltre 16 mesi per adeguarsi e cominciare a far viaggiare le fatture sulle piattaforme informatiche messe a punto da Entrate e Sogei per tutti i loro fornitori.
A fissare nero su bianco la data da cui decorrerà l'obbligo previsto dalla Finanziaria 2008 sia per le amministrazioni centrali sia per quelle locali, è ora un decreto attuativo messo a punto dal ministro dell'Economia e da quello per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione e domani al parere definitivo della conferenza unificata.
Poche righe ma che completano il quadro normativo per far decollare una volta per tutte la "terza gamba" dell'Agenda digitale italiana: quella della fatturazione elettronica (Identità digitale e anagrafe nazionale della popolazione residente sono le altre due). E su cui a scommetterci non è solo la macchina amministrativa ma anche i privati. Tra questi il Consorzio Cbi cui aderiscono 600 istituti finanziari che offrono servizi a oltre 920mila imprese. In un contesto in cui la priorità per recuperare risorse passa per il taglio dei costi nella Pa, come ricorda il direttore generale del Consorzio, Liliana Fratini Passi «con l'introduzione della fatturazione elettronica verso la Pa si possono ottenere risparmi diretti per oltre un miliardo di euro l'anno (se si considerano solo gli impatti interni alle Pa) e di circa 1,6 miliardi se si vogliono considerare anche i potenziali effetti sui fornitori della Pa stessa».
C'è poi un risvolto difficile da quantificare ma che potrebbe dare comunque risultati eclatanti: la trasparenza e la tracciabilità dei pagamenti con la fatturazione elettronica sono un'arma in più per il contrasto all'evasione fiscale e al sommerso. Ma come sempre accade i buoni propositi e le best practices in Italia non sempre trovano riscontri immediati. Il Direttore generale del Consorzio precisa che gli «enti che si sono dichiarati disponibili alla ricezione di fatture elettroniche attualmente sono al di sotto delle aspettative. Da una verifica al 12 febbraio scorso le ammministrazioni registrate ai servizi di fattura elettronica sono soltanto 50 e di queste solo 14 Pa centrali».
Eppure la macchina e gli istituti finanziari che aderiscono al Consorzio sono pronti. Già dal 6 dicembre scorso, conclude il Dg di Cbi, è disponibile la funzione «Fattura PA» che consente a un consorziato di interfacciarsi con il sistema di interscambio dell'agenzia delle Entrate gestito da Sogei per l'invio delle fatture elettroniche per conto dei propri clienti aziende creditrici, così come la ricezione di fatture elettroniche per conto delle proprie clienti pubbliche amministrazioni debitrici.
Tutto pronto dunque, ora tocca alla macchina statale e locale mettersi in gioco
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rischio contenzioso per i produttori di rifiuti speciali assimilati.
Rischio contenzioso sulla Tari per i produttori di rifiuti speciali assimilati. Secondo il ministero dell'ambiente, a tali soggetti spettano solo gli sconti sulla parte variabile della tariffa eventualmente decisi dai comuni, in base all'art. 1, comma 649, della legge 147/2013. Ma il successivo comma 661 consente loro di pretendere l'esenzione totale. Si tratta di due norme fra di loro chiaramente contrastanti.
In base alla prima, «per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella determinazione della Tari, il comune, con proprio regolamento, può prevedere riduzioni della parte variabile proporzionali alle quantità che i produttori stessi dimostrino di avere avviato al recupero». La seconda disposizione, invece, dispone che la Tari non è dovuta «in relazione alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero».

Con la
circolare 13.02.2014 n. 1/2014 il ministero dell'ambiente ha affermato la prevalenza del comma 649 rispetto al successivo comma 661, lasciando, in pratica, il pallino degli sconti nelle mani dei comuni.
Ciò sulla scorta di una duplice argomentazione: sul piano formale, si evidenzia come sia la seconda disposizione (già contenuta nell'originario ddl di Stabilità) a non essere coordinata con la prima (inserita durante l'iter parlamentare); sul piano sostanziale, si afferma la necessità di conservare in capo agli enti locali la flessibilità necessaria a conciliare la sostenibilità finanziaria del ciclo integrato dei rifiuti con le politiche di incentivo e stimolo per le buone pratiche in tema di recupero.
Tuttavia, gli ordinari canoni interpretativi dovrebbero suggerire di far prevalere la tesi più favorevole ai contribuenti interessati, che certamente possono invocare l'esenzione totale in base al comma 661. Di ciò pare essere consapevole lo stesso estensore della circolare, allorché evidenzia la necessità di un «chiarimento normativo», anche al fine di «prevenire un prevedibile contenzioso, di durata non determinabile, a scapito di operatori e aziende», oltre che (si deve aggiungere) degli stessi comuni. Non a caso, lo schema di decreto sulla casa predisposto dall'ex governo Letta (e destinato a contenere anche i correttivi sulla Tasi e sul fondo di solidarietà) sposava la tesi opposta a quella fatta propria dal dicastero da ultimo guidato da Andrea Orlando.
Una soluzione, quest'ultima, anch'essa problematica, che scaricherebbe forti aumenti sulle utenze domestiche. Anche il riferimento alla «parte variabile» della tariffa come base di riferimento degli sconti decisi dai sindaci è impreciso, dal momento che, da quest'anno, in alternativa al metodo normalizzato, è possibile optare per quello «semplificato», che non presuppone la distinzione fra costi fissi e costi variabili. Peraltro, non si tratta dell'unico problema posto dalla disciplina della Tari.
Un altro dubbio interpretativo riguarda questa volta i produttori di rifiuti speciali non assimilati agli urbani. Qui il dubbio nasce dall'inciso «in via continuativa e prevalente» che potrebbe giustificare la richiesta di detassazione anche con riferimento ad aree con produzione mista (articolo ItaliaOggi del 18.02.2014).

PATRIMONIOStadi, corsia veloce alla ristrutturazione ma senza residenziale. Progetti da approvare entro 180 giorni. Legge di stabilità. Le nuove norme per gli impianti sportivi.
Corsia preferenziale per riqualificare gli stadi e gli impianti sportivi o costruirne di nuovi. Dal 1° gennaio sono in vigore le norme per il rilancio dell'impiantistica sportiva dettate dall'articolo 1, commi 303-306, della legge di Stabilità (n. 147/2013).
La cosiddetta legge stadi, pur se con qualche limitazione, asseconda concretamente l'esigenza di promuovere sia la costruzione di nuovi stadi, sia gli interventi per l'ammodernamento degli impianti esistenti. La procedura, che deve concludersi entro 120 giorni (180 in caso di atti di competenza regionale quali solitamente le varianti urbanistiche) dal suo avvio, è la seguente:
   - il soggetto interessato presenta al Comune uno studio di fattibilità corredato da un piano economico-finanziario e dall'accordo con una o più associazioni o società sportive utilizzatrici in via prevalente;
   - il Comune, ove valuti positivamente il progetto in conferenza di servizi istruttoria, lo dichiara entro 90 giorni di pubblico interesse;
   - viene quindi presentato il progetto definitivo, sul quale il Comune o la Regione -previa conferenza di servizi decisoria cui partecipano i soggetti titolari di competenze specifiche- delibera in via definitiva sul progetto, eventualmente chiedendo le modifiche ritenute strettamente necessarie.
È importante evidenziare che per legge:
   - il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato necessario alla realizzazione dell'opera e ne determina la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza;
   - in caso di superamento dei termini fissati dalla legge il presidente del Consiglio dei ministri, su istanza del proponente, assegna all'ente interessato 30 giorni per adottare i provvedimenti necessari e, in difetto, la regione ovvero lo stesso Presidente del Consiglio per gli impianti più grandi (superiori ai 4mila posti al coperto e 20mila allo scoperto) adotta i provvedimenti necessari entro il termine di 60 giorni;
   - in caso di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti, il progetto approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza pubblica (si veda l'articolo a fianco).
Così descritta la short-track di legge, occorre riferire delle due disposizioni frutto della mediazione maturata rispetto alle istanze di chi, per ragioni di tutela ambientale, si era opposto all'approvazione della normativa nella sua versione originale. Anzitutto, la norma precisa che lo studio di fattibilità non può prevedere altri tipi di intervento, salvo quelli strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici. È comunque esclusa la realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale.
La disposizione tutela la posizione di chi teme che dietro il rilancio dell'impiantistica sportiva si celi solo l'interesse di ottenere varianti urbanistiche accelerate (se non di favore) per rendere edificabili aree verdi periferiche o per consentire la costruzione di nuove case di alto valore, perché localizzate nelle zone centrali delle città, ove spesso si collocano gli stadi italiani (da rilocalizzare).
Può essere che la tutela sia giustificata dalla concreta esperienza dell'urbanistica italiana, certo è che la nuova norma avrebbe precluso la realizzazione dell'Emirates Stadium di Londra. Il nuovo stadio dell'Arsenal (impianto modernissimo e multifunzionale) è stato costruito su un'area acquistata dal municipio e in precedenza destinata al trattamento dei rifiuti, usando il denaro ottenuto con la vendita degli appartamenti di lusso realizzati al posto delle tribune del vecchio Highbury.
L'ultima cautela fissata dalla legge attiene al disfavore per la realizzazione di nuovi stadi. Gli interventi agevolati, infatti «laddove possibile, sono realizzati prioritariamente mediante recupero di impianti esistenti o relativamente a impianti localizzati in aree già edificate».
La norma appare pienamente giustificata, sia perché è comunque doveroso dedicarsi alla riqualificazione del patrimonio edilizio (anche sportivo) esistente prima di consumare nuovo territorio, sia perché la legge non preclude la realizzazione di nuovi impianti (comunque ammessi sui cosiddetti brownfield), anche su aree non urbanizzate purché la scelta sia assistita da idonea motivazione.
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La procedura. Ogni decisione urbanistica viene presa dalla conferenza dei servizi.
Il nodo delle varianti al Prg.

La prima ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming (commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori) e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva, quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia esclusa la residenza e richieda, in continuità con le migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati «concorrano alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la nuova legge apre la via alla realizzazione di una impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni urbane pone ovviamente il problema di garantire la conformità del progetto con le previsioni del piano regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche di governo del territorio e che notoriamente è complicato dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali. La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali che prevedevano meccanismi accelerati di variante urbanistica per favorire la riqualificazione urbana (decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing (decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che, per esempio, non consentano la realizzazione di un centro commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la procedura di variante è dettata direttamente dalla norma statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di variante previste in sede locale, anche utilizzando la disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa vigente».
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Il caso. Confronto concorrenziale aperto ad altri operatori.
Proprietà pubblica, scatta la gara.

Salve poche eccezioni (Juventus e Mapei stadium, stadi di Udine, Teramo e Olimpico di Roma, del Coni) tutti gli stadi italiani sono di piena proprietà comunale. Secondo i principi comunitari recepiti nell'ordinamento italiano, la loro cessione ai privati a fini di lucro deve passare da una procedura di evidenza pubblica, ovvero da una gara.
Le prime bozze della legge stadi erano lacunose sul punto, prevedendo che qualsiasi società privata interessata a costruire e gestire gli impianti, solo per aver trovato una intesa con le associazioni fruitrici dell'impianto, avesse titolo per presentare un progetto e attuarlo direttamente se riconosciuto di interesse pubblico dal Comune.Le nuove disposizioni prescrivono ora una vera e propria procedura di gara mutuata dal modello del project financing del Codice dei contratti pubblici: «In caso di interventi da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti –si legge nella norma– il progetto approvato è fatto oggetto di idonea procedura di evidenza pubblica, da concludersi comunque entro novanta giorni dalla sua approvazione. Alla gara è invitato anche il soggetto proponente, che assume la denominazione di promotore. Il bando specifica che il promotore, nell'ipotesi in cui non risulti aggiudicatario, può esercitare il diritto di prelazione entro quindici giorni dall'aggiudicazione definitiva e divenire aggiudicatario se dichiara di assumere la migliore offerta presentata. Si applicano, in quanto compatibili, le previsioni del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, in materia di finanza di progetto».
Se l'aggiudicatario è diverso dal proponente, è tenuto a subentrare, alle stesse condizioni, negli accordi proposti dallo stesso proponente
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014).

PUBBLICO IMPIEGOIndennità senza doppioni alle posizioni organizzative. Parere Aran. In mancanza di una disciplina contrattuale.
Le amministrazioni locali possono disciplinare con una norma regolamentare il trattamento economico accessorio da corrispondere al responsabile di posizione organizzativa assente. La disciplina deve essere ispirata al principio per cui l'ente non deve corrispondere più di una indennità di posizione.

Possono essere così riassunte le principali indicazioni che sono state dettate dall'Aran con il parere n. 654/2014. In tal modo viene indicata la soluzione a una materia su cui manca una specifica disciplina contrattuale.
L'assegnazione alla regolamentazione della competenza a dettare la «disciplina di dettaglio delle posizioni organizzative» deriva dalla stretta attinenza di questa materia con la definizione del modello di organizzazione, e si deve ritenere ulteriormente rafforzata dalla limitazione contenuta nel Dlgs 150/2009 degli spazi riservati alla contrattazione collettiva. L'assenza di questa disciplina determina una conseguenze certa: «In mancanza di una diversa regolamentazione, il dipendente incaricato di una posizione organizzativa ne conserva la titolarità anche nei casi di assenza (pure di lunga durata) e, in relazione all'incarico e alla sua durata, il corrispondente diritto a percepire la retribuzione di posizione e di risultato».
Ma il parere dell'Aran non si ferma qui: pone dei dubbi sulla «stessa possibilità di conferire legittimamente l'incarico di una posizione organizzativa ad altro soggetto in caso di assenza o impedimento di quello che ne è l'effettivo titolare: una medesima posizione organizzativa, secondo i principi di correttezza e buona fede, non potrebbe essere formalmente e contemporaneamente oggetto di due incarichi conferiti a soggetti diversi».
Per l'indennità di risultato viene ricordato che questa dipende dalla valutazione annuale del grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati: «È ragionevole presumere che i periodi di assenza incidano negativamente, determinando la conseguente riduzione del compenso da corrispondere (fino ad annullarlo, quando i risultati conseguiti .. non siano apprezzabili)».
Il parere pone dei limiti all'autonomia delle amministrazioni nella determinazione con regolamento del trattamento economico da corrispondere al dipendente che sostituisce il titolare di posizione organizzativa assente nel caso in cui egli non sia già titolare di un tale incarico. Si deve pervenire a questa conclusione sulla base della scelta legislativa che riserva alla contrattazione collettiva nazionale la disciplina di tutte le scelte sul trattamento economico.
In questo quadro gli enti possono comunque erogare la indennità di posizione al sostituto nel caso in cui ne abbiano sospesa la erogazione al responsabile assente. E possono remunerare, in analogia a quanto previsto per i dirigenti, il conferimento a interim dell'incarico a un altro responsabile attraverso la maggiorazione della indennità di risultato, che in ogni caso deve restare entro il tetto massimo complessivo ed invalicabile del 25% della retribuzione di posizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAReflui, burocrazia più snella. Non è più necessario l'ok per immissioni in atmosfera. Alleggerito il regime autorizzatorio per i piccoli impianti di trattamento delle acque.
Burocrazia ambientale più leggera per i piccoli impianti di trattamento delle acque che utilizzano «linee di trattamento fanghi», ossia strutture dedicate a processare i particolari residui formatisi nel procedimento depurativo.

Grazie al nuovo decreto del 15.01.2014 del Minambiente, i titolari di alcuni impianti non saranno più obbligati a chiedere, oltre all'autorizzazione per realizzazione ed esercizio della struttura, quella relativa alle immissioni in atmosfera. L'alleggerimento arriva mediante la riformulazione diretta del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») operata dal nuovo regolamento del Dicastero verde pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 10.02.2014 n. 33.
La novità. Il decreto riformula l'elenco (contenuto nella Parte I dell'allegato IV alla Parte Quinta del dlgs 152/2006) degli impianti e delle attività potenzialmente considerati a «emissioni scarsamente rilevanti» agli effetti dell'inquinamento atmosferico dall'articolo 272 dello stesso «Codice ambientale» e in virtù di ciò (ricorrendo le altre condizioni più avanti esposte) esentati dalla relativa autorizzazione ordinaria alle emissioni in aria imposta in via generale dal precedente articolo 269 agli stabilimenti che gettano inquinanti nell'aria.
In particolare, entrano a far parte del novero degli stabilimenti astrattamente ammessi alla deroga burocratica (fermo restando l'obbligo di rispettare i limiti massimi di emissione in aria previsti dallo stesso dlgs 152/2006) le linee di trattamento dei fanghi che operano nell'ambito di impianti di depurazione delle acque reflue con potenzialità inferiore: a 10 mila abitanti per trattamenti di tipo biologico; a 10 m/h di acque trattate per trattamenti di tipo chimico/fisico; a entrambi i citati parametri per trattamenti sia biologici che chimico/fisici.
Con il nuovo decreto il Minambiente chiarisce invece che restano fuori dall'obbligo di autorizzazione alle emissioni in atmosfera le linee di trattamento dei fanghi che operano nell'ambito di impianti di trattamento delle acque «a fini di potabilizzazione», le quali non producono, per la natura stessa di tali attività, emissioni in atmosfera.
Le conseguenze. L'inclusione dei primi citati stabilimenti nell'elenco degli impianti «a basso impatto» atmosferico non vale però a escluderne in assoluto l'assoggettabilità alle procedure autorizzatorie di settore. E ciò in primo luogo perché, per espressa disposizione del ricordato articolo 272 dello stesso «Codice ambientale», la deroga all'autorizzazione ordinaria imposta dall'articolo 269 citato non vale per gli stabilimenti con emissioni di sostanze cancerogene, tossiche per la riproduzione o mutagene o di sostanze di tossicità e cumulabilità particolarmente elevate (individuate dalla parte II dell'allegato I alla Parte V del dlgs 152/2006) e per le attività con utilizzo di sostanze o preparati classificati come cancerogeni, mutageni o tossici per la riproduzione (dal dlgs 52/1997).
In secondo luogo perché anche laddove gli stabilimenti in parola siano effettivamente esentati (ricorrendo le descritte condizioni) dall'autorizzazione ordinaria citata, potrebbero comunque essere obbligati ad aderire alle «autorizzazioni di carattere generale» che gli enti territoriali competenti (regione, provincia autonoma o diverse autorità da loro indicata) hanno facoltà di imporre a determinate attività in forza dello stesso articolo 272, dlgs 152/2006, e ciò pretendendo anche il rispetto di particolari valori limite di emissione e di regole su costruzione, esercizio, campionamento e periodicità dei controlli.
L'eventuale presenza di una «autorizzazione di carattere generale», lo ricordiamo, fa altresì scattare per il titolare dell'impianto l'obbligo di aderirvi tramite lo «Sportello unico per le attività produttive». A imporre la strada del c.d. «Suap» per l'adempimento in parola è il dpr 59/2013, il provvedimento che dallo scorso 13.06.2013 detta le regole procedurali (meglio note come «autorizzazione unica ambientale») che le imprese a ridotto impatto sull'ecosistema devono seguire per poter ottenere i titoli abilitativi previsti dalla normativa ambientale.
Il dpr 59/2013 lascia infatti alle imprese che devono unicamente aderire ad una «autorizzazione di carattere generale» alle emissioni in atmosfera libera scelta se ricorrere o meno all'«Aua», ma le obbliga in ogni caso a rivolgendosi al citato ufficio comunale competente per i procedimenti amministrativi che riguardano avvio e modifiche delle attività produttive.
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La Corte Ue: consegna dei rifiuti solo ad autorizzati.
La responsabilità dell'impresa produttrice di rifiuti per il loro corretto trattamento tecnico cessa con il conferimento dei residui ad altro soggetto di cui si sia preventivamente verificata l'idoneità alla relativa gestione in ossequio alle norme in materia di autorizzazione.
Questo il chiarimento offerto dalla Corte Ue di giustizia con sentenza 03.10.2013 n. C-113/12 in merito al rispetto delle norme sulle operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti lungo la filiera dei rifiuti. Chiarimento relativo alle norme comunitarie che deve, però, essere necessariamente letto congiuntamente alle particolari regole nazionali sul tracciamento dei rifiuti.
- La posizione della Corte Ue. Quella della Corte europea di giustizia è una lettura fondata sulla direttiva madre in materia di rifiuti che (con continuità normativa dalla versione 75/442 all'ultima del 2008, la n. 98) da un lato pone in capo al «detentore» la responsabilità della loro corretta gestione e dall'altro (al fine di garantire la massima tutela dell'ambiente) ne consente la cessione ad altro soggetto per l'effettuazione delle operazioni necessarie a patto che quest'ultimo sia in possesso dell'abilitazione necessaria alle operazioni di trattamento. Soddisfatta quest'ultima condizione, sottolinea la Corte, al «cedente» che ha effettivamente controllato l'esistenza di tale autorizzazione nessun rimprovero può muoversi per il mancato effettivo rispetto delle norme tecniche di trattamento.
- Le regole nazionali. Sul piano interno, a obbligare il «cedente» alla verifica dell'autorizzazione in capo al soggetto privato cui i rifiuti sono conferiti sono gli articoli 178 e 188 del dlgs 152/2006 (laddove si impongono sia il principio di precauzione che l'espressa prescrizione di controllo sul detentore, che «consegna i rifiuti a un raccoglitore autorizzato»). A queste vanno però aggiunte le più particolari disposizioni relative al tracciamento dello spostamento dei rifiuti, sia che avvenga tramite lo storico regime cartaceo (formulario di trasporto dei rifiuti) che attraverso il nuovo sistema di controllo telematico (il noto Sistri, già in vigore dallo scorso 01.10.2013 per i gestori).
In caso di utilizzo del primo sistema, il detentore che consegna i rifiuti ad altro soggetto (autorizzato) è infatti esonerato da responsabilità solo ove riceva il formulario controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro 3 mesi dal conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero ove alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a dare comunicazione alla Provincia della mancata ricezione del documento.
In caso di utilizzo del «Sistri» (dal prossimo 03.03.2014 obbligatorio anche per enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi) la responsabilità del soggetto che li conferisce è invece esclusa solo con il ricevimento, tramite l'apposita casella di posta elettronica attribuitagli dal sistema, della comunicazione di accettazione dei rifiuti da parte dell'impianto di trattamento o, in caso di mancato ricevimento della stessa nei 30 giorni successivi al conferimento al trasportatore, di una relativa segnalazione fatta sia al Sistri che alla provincia competente.
Nel caso di tracciamento «ibrido», il soggetto conferente che non opera in ambiente Sistri (come il produttore di rifiuti speciali non pericolosi, per il quale l'utilizzo del sistema telematico è mera facoltà) che consegna i rifiuti a «soggetto Sistri» vede la sua responsabilità venire meno solo con la ricezione, o denuncia dei mancata ricezione, della copia cartacea della «scheda Sistri-Area Movimentazione» che il gestore dell'impianto di trattamento deve trasmettergli all'atto dell'accettazione dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 17.02.2014).

ENTI LOCALIMulte, obblighi dal 2015. Ma occorre tenere una contabilità separata. Una nota dell'Anci sulla ripartizione dei proventi da autovelox.
Nessun obbligo per i comuni di ripartizione dei proventi delle multe stradali, almeno fino a quando non sarà emanato il decreto interministeriale attuativo, atteso ormai da oltre un anno. E anche quando arriverà il regolamento, gli obblighi a carico dei municipi, di comunicare al ministero delle infrastrutture e al ministero dell'interno gli introiti delle violazioni dei limiti di velocità, scatteranno solo dall'esercizio finanziario successivo «e in ogni caso dall'esercizio finanziario successivo a quello in corso».
Quindi dal 2015. Nel frattempo però i comuni dovranno fare attenzione, tenendo una contabilità separata degli introiti (quelli relativi alle multe per autovelox e quelli relativi ad altre violazioni). Perché dal 2015 (se il dm arriverà come si spera quest'anno) dovranno provvedere a versare anche la quota di introiti relativa al 2014.

Con una nota interpretativa, l'Anci interviene sulla annosa querelle che da oltre un anno agita gli enti locali che non sanno come dare applicazione alla legge n. 120/2010 la quale ha riscritto l'art. 142 del codice della strada.
Ma vediamo di ripercorrere i termini del problema. La norma prevede che, per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate con autovelox, i proventi debbano essere ripartiti tra enti proprietari delle strade ed enti accertatori delle sanzioni. Le somme derivanti dalle multe dovranno poi essere destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle strade e al potenziamento dell'attività di controllo (spese di personale comprese).
Ciascun ente locale è chiamato a trasmettere ai due ministeri competenti entro il 31 maggio di ogni anno, una relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza, come risultante da rendiconto approvato nel medesimo anno, e gli interventi realizzati a valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento. In caso di mancata trasmissione della relazione (o di uso dei proventi in modo difforme da quanto previsto) la legge del 2010 stabiliva che gli incassi delle multe da autovelox venissero ridotti del 30%, percentuale poi elevata al 90% dal dl 16/2012 che fa anche scattare responsabilità disciplinare e per danno erariale (con tanto di segnalazione alla Corte conti).
Peccato però che il modello di relazione e le modalità di trasmissione telematica dello stesso non siano mai stati approvati dato che il decreto non ha mai visto la luce. Di qui il caos generato tra gli enti che in attesa del regolamento navigano a vista. L'Anci ha fatto chiarezza non solo sulla ripartizione dei proventi, ma anche sulla modalità di trasmissione. Come detto, la legge richiede espressamente un supporto informatico che però non c'è. Vista l'«assenza di specifiche comunicazioni da parte dei ministeri interessati», secondo l'Anci, «l'incombenza potrà non essere osservata» (articolo ItaliaOggi del 15.02.2014).

APPALTIOperativa la procedura per il rilascio. Crediti p.a., parte il Durc.
Via libera alle richieste del Durc da parte delle imprese creditrici nei confronti delle pa. Sul sito del ministero dell'economia, dov'è operativa la piattaforma per la certificazione dei crediti (cd sistema Pcc), è stata attivata la nuova funzionalità che consente di produrre e ottenere il codice attraverso il quale Inail, Inps ed eventualmente casse edili (per le imprese di questo settore) possono rilasciare il documento di regolarità contributiva.

Lo rende noto l'Inail nella
nota 13.02.2014 n. 1123 di prot. che porta in allegato una guida predisposta dallo stesso ministero dell'economia.
In pratica, le imprese interessate dovranno registrarsi sul sistema Pcc ed effettuare la «Richiesta di rilascio del Durc» nella piattaforma. Fatto ciò dovranno salvare la richiesta, identificata da un numero di protocollo, su un dispositivo elettronico, oppure stamparlo. All'interno della richiesta è riportato il «codice di verifica» senza il quale Inps, Inail e casse edili non possono effettuare la verifica della sussistenza e dell'importo dei crediti certificati per attestare la regolarità ai fini del rilascio del Durc.
A questo punto, l'impresa può effettuare la richiesta del Durc nella maniera tradizionale, cioè sul sito www.sportellounicoprevidenziale.it e trasmettere a Inps, Inail e cassa edile la «richiesta di emissione Durc» effettuata nel sistema Pcc. Gli istituti avviano i controlli; l'Inail, in particolare, esamina la situazione dell'impresa richiedente e in presenza di titoli insoluti quantifica l'ammontare dei debiti e comunica via Pec a Inps e cassa edile l'importo dell'irregolarità. Lo stesso faranno Inps e cassa edile. Una volta che è stato quantificato l'ammontare complessivo dei debiti dell'impresa nei confronti di Inail, Inps e cassa edile, scatterà la «verifica capienza per l'emissione del Durc».
Se l'importo dei crediti certificati è almeno pari all'importo dell'irregolarità contributiva, la procedura terminerà con l'emissione del Durc, altrimenti ci sarà l'emissione di un Durc negativo. La stessa procedura, precisa infine l'Inail, vale anche nel caso in cui il Durc venga richiesto da una stazione appaltante o da un'amministrazione procedente (acquisizioni d'ufficio) (articolo ItaliaOggi del 15.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARoghi illeciti, si rischia il carcere. Pena aumentata per le imprese e per le operazioni nelle aree in emergenza. Giustizia. Pubblicata la legge di conversione del decreto legge sulla Terra dei fuochi: nuovo reato nel Codice ambientale.
Pugno di ferro contro i roghi illeciti di rifiuti dopo il caso terra dei fuochi, con il debutto di un reato che va a integrare il Codice ambientale di una nuova fattispecie.
È approdata sulla «Gazzetta Ufficiale» dell'8 febbraio la legge 06.02.2014, n. 6, la quale, con modifiche, ha convertito il Dl 10.12.2013, n. 136, il cosiddetto "decreto terra dei fuochi". Il provvedimento è entrato in vigore il giorno successivo, e cioè lo scorso 9 febbraio.
L'articolo 3 del provvedimento è dedicato alla «combustione illecita dei rifiuti», che ora diventa una nuova specifica ipotesi di reato punita con la reclusione da tre a sei anni. Un reato di pericolo che si aggiunge a quelli già previsti in materia di rifiuti dal Codice ambientale (decreto legislativo 152/2006), che ora si arricchisce con il nuovo articolo 256-bis. La norma si applica su tutto il territorio nazionale anche se prende spunto dai tragici roghi che, da due decenni, offendono il territorio ricompreso tra Napoli e Caserta.
A ben guardare, tuttavia, il nuovo articolo 256-bis aggiunto al Codice ambientale introduce due ipotesi delittuose; infatti, il comma 1 si applica a «chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata». Invece, il comma 2 si applica a chi (soggetto privato o impresa) deposita o abbandona rifiuti, oppure li rende oggetto di un transito transfrontaliero illecito in funzione della loro «successiva combustione illecita».
Per le previsioni delittuose di entrambi i commi è prevista la reclusione tra i 2 e i 5 anni per i rifiuti non pericolosi, che aumenta da 3 a 6 se i rifiuti sono pericolosi. L'entità della pena giustifica la custodia cautelare in carcere. In sede di conversione, sono state introdotte le aggravanti che aumentano la pena di un terzo se il reato è commesso in un territorio il quale, all'atto della condotta e «comunque nei cinque anni precedenti», era in situazione di emergenza ai sensi della legge 225/1992.
Stesso aumento di pena se il delitto è commesso nell'ambito dell'attività di un'impresa o di un'attività comunque organizzata. Tutto questo, invece, non si applica alla combustione dei «rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali», a cui invece si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 3.000 euro (aumentata fino al doppio se i rifiuti sono pericolosi). In ogni caso, e opportunamente, tutto questo apparato sanzionatorio si applica «salvo che il fatto costituisca più grave reato» (si pensi al disastro doloso aggravato per il quale è prevista la reclusione da 3 a 12 anni).
Il comma 3 del nuovo articolo 256-bis pone la responsabilità per «omessa vigilanza sull'operato degli autori materiali del delitto» a carico del titolare dell'impresa o del responsabile dell'attività organizzata anche non in forma di impresa. Costoro saranno puniti anche con le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, del Dlgs 231/2001: interdizione dall'esercizio dell'attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; divieto di contrattare con la pubblica amministrazione (salvo per ottenere prestazioni di pubblico servizio); esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi.
I mezzi usati per il trasporto dei rifiuti bruciati saranno confiscati a meno che il mezzo appartenga a persona estranea alle condotte e questa non abbia operato in concorso con i responsabili
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2014).

PATRIMONIODismissioni con iter alleggerito. Anche gli enti locali potranno usare la trattativa privata - Possibile sanare gli abusi edilizi. Immobili pubblici. Come cambia la procedura da seguire dopo le modifiche introdotte con il decreto legge Imu-Bankitalia.
Con una sanatoria delle opere abusive e la possibilità per Comuni e Province di attivare la trattativa privata arrivano nuovi incentivi per le dismissioni di immobili pubblici, compresi quelli degli enti locali. Le novità sono contenute nell'articolo 3 del decreto legge n. 133/2013 (il decreto Imu-Bankitalia) convertito nella legge 5/2014.
Le novità si innestano sulle disposizioni dell'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 che contiene la procedura per la dismissione dei beni immobili pubblici: in pratica, il ministero dell'Economia autorizza con proprio decreto l'agenzia del Demanio a vendere con trattativa privata i beni immobili appartenenti al patrimonio pubblico.
Ora l'articolo 3 del Dl 133/2013 introduce tre previsioni nell'articolato contesto normativo sulla dismissione dei beni pubblici:
   - si consente di sanare eventuali irregolarità edilizie presenti nell'immobile alienato;
   - si chiarisce quale sia la destinazione d'uso dei beni che possono essere oggetto di alienazione;
   - si conferisce agli enti territoriali la possibilità di accedere alla procedura finora applicata alla vendita dei beni demaniali per l'alienazione dei propri beni immobili.
Viene esteso alle cessioni contemplate dall'articolo 11-quinquies del Dl 203/2005 (cioè le vendite a trattativa privata da parte dell'agenzia del Demanio autorizzate) il ricorso all'istituto del condono per sanare le eventuali irregolarità edilizie commesse nelle strutture dei beni. In particolare, attraverso il rinvio alla legge n. 47/1985 (e precisamente all'articolo 40, comma 6) si concede al privato acquirente di un immobile di presentare la domanda di sanatoria entro un anno dalla data dell'atto di trasferimento. Ovviamente si deve trattare di irregolarità edilizie non altrimenti sanate (ad esempio, interventi realizzati fuori dai limiti temporali previsti dalle passate leggi sui condoni edilizi del 1985, 1994 e 2003) e che non rientrino tra le opere non suscettibili di sanatoria (ad esempio, opere senza titolo eseguite su aree sottoposte a vincoli assoluti di inedificabilità).
La destinazione d'uso
La seconda novità del decreto Imu-Bankitalia riguarda la destinazione d'uso degli immobili da dismettere: nella previgente versione della norma, si consentiva all'agenzia del Demanio di vendere beni immobili ad «uso non abitativo». Questa formulazione ha fatto sorgere non poche questioni interpretative soprattutto con riguardo a quei beni con destinazione mista, prevalentemente non abitativa ma con locali destinati ad alloggio (si pensi a un edificio con destinazione in parte residenziale e in parte ad uffici).
La modifica ora elimina questi problemi interpretativi, riformulando il precetto normativo con l'inserimento dell'avverbio «prevalentemente»: di fatto, oggi, potranno essere oggetto di trattativa privata con l'agenzia del Demanio gli immobili ad uso non prevalentemente abitativo appartenenti al patrimonio pubblico. La prevalenza dell'uso non abitativo, per una più chiara ed agevole applicazione del precetto, dovrà intendersi in rapporto alla superficie dell'intero immobile.
Gli enti territoriali
Con l'ultima previsione normativa si introduce una nuova procedura per la dismissione di beni immobili di proprietà degli enti territoriali. Comuni, Province, Città metropolitane e ogni altro ente territoriale (ma anche le Regioni) potranno decidere di dismettere propri beni e affidare la vendita all'agenzia del Demanio che, previa autorizzazione ministeriale, procederà con trattativa privata. Secondo la procedura delineata dal legislatore:
   - gli enti territoriali dovranno individuare i beni che intendono dismettere con propria delibera;
   - la delibera, oltre ad individuare i beni, conferirà mandato al ministero dell'Economia di procedere secondo l'articolo 11-quinquies, primo comma, del Dl 203/2005;
   - il Ministero potrà inserire i beni individuati dagli enti territoriali nel proprio decreto dirigenziale di autorizzazione dell'agenzia del Demanio a vendere.
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Urbanistica. L'ostacolo principale alle valorizzazioni.
Resta il nodo del cambio d'uso.

La valorizzazione degli immobili pubblici, intesa nel senso della loro cessione per ottenerne il controvalore in denaro, passa attraverso tre elementi essenziali: la procedura di vendita del bene, la destinazione d'uso dell'immobile, la verifica della sua conformità edilizia. L'articolo 3 del Dl 133/2013, convertito nella legge 5/2014, opera su tutti e tre questi elementi per agevolare la dismissione del patrimonio pubblico gestito dall'agenzia del Demanio.
Sotto il profilo procedurale, la disposizione del 2005 che già prevedeva la vendita a trattativa privata da parte dell'Agenzia viene estesa anche agli enti territoriali che, quindi, ora potranno conferire mandato al ministero dell'Economia per inserire i beni immobili individuati con delibera dagli stessi enti nei propri decreti di autorizzazione a vendere. Per trattativa privata si intende la negoziazione diretta tra i soggetti interessati sulle condizioni e le clausole pattizie che regoleranno il futuro contratto di vendita.
Rispetto alla destinazione d'uso, la norma chiarisce che i beni oggetto di alienazione dovranno avere uso «non prevalentemente abitativo». La norma così non affronta il vero tema delle modalità procedurali necessarie per cambiare la destinazione d'uso del patrimonio pubblico, la cui valorizzazione mediante dismissione richiede spesso l'abbandono delle funzioni pubblicistiche verso usi pienamente privati. Non bisogna dimenticare, infatti, che gli uffici pubblici sono spesso considerati dai piani regolatori come immobili a servizio pubblico (standard urbanistici), con la conseguenza che la loro vendita per un utilizzo a servizi pienamente privati impone una variante allo strumento urbanistico, oltre alla corresponsione del controvalore della quota di standard persi.
Infine, rispetto al condono edilizio, va detto che molte procedure di dismissione del patrimonio pubblico prevedevano a valle dell'acquisto la possibilità di sanare gli abusi edilizi che distinguono (anche) gli immobili della Pa. Al riguardo è possibile fare l'esempio del comma 19 dell'articolo 3 del Dl 151/2001, che consente di presentare la domanda di sanatoria per le opere abusive presenti nei beni acquistati dai privati da società di cartolarizzazione o da fondi di investimento. Da tale possibilità erano escluse le vendite effettuate attraverso la trattativa privata che ora viene così potenziata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati, parcelle senza segreti. Il cliente deve conoscere tempi e costi della controversia. Gli adempimenti previsti dal codice deontologico forense, approvato dal Cnf.
Rapporti in chiaro tra avvocato e cliente. All'atto del conferimento dell'incarico al legale, infatti, la parte assistita deve contestualmente essere informata: della complessità e delle ipotesi di soluzione della controversia, della durata del processo e degli oneri preventivabili, che il cliente può richiedere siano messi per iscritto. Da controllare, anche, che l'avvocato renda noti gli estremi della polizza assicurativa ed emetta fattura fiscale per ogni pagamento avvenuto.
Sono alcune delle regole che disciplinano il rapporto tra avvocato e cliente contenute nel nuovo codice deontologico forense, approvato dal Cnf (si veda ItaliaOggi del 5 febbraio scorso), che stringe anche le maglie su adempimenti contributivi e pratiche scorrette per attirare clienti.
Il rapporto avvocato-cliente. Una delle parti più importanti del nuovo codice deontologico forense riguarda il rapporto tra l'avvocato e il cliente, dove sono indicati quali sono i diritti della parte assistita. Che deve essere informata, all'atto dell'assunzione dell'incarico da parte dell'avvocato, delle caratteristiche e dell'importanza della controversia e delle attività da espletare, con precisazione delle iniziative e delle ipotesi di soluzione.
L'avvocato deve informare il cliente anche sulla prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili, e, su richiesta, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l'incarico professionale, il prevedibile costo della prestazione. Deve poi mettere per iscritto la possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione previsto dalla legge e, ove ne ricorrano le condizioni, all'atto del conferimento dell'incarico, deve informare la parte assistita della possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello stato. Ancora, l'avvocato deve rendere noti al cliente gli estremi della propria polizza assicurativa.
Ogni volta ne venga richiesto, è anche tenuto a informare la parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui affidato, e deve fornire loro copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l'oggetto del mandato e l'esecuzione dello stesso sia in sede stragiudiziale che giudiziale. L'avvocato deve infine comunicare al cliente la necessità del compimento di atti necessari a evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso.
Adempimenti e paletti. Oltre ai numerosi obblighi informativi dell'avvocato nei confronti del cliente, il nuovo codice detta le regole per esercitare la professione forense: dagli adempimenti fiscali, previdenziali, assicurativi, contributivi. Ai divieti di stringere patti di quota lite, di pubblicità comparativa, di siti web con banner pubblicitari, di accaparrarsi la clientela o esercitare la professione in luoghi pubblici. Stringendo così il cerchio sui tanti avvocati che, complice la crisi e la «proletarizzazione» della professione, non riescono a pagare i contributi o le provano tutte pur di conquistare qualche cliente in più.
La corretta informazione sulla propria attività professionale consiste nel rispetto dei doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, con riferimenti alla natura e ai limiti dell'obbligazione professionale. L'avvocato, inoltre, non deve dare informazioni comparative rispetto ad altri professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l'attività professionale.
Regole stringenti anche per la pubblicità e l'uso del web: l'avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell'ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso. Che, inoltre, non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l'indicazione diretta sia mediante strumenti di collegamento interni o esterni. Le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, devono inoltre essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Stretta sull’incendio dei rifiuti. Obbligo di risarcimento del danno ambientale per tutti. Dalla Legge di conversione del dl emergenze ambientali. Sanzioni 231 per le aziende.
Sanzioni interdittive per le imprese coinvolte nella combustione illecita di rifiuti e aumento della pena detentiva per i relativi titolari cui il reato sia riconducibile anche a mero titolo di omessa vigilanza. E obbligo di risarcimento del danno ambientale per chiunque, anche al di fuori di attività professionale, comprometta l’ecosistema.
Esce così inasprito dall’ultimo e definitivo passaggio parlamentare della relativa legge di conversione il nuovo delitto di incendio non autorizzato di rifiuti introdotto dal dl 136/2013 sulle «emergenze  ambientali» (altrimenti detto «decreto Terra dei fuochi»).
La legge di conversione approvata in via definitiva il  05.02.2014 dal senato conferma l’impianto dell’illecito introdotto nel «Codice Ambientale» dall’originario decreto legge allargandone al contempo sia il campo di applicazione sia l’apparato sanzionatorio.
Condotta punibile più ampia. Alla luce della legge di conversione del dl 136/2013 il precetto del nuovo articolo 256-bis del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») appare del seguente tenore: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito (…)».
Non è più dunque necessario che l’incendio sia effettuato in «aree non autorizzate». Sparendo dalla disposizione originaria tale riferimento, per l’integrazione del reato dal punto di vista  oggettivo è infatti sufficiente appiccare ... (articolo ItaliaOggi Sette del 10.02.2014).

APPALTI: Via libera al Durc per i creditori della p.a.. L'Inps ha spiegato le modalità per il rilascio del documento.
Con la circolare 30.01.2014 n. 164, sono state previste le modalità per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (c.d. Durc), che può essere consegnato al richiedente in presenza di certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni ed emessa tramite la «Piattaforma per la certificazione dei crediti».
Come è noto, il problema della riscossione dei crediti che i soggetti privati vantano nei confronti della pubblica amministrazione, ha trovato la modalità di attuazione dell'art. 13-bis, comma 5, del dl 07/05/2012, n. 52 convertito, con modificazioni, dalla legge 6/7/2012, n. 94. Successivamente sono stati emanati alcuni decreti ministeriali di attuazione per consentire l'ottenimento della certificazione.
Il suddetto comma 5 prevede che il ... (articolo ItaliaOggi del 07.02.2014 - tratto da www.cenctrostudicni.it).

aggiornamento al 21.01.2014

SICUREZZA LAVOROPer il settore degli spettacoli le regole sui cantieri mobili. Sicurezza. Un decreto ministeriale sarà emanato entro il 31 dicembre.
Entro il prossimo 31 dicembre il ministero del Lavoro dovrà emanare un decreto che consentirà di estendere le regole in tema di cantieri mobili previste dal Testo Unico sicurezza sul lavoro ai palchi utilizzati negli spettacoli musicali e negli eventi teatrali, cinematografici e fieristici.
Come noto, i palchi non sono ponteggi fissi e, per questo motivo, non sono soggetti alle norme di sicurezza relative a tali strutture. Prima che fosse approvato il cosiddetto Decreto del fare (Dl 69/2013, convertito con la legge 98/2013), anche le norme sui cantieri mobili e temporanei contenute nel Testo Unico erano di dubbia applicazione. Tale situazione si traduceva in procedure alquanto farraginose e inefficaci: per montare un palco, erano sufficienti la comunicazione al Comune di competenza e la predisposizione di una relazione tecnica.
Il Decreto del fare ha sbloccato tale situazione, estendendo anche gli eventi musicali, teatrali, cinematografici e fieristici la normativa sui cantieri mobili, ma la novità sarà operativa solo dopo l'emanazione del decreto ministeriale sopra ricordato.
Tale decreto dovrà individuare quali delle attività connesse al montaggio e allo smontaggio dei palchi saranno soggette alle misure di sicurezza già operanti per i cantieri temporanei e mobili. Secondo le prime indiscrezioni, il decreto sembra destinato a non fare distinzioni tra attività escluse ed attività incluse, optando quindi per un ambito di applicazione molto ampio delle norme sui cantieri mobili.
A prescindere dai possibili contenuto del decreto, tuttavia, il problema della sicurezza nello spettacolo richiede uno sforzo che va oltre la semplice modifica delle regole. Come è stato messo in evidenza ieri nel convegno promosso a Trieste da una serie di enti pubblici (Comune di Trieste, Regione Friuli Venezia Giulia, Inail, Ass Triestina, Inail) e organizzato in memoria di Francesco Pinna, il giovane morto a Trieste per il crollo del palco che stava collaborando a costruire, la prevenzione dei rischi per i lavoratori addetti al montaggio e allo smontaggio dei palchi per gli spettacoli non è soltanto un problema normativo.
Diversi relatori intervenuti al convegno hanno sottolineato la necessità di adottare modelli organizzativi e produttivi meno frammentati di quelli attuali. Gli spettacoli musicali sono oggi realizzati mediante la partecipazione di un numero molto elevato di imprese; non è raro che nello stesso luogo di lavoro siano compresenti decine e decine di datori di lavoro diversi, con personale assunto mediante tipologie contrattuali altrettanto differenti. Questa situazione non aiuta la prevenzione dei rischi, in quanto rende difficile il coordinamento delle misure e l'individuazione delle responsabilità, spesso parcellizzate in un numero troppo alto di soggetti
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARaee, debutta il fotovoltaico. Rifiuti elettrici. Il Cdm ha varato ieri lo schema di decreto legislativo.
Quasi pronto il nuovo sistema legislativo per la gestione dei Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) destinato a sostituire l'attuale Dlgs 151/2005.
Ieri, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima lettura, lo schema di decreto legislativo per l'attuazione della direttiva 2012/19/Ue. Ora il testo sarà sottoposto all'esame della Conferenza unificata Stato-Regioni e delle competenti commissioni parlamentari.
Il testo nazionale, al pari della direttiva, estende e chiarisce il campo di applicazione; innalza gli obiettivi di raccolta, recupero e riutilizzo; frena le spedizioni all'estero. La qualificazione degli impianti di trattamento resta, però, un punto delicato perché non sembra essere compiutamente affrontato; infatti, pur richiedendo l'iscrizione degli impianti al centro di coordinamento Raee, il testo non riconosce a tale Centro adeguati poteri per la verifica periodica né chiarisce quali siano i requisiti da rispettare.
Fino al 14.08.2018 vige un periodo transitorio e il decreto si applica alle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee) indicate nell'allegato I (si aggiungono, tra poche altre, i pannelli fotovoltaici, ma restano molto simili a quelle finora previste dal Dlgs 151/2005), con alcune esclusioni (per esempio il materiale bellico e le lampade a incandescenza). Dal 15.08.2018, invece, il campo di applicazione si apre e la disciplina si applica a tutte le Aee (classificate in sei categorie nell'allegato III), con poche esclusioni (per esempio i dispositivi medici se infetti). Il campo di applicazione potrebbe cambiare ancora perché entro il 14.08.2015, la Commissione Ue lo riesaminerà.
La raccolta prevede almeno 4 chili/abitante fino al 31.12.2015 ed entro il 01.01.2019 dovrà raggiungere il 65%/anno delle Aee immesse sul mercato nei tre anni precedenti oppure l'85% dei Raee prodotti in Italia. Per recupero, riciclaggio e preparazione per il riutilizzo gli obiettivi variano in base alle categorie di Raee e ai periodi (transitorio e a regime) e sono compresi tra il 50 e l'85%.
Per ridurre al minimo lo smaltimento dei Raee misti con altri rifiuti nei cassonetti, i centri di raccolta comunale accettano gratuitamente i Raee portati dai cittadini, dai distributori e dai gestori dei centri di assistenza tecnica, purché prodotti nel territorio ove è ubicato il centro di raccolta, a meno di apposita convenzione con il Comune. Per i punti vendita di grande superficie (di almeno 400 mq), all'obbligo di ritiro del Raee nel caso di acquisto di un'Aee nuova, si aggiunge quello di ritiro di Raee di piccolissime dimensioni, anche senza acquisto del nuovo ("uno contro zero"). Si tratta di Raee con dimensioni esterne non superiori a 25 cm.
Per arginare la piaga delle esportazioni nei Paesi in via di sviluppo di Raee "mascherati" da Aee usate, l'allegato VI reca i requisiti minimi che il possessore deve dimostrare; in difetto, si presume che si tratti di un tentativo di esportazione illegale di Raee (si deroga in caso di accordo di trasferimento tra imprese di Aee difettose da restituire o riparare). Le spese per analisi, ispezioni e deposito di Aee usate sospettate di essere Raee possono essere poste a carico dei produttori, dei Sistemi collettivi o di chi organizza la spedizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2013).

LAVORI PUBBLICISubappaltatori pagati da chi fa l'appalto. Una norma del decreto sviluppo sblocca i cantieri. Expo: riassegnazioni di fondi per 165 mln.
Per non bloccare i cantieri, negli appalti pubblici i subappaltatori potranno essere pagati direttamente dalla stazione appaltante in caso di particolare urgenza e in pendenza di una procedura di concordato preventivo; per l'Expo 2015 previste revoche e riassegnazioni per 165 milioni; niente Iva sui project della Tem e della Pedemontana.
Sono questi alcuni dei punti più rilevanti del decreto-legge «Destinazione Italia», approvato ieri dal Consiglio dei ministri, relativi agli appalti pubblici e all'Expo 2015.
Prosecuzione degli appalti e pagamento subappaltatori. Lo schema di decreto-legge affronta le problematiche derivanti dalle crisi aziendali che toccano sempre più imprese di costruzioni e le inevitabili conseguenze rispetto alla prosecuzione degli appalti in corso. In particolare, per consentire il completamento dell'esecuzione del contratto di appalto e per condizioni di particolare urgenza, viene stabilito che la stazione appaltante –anche in deroga al bando di gara– possa procedere al pagamento diretto dei corrispettivi ai subappaltatori e ai cottimisti per quanto da essi eseguito.
Inoltre si prevede che nella pendenza di una procedura di concordato preventivo, la stazione appaltante possa pagare distintamente l'appaltatore principale e i subappaltatori, secondo le istruzioni impartite dal Tribunale competente, in modo da salvaguardare sia la parità di condizione tra i creditori dell'appaltatore in crisi aziendale, sia la prosecuzione dell'appalto. Ciò, ovviamente, laddove il bando non abbia già previsto il pagamento diretto dei subappaltatori o dei cottimisti. Si estende, infine, il regime di svicolo delle garanzie di buona esecuzione previsto dall'articolo 237-bis del codice degli appalti anche ai settori «speciali» (acqua, energia e trasporti) e anche per i contratti in essere.
Expo 2015. Il provvedimento interviene prevedendo meccanismi di revoca e rassegnazione di fondi per ottimizzare l'impiego delle risorse disponibili. Per quel che riguarda le somme oggetto della revoca delle assegnazioni disposte dal Cipe, complessivamente pari a 165,390 milioni, vengono destinate prioritariamente, per 53,2 milioni, a opere di connessione indispensabili per lo svolgimento dell'Expo 2015, al cui finanziamento vengono anche destinati ulteriori 42,8 milioni per l'anno 2013 (per un ammontare complessivo di 96 milioni) a valere sul fondo di cui all'articolo 18, comma 1, del decreto legge n. 69/2013, già assegnati dal Cipe con delibera del 09.11.2013 alla linea M4 della metropolitana di Milano e ritenuti non necessari nell'immediato.
A quest'ultimo intervento vengono contestualmente destinati 42,8 milioni a valere sulle risorse derivanti dalle revoche, al fine di mantenere inalterato l'ammontare complessivo del contributo assegnato dal Cipe in attuazione dell'articolo 18, comma 3, del decreto legge n. 69/2013. Quarantacinque milioni vengono indirizzati ad interventi per l'accessibilità ferroviaria dell'aeroporto di Malpensa. Infine si prevede che le risorse residuali derivanti dalle revoche siano destinate a interventi immediatamente cantierabili finalizzati al miglioramento della competitività dei porti italiani e al trasferimento ferroviario e modale all'interno dei sistemi portuali. Molto importante, in prospettiva, è l'estensione (dal 2008 al 2010) dell'arco temporale del termine entro il quale deve essere avvenuta l'assegnazione delle risorse da parte del Cipe, con ciò amplia il plafond delle risorse che possono essere revocate e riutilizzate per opere immediatamente cantierabili.
Una norma specifica riguarda poi la chiusura del closing finanziario e la prosecuzione dei lavori in corso relativi alla Tangenziale esterna est di Milano e alla Pedemontana Veneta. La norma chiarisce infatti che i contributi di 330 milioni e di 370 milioni stanziati per le due opere, strettamente necessari per garantire l'equilibrio economico-finanziario e la prosecuzione dei cantieri dei due progetti, non siano assoggettabili a Iva, come previsto dai piani economico-finanziari (articolo ItaliaOggi del 14.12.2013).

INCARICHI PROGETTUALIAppalti, arrivano i parametri. Fissati i corrispettivi a base di gara dei servizi professionali. Via libera della Corte dei conti al decreto. Torna la liquidazione forfettaria delle spese.
Via libera della Corte dei conti ai nuovi parametri per i servizi professionali di ingegneria e architettura. Dal prossimo anno quindi si cambia e le stazioni appaltanti finalmente avranno riferimenti certi per determinare l'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria e architettura.
Dopo la registrazione della Corte dei conti che ne ha accertato la sostenibilità dal punto finanziario, infatti, il decreto ministeriale (giustizia di concerto con infrastrutture) che determina «i corrispettivi a base di gara per gli affidamenti di contratti di servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria» è pronto per essere pubblicato a giorni in Gazzetta Ufficiale. Si tratta di un provvedimento dall'elaborazione complessa ma necessario, dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni (1/2012) aveva cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per stimare, di conseguenza, l'importo economicamente più corretto per le procedure di affidamento professionale.
Proprio per sanare tale criticità il governo era intervenuto con un ulteriore decreto stabilendo che per determinare i corrispettivi da porre a base di gara si sarebbero applicati i parametri individuati appunto con un decreto che avrebbe definito anche «le classificazioni delle prestazioni professionali relative ai predetti servizi». Il provvedimento richiama nella valutazione del compenso quanto stabilito nel decreto relativo ai parametri giudiziali (140/2012) prevedendo anche la classificazione dei servizi professionali, tenendo conto della categoria dell'opera e del grado di complessità. Il compenso sarà infatti determinato dalla somma dei prodotti tra il costo delle singole categorie che compongono l'opera, la sua specificità e la complessità delle prestazioni.
Torna poi la liquidazione forfettaria delle spese che secondo il provvedimento è determinato secondo percentuali standard degli oneri sostenuti dal professionista. Tra le modifiche introdotte dopo l'approvazione del Consiglio di stato quella che specifica che «il corrispettivo non deve» (e non più «non può») determinare un importo a base di gara superiore a quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali vigenti prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto-legge. Nulla viene detto, invece, su chi deve controllare che il corrispettivo non determini importi a base d'asta superiori a quello derivanti dall'applicazione del vecchie tariffe (dm 04/04/2001 e legge 143/1949).
Il Cds infatti (condividendo la richiesta del Consiglio superiore dei lavori pubblici e dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici) aveva chiesto al ministero della giustizia di inserire un passaggio per affermare la competenza della stazione appaltante sulla verifica del rispetto del vincolo tariffario. Ma questo secondo i piani alti di Via Arenula avrebbe rappresentato un'inutile complicazione burocratica, con un aggravio di costi (articolo ItaliaOggi del 14.12.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIPos obbligatorio. Anzi no. Necessario un decreto attuativo, che non c'è. Da Bankitalia i chiarimenti sull'adempimento in vigore fra pochi giorni.
Anche se arrivasse l'apposito decreto con le disposizioni attuative entro il 01.01.2014, i professionisti potranno tranquillamente continuare a incassare i compensi tramite bonifico bancario in base a un accordo con il cliente. L'articolo 15 del decreto legge 179/2012, infatti, non introduce a partire dal prossimo anno un obbligo di utilizzo di strumenti di pagamento elettronico a carico del pagatore, bensì solo un obbligo di accettazione della carta di debito a carico del venditore di beni e servizi.

È quanto chiarisce Banca d'Italia in risposta alla lettera di Federarchitetti inviata qualche settimana fa.
In questi ultimi mesi, molte sono state le iniziative contro la norma varata dall'allora Governo Monti: dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro che per prima ha messo in luce l'inapplicabilità dell'obbligo senza il decreto del ministero dello sviluppo economico a Inarsind (altro sindacato di architetti e ingegneri) che ha invitato i suoi iscritti a non dotarsi di Pos in studio, passando per la protesta telematica di un gruppo di professionisti che su Facebook sta riscuotendo molti consensi.
Tutti d'accordo che si tratta di un regalo alle banche, considerando la commissione da pagare su ogni transazione e il canone per l'utilizzo dello strumento di pagamento elettronico. Premette Bankitalia che «la finalità della norma è quella di favorire una più efficace azione di contrasto a fenomeni di illecito in campo finanziario e fiscale». Quanto ai costi dell'operazione, la Banca centrale cerca di smorzare le polemiche di questi mesi spiegando che «il mercato delle soluzioni Pos offre prodotti sempre più avanzati e diversificati sotto il profilo sia tecnologico sia tariffario. Soluzioni innovative sono disponibili per l'accettazione di pagamenti anche al di fuori dei tradizionali punti vendita, ad esempio attraverso l'utilizzo di dispositivi mobili collegabili a computer, smartphone o tablet, con formule tariffarie spesso a misura delle diverse categorie di clientela».
Tuttavia resta fondamentale l'emanazione del provvedimento attuativo dell'articolo 15 del dl 179/2012 di cui al momento non c'è traccia. «Abbiamo una produzione normativa ballerina», denuncia il presidente di Federarchitetti Paolo Grassi, «che ci fa perdere solo del tempo. Si poteva già chiarire tutto nella norma primaria, invece no. Così oggi ci ritroviamo un obbligo che è semplicemente un intralcio inutile». «Il problema non è la tracciabilità dei pagamenti», aggiunge Rosario De Luca, presidente del centro studi dei consulenti del lavoro, «bensì il fatto che si impone ai professionisti di fare un regalo alle banche di circa due miliardi di euro. Se lo Stato ritiene necessario questo adempimento noi siamo disponibili a farlo, purché sia per noi a costo zero» (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Housing sociale, largo agli aumenti di cubatura
Possibile un incremento di cubatura del 20% delle superfici per interventi edilizi di housing sociale; previsti anche cambi di destinazione d'uso e deroghe urbanistiche anche su interventi in corso.

E' quanto prevede la norma che il Ministero delle infrastrutture ha aggiunto al decreto-legge sull'housing sociale (vedi Italia Oggi del 05.12.2013), che dovrebbe essere portato all'esame del Consiglio dei Ministri del 20 dicembre, dopo un passaggio in Conferenza Unificata. Le novità dell'articolo aggiuntivo hanno lo scopo in primo luogo di ridurre il disagio abitativo di cui soffrono molti nuclei familiari svantaggiati, ma anche di favorire l'aumento dell'offerta di immobili in locazione a canone sociale, il contenimento del consumo del suolo, il risparmio energetico e le politiche urbane di rigenerazione delle aree per il tramite dello sviluppo dell'housing sociale.
Proprio la nozione di alloggio sociale, aggiornata rispetto a quella attuale, è centrale nella nuova norma, che definisce tale l'immobile di edilizia residenziale sociale o di edilizia residenziale pubblica sociale, da affittare in via permanente a soggetti appartenenti a categorie svantaggiate; l'alloggio destinato alla locazione a fini sociali per almeno 15 anni, all'edilizia universitaria convenzionata, alla locazione con patto di futura vendita (ma la locazione deve essere di almeno otto anni), nonché alla proprietà. Le norme contenute nell'articolo aggiuntivo predisposto dal Ministero delle infrastrutture costituiranno principi fondamentali di riferimento per il legislatore regionale che entro novanta giorni dovranno a loro volta definire i requisiti di accesso negli immobili e i parametri di riferimento dei canoni.
Fra gli interventi attuabili in base alla norma vengono espressamente citati: la ristrutturazione edilizia, il restauro o risanamento conservativo, la manutenzione straordinaria; la sostituzione del patrimonio edilizio e la totale demolizione e la ricostruzione con modifica di sagoma nei limiti previsti dall'articolo 30 della legge 98/2013; l'ampliamento della superficie complessiva in misura non superiore al 20% di quella esistente o assentita con incremento graduato in relazione agli obiettivi di contenimento energetico e ad altri parametri che saranno le amministrazioni comunali a definire (sostenibilità ambientale e sociale).
Fra gli interventi figurano anche le variazioni di destinazione d'uso anche senza opere e la creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza, al commercio di prossimità, sempre nel limite del 20% della superficie complessiva comunque ammessa. Dovranno essere effettuate verifiche di sostenibilità economica dei progetti di recupero, riuso o sostituzione edilizia e le superfici in incremento potranno essere cedute o trasferite su altre aree di proprietà pubblica o privata.
Le operazioni previste dalla norma si attueranno sul patrimonio edilizio esistente, compresi gli immobili “non ultimati” e sugli interventi “non ancora avviati ma provvisti di titolo abilitativo rilasciati entro il 31.10.2013, o regolati da convenzioni urbanistiche stipulate entro la stessa data e vigenti al momento di entrata in vigore del decreto-legge". Sono esclusi gli interventi su edifici abusivi, o ubicati nei centri storici o in aree di in edificabilità assoluta. Tutti questi interventi potranno essere effettuati in 14 città metropolitane: Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Trieste, Cagliari, Catania, Messina e Palermo e tutti i comuni inclusi nelle rispettive province (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

SEGRETARI COMUNALIProvince, segretari in bilico. Assieme ai dg cesseranno dagli incarichi il 30 settembre. Un emendamento al ddl Delrio contraddice l'intesa con i sindacati sui posti di lavoro.
Sono dei segretari comunali e dei direttori generali delle province assorbite dalle città metropolitane le prime teste che salteranno.

La commissione affari costituzionali della camera ha presentato un emendamento che va in direzione fortemente contraria alle garanzie sul rapporto di lavoro del personale provinciale, sulle quali si era sperticato il ministro Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati, caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato escludendo proprio l'Upi, cioè le province.
E gli effetti cominciano a vedersi.
L'emendamento all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl Delrio prevede che «il segretario provinciale e il direttore della provincia, in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari non si tratta necessariamente della perdita del posto di lavoro, ma si apre la possibilità di una loro messa a disposizione della struttura operante presso il Viminale e dell'apertura di un percorso, comunque complicato, di ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti negli enti locali non mancano, ma il rischio di un «passo indietro» per i segretari è evidente.
Per quanto concerne i direttori generali, si tratta di incarichi necessariamente a tempo determinato, sicché la scadenza è in qualche modo connaturata alla tipologia stessa del lavoro svolto. Di certo, tuttavia, la legge interviene nel troncare quei rapporti che si sarebbero potuti prolungare anche fino al 2015.
Ma anche per il restante personale provinciale non ci sono buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti della provincia soppressa mantiene la posizione giuridica ed economica in godimento all'atto del trasferimento alla città metropolitana, con riferimento alle voci fisse e continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile, legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla. L'emendamento impone alle città metropolitane di riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del personale, modificando il trattamento accessorio «in relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita non poche perplessità, in quanto la città metropolitana ha ben poco da riorganizzare, visto che subentra in tutto e per tutto nelle funzioni provinciali, sicché gli assetti organizzativi non possono cambiare di molto.
Sembra chiaro il messaggio: acclarato, come ha spiegato la Corte dei conti, che in effetti dal riordino delle province non deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di contenere la spesa è agire sul costo del personale.
La revisione organizzativa è il presupposto per consentire alle città metropolitane di agire esattamente su questa leva, contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà il sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al trattamento del personale provinciale che sarà trasferito dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali potranno ancora a maggior ragione incidere negativamente sul trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali, dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non riesce a garantire (articolo ItaliaOggi del 13.12.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATASospensione del Durc quando scade il «vecchio». La certificazione può sopravvivere all'accertamento degli illeciti. Lavoro. I chiarimenti del ministero in risposta a un quesito dei consulenti.
L'eventuale sospensione del documento unico di regolarità contributiva (Durc) e quindi dei benefici normativi ed economici in forza di una causa ostativa al suo rilascio, opererà necessariamente a far data dalla scadenza di un eventuale Durc (della durata di 120 giorni) rilasciato in precedenza per la stessa finalità.
È quanto afferma il ministero del Lavoro con l'interpello 11.12.2013 n. 33/2013 in risposta alla richiesta di chiarimenti formulata dall'Ordine dei consulenti del lavoro circa la corretta individuazione dell'arco temporale di riferimento di non rilascio del Durc in presenza delle cause ostative indicate nell'allegato A del decreto del ministero del Lavoro del 24.10.2007.
L'articolo 9 del decreto stabilisce che la violazione, da parte del datore di lavoro o del dirigente delle disposizioni penali e amministrative in materia di tutela delle condizioni di lavoro indicate nell'allegato A al decreto, accertata con provvedimenti amministrativi o giurisdizionali definitivi, è causa ostativa al rilascio del Durc per i periodi indicati. La richiamata causa ostativa non sussiste, invece, qualora il procedimento penale sia estinto a seguito di prescrizione obbligatoria ai sensi degli articoli 20 e seguenti del Dlgs n. 758/1994 e dall'articolo 15 del Dlgs n. 124/2004 ovvero di oblazione (articoli 162 e 162-bis C.p.).
L'allegato A, nell'individuare le violazioni che determinano il mancato rilascio del Durc, stabilisce anche i rispettivi periodi di non rilascio del documento. Tali periodi variano da un minimo 3 mesi per le violazioni in materia di riposi giornalieri e settimanali, a un massimo di 24 mesi per le omissioni dolose delle misure di sicurezza.
Una volta esaurito il periodo di «non rilascio del Durc», l'impresa potrà evidentemente tornare a godere dei benefici normativi e contributivi, ivi compresi quei benefici di cui è ancora è ancora possibile fruire in quanto non legati a particolari vincoli temporali.
Così ad esempio sarà possibile usufruire di eventuali benefici legati alla corresponsione di premi di risultato, il cui termine per l'effettiva erogazione sia liberamente scelto dal datore e, quindi, non soggetto a decadenze, ricada in un periodo di assenza di una causa ostativa al rilascio del Durc.
Non sarà invece possibile fruire per tutto il periodo di non rilascio del Durc di benefici concernenti, ad esempio, l'abbattimento degli oneri contributivi nei confronti dell'Inps nel caso in cui gli stessi vengano assolti in base a scadenze legali mensili. In tal caso la regolarità contributiva deve sussistere con riferimento al mese di erogazione ovvero al periodo temporale all'interno del quale si colloca l'erogazione prevista dalla normativa di riferimento che, per ciascun periodo, legittima il datore a fruire dell'agevolazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.12.2013).

TRIBUTIImprese edili, Imu più leggera. Esenzione anche per i fabbricati sottoposti a recupero. Risoluzione delle Finanze sull'agevolazione riconosciuta al cosiddetto magazzino.
L'esenzione dall'Imu per il c.d. «magazzino» delle imprese edili, in vigore dal 01.01.2014, si applica anche per i l fabbricati acquistati dall'impresa costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di incisivo recupero.

A stabilirlo è la risoluzione 11.12.2013 n. 11/DF della Direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze che interviene per la prima volta sulla nuova fattispecie di esenzione dall'imposta municipale propria introdotta l'art. 2, comma 2, del dl 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.10.2013, n. 124.
Questa norma ha disposto infatti l'esenzione dal tributo comunale a decorrere dal 01.01.2014 per «i fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita». Detta esenzione vale fintanto che permanga tale destinazione e purché non siano in ogni caso locati.
La questione sottoposta all'esame dei tecnici del ministero è se nel concetto «fabbricati costruiti» possa farsi rientrare anche il fabbricato acquistato dall'impresa costruttrice sul quale la stessa procede a interventi di incisivo recupero, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettere c), d) e f), del dpr 6 giugno 2001, n. 380. Non si tratta, dunque, di semplici opere di manutenzione ordinaria degli edifici, in quanto detto articolo del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, nell'elencare le varie tipologie di interventi edilizi, individua in via generale:
• alla lettera c) gli «interventi di restauro e di risanamento conservativo», gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili;
• alla lettera d) gli «interventi di ristrutturazione edilizia», rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente;
• alla lettera f) gli «interventi di ristrutturazione urbanistica», rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
La risposta positiva prende le mosse dalla considerazione che, ai fini Imu, l'art. 5, comma 6, del dlgs 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, in caso di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione del fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'art. 3, comma 1, lett. c), d) e f), del dpr n. 380 del 2001, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto stabilito nell'art. 2 del dlgs n. 504 del 1992, senza computare il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito, ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato.
Da quanto esposto si può dedurre che il legislatore ha effettuato una sorta di equiparazione tra i fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero e i fabbricati in corso di costruzione, che sono stati entrambi considerati, ai fini della determinazione della base imponibile Imu, come area fabbricabile fino all'ultimazione dei lavori. Naturalmente, precisa la risoluzione, i fabbricati oggetto degli interventi di incisivo recupero rientrano nel campo di applicazione dell'esenzione introdotta dal citato art. 2 del dl n. 102 del 2013, solo a partire dalla data di ultimazione dei lavori di ristrutturazione.
Si deve, infine, annotare che il comma 1 dell'art. 2, comma 2, del dl n. 102 del 2013 ha stabilito che per l'anno 2013 non è dovuta la seconda rata dell'Imu relativa ai fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati, mentre l'Imu resta dovuta fino al 30 giugno (articolo ItaliaOggi del 12.12.2013).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATADurc negato, c'è la franchigia. Durante lo stop fino a scadenza vale il vecchio documento. Il ministero del lavoro chiarisce in un interpello gli effetti delle cause ostative al rilascio.
Stop al Durc, ma con franchigia. In caso di violazioni che comportano la pena del mancato rilascio del Durc per un determinato periodo di tempo (variabile dai 3 ai 24 mesi), l'impresa non può per tutto questo periodo fruire dei benefici normativi e contributivi (per esempio, sgravi su assunzioni incentivate).
Tuttavia, se l'impresa è già in possesso di un Durc, lo stop dei benefici opererà dalla scadenza del periodo di validità del predetto Durc (120 giorni dal rilascio).

Lo precisa, tra l'altro, il ministero del lavoro nell'interpello 11.12.2013 n. 33/2013.
Durc e cause ostative. I chiarimenti sono stati chiesti dal Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro che ha presentato istanza per sapere la corretta interpretazione del dm 24.10.2007 (disciplina del Durc) in merito all'individuazione dell'arco temporale di riferimento di non rilascio del Durc in presenza delle cause ostative, elencate nella tabella A allegato al predetto decreto.
La predetta tabella contiene la previsione di una serie di violazioni (sicurezza lavoro, orario lavoro, omicidio, lesioni colpose ecc.) in presenza delle quali il datore di lavoro che le ha commesse è punito con il divieto del rilascio del Durc al fine di godere dei benefici «normativi e contributivi» per un determinato periodo di tempo, che va dal minimo di 3 al massimo di 24 mesi.
Tali periodi di «pena», spiega il ministero, decorrono dal momento in cui gli illeciti che ne costituiscono il presupposto sono definitivamente accertati. Ossia quando le violazioni sono state accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con ordinanza ingiunzione non impugnata. Invece non c'è pena perché non si perfeziona il presupposto della causa ostativa, qualora intervenga l'estinzione delle violazioni attraverso la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per il caso di violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta (ex art. 16 della legge). Il datore di lavoro che sia destinatario di tale pena potrà riprendere a godere dei benefici solo una volta esaurito il periodo di non rilascio del Durc.
La «franchigia» del decreto Fare. Il dl n. 69/2013 (convertito dalla legge n. 98/2013) stabilisce che «ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale e per finanziamenti e sovvenzioni previsti dalla normativa dell'Unione europea, statale e regionale, il documento unico di regolarità contributiva (Durc) ha validità di 120 giorni dalla data del rilascio».
La nuova disposizione, secondo il ministero, comporta che l'eventuale sospensione del Durc e, quindi, dei benefici «normativi e contributivi» in forza di una causa ostativa al suo rilascio, opera necessariamente a far data dalla scadenza dei 120 giorni di un eventuale documento unico rilasciato in precedenza ovviamente per la stessa finalità (franchigia).
Controlli a campione nelle p.a. Infine, il ministero precisa che la disciplina delle cause ostative al rilascio del Durc si applica anche per i documenti acquisiti d'ufficio dalle pubbliche amministrazioni procedenti le quali, «ai fini dell'ammissione delle imprese di tutti i settori ad agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo finalizzate alla realizzazione di investimenti produttivi, (...) anche per il tramite di eventuali gestori pubblici o privati dell'intervento interessato sono tenute a verificare, in sede di concessione delle agevolazioni, la regolarità contributiva del beneficiario, acquisendo d'ufficio il Durc».
In tal caso, aggiunge il ministero, le predette amministrazioni dovrebbero attivare i controlli, eventualmente a campione, in merito alla presentazione alle competenti direzioni territoriali del lavoro (dtl) delle autocertificazioni relative alla non commissione degli illeciti ostativi al rilascio del Durc (articolo ItaliaOggi del 12.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Lavori specialistici a rischio contenzioso. Subito il decreto.
Risolvere con un decreto legge, da varare già nel prossimo Consiglio dei ministri, il nodo della qualificazione obbligatoria nelle categorie specialistiche, cancellata dal parere del Consiglio di Stato reso operativo dal Dpr 30.10.2013.

Al ministero delle Infrastrutture premono per una soluzione immediata, capace di sterilizzare da subito gli effetti del decreto andato in Gazzetta lo scorso 29 novembre. Il provvedimento autorizza le imprese qualificate a eseguire le attività di maggior valore all'interno di un'opera pubblica a realizzare direttamente tutti gli altri lavori  accessori anche in assenza di una specifica competenza. Una  sorta di impresa «factotum». ... (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Le province si trasformano in città metropolitane.
Le province uscite dalla porta, rientrano dalla finestra sotto la veste di città metropolitane.

L'aula della camera ha approvato ieri un emendamento al ddl Delrio proposto dalla commissione affari costituzionali, che fa proliferare di improvviso il numero delle città metropolitane. Si prevede, infatti, che nelle province che sulla base dell'ultimo censimento, hanno una popolazione residente superiore a un milione di abitanti, possono essere costituite ulteriori città metropolitane. Al momento le province interessate sarebbero Bergamo, Brescia e Salerno. Ma ce ne sono altre, la cui popolazione è vicina al limite del milione di abitanti, che potrebbero presto essere coinvolte, come Padova, Verona e Caserta. La condizione è che l'iniziativa sia assunta dal comune capoluogo della provincia e da altri comuni che complessivamente rappresentino almeno 500 mila abitanti della provincia medesima. Dette città metropolitane subentrano alle province esistenti.
Altra disposizione, non ancora approvata ma in dirittura, è quella per cui saranno dei segretari comunali e dei direttori generali delle province assorbite dalle città metropolitane le prime teste che salteranno. La commissione affari costituzionali ha presentato un altro emendamento che va in direzione fortemente contraria alle garanzie sul rapporto di lavoro del personale provinciale, sulle quali si era sperticato il ministro per gli affari regionali Graziano Delrio, appoggiandosi a un accordo con i sindacati, caratterizzato dalla particolarità di essere stato stipulato escludendo proprio l'Upi, cioè le province. L'emendamento all'articolo 10 dell'attuale testo del ddl Delrio prevede che «il segretario provinciale e il direttore della provincia, in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, cessano in ogni caso dai rispettivi incarichi alla data del 30.09.2014».
Per i segretari non si tratta necessariamente della perdita del posto di lavoro, ma si apre la possibilità di una loro messa a disposizione della struttura operante presso il Viminale e dell'apertura di un percorso, comunque complicato, di ricerca di nuovi incarichi. Le sedi vacanti negli enti locali non mancano, ma il rischio di un «passo indietro» per i segretari è evidente. Per quanto concerne i direttori generali, si tratta di incarichi necessariamente a tempo determinato, sicché la scadenza è in qualche modo connaturata alla tipologia stessa del lavoro svolto. Di certo, tuttavia, la legge interviene nel troncare quei rapporti che si sarebbero potuti prolungare anche fino al 2015. Ma anche per il restante personale provinciale non ci sono buone notizie. L'emendamento prevede che i dipendenti della provincia soppressa mantengono la posizione giuridica ed economica in godimento all'atto del trasferimento alla città metropolitana, con riferimento alle voci fisse e continuative, compresa l'anzianità di servizio maturata.
Non viene confermata, invece, la retribuzione variabile, legata al risultato, sebbene la contrattazione collettiva preveda la fissazione di specifici fondi a finanziarla. L'emendamento impone alle città metropolitane di riorganizzare i servizi entro sei mesi dal trasferimento del personale, modificando il trattamento accessorio «in relazione al nuovo assetto organizzativo».
La norma suscita non poche perplessità, in quanto la città metropolitana ha ben poco da riorganizzare, visto che subentra in tutto e per tutto nelle funzioni provinciali, sicché gli assetti organizzativi non possono cambiare di molto. Sembra chiaro il messaggio: acclarato, come ha spiegato la Corte dei conti, che in effetti dal riordino delle province non deriveranno risparmi, l'unico sistema per dimostrare di contenere la spesa è agire sul costo del personale. La revisione organizzativa è il presupposto per consentire alle città metropolitane di agire esattamente su questa leva, contando sul fatto che il sindaco metropolitano sarà il sindaco del capoluogo, un soggetto che potrebbe non avere particolari remore nel rivedere al ribasso i costi.
Inoltre, l'emendamento lancia anche un segnale rispetto al trattamento del personale provinciale che sarà trasferito dalle province «svuotate» verso altri enti, i quali potranno ancora a maggior ragione incidere negativamente sul trattamento economico dei dipendenti provinciali, i quali, dunque, verosimilmente saranno lo strumento per il contenimento di costi che, in altro modo, la riforma non riesce a garantire (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIMediazione, mai senza legale. Avvocato obbligatorio anche quando è facoltativa. I chiarimenti in una circolare del Cnf: procedimenti ammessi al gratuito patrocinio.
È sempre obbligatoria l'assistenza dell'avvocato in mediazione. Sia nei casi in cui il procedimento è condizione di procedibilità, sia quando la mediazione è facoltativa. E non ci sono ostacoli per l'ammissione dei procedimenti al patrocinio a spese dello stato.

Lo afferma il Consiglio nazionale forense, che ha inviato venerdì scorso agli organismi di mediazione istituiti presso gli ordini forensi, una circolare (n. 25-C-2013) con alcuni chiarimenti sulla procedura di mediazione alla luce delle nuove norme introdotte con il decreto del Fare (decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98).
Adottando quindi, sull'assistenza tecnica degli avvocati, un'interpretazione diversa rispetto al ministero della giustizia, che nella circolare diramata settimana scorsa (si veda ItaliaOggi del 3 dicembre scorso) afferma esattamente l'opposto. E cioè che «l'assistenza dell'avvocato è obbligatoria esclusivamente nelle ipotesi di mediazione obbligatoria (ivi compresa quella disposta dal giudice ex art. 5, comma 2), ma non anche nelle ipotesi di mediazione facoltativa». Ma entriamo nel dettaglio.
L'assistenza tecnica. Il Consiglio nazionale forense ha inviato ai 122 organismi di mediazione istituiti presso gli ordini forensi una circolare con una serie di faq sulla nuova mediazione obbligatoria. Affrontando, tra l'altro, il tema dell'assistenza tecnica dell'avvocato.
Sul punto, il Cnf afferma che «il tenore letterale dell'art. 5, comma 1-bis, dlgs 28/2010 introdotto dal dl 69/2013, conv. con modif. in l. 98/2013, stabilisce un obbligo di assistenza tecnica della parte in mediazione, dalla cui inosservanza deriverebbe l'impossibilità di considerare espletata la condizione di procedibilità di cui al comma 1-bis dell'art. 5 dlgs 28». Tale obbligo, sempre secondo il Cnf, «sembra riguardare ogni “modello” di mediazione, atteso che il testo normativo non fa distinzioni al riguardo».
In questo senso, il Consiglio nazionale richiama l'art. 8, 1° comma, modificato dall'intervento normativo del 2013, dove è disposto che: «al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento».
Viceversa, per il ministero della giustizia, l'assistenza dell'avvocato non è obbligatoria nelle ipotesi di mediazione facoltativa perché «il nuovo testo dell'art. 12, comma 1, espressamente configura l'assistenza legale delle parti in mediazione come meramente eventuale (“ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato_”)».
Gli altri chiarimenti. Le faq, inoltre, sciolgono i dubbi sul gratuito patrocinio, affermando che «nessun ostacolo dovrebbe sussistere nell'ammettere la possibilità di accedere ai benefici previsti dalla disciplina relativa al patrocinio a spese dello stato per i non abbienti, indipendentemente dal quanto disposto dal nuovo art. 17, comma 5-bis», ma in piena corrispondenza «alla direttiva Legal aid che ammette al beneficio anche le spese legali sostenute nel corso di procedure stragiudiziali». Chiarimenti, da parte del Cnf, anche in merito «alla individuazione dell'organismo di mediazione territorialmente competente e alle conseguenze di una eventuale incompetenza, che sarà comunque sempre sanata se le parti hanno raggiunto l'accordo conciliativo».
Molta attenzione è posta inoltre al primo incontro, ritenuto un passaggio importante da curare nei particolari. Così le faq suggeriscono agli organismi di conciliazione «di inviare alle parti una lettera di convocazione che chiarisca l'importanza della partecipazione personale delle parti e le conseguenze legislative nel caso di assenza senza giustificato motivo e quali siano le spese dovute (quelle di avvio e quelle vive documentate); specifichi che il primo incontro può essere svolto on-line ove il regolamento dell'Organismo lo preveda». Dal punto di vista operativo si segnala l'opportunità di stilare un verbale all'esito del primo incontro, sia che esso sia positivo che negativo. Nel secondo caso, infatti, avverte la faq, il verbale costituirà titolo per dimostrare l'assolvimento della condizione di procedibilità.
Le faq, infine, trattano della novità introdotta dal decreto del fare, relativa all'accordo conciliativo in cui le parti danno atto che si è verificata l'usucapione di un immobile. Esso può essere trascritto dopo l'autentica del notaio ma gli avvocati devono attestare che l'accordo non sia contrario all'ordine pubblico e norme imperative. Tale attestazione è necessaria per dotare l'accordo di efficacia esecutiva (articolo ItaliaOggi del 10.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mediazione si paga sempre. Spese di avvio dovute anche in caso di mancato accordo.
Gli effetti delle indicazioni del Mingiustizia sull'istituto rinnovato. Quota da dividere.
Costi calmierati per la mediazione obbligatoria e anche per quella disposta dal giudice in corso di causa. Ma sono sempre dovute le spese di avvio del procedimento, anche quando si conclude con un nulla di fatto al primo incontro; in questo caso sono abbuonati solo i compensi del mediatore.

Sono queste alcune delle risposte del ministero della giustizia, fornite con la circolare 27.11.2013 n. 168322 di prot., che illustra le novità in materia di mediazione apportate dal decreto legge 69/2013 ... (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo straordinario a 360°. Platea di beneficiari fino al terzo grado di parentela. Come cambia la disciplina dopo la sentenza della Consulta che amplia gli aventi diritto.
Più ampia la platea di beneficiari del congedo straordinario. Comprende infatti i parenti e gli affini entro il terzo grado conviventi della persona con grave disabilità.

La novità, stabilità dalla sentenza n. 203/2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del dlgs n. 151/2001 (T.u. maternità), è stata spiegata dall'Inps (circolare n. 159/2013) che, peraltro, ha avvitato il riesame delle richieste di permesso presentate e rigettate in virtù del precedente divieto entro il termine di prescrizione della relativa indennità (vale a dire entro un anno dal giorno dopo la fine del periodo indennizzabile).
Il congedo straordinario. Il congedo straordinario, disciplinato dal citato art. 42 del T.u. maternità, spetta per un massimo di due anni nell'arco della vita lavorativa per ciascun soggetto disabile da assistere. Quest'ultimo, in particolare, deve essere «soggetto con handicap in situazione di gravità», ossia deve trattarsi di un familiare portatore di handicap (è tale colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione) e l'handicap deve essere «grave» (l'handicap assume connotazione di gravità se la minorazione, singola o plurima, ha ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione).
Durante tutto il periodo di fruizione del congedo il lavoratore ha diritto all'indennità pari all'ultima retribuzione e il periodo è coperto da contribuzione figurativa. Indennità e contribuzione figurativa spettano però fino a un importo massimo di euro 46.836 per il congedo di durata annuale (valore per l'anno 2013). Il tetto in particolare rappresenta il limite massimo complessivo annuo dell'onere relativo al beneficio di tutto il congedo straordinario, ripartito cioè fra l'indennità economica e l'accredito figurativo. Nello specifico il tetto massimo annuo, pari a 46.835,93 euro, riguarda un importo massimo annuo di indennità di 35.215,00 euro e un importo massimo giornaliero dell'indennità di euro 96,48. La misura della retribuzione figurativa massima di riferimento è pari alla stessa indennità (cioè 35.215,00 euro) con valore settimanale massimo di euro 677,21 e una retribuzione figurativa massima giornaliera di 96,48 euro (Inps circolare n. 59/2013).
Soggetti aventi diritto. Il congedo spetta ai lavoratori dipendenti anche se a tempo determinato (tali lavoratori possono essere anche stranieri, apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale). Qui è però intervenuta la Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 42 nella parte in cui, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona disabile in situazione di gravità, non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo il parente o l'affine entro il terzo grado convivente della persona disabile grave. Alla luce della sentenza, l'Inps ha spiegato che il congedo è riconosciuto a seguenti familiari ovvero affini entro il terzo grado convivente del disabile grave, secondo il seguente ordine di priorità:
1. coniuge convivente del disabile;
2. padre o madre, anche adottivi o affidatari, del disabile, in caso di mancanza, decesso o in invalidità del coniuge convivente;
3. uno dei figli conviventi del disabile, nel caso in cui il coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
4. uno dei fratelli o sorelle conviventi del disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori e figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o invalidi;
5. un parente o affine di terzo grado convivente del disabile nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o invalidi.
Quando il congedo non spetta. Il congedo straordinario non spetta ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari; ai lavoratori a domicilio; ai lavoratori agricoli giornalieri; in caso di contratto di lavoro part-time verticale, durante le pause contrattuali; quando la persona handicappata da assistere sia ricoverata a tempo pieno (fino al 10.08.2011; dal giorno seguente, invece, per garantire un'assistenza reale, il congedo può essere fruito anche se la persona disabile è ricoverata a tempo pieno e qualora i sanitari della struttura ne attestino l'esigenza); nelle stesse giornate di fruizione dei permessi retribuiti ex articolo 33 della legge n. 104/1992.
I requisiti. Ai fini della sussistenza del diritto al congedo straordinario deve essere accertata la presenza dei seguenti requisiti: situazione di handicap grave; rapporto di lavoro in essere; mancanza di ricovero a tempo pieno.
La situazione di gravità dell'handicap (primo requisito) è accertata dalla competente Asl (ai sensi dell'art. 3, commi 1 e 3, della legge n. 104/1992), mediante le commissioni mediche. Qualora tale commissione non si pronunci entro 90 giorni dalla presentazione della domanda, gli accertamenti possono essere effettuati, in via provvisoria, da un medico specialista nella patologia denunciata, in servizio presso l'unità sanitaria locale da cui è assistito l'interessato. L'accertamento provvisorio produce effetto fino all'emissione dell'accertamento definitivo da parte della commissione.
Il congedo straordinario spetta a chi abbia un rapporto di lavoro in essere, con prestazione di attività lavorativa (secondo requisito). Durante la fruizione del congedo poi vige il divieto di svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Lo spirito e la finalità della legge escludono che il beneficio possa essere riconosciuto se la persona da assistere presti, a sua volta, attività lavorativa nel periodo di fruizione del congedo da parte degli aventi diritto. Ciò va inteso nel senso che il disabile può essere titolare di rapporto di lavoro, tuttavia non deve prestare concretamente l'attività lavorativa nel periodo di fruizione del congedo da parte degli aventi diritto.
Terzo requisito per il diritto al congedo è la circostanza che l'assistito non sia ricoverato a tempo pieno. Per ricovero a tempo pieno s'intende quello, per le intere 24 ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
L'Inps ha precisato che le fanno eccezione: l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate; il ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a breve termine; il ricovero a tempo pieno di un minore con disabilità in situazione di gravità per il quale risulti documentato dai sanitari della struttura ospedaliera il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare, ipotesi già prevista per i bambini fino a tre anni di età.
Infine, quarto requisito è della convivenza previsto come necessario qualora a richiedere il congedo è il coniuge, i fratelli/sorelle o il figlio del disabile grave. Per convivenza si deve fare riferimento, in via esclusiva, alla residenza, luogo in cui la persona ha la dimora abituale, non potendo ritenersi conciliabile con la predetta necessità la condizione di domicilio né la mera elezione di domicilio speciale (articolo ItaliaOggi Sette del 09.12.2013).

aggiornamento al 15.01.2014

EDILIZIA PRIVATA: Immobili. Le leggi e le circolari dell'Agenzia non prevedono limitazioni al residenziale
Bonus del 65% disponibile per tutti gli edifici esistenti. Lo sconto per il risparmio energetico anche per i capannoni.

Gli interventi finalizzati al risparmio energetico che attribuiscono, ai fini dell'imposta sul reddito, il diritto alla detrazione del 55% (65% per le spese sostenute dal 6 giugno scorso) non valgono solo per gli immobili residenziali.
Inoltre, almeno per quanto concerne le persone fisiche, non vi è alcun vincolo all'utilizzo diretto dell'unità immobiliare su cui sono effettuati i lavori.
Nonostante la guida «Le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico» disponibile sul sito dell'agenzia delle Entrate possa ingenerare più di un dubbio tra i contribuenti, su queste due conclusioni non si possono nutrire perplessità.
A pagina 6 della guida si legge che la «condizione indispensabile per fruire della detrazione è che gli interventi siano eseguiti su unità immobiliari e su edifici (o su parti di edifici) residenziali esistenti, di qualunque categoria catastale, anche se rurali, compresi quelli strumentali (per l'attività d'impresa o professionale)».
Ciò che stona è l'aggettivo residenziale, che non è presente in nessuno dei provvedimenti normativi che ha disciplinato l'agevolazione per risparmio energetico, né negli interventi di prassi dell'agenzia.
A esempio, secondo la circolare 36/E/2007 «l'agevolazione in esame, a differenza di quanto previsto per la detrazione relativa agli interventi di ristrutturazione edilizia, che è espressamente riservata ai soli edifici residenziali, interessa i fabbricati appartenenti a qualsiasi categoria catastale (anche rurale) compresi, quindi, quelli strumentali», i quali, ordinariamente, non sono affatto residenziali.
Da notare che la circolare distingue l'agevolazione del 55% da quella del 36%, all'epoca disciplinata dall'articolo 1 della legge 449/1997, che prevedeva interventi solo su «singole unità immobiliari residenziali». Attualmente, anche questa affermazione deve essere rivista, poiché l'articolo 16-bis del Tuir richiede che l'immobile abbia natura residenziale solo su alcuni e non su tutti gli interventi agevolabili.
A ogni modo si ritiene che il testo della guida contenga un mero refuso, che sarebbe opportuno eliminare per evitare dubbi nei contribuenti (e magari qualche rilievo non corretto da parte degli Uffici).
A pagina 7 della medesima guida si trova il seguente periodo: «In ogni caso, i benefici per la riqualificazione energetica degli immobili spettano solo a chi li utilizza. Per esempio, una società non può fruire della detrazione per le spese relative a immobili locati».
La prima parte della frase, limitando per ora l'attenzione ai soggetti non imprenditori, è sicuramente errata. Anche in questo caso la condizione citata non è presente in nessun punto della disciplina né è mai stata richiesta dall'Agenzia. Nessuno vieta al proprietario di detrarre l'Irpef sui lavori effettuati in un immobile da locare, anche nel caso limite in cui la locazione sia già in corso all'atto dell'esecuzione dei lavori. Il fatto che le spese agevolabili possano essere sostenute dagli inquilini o dai comodatari, non toglie certo al proprietario la facoltà di essere lui il soggetto che realizza (e si detrae) l'intervento.
Qualche problema in più sorge per gli immobili posseduti in regime d'impresa, in considerazione del fatto che l'agenzia delle Entrate, con le risoluzioni 303/E/2008 e 340/E/2008, ha negato l'agevolazione sia agli immobili posseduti (e locati) dalle immobiliari di locazione che agli «immobili merce» delle immobiliari di costruzione o di compravendita, sostenendo che, in entrambi i casi, non si tratterebbe di beni strumentali utilizzati direttamente dall'impresa.
Anche su questa impostazione si nutrono forti dubbi di legittimità (si veda la norma di comportamento dell'Associazione italiana dei dottori commercialisti 184/2012), rafforzati dal fatto che la giurisprudenza di merito sembra piuttosto contraria a imporre esclusivamente per via interpretativa simili limitazioni (si veda «Il Sole-24 Ore» del 05.10.2013 e le sentenze commissioni tributarie provinciali di Varese 21.06.2013, n. 94, Lecco 26.03.2013, n. 54 e Como 02.07.2012, n. 109).
Comunque, quando l'immobile è del privato, non imprenditore, non ci devono essere questioni di sorta (soprattutto dopo sette anni di applicazione della norma)
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGraduatorie a esaurimento. Obbligo (non facoltà) di pescare dagli elenchi vigenti. Così la circolare della Funzione pubblica sulle norme di contrasto al precariato.
È un obbligo e non una mera facoltà assumere dipendenti a tempo determinato, utilizzando le graduatorie vigenti riferite a bandi di concorso per assunzioni a tempo indeterminato.
Lo chiarisce la circolare 21.11.2013 n. 5/2013 del Dipartimento della funzione pubblica, in relazione al dl 101/2013, convertito in legge 125/2013 (si veda ItaliaOggi di ieri).
Per effetto della novellazione dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, tale disposizione prevede che «per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie categorie vigenti per i concorsi pubblici a tempo indeterminato
Lo scopo è chiaro: evitare il proliferare di contratti a termine con soggetti che potrebbero poi trovarsi «precarizzati» e formare una massa critica tale da indurre, in futuro, a nuove ondate di stabilizzazioni. Assumendo con contratti a tempo determinato vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato evita di creare i presupposti del precariato. Come spiega la circolare, il lavoratore chiamato a lavorare con contratto a termine potrà poi «essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di altre procedure», una volta verificate le condizioni per l'assunzione definitiva in ruolo.
Palazzo Vidoni spiega che la norma è «immediatamente operativa ed efficace sulle graduatorie già in essere, anche se la previsione non era inserita nel bando di concorso»: si tratta, dunque, di un'ipotesi di eterointegrazione dei bandi operante direttamente in forza di legge, che impone alle amministrazioni di non indire concorsi per rapporti di lavoro a tempo determinato, ovviamente per quelle categorie e profili indicati nelle graduatorie vigenti.
La norma, aggiunge la circolare, dispone nei confronti delle amministrazioni un vero e proprio obbligo: le amministrazioni «piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono attingere, nel rispetto, ovviamente, dell'ordine di posizione, alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
La configurazione come obbligo dell'utilizzo delle graduatorie come fonte delle assunzioni a tempo determinato, priva le amministrazioni di discrezionalità nella scelta.
La circolare non si spinge ad affermare che l'obbligo si estende anche all'utilizzo delle graduatorie di altre amministrazioni, consentito dall'ultimo periodo aggiunto all'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, da parte del dl 101/2013, ma risulta comunque evidente che laddove un'amministrazione non disponga di una graduatoria a tempo indeterminato alla quale attingere per assunzioni con contratto a termine, risulti largamente opportuno avvalersi della possibilità espressamente consentita dalla norma.
La circolare precisa che i vincitori dei concorsi a tempo indeterminato non hanno l'obbligo di accettare l'assunzione a termine propostagli dall'ente. In questo caso resta, infatti, comunque salvaguardata la loro posizione nella graduatoria, per la futura assunzione a tempo indeterminato.
Un punto non toccato dalla circolare riguarda l'eventuale applicabilità dell'obbligo di utilizzare le graduatorie vigenti anche per le assunzioni di dirigenti a contratto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 19, comma 6, del dlgs 165/2001 e dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 per gli enti locali. Non sembra che la previsione dell'articolo 36, comma 2, novellato, riguardi la fattispecie delle assunzioni dei dirigenti assunti a tempo determinato per due ragioni.
In primo luogo, l'intera disciplina del dl 101/2013 non è rivolta alle qualifiche dirigenziali, come chiarito espressamente dall'articolo 4, comma 6. In secondo luogo, lo scopo dell'utilizzo delle graduatorie a tempo indeterminato per assunzioni a termine, come visto sopra, è la prevenzione di fenomeni di precariato: ma, le assunzioni dei dirigenti a contratto non portano mai all'insorgere di contratti precari, come spiega la circolare stessa quando chiarisce che gli incarichi a contratto sono disciplinati da una normativa peculiare, tale da non creare nemmeno aspettative di stabilizzazione in capo agli interessati.
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La mobilità prevale sulle stabilizzazioni.
La mobilità per la salvaguardia dei lavoratori pubblici in disponibilità prevale sulle stabilizzazioni.

La circolare 5/2013 della Funzione Pubblica, che contiene indicazioni interpretative ed operative riguardanti il dl 101/2013, convertito in legge 125/2013, interviene su un punto estremamente delicato del sistema delle «stabilizzazioni».
Si afferma, al punto 3.5, che «prima di avviare le procedure di reclutamento, tanto ordinario, quanto speciale (sia a regime, sia transitorio) e prima delle assunzioni a tempo indeterminato, con esclusione delle procedure e delle assunzioni relative alle categorie protette, sono obbligatori gli adempimenti previsti dall'articolo 34-bis del dlgs n. 165 del 2001». Al contrario, «gli adempimenti previsti dall'articolo 30 dello stesso dlgs n. 165 del 2001 sono obbligatori solo prima di avviare le procedure di reclutamento ordinario».
Le procedure di reclutamento «speciale», sono le stabilizzazioni disciplinate dall'articolo 4, comma 6 e seguenti, del dl 101/2013, mentre quelle ordinarie trovano la propria regolamentazione nell'articolo 35, e, in particolare, nel comma 3-bis, del dlgs 165/2001.
Il messaggio della circolare è chiaro: l'opportunità concessa alle amministrazioni di percorrere strade privilegiate per assumere a tempo indeterminato lavoratori precari in possesso dei requisiti fissati dalla norma, non può comprimere le misure di salvaguardia dalla disoccupazione vigenti.
Le procedure di stabilizzazione consistono pur sempre in assunzioni a tempo indeterminato. Per quanto specificamente «finalizzate» a superare situazioni di precariato, occorre necessariamente far precedere i bandi delle prove selettive previste dall'articolo 4, comma 6, del dl 101, e dall'articolo 35, comma 3-bis, del dlgs 165/2001, dalla procedura di mobilità «obbligatoria», delineata dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, per effetto del quale le amministrazioni che intendono assumere debbono verificare con i centri per l'impiego delle province e con la Funzione pubblica se vi siano dipendenti inseriti nelle liste di disponibilità, aventi qualifica e mansione corrispondenti alle assunzioni da effettuare.
Palazzo Vidoni conferma che risulta prevalente la tutela dei lavoratori in esubero e a rischio di licenziamento, rispetto alle opportunità di inserimento in pianta stabile dei precari nei ruoli delle pubbliche amministrazioni.
Non è, invece, necessaria la mobilità «volontaria», regolata dall'articolo 30 del dlgs 165/2001, per le procedure di stabilizzazione «speciali». Del resto, la mobilità volontaria confligge con lo scopo dichiarato del dl 101/2013, che è quello di valorizzare le professionalità acquisite dai lavoratori assunti impropriamente con contratti a tempo determinato, per regolarizzare la loro posizione: se si facessero precedere le procedure di stabilizzazione dalla mobilità volontaria, si vanificherebbe totalmente l'intento di stabilizzare il precariato (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

ENTI LOCALIProventi autovelox, enti nel caos. Comuni in difficoltà nella ripartizione delle multe. In assenza del decreto attuativo le amministrazioni non sanno come procedere.
Siamo quasi a fine anno ma gli enti locali non sanno ancora come dovranno ripartire i proventi incassati grazie all'utilizzo dei sistemi autovelox. E in assenza del necessario decreto ministeriale saranno guai grossi a primavera anche per rendicontare al ministero come sono stati spesi i soldi delle multe.
Sono queste le due emergenze formali per la polizia locale che derivano dalla totale assenza di indicazioni in materia. La questione nasce dalla legge n. 120 del 29.07.2010 che ha riscritto l'art. 142 cds prevedendo che per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate mediante l'impiego di autovelox i relativi proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada restando comunque escluse le strade in concessione.
Le somme derivanti dall'attribuzione delle quote dei proventi ripartiti devono essere destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e al potenziamento delle attività di controllo e accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, comprese le spese relative al personale.
Le nuove disposizioni, a parere dell'Anci, sono divenute operative il 01.01.2013 in seguito alla conversione in legge, con modifiche, del dl n. 16 del 02.03.2012. L'art. 142, comma 12-quater del codice impone agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma entro il 31 maggio di ogni anno una relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, e gli interventi realizzati a valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento.
Se la relazione non viene inviata oppure i proventi sono utilizzati in modo difforme da quanto imposto, la percentuale dei proventi spettanti è ridotta, con contestuale responsabilità disciplinare e per danno erariale. Ma in assenza del tanto atteso decreto ministeriale attuativo, si naviga a vista e si procede con grande approssimazione. Utili riferimenti in tal senso possono ricavarsi dalla bozza non ufficiale del decreto ministeriale, il cui testo era stato anticipato in via informale l'anno scorso.
Questa bozza prevede che la relazione relativa al periodo intercorrente tra il 1° gennaio e il 31 dicembre dell'anno precedente va suddivisa su tre sezioni, indicando le informazioni generali, i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie di propria spettanza di cui all'art. 208, comma 1, e all'art. 142, comma 12-bis, del codice della strada e le informazioni relative alla destinazione dei proventi stessi.
La stessa bozza di dm prevede che sia tenuta una contabilità separata fra i proventi in generale e quelli derivanti da accertamenti delle violazioni dei limiti massimi di velocità. In particolare, occorre che risulti la distinzione a seconda che i proventi siano di intera spettanza dell'ente locale, oppure siano soggetti a ripartizione al 50% con l'ente proprietario della strada, oppure derivino dagli accertamenti eseguiti da organi accertatori di altri enti. Ma le problematiche più rilevanti sembrano porsi per la ripartizione che deve essere fatta fra l'ente da cui dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
L'art. 142, comma 12-bis del codice dispone che la suddivisione di quanto incassato con autovelox e telelaser non si applica alle strade in concessione; sul punto, il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con un parere dell'08.05.2013, ha chiarito che l'esclusione riguarda in particolare le strade statali a eccezione di quelle relative alle regioni a statuto speciale e alle province autonome. Tecnicamente, gli enti locali potrebbero decidere di concordare autonomamente con gli altri enti le modalità di versamento dei proventi oggetto della suddivisione, mediante accordi o convenzioni.
Ma su questo aspetto, l'attesa che venga emanato il decreto con le norme di dettaglio è tanto più forte in considerazione delle rilevanti questioni di natura contabile (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

EDILIZIA PRIVATANuove regole sul conto termico. Cambiano procedure e modulistica per gli enti locali. Il Gse ha aggiornato i requisiti per gli incentivi alla produzione di energia rinnovabile.
A pochi mesi dall'apertura dell'incentivo del conto termico, introdotto per permettere agli enti locali di avere un sostegno per gli interventi di riqualificazione energetica, il Gse ritocca procedure e modulistica. Sono state infatti aggiornate il 4 dicembre scorso le «regole applicative del dm 28.12.2012» afferenti all'incentivazione della produzione di energia termica da fonti rinnovabili e degli interventi di piccole dimensioni.
Gli enti locali interessati ad accedere al conto termico devono quindi prendere nuovamente visione delle regole applicative e adeguare la modulistica se non già inoltrata. Il conto termico finanzia interventi di incremento dell'efficienza energetica in edifici esistenti, parti degli stessi o unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, dotati di impianto di climatizzazione. Gli interventi per i quali è previsto un contributo sono l'isolamento termico di superfici opache delimitanti il volume climatizzato e la sostituzione di chiusure trasparenti comprensive di infissi delimitanti il volume climatizzato.
Sono, anche, finanziabili la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti, con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti generatori di calore a condensazione, nonché l'installazione di sistemi di schermatura e/o ombreggiamento di chiusure trasparenti con esposizione al sole, fissi o mobili, non trasportabili. Gli enti locali possono usufruire del conto termico anche per interventi di piccole dimensioni di produzione di energia termica da fonti rinnovabili e di sistemi ad alta efficienza. Il contributo viene concesso a fronte di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti di climatizzazione invernale utilizzanti pompe di calore elettriche o a gas, anche geotermiche.
È ammissibile la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale o di riscaldamento delle serre esistenti, con impianti di climatizzazione invernale dotati di generatore di calore alimentato da biomassa. L'incentivo spetta anche per l'installazione di collettori solari termici. Gli enti locali possono ottenere un contributo a fondo perduto erogato tramite bonifico in due o in cinque anni, variabile in base alla tipologia di investimento. In caso di incentivo fino a 600 euro l'erogazione è a saldo in un'unica rata. L'entità dell'incentivo è variabile in base al progetto (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

ENTI LOCALINon si paga l'Iva sui contributi erogati dalla p.a..
Con la recente circolare ministeriale n. 34/E del 21 novembre scorso, l'Agenzia delle entrate ha voluto fare chiarezza sull'imponibilità ai fini dell'imposta sul valore aggiunto delle somme erogate, a titolo di contributo, dalla pubblica amministrazione.
Così l'Agenzia ha ribadito che in particolare, dal punto di vista del trattamento tributario ai fini dell'imposta sul valore aggiunto, le erogazioni qualificabili come contributi, in quanto mere movimentazioni di denaro, saranno escluse dall'imposta, mentre quelle configurabili come corrispettivi per prestazioni di servizi o cessioni di beni rilevanti saranno assoggettate ai fini dell'imposta in esame. In sostanza, rifacendosi ai concetti espressi più volte dalla Corte di giustizia europea, ha ritenuto che qualora il contributo segni la prestazione monetaria effettuata in conseguenza del controvalore di un servizio prestato alla controparte del rapporto giuridico, esso ricade nella fattispecie imponibile Iva, mentre diversamente non afferisce la sfera dell'imposta suddetta.
In sostanza, il presupposto oggettivo di applicazione dell'Iva può essere escluso, ai sensi della normativa comunitaria, solo qualora non si ravvisi alcuna correlazione tra l'attività finanziata e le elargizioni di denaro. Del resto l'Amministrazione finanziaria aveva più volte sottolineato nelle proprie circolari, che un contributo assume rilevanza ai fini Iva se erogato a fronte di un'obbligazione di dare, fare, non fare o permettere, ossia quando si è in presenza di un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive. In altri termini, il contributo assume natura onerosa e configura un'operazione rilevante agli effetti dell'Iva quando tra le parti intercorre un rapporto giuridico sinallagmatico, nel quale il contributo ricevuto dal beneficiario costituisce il compenso (cioè il corrispettivo) per il servizio effettuato o per il bene ceduto. La circolare nota pertanto che al fine di accertare se i contributi di cui trattasi costituiscano nella sostanza corrispettivi per prestazioni di servizi, ovvero si configurino come mere elargizioni di somme di denaro per il perseguimento di obiettivi di carattere generale, occorre fare riferimento al concreto assetto degli interessi delle parti.
La conclusione ai fini dell'imponibilità o meno del contributo, deve quindi passare per un'analisi puntuale del rapporto giuridico e degli atti intercorsi fra il soggetto pubblico e il soggetto privato.
Allo scopo di indicare delle «linee guida» sulla problematica, la circolare in commento passa in rassegna le varie ipotesi, fornendo una panoramica abbastanza ampia sui contributi in esame. Innanzitutto, ricorda la circolare n. 34/E, la qualificazione di una erogazione quale corrispettivo ovvero quale contributo deve essere individuata innanzi tutto in base a norme di legge, siano esse specifiche o generali, nonché a norme di rango comunitario.
Si distinguono i seguenti casi di contributi:
a) può affermarsi che l'amministrazione non operi all'interno di un rapporto contrattuale quando le erogazioni sono effettuate in esecuzione di norme che prevedono l'erogazione di benefici al verificarsi di presupposti predefiniti, come ad esempio nel caso degli aiuti di stato automatici, ovvero in favore di particolari categorie di soggetti (enti religiosi, associazioni ecc.);
b) è altresì agevole individuare la natura di contributo delle erogazioni nei casi in cui l'amministrazione agisca con riferimento all'art. 12 della legge 07/08/1990, n. 241, contenente la disciplina dei provvedimenti amministrativi attributivi di vantaggi economici.
Ciò avviene quando sia approvato un regolamento a contenuto generale in relazione alla concessione dei contributi oppure quando esista un bando per la presentazione di istanze per la concessione dei medesimi.
La forma del procedimento amministrativo richiamato dalla legge 241, garantisce il rispetto di regole di trasparenza e di imparzialità;
c) altre volte, il procedimento per la erogazione di somme risulta definito a livello comunitario ed attuato nell'ordinamento domestico attraverso bandi o delibere di organi pubblici (per es: il Cipe);
d) le somme erogate dai soci –ivi incluso, ovviamente, il socio avente soggettività di diritto pubblico– in base alle norme del codice civile, a titolo di apporti di capitale, esposti in bilancio all'interno del patrimonio netto, non possono essere considerate corrispettivi di prestazioni di servizi in quanto si inseriscono nell'ambito del rapporto associativo e pertanto non appaiono collegate ad alcuna controprestazione da parte del beneficiario (apporti di capitale e coperture di perdite). Sono invece contributi inquadrabili come corrispettivi (e dunque imponibili Iva), quando la p.a., effettui erogazioni conseguenti alla stipula di contratti in base al codice dei contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 06.12.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, concorsi al bando. La p.a. deve attingere alle graduatorie preesistenti. Circolare della Funzione pubblica dà le prime istruzioni sul dl antiprecariato.
Utilizzo delle graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato anche per fare assunzioni a tempo determinato. Le assunzioni delle categorie protette, nel limite della quota d'obbligo, non sono da computare nel budget assunzionale. Le province possono prorogare fino al 31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo determinato per assicurare i servizi.

Sono alcune delle indicazioni contenute nella corposa circolare 21.11.2013 n. 5/2013 della Funzione pubblica diffusa ieri e avente a oggetto «Indirizzi volti a favorire il superamento del precariato. Reclutamento speciale per il personale in possesso dei requisiti normativi. Proroghe dei contratti. Articolo 4 del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni» e articolo 35 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165».
La circolare firmata dal ministro Gianpiero D'Alia punta a dettare indirizzi applicativi univoci per un'applicazione uniforme del decreto legge in materia di superamento del fenomeno del precariato, rimandando a documenti di prassi successivi l'analisi di dettaglio delle singole novità introdotte dal dl.
Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo determinato, ferme restando le esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono dunque attingere alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. In mancanza, possono attingere a graduatorie di altre amministrazioni mediante accordo, purché riguardino concorsi banditi per la copertura di posti inerenti allo stesso profilo e categoria professionale del soggetto da assumere. Le graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore dei vincitori, escluso dunque lo scorrimento per gli idonei.
Il decreto legge interviene, poi, prevedendo procedure di reclutamento speciale transitorie volte al superamento del fenomeno del precariato e alla riduzione dei contratti a tempo determinato. Esse sono consentite dal 01.09.2013 al 31.12.2016, e vi si può ricorrere utilizzando una misura non superiore al 50% delle risorse finanziarie disponibili, a normativa vigente, per assunzioni a tempo indeterminato. Le amministrazioni che hanno le condizioni per operare reclutamento speciale ma non lo avviano non possono prorogare i rapporti di lavoro del personale a tempo determinato. L'utilizzo delle graduatorie relative ai passaggi di area banditi anteriormente al 01.01.2010, in applicazione della previgente disciplina normativa, è consentito al solo fine di assumere i candidati vincitori e non anche gli idonei della procedura selettiva. Si sottolinea l'esclusione delle graduatorie relative a concorsi non pubblici.
Le assunzioni delle categorie protette, nel limite della quota d'obbligo, non sono da computare nel budget assunzionale e vanno garantite sia in presenza di posti vacanti, sia in caso di soprannumerarietà.
L'avvio del reclutamento speciale, come del resto l'avvio del reclutamento ordinario, è subordinato tra l'altro alla disponibilità di posti in dotazione organica, all'effettiva capacità assunzionale delle amministrazioni secondo il relativo regime, tenuto anche conto dei vincoli di spesa e delle situazioni di bilancio e all'effettivo fabbisogno. In assenza, scatta un impedimento. È peraltro senz'altro esclusa, sottolinea la circolare, la configurabilità di un diritto soggettivo, in capo agli eventuali interessati, all'avvio del reclutamento speciale.
In merito alle categorie di personale interessate al reclutamento, ordinario e speciale, il documento di prassi rimarca l'esclusione del comparto scuola e di quello delle istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale per i quali trova applicazione la disciplina specifica di settore.
Poiché il ricorso alle procedure speciali di reclutamento non può prescindere dall'adeguato accesso dall'esterno, le amministrazioni non possono destinare più del 50% del loro budget assunzionale per il reclutamento speciale. Prima delle procedure di reclutamento, con esclusione delle procedure e delle assunzioni relative alle categorie protette, bisogna comunque avviare le procedure di mobilità.
Per meglio realizzare le finalità di superamento del precariato e di riduzione dei contratti di lavoro a tempo determinato, nel reclutamento speciale sono di norma adottati bandi per assunzioni a tempo indeterminato con contratti di lavoro a tempo parziale. I bandi dovranno indicare la percentuale di prestazione lavorativa prevista per l'assunzione a tempo indeterminato rispettando, comunque, il valore minimo di part-time previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto.
E sempre a proposito del reclutamento speciale, la circolare specifica che esso non si applica al personale dirigenziale assunto con rapporto di lavoro a tempo determinato in virtù di disposizioni speciali che tengono conto della specifica ed elevata professionalità di tali soggetti e di un contingente limitato di posti. Inoltre, non si può considerare utile, ai fini della maturazione del requisito richiesto per partecipare alle procedure di reclutamento speciale transitorie, l'anzianità maturata con contratti di lavoro a tempo determinato negli uffici di diretta collaborazione. E non possono essere considerati, ai fini del reclutamento, i rapporti di lavoro relativi al personale proveniente dalla gestione di appalti o di processi di esternalizzazione della p.a.
Tra le altre prescrizioni illustrate, quella che impone la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative alle procedure avviate, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali.
Infine gli enti locali, relativamente ai quali è di interesse il chiarimento secondo cui le province possono prorogare fino al 31.12.2014 i contratti di lavoro a tempo determinato per le strette necessità connesse alle esigenze di continuità dei servizi e nel rispetto dei vincoli finanziari, del patto di stabilità interno e della normativa di contenimento della spesa complessiva di personale (articolo ItaliaOggi del 05.12.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Protocollo informatico adeguato alla Pec.
Protocollo informatico adeguato alla posta certificata. Grazie a una modifica al dpcm 31.10.2000 per tenere conto del nuovo contesto normativo, che prevede la trasmissione dei documenti non solo mediante l'utilizzo della posta elettronica, ma appunto anche attraverso la Pec o in cooperazione applicativa basata sul Sistema pubblico di connettività e sul Sistema pubblico di cooperazione.

Il ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Giampiero D'Alia ha firmato ieri due decreti adottati in attuazione di alcune disposizioni del Codice dell'amministrazione digitale, in materia di protocollazione e conservazione dei documenti informatici.
I due decreti, spiega una nota, da tempo attesi dagli operatori, forniscono un supporto alla digitalizzazione dell'amministrazione pubblica che, pur adottando da tempo gli strumenti informatici, non ha ancora adeguato i suoi processi a modelli in grado di sfruttare in pieno le potenzialità dei nuovi mezzi.
«Gli schemi innovano e rendono più ampio il quadro delle regole tecniche vigenti in materia, aggiornando quelle sul protocollo informatico e la conservazione dei documenti elettronici, la cui introduzione risale, rispettivamente, all'ottobre del 2000 e al febbraio 2004», si legge nella nota.
Apportando modifiche alla deliberazione Cnipa n. 11/2004 è stato inoltre introdotto il concetto di «sistema di conservazione», che assicura la conservazione a norma dei documenti elettronici e la disponibilità dei fascicoli informatici, stabilendo le regole, le procedure, le tecnologie e i modelli organizzativi da adottare per la gestione di questi processi (articolo ItaliaOggi del 04.12.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAScarti da galera. Bruciare i rifiuti ora è un reato. Il Cdm vara il decreto legge per la Terra dei fuochi.
Fotografia e mappatura con conseguente blocco della produzione agroalimentare sui terreni campani inquinati e definizione, accanto a quelli che possono essere destinati esclusivamente a colture diverse, dei fondi da destinare solo a produzioni agroalimentari determinate. Introduzione del reato di combustione illecita dei rifiuti, con pesanti sanzioni penali a carico dei colpevoli di roghi di rifiuti con danni all'ambiente e alla salute umana e confisca del veicolo utilizzato per il trasporto.
Obbligo informativo da parte dell'autorità giudiziaria nell'ambito delle indagini verso i ministeri competenti a adottare i provvedimenti ritenuti opportuni e necessari per la tutela dell'ambiente, della salute e della qualità della produzione agroalimentare. Costituzione di un comitato interministeriale prima e di una commissione poi avente il compito di individuare e potenziare azioni e interventi di monitoraggio e tutela nella «Terra dei fuochi».

Sono le disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e delle produzioni agroalimentari approvate, ieri dal Consiglio dei ministri, nel decreto legge «Terra dei fuochi» (si veda ItaliaOggi di ieri).
Per l'attuazione degli interventi disciplinati nel dl sono previsti 100.000 euro per il 2013 e 2.900.000 euro per il 2014; fondi reperiti dal programma operativo regionale Campania 2007/13, dal piano di azione e coesione e all'interno di misure da adottare nella programmazione dei fondi Ue.
Entro 30 giorni dall'entrata in vigore del decreto, Mipaaf e ministero dell'ambiente definiranno, d'intesa col presidente della regione Campania, le priorità di mappatura, tramite indagini tecniche e strumenti di telerilevamento, delle aree destinate all'agricoltura, interessate dagli effetti contaminanti di sversamenti e smaltimenti abusivi, anche mediante combustione.
I risultati delle indagini e i possibili interventi di bonifica sui terreni prioritari, dovranno essere presentati entro 90 giorni. Nei successivi 30 saranno indicati, con decreto i terreni che non possono essere destinati alla produzione agroalimentare ma solo a colture diverse e i terreni destinati a colture speciali.
Le pene previste per il nuovo reato di combustione illecita di rifiuti (art. 256-bis dlgs 152/2006):
• Reclusione da 2 a 5 anni per chi appicca il fuoco a rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato in aree non autorizzate, salvo che il fatto costituisca più grave reato.
• Reclusione da 3 a 6 anni se viene appiccato il fuoco a rifiuti pericolosi.
• Stesse pene per chi abbandona o deposita rifiuti in funzione del successivo abbruciamento.
• Aumento di un terzo della pena se i delitti sono commessi nell'ambito di attività di impresa o attività organizzata.
• Pena aumentata se la combustione illecita di rifiuti avviene in territori che al momento della condotta e nei 5 anni precedenti siano o siano stati interessati da dichiarazioni di stato di emergenza rifiuti.
• Confisca del mezzo di trasporto utilizzato per la commissione del reato, salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato che provi la buona fede e l'utilizzo a sua insaputa del bene.
• Confisca dell'area su cui è commesso il reato a seguito di sentenza di condanna se di proprietà dell'autore o del compartecipe del reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica e ripristino dello stato dei luoghi.
• Se la combustione riguarda rifiuti vegetali provenienti da aree verdi si applicano le sanzioni dell'art. 255 dlgs 152/2006 (articolo ItaliaOggi del 04.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Più poteri alle grandi imprese. Strada aperta ad aziende "factotum" anche per lavori specializzati.
Varato il Dpr che accoglie il parere del Consiglio di Stato  - Specialisti e Anie in rivolta.

Cantieri in fibrillazione dopo la pubblicazione del Dpr che di fatto permette alle imprese generali di eseguire le lavorazioni specialistiche, anche in assenza di qualificazione. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIMini-enti, scatta l'ora della verità.
Sta per scattare l'ora della verità sulle gestioni associate dei comuni. Oltre all'attuale legge elettorale (il cosiddetto Porcellum), oggi la Corte costituzionale si pronuncerà sui ricorsi delle regioni contro le norme che hanno imposto il modello dell'unione per l'esercizio delle funzioni fondamentali a tutti i comuni fino a 1.000 abitanti.

Si tratta dell'art. 16 del dl 138/2011 contro cui si sono levate ben dieci regioni (Toscana, Lazio, Puglia, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia e Sardegna), mentre altri cinque ricorsi (presentati da Sardegna, Puglia, Lazio, Veneto e Campania) hanno preso di mira l'art. 19 della spending review di Mario Monti (dl 95/2012) che ha riscritto l'art. 14 del dl 78/2010 fissando la data del 01.01.2014 quale dead-line per l'esercizio in forma associata di nove funzioni fondamentali su dieci (tramite unione o convenzione). Nel frattempo, un emendamento alla legge di stabilità, patrocinato dall'Anpci (Associazione nazionale piccoli comuni) e presentato dai senatori Pd Patrizia Manassero e Stefano Vaccari ha rinviato l'appuntamento al 1° luglio, mentre nel ddl Delrio (cosiddetto svuota province) è spuntata una proposta che disegna una marcia di avvicinamento graduale all'associazionismo con un primo pacchetto di funzioni da mettere insieme entro fine giugno e altre sei entro la fine del 2014.
Le speranze dei mini-enti di vedere le norme sull'associazionismo obbligatorio spazzate via dalla Corte costituzionale non sono poche. In materia c'è infatti un precedente importante, quello sulle comunità montane salvate dall'abrogazione nel 2009 in quanto considerate alla stregua di enti «sub-regionali» e quindi rientranti nella competenza residuale delle regioni.
Un intervento statale, sostengono i ricorrenti, sarebbe dunque illegittimo perché, come affermato dalla Consulta, la competenza esclusiva statale in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali va riferita solo agli enti tassativamente elencati nell'art. 114 Cost. (comuni, province, regioni e città metropolitane) e non a enti diversi come le unioni (articolo ItaliaOggi del 03.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Rischi di contenzioso sugli appalti pubblici.
Appalti di lavori pubblici a rischio caos e contenzioso dopo l'annullamento delle norme del regolamento del Codice dei contratti pubblici sulla qualificazione delle imprese generali, oggi libere dai vincoli sul subappalto e sui raggruppamenti obbligatori con gli specialisti; a breve è atteso un decreto con nuove regole sulla qualificazione.

È questo l'effetto della pubblicazione del dpr 30 ottobre sulla gazzetta ufficiale n. 280 del 29.11.2013, che ha accolto il ricorso promosso dall'Agi (Associazione imprese generali), dopo che il Consiglio di Stato con parere n. 3014 del 26.06.2013 si era espresso per l'annullamento di alcune norme del dpr 207/2010.
Oggetto del ricorso erano le regole per qualificarsi a eseguire lavorazioni specialistiche che sono state annullate ed espunte dal regolamento del codice dei contratti pubblici (sembrerebbe con decorrenza 30 novembre visto che il dpr non dispone diversamente, cioè per una entrata in vigore differita di 15 giorni): l'articolo 109, comma 2 (per quanto attiene all'allegato A del dpr 207/2010) e l'articolo 107, comma 2. L'effetto dell'annullamento, semplificando questioni interpretative anche complesse, è che le imprese generali potranno eseguire le lavorazioni specialistiche a qualificazione obbligatoria anche se non possiedono l'attestato di qualificazione per tali lavorazioni.
Fino al 29 novembre, invece, avevano l'obbligo di subappaltare i lavori, oppure di associare imprese in possesso della qualificazione per le opere specialistiche che avrebbero svolto quelle determinate lavorazioni. È stata cancellata anche la norma del regolamento del codice (art. 85, comma 1) sulla utilizzabilità dei lavori subappaltati dall'impresa generale all'impresa specialistica, in percentuali diverse a seconda della tipologia di lavorazione (prevalente o scorporabile) e della qualificazione richiesta (obbligatoria o no).
Questa disposizione era stata dichiarata «irragionevole» dal Consiglio di stato, anche in relazione al suo meccanismo applicativo non lineare; adesso, determinandosi un sostanziale ritorno alle regole dell'abrogato dpr 34/2000, l'impresa potrà utilizzare senza limiti quanto subappaltato all'impresa specialistica (nella misura in cui riterrà di avvalersi del subappalto). I problemi, adesso, si spostano sulle stazioni appaltanti che dovranno tenere conto di questa situazione, senza però avere riferimenti certi e, quindi, con il rischio di determinare involontariamente un contenzioso.
Per evitare tutto ciò da tempo i tecnici del ministero delle infrastrutture stanno lavorando ad un nuovo dpr «ponte» che dia certezza alle amministrazioni e ottemperi alle indicazioni del Consiglio di stato. Trattandosi però di un intervento che ridefinisce implicitamente l'assetto del mercato, è evidente come la soluzione da individuare non sia così immediata (articolo ItaliaOggi del 03.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEntro gennaio. Negli uffici pubblici piani anti-corruzione.
Entro la fine di gennaio le pubbliche amministrazioni dovranno avere concluso il lavoro di redazione dei piani anticorruzione come richiesto dalla legge n. 190 del 20102.

Lo ha sottolineato il ministro della Pubblica amministrazione Gianpiero D'Alia intervenendo al convegno milanese su «Le strategie anticorruzione tra risposta pubblica ed esperienza privata» organizzato da Aodv (Associazione dei componenti degli organismi di vigilanza ex decreto legislativo 231/2001). Il ministro tuttavia ha tenuto anche a spiegare come ogni spinta al cambiamento non sia facile in un settore pubblico dove solo il 10% dei dipendenti ha meno di 35 anni.
Per D'Alia, inoltre, l'attivazione di un'agenda digitale costituisce l'80% dell'effettiva attuazione della legge 190: «si tratta di un percorso di medio periodo, fondamentale nella lotta alla corruzione perché ci permetterebbe tre passi in avanti importanti: controllare in tempo reale le amministrazioni, conoscere i bisogni delle comunità e, in generale, essere più rapidi e concreti». «Non c'è bisogno di nuove leggi o riforme –ha aggiunto il ministro– se ne sono fatte tantissime. Ciò che è mancato è l'attuazione, il riscontro concreto di ciò che si è fatto. Attualmente il nemico più grosso è costituito dalla cosiddetta opacità pubblica amministrativà».
Il pubblico ministero, sostituto alla Procura di Milano, Roberto Pellicano, ha, a sua volta, messo nel mirino alcuni aspetti critici della distinzione tra corruzione pubblica e privata, con un'attenzione particolare per il ruolo delle banche, imprese la cui attività ha tali ricadute su cittadini e imprese da rendere auspicabili regole di trasparenza ancora più stringenti delle attuali. Per Pellicano ancora, un filo rosso con il decreto 231 va trovato nelle necessità di tutelare il mercato dall'inquinamento di pratiche corruttive ancora troppo diffuse
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.12.2013).

aggiornamento al 02.01.2014

EDILIZIA PRIVATACambio di sagoma senza «Scia». Se la ricostruzione modifica la facciata serve il permesso di costruire o la «Dia».
Ristrutturazioni. La semplificazione voluta dal decreto «del fare» contrasta con l'obbligo di rispettare i prospetti dell'edificio
Anche dopo gli interventi di semplificazione del legislatore, la ristrutturazione senza rispetto della sagoma resta un intervento edilizio ancora incerto, almeno sotto il profilo delle autorizzazioni necessarie.
Il decreto del fare (Dl 69/2013), infatti, ha introdotto rilevanti modifiche in relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia, con demolizione e ricostruzione senza rispetto della sagoma.
Innanzitutto il decreto ha rivisto la stessa definizione generale di ristrutturazione edilizia, contenuta all'articolo 3 del Testo unico in materia edilizia (Dpr 380/2001), eliminando il riferimento all'identità di sagoma, con l'effetto che, oggi, gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione dei fabbricati (non vincolati ai sensi del Dlgs 42/2004), con la stessa volumetria di quello preesistente, seppure con sagoma differente, costituiscono a tutti gli effetti «ristrutturazione edilizia» e non più nuova costruzione.
Il decreto ha poi introdotto ulteriori rilevanti modifiche. Il legislatore ha infatti modificato anche l'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico, cioè la norma che individua gli interventi di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, ossia quelle ristrutturazioni attuabili previo rilascio del permesso di costruire (ovvero mediante Dia alternativa) e non mediante semplice Scia (segnalazione certificata di inizio attività). Anche qui il decreto ha eliminato –in relazione agli edifici non vincolati– il riferimento alla sagoma, prima contenuto nella disposizione.
La correzione sembra, quindi, essere stata volta a consentire l'assoggettamento a semplice Scia anche di quelle ristrutturazioni che prevedano alterazioni della sagoma dell'edificio. Ma il legislatore potrebbe aver mancato l'obiettivo.
Le difficoltà
La nuova nozione di ristrutturazione edilizia pesante, infatti, continua a richiamare i prospetti dell'edificio e, pertanto, un parametro tecnico che varia, o quantomeno può variare, al variare della sagoma.
Ad oggi, costituiscono ristrutturazione edilizia pesante, soggetta a permesso di costruire o, in alternativa a Dia, quegli interventi di ristrutturazione che portino a «un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso».
Ebbene, poiché la giurisprudenza ha chiarito che si ha ristrutturazione edilizia "pesante" tutte le volte in cui venga alterato anche solamente uno dei parametri elencati nella norma (aumento di unità immobiliari, modifiche del volume o modifiche di prospetti o superfici; si veda Cassazione penale, Sezione terza, sentenza 01.03.2007, n. 8669), è corretto ritenere che una ristrutturazione che porti a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, con modifica della sagoma e –al tempo stesso– con modifica dei prospetti (pur senza aumento di unità immobiliari, modifiche del volume o delle superfici) continui a costituire una ristrutturazione edilizia "pesante", soggetta a permesso di costruire o a Dia.
È chiaro che questa conclusione rappresenta una forte limitazione per la recente semplificazione, la cui sfera di applicazione viene notevolmente ridotta. Del resto, ipotizzare un intervento di ristrutturazione che implichi una modifica della sagoma, ma che al tempo stesso non comporti modifiche ai prospetti dell'edificio si rivela piuttosto arduo.
Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che la sagoma di un edificio è la «conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti» (Tar Lombardia-Milano, sezione II, sentenza n. 1441/2012).
Per prospetti (o alzati) si intendono, invece, gli sviluppi in verticale di un edificio e, dunque, le facciate di un fabbricato (Tar Lazio Roma, sentenza n. 8380/2009). Ebbene, è evidente che le soluzioni progettuali che consentano la modifica della sagoma di un edificio senza alterare le facciate del fabbricato sono piuttosto ridotte.
Per conseguire pienamente l'obiettivo di semplificazione legato alla modifica del decreto fare e, quindi, per completare il percorso di riforma intrapreso, potrebbe quindi essere opportuno che il legislatore metta nuovamente mano al Testo unico, stralciando il riferimento ai "prospetti", tuttora presente all'articolo 10.
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Titoli abilitativi strutturati su quattro livelli.
Sono numerosi gli interventi, le modifiche e le riscritture intervenute nella materia dei titoli abilitativi in edilizia dal 2010 a oggi.
Tra le modifiche al Testo unico (Dpr 380/2001) più rilevanti, occorre richiamare quelle introdotte dal Dl 40/2010, che ha ampliato le fattispecie di attività edilizia libera, distinguendo tra attività totalmente libere ed attività soggette a preventiva «Comunicazione di inizio lavori» (Cil, ma a Milano e in altri Comuni è definita Comunicazione di inizio attività libera, Cial). E ancora: le modifiche di cui al Dl 78/2010 che è intervenuto sul'articolo 19 della legge 241/1990 prevedendo la «Segnalazione certificata di inizio attività» (Scia) in luogo della Denuncia di inizio attività (Dia), in precedenza disciplinato dalla stessa norma.
Infine, le correzioni apportate con i decreti legge n. 70/2011 e n. 83/2012, con i quali, tra l'altro, è stato introdotto il silenzio assenso per il rilascio del permesso di costruire e, in generale, sono stati modificati i procedimenti volti al rilascio dei distinti titoli edilizi.
A seguito di queste riforme l'ambito di applicazione della Dia si è notevolmente ridotto in favore della Scia. Ma il modello procedimentale della Dia è ancora attuale. E infatti, come chiarito all'articolo 5, comma 2, lettera c) del Dl 70/2011, le disposizioni sulla Scia si applicano alle Dia in materia edilizia disciplinate dal Testo unico, ma con esclusione di tutti i casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno,dunque, delineato un sistema composto da quattro principali modelli abilitativi, ciascuno corrispondente a determinate categorie di interventi edilizi:
- l'attività soggetta a Cil, realizzabile immediatamente previa comunicazione all'amministrazione;
- l'attività soggetta a Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), anch'essa eseguibile contestualmente alla presentazione della prevista documentazione;
- l'attività soggetta a denuncia di inizio attività (Dia), realizzabile decorsi 30 giorni dalla presentazione del relativo modello;
- le opere subordinate a rilascio di permesso di costruire, espresso o ottenuto mediante silenzio-assenso.
Dopo queste riforme, il modello procedimentale della Dia risulta, dunque, ancora applicabile a una serie di importanti fattispecie. La denuncia potrà infatti essere utilizzata rispetto agli interventi di ristrutturazione edilizia "pesante", la cui definizione –contenuta all'articolo 10, comma 1, lettera c) del Testo unico– è stata recentemente modificata dal decreto "del fare" (si veda l'articolo a fianco), riguardo agli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive e, infine, in merito agli interventi di nuova costruzione, qualora questi siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.
Inoltre, rimangono soggetti a Dia gli interventi per i quali le Regioni abbiano indicato la possibilità di ricorso a questo modello abilitativo in alternativa o in sostituzione al permesso di costruire.
Le recenti riforme hanno, dunque, certamente semplificato e snellito le procedure per conseguire i titoli abilitativi. Ma nell'apprestare i progetti gli operatori devono comunque porre particolare attenzione alla classificazione delle opere alla luce delle disposizioni del Testo unico e alla identificazione del conseguente modello abilitativo edilizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2013).

LAVORI PUBBLICI: Lavori pubblici. Il sistema informatico Avcpass. Appalti, la verifica dei requisiti attende istruzioni.
Manca solo un mese all'operatività del sistema Avcpass per la verifica dei requisiti degli operatori economici partecipanti alle gare di appalto da parte delle amministrazioni pubbliche, ma emergono criticità che devono essere risolte e le stazioni appaltanti non dispongono di una versione dimostrativa per esercitarsi.

Il particolare percorso procedurale gestito in modo totalmente informatizzato è disciplinato dalla deliberazione dell'Avcp n. 111/2012, che fa riferimento all'articolo 6-bis del Codice dei contratti. Dal 01.01.2014 le amministrazioni aggiudicatrici potranno verificare i requisiti di ordine generale e di capacità solo mediante tale sistema, che consente l'accesso ai documenti depositati nella banca dati nazionale dei contratti pubblici.
L'impostazione dell'Avcpass desumibile dai tutorial e dai materiali formativi messi a disposizione dall'Autorità prefigura il suo utilizzo per la verifica in corso di gara sia dei requisiti di capacità (economico-finanziaria e tecnico-profesisonale), in base all'articolo 48 del Codice, sia di quelli di ordine generale, riferiti alle dichiarazioni sostitutive rese in ordine alle varie fattispecie previste dall'articolo 38, quindi secondo i criteri stabiliti per il riscontro della veridicità delle autocertificazioni.
Tuttavia i diagrammi di flusso proposti sembrano concentrare le verifiche sull'aggiudicatario e sul secondo classificato subito dopo la formazione della graduatoria di merito (dopo la valutazione delle offerte e l'eventuale verifica di quelle anomale), ma prima di pervenire all'aggiudicazione provvisoria, non sembrando utilizzabile per i controlli in sede di aggiudicazione definitiva e di stipulazione del contratto.
Un aspetto di ulteriore criticità si rileva in ordine alle ipotesi nelle quali la gara sia gestita da una centrale di committenza o da una stazione unica appaltante: in tal caso, infatti, la creazione della gara avviene da parte di un responsabile del procedimento (quello dell'amministrazione che approva il progetto e avvia la procedura) diverso da quello che dovrà gestire l'accesso all'Avcpass, con conseguente necessità di permettere a quest'ultimo la gestione del Cig per l'effettuazione delle varie operazioni nel sistema, in quanto deve registrarsi come soggetto tenuto alla verifica dei requisiti.
Il sistema presenta alcune criticità anche per gli operatori economici, i quali, comunque, dispongono nel sito dell'Autorità di una specifica versione dimostrativa.
Secondo la deliberazione n. 111/2012 le imprese che intendono concorrere a una gara devono inserire nel sistema solo alcune tipologie di documenti inerenti i requisiti di capacità economico-finanziaria (ad esempio le attestazioni bancarie) e di capacità tecnico-professionale (ad esempio i contratti e le fatture comprovanti i servizi o le forniture precedentemente svolti a favore di amministrazioni pubbliche), mentre i documenti inerenti i requisiti di ordine generale sono acquisiti dall'Avcpass mediante rapporto diretto con gli enti certificanti.
Tuttavia la simulazione dimostrativa evidenzia nella libreria (la repository dove l'operatore economico può inserire i file firmati digitalmente) e nella funzionalità di associazione dei documenti al «PassOe» numerose sezioni riferite al caricamento di documenti inerenti requisiti di ordine generale, che devono essere acquisiti d'ufficio dalla stazione appaltante, come il Durc relativo alla regolarità contributiva.
L'inserimento dei documenti relativi ai requisiti di ordine generale (collegati alle dichiarazioni sostitutive rese in sede di partecipazione alla gara) non è peraltro possibile per l'operatore economico, in quanto, in molti casi, si tratta di certificati, i quali, in base alle norme sulla decertificazione, non possono essere utilizzati nei rapporti con le amministrazioni pubbliche
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2013 -  tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: AVVOCATI/ Un parere del Cnf dopo due sentenze emanate dal Tribunale di Verona.
Parcelle vidimate dall'Ordine. Strada obbligata per l'emissione di decreti ingiuntivi. Il recupero del compenso dell'avvocato passa ancora dall'ordine forense di appartenenza.

Il Consiglio nazionale forense fa chiarezza in merito all'iter procedurale volto a recuperare onorari e spese impagati dei legali, ribadendo la sussistenza del potere di «opinamento» delle parcelle in capo agli Ordini forensi (parere del 23.10.2013 in risposta al quesito n. 330, Unione Triveneta, Rel. Cons. Perfetti).
La pronuncia del Cnf nasce da due recenti sentenze del Tribunale di Verona, secondo le quali l'art. 9 del cd. decreto legge n. 1/2012 (cd. «Cresci-Italia»), che ha mandato in soffitta le tariffe forensi, avrebbe tacitamente abrogato anche gli articoli 633, comma 1 n. 2 e 3, e 636 del Codice procedura civile, facendo così venire meno la necessità di rivolgersi al competente ordine professionale per il prescritto parere sul quantum richiesto.
Le conseguenze pratiche delle pronunce sono evidenti: per ottenere un decreto ingiuntivo i professionisti avrebbero dovuto allegare al ricorso il contratto sottoscritto dal cliente, con l'indicazione analitica del compenso pattuiti. Secondo questo orientamento, insomma, i legali, per avvalersi dello strumento più veloce e snello del procedimento monitorio, avrebbero dovuto fornire la prova scritta dell'accordo con il cliente, come previsto dal primo comma n. 1 dell'art. 633 cpc.
La mancanza del contratto sarebbe stata supplita dalla liquidazione del giudice, operata sulla scorta dei parametri stabiliti con decreto dal ministero della giustizia.
Divenuta superflua la vidimazione della parcella, per effetto delle pronunce in questione, il Coa scaligero ha invitato i propri iscritti ad astenersi dal richiedere pareri di congruità delle parcelle. Da qui il quesito che la presidenza dell'Unione Triveneta ha posto al Consiglio nazionale forense e il conseguente parere reso dagli esperti romani lo scorso 23 ottobre. Per il vertice istituzionale delle toghe, l'interpretazione che i giudici di merito veneti hanno dato alla norma non può essere condivisa. «La portata abrogativa della norma», chiarisce il Cnf, «riguarda le tariffe come criterio di determinazione del compenso, e dunque incide sui criteri attraverso cui è esercitato il potere di opinamento, e non investe la sua persistenza in capo al Consiglio dell'Ordine forense». Dunque, gli avvocati che intendono chiedere l'emissione di un decreto ingiuntivo devono continuare a munire le proprie parcelle dell'obbligatorio parere di conformità dei consigli dell'ordine.
Qualche problema in più sorge nel caso in cui il credito fatto valere del professionista sia contestato. In caso di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal legale, questi dovrà provare in giudizio, non solo il conferimento dell'incarico, ma anche l'attività effettivamente svolta. È quanto ha affermato la Suprema corte (Corte di cassazione, sentenza n. 2456831 del 31.10.2013), in merito al credito di un professionista la cui attività, limitatasi alla fase stragiudiziale, non era stata adeguatamente documentata e provata in giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 02.12.2013 - tratto da www.centrostudicni.it).